Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

NESSUN EDITORE VUOL PUBBLICARE I  MIEI LIBRI, COMPRESO AMAZON, LULU E STREETLIB

SOSTIENI UNA VOCE VERAMENTE LIBERA CHE DELLA CRONACA, IN CONTRADDITTORIO, FA STORIA

NOTA BENE PER IL DIRITTO D'AUTORE

 

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(pagine) GIANGRANDE LIBRI

WEB TV: TELE WEB ITALIA

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ANNO 2023

LA CULTURA

ED I MEDIA

SECONDA PARTE

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE


 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO


 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2023, consequenziale a quello del 2022. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.


 

IL GOVERNO


 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.


 

L’AMMINISTRAZIONE


 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.


 

L’ACCOGLIENZA


 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.


 

GLI STATISTI


 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.


 

I PARTITI


 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.


 

LA GIUSTIZIA


 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.


 

LA MAFIOSITA’


 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.


 

LA CULTURA ED I MEDIA


 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.


 

LO SPETTACOLO E LO SPORT


 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.


 

LA SOCIETA’


 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?


 

L’AMBIENTE


 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.


 

IL TERRITORIO


 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.


 

LE RELIGIONI


 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.


 

FEMMINE E LGBTI


 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
 


 

LA CULTURA ED I MEDIA

INDICE PRIMA PARTE


 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Covid: sembrava scienza, invece era un…calesse.

L’Umanità.

I Benefattori dell’Umanità.

Le Invenzioni.

La Matematica.

L’Intelligenza Artificiale.

La Digitalizzazione.

Il PC.

I Giochi elettronici.

I Robot.

I Chip.

La telefonia.

Le Mail.

I crimini sul web.

Al di là della Terra.

Gli Ufo.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Da Freud all’MKUltra.

I Geni.

I Neuroni.

La Forza della Mente.

Le Fobie.

L’Inconscio.

Le Coincidenze.

La Solitudine.

Il Blocco Psicologico.

La Malattia.

La Depressione.


 

INDICE SECONDA PARTE


 

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Scrittura.

La Meritocrazia.

Le Scuole al Sud.

Le Scuole Private.

Il Privatista.

Ignoranti e Disoccupati.

Ignoranti e Laureati.

Decenza e Decoro a Scuola.

L’aggiotaggio scolastico.

La Scuola Alternativa.

La scuola comunista.


 

INDICE TERZA PARTE


 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

L’onestà e l’onore.  

Il Galateo.

Il Destino.

La Tenacia.

La Fragilità.

Body positivity. Essere o apparire?

Il Progresso.

Le Generazioni.

I Baby Boomer.

Gioventù del cazzo.

Il Linguaggio.

I Bugiardi.

L’Ipocrisia.

I Social.

Influencer.

Le Classifiche.

L’Amicizia.

Il fastidio.

L’Invidia.

L’Odio.

Il Mostro.

INDICE QUARTA PARTE


 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Moda.

Le Auto.

I Fumetti.

I Giochi da Tavolo.

L’Architettura e l’Ingegneria.

Il Restauro.

Il Podcast.

L’artista.

La Poesia.

La Letteratura.

Il Teatro.

Le Autobiografie.

L’Ortografia.

Intrecci artistici.

La Fotografia.

Il Collezionismo.

I Francobolli.

La Pittura.

I Tatuaggi.

Le Caricature.

I Writer.

La Musica.

La Radio.

Le Scoperte.

Markalada, l'America prima di Colombo.

La Storia.

La P2 culturale.

Ladri di cultura.

I vandali dell'arte.

Il Kitsch.

Gli Intellettuali.

La sindrome di Stendhal.

Gli Snob.

I radical chic.

La Pubblicità.


 

INDICE QUINTA PARTE


 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Alberto Asor Rosa.

Alberto Moravia.

Aldo Nove.

Alessandro Manzoni.

Alessia Lanza.

Aleksandr Isaevic Solzhenicyn.

Andy Warhol.

Andrea Camilleri.

Andrea Pazienza.

Anna Premoli.

Annie Duchesne Ernaux.

Anselm Kiefer.

Antonio Delfini.

Antonio Riello.

Artemisia Gentileschi.

Benedetta Cappa.

Barbara Alberti.

Beethoven.

Banksy.

Camillo Langone.

Caravaggio.

Carlo Emilio Gadda.

Chiara Gamberale.

Cristina Campo.

Curzio Malaparte.

Dacia Maraini.

Dante Alighieri.

Dante Ferretti.

Dario Fo.

Dino Buzzati.

Domenico "Ico" Parisi.

Eduardo De Filippo.

Elena Ferrante.

Eleonora Duse.

Emanuel Carnevali.

Emmanuel Carrère.

Émile Zola.

Emilio Isgrò.

Ennio Morricone.

Enrico "Erri" De Luca.

Erin Doom.

Eugenio Montale.

Eve Babitz.

Ezra Pound.

Fabio Volo.

Federico Fellini.

Federico Palmaroli: Osho.

Friedrich Nietzsche.

Filippo Tommaso Marinetti.

Francesco Alberoni.

Francesco Piranesi jr.

Franco Cordelli.

Franco Ferrarotti.

Franz Kafka.

Fulvio Abbate.

Gabriele D'Annunzio.

Gaetano Bonoris.

Gaetano Salvemini.

George Orwell.

Georges Simenon.

Giacomo Puccini.

Giacomo Leopardi.

Giampiero Mughini.

Gianfranco Salis.

Gianni Vattimo.

Gianrico Carofiglio.

Gioachino Rossini.

Giordano Bruno Guerri. 

Giorgio Manganelli.

Giovanni Testori.

Giovanni Verga.

Giovannino Guareschi.

Giuseppe Prezzolini.

Giuseppe Verdi.

Hanif Kureishi.

Italo Calvino.

Jago sta per Jacopo Cardillo.

Jacques Maritain.

Jean Cocteau.

Jean-Jacques Rousseau.

John Ronald Reuel Tolkien.

Johann Wolfgang von Goethe.

J. K. Rowling.

Jorge Luis Borges.

Julius Evola.

Lara Cardella.

Laura Ingalls Wilder.

Lee Miller.

Leonardo Da Vinci.

Leonardo Sciascia.

Lina Sotis.

Luigi Illica.

Luigi Vanvitelli.

Luis Sepúlveda.

Louis-Ferdinand Céline.

Ludovica Ripa di Meana.


 

INDICE SESTA PARTE


 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Marcello Marchesi.

Marcello Veneziani.

Marina Cvetaeva.

Mario Vargas Llosa.

Mark Twain.

Martin Scorsese. 

Massimo Rao.

Matilde Serao.

Maurizio Cattelan.

Mauro Corona.

Michel Houellebecq.

Michela Murgia.

Michelangelo Buonarroti.

Michelangelo Pistoletto.

Michele Mirabella.

Michele Rech: Zerocalcare.

Milo Manara.

Oliviero Toscani.

Oriana Fallaci.

Pablo Neruda.

Pablo Picasso.

Paul Verlaine.

Pier Paolo Pasolini.

Pietrangelo Buttafuoco.

Pietro Cavallini.

Pietro Citati.

Primo Levi.

Robert Capa.

Roberto Ruffilli.

Roberto Saviano.

Salman Rushdie.

Sergio Leone.

Sergio Pautasso.

Sibilla Aleramo.

Stefania Auci.

Susan Sontag.

Suzanne Valadon.

Sveva Casati Modignani.

Tim Page.

Truman Capote.

Tullio Pericoli.

Umberto Eco.

Umberto Pizzi.

Wolfang Amadeus Mozart.

Vasco Pratolini.

Veronica Tomassini.

Virginia Woolf.

Vitaliano Trevisan.

Vittorio ed Elisabetta Sgarbi.


 

INDICE SETTIMA PARTE


 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

Siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. La Distrazione di Massa: Propaganda e realtà.

Controinformazione e contraddittorio.

Lo ha detto la Televisione…

L’Opinionismo.

L’Infocrazia.

Rai: Il pizzo e l’educatrice di Stato.

Mediaset: la manipolazione commerciale.

Sky Italia.

La 7.

Sportitalia.


 

INDICE OTTAVA PARTE


 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

Le fake news.

I Censori.

Il Diritto d’Autore e le furbizie di Amazon.

La Privacy.

L’Oblio.

Il Nefasto Politicamente Corretto.

Wikipedia, l’enciclopedia censoria.


 

INDICE NONA PARTE


 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

Se questi son giornalisti!

Gli Uffici Stampa.

Il Corriere della Sera.

Avanti!

Il Fatto Quotidiano.

La Gedi.

L’Espresso.

Il Domani.

Il Giornale.

Panorama.

La Verità.

L’Indipendente.

L’Unità.

Il Manifesto.

Il Riformista.

I più noti.

Alberto Dandolo.

Alberto Matano.

Alda D’Eusanio.

Aldo Grasso.

Alessandra De Stefano.

Alessandro Sallusti.

Amedeo Goria.

Andrea Scanzi.

Angela Buttiglione.

Angelo Guglielmi.

Annalisa Chirico.

Antonello Piroso.

Antonio Caprarica.

Antonio Di Bella.

Augusto Minzolini.

Attilio Bolzoni.

Barbara Costa.

Barbara Palombelli.

Bruno Vespa.

Carlo De Benedetti.

Carlo Rossella.

Carmen Lasorella.

Cesara Bonamici.

Claudio Sabelli Fioretti.

Clemente Mimun.

Concita De Gregorio.

Corrado Augias.

Corrado Formigli.

Cristina Parodi.

David Parenzo.

Donatella Raffai.

Enrico Mentana.

Enrico Varriale.

Enzo Magistà.

Fabio Fazio.

Federica Sciarelli.

Ferruccio Sansa.

Filippo Facci.

Flavia Perina.

Franca Leosini.

Francesca Barra.

Francesca Fagnani.

Francesco Borgonovo.

Francesco Repice.

Furio Focolari.

Gennaro Sangiuliano.

Gian Antonio Stella.

Gian Marco Chiocci.

Gianni Riotta.

Gigi Marzullo.

Giovanni Minoli.

Hoara Borselli.

Indro Montanelli.

Italo Cucci.

Ivan Zazzaroni.

Jas Gawronski.

Laura Tecce.

Lirio Abbate.

Lucia Annunziata.

Luisella Costamagna.

Malcom Pagani.

Manuela Moreno.

Marco Travaglio.

Mario Sechi.

Massimo Fini.

Massimo Giletti.

Massimo Gramellini.

Maurizio Mannoni.

Mia Ceran.

Michele Cucuzza.

Michele Santoro.

Milena Gabanelli.

Myrta Merlino.

Natalia Aspesi.

Nicola Porro.

Paola Ferrari.

Paolo Brosio.

Paolo Flores d'Arcais.

Riccardo Iacona.

Roberto D’Agostino.

Roberto Poletti.

Romana Liuzzo.

Rula Jebreal.

Salvo Sottile.

Selvaggia Lucarelli.

Serena Bortone.

Sigrido Ranucci.

Tancredi Palmeri.

Tiberio Timperi.

Tiziano Crudeli.

Tommaso Cerno.

Valentina Tomirotti.

Veronica Gentili.

Vincenzo Mollica.

Vittorio Feltri.
 


 

LA CULTURA ED I MEDIA

SECONDA PARTE


 

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Fonemi e Grafemi.

Alfabeto.

Nascita e Storia della Scrittura.

Il Corsivo e lo Stampatello.

La Dattilografia.

La Stenografia.

La stenotipia.

Tipo di carattere.

Fonemi e Grafemi.

Fonemi e Grafemi. Da tattoomuse.it. Qual è la differenza tra fonemi è grafemi? Nella scrittura i fonemi sono rappresentati da segni grafici detti grafemi o lettere. Il fonema è un suono elementare; serve per formare le parole e distinguerle una dall'altra. Il grafema è un'unità grafica minima; serve per scrivere le parole e distinguerle una dall'altra.

Che differenza c'è tra fonemi e grafemi?

I fonemi sono i singoli suoni che emettiamo con la bocca e che quindi sentiamo (il suono s, il suono t…), mentre i grafemi sono le lettere con cui scriviamo questa parola e che quindi vediamo (la lettera s, la lettera t…). Ricordiamoci quindi che dire “grafemi” e dire “lettere” è la stessa cosa.

Qual è la differenza tra fonemi è grafemi?

Nella scrittura i fonemi sono rappresentati da segni grafici detti grafemi o lettere. Il fonema è un suono elementare; serve per formare le parole e distinguerle una dall'altra. Il grafema è un'unità grafica minima; serve per scrivere le parole e distinguerle una dall'altra.

Quanti sono i fonemi ei grafemi?

Il sistema grafematico italiano è il sistema di relazioni che esistono fra i grafemi e i fonemi della lingua italiana. In italiano esistono infatti 30 fonemi, ma si usano solamente 21 grafemi per trascriverli.

Che cos'è il grafema esempio?

Con il termine grafema si indica il segno elementare e non ulteriormente suddivisibile che costituisce l'unità minima dei sistemi di scrittura: un grafema rappresenta un'unità linguistica (un fonema, una sillaba o un morfema). Generalmente i grafemi sono inclusi tra parentesi angolate ⟨ ⟩: ad es. il grafema ⟨b ⟩.

Che cosa si intende per fonemi?

di ϕωνέω «produrre un suono»] (pl. -i). – In linguistica, ogni elemento sonoro, o unità elementare, del linguaggio articolato, considerato sotto l'aspetto fisiologico (cioè della sua formazione per mezzo degli organi vocali) e acustico.

Quali sono i 7 fonemi?

Il sistema vocalico della lingua italiana standard comprende sette fonemi /a, ɛ, e, i, ɔ, o, u/. Questi sette fonemi vocalici si trovano in sillaba accentata, mentre in sillaba non accentata si riducono a cinque /a, e, i, o, u/ (in atonia, l'opposizione di apertura vocalica è neutralizzata nelle vocali medie).

Come si riconosce un fonema?

Per individuare i vari fonemi di una data lingua, si usa generalmente il criterio della ricerca di coppie minime, ossia di due parole che si differenziano per un solo fonema (come nell'esempio sopra tetto e detto). Per esempio, in italiano /p/ e /b/ sono due fonemi perché è presente la coppia minima 'pelle' - 'belle'.

Quali sono i grafemi italiani?

La trascrizione dell'italiano, tuttavia, è considerata piuttosto trasparente: 11 grafemi, infatti, hanno valore univoco (‹a› ‹b› ‹d› ‹f› ‹l› ‹m› ‹n› ‹p› ‹r› ‹t› ‹v›).

Quanti sono i fonemi?

Nella lingua italiana si hanno in tutto 30 fonemi (7 vocali + 2 semiconsonanti + 21 consonanti) se non contiamo le differenze di durata dei suoni consonantici.

Qual è la differenza tra fono è fonema?

Quindi, il fono si ha quando, pur cambiando pronuncia di una parola, il significato rimane lo stesso. Il fonema quando invece, cambiando il suono della parola, il significato cambia.

Come si scrivono i fonemi?

I fonemi si trascrivono entro barre oblique (trascrizione fonologica). contribuiscono a formare significati distinti; hanno, pertanto, una funzione distintiva. ES: /'cara/ e /'bara/. /c/ e /b/ sono due fonemi, in quanto modificano il significato della parola.

Come insegnare i fonemi ai bambini?

Insegnare l'alfabeto ai bambini è una cosa realmente divertente: basta introdurre i fonemi, aiutarci con dei disegni ed il gioco è fatto.

...

Ritagliamo un rettangolo, incolliamolo sul cartoncino e disegniamo una qualsiasi sagoma ci piaccia. ...

Sul cartoncino scriviamo sillabe di parole che incominciano con la stessa lettera.

Chi studia i fonemi?

La fonologia è la branca della linguistica che studia i sistemi di suoni ("sistemi fonologici") delle lingue del mondo.

Come si chiama l'alfabeto che usiamo in Italia?

L'alfabeto con i segni che noi italiani usiamo da secoli è l'alfabeto latino.

Come si individuano i fonemi in una lingua?

di una lingua si individuano in base alla differenza acustica delle diverse combinazioni di un più piccolo numero di coefficienti acustico-articolatori, i quali, in quanto differenziano gli elementi di una coppia di f., sono detti tratti distintivi o pertinenti.

Come si dividono i fonemi?

I suoni di una lingua sono definiti foni a livello fonetico e fonemi a livello fonologico.

Che differenza c'è tra trascrizione fonetica è fonologica?

La trascrizione fonemica (o anche fonologica e fonematica) è un sistema di scrittura artificiale che serve a rendere i fonemi di una specifica lingua. Si differenzia dalla trascrizione fonetica, che riproduce i foni, ma i due tipi di trascrizione usano gli stessi simboli.

Quanti tipi di fonetica ci sono?

La fonetica si divide in tre branche principali: Fonetica articolatoria che descrive il modo in cui i suoni sono prodotti dall'apparato fono-articolatorio. La disciplina è parte della fisiologia umana. Fonetica acustica invece descrive tutte le caratteristiche fisiche del segno fonico quando si propaga nell'aria.

Quali sono gli errori fonetici?

Gli errori fonologici sono quelli che contemplano la non corrispondenza tra fonemi e grafemi, rispettivamente suono ed elemento grafico di ciò che si scrive. Questo passaggio è fondamentale per chi si occupa di contenuti e copywriting.

Quando i bambini tardano a parlare Che problema c'e?

strutturali: problemi uditivi, anomalie oro-bucco/facciali (palatoschisi), otiti; neurologiche: epilessie, paralisi cerebrali; ritardi mentali più o meno gravi. Quindi è bene tenere a mente che il bambino che tarda a parlare non è da definirsi PIGRO.

Quando i bambini iniziano a leggere e scrivere?

Già intorno ai 4-5 anni i bambini possono cominciare a mostrare interesse per la lettura e la scrittura. Gli adulti dovrebbero sostenerli preparando un ambiente educativo adeguato, ma senza eccedere o fare pressioni che vadano oltre la naturale curiosità mostrata dai piccoli. 2 Quando insegnare a leggere ai bambini?

Come sbloccare un bambino che non parla?

Il modo più efficace per stimolare il linguaggio dei bambini è giocare. Qualsiasi gioco o attività proponete è importante dare enfasi a linguaggio utilizzando toni di voce diversi e una mimica molto variabile. Utilizzate frasi semplici fino ai quattro anni e mezzo e più complesse dai 5 anni in su.

Cosa è il Monema?

- (ling.) [la più semplice unità linguistica dotata di significato] ≈ morfema.

Qual è la differenza tra morfo e morfema?

Mentre il morfema è un'unità di significato, la cui consistenza può essere astratta e non espressa materialmente (quindi percepibile per vie diverse da quella sensoriale), il morfo è parte di una concreta realizzazione verbale ed è quindi composto da materiale fonologico.

Cosa vuol dire Morfos?

-μορϕος, dal tema di μορϕή «forma»]. – Secondo elemento di parole composte derivate dal greco o formate modernamente (antropomorfo, isomorfo, allomorfo, eteromorfo, ecc.), che significa «che ha forma di». Agli aggettivi in -morfo corrispondono spesso sostantivi astratti in -morfìa o, più comunem., in -morfismo.

Fonetica. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

La fonetica (dal greco φωνή (phōnḗ), "suono" o "voce") è la branca della linguistica relativa alla sostanza dell'espressione (secondo la definizione del linguista Ferdinand de Saussure) che studia la produzione e la percezione di suoni linguistici (foni), e le loro caratteristiche.

Branche della fonetica sono:

la fonetica articolatoria (o fisiologica), che studia il modo in cui vengono prodotti i suoni, riferendosi agli organi preposti alla fonazione (i quali nel complesso prendono il nome di "apparato fonatorio"), della loro fisiologia, ovvero del processo di fonazione, e dei criteri di classificazione;

la fonetica acustica, che descrive le caratteristiche fisiche dei suoni linguistici e il modo in cui si propagano nell'aria;

la fonetica sensitiva, che studia il modo in cui i suoni vengono percepiti dall'apparato uditivo;

la fonetica sperimentale o strumentale, lo studio della produzione dei suoni linguistici attraverso l'utilizzo di determinati strumenti, come il sonografo.

Con "fonetica" ci si riferisce solitamente alla fonetica articolatoria, in quanto le altre si sono sviluppate in un'epoca più recente e soprattutto la fonetica uditiva necessita ancora di chiarimenti da parte dei linguisti anche per quanto riguarda molte delle attività dell'apparato uditivo, attualmente ancora sconosciute. È importante però fare una distinzione tra fonetica e fonologia. Con quest'ultima facciamo riferimento al livello della linguistica relativo alla forma dell'espressione, ai cosiddetti fonemi, cioè la rappresentazione dei singoli elementi lessicali.

Fonetica articolatoria

La fonetica articolatoria studia i suoni di una lingua sotto l'aspetto della loro produzione attraverso l'apparato fonatorio, descrive quali organi intervengono nella produzione dei suoni, quali posizioni assumono e come queste posizioni interferiscono con il percorso dell'aria in uscita dai polmoni attraverso la bocca, il naso o la gola per produrre i differenti foni.

Non si occupa di tutte le attività fisiologiche che intervengono nella produzione di un suono, ma seleziona solamente quelle che attengono al luogo di articolazione. Un simbolo fonetico è un segno convenzionale usato per significare la descrizione articolatoria di un suono, nonché una sua approssimata collocazione in determinate classi detti foni, dal momento che nessuno è in grado di riprodurre due volte lo stesso identico suono. I simboli più utilizzati sono quelli dell'AFI, l'Associazione fonetica internazionale, conosciuta anche come IPA.

Meccanismo di produzione dei suoni linguistici

Per quanto concerne la lingua italiana bisogna fare un'importante distinzione tra consonantismo e vocalismo. A prescindere dal fatto che sono ben note le consonanti e le vocali, i due gruppi si distinguono per il modo in cui vengono prodotti. Nel vocalismo bisogna introdurre il concetto di meccanismo laringeo o più comunemente noto come vibrazione, che consiste nella vibrazione delle pliche vocali (= corde vocali). Le vocali risultanti si distinguono in base alla posizione che assumono gli organi mobili del tratto vocale. Il consonantismo, invece, è messo in moto non tramite la vibrazione ma tramite la formazione di un restringimento o chiusura del tratto vocale, permettendoci di distinguere le ostruenti (occlusive, affricate, fricative), in cui avviene una totale chiusura, dalle sonoranti (nasali, laterali, vibranti, approssimanti) in cui invece il flusso d'aria passa incontrastato nel tratto vocale.

Sebbene i due differiscano per il modo di articolazione in entrambi i casi viene utilizzato il medesimo apparato utilizzato per la funzione vitale della respirazione. Il processo infatti comincia nei polmoni nei quali l'aria durante l'espirazione viene incanalata nei bronchi, a causa della pressione dei muscoli intercostali, passando per la trachea fino ad arrivare al tratto vocale (laringe, glottide, faringe, velo palatino, ugola, lingua, palato, alveoli, denti incisivi, labbra, cavità nasali). Ma se nella respirazione la durata dell'inspirazione è più o meno equivalente a quella dell'espirazione, nella fonazione invece i tempi sono piuttosto diversi: possiamo quasi dire che l'uomo economizza sull'aria inspirata utilizzando per gli scarti espirati una durata maggiore rispetto ai tempi d'inspirazione.

Vocalismo

Come abbiamo già detto le vocali sono realizzate tramite vibrazione delle pliche (corde) vocali. Come è facilmente intuibile però le vocali non si realizzano allo stesso modo - altrimenti non conteremmo oggi cinque vocali nel sistema linguistico italiano. per la realizzazione delle vocali dobbiamo, quindi, tener conto dei criter] di:

anteriorità-posteriorità: determinato dal movimento della lingua (in senso orizzontale), se la lingua retrocede verso l'interno del tratto vocale si formano le vocali posteriori, se la lingua avanza verso l'esterno del tratto vocale si formano le vocali anteriori

grado di altezza: determinato dal movimento della lingua (in senso verticale), se la lingua avanza verso il palato si formano le vocali alte, se la lingua invece si abbassa rispetto alla posizione mediana si formano le vocali basse

arrotondamento: determinato dalla posizione delle labbra, se le labbra si arrotondano si formano le vocali arrotondate (o procheile), se le labbra sono in posizione rilassata si formano le vocali non arrotondate (o aprocheile)

nasalizzazione: determinato dalla posizione del velo palatino, se il velo palatino è in posizione verticale si formano le vocali nasali (non presenti in italiano), se si alza toccando la parte superiore della faringe, e dividendo in tal modo la cavità nasale da quella orale, si formano le vocali orali.

Consonantismo

Le consonanti, differentemente dalle vocali, si realizzano tramite un diaframma. Anche in questo caso le consonanti differiscono tra loro per tre criteri:

luogo di articolazione: dipende dagli organi articolatori che formano consonanti bilabiali, labiodentali, dentali, alveolari, retroflesse, post-alveolari, palatali, velari, uvulari, faringali, glottidali (non tutte presenti in italiano)

modo di articolazione: dipende dal tipo di diaframma, se blocca il flusso dell'aria in uscita si formano le consonanti ostruenti (occlusive, affricate, fricative) se l'aria non è ostruita si formano le consonanti sonoranti (nasali, laterali, vibranti, approssimanti)

coefficienti laringei: dipendono dal meccanismo laringeo; se è messo in moto si formano le consonanti sonore, se non è messo in moto le consonanti sorde (si veda Grado di articolazione).

I click

Di base, le consonanti e vocali si producono con un flusso d'aria egressivo che parte dai polmoni ma in altre lingue, per esempio in lingue africane come lo Xhosa, esistono delle consonanti prodotte senza flusso d'aria dai polmoni, cioè i click. Simili suoni sono presenti nella parlata colloquiale anche in altre lingue nel mondo, incluso l'italiano: si pensi per esempio alla negazione "tsk tsk", effettuata facendo schioccare la punta della lingua distesa sul palato e senza espirare (questo click è presente anche in lingua maori). Altri click coinvolgono il labbro inferiore a contatto con l'arcata dentaria superiore e il dorso della lingua con la parte tondeggiante del palato. Quest'ultimo è presente proprio all'inizio della parola "Xhosa". L'ultimo click è prodotto facendo schioccare la punta della lingua retroflessa nell'incavo del palato.

Fonetica acustica

La fonetica acustica tratta l'onda sonora come il prodotto di un qualsiasi risonatore. In pratica equipara l'apparato fonatorio umano a un sistema d'emissione e riproduzione di suoni. Per decodificare le caratteristiche salienti dell'onda sonora prodotta si utilizzano il sonografo, o spettrografo, e gli spettrogrammi con esso prodotti: con questi strumenti si possono identificare determinate bande chiamate formanti che sono risultate essere importanti per la comprensione dei suoni linguistici e hanno anche mostrato una certa relazione con alcuni processi articolatori. Inoltre, con essi, si sono analizzate le onde sonore per capire quali fossero le frequenze che contenevano i dati fondamentali, necessari e sufficienti per identificare i suoni delle varie lingue.

Fonetica percettiva

La fonetica uditiva è probabilmente il settore della fonetica a tutt'oggi meno esplorato e tratta di come i suoni linguistici vengano recepiti dall'apparato uditivo umano: per questo studia in particolare come funziona il canale uditivo. Un altro campo d'investigazione riguarda le possibili interferenze acustiche che si possono determinare nell'ascolto dei suoni linguistici. Recentissimi sono gli studi in campo cognitivo, correlati alla percezione effettiva dei suoni. Rappresentano un ambito della fonetica uditiva anche le ricerche su come vengono percepiti i suoni nelle diverse situazioni comunicative (soprattutto nei diversi ambienti, in particolare rumorosi).

Fonetica sperimentale o strumentale

La fonetica sperimentale studia i suoni prodotti dall'apparato fonatorio secondo un approccio fisico, sia usando strumenti particolari per determinare con precisione la posizione dei vari organi articolatori sia prestando attenzione al risultato del processo fonatorio: unendo i dati si sono scoperte caratteristiche importanti sull'articolazione dei suoni linguistici. Essa utilizza strumenti come i raggi x per determinare la posizione degli articolatori e nella prima metà del secolo scorso si usava il chimografo che, mediante un pennino mosso dalle vibrazioni dell'aria provocate dalla produzione dei suoni, tracciava delle linee d'intensità su un tamburo rotante coperto con carta annerita con nerofumo. Il chimografo è stato in seguito sostituito dal più funzionale sonografo. Lo studio di questi dati risulta tanto più preciso e significativo quanto più sono perfezionati gli strumenti usati.

Altri settori d'indagine

Altri settori di indagine della fonetica sono:

La fonetica strutturale, che talvolta si identifica con la fonologia; può essere descrittiva sincronica (ad esempio se studia i suoni di una determinata lingua in un certo momento della sua evoluzione), o diacronica (cioè storica; ad es. se studia l'evoluzione strutturale nel tempo dei suoni di una lingua data).

La fonetica comparativa, che compie raffronti sistematici tra i sistemi fonetici/fonologici di varie lingue, per scoprirne i rapporti di somiglianza e/o di differenziazione, o le leggi di trasformazione fonetica (ad es. se indaga sulle differenze e somiglianze tra indoeuropeo e semitico, oppure sulle lingue indoeuropee storiche per ricostruire il sistema fonetico/fonologico del proto-indoeuropeo o del proto-germanico).

La fonetica storica sperimentale, ancora molto 'giovane', ma già oggi possibile grazie alla grande quantità di materiale registrato (radiofonico, cinematografico e televisivo) e conservato a partire dagli anni trenta del secolo scorso.

Trascrizione fonetica

Nonostante il gran numero delle lingue presenti nel mondo e del vasto numero dei sistemi ortografici esistenti, è possibile comunque fare una trascrizione fonetica (tramite sistema IPA), ovvero realizzare nella scrittura le caratteristiche fonetiche di una determinata lingua mediante un sistema alfabetico nuovo riconosciuto universalmente e che non corrisponda a un sistema linguistico esistente (parleremmo altrimenti di traslitterazione). La trascrizione dei foni avviene tra parentesi quadre ([...]), quella dei fonemi tra parentesi oblique (/.../).

Ecco un esempio di trascrizione fonetica:

[pare]

[paːre]

[pære]

[pæːre]

Le quattro trascrizioni fonetiche differiscono esclusivamente nei foni [a], [aː], [æ], [æː] non nel fonema (per approfondire, vedi Fonologia). Sono quattro pronunce diverse dello stesso significante (e stesso significato). Parliamo in questo senso di allofoni, in quanto i quattro suoni sono diverse realizzazioni fonetiche di un'unica unità del significante, di un medesimo fonema.

Un altro esempio di allofonia potrebbe essere dato dalla diversa realizzazione fonetica della /r/ (come vibrante alveolare, vibrante uvulare o la cosiddetta "erre moscia", fricativa uvulare o "erre francese"), sempre facendo riferimento all'esempio precedente. Quindi avremo [pare], [paʀe], [paʁe] il cui fonema corrispondente è per tutte -> /pare/ (con trascrizione fonologica).

Caratteristiche prosodiche

Con caratteristiche prosodiche si intendono tutte quelle caratteristiche fonetiche che si producono simultaneamente ai suoni in sé e per sé ma che non sono rappresentabili con i soli foni. È per questo che si parla di "trascrizione fonetica larga" se si prende nota solo dei foni, gli elementi necessari, e di "trascrizione fonetica stretta" se si va più in dettaglio trascrivendo anche altri elementi come l'accento, la sillaba, la lunghezza dei segmenti.

Accento

Con accento si intende la prominenza di una sillaba su un'altra. Nella trascrizione fonetica si realizza tramite un apostrofo immediatamente precedente alla sillaba accentata. Ad esempio ['pare] oppure [pa'rere]. È importante notare che le lingue differiscono anche per la posizione dell'accento: esistono lingue con accento libero come l'italiano in cui la posizione dell'accento varia a seconda del lessico e quindi vi sono parole tronche, piane, sdrucciole, bisdrucciole) e lingue invece ad accento fisso in cui invece l'accento è fisso sempre sulla stessa sillaba, come nel caso del francese e il turco che hanno l'accento sempre sull'ultima sillaba.

Sillaba

La sillaba è l'unità fonetica minima. È costituita dal nucleo, che è l'elemento necessario e indispensabile, e può presentare o facoltativamente o obbligatoriamente un attacco e facoltativamente una coda. Se la sillaba presenta della coda è detta chiusa altrimenti la sillaba è aperta. Il nucleo deve essere caratterizzato da un picco di sonorità (in italiano quindi deve essere per forza formato solo dalle vocali). Nella trascrizione fonetica il confine sillabico è rappresentato dai punti, in posizione tonica può anche essere omesso per la presenza dell'accento.

Lunghezza dei segmenti

È possibile rappresentare una vocale o consonante nel suo grado di lunghezza (breve o lungo) tramite diversi espedienti. In un primo basta segnalarlo tramite un trattino dritto per una maggiore lunghezza o tramite un archetto per una minore lunghezza. Il tratto lungo può essere rappresentato per le consonanti anche tramite ripetizione del fonema (es [fatte]) oppure tramite i due punti sia per consonanti che per vocali (es [fat:e] e [li:mpido]).

La fonologia

Fonetica VS fonologia. Da docenti.unimc.it. Fonetica VS fonologia.

Fonetica: descrive, classifica e fornisce la trascrizione dei suoni prodotti dall’uomo quando parla

Fonologia: studia i suoni presenti nelle lingue umane in rapporto alla loro funzione distintiva.

Fono: realizzazione concreta di qualunque suono del linguaggio

Fonema: unità linguistiche minime che contribuiscono a determinare il significato di una parola (suoni che possono essere impiegati per distinguere parole di diverso significato)

Foni e fonemi Pronunciando prato con la vibrante apicale ['pra:to] e con la vibrante uvulare (“erre alla francese” o “erre moscia”) ['pra:to] non abbiamo alcuna differenza di significato n [r] e [R] sono allofoni (realizzazioni diverse) del fonema /r/

Nella trascrizione dei foni si usano le parentesi quadre, mentre i fonemi vengono indicati tra barre oblique Commutazione Scambiando /p/ di prato con /g/ e con /i/ si ottengono due nuove parole ciascuna con un suo significato: grato e irato n /p/, /g/ e /i/ hanno una funzione distintiva: si tratta pertanto di fonemi

I fonemi si identificano quindi mediante la prova di commutazione Varianti combinatorie VS varianti libere

Varianti combinatorie: realizzazioni fonetiche dovute alla vicinanza con un altro suono (vento/vengo) vento [n] dentale VS vengo [ŋ] velare /n/: [n]; [ŋ] sono due allofoni dello stesso fonema

Varianti libere: realizzazioni fonetiche individuali dovute ai difetti di pronuncia o a particolari abitudini (r uvulare [R] in italiano) L’apparato fonatorio Vocali vs consonanti 

A seconda del modo di articolazione, i suoni linguistici si dividono in:

Vocali: quando l’aria esce dalla cavità orale (o orale e nasale) senza che si frapponga al suo passaggio alcun ostacolo

Consonante: quando l’aria incontra un ostacolo

Tratti distintivi dei fonemi

Sordità: l’aria passa attraverso la glottide senza far vibrare le corde vocali (consonanti sorde: [p], [t], [k])

Sonorità: le corde vocali, per azione meccanica dell’aria in uscita, entrano in vibrazione(vocali e consonanti sonore: [b], [d], [g])

Oralità: il velo palatino (parte posteriore del palato) si solleva e si appoggia alla parte posteriore della faringe chiudendo la cavità nasale e l’aria esce dalla bocca ([d] e [b])

Nasalità: il velo palatino è abbassato e l’aria penetra anche nella cavità nasale ([n] e [m])

IPA (International Phonetic Association) Sodalizio di linguisti fondato nel 1886

Attuale sede: Londra

Ipa (alfabeto fonetico internazionale): sistema di trascrizione in grado di rappresentare i suoni delle più importanti lingue del mondo

Con l’IPA si possono fare trascrizioni sia di tipo fonetico che fonologico Le vocali

Quante sono le vocali dell’italiano?

Vocali anteriori o palatali (i, e, ɛ)

Vocali posteriori o velari (ɔ, o, u)

Vocali centrali (a) A seconda della posizione della lingua

I suoni vocalici dell’italiano sono sette in posizione tonica (cioè accentata) e cinque in posizione atona (cinque sono i grafemi che rappresentano tutte le vocali)

La /ε/, la /a/ e la /ɔ/ si dicono anche vocali aperte; la /i/, la /e/, la /o/ e la /u/ si dicono vocali chiuse

Quando non sono accentate, le vocali sono sempre chiuse La e è generalmente aperta:

nelle parole che finiscono in –èllo, -èlla (cancello, bidello); -èrio, -èria (criterio, desiderio, miseria); -èzio, -èzia (inezia, screzio)

Nei gerundi in –èndo (correndo, sentendo)

Nei participi presenti in –ènte (sapiente, vedente)

Quando fa parte del dittongo –iè (fieno, piede). Fanno eccezione i casi in cui il dittongo è compreso in suffissi che vogliono la e chiusa come –étto, -ézza (armadietto, ampiezza) La e è generalmente chiusa

Nelle parole che finiscono in –éccio (casereccio), -ése (paese); -ézza (altezza); - ménto (miglioramento)

Negli infiniti in –ére con accento sulla desinenza (bere, piacere)

Negli avverbi in –ménte (lentamente)

Nei diminutivi in –étto, -étta (libretto, cameretta) La o è generalmente aperta:

Quando si trova in fine di parola o porta l’accento (però andò, comò)

In molte parole di origine dotta con l’accento sulla terzultima sillaba (archeòlogo, filosòfo)

Nei suffissi –òlo, -uòlo (figliolo, lenzuolo)

Nei suffissi –òtto (ragazotto)

Quando fa parte del dittongo –uò- (fuoco, suono) La o è generalmente chiusa

Nelle parole che finiscono in –oce (feroce); - onda (sonda); -onte (bisonte); -ore (muratore); -oso (furioso); -posto (contrapposto); -zione (azione)

Nel suffisso accrescitivo –one (scivolone) Le consonanti

Luogo di articolazione (punto in cui uno degli organi di fonazione si frappone alla corrente d’aria che sale dai polmoni): Bilabiali (p, b, m) Labiodentali (f, v) Dentali (t, d, n) Alveolari (z) Prepalatali (c + e, i; g + e, i) Palatali (gn) Velari (c + a, o, u; ch + e, i; g + a ,o , u; gh + e ,i)

Modo di articolazione:

Occlusive (momentanea chiusura del canale): /p/; /b/; /t/; /d/

Continue o fricative (flusso continuo dell’aria che viene dai polmoni con restringimento del canale): costrittive-spiranti (/f/; /s/), vibranti (/r/), laterali (/l/)

Affricate (articolazioni intermedie tra occlusive e continue): occlusiva + continua (z sorda di zio = /ts/ ) Le occlusive descrizione fonetica fonema grafema esempio trascrizione fonologica occlusiva bilabiale sorda /p/ p piazza /'pjattsa/ occlusiva bilabiale sonora /b/ b barca /'barka/ occlusiva bilabiale sonora nasale /m/ m maschio /'maskjo/ occlusiva dentale sorda /t/ t testa /'tɛsta/ occlusiva dentale sonora /d/ d dente /'dɛnte/ occlusiva dentale sonora nasale /n/  naso /'naso/ occlusiva palatale sonora nasale /ɲ/ gn gnocco /'ɲɔkko/ occlusiva velare sorda /k/ c (+ a, o, u) ch (+ e, i) q (+ ua, ue, ui, uo) canzone chiesa quadro /kan'tsone/ /'kiɛza/ /'kwarto/ occlusiva velare sonora /g/ g (+ a, o, u) gh (+ i, e) gallo ghiro /'gallo/ /'giro/ Le continue o fricative descrizione fonetica fonema grafema esempio trascrizione fonologica continua costrittiva labiodentale sorda /f/ f farfalla /far'falla/ continua costrittiva labiodentale sonora /v/ v vaso /'vazo/ continua costrittiva alveolare sorda /s/ s salto /'salto/ continua costrittiva alveolare sonora /z/ s sgabello /zga'bɛllo/ continua costrittiva prepalatale sorda /ʃ/ sc (+ e, i) sci (+ a, o, u) scena sciopero /'ʃɛna/ /'ʃɔpero/ continua vibrante alveolare /r/ r riga /'riga/ continua laterale alveolare /l/ l lastra /'lastra/ continua laterale palatale /ʎ/ gl (+ i) gli (+ a, e, o, u) figli famiglie /'fiʎi/ /fa'miʎe/ Le affricate descrizione fonetica fonema grafema esempio trascrizione fonologica affricata alveolare sorda /ts/ z zappa /'tsappa/ affricata alveolare sonora /dz/ z zero /'dzɛro/ affricata prepalatale sorda /ʧ/ c (+ e, i) cena /' ʧena/ affricata prepalatale sonora /ʤ/ g (+ e, i) giostra /'ʤɔstra/

La s si pronuncia sorda /s/: Quando è seguita da consonanti sorde (spostare, cisterna, scappare)

All’interno di parola, quando è seguita da vocale (borsa, falso) ll’inizio di parola, quando è seguita da vocale (signora, sale)

All’interno di parola, quando è doppia (grosso, passo) La s si pronuncia sonora /z/:

Quando è seguita dalle consonanti sonore b, d, g, l, m, n, v (sbadigliare, sdoganare, sgrossare…)

Nelle parole di origine dotta che finiscono in – asi, -esi, -isi, -osi (protasi, tesi, crisi, sclerosi)

Nelle parole in –esimo, -esima (battesimo, cresima)

Quando è intervocalica (bisogno, esame). Ci sono numerose eccezioni (naso, cosa, spesa) La z si pronuncia sorda /ts/: Davanti ai gruppi vocalici -ia, -ie, -io (grazia, balbuzie, spazio)

Dopo -l- (alzare, balzo, calza)

Nelle parole che finiscono in –anza, -enza, - ezza, -izia, -ozzo, -ozza, -ziare, -zione (tolleranza, correttezza, deliziare, organizzazione) La z si pronuncia sonora /dz/: Quando è scritta scempia e si trova tra due vocali (azalea, azoto) Nei suffissi –izzare, -izzatore, -izzazione (civilizzare, civilizzazione)

Nelle parole di origine straniera con pronuncia adattata all’italiano (freezer, bazar)

In principio di parola (zelo, zanzara) Consonanti tenue e intense /p/, /b/, /m/, /t/, /d/, /n/, /k/, /g/, /f/, /v/, /s/, /r/, /l/, in posizione intervocalica, possono realizzarsi come tenui o intense Es: fato / fatto; caro / carro

In italiano 5 consonanti sono pronunciate sempre intense in posizione intervocalica:

Continua laterale palatale /ʎ/ = gl (foglio)

Occlusiva palatale sonora nasale /ɲ/ = gn (bagno)

Continua costrittiva prepalatale sorda /ʃ/ = sc (pesce)

Affricata alveolare sorda /ts/ = z (azione) Affricata alveolare sonora /dz/ = z (azoto)

Le semiconsonanti

Oltre alle vocali e alle consonanti, l’italiano possiede due semiconsonanti (o semivocali):

palatale /j/, detta jod (piede)

velare o labiovelare /w/, detta uau (buono)

Semiconsonanti: foni con suono intermedio tra quello delle vocali e quello delle consonanti; la durata di questi foni è più breve Le semiconsonanti descrizione fonetica fonema grafema esempio trascrizione fonologica semiconsonante palatale /j/ i piatto siepe pioggia fiuto /'pjatto/ /'sjɛpe/ /'pjɔdʤa/ /'fjuto/ semiconsonante labiovelare /w/ u acqua guerra guida fuoco /'akkwa/ /'gwɛrra/ /'gwida/ /'fwɔko/

Dittonghi

Le semivocali necessitano sempre di una vocale, alla quale si appoggiano e con la quale formano un dittongo

Dittonghi: unità formate da una vocale in funzione di centro di sonorità della sillaba e da una i oppure una u con funzione consonantica

Dittonghi

Dittonghi ascendenti: ià, iè, ié, iò, ió, iù; uà, uè, ué, uò, uì (la sonorità aumenta passando dal primo al secondo elemento)

Dittonghi discendenti: ài, èi, éi, òi, ói, ùi; àu, èu, éu (la vocale precede la i o la u)

Il primo elemento dei dittonghi ascendenti è detto semiconsonante

Il secondo elemento dei dittonghi discendenti è chiamato semivocale Dittonghi dittonghi formati da i + vocale ja fiato /'fjato/ iɔ chiodo /'kjɔdo/ jɛ piede /'pjɛde / jo fiore /'fjore/ je piegare /pje'gare/ ju fiume /'fjume/ dittonghi formati da vocale + i aj daino /'dajno/ ɔj poi /'pɔj / ɛj amerei /ame'r ɛj/ oj noi /'noj/ ej dei (prep. Art) /'dej/ uj altrui /al'truj/ dittonghi formati da u + vocale wa guado /'gwado/ wi guizzo /'gwittso/ wɛ quercia /'kwɛrʧa/ wɔ luogo /'lwɔgo / we questo /'kwesto/ wo nuotava /nwo'tava/ dittonghi formati da vocale + u aw causa /'kawza/ ew Europa /ew'rɔpa/ ɛw euro /'ewro/ Il dittongo mobile

Perché si dice suono ma sonoro, muovere ma movimento, io siedo ma io sedevo?

Alternanza di forme dittongate (ie, uo) e forme monottongate (e, o)

I dittonghi ie e uo interessano solo la sillaba tonica (*muovimento, *suonoro, *siedevo) Il dittongo mobile Il dittongo mobile si ritrova nei seguenti casi:

1) verbi che alternano forme rizotoniche (muòre) e rizoatone (morìvano)

2) nei derivati da una base dittongata (ruotarotella; suola- soletta)

3) nelle forme che hanno la stessa radice di verbi accentati sul dittongo (muoveremovimento; siede- sedile)

Riduzione di mobilità e conservazione dittongo

Parole composte e avverbi in –mente (buongiorno, buongustaio, lievemente, lietamente)

Verbi come nuotare, vuotare VS notare, votare

Vocaboli comuni che hanno influenzato i derivati: fieno- fienile; pieno- pienezza; piedepiedistallo Iato

Due vocali vicine rimangono separate nelle pronuncia cioè quando ciascuna vocale è il centro di una diversa sillaba

Si ha di solito:

Quando si incontrano due vocali diverse da i, u (paese, aorta, reame)

Quando una delle due vocali è una i o una u tonica (mio, spia, paura)

Nelle parole prefssate in cui è sentito ancora il rapporto prefisso + base (riamare) La trascrizione fonetica

Si riporta tra parentesi quadre

Una consonante doppia si può trascrivere o duplicando il segno [‘palla] o aggiungendo i due punti dopo la consonante [‘pal:a]

Le vocali lunghe (sillaba aperta) si rappresentano facendo seguire la vocale dai due punti es: trascrizione [traskrittsjo:ne]

il simbolo i può essere solo grafico senza un corrispettivo nella pronuncia. Es: Giorgio [dʒɔrdʒo] VS giro [dʒiro] La trascrizione fonetica

h non corrisponde ad un suono ma ha la funzione di indicare che la c o la g precedente seguite da e o da i si pronunciano velari e non palatali: che / chi [ke] [ki]

Il simbolo IPA per l’accento è ['] e si colloca prima della sillaba accentata: casa ['ka:sa], lampione [lam'pjo:ne]

non esistono né corsivo né maiuscole: Carlotta [kar'lɔt:a]

Non si segnalano nemmeno gli apostrofi: l’amico [la'miko]

Trascrizione fonetica Vs fonologica

Trascrizione fonetica fra parentesi quadre VS fonologica fra lineette oblique

La trascrizione fonologica rappresenta solo i tratti pertinenti della lingua le consonanti intense vanno segnalate quando hanno valore distintivo Es: palla /pal:a/ VS pala /pala/ non è necessario trascrivere la lunghezza delle vocali (che si riporta invece nella trascrizione fonetica) perché nella nostra lingua questo non è un tratto distintivo

Trascrizione fonetica Vs fonologica

si deve segnalare la distinzione tra vocali aperte e chiuse (che costituisce un tratto distintivo).

Le vocali aperte o medio basse (ɛ, ɔ) possono comparire solo in sillaba tonica. Sarà quindi considerato errore trascrivere una vocale medio bassa (aperta) in sillaba atona.

Le consonanti che in italiano vengono sempre pronunciate come geminate [dz], [ts], [ʎ], [ɲ], [ʃ] possono essere trascritte fonologicamente senza segnalare l’intensità della consonante Trascrizione fonetica Vs fonologica grafia trascrizione fonetica trascrizione fonologica trascrizione [traskrittsjo:ne] /traskrittsjone/ oppure /traskritsjone/ aglio [aʎ:o] /aʎ:o/ /aʎo/ agnello [aɲ:ɛl:o] /aɲ:ɛl:o/ /aɲɛl:o/ ascia [aʃ:a] /aʃ:a/ /aʃa/

I grafemi e l’alfabeto

grafema: rappresentazione grafica di fonema; è la più piccola unità distintiva del sistema di scrittura di una lingua

Si noti che uno stesso fono può essere reso con grafemi diversi nelle varie lingue: il grafema c, presente in ce, rappresenta fonemi diversi: in it. [tʃe], in francese [se] I grafemi e l’alfabeto

alfabeto: insieme di grafemi con i quali si indicano i fonemi di una determinata lingua 21 lettere italiane + 5 lettere straniere (j, k, w, x, y) La i lunga (J, j)

Ortografia italiana antica: semiconsonante in posizione iniziale di parola e intervocalica (jeri, sajo)

Relitti di questo uso: cognomi (Juliano, Ojetti) + nomi propri geografici (Jesi, mar Jonio)

Parole di origine inglese si pronuncia /ʤ/ (jazz)

Parole francesi si pronuncia /Ʒ/ (abat-jour)

Le parole latine (junior) non vanno pronunciate come fanno gli inglesi o gli americani Il cappa o la cappa (K, k)

Parole di origine straniera: kimono, karaoke, bunker

Parole del commercio e della pubblicità: Park Hotel, Bankitalia

Simboli e sigle: km (chilometri),kg (chilogrammi), ok (okay)

Italiano telematico: k sostituisce il ch (+e, i): ke fai, ki 6

Placito di Capua (690 d.C.):« Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte Sancti Benedicti». La doppia vu (W, w)

Lettera straniera che non esisteva nell’alfabeto latino

Parole di origine inglese si pronuncia /w/ (week-end, sandwich, wi-fi, web)

Parole di origine tedesca si pronuncia /v/ (walzer, walchiria)

Nei derivati italiani da parole straniere si pronuncia /v/ (chilowattora) La ics (X, x)

Grafema che indica un nesso di due fonemi cioè l’occlusiva velare + costrittiva alveolare /ks/

Parole di origine greca (xenofobo)

Parole di origine latina (ex, extra)

Parole straniere o derivate da parole straniere (Texas, texano, taxi)

Uso telematico: xchè, xò La ipsilon o i greca (Y, y)

Parole di origine greca o latina

Parole di origine straniera (yoga, spray)

Derivati italiani da parole straniere (babysitteraggio)

In alcuni casi viene pronunciata come “i” (baby, yacht) in altri come “ài” (bypass, bypassare) Perché si fanno gli errori di ortografia?

Mancanza di corrispondenza perfetta tra segni del sistema grafico e suoni del sistema fonologico (mancata corrispondenza tra suoni e segni)

Cause: la lingua parlata si evolve più velocemente di quella scritta (es: francese roi)

Il nostro alfabeto è essenzialmente quello latino; usiamo per la nostra lingua un sistema di scrittura nato per una lingua diversa dalla nostra

Nella nostra lingua sono nati nuovi suoni, per i quali l’alfabeto latino non aveva un simbolo

Es: nel latino classico il grafema c rappresentava la velare /k/ (Cicero /'kikero/); successivamente davanti a e, i diventa c palatale /tʃ/ (Cicerone /tʃitʃe'rone/)

In italiano un solo grafema c rappresenta due diversi fonemi: /k/ e /tʃ/; un solo fonema /k/ è rappresentato da due diversi grafemi: c davanti ad a, o, u (casa, cosa, scusa, e ch davanti a e, i (cheto, chino) Digrammi e trigrammi 7 digrammi: due diverse lettere rappresentano un unico suono gn /ɲ/  gl (+ i) /ʎ/  sc (+ e, i) /ʃ/  ch /k/  gh /g/  ci (+a, o, u) /ʧ/  gi (+a, o, u) /ʤ/ 2 trigrammi: tre diverse lettere rappresentano un unico suono sci (+ a,o,u) /ʃ/  gli (+a, o, u) /ʎ/

Parole a rischio di errore di ortografia

Parole in cui non c’è accordo tra pronuncia e grafia

Parole che, nei vari dialetti, si pronunciano diversamente che in italiano Con la z La z posta tra due vocali si pronuncia sempre doppia ma si scrive quasi sempre scempia

parole che terminano in –àzia (grazie), -azìa (aristocrazia), -èzia (La Spezia), -ezìa (profezia), -ìzia (sporcizia), -ìzie (canizie), -ìzia (polizia), - ozìa (idiozia), -ùzia (arguzia), -ziòne (operazione), -èzio (trapezio), -ìzio (indizio), - òzio (ozio), -ùzio (Muzio)

La z è la lettera iniziale di una parola composta: protozoo, prozio

In alcuni vocaboli isolati: azalea, azienda, paziente, prezioso… In –sione e -zione con la z: nomi che hanno la stessa radice di un participio o di un altro nome in cui ci sia la t (attenzione- attento; canzone- canto) con la s: nomi che hanno la stessa radice di un participio o di un nome con s (pretensionepreteso; estensione- esteso)

Eccezioni: astensione, estorsione, distorsione Con ce, ge, sce

Suono identico sia che si scriva con la i sia senza (coscienza Vs pesce)

Influsso della parola latina: conscientiam VS piscem

Non esiste una regola: consultare il dizionario! Con gn + a, e, o

Scriverle sempre senza la i

Eccezione: n -gniamo (presente indicativo e congiuntivo dei verbi in –gn-) -gniate (presente congiuntivo dei verbi in –gn) Con la q + a, e, i, o  cu VS qu (è un doppione grafico di cu)

Spiegazione: derivazione latina

Cuore < cor  Quota < quota pars  In caso di dubbi consultare il dizionario Parole influenzate da pronunce dialettali  Parole con la doppia fra due vocali: pelliccia non peliccia; dovrebbe non dovrebe; eccellente non eccelente

Parole con una b tra due vocali: ribelle non ribbelle; abile non abbile

Parole con ld e lt: soldo non sordo; coltello non cortello

Parole con ls, ns, rs: polsini non polzini; borsa non borza

Parole con gl: figlio non fio; moglie non moie

Parole con due r fra vocali: ferramenta non feramenta

Parole con nia, nie, nio: matrimonio non matrimogno

Parole con gna, gne, gno: insegnare non inseniare; congegno non congenio

Parole con age, ege, ige, oge, uge, agi, egi, igi, ogi, ugi: agente non aggente, egemonia non eggemonia, legittimo non leggittimo; pugile non puggile

La sillaba

Unità fonologica intermedia tra il fonema e la parola

La struttura sillabica varia da lingua a lingua Es: V (vocale) e C (consonante), in italiano si hanno i seguenti tipi: V, CV, VC, CVC, CCV e CCCV; in inglese esiste anche il tipo CVCC (land)

La sillaba

Sillaba aperta: finisce in vocale (ca-ri-no; dena-ro)

Sillaba chiusa: finisce in consonante (im-portan-za; soc-cor-so)

A volte contrasto tra sillabazione grafica e sillabazione fonetica

Es: resto: re-sto Vs ['rεs-to] sillabazione grafica, frutto di una convenzione dei grammatici Tratti soprasegmentali Es: àncora / ancòra Sequenza fonetica identica: /a/ + /n/ + /k/ + /o/ + /r/+ /a/ Ma diversa è la posizione dell’accento. Tratti soprasegmentali: caratteristiche del modo in cui una parola può essere pronunciata che non sono rappresentabili con la trascrizione segmentale: ad es. l’intonazione, l’accento.

L’accento

Intonazione più forte e prolungata che cade su una determinata sillaba di parola

In italiano è intensivo cioè viene realizzato pronunciando la sillaba accentata con maggiore energia delle altre

Funzione distintiva: es. It. (àncora-ancòra).

Accento mobile

Funzione demarcativa: es. Fr. (accento fisso sull’ultima sillaba di ciascuna parola) L’accento tonico Le parole si distinguono in:

Tronche (accento sull’ultima sillaba): sentì, giocherò

Piane (accento sulla penultima sillaba): sapone, tenda

Sdrucciole (accento sulla terzultima sillaba): tavolo; mensola

Bisdrucciole (accento sulla quartultima sillaba): arrampicano

Trisdrucciole (accento sulla quintultima sillaba): recitamelo Quando si usa l’accento grafico

nelle parole tronche e in alcuni monosillabi: già, può, ciò (NON qui,qua)

per distinguere coppie come prìncipi – princìpi

per distinguere la vocale chiusa (accento acuto) da quella aperta (accento grave): vénti – vènti Con o senza accento? l’accento va messo su l’accento non va messo su dà (verbo dare) da (preposizione) dì (giorno) di (preposizione) è (verbo essere) e (congiunzione) là (avverbio di luogo) la (articolo o pronome) lì (avverbio di luogo) li (articolo o pronome) né (congiunzione negativa) ne (avverbio e pronome) sé (pronome) se (congiunzione) sì (affermazione) si (pronome) tè (bevanda) te (pronome) L’intonazione L’intonazione riguarda l’enunciato (≠ accento che riguarda la parola)

L’intonazione serve a distinguere enunciati di diverso significato:

Es: vieni con me / vieni con me? / vieni con me!

Tratti paralinguistici (volume della voce, velocità del parlare, pause) Fonosintassi

La fonetica sintattica (o fonosintassi) si occupa di tutti quei fenomeni foneticofonologici che si producono nel contatto tra due parole nella catena parlata.

Si occupa anche dei fenomeni grazie ai quali si evita l’incontro di due vocali. Un fenomeno che si manifesta nell’elisione e nell’apocope. Assimilazione Assimilazione regressiva: durante la produzione di un suono alcuni organi dell’apparato vocale anticipano l’articolazione di un suono che segue. Assimilazione regressiva (parziale) Le nasali, ad es., subiscono spesso mutamenti dovuti ad assimilazione anticipatoria: una nasale preconsonantica cambia luogo di articolazione assumendo quello della consonante seguente (velare se la consonante è velare, labiodentale se la consonante è labiodentale): [ˈfaŋgo] fango; [iɱˈveʧe] invece Assimilazione Assimilazione regressiva (totale) una delle ragioni della nascita di consonanti geminate (b] + consonante: it. sollevo < lat. sublevo; k] + consonante: it. fatto < lat. factum)

Assimilazione

Assimilazione progressiva: i tratti di un suono permangono in tutto o in parte nel suono o nei suoni successivi

Assimilazione progressiva parziale: rara in italiano standard. Il fenomeno più significativo è la sonorizzazione di consonanti sorde precedute da nasali (nei dialetti centromeridionali)

Es: sicil. centro-merid. [ˈprondo] pronto

Assimilazione

L’assimilazione progressiva totale: solo in gruppi consonantici in cui il primo elemento è una nasale, una laterale o una vibrante. Si presenta principalmente in fenomeni di variazione diacronica e diatopica (soprattutto nei dialetti meridionali): Es: [ld] > [lː] in it. bargello < lat. Barigildus;  [nd] > [nː] in roman. monno ~ it. mondo

Assimilazione

Accanto ai casi di assimilazione a contatto anche casi di assimilazione a distanza Es: vipistrello (It. antico) → pipistrello

La consonante iniziale si è mutata nella consonante iniziale della seconda sillaba Raddoppiamento fonosintattico

Il raddoppiamento fonossintattico è causato da un’assimilazione fonetica

All’interno di parola: lācte(m) → latte; admĭtto → ammetto

Tra parole vicine. La consonante iniziale della seconda parola viene pronunciata come se fosse doppia: ad căsam → [ak'kasa]

La grafia registra però il fenomeno solo in caso di univerbazione (scrittura unificata): cosiddetto, soprattutto, neppure, sebbene Raddoppiamento fonosintattico

Il raddoppiamento è tipico del toscano e delle varietà centro-meridionali

Si è esteso, per analogia, dai casi etimologici (lācte(m) → latte) agli altri

Es dopo parole tronche: perché mai [per'kem'mai]

Dopo monosillabi con accento grafico: più su [pjus'su] e monosillabi “forti”(a, chi, che, ho, ha, ma, qua, qui, tra, tre…): qua sopra [kwas'sopra]

L’elisione

Caduta della vocale finale atona di una parola di fronte alla vocale iniziale di un’altra parola

Nella scrittura l’elisione è segnata dall’apostrofo Es: *lo albero→ l’albero; una amica → un’amica

Il troncamento / apocope

Caduta di un elemento vocalico, consonantico o sillabico al termine di una parola

Apocope vocalica (professore → professor; buono → buon; bene → ben; uno → un)

Apocope sillabica (grande → gran, poco → po’)

Apocope

Apocope sillabica obbligatoria:

Bello / bel: bel tipo

Bene / ben: ben detto

Dello / del: del caso

Quello / quel: quel tipo

Santo / san: san Martino

Frate / fra: fra Cristoforo

Un amico VS un’amica? Il primo è un troncamento (no apostrofo) il secondo un’elisione

Prova: la parola in questione si può abbreviare anche davanti a una parola cominciante per consonante?

Sì: è un troncamento (un amico / un ragazzo; nessun amico / nessun ragazzo)

No: è un’elisione (un’amica / *un ragazza; pover’uomo / *pover ragazzo)

L’enclisi

un elemento (di una o due sillabe) si appoggia per l'accento alla parola precedente. -lo, -la,-li, -le

Es: lèggilo, lèggila....

Pronomi atoni mi, ti, si, ci, vi, lo, la, ne e avverbi ci, vi enclitici. Si possono unire all'avverbio (eccolo, eccomi) e a forme verbali: imperativo (scrivigli), infinito (scriverle), gerundio (scrivendole), participio passato (scrittogli)

Elementi atoni che si appoggiano alla parola seguente sono proclitici:

Articoli (il, lo, la, i, gli, le; un), preposizioni (a, di, da, con, in, per, tra, fra), pronomi personali atoni e particelle avverbiali (ci, vi, ne e non) enclitici + proclitici = clitici

(ANSA il 10 giugno 2023) - Da tenebrosa a squillante, il tono della voce è deciso dai geni: lo rivela uno studio pubblicato sulla rivista Science Advances e condotto da deCODE genetics, di Amgen. L'azienda ha scoperto varianti nella sequenza (mutazioni) del gene ABCC9 che influenzano l'intonazione della voce. 

Parlare è uno dei comportamenti umani più caratteristici, eppure le basi genetiche della voce e del linguaggio restano in gran parte sconosciute. Nel primo studio di questo tipo, gli scienziati hanno combinato le registrazioni vocali di quasi 13.000 islandesi con i dati della sequenza del genoma.

In questo modo hanno identificato mutazioni comuni nel gene ABCC9 che sono associate a una voce più acuta. Gli scienziati hanno scoperto che queste varianti di ABCC9 sono associate a un tono di voce più alto sia negli uomini sia nelle donne. Le stesse varianti di sequenza sono anche collegate a un aumento della pressione del polso, un fattore di rischio cardiovascolare, evidenziando i legami tra l'intonazione della voce e i tratti legati alla salute. 

Oltre all'intonazione della voce, lo studio ha analizzato la genetica dell'acustica delle vocali. Sebbene i suoni vocali siano influenzati dalla cultura e dal contesto, gli scienziati hanno scoperto che contengono anche una componente ereditabile, probabilmente legata alla forma del tratto vocale e al suo effetto sui suoni delle vocali. I risultati gettano nuova luce sulla diversità della voce e contribuiscono a una migliore comprensione del sistema vocale umano.

L’Alfabeto.

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

«L’unica materia di studio che si può possedere dalla a alla zeta è l’alfabeto.» (André Mycho)

L'alfabeto o trascrizione fonetica è un sistema di scrittura i cui segni grafici (i grafemi) rappresentano singolarmente i suoni delle lingue (foni e fonemi). Nei sistemi di scrittura alfabetici, generalmente un grafema rappresenta un fonema, ma spesso uno stesso grafema può rappresentare più fonemi o, viceversa, uno stesso fonema può essere rappresentato da più grafemi.

Un alfabeto propriamente deve contenere anche le vocali, altrimenti si preferisce indicarlo col nome abjad.

La parola "alfabeto" deriva dall'unione dei nomi delle prime due lettere dell'alfabeto greco, alfa (la prima vocale) e beta (la prima consonante) (simboli greci: α e β). I sistemi alfabetici sono tra i sistemi di scrittura più diffusi al mondo e, data la caratteristica di possedere un numero limitato di segni, sono anche sfruttati per la trascrizione fonetica: inoltre la quasi totalità degli alfabeti del mondo usa i grafi della scrittura latina, a volte assegnando loro valori fonetici diversi da un sistema all'altro e a volte modificandoli aggiungendo o togliendo tratti grafici.

Alcuni studiosi sostengono che l'alfabeto sia il vertice della scrittura e chi legge «ragiona diversamente».

Alfabeti, abugida e abjad

Genericamente per alfabeto, si intende un sistema di scrittura segmentale a livello fonemico che ha glifi separati per suoni individuali. I grafemisti distinguono invece tre tipi diversi di scrittura segmentale: alfabeto, abjad e abugida. Questi tre differiscono l'uno dall'altro nella maniera in cui sono trattate le vocali:

gli abjad hanno le lettere per le consonanti e lasciano le vocali inespresse;

gli abugida sono anch'essi basati sulle consonanti, ma indicano le vocali con segni diacritici o con modificazioni grafiche sistematiche alle consonanti;

gli alfabeti rappresentano le consonanti e le vocali come lettere indipendenti.

Il più antico alfabeto conosciuto in senso ampio è la scrittura Wadi el-Hol, che si crede sia un abjad. Questo, attraverso il suo successore il fenicio, è l'antenato dei moderni alfabeti, tra cui l'arabo, il greco, il latino (attraverso gli antichi alfabeti italici), il cirillico (attraverso l'alfabeto greco) e l'ebraico (attraverso l'aramaico).

Gli Abjad dei giorni nostri sono le scritture araba e ebraica; alfabeti veri invece comprendono il latino[2], il cirillico e l'hangŭl coreano; e gli abugida sono usate per scrivere il tigrino, l'amarico, l'hindi e l'alfabeto thai.

I sillabici aborigeni canadesi sono anche abugida piuttosto che un sillabario come il suo nome farebbe pensare, giacché ogni glifo sta per una consonante che è modificata dalla rotazione per rappresentare la vocale seguente. In un vero sillabario, ogni combinazione vocale-consonante sarebbe rappresentata da un glifo separato.

Questi tre tipi possono essere incrementate con i glifi sillabici. L'ugaritico, per esempio, è di base un abjad, ma ha lettere sillabiche per /ʔa, ʔi, ʔu/. Il cirillico è di base un alfabeto vero, ma ha lettere sillabiche per /ja, je, ju/ (я, е, ю); il copto ha una lettera per /ti/. L'alfabeto devanagari è tipicamente un abugida incrementato con lettere dedicate per le vocali iniziali, sebbene alcune tradizioni usano come una consonante zero come base grafica per quelle vocali.

I confini tra i tre tipi di scritture segmentali non sono sempre ben delineati. Per esempio il curdo sorani è scritto con l'alfabeto arabo, che di norma è un abjad. Sebbene, nel curdo, scrivere le vocali sia obbligatorio, e sono usate lettere complete, così la scrittura è un alfabeto in senso stretto. Altre lingue possono usare un abjad semitico con vocali obbligatorie diacritiche, facendo effettivamente di loro un abugida. D'altro canto, la scrittura Phagspa dell'impero Moghul fu basata strettamente sull'abugida tibetano ma tutti i segni vocalici sono scritti dopo la consonante che le precede piuttosto che come segni diacritici. Ancora più estremo è l'alfabeto Pahlavi, che è un abjad che diventa logografico.

Gli alfabeti nelle lingue tonali

Questa prima classificazione degli alfabeti riflette la condizione di come essi trattano le vocali. Per le lingue tonali c'è un ulteriore classificazione basata su come trattano il tono, sebbene non esista un nome per distinguere i differenti tipi. Alcuni alfabeti ignorano il tono del tutto, in particolare quelli che non portano alcun significato funzionale forte, come nel somalo e altre lingue africane e delle Americhe. Alcune scritture trattano i toni come gli abjad trattano le vocali. La maggior parte dei toni è indicata con segni diacritici, alla stessa maniera con cui sono trattate le vocali negli abugida. Questo è il caso del vietnamita, un alfabeto vero, e del Tailandese (abugida). In tailandese, il tono è determinato prima di tutto dalla scelta della consonante, con l'uso di diacritici per la disambiguazione.

Nella scrittura Pollard, un abugida, le vocali sono indicate da diacritici, ma il posizionamento del relativo diacritico alla consonante è modificato per indicare il tono. Più raro, è il caso in cui una scrittura abbia lettere separate per indicare i toni, come nel hmong e nello Zhuang. Per la maggior parte di queste scritture, indipendentemente dal fatto che si usino lettere o segni diacritici, il tono più comune non è contrassegnato, proprio come la vocale più comune non è contrassegnata negli abugida indoari, nello Zhuyin non solo è uno dei toni non segnati, ma vi è un diacritico per indicare la mancanza di tono, come il virama indiano.

Le origini dell'alfabeto

Gli alfabeti spesso vengono associati con un ordine standard delle loro lettere, che può essere usato per scopi di confronto, vale a dire per l'elencazione di parole e altri oggetti in quello che viene chiamato ordine alfabetico. L'ordine di base dell'alfabeto latino (A B C D E F G H I J K L M N O P Q R S T U V W X Y Z), che è derivato dall'ordine del Abgad semitico nord-occidentale, è ben consolidato, sebbene le lingue che usano questo alfabeto abbiano diverse convenzioni per il trattamento delle lettere modificate (come nel francese é, à, e ô) e di certe combinazioni di lettere (multigrafi).

Ad esempio, in Francia, le lettere accentate non sono considerate lettere aggiuntive per quanto concerne l'ordinamento e il confronto. Nell'islandese invece, le lettere accentate e con segni diacritici come á, í, e ö sono considerate lettere distinte. In spagnolo la ñ è considerata una lettera separata, ma le vocali accentate come á ed é invece non lo sono. La ll e la ch sono considerate lettere singole, ma nel 1994 la Real Academia Española cambiò l'ordine cosicché la "ll" figurasse nel dizionario tra "lk" e "lm", e "ch" tra "cg" e "ci"; nel 2010 l'associazione delle accademie di lingua spagnola cambiò ulteriormente definizione, non considerandole più lettere.

Nei dizionari inglesi, la sezione lessicale con l'iniziale th- trova posto tra te- e ti-.

In Germania, le parole che iniziano con "sch" (che rappresenta il fonema tedesco /ʃ/) dovrebbero essere intercalate tra parole con l'iniziale "sca" e "sci" (tutti prestiti linguistici), invece di questo cluster grafico appare dopo la lettera "s", come se fosse una singola lettera, una scelta analoga a quanto avviene in un dizionario di albanese con dh-, ë-, gj-, ll-, rr-, th-, xh- e zh- (tutti rappresentano fonemi e sono considerate lettere singole separate) che seguono rispettivamente le lettere d, e, g, l, n, r, t, x e z. Le parole tedesche con l'umlaut sono ordinate come se non l'avessero, a differenza del turco con i grafemi ö e ü, e dove una parola come "Tüfek" viene dopo "Tuz", nel dizionario. Un'eccezione si trova negli elenchi telefonici tedeschi dove le lettere con l'umlaut sono ordinate diversamente, considerando le vocali con dieresi come fossero seguite da "e" (es. ä = ae). Gli alfabeti danese e norvegese terminano con "æ", "ø", "å", considerate lettere distinte, come anche l'islandese, lo svedese e il finlandese, che convenzionalmente collocano le parole che iniziano con "å", "ä" e "ö" alla fine.

La famiglia delle scritture Brahmi usate in India usano un unico ordine basato sulla fonologia. Le lettere sono arrangiate secondo come e dove sono prodotte nel cavo orale. Questa organizzazione è usata anche nel Sud-est asiatico, in Tibet nell'hangŭl coreano, e anche nei sillabari kana giapponesi.

Gli alfabeti oggi

Alfabeti africani

Alfabeto ge'ez

Alfabeto N'Ko

Tifinagh

Alfabeti asiatici

Alfabeto arabo

Alfabeto avestico

Alfabeto ebraico

Alfabeto fenicio

Alfabeto gujarati

Alfabeto khmer

Alfabeto laotiano

Alfabeto mandaico

Alfabeto mongolo latino

Alfabeto persiano-arabo

Alfabeto tamil

Alfabeto thai

Alfabeto tibetano

Alfabeto ugaritico

Brahmi

Devanagari

Hangeul

Hiragana

Jawi

Katakana

Thaana

Zhuyin

Alfabeti europei

Alfabeto armeno

Alfabeto cirillico

Alfabeto georgiano

Alfabeto greco

Alfabeto latino

Alfabeti americani

Rongo rongo

Alfabeti speciali

Alfabeto fonetico internazionale

Alfabeto fonetico NATO

Alfabeto manuale

Alfabeto marittimo

Alfabeto Morse

Braille

Nova Help-Alfabeto

Alfabeti artificiali

Alfabeto Mandaloriano

Aurebesh

Belter Creole - Belta

Cirth

Sarati

Tengwar

Nascita e Storia della Scrittura.

Storia della scrittura. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

La storia della scrittura è, in primo luogo, lo sviluppo del linguaggio tramite tecnologie espresso con le lettere o altri segni, lo studio e la descrizione di questi sistemi.

Nella storia di come si sono evoluti i sistemi di rappresentazione del linguaggio attraverso mezzi grafici nelle diverse civiltà umane, appare che i sistemi di scrittura più completi sono stati preceduti da proto-scrittura, sistemi ideografici e/o all'inizio rappresentazione di simboli mnemonici.

La vera scrittura, in cui l'intero contenuto di un'espressione linguistica è codificato in modo che un altro lettore possa ricostruire, con un buon grado di precisione, l'esatta espressione scritta, è uno sviluppo successivo, e si distingue dalla proto-scrittura che evita in genere la codifica grammaticale delle parole, rendendo difficile o impossibile ricostruire con sicurezza l'esatto significato inteso dallo scrittore, a meno che una grande parte del contesto sia già nota in anticipo. Una delle prime forme di espressione scritta è quella cuneiforme.

Invenzione della scrittura

I Sumeri, un'antica civilizzazione del sud della Mesopotamia, forse inventori della scrittura intorno al 3400 a.C. 

La rappresentazione grafica dei numeri iniziò molto prima della scrittura della lingua.

È generalmente accettato che la vera scrittura della lingua sia stata inventata indipendentemente in almeno due luoghi: Egitto (coi proto-geroglifici) intorno al 3000 a.C., e in Mesoamerica intorno al 600 a.C. Sono noti diversi scritti mesoamericani, il più antico dei quali è degli Olmechi o Zapotechi del Messico.

Si è dibattuto se i sistemi di scrittura siano stati sviluppati in modo completamente indipendente in Egitto intorno al 3200 a.C. e in Cina intorno al 1200 a.C., o se la comparsa della scrittura in uno o entrambi i posti siano stati dovuti a diffusione culturale (cioè il concetto di rappresentazione del linguaggio utilizzando la scrittura, anche se non le specificità di come un tale sistema funzionasse, venne portato dai commercianti da una civiltà già alfabetizzata).

I caratteri cinesi sono molto probabilmente un'invenzione indipendente, perché non vi è alcuna prova di contatti tra la Cina e le civiltà letterate del Vicino Oriente, ed a causa delle differenze fra gli approcci di rappresentazione fonetica fra la Mesopotamia e la Cina. I geroglifici egizi sono dissimili dalla scrittura cuneiforme mesopotamica, ma somiglianti nei concetti e nella più antica attestazione suggeriscono che l'idea della scrittura possa essere arrivata in Egitto dalla Mesopotamia. Nel 1999 apparve su Archaeology un articolo che sosteneva il fatto che i primi geroglifici egiziani risalivano al 3200 a.C. "... sfidando la convinzione diffusa che i primi logogrammi, simboli pittografici che rappresentano un luogo specifico, un oggetto, o quantità, si siano evoluti in più complessi simboli fonetici in Mesopotamia."

Un dibattito simile circonda la scrittura dell'Indo dell'età del bronzo (civiltà della valle dell'Indo) nell'India antica intorno al 2200 a.C., con le riserve aggiuntive che la scrittura è ancora indecifrata e non è ancora chiaro se si tratta di una vera scrittura, o se invece sia una sorta di proto-scrittura o sistema di segni non linguistici.

Un'ulteriore possibilità è l'indecifrata Rongorongo, scrittura dell'Isola di Pasqua. Si è discusso se questo sia un vero sistema di scrittura, e se lo è, se è ancora un altro caso di diffusione culturale della scrittura. L'esempio più antico è, del 1851, 139 anni dopo il loro primo contatto con gli europei. Una spiegazione è che lo scritto sia stato ispirato dal proclama spagnolo che sanciva l'annessione dell'isola nel 1770.

Esistono diversi altri casi noti di diffusione culturale della scrittura, dove il concetto generale di scrittura è stato trasmesso da una cultura all'altra, ma le specifiche del sistema sono stati sviluppati in modo indipendente. Esempi recenti sono il sillabario Cherokee, inventato da Sequoyah, e il Pahawh Hmong sistema per scrivere la Lingua hmong.

Sistemi di scrittura

I sistemi di scrittura si distinguono dagli altri possibili segni di comunicazione simbolica che prevedono di solito la comprensione di qualcosa della lingua parlata per comprendere il testo. Al contrario, altri sistemi simbolici possibili come ad esempio pittura, mappe e matematica spesso non richiedono una preventiva conoscenza di una lingua parlata. Ogni comunità umana possiede una lingua, caratteristica considerata da molti come una condizione innata e definizione del genere umano (vedi Origine del linguaggio). Tuttavia lo sviluppo di sistemi di scrittura, e il processo attraverso il quale questi hanno soppiantato la tradizione orale di comunicazione è stato sporadico, irregolare e lento nel tempo. Una volta creati, i sistemi di scrittura hanno subito un cambiamento molto più lento rispetto ai loro omologhi parlati, e spesso hanno preservato caratteristiche ed espressioni non più attuali nella lingua parlata. Il grande vantaggio dei sistemi di scrittura è la loro capacità di mantenere una registrazione persistente di informazioni espresse in un linguaggio, che può essere recuperata indipendentemente dall'atto iniziale di formulazione.

Storia documentata

Gli studiosi fanno una distinzione fra preistoria e storia delle prime scritture, ma non sono d'accordo su quando la preistoria diviene storia e quando la proto-scrittura diviene "vera scrittura". La data è molto soggettiva. La scrittura, in linea generale, è un metodo di registrazione delle informazioni ed è composta da glifi (noti anche come grafemi).

L'emergere della scrittura in una data area è di solito seguito da diversi secoli di iscrizioni frammentarie. Con la presenza di testi coerenti (dai vari sistemi di scrittura e letteratura associata al sistema), gli storici segnano la "storicità" di quella cultura.

L'invenzione della scrittura non è stato un evento immediato, ma una lunga evoluzione preceduta dalla comparsa di simboli, possibilmente prima per scopi cultuali. Ricercatori canadesi della Università di Victoria suggeriscono che il simbolismo è stato utilizzato da pittori rupestri del Neolitico. "... von Petzinger e Nowell sono stati sorpresi dalla chiara modellazione dei simboli attraverso lo spazio e il tempo, alcuni dei quali rimasti costantemente in uso per oltre 20.000 anni. I 26 segni specifici possono fornire i primi barlumi di prova che un codice grafico è stato utilizzato da questi antichi esseri umani poco dopo il loro arrivo in Europa dall'Africa, o che possono avere portato anche questa pratica con loro. Se l'ipotesi è corretta, questi risultati contribuiranno al crescente numero di evidenze che testimoniano la "esplosione creativa" si è verificata decine di migliaia di anni prima di quanto gli studiosi pensassero".

Stadi evolutivi

Un convenzionale passaggio da "proto-scrittura" alla vera scrittura segue una serie generale di stadi di sviluppo che sono i seguenti:

Scrittura per immagini: glifi che rappresentano direttamente gli oggetti e le idee o situazioni oggettive e ideative. In relazione a questo sistema si possono distinguere i seguenti sub-stadi di sviluppo:

# Mnemonico: glifi principalmente come promemoria;nn

# Pittografico (pittografia): glifi che rappresentano direttamente un oggetto o una situazione oggettiva come (A) cronologia, (B) notizie, (C) comunicazioni, (D) emblemi, titoli e nomi, (E) religioni, (F) usanze, (G) storia e (H) biografia;

# Ideografico (ideografia): glifi rappresentanti un'idea;

Transizionali: glifi che non riguardano solo l'oggetto o l'idea che essi rappresentano, ma riferiti anche al loro nome;

Sistema fonetico: glifi che si riferiscono a suoni o simboli vocali indipendentemente dal loro significato. Questo si risolve nei seguenti sottostadi:

# Verbali: glifi (logogrammi) rappresentanti un'intera parola;

# Sillabici: glifi rappresentanti una sillaba;f

I più noti sistemi pittografici, ideografici e/o mnemonici, sono:

Jiahu, incisa su gusci di tartaruga a Jiahu, ca. 6600 a.C.

Vinča (tavolette di Tărtăria), ca. 5500 a.C.

Antica scrittura dell'Indo, ca. 3500 a.C.

Nel mondo antico, la vera scrittura si sviluppò dal neolitico alla prima età del bronzo (IV millen nio a.C.). La lingua sumera arcaica (pre-cuneiforme) ed i geroglifici egizi sono considerate le prime forme di scrittura, entrambe emerse dai propri simboli proto-letterari dal 3400–3200 a.C., con i primi testi coerenti da circa il 2600 v v

La letteratura e la scrittura, anche se ovviamente collegate, non sono sinonimi. I primi scritti degli antichi Sumeri non costituiscono la letteratura - lo stesso vale per alcuni dei primi geroglifici o delle migliaia di ideogrammi degli antichi cinesi. La storia della letteratura inizia con la storia della scrittura e la nozione di "letteratura" ha significati diversi a seconda di chi la utilizza. Gli studiosi sono in disaccordo riguardo a quando uno scritto divenne letteratura e questo criterio è in gran parte soggettivo. Esso può essere applicato in senso lato come qualsiasi documento simbolico, che comprende tutto, dalle immagini alle sculture e alle lettere. I testi letterari più antichi, che sono giunti fino a noi, risalgono ad un millennio abbondante dopo l'invenzione della scrittura, ovvero alla fine del III millennio a.C.. I primi autori letterari noti sono Ptahhotep e Enḫeduanna, risalenti a circa il XXIV e XXIII secolo a.C., rispettivamente. Nelle prime società alfabetizzate, trascorsero almeno 600 anni per la comparsa delle prime iscrizioni (circa 3200-2600 a.C.).

Luoghi e tempi

Proto-scrittura

Il primo sistema di scrittura della prima età del bronzo non fu un'invenzione improvvisa. Piuttosto, uno sviluppo basato su tradizioni precedenti di sistemi simbolici che non possono essere classificati come scrittura vera e propria, ma avevano molte caratteristiche sorprendentemente simili alla scrittura. Questi sistemi possono essere descritti come proto-scrittura. Usarono simboli ideografici e/o mnemonici per trasmettere informazioni ancora probabilmente prive di diretto contenuto linguistico. Questi sistemi emersero nei primi anni del neolitico, già a partire dal VII millennio a.C..

I segni Vinča iniziarono ad evolversi da semplici segni dal VII millennio a.C., aumentando di complessità nel VI millennio a.C. per culminare nelle tavolette di Tărtăria di circa il 5300 a.C. con righe di simboli allineati, evocanti l'impressione di un "testo".

La Tavoletta di Dispilio del tardo VI millennio a.C. è similare alla precedente. I geroglifici dell'antico Vicino Oriente (egizi, sumeri proto-cuneiformi e cretesi) emergono da tali sistemi di simboli, in modo che è difficile dire in quale punto la scrittura emerge dalla proto-scrittura. Si aggiunga a questa difficoltà il fatto che molto poco si sa circa i significati dei simboli.

Nel 2003, vennero trovati a Jiahu, nella provincia di Henan (nord della Cina), dei gusci di tartaruga con simboli incisi, in 24 tombe neolitiche scoperte a seguito di scavi archeologici. Secondo prove fatte con isotopi di radiocarbonio risalirebbero al VII millennio a.C. Secondo alcuni archeologi, i simboli incisi sulle conchiglie sono simili a quelli presenti sulle "ossa oracolo" risalenti al II millennio a.C. Altri hanno respinto questa affermazione in quanto non sufficientemente motivata, sostenendo che semplici disegni geometrici, come quelli che si trovano sulle conchiglie Jiahu non possono essere collegati a scritture antiche.

Anche dopo il Neolitico, diverse culture hanno attraversato un periodo di utilizzo di sistemi di proto-scrittura come fase intermedia prima dell'adozione della scrittura corretta. Lo "slavo pre-cirillico" (VII/VIII secolo), citato da alcuni autori medievali può essere stato un tale sistema. Il Quipu degli Incas (XVI secolo), a volte chiamato "nodi parlanti", potrebbe essere stato di natura analoga. Un altro esempio è il sistema di pittogrammi inventati da Uyaquk prima dello sviluppo del sillabario Yugtun (circa 1900).

Scrittura dell'età del bronzo

Nell'età del bronzo la scrittura emerse in molte culture nel mondo. Dalla scrittura cuneiforme dei Sumeri, ai geroglifici egizi e cretesi, ai logogrammi cinesi e alla scrittura degli Olmechi del Mesoamerica. La scrittura cinese si sviluppò, molto probabilmente, in maniera indipendente da quelle del Medio Oriente, intorno al 1600 a.C. Anche la scrittura pre-colombiana mesoamericana (comprendente quella degli Olmechi e dei Maya) si ritiene si sia sviluppata indipendentemente da quelle della Cina e del medio-vicino oriente. Si pensa che la prima vera scrittura alfabetica sia stata sviluppata intorno al 2000 a.C. dai lavoratori di origini semitiche del Sinai, dando valori semitici a molti glifi ieratici egiziani. Il sistema di scrittura Ge'ez dell'Etiopia è considerato semita, anche se è probabile che sia di origine semi-indipendente, avendo radici nel sistema Meroitico sudanese di ideogrammi. La maggior parte degli altri alfabeti nel mondo di oggi discendono da questa innovazione, molti attraverso l'alfabeto fenicio, o sono stati direttamente ispirati ad esso. Nel caso dell'Italia, trascorsero circa 500 anni tra il primo Vecchio alfabeto Corsivo e Plauto (750-250 a.C.), e nel caso dei popoli germanici, il corrispondente intervallo di tempo è simile, dal primo Fuþark antico ai testi iniziali, come l' Abrogans (circa 200-750).

Scrittura cuneiforme

Il sistema di scrittura sumera originale discende dal sistema dei ciottoli utilizzato per rappresentare le merci. Entro la fine del IV millennio a.C., questo si era evoluto in un metodo per tenere i conti, utilizzando uno stilo di forma circolare che imprimeva segni nell'argilla molle ad angoli differenti per registrare i numeri. Questo è stato gradualmente ampliato con la scrittura pittografica utilizzando uno stilo appuntito per indicare ciò che era stato contato. Il più antico documento del proto-cuneiforme pittofrafico è rappresentato dalla tavoletta di Kish, datata al periodo Uruk (ca. 3500–3200 a.C.). Lo stilo a punta arrotondata e quello a punta tagliente vennero gradualmente sostituiti intorno 2700-2500 a.C., utilizzando uno stilo a forma di cuneo (da qui il termine cuneiforme), in un primo momento solo per i logogrammi, ma sviluppato per includere elementi fonetici dal XXIX secolo a.C. Intorno al 2600 a.C. la scrittura cuneiforme iniziò a rappresentare le sillabe della lingua sumera che divenne poi un sistema di scrittura di uso generale per logogrammi, sillabe e numeri. Dal XXVI secolo a.C., questo sistema venne adattato alla lingua accadica, e da lì in altre come la lingua hurrita e quella ittita. Segni simili in apparenza a questo sistema di scrittura comprendono quelli per la lingua ugaritica e il persiano antico.

Geroglifici egiziani

La scrittura fu fondamentale nel mantenere coeso l'impero egiziano nel perdurare dei secoli e l'alfabetizzazione era riservata esclusivamente a gruppi di élite. Solo a persone di determinato rango era permesso studiare (sacerdoti al servizio del tempio e autorità militari). Il sistema geroglifico era difficile da imparare e nei secoli successivi potrebbe essere stato volutamente reso ancora più complesso per permetterne a pochi l'utilizzo e mantenere così lo status sociale.

Diversi studiosi ritengono che i geroglifici egiziani "nacquero un po' dopo l'alfabeto sumero, e probabilmente... [furono] ... inventati sotto l'influenza di quest'ultimo...", anche se è stato detto che "le prove di tale influenza diretta resta fragile" e che "è molto credibile che il loro sviluppo sia stato indipendente...".

Scrittura elamica

La non decifrata scrittura proto-elamica emerse intorno al 3200 a.C. e si crede si sia poi evoluta nel cosiddetto "elamico lineare" dalla fine del III millennio a.C.; l'elamico lineare venne poi sostituito dal cuneiforme elamico.

Scrittura dell'Indo

Sequenza di dieci segni indu scoperta presso la porta nord del sito indu di Dholavira

La scrittura dell'Indo della media età del bronzo, che risale all'antica Harappa intorno al 3000 a.C. nel nord ovest dell'India nell'odierno Pakistan, non è stata ancora decifrata. Non è chiaro se debba essere considerata un esempio di proto-scrittura (un sistema di simboli o simili), oppure se si tratta di scrittura vera e propria del tipo logografico-sillabico degli altri sistemi di scrittura dell'età del bronzo. Mortimer Wheeler riconosce lo stile di scrittura, come scrittura bustrofedica, dove "questa stabilità suggerisce una maturità precaria".

Geroglifici anatolici

I geroglifici anatolici sono una scrittura geroglifica indigena nativa della parte occidentale dell'Anatolia apparsa per la prima volta sui sigilli reali dei Luvi, nel XIV secolo a.C., utilizzati per registrare l'alfabeto luvio cuneiforme.

Scrittura cretese e greca

I geroglifici cretesi sono stati trovati su manufatti di Creta (dagli inizi alla metà del II millennio a.C., sovrapposti a scritture Lineare A). Il Lineare B, il sistema di scrittura della civiltà micenea, è stato decifrato mentre il Lineare A rimane ancora un mistero. La sequenza e la diffusione geografica dei tre sovrapposti, ma distinti, sistemi di scrittura possono essere riassunti come segue:

Sistema di scrittura

Area geografica Epoca[A 1] Geroglifici cretesi Creta ca. 1625−1500 a.C.

Lineare A Isole dell'Egeo (Kea, Kythera, Melos, Thera) e Grecia (Laconia) ca. XVIII secolo−1450 a.C.

Lineare B Creta (Cnosso), e (Pylos, Micene, Tebe, Tirinto) ca. 1375−1200 a.C.

Alfabeto semitico antico

Il primo puro alfabeto (propriamente, "abjad", come mappatura di singoli simboli per singoli fonemi, ma non necessariamente ogni fonema disponeva di un simbolo) emerse intorno al 1800 a.C., in Egitto, come rappresentazione del linguaggio sviluppato da lavoratori di origini semitiche in Egitto, ma da allora i principi alfabetici ebbero pochissime possibilità di essere inculcati nei geroglifici egiziani per più di un millennio. Questi primi abjad rimasero marginali per diversi secoli, e fu solo verso la fine dell'età del bronzo che la scrittura proto-sinaica sfociò nell'alfabeto proto-cananeo (ca. 1400 a.C.) Sillabario di Biblo e alfabeto sud arabico (ca. 1200 BC). Il proto-cananeo era probabilmente in qualche modo influenzato dall'indecifrato sillabario di Biblo, a sua volta ispirato all'alfabeto ugaritico (ca. 1300 a.C.).

Scrittura cinese

In Cina, gli storici hanno imparato molto sulle antiche dinastie cinesi dai documenti scritti. Dalla dinastia Shang, la maggior parte di queste scritture è sopravvissuta giungendo a noi incisa su ossa o su manufatti in bronzo. Ma anche tramite incisioni su gusci di tartaruga, o jiaguwen, sono attestate dalla fine della dinastia Shang (1200-1050 a.C.). La scrittura dell'antica dinastia Shang è la diretta genitrice dei moderni caratteri cinesi usati in tutto l'est dell'Asia (Cina, Corea, Giappone e Vietnam).

Mesoamerica

Nello stato messicano di Veracruz è stata ritrovata una lastra di pietra con incise scritture risalenti a 3000 anni addietro, esempio di antica scrittura zapoteca risalente a prima dell 500 a.C.

Delle diverse scritture pre-colombiane del Mesoamerica, l'unica che appare ben sviluppata e completamente decifrata e quella Maya. Le prime iscrizioni che sembrano potersi attribuire ai Maya datano al III secolo a.C., e continuarono ad essere usate fino a poco tempo dopo l'arrivo dei conquistatori spagnoli nel XVI secolo. La scrittura maya impiegava logogrammi completati da una serie di glifi sillabici, in qualche modo simili alla scrittura giapponese moderna.

Scrittura dell'età del ferro

L'alfabeto fenicio è semplicemente la continuazione del proto-cananeo nell'età del ferro (convenzionalmente assunta come data limite nel 1050 a.C.). Questo alfabeto ha dato origine all'alfabeto aramaico ed a quello greco. Questi a loro volta hanno portato ai sistemi di scrittura utilizzati in tutte le regioni che vanno dall'Asia occidentale verso l'Africa e l'Europa. Da parte sua l'alfabeto greco ha introdotto per la prima volta i simboli espliciti per suoni vocalici. Gli alfabeti greco e latino, nei primi secoli dell'era volgare, hanno dato luogo a diverse scritture europee come il runico, il gotico e il cirillico, mentre l'alfabeto aramaico evolvette nell'ebraico, nel siriaco e nell'arabo abjads mentre l'alfabeto sud-arabico ha dato luogo al Ge'ez abugida. La famiglia di scritture Brahmi dell'India, secondo alcuni studiosi deriverebbe anch'essa dall'alfabeto aramaico

Scrittura nella civiltà greco-romana

Dalla storia dell'alfabeto greco, risulta evidente che i greci presero in prestito l'alfabeto fenicio adattandolo alla loro lingua.] Le lettere dell'alfabeto greco sono le stesse di quello fenicio, ed entrambi gli alfabeti sono strutturati nello stesso ordine. Coloro che adattarono il sistema fenicio aggiunsero tre lettere alla fine della serie, chiamate "supplementari". Presto si svilupparono diverse varianti dell'alfabeto greco. Una, conosciuta come greco occidentale o calcidese, fu utilizzato a occidente di Atene e nel Sud Italia. L'altra variante, nota come greco orientale, venne utilizzato nell'attuale Turchia e dagli Ateniesi, e alla fine dal resto del mondo che parlava greco. Dopo la prima scrittura da destra a sinistra, i greci alla fine scelsero di scrivere da sinistra a destra, a differenza dei Fenici che scrivevano da destra a sinistra. Il greco è a sua volta la fonte di tutti i moderni alfabeti d'Europa.

Il più diffuso discendente del greco fu l'alfabeto latino, dal nome dei Latini, un popolo italiano che venne a dominare l'Europa, con l'ascesa di Roma. I Romani impararono a scrivere intorno al V secolo a.C. dalla civiltà etrusca, che usava una serie di scritture italiche derivate dai greci occidentali. A causa del predominio culturale dell'impero romano, le altre scritture italiche sparirono e la lingua etrusca è in gran parte andata perduta.

Le scritture italiche ispirarono l'alfabeto runico, che fu alla base della scrittura inglese. Questa però era ancora rara fino al VI secolo, quando la lingua latina e il suo sistema di scrittura vennero portati in Gran Bretagna da Agostino di Canterbury insieme alla religione cristiana. I sovrani sassoni adattarono rapidamente la scrittura alla propria lingua, producendo uno dei primi corpus superstiti della letteratura europea in una lingua diversa dal greco o dal latino.

Scrittura durante il Medioevo

Con la caduta dell'Impero romano d'Occidente, lo sviluppo della letteratura rimase confinato nell'Impero Romano d'Oriente e nell'Impero Persiano. Il latino, mai una delle lingue letterarie primarie, ridusse rapidamente la sua importanza (ad eccezione all'interno della Chiesa di Roma). Le lingue letterarie primarie erano greco e persiano, anche se altre lingue, come il siriaco e il copto, erano molto importanti.

La crescita di importanza dell'Islam nel VII secolo portò alla rapida ascesa dell'arabo come grande lingua letteraria nella regione. Arabo e persiano cominciarono rapidamente a mettere in ombra il ruolo del greco come lingua degli studiosi. La scrittura araba venne adottata come la principale dalla lingua persiana e da quella turca. Questa scrittura influenzò fortemente lo sviluppo del corsivo greco, le lingue slave, il latino e altre lingue. La lingua araba servì anche a diffondere il sistema numerale indo-arabico in tutta l'Europa. All'inizio del secondo millennio la città di Cordova nella Spagna moderna, era diventata uno dei più importanti centri intellettuali del mondo e possedeva la più grande biblioteca del mondo di quel tempo. La sua posizione di crocevia tra il mondo cristiano occidentale e quello islamico contribuì ad alimentare lo sviluppo intellettuale e la comunicazione scritta tra le due culture.

Dal XII secolo in poi, dapprima nelle città dell'Italia centrale e settentrionale, per poi espandersi in tutta l'Europa centrale e settentrionale, l'uso della scrittura era funzionale all'espansione commerciale, e il crescente alfabetismo soprattutto in ambiti mercantili, e andava di pari passo con un ciclo congiunturale di lunga durata e con l'intensificarsi delle forme di comunicazione.

Rinascimento ed era moderna

Con l'avvento del XIV secolo, una rinascita, o Rinascimento, emerse in Europa occidentale, portando ad una ripresa temporanea dell'importanza del greco e ad una lenta rinascita del latino come lingua letteraria significativa. Una simile anche se più piccola emergenza si era verificata in Europa orientale, in particolare in Russia. Allo stesso tempo, l'arabo e il persiano iniziarono un lento declino di importanza a seguito della fine dell'epoca d'oro islamica. Il rilancio dello sviluppo letterario in Europa occidentale portò a molte innovazioni nell'alfabeto latino e la diversificazione dell'alfabeto a codificare le fonologie delle varie lingue.

La natura della scrittura ha subito una continua evoluzione, soprattutto a causa dello sviluppo di nuove tecnologie nel corso dei secoli. La penna, la tipografia, il computer e il telefono cellulare sono gli sviluppi tecnologici che hanno modificato ciò che è scritto, e il mezzo attraverso il quale si produce la parola scritta. In particolare con l'avvento delle tecnologie digitali, vale a dire il computer e il telefono cellulare, i caratteri possono essere digitati con la pressione di un pulsante, piuttosto che con il movimento fisico della mano.

La natura della parola scritta si era evoluta nel tempo per far posto a uno stile colloquiale scritto informale, dove una conversazione di tutti i giorni può avvenire attraverso la scrittura, piuttosto che tramite il parlato. La comunicazione scritta può anche essere consegnata con un minimo tempo di ritardo (e-mail, SMS), e, in alcuni casi, con un ritardo impercettibile (messaggistica istantanea). Socialmente, la scrittura è vista come un mezzo autorevole di comunicazione, dalla documentazione legale, dal diritto e dei media tutti prodotti attraverso il mezzo tecnologico. La crescita dell'alfabetizzazione multimediale può essere vista come il primo passo verso una società post-letterata.

Materiali per la scrittura

Non vi è alcuna informazione molto precisa del materiale che era di uso più comune ai fini della scrittura all'inizio dei primi sistemi di scrittura..

La consuetudine di incidere su pietra o metallo o altro materiale resistente ha assicurarato la permanenza delle registrazioni, mentre legno o le cordicelle annodate quipu in materiali deperibili sono andate distrutte.

Gli incisori egiziani avevano cura di lisciare la pietra prima di riempire le parti difettose con gesso o cemento, per ottenere una superficie perfettamente uniforme sulla quale eseguire le loro incisioni. Metalli come quelli impiegati per la costruzione delle monete sono menzionati come materiali di scrittura; fra questi piombo, rame e oro. Esistono anche riferimenti all'incisione di monili, sigilli, guarnizioni.

I materiali più comuni di scrittura erano le tavolette e i rotoli; le prime probabilmente di origine caldea, i secondi utilizzati dagli egiziani. Le tavolette dei Caldei sono tra i più notevoli dei loro resti. Ci sono pervenuti piccoli pezzi di argilla, un po' rozzamente modellati in una forma simile a un cuscino, e fittamente incisi con caratteri cuneiformi. Uso simile si è trovato in cilindri cavi, o prismi di sei o otto facce, realizzati in terra cotta, spesso smaltata, in cui i caratteri sono stati tracciati con un piccolo stilo, in alcuni esemplari così minuziosamente da poter essere decifrati solo con l'aiuto di una lente di ingrandimento.

In Egitto il materiale di scrittura principalmente usato era di natura diversa. Sono state trovate tavolette di legno raffigurate sui monumenti, ma il materiale che era in uso comune, anche da tempi molto antichi, era il papiro. Questa canna, che si trova soprattutto nel Basso Egitto, ha dato diversi mezzi economici per la scrittura. Il midollo veniva asportato e diviso, in pezzi sottili, da uno strumento appuntito, e quindi schiacciato e le strisce incollate insieme; altre strisce venivano disposte perpendicolarmente ad esse, in modo da fabbricare un rotolo di qualsiasi lunghezza. La scrittura sembra sia diventata più diffusa in Egitto con l'invenzione del papiro. Che questo materiale era in uso in Egitto da un periodo molto antico è attestato dai papiri ancora esistenti delle prime dinastie tebane. Il papiro, essendo molto richiesto ed esportato in ogni parte del mondo, divenne molto costoso, quindi vennero trovati altri materiali, tra cui la pelle di animali, dato che pelli di animali sono state trovate nelle tombe. La pergamena, realizzata da pelli di pecora dopo la rimozione del pelo, era a volte più conveniente rispetto al papiro, che doveva essere importato dall'Egitto. Con l'invenzione della carta, fabbricata con cascami di canapa e cotone dapprima e poi con pasta di legno (cellulosa), il costo del materiale di scrittura iniziò un declino costante.

Scritture di genere

Sono noti storicamente linguaggi e scritture di genere: in Cina il Nü shu, sistema esclusivo delle donne basato sulla trascrizione fonetica dei suoni dal cinese; le donne di corte dei Sumeri usavano l'Emesal o fine idioma.

La Scrittura. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

La scrittura è la fissazione di uno o più segni linguistici in una forma esterna più o meno durevole.

Nelle scritture alfabetiche diventa rappresentazione grafica della lingua parlata, per mezzo di un insieme di segni detti grafemi che compongono qualsiasi sistema di scrittura inscindibilmente legato al rispettivo sistema di lettura. I grafemi denotano sovente suoni o gruppi di suoni.

A differenza del linguaggio parlato che fa parte della natura umana per cui sono state sviluppate strutture biologiche specifiche, la scrittura è un processo tecnologico non necessariamente presente in tutte le culture; essa resta comunque un modo fondamentale di comunicazione umana ed è il mezzo finora più efficace per la conservazione e la trasmissione della memoria storica.

In un senso più ampio, si definisce dunque scrittura ogni mezzo che permette la trasmissione durevole di informazioni, che sia o no rappresentazione grafica del parlato, come accade nelle scritture della musica, dell'algebra, della chimica, della cartografia e altri.

Ricostruzione tradizionale e interpretazioni recenti

Tradizionalmente l'inizio della registrazione in forma scritta dei linguaggi verbali è stata collocata dagli storici intorno al 3200 a.C. nella Bassa Mesopotamia dove sarebbe sorta per ragioni di amministrazione, contabilità e commercio. Oggi questo fatto è pensato come il frutto di un processo meno puntuale, meno "fatale". Si sa ormai con certezza che già nel Paleolitico esistevano diversi sistemi per dare consistenza e far perdurare le conoscenze. Si tratta di "scrittura per immagini, senza parole". La stessa scrittura cuneiforme ha un fortissimo collegamento con le prime registrazioni su sigilli e cretule. Tali sistemi di registrazione rappresentano "il coronamento del processo di specializzazione lavorativa e di spersonalizzazione dei rapporti lavorativi e redistributivi", processo preceduto e provocato dal forte incremento dell'agricoltura, dalla rivoluzione urbana e dal coagularsi di un coordinamento statale per la messa in opera delle canalizzazioni che, con l'impiego di un enorme numero di giornate lavorative, permisero di sfruttare sempre più efficacemente i terreni dell'alluvio mesopotamico.

Non solo si è cercato di rintracciare nel contesto del Vicino Oriente antico le premesse forti della scrittura cuneiforme, ma si è anche indagato su altri centri dove la scrittura si sia potuta sviluppare indipendentemente. Sul fatto che l'America centrale, culla delle civiltà mesoamericane a partire dal 600 a.C., possa essere annoverato tra questi centri c'è un ampio consenso nella comunità scientifica, molto più dubbia è invece la natura delle incisioni Rongorongo rinvenute sull'Isola di Pasqua. Particolarmente fruttuose sono state le intuizioni di Marija Gimbutas e le sue indagini sui sistemi di registrazione su terrecotte in uso nei Balcani già tra il 6000 e il 5000 a.C. (cultura di Vinča), dove però, a differenza che nel Vicino Oriente, la scrittura si sarebbe sviluppata a scopi cultuali, in particolare per i riti legati alla Dea Madre. Tali scritture, precedenti il primo apparire delle cosiddette popolazioni indoeuropee, sono datate tra il 5400 e il 4000 a.C. Sono state avanzate ipotesi secondo cui le forme di registrazione di Vinča avrebbero influenzato la scrittura cuneiforme, mentre più probabile sembra un'influenza diretta sulla Lineare A cretese (II millennio a.C.) e la scrittura sillabica di Cipro.

Impatto sulla società

La scrittura sembra dunque aver avuto diverse origini, tanto in senso geografico quanto in senso funzionale. Il significato antropologico di questa fondamentale "invenzione" è quantomeno ambivalente: da un lato essa rappresenta la radice dei concetti moderni di "universalità", "razionalità" e "scienza" in quanto rende possibile un confronto (articolato come mai prima) tra conoscenze di diversa natura e origine. Dall'altro contiene "elementi angusti di specializzazione e di separazione funzionale", in quanto (così certamente almeno nel Vicino Oriente antico) essa prende piede come strumento di affermazione e realizzazione dei progetti di una specifica classe umana, espressione del polo palatino-templare, che si compone di un clero specializzato (mentre prima il culto era domestico e gestito in casa) e di un potere regale, impegnato a gestire lo sforzo della ridefinizione infrastrutturale della piana alluvionale mesopotamica nel segno di una sempre più forte diseguaglianza sociale. La scrittura, nei tempi della sua piena affermazione, si manifesta dunque come tecnica specializzata di altissimo prestigio, al pari (e anche più) di altre forme di specializzazione (l'artigianato) e in contrapposizione con quel sapere diffuso e senza potere contrattuale che è quello dei coltivatori diretti.

Sistemi logografici, sillabici e alfabetici

Un'altra linea di sviluppo tradizionalmente articolata dagli storici è quella che ordina in serie cronologica i sistemi logografici (ad un segno corrisponde una parola), quelli sillabici (ad un segno corrisponde una sillaba) e quelli alfabetici (ad un segno corrisponde un suono). Questa linea evolutiva va considerata con qualche distinzione: molti segni del sistema logografico egizio dei geroglifici possedevano valenza fonetica; a tutt'oggi, forme di registrazione logografica (come il sistema numerico) non hanno certo perso importanza, mentre cinesi e giapponesi moderni resistono con forza ad adottare sistemi alfabetici, il che, piuttosto che far pensare al timore di rompere con una antichissima tradizione, rinvia ad "una costante per tutte le civiltà dotate di scrittura, e cioè la forte interdipendenza fra scrittura, immaginario e forme della vita materiale".

L'invenzione dell'alfabeto, in questa lettura, non risulta più una conseguenza scontata a partire dalle premesse logografiche e sillabiche, ma un'"emergenza, imprevedibile e feconda", non a caso portata avanti da due popoli, Fenici e Greci, concentrati sul protagonismo commerciale, sulla non territorialità, sul "ruolo di interfaccia fra l'Oriente asiatico e l'Occidente mediterraneo".

Primati

Come accennato, la ricostruzione tradizionale dell'origine della scrittura individuava la Mesopotamia come fulcro iniziale[8]: l'invenzione della scrittura in quei luoghi, a partire dai sistemi di identificazione (prima il sigillo "come strumento di convalida e garanzia", poi la cretula, un blocco di argilla la cui rottura evidenziava l'effrazione della serratura di un magazzino o l'apertura di un vaso) avrebbe poi sollecitato un simile sviluppo nell'antico Egitto e, 1500 anni dopo, in modi meno definiti, in Cina, dove la scrittura era utilizzata come strumento divinatorio. Tale impianto interpretativo, maggioritario negli anni sessanta e di cui è responsabile soprattutto Ignace Jay Gelb (che non considerava i geroglifici maya come una scrittura vera e propria), è stato per lo più abbandonato:

i geroglifici maya sono ormai unanimemente considerati una scrittura a tutti gli effetti

conoscendo via via meglio la preistoria cinese si tende ad escludere un collegamento con il Vicino Oriente

in Egitto certi esempi di scrittura sembrano precedere quella mesopotamica

È insomma possibile che "le scritture sumerica, egizia, cinese e maya siano state tutte create in risposta a esigenze locali e senza che ci sia stata un'influenza da parte di sistemi di scrittura stranieri".

Importanza della scrittura

«Senza la scrittura le parole non hanno presenza visiva, possono solo essere "recuperate", "ricordate".» (Walter J. Ong)

L'avvento della scrittura, secondo Jack Goody, ha permesso un "addomesticamento del pensiero" tale da consentire processi quali l'astrazione, la formalizzazione, la logica, l'analisi, la classificazione, la sintesi e l'ipotesi (e quindi la formazione di nuove teorie).

Rispetto a culture in cui l'oralità è più diffusa della scrittura, grazie a essa è quindi possibile l'innovazione, l'oggettività e il distacco.

La scrittura ha portato anche a una perdita dell'importanza della memoria, lo dimostra ad esempio il fatto che per i cittadini dei Paesi Occidentali è assai difficile ricordare i nomi degli avi, mentre nelle società a oralità diffusa questa è una forte necessità per dimostrare il possesso di una proprietà.

La lettura, rispetto alla trasmissione orale, è un processo soggettivo che prevede una metabolizzazione privata, riflessiva e libera delle conoscenze (libro come mediatore della conoscenza). Inoltre la scrittura può permettere di legare il pensiero concreto (legato all'esperienza), al pensiero astratto.

Si ritiene che l'avvento della scrittura abbia condotto l'umanità non solo alla letteratura, alla poesia, al progresso ma anche a sentimenti come l'individualismo e il nazionalismo. Una figura come l'artista individuale, il poeta, è impensabile in una società a oralità diffusa; mentre in una società in cui è diffusa la scrittura il plagio diviene un reato e ciò che si scrive può portare alla censura e alla persecuzione.

Infine senza la scrittura le grandi religioni non avrebbero avuto lo stesso tipo di sviluppo perché sarebbe stata impossibile la presenza dei testi sacri.

Sistemi di scrittura

Lo stesso argomento in dettaglio: Sistema di scrittura.

La scrittura avviene tramite l'uso di un codice, un sistema di scrittura, che consiste di grafemi (segni grafici che rappresentano delle unità linguistiche) e regole per combinarli. Tra le classificazioni dei sistemi di scrittura più largamente condivise c'è quella basata sull'unità linguistica che viene rappresentata dai grafemi del sistema; si possono quindi individuare in linea di massima cinque tipi di sistema:

sistemi logografici: dove sono rappresentati morfemi e parole

sistemi sillabici e abugida: in cui sono rappresentate le sillabe

abjad e alfabeti: nei quali i grafemi rappresentano singoli foni o fonemi.

Alcuni sistemi di scrittura

Scritture non lineari

Per definizione, sono non lineari le scritture per la cui annotazione non vengono usate delle linee scritte, ma oggi si tende a contestare questo concetto. Sono infatti inclusi in questo gruppo anche vari codici e crittografie, dove solitamente i segni sono comunque normali lettere o numeri, ma con senso alterato.

Anche la scrittura Braille per non vedenti potrebbe venir inclusa tra i normali alfabeti, in quanto a ogni suono corrisponde un apposito segno. Viene invece inclusa nelle scritture non lineari solo in quanto il sostrato (la carta) non viene “scritto” ma “perforato”, per cui delle “linee” non sono possibili.

Analogamente nella scrittura Morse che pure potrebbe rientrare nelle scritture alfabetiche, manca l'azione dello “scrivere” in quanto i segni vengono originati da una “pressione” sul tasto apposito.

Rientra nella categoria anche la comunicazione a mezzo di bandiere usata perlopiù in marina, la più moderna tra le scritture ideografiche. Ma anche in questo caso viene a mancare l'accezione di “scrivere”.

Quella che più si avvicina alla definizione è la scrittura della musica. I segni delle note non si possono definire un alfabeto o dei logografi, ma costituiscono un validissimo mezzo di scrittura. Solo che sono usabili unicamente in musica, non servono cioè per annotare delle parole (sistema scrittorio parziale come la matematica).

In tutti questi casi si tratta dunque solo di supporti per l'annotazione di certe informazioni, e non di espressioni grafiche del linguaggio. Nell'accezione di scrittura quale mezzo di registrazione storica, cioè per la conservazione di dati, questi sistemi non sono neanche accettabili tra le “scritture".

Tecniche moderne di annotazione

Come detto sopra, l'uso della scrittura fu il primo modo di comunicazione e, più tardi, il mezzo principale per la registrazione e la conservazione di dati. Oggi sono a disposizione altre possibilità sia di comunicazione sia di testimonianza storica: stenografia, dattilografia, registrazione su nastro magnetico o su supporto digitale certamente non costituiscono una vera e propria scrittura, ma la sostituiscono egregiamente.

Sebbene probabilmente anche i libri verranno sostituiti da archivi elettronici, presumibilmente conterranno delle parti di testo. La notazione elettronica del testo si basa su una codifica di caratteri, dove ogni carattere o segno di interpunzione viene rappresentato da un codice numerico univoco.

Le codifiche storicamente più usate sono ASCII e EBCDIC, che sono però limitate nel numero dei caratteri rappresentabili. Per questo motivo è stata sviluppata la codifica Unicode, oggi usata dalla maggior parte dei sistemi informativi, in grado di rappresentare decine di migliaia di caratteri differenti, potenzialmente tutti quelli esistenti in tutti gli alfabeti vivi o morti che siano.

Scrittura digitale

È possibile creare cartelle e file illimitati quasi istantaneamente, quindi l'ordinamento è molto semplice. Ogni file ha un nome, quindi è chiaro quale sia quel file che si sta cercando; e quei nomi possono sempre essere cambiati. I file possono essere facilmente spostati in diverse aree del computer. Poiché i file sono digitali, non c'è ingombro fisico a differenza dei taccuini, dei fogli e dei quaderni.

Sebbene a volte le caselle di testo siano un'opzione, non forniscono la stessa personalizzazione quanto la scrittura a mano. Un foglio di carta può essere scritto da qualsiasi parte, si possono aggiungere disegni e abbozzi dovunque e con il proprio stile senza alcun limite.

Le persone possono collaborare allo stesso documento come accade in Google Docs, oppure i file possono essere inviati via email e/o SMS rapidamente.

Può essere costoso. I computer e i tablet possono variare da centinaia di dollari o euro a migliaia.

La digitazione è più veloce. La scrittura a mano può richiedere molto tempo.

Poiché è un metodo più veloce e gli studenti tendono ad ascoltare passivamente le lezioni e digitare tutto ciò che sentono, non devono passare attraverso il processo di selezione del contenuto importante per la trascrizione come farebbero con la scrittura a mano poiché è più lento.

Possibilità di backup e copie di riserva infinite di ciò che si scrive. La scrittura a mano prevede solo fotocopie di ciò che si scrive come "backup".

Scrittura limitata alla durata della batteria del dispositivo.

Possibilità di smarrimento di ciò che si scrive molto rara. Perdere un file è molto più difficile che smarrire un foglio di carta o un quaderno o un blocco.

Secondo alcuni studi impugnare una penna stimola la creatività e rafforza la memoria molto più della scrittura digitale.

Si può sempre stampare ciò che si è scritto e renderlo cartaceo. Mentre al contrario digitalizzare la scrittura a mano prevede la riscrittura del testo da zero su un dispositivo digitale.

Secondo alcuni studi è più importante per i bambini e gli adolescenti utilizzare le penne per iniziare a scrivere rispetto al digitale.

Interpretare la scrittura a mano di altre persone può essere difficile e impegnativo. La scrittura digitale non lascia spazio a dubbi su ciò che viene scritto.

Secondo Benedetto Vertecchi, professore di Pedagogia all'Università di Roma Tre, la scrittura a mano aumenterebbe la capacità di linguaggio nei bambini, permettendo loro di esprimere pensieri più riflessivi e ragionati.

Correzione automatica degli errori e completamento automatico delle parole.

Possibili distrazioni date dal dispositivo durante la scrittura (SMS e mail ricevuti, notifiche, avvisi, eccetera)

Ciò che si è scritto, una volta finito il testo, si può formattare in molti modi diversi (cambiare dimensione, colorare, sottolineare, creare link, aggiungere immagini e tabelle eccetra).

Se il dispositivo per qualsiasi motivo si danneggia durante la scrittura o l'utente si dimentica il salvataggio del file, tutto ciò che viene scritto andrà perso.

Filografia

La filografia (termine composto da philos e graphia: Propr. "amore per la scrittura") è lo studio e collezionismo di tutte le tracce relative alla scrittura, dai caratteri sumeri alle lettere inviate nello spazio, dalle pergamene medievali alla dematerializzazione della parola scritta nei messaggi di posta elettronica e nel linguaggio degli SMS.

Il Corsivo e lo Stampatello.

Scrittura Corsiva e Stampatello.

Scrittura corsiva Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Scrittura corsiva o semplicemente corsivo è il nome che si dà a un tipo di scrittura dal tracciato rapido che nasce dalla semplificazione delle scritture a lettere staccate («stampatello»). La scrittura corsiva può interessare tanto le lettere maiuscole (inserite dunque in un sistema bilineare) quanto le minuscole (inserite in un sistema quadrilineare).

Storia

Numerosi tipi di scritture e di alfabeti hanno forme di scrittura semplificata. Per esempio, la scrittura ieratica e demotica rappresentano un'evoluzione corsiva della scrittura geroglifica egizia.

Nel mondo semitico nordoccidentale la scrittura semitica monumentale si "corsivizzò" quando venne utilizzata da scribi che usavano pennelli su papiro o pergamena. L'alfabeto arabo nacque da una versione «corsiva» di tale alfabeto, elaborata per l'aramaico nabateo, ed è perciò priva di una vera scrittura in «stampatello».

Altri corsivi vennero usati per il greco dei papiri.

Sebbene sia un fenomeno poco noto, già in età romana si svilupparono delle forme di corsivo, del quale molti esempi sono giunti fino a noi grazie ai graffiti sui muri di Pompei. Il corsivo di quell'epoca è praticamente illeggibile per chi conosce solamente la versione moderna, nonostante si tratti dello stesso alfabeto; inoltre, variava lievemente da città a città.

L'attuale scrittura corsiva per l'alfabeto latino nacque nel tardo Medioevo per opera degli Umanisti ed ebbe una rapida e duratura espansione in tutta Europa. È caratterizzata da una sobria eleganza, da una chiara leggibilità e dalla rapidità. Agli albori del XVI secolo il tipografo bolognese Francesco Griffo se ne servì per creare lo stile di carattere noto come corsivo, chiamato all'estero italico (tranne che in Spagna, dov'è noto come letra grifa).

Fino al XX secolo la scrittura corsiva è stata usata sia per la letteratura sia per i rapporti commerciali; oggi è usata prevalentemente per la scrittura personale.

La scrittura corsiva viene appresa durante il primo percorso scolastico.

Il corsivo è uno stile di calligrafia in cui i simboli della lingua sono scritti in modo congiunto e / o scorrevole, generalmente allo scopo di rendere la scrittura più veloce. Questo stile di scrittura è distinto dalla "scrittura stampata" che utilizza caratteri in stampatello, in cui le lettere di una parola sono disconnesse e sono in forma di lettera romana / gotica piuttosto che con caratteri uniti. Non tutti i quaderni corsivi uniscono tutte le lettere: il corsivo formale è generalmente unito, ma il corsivo casuale è una combinazione di unioni e alzate di penna. In arabo, siriaco, latino e alfabeti cirillici, molte o tutte le lettere di una parola sono collegate (mentre altre no), a volte facendo di una parola un unico tratto complesso. In corsivo ebraico e corsivo romano, le lettere non sono collegate. In Maharashtra esiste una versione del corsivo chiamata "modi".

Sottoclassi

Legatura

La legatura prevede che le lettere delle parole si scrivano con linee che collegano le lettere in modo che non sia necessario prendere la penna o la matita tra le lettere. Comunemente alcune delle lettere sono scritte in modo loop per facilitare i collegamenti. Nei testi greci stampati comuni, i moderni caratteri minuscoli sono chiamati "corsivi" (al contrario di onciali) sebbene le lettere non si colleghino.

Corsivo

La calligrafia italica divenne popolare nel Rinascimento italiano del XV secolo. Il termine "corsivo" in quanto si riferisce alla scrittura a mano non deve essere confuso con le lettere digitate in corsivo. Molte, ma non tutte, le lettere nella grafia del Rinascimento furono unite, poiché la maggior parte è oggi in corsivo corsivo.

Origine

Le origini del metodo corsivo sono associate ai vantaggi pratici della velocità di scrittura: il raro sollevamento della penna e l'adattamento ai limiti di essa. Le penne utilizzate in passato erano fragili, si rompevano facilmente e si rischiava di far schizzare l'inchiostro se non venivano usate correttamente. Inoltre, esaurivano l'inchiostro più velocemente della maggior parte degli strumenti di scrittura contemporanei. Le penne a immersione in acciaio sviluppatesi successivamente erano più robuste, ma avevano ancora alcune limitazioni. Anche l'individualità della provenienza di un documento era un fattore, al contrario del carattere della macchina.

Il corsivo era preferibile perché lo strumento di scrittura veniva raramente sollevato dal foglio. Il termine "corsivo" deriva dal francese medio "cursif" (che viene a sua volta dal latino medievale "corsivus") che letteralmente significa "correre". Questo termine a sua volta deriva dal latino currere ("correre, affrettarsi"). Nonostante l'uso del corsivo sembrasse essere in declino, ultimamente esso è stato recuperato.

Romano

Il corsivo romano è una forma di scrittura a mano (o scrittura) usata nell'antica Roma e in una certa misura nel Medioevo. È abitualmente diviso in corsivo vecchio (o antico) e corsivo nuovo. Il corsivo romano antico, chiamato anche corsivo maiuscolo, era la forma quotidiana di scrittura a mano usata per scrivere lettere, dai commercianti che scrivevano conti di affari, dagli scolari che imparavano l'alfabeto latino e persino dagli imperatori che impartivano comandi. New Roman, chiamato anche minuscolo corsivo o più tardi corsivo, sviluppato dal vecchio corsivo. È stato utilizzato approssimativamente dal III secolo al VII secolo e utilizza forme di lettere che sono più riconoscibili agli occhi moderni; "a", "b", "d" ed "e" hanno assunto una forma più familiare, e le altre lettere sono proporzionate l'una all'altra piuttosto che variare selvaggiamente in dimensione e disposizione su una linea.

Greco

L'alfabeto greco ha avuto diverse forme corsive nel corso del suo sviluppo. Nell'antichità, una forma corsiva di scrittura a mano era usata per scrivere su papiro. Impiegava forme di lettere inclinate e parzialmente collegate, nonché molte legature. Alcune caratteristiche di questa calligrafia furono successivamente adottate nella minuscola greca, la forma dominante di scrittura a mano nel medioevo e all'inizio dell'era moderna. Nel diciannovesimo e ventesimo secolo, fu sviluppata una forma completamente nuova di greco corsivo, più simile alle scritture corsive dell'Europa occidentale contemporanea.

Europa occidentale

Inglese

La scrittura corsiva era usata in inglese prima della conquista normanna. Le carte anglosassoni in genere includono una clausola limite scritta in inglese antico in uno script corsivo. Uno stile di scrittura corsivo - mano da segretario - era ampiamente utilizzato sia per la corrispondenza personale che per i documenti ufficiali in Inghilterra dall'inizio del XVI secolo.

La grafia corsiva si è sviluppata in qualcosa che si avvicina alla sua forma attuale dal XVII secolo, ma il suo uso non era né uniforme, né standardizzato né in Inghilterra né altrove nell'impero britannico. Nelle colonie inglesi dell'inizio del XVII secolo, la maggior parte delle lettere sono chiaramente separate nella grafia di William Bradford, sebbene alcune fossero unite come in una mano corsiva. Nella stessa Inghilterra, Edward Cocker aveva iniziato a introdurre una versione dello stile ronde francese, che fu poi ulteriormente sviluppato e reso popolare in tutto l'impero britannico nel XVII e XVIII secolo come mano tonda da John Ayers e William Banson.

Nelle colonie americane, alla vigilia della loro indipendenza dal Regno di Gran Bretagna, è degno di nota che Thomas Jefferson si unì alla maggior parte, ma non a tutte, le lettere durante la stesura della Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti. Tuttavia, pochi giorni dopo, Timothy Matlack ha riscritto professionalmente la copia di presentazione della Dichiarazione in una mano corsiva completamente unita. Ottantasette anni dopo, a metà del XIX secolo, Abraham Lincoln redasse il discorso di Gettysburg in una mano corsiva che oggi non sarebbe fuori luogo.

Non tutti questi corsivi, allora o adesso, univano tutte le lettere all'interno di una parola.

Sia nell'impero britannico che negli Stati Uniti nel XVIII e XIX secolo, prima della macchina da scrivere, i professionisti usavano il corsivo per la loro corrispondenza. Questo è stato chiamato "mano leale", il che significa che sembrava buono, e le aziende hanno addestrato i loro impiegati a scrivere esattamente nello stesso copione.

Dopo gli anni sessanta, è riemerso un movimento originariamente iniziato da Paul Standard negli anni trenta per sostituire il corsivo in loop con la calligrafia corsiva in corsivo. Era motivato dall'affermazione che l'istruzione corsiva era più difficile del necessario: che il corsivo convenzionale (in loop) non era necessario ed era più facile scrivere in corsivo corsivo. Per questo motivo, sono apparse diverse nuove forme di corsivo corsivo, tra cui Getty-Dubay e Barchowsky Fluent Handwriting. Nel XXI secolo, alcuni degli stili di scrittura corsivi sopravvissuti sono Spencerian, Palmer Method, D'Nealian e Zaner-Bloser.

Tedesco

Fino al XIX secolo la Kurrent (nota anche come corsivo tedesco) era usata per la scrittura manuale corrente. La Kurrent non è stata utilizzata esclusivamente, ma piuttosto in parallelo al corsivo moderno (che è lo stesso del corsivo latino). Gli scrittori usavano entrambi gli stili corsivo: posizione, contenuto e contesto determinavano quale stile usare. Un successore della Kurrent, la Sütterlin, fu ampiamente utilizzato nel periodo 1911-1941 fino a quando il partito nazista la bandì insieme al suo equivalente stampato, la Fraktur. I tedeschi cresciuti con la Sütterlin continuarono a usarla anche nel dopoguerra.

Oggi tre diversi stili di scrittura corsiva vengono insegnati nelle scuole tedesche, la Lateinische Ausgangsschrift (introdotta nel 1953), la Schulausgangsschrift (1968) e la Vereinfachte Ausgangsschrift (1969). L'Unione nazionale tedesca degli insegnanti della scuola primaria ha proposto di sostituire tutti e tre con la Grundschrift, una forma semplificata di stampatello minuscolo adottata dalle scuole di Amburgo.

Stati Uniti

Una delle prime forme di nuova tecnologia che ha causato il declino della scrittura a mano è stata l'invenzione della penna a sfera, brevettata nel 1888 da John Loud. Due fratelli, László e György Bíró, hanno ulteriormente sviluppato la penna modificando il design e utilizzando inchiostro diverso che si asciugava rapidamente. Con il loro design, era garantito che l'inchiostro non avrebbe sbavato, come sarebbe accaduto con il precedente design della penna, e non era più necessaria l'accurata calligrafia che si sarebbe usata con il vecchio design della penna. Dopo la seconda guerra mondiale, la penna a sfera fu prodotta in serie e venduta a un prezzo basso, cambiando il modo in cui le persone scrivevano. Il corsivo è stato successivamente influenzato da altre tecnologie come il telefono, il computer e la tastiera.

Il corsivo è stato in declino durante il XXI secolo a causa della sua percepita mancanza di necessità. La Fairfax Education Association, il più grande sindacato degli insegnanti della contea di Fairfax, in Virginia, ha definito il corsivo "arte morente". Molti considerano il corsivo troppo noioso da imparare e credono che non sia un'abilità utile.

Al SAT 2006, un esame di ammissione all'istruzione post-secondaria degli Stati Uniti, solo il 15% degli studenti ha scritto le risposte al saggio in corsivo. Tuttavia, gli studenti potrebbero essere scoraggiati dall'usare il corsivo nei test standardizzati a causa degli esami scritti con una grafia difficile da leggere che ricevono voti più bassi, e alcuni valutatori potrebbero avere difficoltà a leggere il corsivo.

Nel 2007, secondo un sondaggio su 200 insegnanti di prima e terza elementare in tutti i 50 stati americani, il 90% degli intervistati ha affermato che le loro scuole richiedevano l'insegnamento del corsivo.

Un'indagine a livello nazionale nel 2008 ha rilevato che gli insegnanti delle scuole elementari non avevano una formazione formale nell'insegnamento della scrittura a mano agli studenti. Solo il 12% degli insegnanti ha riferito di aver seguito un corso su come insegnarlo.

Nel 2012, gli stati americani dell'Indiana e delle Hawaii hanno annunciato che alle loro scuole non sarà più richiesto di insegnare in corsivo (ma sarà ancora autorizzato a farlo), e invece sarà richiesto di insegnare "competenza con la tastiera". Dalla proposta a livello nazionale dei Common Core State Standards nel 2009, che non includono l'istruzione in corsivo, gli standard sono stati adottati da 44 stati a partire da luglio 2011, i quali hanno discusso se aumentarli con il corsivo.

Sforzi di conservazione e benefici cognitivi

Molti documenti storici, come la Costituzione degli Stati Uniti, sono scritti in corsivo: l'incapacità di leggere il corsivo impedisce quindi di essere in grado di apprezzare appieno tali documenti nel loro formato originale. Nonostante il declino nell'uso quotidiano del corsivo, viene reintrodotto nel curriculum delle scuole negli Stati Uniti. Stati come California, Idaho, Kansas, Massachusetts, North Carolina, South Carolina, New Jersey e Tennessee hanno già imposto il corsivo nelle scuole come parte del programma Back to Basics progettato per mantenere l'uso della scrittura corsiva. L'applicazione del corsivo è richiesta dalla quinta elementare dell'Illinois, a partire dall'anno scolastico 2018-2019. Le Hawaii e l'Indiana hanno sostituito l'istruzione corsiva con "competenza con la tastiera e altri 44 stati stanno attualmente valutando misure simili".

Con l'uso diffuso dei computer, i ricercatori hanno deciso di testare l'efficacia di entrambi i mezzi. Uno studio condotto da Pam Mueller che ha confrontato decine di studenti che hanno preso appunti a mano e tramite computer portatile ha mostrato che gli studenti che hanno preso appunti a mano (sebbene il documento non specifichi se stessero usando il corsivo) hanno mostrato vantaggi sia nell'apprendimento fattuale che concettuale. Un altro studio condotto da Anne Mangen ha mostrato un'accelerazione nell'apprendimento di nuove parole quando venivano scritte a mano invece che sullo schermo di un computer. Imparare a scrivere in corsivo è ritenuto (da chi lo pratica) un trampolino di lancio per lo sviluppo di una scrittura a mano pulita e in un terzo studio condotto dalla Florida International University la professoressa Laura Dinehart ha concluso che gli studenti con una calligrafia più ordinata tendono a sviluppare una migliore abilità di lettura e scrittura, anche se è difficile concludere il nesso di causalità di tale associazione. A parte questi benefici cognitivi, gli studenti con dislessia, che hanno difficoltà ad imparare a leggere perché il loro cervello ha difficoltà ad associare suoni e combinazioni di lettere in modo efficiente, hanno scoperto che il corsivo può aiutarli con il processo di decodifica perché integra la coordinazione occhio-mano, abilità motorie fini e altre funzioni cerebrali e di memoria. Tuttavia, gli studenti con disgrafia possono essere penalizzati o addirittura ostacolati dall'uso del corsivo.

Cinese

Le forme corsive dei caratteri cinesi sono usate nella calligrafia; "scrittura in esecuzione" è la forma semi-corsiva e "scrittura grezza" (erroneamente chiamata "scrittura erbosa" a causa di un'errata interpretazione) è il corsivo. L'aspetto corrente di questa scrittura ha più a che fare con la formazione e la connessione dei tratti all'interno di un carattere individuale che con le connessioni tra i caratteri come nel corsivo connesso occidentale. Questi ultimi sono rari nell'hanzi e nei caratteri kanji giapponesi derivati che di solito sono ben separati dallo scrittore.

Corsivo. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

In tipografia il corsivo, detto anche aldino (dall'ideatore Aldo Manuzio), è uno stile di carattere contraddistinto da una leggera inclinazione delle lettere verso destra. Nasce per imitazione della scrittura a mano. In francese è chiamato italique, in inglese italic, mentre in tedesco è reso col termine Kursivschrift.

Un insieme di caratteri tipografici comprende generalmente tre stili: il tondo, il grassetto e il corsivo.

Storia

Santa Caterina da Siena, Epistole, Venetia, in casa de Aldo Manutio Romano, a di XV septembrio 1500. Tavola illustrata in cui compaiono le prime parole in assoluto stampate in corsivo: iesus, all'interno del cuore nella mano sinistra e iesu dolce iesu amore all'interno del libro nella mano destra.Una visione comune di quando utilizzare il corsivo e il testo in grassetto. Un'ulteriore opzione per enfatizzare è usare le maiuscole per far risaltare una parola o un nome.

Il corsivo è detto anche aldino perché fu introdotto per la prima volta da Aldo Manuzio. Disegnato e realizzato dal bolognese Francesco Griffo, si ispirò alla scrittura corsiva di Poggio Bracciolini (1380-1459), che a sua volta emulava la scrittura carolina. Lo scopo era quello di ottenere una scrittura compatta che si accompagnasse a uno stile facilmente leggibile.

Le prime prove del corsivo furono effettuate nell'anno 1500. Le prime parole in assoluto stampate con il nuovo stile ("Jesu dolce Jesu amore") comparvero all'interno di un'illustrazione alle Epistole di Santa Caterina da Siena. L'opera omnia di Virgilio (Venetiis, ex aedibus Aldi Romani, mense Aprili 1501) fu il primo libro stampato interamente in corsivo. Il volume inaugurò allo stesso tempo la serie degli enchiridi in ottavo, libri contenenti la trattazione completa di un certo argomento e soprattutto di formato rivoluzionario per materie profane, alla base del libro moderno. Il corsivo aldino divenne il modello per gli stili di corsivo.

Utilizzo comune

Enfasi: "Bianchi non è stato l'unico colpevole, è vero". Per enfatizzare un concetto espresso nella frase;

I titoli di opere dell'ingegno, come libri (I promessi sposi), periodici (Oggi), dipinti, film, opere teatrali, album musicali, programmi televisivi, vanno scritti in corsivo. Invece il corsivo è usato in alternativa alle virgolette per i titoli di parti di opere, ovvero delle opere che compaiono all'interno di opere più grandi, come racconti, poesie, articoli di rivista, a seconda delle norme redazionali delle varie case editrici o dei manuali di stile; lo stesso vale per canzoni ed episodi di serie televisive. Diversamente avviene nella tradizione anglosassone, in cui i titoli di parti di opere si scrivono tra virgolette per distinguerli da quelli delle opere che li contengono, scritti in corsivo.

I nomi delle navi: "l'Amerigo Vespucci ha salpato la scorsa notte".

Parole straniere, inclusa la nomenclatura binomiale latina nella tassonomia degli organismi viventi: "Fu servito uno splendido coq au vin"; "Homo sapiens".

I nomi delle società di giornali e riviste: "La mia rivista preferita è Oggi, e il mio giornale preferito è La Tribuna".

Citare una parola come esempio di una parola piuttosto che per il suo contenuto semantico: "La parola il è un articolo".

Utilizzare una lettera o un numero menzionato come se stesso:

Christian era seccato; avevano di nuovo dimenticato la h nel suo nome.

Quando ha visto il suo nome accanto all'1 in classifica, ha finalmente avuto la prova che era la migliore.

Introduzione o definizione di termini, soprattutto tecnici o usati in modo insolito o particolare: "La psicologia freudiana si basa su Io, Super-io ed Es."; "Un numero pari è un multiplo di 2."

A volte nei romanzi per indicare il processo di pensiero di un personaggio: "Non può succedere, pensò Anna".

I simboli algebrici (costanti e variabili) sono convenzionalmente scritti in corsivo: "La soluzione è x = 2". Lo stesso vale per i simboli di grandezze fisiche e per le costanti matematiche: "La velocità della luce, c, è approssimativamente uguale a 3,00 × 10 8 m / s."

In biologia, i nomi dei geni (ad esempio, lacZ) sono scritti in corsivo mentre i nomi delle proteine sono scritti in caratteri romani (ad esempio β-galattosidasi, che il gene lacZ codifica).

Utilizzo più complesso

Corsivo inclinato a sinistra

Un carattere Didone corsivo "inclinato all'indietro o a sinistra", realizzato per essere utilizzato dalla fonderia Figgins di Londra.

Il corsivo inclinato a sinistra è ora raro nei caratteri latini, dove viene utilizzato principalmente come effetto occasionale per attirare l'attenzione. Erano ancora una volta comuni, tuttavia, essendo usati ad esempio nei documenti legali. Sono più comuni nella scrittura araba.

In alcuni caratteri arabi (ad esempio Adobe Arabic, Boutros Ads), il carattere corsivo ha la parte superiore della lettera inclinata a sinistra, invece di inclinarsi a destra. Alcune famiglie di caratteri, come Venus, Roemisch, Topografische Zahlentafel, includono caratteri e lettere inclinati a sinistra progettati per la produzione di mappe cartografiche tedesche, anche se non supportano i caratteri arab.

Negli anni cinquanta Gholamhossein Mosahab ha inventato Iranic font style, una forma corsiva inclinata all'indietro per andare con la direzione da destra a sinistra della scrittura.

Corsivo diritto

Poiché il corsivo ha un aspetto chiaramente diverso dal tondo e dal grassetto, è possibile avere disegni in "corsivo diritto", cioè caratteri che hanno uno stile corsivo ma rimangono in posizione verticale. Nelle lingue espresse in caratteri latini, il corsivo diritto è raro ma a volte viene utilizzato in matematica o in testi complessi in cui una sezione di testo già in corsivo necessita di uno stile "doppio corsivo" per aggiungere enfasi. Computer Modern di Donald Knuth ha un corsivo in posizione verticale come alternativa al corsivo standard, in quanto la sua destinazione d'uso è la composizione matematica.

Le famiglie di tipi di carattere con un corsivo in posizione verticale o quasi verticale comprendono solo Romanée di Jan van Krimpen, Joanna di Eric Gill, FF Seria di Martin Majoor e Deepdene di Frederic Goudy. Il popolare carattere tipografico del libro Bembo è stato venduto con due corsivi: un disegno ragionevolmente semplice che è comunemente usato oggi e un disegno alternativo "Corsivo condensato" verticale, molto più calligrafico, come alternativa più eccentrica. Questo corsivo, disegnato da Alfred Fairbank, è stato denominato "Bembo Condensed Italic", Monotype series 294. Alcuni stampatori, influenzati dal movimento Arts and Crafts, come Gill, resero anche il sistema corsivo originale del corsivo minuscolo solo dal XIX secolo in poi.

Falso corsivo

L'obliquo (o tondo inclinato) è un carattere inclinato, ma privo di lettere corsive, con la f non discendente e la a della stessa forma di quella tonda, a differenza del corsivo vero e proprio. Molti caratteri senza grazie usano disegni obliqui invece che corsivi; alcuni hanno sia la variante corsiva che obliqua. I progettisti di caratteri hanno descritto il carattere obliquo come meno calligrafico del corsivo, che in alcuni testi può essere preferito.

Soluzioni alternative al corsivo

Nei media pre-digitali in cui il corsivo non esiste, sono adottate le seguenti soluzioni alternative:

Nel testo dattiloscritto o scritto a mano, viene generalmente utilizzata la sottolineatura;

Nei file in testo non formattato (o "puro") sui computer e sui dispositivi mobili, comprese le comunicazioni tramite posta elettronica, le parole in corsivo sono spesso indicate circondandole con barre o altri delimitatori corrispondenti. Per esempio:

Ero /davvero/ infastidito.

Mi hanno >completamente< dimenticato!

Non ebbi _niente_ a che fare con ciò. (Comunemente interpretato come sottolineatura, che è un'alternativa al corsivo.)

Era *assolutamente* orribile. (Comunemente interpretato come grassetto. Questo e l'esempio precedente significano corsivo in Markdown.)

Dove il corsivo non indica enfasi, ma segnala un titolo o dove viene citata una parola, le virgolette possono sostituirlo:

La parola "il" è un articolo.

Il termine "numero pari" si riferisce a un numero multiplo di 2.

Il romanzo "Il Barone rampante" è stato scritto da Italo Calvino.

OpenType

OpenType ha il tag ital per sostituire un carattere in corsivo con un singolo carattere. Inoltre, la variazione dei caratteri OpenType ha un asse ital per la transizione tra le forme corsivo e non corsivo e un asse slnt per l'angolo obliquo dei caratteri.

Pagine web

In HTML, l'elemento <i> viene utilizzato per produrre testo in corsivo (o obliquo). Quando l'autore vuole indicare un testo enfatizzato, i moderni standard sul web consigliano di utilizzare l'elemento <em>, perché comunica che il contenuto deve essere enfatizzato, anche se non può essere visualizzato in corsivo. Al contrario, se il corsivo è puramente ornamentale piuttosto che significativo, le pratiche di markup semantico imporranno che l'autore utilizzi la dichiarazione Cascading Style Sheetsfont-style: italic; insieme a un nome di classe semantico appropriato invece di un elemento <i> o <em>.

Differenze tra scrivere in corsivo o stampatello. E’ importante? Pubblicato il 10 Dicembre 2014 Aggiornato il 13 Ottobre 2020 di Dr.

Differenze tra scrivere  corsivo e stampatello. E’ importante?

Molto spesso mi viene chiesto di spiegare quali sono le differenze tra scrivere corsivo e in stampatello. Bene, sappiate che tra un po’ si potrebbe dire addio a queste possibilità.  Già da ora, addio, Scrivere per  la Finlandia. Il Paese con uno dei sistemi educativi più avanzati al mondo, ha deciso di mandare definitivamente in soffitta gli arnesi della bella calligrafia che fu dei nostri nonni e genitori e in parte è ancora nostra (per i nostri figli è tutto da vedere!). Da agosto 2016 nessun bambino finlandese imparerà più a scrivere le lettere dell’alfabeto una legata all’altra, ma solo in stampatello, con i caratteri lì belli chiari per tutti, facili da scrivere e soprattutto da leggere. E al posto delle lezioni di calligrafia si imparerà a battere sul computer. Così ha deciso l’Istituto Nazionale di Educazione finlandese: con buona pace dei tanti argomenti e dei tanti studi di psicologi e pedagogisti che dimostrano come il scrivere corsivo serva a sviluppare precise capacità cognitive nei bambini….. da: Corriere della Sera.

Alcune considerazioni .

Potremmo pensare che in fondo la notizia che arriva dalla Finlandia non ci riguarda più di tanto. Un po’ perché abbiamo problemi più seri di quello di scrivere corsivo o in stampatello e  poi,  la Finlandia è così  lontana e  da sempre fa parte di  una sfera socio politica che non ci appartiene, quella filo-sovietica.  E poi, a pensarci bene,   in fondo  non  sarebbe così male che anche per  i nostri  bambini,    invece di perdere tempo a scrivere corsivo e male,  facessero  qualcosa di più utile: imparare quanto prima ad usare il computer. Siamo sicuri?

Ma è così importante scrivere corsivo?

 Personalmente penso che quella del Corriere  sia veramente una brutta, bruttissima notizia.  La sento come un atto pericoloso, violento quanto lo è ogni volontà di omologazione delle persone che  viene dall’alto. Per me c’è un tentativo  di riduzione  ad un solo modello sociale,  attraverso l’appiattimento di ogni   differenza  e  peculiarità personale.

Solo perché hanno dato indicazione di scrivere corsivo?

Chi fa una proposta del genere deve paradossalmente aver capito bene quanto sia utile,  evolutiva  e  differenziante   la scrittura.

Imparare a scrivere corsivo è   imparare piano, piano ad esistere. Nella scrittura disegniamo noi stessi,  diamo forma alle nostre caratteristiche personali più profonde. La scrittura non solo racconta,  ma ci racconta,  ci rappresenta come siamo e chi siamo  ben oltre la nostra volontà. Lo  studio dei caratteri psicologici,  volutivi e inconsci della scrittura da parte del grafologo si caratterizza nella lettura e  misurazione di ben oltre 200 segni. Ad esempio, si valuta se la scrittura è modello, anti modello, piccola, grande, rigida,  fluida, retta, inclinata, a sinistra a destra,   gli spazzi, la distanza tra le righe, la distanza tra le lettere, la lunghezza di queste, la forma delle lettere “g”. Si valuta  a che altezza viene fatto il trattino della “t”, quanto questo è lungo, se mettiamo e come mettiamo i puntini sulle “i”,   la forma delle “o”, delle “a”, della “b”, della “p”, della “l”,   l’inclinazione della riga, gli spazzi a destra, a sinistra, sopra, sotto,  etc, etc e,  alla fine, ogni singolo dato viene  elaborato,  e  ne esce un referto che non è un giudizio  ma una valutazione  di quanto siamo drammaticamente  complessi ma, meravigliosi.

Cosa ci dice la grafologia

La grafologia ci dice quali sono le nostre potenzialità ma anche i limiti e le difese psicologiche. Essa ci permette di fare uno studio delle attitudini ad un determinato lavoro o scolastiche, ma anche la compatibilità di una coppia e poi, le nostre possibilità a stare in gruppo e il ruolo che ci compete in questo. Essa ci racconta in maniera quasi stupefacente di quale sia la nostra carica libidica, su che cosa sia indirizzata  e delle sue difficoltà e deviazioni. E’ possibile valutare la predisposizione alla generosità ma anche la  “tendenza al furto” o la possibilità o meno del soggetto a gestire la propria aggressività.  Insomma la grafologia è un test di personalità eccezionale.  Va  precisato però che questo studio, ma soprattutto la differenziazione e lo sviluppo dei caratteri personali dello scrivente, è possibile solo quando si scrive corsivo.  E’ li,  dove ognuno è se stesso.

Che vuol dire scrivere solo in stampatello?

Scrivere in stampatello è come indossare una divisa. Con lo stampatello siamo un po’ tutti uguali, un po’ tutti dei soldatini.

Ho tentato di dimostrare  questa inscindibile connessione fra scrittura e psiche analizzando i caratteri grafologici della firma di Mirò, il grande pittore catalano,   nel lavoro che ho pubblicato: “Mirò: Il disegno come scrittura dell’inconscio”. Certamente lui aveva capito questo potente legame tra noi e la nostra scrittura.

Rompere questo legame impedendo ai bambini di conoscerlo e svilupparlo, di scrivere corsivo, significa ostacolare la differenziazione delle personalità,  l’individuazione.  Significa amputare possibilità creative specifiche con la volontà  forse, di andare sempre più verso un mondo,  non tanto dei computers ma di soldatini,  o meglio, di robots. Dr. Zambello su zambellorenzo.it

Medico Psicoterapeuta Psicoanalista Junghiano di Novara

Gli alunni, lo stampatello e il corsivo (ormai quasi scomparso) Di Mario Bocola su tecnicadellascuola.it il 22/02/2023

È ormai conclamato che gli alunni non conoscono più la grafia in corsivo e quando scrivono lo fanno solo in stampatello.

Infatti, quando scrivono in corsivo la loro grafia diventa pressoché indecifrabile, indefinibile, priva degli spazi: anzi le parole vengono scritte tutte unite, prive di punteggiatura, di maiuscole, minuscole. Insomma la scrittura dei nostri alunni è soltanto un guazzabuglio grafico, perché non sono più abituati fin dalle scuole primarie a confrontarsi con un testo scritto, non si esercitano più nella scrittura corretta e, quindi, arrivano alle scuole superiori, dopo i tre anni della scuola media, che non sanno scrivere in corsivo e la loro produzione è soltanto in carattere stampatello.

Inoltre non sanno più impugnare bene la penna, quasi sembra che, invece della penna, i nostri alunni impugnino una “zappa”, facciano un lavoro pesante quando devono scrivere, una fatica enorme!

Certamente l’uso quotidiano della tastiera del PC o dello smartphone ha provocato una regressione o meglio un utilizzo distorto della grafia. È vero che la tastiera offre un modo più rapido, istantaneo di scrittura con correzione automatica degli errori, ma è altrettanto vero che la scuola ha il dovere di fare abituare gli alunni all’uso corretto della grafia facendo capire loro la distinzione tra la scrittura corsiva e quella in stampatello.

Il testo digitale non deve in alcun modo sostituire la scrittura a mano anzi la deve soltanto accompagnare e i nostri alunni devono essere in grado di saper impugnare bene la penna e di produrre una grafia leggibile, decifrabile con la giusta spaziatura tra le parole.

Questo compito è affidato ovviamente alla scuola primaria, ossia a quel segmento di scuola, che deve essenzialmente lavorare sulla plasticità del cervello degli alunni, in quanto nei primi anni di scuola l’alunno conosce e costruisce la sua identità e nel contempo genera un suo modo personale di scrittura.

Inoltre nella scuola media occorre abituare gli alunni a prendere appunti durante la lezione, a scrivere riflessioni personali sul diario, ad annotare qualsiasi cosa perché questi processi aiutano la mente a ricordare, a fissare i concetti nel tempo.

Scrivere a mano produce sentimenti, emozioni, ricordi, sensazioni che mettono in stretta correlazione cervello e mano, in quanto il pensiero elaborato nella mente corre veloce attraverso l’impugnatura della penna e la mano decodifica il nostro pensiero attraverso la scrittura e ciò favorisce molto la memorizzazione.

Invece l’uso della tastiera è tutt’altro che emozionale, è arido, spoglio, distaccato in quanto produce soltanto un qualcosa di istantaneo, di labile, di non sedimentarsi affatto nel tempo e nello spazio. Fatto sta che esiste una grande disaffezione a potenziare da parte degli alunni l’abilità della scrittura e delle sue diverse forme e questo si ripercuote molto anche sull’uso corretto della lingua italiana.

Anche quando due alunni sono seduti sullo stesso banco non dialogano: si scambiano le “emoticon”, perché non sanno più elaborare un pensiero scritto, bensì denotano frammentarietà e povertà culturale. E di questo passo siamo destinati all’oblio, ad avere alunni senza emozioni e al tramonto inesorabile della scrittura bella, organica, compiuta.

Precisiamolo ancora meglio. Un tempo a scuola si scriveva in corsivo e fin dalle scuole elementari gli insegnanti ci facevano scrivere in corsivo. Ora questo metodo di scrittura è quasi scomparso.

La stragrande maggioranza degli alunni, durante le verifiche scritte, adopera lo stampatello e addirittura appone la propria firma anch’essa in stampatello.

Il corsivo ha una lunga storia nella nostra scrittura che risale al IV-V secolo. Dobbiamo far riscoprire a scuola l’importanza dello scritto in corsivo, del modo corretto dell’impugnatura della penna. Gli studenti di oggi scrivono poco e, quindi, fanno molta fatica a scrivere. Quasi la scrittura sia diventata un “lavoro forzato”, un impegno gravoso cui gli alunni non sono più abituati.

Gli insegnanti di tutto il primo ciclo d’istruzione dovrebbero far esercitare molto i propri alunni all’utilizzo del corsivo attraverso un costante lavorio di scrittura. Insomma correggere un compito in stampatello è veramente brutto.

I laboratori di scrittura creativa sarebbero un’ottima palestra per abituare gli alunni alla reinvenzione del metodo di scrittura in corsivo che sta diventando, col passare degli anni, una cosa rara. Mario Bocola

La Dattilografia.

Dattilografia. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

La dattilografia (dal greco dáctylos = dito e graphía = scrittura) è la tecnica e la pratica della scrittura mediante l'uso di una macchina per scrivere (o, più in generale, di una tastiera).

La dattilografia è anche una disciplina professionale completa che ha avuto una grande evoluzione ed è entrata in ogni settore, in ogni lavoro d'ufficio e spesso, negli scorsi decenni, in associazione alla stenografia, al calcolo a macchina, alle tecniche della duplicazione ed alla contabilità meccanizzata.

Storia

La sua nascita risale alla seconda metà dell'Ottocento quando, in seguito alla produzione e commercializzazione delle prime macchine per scrivere della Remington & Son di Ilion, New York (il Mod. 1, presentato all'Esposizione Internazionale di Filadelfia, è del 1876) si intravede un nuovo modo di scrivere e comunicare ed una reale risposta alla necessità di presentare, archiviare e conservare dei testi non più manoscritti, ma sempre più simili a quelli tipografici.

Dattilografa di fine Ottocento al lavoro

L'ingresso e la diffusione della macchina per scrivere negli uffici più progrediti dell'Ottocento rende quindi indispensabile la ricerca di personale capace di utilizzarla al meglio per battere dei testi sotto dettatura o scritti da altri in forma di bozze. In tal modo alla professione del calligrafo subentra pian piano quella del dattilografo. Sono soprattutto le donne che la esercitano, loro che per la prima volta hanno la possibilità di lavorare negli uffici, con l'opportunità di far carriera, ed iniziare una qualche forma di emancipazione dalla famiglia o da lavori sottopagati o poco gratificanti.

Le continue innovazioni tecnologiche portano ad una crescita e ad una continua evoluzione della dattilografia con conseguenti modifiche nel modo di operare del dattilografo.

Così con l'avvento delle macchine per scrivere elettriche dotate dei primi automatismi il lavoro dell'operatore dattilografo viene di gran lunga facilitato e gli viene consentito di aumentare progressivamente la velocità di battitura senza venir meno alla precisione di battuta. Maggiore velocità viene consentita dalle macchine elettroniche; la possibilità di modificare il carattere (inizialmente mediante la pallina o sfera ed in seguito con la margherita) permette di personalizzare ulteriormente lo scritto; la stampa diventa silenziosa con l'introduzione della testina a getto d'inchiostro.

Il passaggio a macchine con righe di memoria e poi ai primi sistemi di videoscrittura permette di rivedere, per eventuali correzioni e prima ancora della stampa, il testo appena digitato, dà la possibilità di stampare lo stesso scritto dopo aver effettuato le modifiche necessarie, porta all'abbandono progressivo dei sistemi di correzione e dell'uso della carta carbone per le copie multiple.

Descrizione

Utilizzo

La diffusione del personal computer e l'uso sempre crescente della posta elettronica, dei forum, delle chat, dei blog hanno portato un gran numero di persone ad utilizzare la tastiera con particolare frequenza e costanza, e non solo per esigenze lavorative, ma anche per il tempo libero. Una buona conoscenza della dattilografia risulta a maggior ragione indispensabile per poter sfruttare al meglio le potenzialità dell'elaboratore. È necessaria, inoltre, una grande conoscenza del mezzo e delle possibilità che esso offre per ottenere buoni risultati. Fioriscono nuove scuole, anche on line, che propongono corsi di dattilografia al computer, spesso anche in abbinamento a programmi che consentono l'apprendimento del metodo di scrittura a tastiera cieca.

Sin dagli esordi della dattilografia studenti e professionisti hanno posto a confronto le loro abilità dattilografiche ed a tutt'oggi sono ancora tanti i giovani che partecipano ai campionati regionali e nazionali di Dattilografia e di Trattamento testi su personal computer, dimostrando gli alti livelli raggiunti.

La dattilografia viene sempre più utilizzata nelle disabilità visive come metodologia riabilitativa (basta la tastiera di un personal computer ed un supporto di sintesi vocale), in aggiunta o in sostituzione della Dattilobraille, della Lettura e scrittura Braille, della Lettura e scrittura con Ingranditore Ottico, ecc. In tal modo permette di accedere con facilità ai vari ausilii informatici, anzi la sua conoscenza viene considerata requisito indispensabile e propedeutico per il loro accesso.

Insegnamento

Le prime scuole per l'insegnamento della dattilografia nascono in America nel 1881 ed in pochissimi anni si registra un gran numero di provetti dattilografi.

Anche in Italia, seppure in ritardo, vengono modificati i piani di studi scolastici ed introdotte nuove discipline per preparare alle nuove professionalità emergenti.

Così alla Legge Casati del 1859 (che indicava lo studio della calligrafia quale requisito indispensabile per l'inserimento nel mondo del lavoro amministrativo) subentra la Riforma Gentile con il Regio Decreto 6/5/1923 n. 1054 che istituisce la Dattilografia quale materia d'esame negli Istituti Tecnici, e poi la Legge 15 giugno 1931 n. 889 - Riordinamento dell'istruzione Media Tecnica che introduce nelle scuole ad indirizzo commerciale l'insegnamento della Dattilografia.

Seguono a questi altri interventi normativi che danno prima maggiore e poi minor peso alla disciplina sia in ambito di istruzione che lavorativo.

Metodologia

La base fondamentale dello scrivere a macchina è la diteggiatura che ha il fulcro nella corretta posizione che l'operatore deve assumere davanti alla macchina, nell'uso del metodo di scrittura a tastiera cieca con esercizi graduali di apprendimento.

Solo in questo modo si può ottenere un'adeguata preparazione del dattilografo che deve utilizzare correttamente la tastiera con estrema precisione di scrittura, acquisire sempre maggior velocità di scrittura mantenendo un ritmo costante, utilizzare le regole di impaginazione dei documenti che devono risultare validi, sia dal punto di vista tecnico-pratico sia da quello estetico, e rispondere alle reali esigenze del lavoro. Si pone in tal modo la necessità di una didattica dattilografica tendente a sviluppare non solo tecnica, uniformità di battuta e ritmo, ordine e precisione, ma anche senso creativo ed estetico. La dattilografia assume quindi anche il ruolo di attività estetica ed espressiva.

Con l'avanzamento della tecnologia sono stati messi a punto vari metodi, sempre con l'intento di facilitare il lavoro dell'operatore (ad es. con l'ausilio del mouse o il riconoscimento vocale) e sempre maggiori sono i legami con i resocontisti ed i sottotitolatori, professionalità attualmente in crescita.

Schema di tastiera QWERTY usata generalmente nei Personal computer

I metodi utilizzati per l'apprendimento della dattilografia sono stati nel tempo adattati anche alle macchine calcolatrici ed oggi, che le macchine per scrivere sono cadute praticamente in disuso, la Dattilografia originaria ha lasciato il posto al Trattamento testi con il Personal computer e l'uso di programmi di videoscrittura. Viene confermata in tal modo la sua integrazione con l'informatica. Attualmente quindi la scrittura dattilografica va intesa anche solo in relazione ad una tastiera.

Le basi della scrittura a tastiera cieca risultano quanto mai valide anche con la tastiera estesa del computer. Questo metodo di scrittura viene tuttora insegnato in varie scuole.

La Stenografia.

Stenografia. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

La stenografia (dalle parole di origine greca stènos, «stretto, ristretto», e grafìa, «scrittura») è un metodo di scrittura veloce tachigrafico, che impiega segni, abbreviazioni o simboli per rappresentare lettere, suoni, parole o frasi. Nacque allo scopo di poter scrivere alla velocità con la quale si parla per fissare immediatamente su carta tutte le informazioni ascoltate.

Storia

La stenografia era probabilmente già utilizzata nell'antica Grecia ai tempi di Senofonte, mentre è ampiamente attestato il suo impiego da parte dei Romani: Marco Tullio Tirone, il segretario di Cicerone, per trascrivere i discorsi di quest'ultimo aveva infatti inventato quelle che poi furono chiamate Notae Tironianae, un sistema di circa 4000 simboli che sostituivano le radici verbali o le loro lettere finali. Secondo Dione Cassio, Mecenate fu inventore di un sistema stenografico. Questo sistema fu poi adottato per diversi secoli finché, dopo l'XI secolo, cadde quasi completamente nell'oblio.

La stenografia moderna ha inizio verso la fine del XVI secolo e si sviluppa per circa due secoli, soprattutto in Inghilterra, con l'invenzione di diversi linguaggi a base geometrica: in particolare il sistema Taylor, adattato all'italiano da Emilio Amanti, ma perfezionato da Filippo Delpino, che lo rese il primo sistema largamente impiegato in Italia, pur con i suoi difetti peraltro ereditati dal sistema inglese di origine; seguìto dal più efficiente sistema Pitman, adattato anch'esso all'italiano da Giuseppe Francini e, a Malta, da Peter Paul De Cesare.

In tempi più recenti ha avuto grande diffusione il sistema inventato dal tedesco Franz Xaver Gabelsberger nel 1834. Tale sistema si basa su tre principi: grafico, fonetico e linguistico-etimologico e si ispira al corsivismo. Fu rapidamente adattato a molte lingue, tra cui l'italiano (nel 1863 da Enrico Carlo Noë). Il sistema si divide in tre parti: la prima riguarda la formazione delle parole; la seconda tratta dell'abbreviazione delle parole; la terza, denominata Abbreviazione logica del periodo, consente la maggiore sintesi grafico-concettuale.

Esempi di caratteri abbreviati nel sistema finnico Neovius-Nevanlinna

Altri sistemi, detti "di Stato" perché, parimenti al sistema Gabelsberger-Noë, sono ammessi al pubblico insegnamento, sono il Meschini (di Erminio Meschini), il Cima (di Giovanni Vincenzo Cima) e lo Stenital Mosciaro (di Abramo Mòsciaro). Anche il Pitman-Francini ebbe in passato un riconoscimento ufficiale. In Alto Adige si insegnò anche la Stenografia Unitaria Tedesca (Deutsche Einheitskurzschrift); tanto per il tedesco, quanto per l'italiano nell'adattamento di Margarethe Kindl.

Nella Svizzera italiana si preferì non guardare a quanto si faceva in Italia, e venne adottato il sistema di maggiore successo nella Svizzera tedesca, ovvero lo Stolze-Schrey, adattato alla lingua italiana da Aristide Isotta. A Malta si preferì adottare una nuova versione del sistema Pitman, ad opera di Peter Paul De Cesare.

Esistono molti altri sistemi stenografici i quali, però, non hanno avuto significativa diffusione; oppure il loro impiego è stato temporaneo.

Nell'ambito dei convegni di studio organizzati ogni due anni dall'Intersteno, nei quali convengono studiosi di stenografia e stenografi pratici da tutto il mondo, si svolgono gare di stenografia alle velocità più elevate in tutte le lingue. Più volte gli stenografi italiani si sono classificati ai primi posti delle graduatorie; degno di nota è Riccardo Bruni, campione mondiale nel 1993. Un altro ente operativo nell'ambito della stenografia è l'E.U.S.I. - Ente Unitario del Segretariato Italiano.

Per interessamento di Cavour, la resocontazione stenografica fu introdotta nel 1848 nel Parlamento Subalpino. In Italia la stenografia è stata utilizzata fino al 2000 nel campo della resocontazione parlamentare per verbalizzare le Assemblee della Camera dei deputati (in cui il resoconto sommario vi è dal 1879), mentre al Senato della Repubblica si utilizza la stenotipia (in cui il resoconto sommario vi è dal 1882). Oltre al resoconto sommario, al Parlamento Italiano vi è il resoconto stenografico integrale, che a partire dal 1967 per la Camera dei deputati e dal 1983 per il Senato della Repubblica, tradizionalmente viene pubblicato il giorno successivo alla seduta.

Sistemi di stenografia

Sepolcro di Heinrich Roller, inventore tedesco di un sistema stenografico, del quale la lapide porta scolpiti alcuni caratteri.

Esistono tanti metodi e sistemi diversi di stenografia: in genere essi sostituiscono i simboli dell'alfabeto latino con segni che, per le loro forme particolari, possono essere riprodotti con maggiore celerità, per esempio linee dritte, cerchi, ecc.

I sistemi di stenografia vengono solitamente classificati in tre gruppi principali:

Sistemi geometrici. Appartengono a questo gruppo i primi sistemi creati nel mondo moderno dalla Scuola inglese, quali il Taylor e il Pitman; o l'italiano Marchionni. Consistono in segni geometrici per le consonanti, mentre le vocali sono in genere rappresentate da puntini e lineette.

Sistemi corsivi. Fanno parte di questo gruppo i sistemi tipici della Scuola tedesca, quali il Gabelsberger, lo Stolze, lo Schrey, la Stenografia Unitaria Tedesca o la Stiefografie. Consistono in segni che per le consonanti si richiamano, in modo molto semplificato, alle lettere della scrittura ordinaria corsiva; e come tali sono collegati tra di loro da un filetto di unione. Le vocali sono in genere rappresentate in modo simbolico, modificando le consonanti.

Sistemi misti (o geometrico-corsivi). Ne fanno parte i principali sistemi creati dagli stenografi italiani, quali il Meschini, il Cima e lo Stenital Mosciaro; nonché il loro "precursore" sistema Vegezzi. Un importante sistema misto non italiano è l'inglese Gregg, utilizzato soprattutto in Nord-America. Questi sistemi tentano di conciliare le caratteristiche dei due tipi "classici" rappresentando sia le consonanti che le vocali con segni geometrici fissi e intersecando vocali e consonanti, in alcuni sistemi con un senso di scrittura contrario, in modo che le vocali vengano a fungere di fatto da filetti di unione che dànno al tracciato un andamento corsivo.

Si può aggiungere un quarto gruppo costituito dai sistemi che, benché biasimati dai puristi, adoperano lettere dell'alfabeto comune, generalmente per essere di più facile apprendimento. Un originale rappresentante di questo gruppo è il Dutton World Speedwords, ideato nel 1922 da Reginald J.G. Dutton (1886-1970), che combina le caratteristiche di un sistema stenografico con quelle di una lingua ausiliaria internazionale.

La stenotipia

La stenotipia è parente stretta della stenografia; si basa su concetti analoghi, ma fa uso di macchine apposite. Uno dei metodi principali utilizzati in Italia è tuttora quello ideato da Antonio Michela Zucco. La sua Macchina Michela fu il primo strumento per stenotipia nel mondo che riuscì ad ottenere un uso pratico. Brevettata nel 1878 e adottata nel 1880 dal Senato del Regno (Italia), è tuttora regolarmente utilizzata, in una forma perfezionata e soprattutto computerizzata, dal Senato della Repubblica italiana.

La stenotipia.

Che cos’è la stenotipia?

La Macchina Michela.

La Macchina Melani.

Che cos’è la stenotipia?

Da Focus il 28 giugno 2002. La stenotipia è la tecnica per scrivere in stenografia, ma a macchina. La stenografia, a sua volta, è una scrittura manuale più rapida della grafia alfabetica, realizzata con segni particolari,...

La stenotipia è la tecnica per scrivere in stenografia, ma a macchina. La stenografia, a sua volta, è una scrittura manuale più rapida della grafia alfabetica, realizzata con segni particolari, grazie ai quali la velocità di scrittura raggiunge quella del discorso parlato. L’apparecchio si chiama “Michela”, dal nome del suo inventore Antonio Michela, che lo realizzò nel 1862. È una tastiera con una ventina di tasti che, premuti a gruppi e non uno dopo l’altro, danno luogo all’opportuno segno stenografico. Si usano per esempio diverse combinazioni di tasti se due lettere di una sillaba sono invertite. Proprio come nella stenografia, infatti, è importante anche la posizione delle lettere: la sillaba “sa” corrisponde a un simbolo diverso da quello di “as”. Ogni tasto, insomma, svolge più funzioni. La Michela oggi è collegata a un computer, per la rilettura. Spesso alla stenotipia si affianca il registratore, per eventuali correzioni a posteriori. Le stenotipia non è inserita nei programmi ministeriali, ma si insegna in corsi regionali o in istituti privati. Il suo impiego è in crescita, in particolare nel settore giustizia.

La Stenotipia giudiziaria.

I magnifici misteri della trascrizione giudiziaria. Gennaio 2016 di Jacopo Ranieri su jacoporanieri.com. 

Ventisei studenti silenziosamente riuniti dentro a un’aula, mentre l’insegnante legge un brano dei Promessi Sposi, poi commenta. Sarebbe assai opportuno, no, persino necessario, annotare sul quaderno il nesso e il succo del discorso, che sicuramente si presenterà di nuovo, in forma di domanda, all’ora di verifica verso la fine del semestre. Ed è quindi certamente vero, che scrivendo e riassumendo il vasto eloquio, trasformandolo in un minerale nato dall’inchiostro e dalla cellulosa, costoro stiano facendo soprattutto un gran favore a loro stessi. Ma è altrettanto giusto, se vogliamo, ribaltare la questione in senso longitudinale. Per vederla soprattutto in questo modo: c’è qui un colui/colei che dall’intero scambio partecipativo, riesce a trarre un ben più significativo beneficio. Eccolo lì, che parla dalla cattedra, compunto. Perché parole pronunciate per premura, per preambolo o primaria premeditazione, è loro massima prerogativa, spariscono immediatamente come il fumo. Mentre scriverle, vuol dire conservarle. Quale onore, vostro… E non si tratta di una cosa cui si possa rinunciare, in determinati tipi di contesti ancor più delicati. Tra cui quello, antico e imprescindibile, in cui l’aula deputata è di un tutt’altro tipo. Dove c’è un giudice, chiamato per decidere del fato della gente. Dando un peso a ciò che viene detto, veramente, estremamente significativo.

È un meccanismo complesso che ormai conosciamo molto bene, soprattutto ad una ricca selezione di opere d’ingegno, quali film, romanzi, serie a medio budget per la Tv. La cui provenienza prevalentemente americana, persino qui da noi nella penisola distante, appare estremamente chiara dalla tipica struttura: l’uomo sull’alto scranno con il martelletto, posto innanzi a una giuria, rigorosamente scelta tra il popolo in maniera casuale. Due avvocati, l’accusa e la difesa, dall’eloquio particolarmente spigliato e accattivante. E mentre gli occhi vagano, irrimediabilmente attratti da quella figura in prima fila, l’imputato del processo, diviene facile da trascurare la figura dell’agente di trascrizione, un uomo o una donna (tradizionalmente, la seconda) che appare impegnata nel suonare una bizzarra quanto inaudibile sinfonia. Su uno scomodo sgabello o una seggiolina, rigorosamente priva di braccioli, mentre dinnanzi a lei, su di un rigido treppiede, si erge quella che potrebbe anche sembrare una piccola macchina da scrivere, se non fosse che vi sono troppi pochi tasti, nonché di natura estremamente poco chiara. Come nel Gibsoniano “deck da cavaliere del cyberspazio” (Neuromante – 1984) qui non servono caratteri numerici o figure delle lettere da premere con alcun fine. Ma soltanto quadratini plastici, ciascuno con la sua funzione bene impressa nella mente e nelle mani di chi dovrà premerli in sequenza, per…Scrivere, ovviamente. Che altro? Ma non un semplice discorso. Bensì molti, spesso in parallelo tra di loro, pronunciati a ritmi svelti o pacati, con inflessioni dialettali o specifici slang di quartiere. E a ragione per cui è possibile riuscire in una tale ardua missione, nonostante i duri presupposti, sono in egual misura merito della persona e della macchina, ovvero sarebbe a dire, di colui che quella cosa ebbe modo di progettarla tanto tempo fa, come espressione ingegneristica del suo particolare campo d’interessi. Ed è significativo notare come anche nella macchinetta da stenotipia del video di apertura, del tutto conforme all’originale progetto americano del Sig. Ward Stone Ireland, risalente al 1906, si riesca ad intravedere lo stesso progetto funzionale dell’italianissima Macchina Michela, costruita nel 1878 dall’insegnante ed inventore Antonio Michela Zucco, con la finalità specifica di essere impiegata per trascrivere le sessioni del Regio Senato Italiano, continuando poi ad essere impiegata con la sua rifondazione come Senato della Repubblica, a seguito del passaggio dell’Eroe dei Due Mondi. Giungendo infine, con poche significative modifiche, virtualmente identica fino ai nostri giorni. La stessa nota relativa a questo meccanismo riportata sul nostro sito istituzionale, si apre orgogliosamente con uno stralcio di missiva di Giuseppe Garibaldi scritta a Caprera il 16 dicembre 1877, contenente il semplice messaggio: “Desidero che l’utilissima scoperta del professor Michela sia messa in opera”. Ma cerchiamo di capire adesso, anche grazie al video esplicativo di apertura, la maniera in cui funzionino questi dispositivi.

Avrete certamente notato, sia nel caso della mini-macchina da scrivere, come anche nella foto riportata qui sopra del suo antenato italiano, una notevole carenza di tasti. È in effetti questa la prima apparente incongruenza di simili meccanismi, quando posti a confronto col consueto aspetto di una tastiera ad uso casalingo, ben più larga e per di più appesantita da tastierino numerico, numerali, frecce e chi più ne ha…Mentre qui, non soltanto tutto è puro ed essenziale, ma neanche chiaramente apparente, ad un occhio non allenato. È tutta una questione di combinazioni. Le macchine per la stenotipia, infatti, vedono il loro principale vantaggio rispetto al consueto metodo d’immissione dei testi nella maniera in cui per ciascuna “pressione” si riesca effettivamente a produrre non una singola lettera, ma un’intera sillaba fonetica, che tra l’altro nella lingua inglese corrisponde occasionalmente alla parola intera. Proprio per questo, le tastiere sono suddivise in due metà, sinistra e destra, rispettivamente concepite per corrispondere all’inizio ed alla fine di ciascuna unità minima di testo. Una fila di quattro pulsanti disposti ordinatamente sotto agli altri in quella americana, mentre un certo numero di tasti raggruppati sull’inizio della seconda metà (o “sequenza”) in quella italiana, si occupano invece delle vocali, che per natura del funzionamento stesso dell’apparato fonatorio umano (Zucco era anche un glottologo-linguista) si troveranno sempre nella parte centrale della sillaba o parola. Meno intuitiva, invece, è la necessità percepita di limitare in modo significativo la quantità di tasti a disposizione dell’operatore, relegando tutti suoni meno frequenti in inizio o fine di parola per ciascuna delle due lingue a combinazione di pulsanti.

Come dimostrato ad esempio nel video della scuola online, per inserire la D in inizio di parola occorre premere insieme i tasti T e K, in una procedura conforme al concetto moderno di chorded keyboard, o tastiera ad accordi. Suoni ancora più rari richiedono combinazioni di fino a quattro tasti, come l’iniziale J della lingua inglese, che si inserisce appoggiando un dito al centro della croce formata dai tasti S-K-W-R. Particolare è il caso del suono finale identificato comunemente con la lettera Z, che pur essendo molto raro in inglese (circa una ventina di parole, tra cui buzz, showbiz, topaz…) risulta dotato del proprio tasto. Si tratta di una scelta probabilmente moderna, motivata dal funzionamento dei software che si occupano di autocompletare in maniera informatica il testo inserito dall’addetto alla stenografia. Le poche volte in cui si preme questo tasto, dunque, diventano semplicemente cruciali affinché si verifichi una trascrizione corretta del processo o della sessione in Senato. È inutile dire che in tempi passati, le metodologie risultavano essere parecchio differenti…

L’inventore francese Marc Grandjean dimostra, nel 1928, il funzionamento del suo dispositivo per la stenotipia, con tanto di dimostrazione comparativa con la macchina da scrivere convenzionale. L’intera scena sembra quasi precorrere il concetto di un moderno infomercial televisivo.

In assenza di un computer che traducesse le battute in un testo immediatamente comprensibile da chiunque non fosse il suo diretto produttore, tutto ciò che fuoriusciva da questa tipologia di macchine era infatti un nastro sottile ed inchiostrato, sul quale potevano comparire infinite combinazioni e ripetizioni della singola fila di caratteri: STKPWH RAO * EUFRPB LGTSDZ. Questa era in effetti la disposizione dei singoli martelletti, o leve che dir si voglia, che non cambiava mai nel corso della trascrizione. Poteva quindi succedere che una singola parola, magari costituita da parecchie sillabe, finisse per occupare anche due o tre righe. Al termine della sessione di processo o riunione, lo stenografo stesso, o una persona adeguatamente preparata, doveva occuparsi di trascrivere in maniera immediatamente intelligibile quanto era stato prodotto. Che tuttavia, per come fuoriusciva dalla macchina era sempre foneticamente preciso, a meno che l’operatore avesse compiuto un errore, distraendosi in corso d’opera. Mi sembra che questo esempio, prelevato da Wikipedia inglese ed identificato come opera di pubblico dominio, chiarisca in modo lampante la notevole complessità della questione:

L’osservazione comparativa dei due tipi di lavoro, quello alla tastiera QWERTY e la sua controparte realizzata con macchina da stenotipia, non potrebbe dunque essere più diversa fin dal primo sguardo. Mentre il parlante delucida l’oggetto del suo eloquio, la persona che deve barcamenarsi tra dozzine di tasti appare concentrata ad un livello superiore, battendoli con moto circolare e in un crescendo che pare condurre a un’imminente blow-out. Nel frattempo, lo stenografo professionista, che deve unicamente comprendere il suono del discorso e riportarlo tramite una sequenza di sillabe, spinge giù due, tre, fino a dieci tasti assieme. In quattro o cinque precisi gesti, svolge il lavoro equivalente di un centinaio di pressioni, benché naturalmente, anche gli eventuali errori di battitura siano amplificati molte volte. La situazione, inoltre, tende a capovolgersi nel caso in cui si debba effettivamente produrre un testo da ripubblicare, completo di caratteri speciali come lettere accentate, cancelletto, la @ cerchiata delle e-mail e così via. Considerate, ad esempio, come molti stenografi giudiziari preferiscano inserire anche i numeri con trascrizione fonetica, piuttosto che utilizzare gli scomodi tastini superiori delle loro macchine, tra l’altro non sempre presente. E sono probabilmente proprio considerazioni limitative come queste, ad aver relegato simili macchine ad un uso quasi esclusivamente professionale. Facendone anche salire notevolmente il prezzo: in mancanza delle facilitazioni dovute alla piena forza dell’economia di scala, all’alta quantità di componentistica prodotta ad-hoc ed al potenziale di guadagno extra per chi sappia veramente svolgere un simile mestiere, anche al di fuori dell’ambiente giudiziario (ad esempio, durante conferenze o convegni) difficilmente una macchina da stenotipia può costare meno di 1.500 dollari. Mentre i modelli di punta raggiungono piuttosto facilmente i 5.000. L’usato in buone condizioni, inoltre, mantiene quasi totalmente il suo valore.

Questo video del Kim Bryan College segnala di prestare attenzione a non far cadere durante il montaggio il delicato recipiente in plastica per il nastro stampato. Probabilmente, quello da solo costa più di un’accoppiata convenzionale di tastiera e mouse.

Ed alla fine, chi può negare che costoro siano davvero, diabolicamente, mostruosamente veloci? Wikipedia cita come record mondiale assoluto per la lingua inglese un impressionante 375 wpm (parole al minuto) laddove i migliori tipografi di un ambiente d’ufficio, raramente superano le 120/130 wpm. È stato dimostrato come un abile utilizzatore della macchina da stenotipia possa addirittura lavorare, in determinate condizioni ideali, ad un ritmo persino superiore a quello di un programma per computer di riconoscimento vocale. Con capacità di adattabilità e precisione, questo va da se, notevolmente più vantaggiose. Prima di chiudere, ecco una potenziale occasione per accrescere l’orgoglio nazionale: gli odierni utilizzatori italiani del metodo Michela, forniti ancora del tradizionale “pianoforte” (che tra l’altro, viene impiegato anche al Congresso degli Stati Uniti) si sono più volte riconfermati come i migliori stenografi del mondo, vincendo numerose gare internazionali tra il 1977 e il 1996. In tempi più recenti, una particolare stenografa del Senato Italiano, di cui purtroppo Wikipedia non pubblica il nome, ha trionfato facilmente nei raduni di Pechino (2009) e Budapest (2015). La leggenda del nostro dispositivo dall’aspetto così stranamente musicale, dunque, continua a regnare incontrastata.

Come pure, per inferenza, quella di un intero meccanismo di scrittura che era così astruso, in origine, perché altrimenti non sarebbe mai riuscito a funzionare. Mentre oggi, con i moderni sistemi informatici e digitali, sarebbe certamente possibile affiancare alla tradizionale mini-tastiera dei metodi di input addizionali, o magari modificare tale arnese per includere elementi di punteggiatura o schematizzazione più omni-comprensivi. Ma anche l’occhio – dell’insegnante – vuole la sua parte. E del resto, quale giudice prenderebbe mai sul serio un trascrittore fornito d’ingombranti meccanismi, tali da dimostrare di aver perso il contatto con le sue radici storiche professionali! Non ho presente l’attuale situazione, ma intorno all’anno 2000, entrare in classe pensando di prendere appunti con un dispositivo in qualsivoglia modo differente dalla “cara vecchia penna” era visto particolarmente male. Certe cose non cambiano mai…

La Macchina Michela.

Macchina Michela. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Questa pagina sull'argomento Tecnologia sembra trattare argomenti unificabili alla pagina Antonio Michela Zucco.

Tastiera Michela con protocollo MIDI prodotta dal 2003 e attualmente utilizzata dal Senato della Repubblica. Questo modello, che si collega ad un pc tramite porta USB (da cui riceve anche l'alimentazione), non dispone di alcun software interno di elaborazione delle combinazioni sillabiche. Al pc viene trasmessa la sola informazione relativa ai tasti premuti e la trascrizione in tempo reale è realizzata mediante software di trascrizione assistita.

La Macchina Michela è una tastiera per stenografia meccanica (o stenotipia) secondo il metodo Michela, brevettata da Antonio Michela Zucco nel 1878. Fin dal 1880 è usata nel Senato italiano (comprese le varie Commissioni) per redigere il resoconto stenografico, ossia il verbale "parola per parola".

I venti tasti della Michela si raggruppano in due "semitastiere", una per ciascuna mano. Ogni semitastiera ha sei tasti bianchi e quattro neri, identici per forma a quelli di un pianoforte, e uguali per disposizione alla sequenza di semitoni ascendenti inclusi tra Mi e Do.

Il sistema, fondato sulla scomposizione in sillabe e su moltissime abbreviazioni, consente di riprendere il parlato anche ad altissima velocità (oltre 180 parole al minuto). La Michela è ora del tutto computerizzata: il software decodifica le abbreviazioni e i discorsi stenografati compaiono subito "in chiaro" sullo schermo di un PC. Nel 2003 la Michela ha adottato il protocollo di comunicazione MIDI (lo stesso delle tastiere musicali) e di recente il sistema è divenuto disponibile anche su piattaforme open source.

Con la Michela gli stenografi parlamentari del Senato hanno conseguito una notevole serie di successi nelle gare di stenografia nazionali (tutti i titoli italiani assoluti fino a quando hanno partecipato alle gare, dal 1977 al 1996) e internazionali. Ai campionati mondiali di stenografia, già nelle edizioni del 1977, 1979, 1981 e 1983 uno stenografo del Senato ha riportato due titoli mondiali e un secondo e un quarto posto. Ai campionati di Sofia (1985) due stenografi del Senato hanno ottenuto il titolo mondiale e il secondo posto, toccando entrambi la straordinaria velocità di 500 sillabe al minuto (oltre 200 parole al minuto). Gli stenografi del Senato negli anni successivi hanno poi conseguito un'ininterrotta serie di piazzamenti ai più alti livelli delle classifiche nelle varie tipologie di gare ed un nuovo titolo mondiale ai campionati di Amsterdam nel 1995. Ai campionati mondiali di Pechino (2009) e di Budapest (2015) una stenografa del Senato ha raggiunto con la tastiera Michela, rispettivamente, 445 sillabe nel 2009 e 471 sillabe nel 2015, vale a dire, la più elevata velocità di scrittura tra tutti i concorrenti e tutti i sistemi, compresi quelli di riconoscimento vocale.

Alcuni esemplari di Macchina Michela sono stati esposti alla mostra «Les grandes heures du Parlament», realizzata a Parigi per iniziativa dell'Assemblée Nationale alla Reggia di Versailles. Un esemplare è attualmente esposto a Strasburgo, presso la sede del Parlamento europeo.

I discorsi al Senato vengono trascritti con una macchina molto antica. Ilpost.it il 26 gennaio 2023. La Michela è utilizzata dall'Ottocento: è ancora competitiva, ma richiede tanta formazione e ora ci sono alternative più moderne.

«Desidero che l’utilissima scoperta del professor Michela sia messa in opera», scrisse Giuseppe Garibaldi nel 1877 da Caprera, l’isola sarda in cui passò l’ultima parte della sua vita. Il riferimento era a un nuovo strumento stenografico, cioè un macchinario per trascrivere velocemente e in tempo reale, attraverso un sistema di tasti associati a segni particolari, quello che veniva detto a voce. Lo aveva inventato pochi anni prima Antonio Michela Zucco, e oltre a quello di Garibaldi aveva suscitato l’entusiasmo di molti altri. Anche il senatore Giovanni Battista Giorgini, genero di Alessandro Manzoni, apprezzò la macchina: «Credo di essere innanzi ad una delle più grandi invenzioni del secolo», disse.

Nel 1878 Michela ne registrò il brevetto in Italia e la presentò all’Esposizione universale di Parigi. I giurati gli diedero la medaglia d’argento e non quella d’oro perché Michela si rifiutò di divulgare il funzionamento della macchina. In ogni caso, grazie a questo risultato, venne ricevuto dal re Vittorio Emanuele II a Monza e insignito della Croce di Cavaliere dell’Ordine Mauriziano. Nel 1879 il Consiglio municipale di Torino adottò la Michela, come era già nota allora la macchina, per i resoconti delle sedute. Dopo pochi mesi fece lo stesso la Corte d’Assise di Napoli e nel 1881 il Senato, che la utilizza ancora oggi.

Nel frattempo sono passati decenni di regno dei Savoia, vent’anni di dittatura fascista, due guerre mondiali, il passaggio dalla monarchia alla repubblica e 68 governi. Ma la Michela è rimasta nell’aula del Senato, sostanzialmente senza stravolgimenti nell’essenza dello strumento. Da qualche anno però l’Ufficio resoconti del Senato sta pensando a un eventuale futuro senza, per varie ragioni, tra cui i costi di formazione degli stenografi e delle stenografe, che peraltro sono sempre meno. 

Antonio Michela Zucco per gran parte della sua vita fece l’insegnante nel Canavese, in Piemonte, tra Aglié, Quassolo, Vestigné, Borgofranco e Ivrea. Era un appassionato di fisica, matematica e disegno tecnico, materia che insegnò a lungo. Tra le sue molteplici passioni c’era anche la fonetica, e in particolare avrebbe voluto creare una specie di alfabeto universale partendo dai suoni sillabici che usiamo parlando. Così tentò di classificarli tutti, associando a ciascuno un segno grafico.

Dato che si interessava anche di musica, Michela passò all’applicazione pratica della sua idea prendendo spunto dal pianoforte. La macchina stenografica che costruì aveva, e ha tutt’oggi, venti tasti del tutto simili a quelli del pianoforte, divisi in due semitastiere da usare con entrambe le mani. La prima volta che lo presentò a Milano, nel 1863, definì questo sistema stenografico «a processo sillabico istantaneo». Di fatto Michela aveva inventato la stenotipìa, cioè la stenografia eseguita a macchina.

In sintesi la stenografia è un metodo di scrittura che serve a trascrivere il parlato più rapidamente di quanto non si faccia utilizzando lettere e parole, che nei sistemi stenografici vengono sostituite da simboli o segni. Capire come funziona non è semplice, ma essenzialmente la classificazione di Michela divide tutte le sillabe in quattro gruppi principali:

1) suono iniziale precedente la vocale;

2) eventuale suono intermedio successivo a quello iniziale e precedente il suono vocalico principale;

3) suono vocalico principale (vocale tonica);

4) suono finale successivo alla vocale tonica.

Questi quattro gruppi sono trasposti nelle due semitastiere, i cui tasti sono chiamati con lettere dell’alfabeto che servono solamente a identificarli e a trascrivere i fonemi, cioè i singoli elementi sonori della lingua, attraverso varie combinazioni. 

Per fare giusto qualche esempio, con il tasto “Z” si può trascrivere sia la G dolce, quella di “gelato”, che quella dura, di “galera”. Nel primo caso bisogna pigiare la combinazione Z-P, nel secondo la combinazione F-Z-P. La È si trascrive con la combinazione di tasti u-a, e così via per tutti i fonemi. Con ogni dito si premono specifici tasti: il mignolo sinistro F e S, l’anulare sinistro C e Z, e così via. Le combinazioni ovviamente sono numerose e per padroneggiarle tutte ci vogliono moltissime ore di addestramento.

Dagli anni Novanta la Michela può essere collegata ai computer, che “traducono” simultaneamente il resoconto dello stenografo o della stenografa. «Il redattore non utilizza più i tasti per imprimere dei segni fonografici su una striscia di carta, come avveniva con la macchina iniziale» racconta Massimo Martinelli, direttore del’Ufficio resoconti del Senato. «Ma per scrivere direttamente al computer. Sulla base di questo verbatim la trascrizione testuale, ndr] messo insieme dal computer realizza poi il resoconto, aggiungendo la punteggiatura, le maiuscole, le citazioni».

Il testo trascritto a tastiera viene insomma sistemato in un secondo momento dagli stenografi stessi, che tra le cose aggiungono anche la cosiddetta “fisionomia”, cioè la descrizione di quello che succede in aula: le pause, le interruzioni, gli applausi.

I turni degli stenografi si compongono di cinque minuti alle tastiere della Michela e circa cinquanta a rivedere al computer il verbatim. Di questi turni ne vengono fatti molti, innanzitutto perché di tutte le sedute dell’aula e di alcune commissioni parlamentari deve esserci necessariamente un resoconto, e poi perché gli stenografi sono meno di quanti servirebbero. Attualmente sono ventitré, meno della metà della cosiddetta pianta organica, cioè il numero totale di stenografi previsto dal Senato. Il motivo della scarsità di stenografi è che molti sono andati in pensione e non sono stati sostituiti.

Tradizionalmente per arrivare a fare questo lavoro si attraversavano due passaggi: prima un concorso per essere ammessi a un corso di formazione, poi un nuovo concorso per essere assunti (ma non tutti gli ammessi al corso poi venivano assunti). Le persone ammesse al corso, comunque, non avevano una formazione pregressa in ambito stenografico, dovevano affrontare semplici prove di cultura generale e attitudinali, e venivano valutate anche attraverso i titoli di studio. L’ultimo concorso bandito risale al 2005, e non si sa se e quando ne verranno fatti altri. 

Il punto è che ci vogliono anni per formare nuovi stenografi, e non c’è la certezza che per quando saranno pronti la Michela sarà ancora lì. Per esempio alla Camera dei deputati, l’altro ramo del parlamento, non vengono usate macchine stenografiche, ma un sistema di riconoscimento vocale automatico gestito da una ditta esterna, sperimentato per la prima volta nel 2013. Per il momento la Michela continua a cavarsela egregiamente (in passato gli stenografi del Senato hanno spesso dominato nei campionati internazionali di stenografia), ma le cose in futuro potrebbero cambiare.

«C’è una riflessione in corso da anni, siamo in un periodo di transizione» dice Martinelli. «In qualche modo bisognerà prendere una decisione in merito. La Michela è ancora oggi estremamente competitiva, anche rispetto ai sistemi di riconoscimento vocale, ma è anche vero che la tecnologia va avanti, e magari oggi i risultati non sono paragonabili, ma un giorno lo potrebbero diventare». Inoltre i nuovi sistemi hanno pochi costi, legati alla manutenzione e all’appalto, mentre la Michela «richiede molto più impegno di formazione, infinitamente più grande».

Macchina Michela: un primato italiano. Il metodo Michela si basa su un sistema di scrittura fonetico, permette di trascrivere rapidamente le discussioni parlamentari, fu inventato nel 1862 da Antonio Michela Zucco. Scritto da  Edoardo Ferri il 28 novembre 2020 su ilcibernetico.it

La macchina Michela è uno strumento meccanico, simile alla tastiera di un pianoforte, utilizzato nel Senato della Repubblica Italiana per la stenotipia.

Il metodo Michela è basato su un sistema di scrittura fonetico che permette di trascrivere rapidamente le discussioni parlamentari; fu inventato nel 1862 e successivamente brevettato da Antonio Michela Zucco. Oggi viene utilizzato assieme a un software che permette agli stenografi di incrementare ulteriormente l'efficienza di trascrizione delle discussioni.

Il Professor Michela Zucco ricevette all'epoca diversi riconoscimenti; a testimonianza della validità della scoperta esiste perfino una lettera firmata da Giuseppe Garibaldi: «Caprera, 16 dicembre 1877, Desidero che l'utilissima scoperta del professor Michela sia messa in opera»

Come riportato dal sito senato.it, il sistema di stenografia meccanico italiano ebbe un importante evoluzione con l'introduzione della tecnologia elettronica e informatica:

La trascrizione in chiaro dello stenoscritto è da sempre l' obbiettivo di tutti i sistemi di stenotipia. Il problema fu avvertito già con l'adozione della Michela al Senato del Regno, quando fu necessario istruire i preesistenti stenografi a mano. Antonio Michela Zucco nel suo brevetto del 1876 prefigurava per il suo trovato "la riproduzione di un discorso col mezzo dell'elettricità"; ci è voluto quasi un secolo per tradurre questa opzione in realtà.

Alla fine degli anni Sessanta la tastiera Michela fu modernizzata dalla ditta Vergoni di Perugia, sostituendo l'originario treppiedi in legno con una tastiera meccanica più compatta. Nel corso degli anni Settanta giunsero le prime tastiere elettroniche che permettevano la traduzione in chiaro, sillaba per sillaba, consentendo la lettura delle strisce anche a persone non addestrate; con l'avvento dei primi elaboratori iniziarono le sperimentazioni per ottenere una traduzione non più in sillabe, ma direttamente in parole.

Nel 1988 la ditta Tecnidata di Pisa importò in Italia il software «Advocat» (uno dei più utilizzati) e lo applicò alla Michela. Nacque così un'innovativa tastiera dotata di memory-card, display e stampante, in grado di registrare gli stenogrammi o di inviarli in tempo reale ad un pc, che fu adottata dal Senato a partire dal 1996.

Nel 2004 l'esigenza di una reingegnerizzazione portò alla realizzazione della tastiera oggi in uso, che si interfaccia al computer mediante il protocollo MIDI comunemente utilizzato nelle tastiere musicali. A partire dal 2009, a seguito di un ulteriore ammodernamento, la tastiera è stata dotata di stampante ad infrarossi e, in abbinamento con il software "Total Eclipse", consente la trascrizione di dibattiti real time perfettamente sincronizzata con la registrazione audio digitale.

Mostra macchine stenografiche presso il Senato della Repubblica

Con l'avvento della digitalizzazione potrebbe sembrare costoso e obsoleto mantenere un sistema con dipendenti specializzati e strumentazioni specifiche, soprattutto se pensiamo ai programmi di riconoscimento vocale e alle registrazioni audio e video in tempo reale eseguite ad ogni seduta parlamentare.

E tuttavia i metodi stenografici vengono ancora utilizzati nell'ambito istituzionale, non solo in Italia. Per esempio, negli Stati Uniti e in Canada sono utilizzati per trascrivere rapidamente i dibattiti, non solamente politici, per poi metterli a disposizione su internet. Un altro campo d'applicazione importante consiste nel garantire l'accessibilità ai contenuti da parte di persone non udenti.

Attualmente il software per la decrittazione delle note stenografiche è dotato di algoritmi di intelligenza artificiale e rappresenta la punta di diamante della tecnologia; i sistemi di riconoscimento vocale automatico commettono in effetti ancora diversi errori di trascrizione, sopratutto nella punteggiatura, e presuppongono l'intervento umano per essere corretti.

Il metodo Michela è un primato italiano, infatti da decenni nelle più importanti competizioni mondiali di stenografia meccanica gli stenografi del Senato si posizionano ai vertici delle classifiche. Certo bisogna anche ammettere che i compensi di uno stenografo del Senato a fine carriera sono simili a quelli di un atleta fuoriclasse!

Con il metodo Michela è stata trascritta la storia politica d'Italia e indubbiamente questo sistema conserva un patrimonio storico che forse vale la pena custodire e ricordare. Anche al giorno d'oggi poi i metodi stenografici non sono da sottovalutare; possono venire utilizzati infatti per scrivere codice sorgente di un software o immagazzinare rapidamente informazioni provenienti da registrazioni audio.

La Macchina Melani.

I SISTEMI DI STENOTIPIA MICHELA E MELANI (Fausto Ramondelli) su accademia-aliprandi.it. Nel panorama italiano, nel quale durante l'ultimo secolo molti sono stati i tentativi di dare vita a nuovi sistemi, in particolare due metodi di stenotipia si sono affermati sia per quanto riguarda la efficacia, misurata valutando la capacità dei sistemi stessi di produrre un resoconto stenografico in forme economicamente e commercialmente apprezzate, sia per la loro diffusione, segnatamente nelle aule giudiziarie: il sistema Michela ed il sistema Melani o Stenotype. Il Metodo Michela trae la sua origine dagli studi fonografici del prof. Antonio Michela Zucco, nato nel 1815, il quale dopo aver classificato gli elementi fonici occorrenti alla formazione di tutte le sillabe diede ad ognuno di essi una espressione grafica, un simbolo ed un valore numerico. Nel 1863 egli illustrò per la prima volta a Milano presso un congresso pedagogico un sistema di stenografia "a processo sillabico istantaneo ad uso universale, mediante piccolo e portatile apparecchio a tastiera" che nelle sue intenzioni era destinato ai ciechi. Uno degli allievi del prof. Michela Zucco, Suo nipote ingegner Giovanni Michela Zucco, presentò la nuova macchina alla Camera dei deputati e al Senato del Regno, il quale ultimo l'adotto ufficialmente per la redazione dei resoconti stenografici nel dicembre 1880. Il sistema Michela (macchina + metodo) ha rivelato notevoli pregi soprattutto in fatto di velocità. Proprio quest'anno un michelista ha conquistato il titolo di campione mondiale di stenografia e sono innumerevoli i successi riportati negli ultimi dieci anni. Per più di 100 anni il sistema Michela è stato utilizzato esclusivamente presso il Senato, ma negli anni '80 alcune società hanno iniziato a sviluppare prototipi computerizzati ed attualmente la macchina Michela e le sue applicazioni computeristiche sono molto diffuse sul territorio nazionale. Le potenzialità del metodo e la professionalità degli stenografi del Senato hanno consentito di dar vita ad un sistema di abbreviazioni molto spinto che si basa sostanzialmente sulla eliminazione delle vocali all'interno delle parole con conseguente riduzione delle sillabe e dunque delle battute sulla macchina; una sorta di "strizzatura" delle vocali con privilegio invece delle consonanti le quali, avendo un valore distintivo maggiore, forniscono migliori elementi ai fini del riconoscimento della abbreviazione e della rilettura. Caratteristica fondamentale della evoluzione del sistema Michela quindi è la tendenza ad abbreviare quanto più possibile le parole lasciando allo stenografo (ieri) o al software (oggi) il compito di ricostruire la parola per la redazione del resoconto stenografico. Il metodo Melani-Stenotype è stato ideato dal prof. Marcello Melani di Firenze più di 100 anni dopo quello del prof. Michela. In realtà la macchina americana (oggi conosciuta con il nome Stenograph) che viene usata con il metodo Melani in una versione appositamente modificata venne messa a punto da Ward Stone Ireland nel 1911 ma discende da prototipi di cui si ha notizia fin dal 1851. La grande diffusione nei tribunali americani e l'imminente riforma del codice di procedura penale che avrebbe previsto la trascrizione integrale delle udienze spinsero il prof. Melani, studioso ed insegnante di stenografia, ad ideare un metodo "in vista dell'applicazione all'elaboratore per la trascrizione automatica ... senza bisogno di successivi interventi per aggiunte, completamenti, correzioni, salvo per eventuali errori commessi dall'operatore in fase di registrazione".1 Come ricorda lo stesso Melani nella prefazione all'edizione del suo 1Andrea Innocenzi, "Stenografia a macchina", in "Stenografia culturale", anno VIII, n. 29, pagg.11-12, aprilegiugno 1981. Macchine_stenotipiche_italiane (1).doc manuale del 1994: "l'evoluzione dell'informatica ... aveva consentito alla macchina per stenografare di poter usufruire dell'elaborazione elettronica per una trascrizione automatica dello stenoscritto e poter realizzare quindi il miraggio del tempo reale, cosa che oggi è diventato una realtà non più teorica ma pratica". Caratteristica tecnica del sistema Melani dunque è di essere orientato alla scrittura completa (non abbreviata) del testo, dal momento che l'obiettivo da perseguire è la produzione in tempo reale del resoconto stenografico con l'aiuto dell'elaboratore. A differenza che per il sistema Michela, per il quale l'avvento dell'elaboratore è stato un evento molto successivo (anche se l'inventore già nella registrazione della privativa fa riferimento alla "riproduzione di un discorso per mezzo dell'elettricità" e alla possibilità di "utilizzare la recente e portentosa invenzione del telefono"), il sistema Melani nasce proprio "in vista dell'applicazione all'elaboratore" quindi tenendo conto delle compatibilità, delle rigidità e delle potenzialità offerte dal computer, soprattutto nella prospettiva dell'obiettivo fondamentale, cioè il resoconto in tempo reale. Sotto questo profilo, l'apporto del calcolatore, che pure è indispensabile per fornire un servizio moderno, efficiente ed automatico, risulta relativamente modesto: non vi è bisogno di algoritmi sofisticati o di dizionari delle abbreviazioni particolarmente estesi, il computer si limita a riconoscere alcuni codici abbreviativi, concepiti fin dal'inizio in modo da non dare luogo ad ambiguità, e alla gestione di un dizionario delle sigle (VAPP). Trattandosi di una "traccia" completa e senza particolari abbreviazioni, essendo quindi minore lo "sforzo intelletuale" demandato al computer, il risultato è sorprendentemente chiaro e preciso. Il sistema Melani ha riportato un grande successo nelle gare mondiali di stenografia che si sono svolte quest'anno ad Amsterdam, in particolare nella gara sperimentale di stenotipia in tempo reale dove ha conseguito il 1° ed il 3° posto. Del resto la tecnologia Stenotype beneficia della vicenda della macchina Stenograph americana per la quale ormai da 20 anni sono in applicazione software per l'interpretazione automatica giunti oggi a livelli tanto sofisticati da consentire quale servizio "top" della stenotipia la sottotitolazione per non udenti in tempo reale sia alla televisione che in altri ambiti. Ottobre 1995 

La Stenotype Italia è stata costituita il 14 settembre 1979.

Dopo aver appreso da riviste specializzate che la Stenograph Corporation di Chicago (USA) aveva realizzato la prima macchina per stenografare computerizzata per la trascrizione automatica degli stenogrammi a mezzo computer, il Prof. Marcello Melani, docente di stenografia e dattilografia, realizzò il Metodo italiano di stenografia a macchina “stenotipia“ compatibile con l’elaborazione elettronica ed iniziò, nel settembre del 1979, il primo corso sperimentale.

Il successo fu molto confortante ed infatti la Sig.ra Simonetta Cosi si presentò ai Campionati italiani nella gara dei professionisti nel maggio 1980, classificandosi al terzo posto, alla velocità di 150 parole al minuto, primo caso in assoluto di un concorrente che, presentatosi la prima volta, sia riuscito a raggiungere tale prestazione.

Nel luglio 1981 si classificò nella gara di stenotipia a 160 parole al minuto ai Campionati Internazionali di Mannheim in Germania. Il successo del metodo favorì lo sviluppo della Società che cominciò a introdurre macchine presso le scuole statali e presso i Centri di Formazione Professionale e nel 1989, con l’entrata in vigore del Nuovo Codice di Procedura Penale, lo sviluppo divenne molto importante fino a raggiungere l’attuale livello.

Attualmente i prodotti della Stenotype Italia s.r.l. occupano il 90% del mercato della stenotipia italiana, affermandosi come azienda leader in Italia nella vendita di macchine per stenografare e nello sviluppo di software per la stenotipia computerizzata.

Tipo di carattere.

Tipo di carattere. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Il tipo di carattere, o più comunemente typeface o carattere tipografico, in tipografia e in informatica, è un insieme di caratteri tipografici caratterizzati e accomunati da un certo stile grafico o intesi per svolgere una data funzione. Spesso si tende a confondere il termine font con la tipologia del carattere ma il termine Font, indica la raccolta di file che permettono di applicarli nei programmi di videoscrittura.

Il comune termine inglese font proviene dal francese medioevale fonte, e sta a significare «(qualcosa che è stato) fuso» (dal latino fundere), con riferimento ai caratteri mobili prodotti per la stampa tipografica, ottenuti versando il metallo fuso nella forma contenente la matrice del singolo carattere.

Un tipo di carattere solitamente contiene un vario numero di singoli simboli, detti glifi, quali lettere, numeri e punteggiatura. I tipi di carattere possono contenere anche ideogrammi e simboli come caratteri matematici, note musicali, segni geografici, icone, disegni e molto altro ancora.

Si potrebbe definire la struttura del carattere, nel suo senso più ampio, come una serie di regole di progetto (per esempio di stile, immagine o impressione) all'interno delle quali il progettista può concepire ogni singolo carattere. Questa definizione permette inoltre l'aggiunta di nuovi caratteri con forme preesistenti, per esempio quello aggiunto al momento dell'introduzione dell'euro.

Storia

Storicamente i tipi di carattere venivano prodotti in dimensioni ben definite (su tutte, il corpo). Prima dell'invenzione della stampa a caratteri mobili il materiale più utilizzato era il legno per corpi da punti 36 in avanti. Nella realizzazione di un tipo veniva considerata anche la qualità, ovvero la quantità, di ciascuna lettera presente. Lo stile di un dato carattere teneva conto di tutti questi fattori.

In seguito sono intervenuti molti fattori che hanno determinato un cambiamento: la maggiore disponibilità di stili; le maggiori richieste provenienti dagli stampatori; la produzione di tipi di specifica forza di occhio (quanto scuro appare il testo, grassetto, normale o chiaro, per esempio) e con specifiche le famiglie di caratteri sono generalmente: primario, chiaro, neretto nero e, nerissimo, tondo (diritto) corsivo (inclinato) [condizioni aggiuntive (generalmente «regolare», contrapposto a «corsivo» o «stretto»). Il risultato è stata la definizione di "famiglie" o "tipi" di caratteri. Gli stampatori anglofoni hanno utilizzato il termine fount per secoli riferendosi al dispositivo utilizzato all'epoca per assemblare la stampa in una particolare dimensione e stile.

Le fonderie di caratteri colavano praticamente ogni carattere in varie leghe di piombo dal 1450 fino alla metà del XX secolo. Nel 1890 emerse la composizione meccanizzata che fondeva al momento i caratteri direttamente in linee della corretta dimensione e lunghezza, secondo necessità. Questa tecnologia rimase nota come a metallo caldo e rimase diffusa e proficua fino agli anni settanta. Dopo ci fu un periodo relativamente breve di transizione (circa 1950 - 1990) in cui la tecnologia fotografica (nota come fotocomposizione) produceva tipi di carattere distribuiti in rotoli o dischi di pellicola. La fotocomposizione permette la scalatura ottica, il che permette ai progettisti di produrre dimensioni multiple da un singolo tipo (esistono comunque limitazioni fisiche sul sistema di riproduzione ed erano comunque necessarie alcune modifiche di progetto su dimensioni diverse, per esempio per permettere la corretta distribuzione dell'inchiostro). I sistemi di fotocomposizione manuali che utilizzavano caratteri su pellicola in rullo permettevano per la prima volta una spaziatura di precisione fra i caratteri senza grandi sforzi. Questo diede luce a una grande industria di produzione dei tipi di carattere negli anni sessanta e settanta.

Nella metà degli anni settanta erano in uso tutte le maggiori tecnologie tipografiche, e i loro tipi di carattere, dal processo originale in pressa di Johann Gutenberg, alle compositrici meccaniche in metallo, fotocompositrici manuali, fotocompositrici controllate da elaboratori elettronici e le prime compositrici digitali (macchine massicce con piccoli processori e uscita su video a tubo catodico). Dalla metà degli anni ottanta, data l'avanzata della tipografia digitale, è stata universalmente adottata la grafia americana font, che oggi quasi sempre indica un file contenente le sagome scalabili dei caratteri (caratteri digitali), generalmente in un qualche formato comune. I progettisti di alcuni tipi di carattere, come il Microsoft Verdana, hanno ottimizzato il prodotto principalmente per l'uso su schermo.

I tipi di carattere digitali possono codificare l'immagine di ciascun carattere o come bitmap (descrizione di tipo bitmap) o con una descrizione di livello superiore delle linee e delle curve che racchiudono uno spazio (descrizione vettoriale). Lo spazio definito dalla sagoma di un carattere è poi riempito da un «rasterizzatore» che decide quali pixel sono «neri» e quali «bianchi». Questo processo è semplice alle alte risoluzioni, come sulle stampanti laser o sui sistemi tipografici di fascia alta, ma sullo schermo, dove ogni singolo pixel può fare la differenza fra leggibilità e illeggibilità, i caratteri digitali necessitano di informazioni aggiuntive per produrre bitmap leggibili nelle dimensioni più piccole. Oggi i caratteri digitali contengono anche dati rappresentanti la tipografia utilizzata per comporli, incluse le spaziature, i dati per la creazione dei caratteri accentati dai componenti e semplici legature, come fl. I linguaggi di descrizione che fungono da formato per i tipi digitali includono PostScript, TrueType e OpenType. La gestione di questi formati (inclusa la conversione in immagini) è presente nei sistemi operativi di Microsoft e Apple, nei prodotti Adobe e in quelli di diverse altre società minori. Per creare un tipo di carattere da zero lo si disegna in formato vettoriale (ad esempio SVG). Successivamente il file vettoriale viene convertito in formato font (ttf, otf, ...) con l'uso di software specifici.

Per i tipi di caratteri definiti con tecniche vettoriali è possibile utilizzare alcune tecniche che permettono di sostituire, in particolare sui bordi, i pixel totalmente neri che vengono percepiti come profili seghettati con altri pixel con gradazioni intermedie, per ottenere una soluzione percettivamente migliore. Tale tecnica è detta antialiasing o allisciamento.

Comic Sans è un classico esempio di font evitato dai professionisti

Alcuni caratteri da molti anni sono stati usati moltissimo fino a diventare estremamente popolari e riconoscibili. Per questo motivo molti professionisti designer e progettisti tendono ad evitarli, anche perché li considerano esteticamente non professionali.

Caratteri mobile

Carattere tipografico e sue parti

a. occhio · b. spessore · c. forza o corpo · 1. spalla · 2. tacca · 3. incavo · 4. piede.

L'uso dei caratteri mobili avviene sostanzialmente secondo l'antico sistema inventato da Gutenberg. Si tratta di riprodurre il testo con dei blocchetti in lega di piombo su ognuno dei quali è inciso in rilievo un segno tipografico (una lettera, un numero e così via).

È comprensibile perciò che questi blocchetti, dovendo formare il testo all'interno di una pagina, debbano possedere una forma regolare e ben precisa. Si stabilisce quindi di prendere un'unità di misura e di fare in modo che ogni variazione avvenga secondo multipli o sottomultipli di tale misura (spazi tra le lettere, altezza o larghezza delle lettere e così via). Tale unità di misura è chiamata punto tipografico o punto Didot (dal nome del tipografo francese che lo stabilì nel Settecento, François-Ambroise Didot). Tale unità corrisponde a poco meno di 0,376 mm, nei Paesi anglosassoni a 0,352 mm. Il punto è anche chiamato piccola unità tipografica, in virtù del fatto che esiste la grande unità tipografica o riga, corrispondente a 12 punti (pari a 4,224 mm).

L'altezza di un carattere viene perciò misurata in punti e viene chiamata corpo, ma dato che ogni carattere avrà, in generale, un'altezza diversa dagli altri, ci si riferisce all'altezza del blocchetto di piombo che lo imprime sulla carta. Ogni blocchetto sarà, come detto, uguale all'altro.

Caratteristiche dei tipi di carattere

Parti tipografiche dei caratteri

1. altezza della x · 2. altezza massima · 3. apice · 4. linea di base · 5. tratto ascendente · 6. incrocio · 7. asta verticale · 8. grazia · 9. gamba · 10. occhiello · 11. spaziatura · 12. collo · 13. occhiello · 14. orecchio · 15. cravatta · 16. asta orizzontale · 17. braccio · 18. asta verticale · 19. altezza della maiuscola · 20. tratto discendente.Occhielli o panceComponenti della grazia

1. uncino (e relativo apice) · 2. becco (e relativo apice) · 3. punto di raccordo o connessione · 4. intradosso · 5. saliente. Tipi di carattere con grazie

A. Bodoni, a bottone · B. Garamond, a goccia · C. Palatino, a becco.

I tipografi hanno prodotto un completo vocabolario per descrivere e discutere l'aspetto dei caratteri. Qualche termine è applicabile solo ad alcuni sistemi di scrittura.

Dimensioni

La maggior parte dei modi di scrittura condivide la nozione di una linea di base: una linea orizzontale immaginaria su cui si appoggiano i caratteri. Talvolta parte dei glifi, la parte discendente cresce al di sotto della linea base. Similmente, la distanza tra la linea base e la cima del glifo più alto è chiamata ascesa. L'ascesa e la discesa non necessariamente includono lo spazio occupato da accenti o altri segni diacritici.

Nelle scritture latina, greca e cirillica, la distanza fra la linea base e la cima di un normale carattere minuscolo è chiamata occhio medio. La parte di glifo al di sopra è l'ascendente. L'altezza dell'ascendente può avere un effetto sostanziale sulla leggibilità e l'aspetto di un carattere. Il rapporto fra l'occhio medio e l'ascesa è spesso utilizzata per classificare i caratteri tipografici.

Minuscole: l'altezza delle minuscole è misurata sulla lettera x. Infatti le lettere tonde tendono ad avere dimensioni più grandi delle lettere lineari, per applicare una correzione ottica senza la quale apparirebbero al lettore più piccole delle altre.

Maiuscole: è l'altezza misurata sulle lettere maiuscole, solitamente sulla E, sempre per problemi legati alla correzione ottica.

Ascendenti: l'altezza delle lettere minuscole quali l e f ad esempio, è più grande di quella delle altre lettere minuscole, e, di norma, anche delle lettere maiuscole.

Allineamento: è la somma della distanza tra la linea dell'ascendente e la linea di delimitazione del corpo superiore e la linea del discendente e la linea di delimitazione del corpo inferiore. In pratica è la distanza verticale minima dei caratteri.

Apertura

L'andamento delle aste curve aperte di caratteri come la C, c, S, s, a, e e così via, è definito apertura. Alcuni caratteri come l'Helvetica o il Bodoni sono caratterizzati da aperture più ridotte, mentre il Bembo, il Centaur o il Rotis possiedono aperture più ampie.

Crenatura

La crenatura, in inglese kerning, indica la riduzione dello spazio in eccesso tra le due lettere, allo scopo di eliminare spazi bianchi antiestetici e dare un aspetto più omogeneo al testo. Un esempio dove spesso si attua la crenatura è quello di avvicinare le due lettere a bracci obliqui A e V. Può comunque avvenire tra lettere curve come O e C.

Peso

Il peso è il rapporto tra area inchiostrata e area in bianco della serie di caratteri, o meglio lo spessore dei tratti che lo compongono indipendentemente dalla sua dimensione.

Stile

Tipo di carattere senza grazie (lineare, bastone, sans-serif)

Tipo di carattere con grazie (graziato, serif)

Tipo di carattere informale (informale, personalizzato, script)

I tipi di carattere si possono suddividere in due categorie principali: con o senza grazie (note anche con il francese serif, poi trasferito anche all'inglese), ma esiste anche una terza categoria di carattere, chiamato informale, che generalmente riproduce la scrittura in corsivo o manuale delle lettere, con stili più o meno differenti. I caratteri graziati hanno delle particolari terminazioni alla fine dei tratti delle lettere, l'uso delle grazie deriva dai caratteri lapidari romani, dove era molto difficile scalpellare nel marmo angoli di novanta gradi necessari a terminare le aste.

L'industria tipografica si riferisce ai tipi di carattere senza grazie come bastoni, lineari, sans-serif (dal francese sans, «senza») o anche grotesque (in tedesco grotesk).

Esiste una grande varietà sia fra i tipi di carattere graziati sia fra i bastoni; entrambi i gruppi contengono tipi progettati per testi lunghi e altri intesi per scopi principalmente decorativi. La presenza o l'assenza di grazie è solo uno dei molti fattori nella scelta di un tipo.

I caratteri con grazie sono generalmente considerati più facili da leggere in lunghi passaggi che quelli senza. Gli studi al riguardo sono ambigui e suggeriscono che la maggior parte dell'effetto sia dovuta solo a una maggiore familiarità ai caratteri con grazie. Come regola generale, i lavori stampati come libri e giornali usano quasi sempre caratteri graziati, almeno per il corpo del testo. I siti Web non sono obbligati a specificare un tipo di carattere e possono semplicemente rispettare le preferenze dell'utente. Fra i siti che specificano il carattere, la maggior parte utilizzano un tipo di carattere non graziato moderno quale il Verdana dato che è opinione comune che, diversamente dal materiale stampato, sullo schermo del computer i caratteri senza grazie, per la linearità del tratto, siano riproducibili con definizione superiore e quindi di migliore leggibilità. Tale preferenza è andata perdendo di importanza con il progressivo miglioramento della definizione degli schermi moderni.

Proporzionalità

Un carattere tipografico che mostri glifi di larghezza variabile è detto proporzionale mentre un carattere tipografico che possieda glifi con larghezza fissa è detto non proporzionale (o monospace o a larghezza fissa): ad esempio nei caratteri proporzionali la «w» e la «m» sono della stessa larghezza mentre la «i» è più stretta.

I caratteri proporzionali sono generalmente considerati più attraenti e più facili da leggere e sono quindi i più comunemente utilizzati in materiale stampato pubblicato professionalmente. Per la stessa ragione, sono tipicamente utilizzati anche nelle interfacce grafiche delle applicazioni per computer. Molti caratteri proporzionali contengono cifre di larghezza fissa in modo che le colonne di numeri possano essere allineate.

I primi caratteri monospazio sono stati creati per le stampanti, in quanto lo spostamento da un carattere all'altro era sempre della stessa larghezza. L'utilizzo dei caratteri a larghezza fissa continuò nei primi computer che potevano visualizzare un solo tipo di carattere. Comunque, anche se i moderni PC possono mostrare qualsiasi carattere, i caratteri monospazio vengono ancora usati nella programmazione, l'emulazione di terminale e per la stampa di dati incolonnati dei documenti di solo testo. Esempi di tipi di carattere monospazio sono l'Andale Mono, il Courier, il Prestige Elite, il Monaco e l'OCR-B. I caratteri non proporzionali sono considerati migliori per alcune applicazioni, dato che si allineano in colonne ordinate.

L'arte ASCII necessita di caratteri non proporzionali per essere vista correttamente. In una pagina Web, i caratteri non proporzionali possono essere introdotti tra i tag <span style="font-family:monospace"></span>. In LATEX si usa il comando \texttt{} per scrivere caratteri non proporzionali.

I redattori leggono i manoscritti in caratteri a larghezza fissa. Sono più semplici da correggere ed è considerato scortese inviare un manoscritto scritto con un carattere proporzionale.

Famiglie di caratteri

Dato che è stata creata una quantità immensa di caratteri nei secoli, essi vengono comunemente categorizzati in famiglie, in base alla loro apparenza. Questa categorizzazione corrisponde vagamente con la loro evoluzione storica.

Inizialmente si possono suddividere fra maiuscoli, con grazie, senza grazie, e decorativi.

I campioni seguenti contengono una frase senza senso, il cui unico scopo è di contenere tutte le lettere dell'alfabeto (pangramma).

Con grazie

I caratteri con grazie, chiamati in ambito anglosassone roman, comprendono a loro volta vari gruppi principali:

Carattere Garamond

Lapidario

Veneziano o lettere aldine

Rinascimentale, con solo piccole differenze in spessore all'interno del glifo; questa categoria include i tipi di carattere elzeviri, Garamond e Palatino.

Carattere Times New Roman

Barocco o transizionale, nei quali lo spessore all'interno del glifo ha maggiore variazione; questa categoria include Baskerville, Times New Roman e Linux Libertine.

Carattere Bodoni

Moderno, con la massima variazione di spessore all'interno del glifo. L'introduzione delle tecniche di fusione perfezionate alla metà del XVIII secolo permise tratti più fini e influenzò grandemente questi caratteri. La famiglia comprende il Bodoni, il Didot, l'Ybarra e il Century Schoolbook.

Carattere Rockwell

Contemporaneo, specialmente quelli intesi per scopi decorativi, sfuggono generalmente a ogni classificazione. Per esempio i caratteri slab serif come il Rockwell sembrano appositamente artificiali, con forme quasi rettangolari. La famiglia comprende il Windsor.

Senza grazie

I caratteri "sans-serif" sono diventati i più diffusi per la visualizzazione del testo sugli schermi dei computer. Sui display digitali a bassa risoluzione, i dettagli dei "serif" potrebbero scomparire o apparire troppo grandi. Il termine deriva dalla parola francese sans, che significa "senza" e "serif" di origine incerta, probabilmente dalla parola olandese schreef che significa "linea" o tratto di penna. Nei supporti stampati, sono più comunemente usati per la visualizzazione e meno per il corpo del testo .

Prima che il termine "sans-serif" diventasse comune nella tipografia inglese, erano stati usati molti altri termini. Uno di questi termini antiquati per sans serif era "gotico", che è ancora usato nella tipografia dell'Asia orientale e talvolta visto in nomi di caratteri come News Gothic, Highway Gothic, Franklin Gothic o Trade Gothic .

I caratteri senza grazie si possono classificare approssimativamente in quattro gruppi principali:

Grotesques, i primi senza grazie, come il Grotesque o il Royal Gothic.

Carattere Arial

Neo-grotesques, design moderni quali lo Standard, l'Helvetica, l'Arial, e l'Univers.

Carattere Frutiger

Humanist (Railway type di Edward Johnston, Gill Sans o Frutiger).

Carattere Futura

Geometrici (Futura o Spartan).

Transport D, ideato negli anni cinquanta e usato in molti paesi europei come carattere tipografico per i segnali stradali, sia neretto sia condensato, sia normale sia stretto.

Carattere Transport D neretto.

Altri caratteri senza grazie di uso comune sono Optima, Tahoma e Verdana. Si deve notare che in alcune serie (per esempio nell'Arial) i caratteri I (I maiuscola) e l (L minuscola) sono perfettamente identici. Il Verdana invece li mantiene appositamente distinti, dato che la I maiuscola, che fa eccezione, è munita di grazie.

Gotico

Lo stesso argomento in dettaglio: Scrittura gotica.

Fraktur

I primi caratteri tipografici utilizzati con l'invenzione della pressa da stampa somigliano alla calligrafia maiuscola dell'epoca.

Di tutti i caratteri, i Textura (o gli Old English) assomigliano maggiormente alla calligrafia usata nei manoscritti gotici. Johannes Gutenberg incise un tipo di carattere Textura, includendo un gran numero di legature e abbreviazioni comuni, per stampare la sua Bibbia a 42 linee.

I caratteri Schwabacher prevalsero in Germania all'incirca dal 1480 al 1530, e rimasero in uso occasionalmente fino al XX secolo. In particolare, tutte le opere di Martin Lutero nonché l'Apocalisse di Albrecht Dürer (1498) utilizzarono questo carattere. Johannes Bämler, uno stampatore di Augusta, lo utilizzò per la prima volta probabilmente nel 1472. Le origini del nome non sono chiare; alcuni suppongono che un incisore del villaggio di Schwabach, che lavorò esternamente[non chiaro] e quindi rimase conosciuto come lo Schwabacher, disegnò il carattere.

La famiglia Fraktur divenne la più nota fra le famiglie di caratteri maiuscoli. Venne creata quando l'imperatore Massimiliano I (1493 – 1519) preparò una serie di libri e fece creare il nuovo carattere appositamente. Gli stampatori tedeschi utilizzarono estensivamente i caratteri Fraktur fino al veto nazista del 1942.

Simboli

A differenze delle precedenti, consistono in raccolte di simboli e non di caratteri per il testo. Esempi ne sono lo Zapf Dingbats (un famoso tipo di carattere con simboli vari) e il Sonata (un tipo di carattere per spartiti musicali).

Altre

Informali

I tipi di carattere informali (o script) simulano la calligrafia: Zapfino e Zapf Chancery ne sono esempi. Non si prestano molto bene a grandi quantità di corpo di testo, poiché l'occhio umano li trova più difficili da leggere rispetto a molti serif o sans-serif.

Tipi di carattere originali

Hanno generalmente forme di caratteri molto particolari e possono addirittura comprendere immagini di oggetti, animali o altro nel design. Hanno generalmente caratteristiche molto specifiche (per esempio, evocativi del Wild West, del Natale, dei primi baci di una coppia, di film dell'orrore [3],...) e quindi uso molto limitato. Non sono adatti per il corpo del testo.

Tipi di carattere PI

I tipi di carattere PI sono principalmente costituiti da pittogrammi come segni decorativi, orologi, simboli da orari ferroviari, numeri racchiusi in cerchi e altro. Alcuni esempi sono lo Zapf dingbats, il Webdings e il Wingdings.

Testo utilizzato per dimostrare i caratteri

Un pangramma come «the quick brown fox jumps over the lazy dog» spesso serve per dimostrare l'aspetto di un carattere. Per esempi più estesi viene comunemente usato testo senza senso come «lorem ipsum» o altro testo in latino quale l'inizio della Prima Catilinaria di Cicerone. Nella versione italiana di Microsoft Windows viene spesso utilizzato il proemio dell'Iliade (nella traduzione di Vincenzo Monti del 1825).

Caratteri e diritto d'autore

Alcuni stati consentono il diritto d'autore sul disegno dei caratteri, altri permettono solo la concessione di un brevetto su disegni particolarmente originali. I caratteri in formato informatico spesso diventano soggetti a diritto d'autore in quanto programmi per computer. Il nome del disegno può essere registrato quale marchio registrato. Come risultato di queste diverse protezioni legali, spesso lo stesso disegno è fornito sotto nomi e implementazioni diverse.

Alcuni elementi dei meccanismi software impiegati per la visualizzazione hanno brevetti software associati. In particolare, la Apple ha brevettato alcuni degli algoritmi di hinting relativi a TrueType obbligando alternative open source quali FreeType a utilizzare algoritmi diversi. A sua volta la Microsoft Corporation ha sviluppato i caratteri Open Type.

Lista di tipi di carattere. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Qui di seguito è riportata la lista di alcuni tipi di carattere diffusi e utilizzati. Sono facilmente reperibili in rete (sia gratis che a pagamento) e possono essere usati in svariati modi: dall'applicazione in programmi di videoscrittura, all'arricchimento di montaggi video. La maggior parte di questi caratteri è di tipo TrueType. Per aggiungere font in alto, si prega di controllare con o la pagina corrispettiva in inglese o qualche lingua principale. Non dovrebbero esserci delle particolari modifiche in circa tre anni e mezzo perché verranno aggiunti i caratteri man mano che si aggiunga la pagina nella corrispettiva (wiki) inglese.

Con grazie

Aldus

Algerian

Antiqua

Aster

Ávila (font)

AwamiNastaliq-3.100

Baskerville

Bauer Bodoni

Benguiat

Bodoni

Bookman

Book Antiqua

Bookerly

Bressay

Cambria

Cartier

Caslon

Cavergiz

Clarendon

Common Serif StefanPeev

Computer Modern Roman

Concrete Roman

Constantia

DejaVu Serif

Espy Serif

Friz Quadrata

Garamond

Gentium

Georgia

Goudy

Hoefler Text

Janson

Jenson

Legacy Serif

Liberation Serif

Linux Libertine

Literaturnaya

Lucida Bright

MS Serif

Century Schoolbook

New York

Palatino

Plantin

Pompei New Light

Prospectus Pro S

Rawlinson Roadway

Rockwell

Roman

Rotis Serif

Sistina

Souvenir

Stone Serif

Sura

Times New Roman

Vera Serif

Vani (font)

Versailles

Windsor

Amsterdam Old Style

Portobello

Easyreading

Tema Cantante


 

Senza grazie

Aardvark-Regular

AdLib BT

Agency FB

Akzidenz Grotesk

Alte DIN 1451 Mittelschrift gepraegt

Altosa

Arial

Arthouse Owned

Aspekta 400

Assasin Aerox

Avant Garde

Bell

Bluebird

Bull-5 Regular

Calibri

Camaro Sans

Canada Máx Wynér

Candara

Carlito Regular 1.104 otf

Century Gothic

Cewe Head

Charcoal

Chicago

Corbel

DarkerGrotesque

DejaVu Sans

DIN Next Rounded

Ecofont

Flinders

Franklin Gothic

Frutiger

Frutiger NEXT

Futura

Gadugi

Gastica

Geneva

gg sans di Discord

Gill Sans

Gruppo

Gudea

Gugeshashvili Mthavruli

Handel Gothic

Denmark

Haettenschweiler

Helvetica

Helvetica Neue

Swiss 721

HarmonyOS Mistu Sans Medium

Highway Gothic

Hubot Sans SemiCondensed Medium

Impact

Inter

Inter Display Regular

Jade

Johnston/New Johnston

Kabel

Kohinoor Bangla

Legacy Sans

Lato

Liberation Sans

linja waso lili

Microsoft JhengHei UI ottimo a 11 pt

Modern

Mondapick Trial

MS Sans Serif

Myriad

News Gothic

NT Somic

Open Sans

Optima

Opun

Oracle Sans

Paneuropa Highway

Parisine

Pill Gothic

Pitagon Sans ttf variabile

Plume DaMa

Revue

Rillus-1002

Roboto 2.038 o Roboto classic (la versione variabile 3.005)

San Francisco

Segoe UI

Sintony

Sorren

Source Sans Pro

Space Grotesk su GitHub

SURATANASANS-Light

Tahoma o un font con metriche compatibili Tahoma wine

Tiresias

Trade Gothic

Transport alphabet

Trebuchet

Trebuchet MS

Verdana

Verdana Now

Visa Dialect UI Regular 1.001

Viga

Work Sans

YaHei Monaco Hybird

Anybody

Acumin

EBGaramond

Figtree

Schibsted Grotesk

Eternum v2.450 Latest

QiushuiShotai

TA Fabricans

Vinron

Katide

Razumec

Henju Sans

Fragmental Sans

Gisha

Resultat

Borzoi


 

Caratteri ad alta velocità di caricamento

Asket Condensed Extrabold

Asket Extended Light

Asket Extrabold

Asket Narrow Light

Barna-SemiBold

Gest-Regular

Giphurs

IntercomSquare-Regular


 

Egizi

Si tratta di caratteri dal tratto marcato che presentano terminazioni a barra.

Aleo

New Telegraph 3.001

Playfair Display

Skiff


 

A spaziatura fissa

BitmapMc Regular

Bull-5 Typewriter

Computer Modern Typewriter

Consolas

Cozette

Courier

CourierHP

Courier New

DejaVu Sans Mono

Everson Mono

Fira Code

Fixed

Fixedsys

Fixedsys Excelsior

Fragment Mono

Hyperfont

Inklination Mono

Iosevka (carattere)

Jetbrains Mono

Letter Gothic

Lucida Console

Kale Sans Mono

Monaco

Monolisa

Monospace

MS Gothic

MS Mincho

Noto Sans Mono

OCR-A

OCR-B

Prestige

ProFont

Shinkai Mono

Sydnie (incluso in QuickTime)

Terminal

Trulle Mono


 

Calligrafici

Allegro BT

AMS Euler

Apple Chancery

Magnificat

Scriptina

Zapf Chancery

Zapfino


 

Handwriting

Ashley Script

Comic Sans

Cezanne

Dom Casual

Irregularis

Kristen

Lucida Handwriting

Tekton


 

Typewriter

Adler


 

Altri tipi

Cupola

Curlz

Script (carattere vettoriale incluso in Windows 3.1)

Sivtsev-Eye-Chart

Staccato

Stone Informal

Ubuntu-Title


 

Blackletter

Fraktur

Rotunda

Schwabacher

Textura


 

Non latini

Amienne (Cyrillic carattere script di Ray Larabie)

Kochi

Minchō

Mona

Japanese Gothic

MS Gothic

PT Sans

SimSun

Tai Le Valentinium

Tengwar Noldor

Tengwar Quenya

Tengwar Sindarin

Wadalab


 

Caratteri Unicode

Alphabetum

Arial Unicode MS

Charis SIL

Cyberbit

Bitstream Vera

Cardo

ClearlyU

Code2000

Code2001

Code2002

Computer Modern Unicode

DejaVu

Doulos SIL

Everson Mono

Free UCS Outline Fonts

Gentium

GNU FreeFont

Helvetica World

Junicode

LastResort

Lucida Grande

Lucida Sans Unicode

New Gulim

Titus Cyberbit Basic

Unicode fallback font

Y.OzFontN


 

Caratteri simbolo

Apple Symbols

Bookshelf Symbol 7

Symbol

Wingdings

Wingdings 2

Wingdings 3

Webdings

Zapf Dingbats


 

non passano

Atelier Grotesk

Baghira

Base6

Bright Moon Kai Mono Regular

Inter Display Semi Bold

Lilex

Maki Sans

Mezenets Unicode

Monocode -4.3.2

Morjuis

Noto Sans NKo Regular

Ryan mono

L’Evoluzione.

Cos’è il merito.

I dottori di ricerca.

Università, i dieci professori italiani emergenti dell’area umanistica.

Università, i dieci professori italiani emergenti di economia e diritto.

Università, i professori emergenti di Chimica, Ingegneria e Medicina

Università, i professori emergenti in Scienze, tecnologia e fisica

L’Evoluzione.

Qualche domanda sulla teoria dell'evoluzione: cosa non torna. Steno Sari su Libero Quotidiano il 23 ottobre 2023

Ho assistito in questi giorni ad una conferenza del professor Michael Denton, organizzata dal CIID (Centro Italiano Intelligent Design) in collaborazione con il Discovery Institute di Seattle. Nella sua relazione presentata all’Istituto Aeronautico “A. Locatelli” di Bergamo, questo scienziato, biochimico di fama internazionale, ha posto la questione: secondo la teoria dell’evoluzione, specie animali diverse che hanno seguito percorsi evolutivi diversi si ritrovano ad avere, fondamentalmente, lo stesso tipo di strutture, ad esempio le articolazioni. Come mai? Ad esempio, tutti i mammiferi a quattro zampe inizialmente hanno uno schema a cinque dita (pentadattilia), poi, durante la vita embrionale, in alcuni di loro le dita si fondono e il loro numero si riduce. Ma tutto ciò è il risultato di un processo evolutivo in cui entra in gioco la componente casuale oppure, come sostiene Denton, potrebberappresentare l’evidenza di una legge di natura già scritta negli organismi viventi? È finalizzata ad uno scopo? Se sì, quale?

Nonostante le teorie evoluzionistiche permeino non solo le scuole, ma anche l’insegnamento scientifico e altri campi come la storia e la filosofia, non sono pochi gli scienziati coraggiosi che le mettono in discussione e propongono un necessario ripensamento del paradigma che orienti la biologia evoluzionista verso una spiegazione migliore che vada nella direzione di un Disegno Intelligente. Per attuarla occorrerebbe una vera e propria “rivoluzione scientifica”, come sosteneva il Professor Thomas Kuhn, pensatore tra i più acuti e controversi del Novecento. Infatti le grandi rivoluzioni nella scienza (si pensi ad esempio alla teoria della relatività) si sono avute solo attraverso un cambio di paradigma, un mutamento radicale nel modo di pensare. Ripercorrendo la storia della scienza ci si rende conto però che è molto difficile realizzare e soprattutto accettare il cambio di paradigma. Come mai? Una possibile risposta sta nel fatto che una rivoluzione scientifica rappresenta un evento altamente drammatico in quei sistemi come le scienze “esatte” dove tutto sembra stabile e maturo.

Nel 1900 Lord Kelvin, uno dei massimi scienziati del tempo, dichiarava con sicurezza: «Non c’è niente di nuovo da scoprire nella fisica al giorno d’oggi. Tutto ciò che rimane da fare è una misurazione sempre più precisa». Solo cinque anni dopo Albert Einstein sconvolgeva il mondo scientifico, e non solo, presentando una nuova concezione dello spazio e del tempo. A volte la difficoltà è dovuta all’adesione ideologica ad un vecchio modo di pensare che rappresenta non solo un’interpretazione scientifica della realtà ma anche una visione teologica del mondo. Si pensi ad esempio al difficile e tormentato passaggio dal sistema tolemaico a quello copernicano che portò Galileo Galilei all’inquisizione o anche al passaggio dalla teoria della generazione spontanea della vita, durata 200 anni, alla biogenesi con gli esperimenti decisivi di Pasteur (omne vivum ex vivo). In fondo dietro ogni scienziato c’è sempre un uomo con le sue convinzioni e i suoi pregiudizi.

Due bambini su tre faranno un lavoro che ancora non esiste. Cambiamo la scuola. Gianna Fregonara e Orsola Riva su Il Corriere della Sera domenica 22 ottobre 2023.

Gli effetti della crisi demografica (tra 10 anni ci saranno un milione e mezzo di studenti in meno) e il ruolo dell’Intelligenza Artificiale. Il modello italiano resiste, ma molto può essere migliorato. A partire dagli orari

Nell’aprile di quest’anno un gruppo di ragazzi del Liceo Berchet di Milano ha scritto una lettera aperta per chiedere aiuto ai professori e alla scuola: tornati in classe dopo l’onda lunga del Covid, 56 loro compagni avevano alzato bandiera bianca e si erano ritirati, in difficoltà a riprendere a vivere e studiare «come prima». Su queste pagine l’inchiesta in più puntate Il male di vivere ha messo in luce come in realtà il lockdown avesse amplificato un disagio che viene da più lontano. E che coinvolge, insieme ai figli, anche i genitori, gli insegnanti e più in generale il mondo degli adulti. Ma a farne le spese sono proprio loro: i giovani.

Facile, troppo facile, prendersela con la scuola quando le cose non vanno bene. Lo diceva già Tolstoj più di 150 anni fa: le persone sono educate dove anche la vita è istruttiva; dove non lo è, non lo sono. Se davvero si vuole cambiare prospettiva, bisogna andare oltre il solito elenco dei problemi. Ripartire dalla scuola, come chiedevano anche gli studenti milanesi, per cercare possibili soluzioni, lasciando cadere slogan e pregiudizi per concentrarsi sulla sua missione nell’era della quarta rivoluzione industriale e del salto nel buio nel pianeta dell’intelligenza artificiale.

Quale scuola in un Paese che nei prossimi dieci anni perderà un milione e mezzo di studenti a causa dell’inverno demografico che ha già svuotato le culle, in un mondo in cui due bambini su tre faranno un lavoro o una professione che ancora non c’è e dovranno probabilmente tornare sui banchi più volte nella loro vita? Quale scuola per garantire a quel bene sempre più raro e prezioso che sono i giovani il loro posto al sole ma anche una bussola per orientarsi quando il barometro volge alla tempesta? Ne parliamo in Non sparate sulla scuola (edito da Solferino, euro 16, in libreria, in edicola e online), un’inchiesta sul sistema di istruzione del nostro Paese.

Urgenze presenti e orizzonte futuro

Quello italiano resta un modello da difendere perché è aperto a tutti, inclusivo, gratuito e competitivo con il sistema privato che in altri Paesi invece ha preso il sopravvento, anche se queste caratteristiche non bastano a garantirgli il senso della propria missione. Inseguire il nuovo che avanza come l’eterna giovinezza di Dorian Gray sarebbe velleitario. Men che meno serve rimpiangere il tempo passato, perché la scuola di ieri non era meglio di quella di oggi.

Se lo misuriamo con gli esiti dei test Invalsi, delle rilevazioni internazionali, se paragoniamo la spesa per l’istruzione con gli altri Paesi, gli stipendi degli insegnanti, lo stato degli edifici, la lentezza nella digitalizzazione, la strada da fare è ancora molto lunga. Ma intanto la sfida immediata è quella di non distrarre i fondi che si risparmieranno con il calo degli studenti, di usarli tutti per mettere mano a cambiamenti di organizzazione e di strategia didattica che sono a portata di mano. A partire dalle proposte di ripensamento dell’orario scolastico di medie e superiori, inutilmente compresso al mattino col risultato di caricare i ragazzi di compiti che - oltre ad aumentare i vantaggi e gli svantaggi di partenza tra gli studenti - ormai vengono sempre più spesso scopiazzati in rete. È il momento di portare avanti le sperimentazioni didattiche che in tante scuole italiane già si fanno con entusiasmo e soddisfazione di tutte le parti, ma che faticano a diventare sistema.

L’abbandono

La scuola intesa come una corsa contro il tempo per completare i programmi (che tra l’altro per legge non esistono più!) finisce per lasciare indietro troppi studenti. Stare male in classe - come ci ricordano gli studenti ma anche fior di studi internazionali - è il primo passo verso l’abbandono, che ancora porta via dal sistema d’istruzione il 12,7 per cento degli studenti prima del diploma. Non è solo questione di quello che gli alunni italiani sanno a fine percorso ma di quello che hanno imparato a fare con quello che sanno. Sono ormai quasi vent’anni che il Parlamento e il Consiglio dell’Unione europea hanno individuato quelle che ritengono essere le «competenze chiave» per il Ventunesimo secolo, a partire da quella capacità di «imparare a imparare» che è diventata imprescindibile in un mondo che cambia a una velocità sempre più vorticosa. Il concetto di apprendimento continuo però si basa su un paradosso, ovvero sul fatto che la capacità di acquisire nuove conoscenze presuppone quelle vecchie. Detto altrimenti: più si è istruiti più è facile aggiornarsi mentre al contrario chi ha un livello di istruzione più bassa è condannato a restare sempre più indietro. Mai come oggi poter contare su delle solide competenze di base è diventato indispensabile non solo per affermarsi nel mondo del lavoro ma anche per sapersi orientare in modo critico nella nuova Babele del sistema di comunicazione in cui, iperconnessi, anche noi adulti ormai viviamo.

Il vecchio e il nuovo

Come ha detto il filosofo di Oxford Luciano Floridi, «tocca alla scuola preparare meglio gli avventori del bar dell’informazione, che sempre più assomiglia a quello di Guerre stellari in cui non si trovano solo premi Nobel, ma anche tanti manigoldi e imbroglioni». L’avvento dell’Intelligenza artificiale ha ulteriormente alzato la posta. Il risultato dell’esperimento condotto dai ricercatori dell’università di Cagliari di sottoporre a ChatGPT il test di medicina del 2022 - il programma ha passato l’esame con un punteggio medio abbastanza alto da consentirgli, in linea teorica, di entrare alla Sapienza - costringe la scuola a interrogarsi su alcuni cambiamenti non più rimandabili: certe attività compilative dovranno essere ripensate e sostituite. Invece di vietare l’uso dell’IA, il fisico Roberto Battiston, ex presidente dell’Agenzia spaziale italiana, ha detto che bisognerebbe insegnare agli studenti a interrogare correttamente questi programmi e soprattutto a riconoscere i «pregiudizi nascosti» in essi.

La tecnologia

Di fronte alla sfida epocale posta dalle nuove tecnologie e ora dall’intelligenza artificiale, non esiste un’unica soluzione. Ci vogliono interventi complessi, differenziati e articolati. La ricerca e le neuroscienze offrono ormai molti spunti interessanti. Di “semi” nelle scuole ce ne sono tanti: si tratta di farli germogliare impegnandosi a favore di un progetto partecipato e di lungo periodo che dev’essere portato avanti indipendentemente dalle turbolenze della politica. Il primo passo è essere tutti d’accordo, non solo a parole, sull’importanza del capitale umano. Lo sosteneva già Benjamin Franklin: «Nessun investimento paga migliori interessi di quello in conoscenza».

Cos’è il merito.

Antonio Giangrande: Il cafone è chiassoso, esibizionista, ignorante e prepotente. I suoi sinonimi: Se vuoi chiamali terroni o polentoni, bauscia o burini, ecc..

Antonio Giangrande: Un altro errore che commettiamo è dare molta importanza a chi non la merita.

Antonio Giangrande: E’ di Avetrana (TA) l’avvocato più giovane d’Italia. Il primato è stabilito sul regime dell’obbligo della doppia laurea.

25 anni. Mirko Giangrande, classe 1985.

Carriera scolastica iniziata direttamente con la seconda elementare; con voto 10 a tutte le materie al quarto superiore salta il quinto ed affronta direttamente la maturità.

Carriera universitaria nei tempi regolamentari: 3 anni per la laurea in scienze giuridiche; 2 anni per la laurea magistrale in giurisprudenza.

Praticantato di due anni e superamento dell’esame scritto ed orale di abilitazione al primo colpo, senza l’ausilio degli inutili ed onerosi corsi pre esame organizzati dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati.

Et Voilà, l’avvocato più giovane d’Italia, stante la formalità del giuramento.

Cosa straordinaria: non tanto per la giovane età, ma per il fatto che sia avvenuta contro ogni previsione, tenuto conto che Mirko è figlio di Antonio Giangrande, presidente nazionale dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, noto antagonista del sistema giudiziario e forense del Foro di Taranto, che gli costa per 17 anni l’impedimento all’abilitazione forense. Dalle denunce penali e i ricorsi ministeriali da questo presentati, rimasti lettera morta, risulta che tutti i suoi temi all’esame di avvocato di Lecce non sono stati mai corretti dalle Commissioni presso le Corti d’Appello sorteggiate, ma dichiarati non idonei e sempre con voti e/o giudizi fotocopia. Nonostante ciò nessuno muove un dito. Inoltre il ricorso al Tar è inibito per l’indigenza procuratagli ed impedito dalla Commissione per l’accesso al gratuito patrocinio.

Tutte le sue denunce penali sono insabbiate senza conseguire accuse di calunnia.

E dire che Antonio Giangrande ha affrontato la maturità statale portando 5 anni in uno e si è laureato a Milano superando le 26 annualità in soli due anni. Buon sangue non mente.

Avv. Mirko Giangrande:

Avvocato - Mediatore Civile & Commerciale - Docente - Scrittore - Gestore Crisi da Sovraindebitamento - Funzionario Addetto all’Ufficio per il Processo

- 2002: diploma di Ragioniere, Perito commerciale e Programmatore presso l’Istituto Tecnico Commerciale e per Geometri "L. Einaudi" di Manduria (TA) a soli 17 anni;

- 2005: laurea in Scienze Giuridiche a soli 20 anni presso la Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Bari;

- 2007: laurea Magistrale in Giurisprudenza presso la Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Bari a soli 22 anni;

- 2010: abilitazione forense, diventato l’avvocato più giovane d’Italia a soli 25 anni. Titolare dello Studio Legale Giangrande;

- 2018: Autore della collana di libri “Corso di preparazione agli esami universitari, concorsi e per scuole superiori”;

- 2020: Master in "L'insegnamento delle materie giuridico - economiche negli istituti secondari di II grado: metodologie didattiche", presso l'Università E-Campus;

- 2021: Corso di alta formazione abilitante di Mediatore civile e commerciale;

- 2021: Corso di alta formazione abilitante di Gestore della crisi da sovraindebitamento.

VENI, VIDI, VICI. Parabiago 20/9/2022

Prova orale concorso cattedra A046

Finalmente Professore abilitato di Diritto ed Economia politica

Sono stravolto dalla stanchezza ma felicissimo.

Dedico questa soddisfazione alla mia famiglia (Antonio Giangrande Cosima Petarra, Tamara Giangrande), all’amore della mia vita Francesca Di Viggiano che mi ha sopportato in questi mesi di “agonia”, ma soprattutto lo dedico all’uomo che più mi è stato accanto, che mi ha sempre spronato, che ha creduto in me, che ogni mattina mi dava la forza di alzarmi per affrontare ore di studio post-lavoro, che mi ha fatto tirare dritto verso quest’alto obiettivo, che mi ha dato la pazienza di perdere l’intera estate dietro i libri: quell’uomo sono io…

Leonardo Altobelli e l'ultima laurea a 91 anni: «I giovani lascino perdere i social, improntino la loro vita ad altro». Cinzia Semeraro lunedì 20 novembre 2023

Il medico di Troia, che qualche settimana fa ha conseguito la quindicesima laurea (in scienze investigative), ha incontrato gli studenti dell'istituto superiore  «Notarangelo»  di Foggia

«I giovani devono essere invogliati per la loro vita futura, perché il futuro è il loro e dovrebbero essere coscienti di quello che fanno». È il messaggio rivolto da Leonardo Altobelli, il medico 91enne che poche settimane fa ha conseguito la sua quindicesima laurea (l'ultima in scienze investigative), agli studenti dell'istituto superiore «Notarangelo» di Foggia, a margine di un incontro. «Consiglio ai giovani di occuparsi del più debole, di non lasciarlo indietro. E consiglio loro di lasciar perdere il web, internet e i social. Dar loro lo spazio necessario. Uno spazio tecnico, ma improntare la propria vita su altro». 

La laurea in filosofia quella preferita

E alla domanda dei giornalisti su quale sia la laurea a cui è più legato, il 91enne risponde senza dubbio: «Filosofia, perché mi ha insegnato a ragionare, a dialogare con l'interlocutore, a seguire tutti i fatti che accadono». «Ai giovani consiglio di interessarsi a tutto ciò che li circonda ad iniziare dalla politica, perché è necessario - conclude Altobelli - capire ciò che accade e come gli altri vogliono risolvere per avere un'idea precisa del mondo che ci circonda». 

Foggia, a 91 anni 15esima laurea per Leonardo Altobelli: «Amate ciò che fate». Questa volta in criminologia nel corso di Scienze investigative, una delle innovazioni dell’ateneo foggiano. REDAZIONE ONLINE su La Gazzetta del Mezzogiorno il 24 Ottobre 2023 Leonardo Altobelli, a 91 anni, ha indossato per la 15esima volta la «corona di alloro». Oggi pomeriggio, presso il dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Foggia, diretto dalla professoressa Donatella Curtotti, ha conseguito la 15esima laurea. Questa volta in criminologia nel corso di Scienze investigative, una delle innovazioni dell’ateneo foggiano, dove ha già conseguito il titolo accademico. Di Troia, nel Foggiano, cittadina che ha anche amministrato come sindaco nel 1984, nella vita è stato medico di base fino all’età di 70 anni.

Una carriera lunghissima, durante la quale ha arricchito il suo percorso di studi, rendendolo variegato, con un mosaico di lauree anche in Giurisprudenza, Scienze Politiche, Lettere, Filosofia, doppia laurea in Pedagogia, Agraria, Scienze e tecnologie alimentari, Scienze turistiche, Storia, Biotecnologie, Archeologia e un master in criminologia. Non solo: nel suo curriculum universitario vanta anche 7 diplomi in medicina sociale, medicina dello sport, diritto sanitario e tutor di medicina generale, solo per citarne alcuni.

«Sono lo studente più anziano del mondo, ma ora, dopo questa laurea mi fermo, perchè vorrei lasciare a future memorie quello che ho fatto e perchè l’ho fatto» - spiega Leonardo Altobelli. «Mi dedicherò alla scrittura. Ai giovani dico di amare tutto ciò che fanno. Di abbracciare il proprio lavoro, e di farlo con il sorriso e la calma. Lo studio mi ha sempre appassionato. Per questo mi definisco uno 'studente del mondo'».

Il lato nascosto della fuga dei cervelli: più giovani partono, meno lavoro si crea per chi resta. A lasciare l’Italia sono soprattutto neolaureati, dottori di ricerca e innovatori. Secondo una nuova ricerca questo flusso ha causato la mancata nascita di 80mila imprese. Con evidenti ricadute occupazionali. Emanuele Coen su L'Espresso l'11 Maggio 2023. 

Un barcone con più di seimila italiani a bordo si allontana dalle nostre coste ogni settimana. Nello stesso arco di tempo, da una barca molto più piccola scendono a terra solo 220 migranti. Un’immagine (i numeri si riferiscono al 2019, l’ultimo anno pre-Covid) che rende l’idea di un fenomeno silenzioso, carico di sfumature e conseguenze. L’attenzione del governo, invece, si concentra sui migranti in arrivo, sulla fantomatica ondata di clandestini che rischia di sommergere il Paese. «La vera emergenza non riguarda gli sbarchi degli stranieri, ma gli imbarchi degli italiani, di cui non si occupa nessuno. Chi parte in aereo, chi in treno o in auto: un esodo di cui non ci accorgiamo», dice Massimo Anelli, professore associato nel dipartimento di Scienze sociali e politiche dell’Università Bocconi di Milano. «Nel 2019 sono stati 122 mila i connazionali registrati nell’Anagrafe degli italiani residenti all’estero (Aire). Stimiamo che i flussi reali di italiani in uscita siano 2,6 volte superiori a quelli registrati ufficialmente. Ciò equivale a perdere ogni anno una città delle dimensioni di Bari, composta prevalentemente da giovani, con un alto livello di istruzione, innovatori e imprenditori». 

Assieme a un gruppo di esperti – Gaetano Basso di Banca d’Italia, Giuseppe Ippedico e Giovanni Peri dell’Università della California – Anelli ha messo a fuoco un aspetto inedito della fuga dei cervelli: il nesso causale tra emigrazione e imprenditorialità. Gli studiosi, infatti, hanno calcolato che ogni mille emigrati, tra il 2008 e il 2015, in Italia sono state create circa 36 imprese in meno. Con evidenti ricadute occupazionali.

«Se pensiamo che ogni anno sono partiti 317 mila connazionali, si tratta di quasi 12 mila aziende in meno. Numero da moltiplicare per sette anni: cioè oltre 80 mila imprese mancate», aggiunge il professore che con i colleghi ha analizzato a fondo questo dato. E ha scoperto che la «fuga di imprenditori» è particolarmente grave per le imprese create da persone di età inferiore a 45 anni e tra le startup innovative. In particolare, solo il 36 per cento della perdita di imprese si spiega in ragione della semplice diminuzione della popolazione, mentre il 7 per cento va attribuito al fatto che gli emigranti italiani sono più giovani e dunque più imprenditoriali della popolazione media; il loro alto livello di istruzione, invece, determina un altro 10 per cento della perdita. Il restante 47 per cento, infine, discende dal fatto che – indipendentemente dall’età e dall’istruzione – gli emigrati connazionali hanno una maggiore propensione a diventare imprenditori rispetto alla media.

«Il nostro studio ribalta un luogo comune diffuso nel mondo politico», prosegue Anelli, «l’idea che con l’emigrazione di tanti italiani si liberino posti di lavoro per gli altri. Un’idea non supportata dall’evidenza empirica. Anzi, con la perdita di tanti potenziali imprenditori, l’emigrazione riduce le opportunità di lavoro per chi rimane». La ricerca rivela che in un Paese come l’Italia, dove la crescita economica è lenta, il livello di istruzione è medio-basso e la popolazione invecchia rapidamente, gli alti tassi di emigrazione di giovani talenti innescano una spirale negativa, la quale rinforza la stagnazione economica.

Che fare, quindi, per evitare i costi dell’emigrazione? «Occorre agire sui motivi che spingono i connazionali ad andarsene: salari non competitivi con il resto del mondo, una burocrazia che scoraggia la creazione di imprese, una politica che guarda poco alle nuove generazioni», sottolinea il professore che sposta l’accento su un altro aspetto: «La vera sfida non è fermare la fuga di cervelli o imprenditori, ma quella di attirarli, che siano italiani o meno». Secondo Anelli, è importante che i connazionali emigrati restino in contatto con interlocutori italiani e tornino con il loro bagaglio di istruzione, competenze, esperienze.

A supporto della ricerca, inoltre, arrivano i nuovi dati Istat nell’ultimo rapporto sulle migrazioni: si quantificano in un milione circa i connazionali espatriati tra il 2012 e il 2021, un quarto dei quali con una laurea. Tra le ragioni delle partenze spiccano le opportunità migliori che si trovano fuori e la variabile retributiva: a un anno dal conseguimento del titolo di studio, il guadagno è il 41,8 per cento in più di quanto sarebbe in Italia. Il Regno Unito è la meta preferita dei giovani laureati, seguito da Germania, Svizzera e Francia. «Emigrano tanti laureati, che in Italia sono già pochi. E poi, oltre ai laureati, va via chi ha un’alta propensione a creare imprese», specifica Anelli.

Stando alle statistiche, ora il fenomeno sembra rallentare. Ma i dati vanno letti con attenzione. Secondo il rapporto Istat sulle migrazioni, nel 2021 gli espatri sono stati 94 mila, in forte calo rispetto all’anno precedente (-22 per cento). E, in base ai primi dati disponibili del 2022 (gennaio-ottobre), la contrazione è pari al 20 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. «Per certificare la flessione dell’emigrazione bisogna aspettare i dati complessivi del 2022, il primo anno che non risente dell’influenza del Covid. Usciranno nel 2024», precisa Anelli.

Quanto alla capacità d’invogliare le persone a trasferirsi in Italia, il professore invita a guardare all’indice di attrattività dell’Ocse, che ci colloca in fondo alla classifica sotto diversi profili. «Per chi ha un master o un dottorato di ricerca l’Italia è in coda alla graduatoria, assieme a Messico, Grecia e Turchia. Ed è ultima per quanto riguarda il reddito dei lavoratori ad alta istruzione». Va un po’ meglio per le università: il nostro Paese si colloca a metà della classifica delle destinazioni dove studiare.

Per invertire la rotta, già da tempo sono attive diverse strategie. Con il Programma “Rita Levi Montalcini”, ad esempio, negli ultimi anni sono tornati tanti ricercatori. E di recente, per incentivare il rientro dei cervelli, il decreto legge Pnrr ha previsto l’esonero contributivo a favore delle imprese che partecipano al finanziamento delle borse di dottorato innovativo e assumono personale in possesso del titolo di dottore di ricerca. La misura è riconosciuta nel limite massimo di 3.750 euro per ogni assunzione a tempo indeterminato. «Quella del Programma “Levi Montalcini” è una storia di successo», conclude il professore, «nelle università italiane i giovani ricercatori rientrati, pieni di talento e con esperienze internazionali, hanno riequilibrato la situazione. Ora il seme c’è e germoglia». Per alimentare il circolo virtuoso, però, i cervelli di ritorno non devono limitarsi a popolare il mondo accademico: «Occorre attivare una dinamica simile anche per creare nuove imprese».

L’educazione non ha prezzo”: così un liceo romano ha rifiutato 300.000 euro del PNRR. Salvatore Toscano su L'Indipendente il 17 Maggio 2023 

A Roma, a pochi passi dalla stazione Termini, sorge il liceo classico “Pilo Albertelli”. Divenuto negli anni famoso per gli alunni che ha ospitato, da Enrico Fermi a Ettore Scola, la scuola intitolata a una delle vittime delle Fosse Ardeatine è ritornata a far parlare di sé per una scelta didattica controcorrente. Il consiglio d’istituto ha infatti rigettato due progetti finanziati con quasi 300mila euro provenienti dal PNRR: “Next Generation Labs” e “Next Generation Classroom”, che fanno parte del piano nazionale Scuola 4.0, varato dal governo Draghi e volto alla trasformazione del sistema didattico. Il consiglio d’istituto si è opposto all’idea di far diventare le classi tradizionali «laboratori per le professioni digitali del futuro». «I nostri figli devono imparare la Storia, tradurre dal Greco e avere capacità critica», hanno sostenuto insegnanti e genitori criticando l’ascesa della tecnologia nelle scuole. Gli eredi di Albertelli hanno chiesto al consiglio d’istituto di rivedere la sua decisione; per domani è attesa un’assemblea plenaria sul tema.

Il progetto “Next Generation Classroom” è rivolto a 20 sezioni dell’istituto, per le quali la dirigenza acquisterebbe – con 149mila euro dei fondi europei – una strumentazione digitale moderna «per migliorare la didattica, favorendo inclusione e collaborazione tra pari». I nuovi strumenti, come lavagne digitali e tablet, saranno completati da software che saranno di ausilio alle singole discipline «con grande attenzione all’aspetto professionale ma al contempo accattivante e ludico. La didattica personalizzata permetterà agli alunni deboli di recuperare al meglio le abilità di base e agli alunni eccellenti di raggiungere nuovi traguardi», si legge nel progetto. A livello nazionale, e dunque nell’ambito della Scuola 4.0, il “Next Generation Classrooms” ha l’obiettivo di trasformare almeno 100mila aule delle scuole primarie, secondarie di primo grado e secondarie di secondo grado, in ambienti innovativi di apprendimento: le cosiddette classi multimediali.

In vista di nuovi indirizzi di studio «più all’avanguardia», “Next Generation Labs” intende realizzare laboratori per le professioni digitali del futuro nelle scuole secondarie di secondo grado. Il liceo Albertelli utilizzerebbe 124mila euro del PNRR per tre progetti: “Info Bibliolab”, che prevede l’istituzione di una webradio e di un laboratorio di grafica digitale e  videomaking; “Spazio Museale Schola”, che offrirebbe «ai visitatori un’esperienza di navigazione immersiva e interattiva»; “Le mie competenze digitali”, attraverso cui gli alunni migliorerebbero le proprie competenze digitali. Si tratta, nello specifico, di corsi per l’ICDL e per le certificazioni professionali ICT. Dunque laboratori e approfondimenti extra che si aggiungono allo studio preesistente, il che comporta per gli studenti o il sacrificio della socialità o il tralasciamento delle vecchie materie.

I progetti citati sono già realtà negli istituti tecnici o professionali, in particolare negli indirizzi di grafica e comunicazione, volti al conseguimento di un “diploma finito” che permette l’immissione nel mondo del lavoro senza ulteriori livelli di istruzione. I licei, invece, sono pensati per una formazione universale, che presuppongono una specializzazione attraverso il continuamento degli studi. Due percorsi che rispondono a interessi, volontà, necessità diverse degli studenti. Negli anni si è tuttavia assistito a un livellamento, a una convergenza tra i due percorsi. Ne è un esempio l’introduzione dell’alternanza scuola-lavoro.

Per quanto riguarda il liceo Albertelli, il consiglio d’istituto ha bocciato le proposte avanzate dal dirigente scolastico perché stridono con la natura e «gli obiettivi di un liceo». Inoltre, relativamente all’acquisto di nuova strumentazione tecnologica, genitori e professori hanno fatto notare che in possesso dell’istituto ci sono già 41 smart TV, 7 proiettori, 49 pc notebook e 41 pc desktop, definendo irrazionale la spesa per ulteriori attrezzature multimediali «che hanno una vita brevissima e che quindi acuiscono, non arginano, la percezione di vivere in un mondo effimero». L’aumento della dotazione tecnologica è stata contestata anche dal punto di vista educativo: «Molte parole vengono spese sul benessere emotivo e lo stimolo relazionale, sullo sviluppo dell’empatia degli studenti o sul rendere protagonista l’alunno che si avvicina sempre di più alla scelta consapevole del proprio ruolo nella società, senza che però vi sia alcuna spiegazione o evidenza su come i dispositivi digitali possano concorrere a questi obiettivi. Neanche una parola invece è riservata alla profondità delle conoscenze che sono necessarie per comprendere – e non solo subire – una società sempre più complessa».

L’introduzione della tecnologia nelle scuole, e più in generale l’avvento della tecnica, è un tema ampiamente discusso da studiosi passati e contemporanei. «Esorterei i professori a usare meno il computer. A che serve? Gli studenti, nativi digitali, ne sanno più di chi dovrebbe insegnare loro l’informatica. Ai ragazzi internet fornisce, dopo anni di guerra al nozionismo, un’infinità di informazioni slegate tra loro, ma non regala senso critico, connessione dei dati e, quindi, conoscenza. I maestri hanno il compito di sviluppare il senso critico e mettere in connessione i dati», ha dichiarato il filosofo Umberto Galimberti. A scuola dovrebbe avvenire l’esaltazione delle “cose inutili” (greco antico, latino, filosofia, matematica pura) – come le ha definite Agnes Heller – «perché così all’età di 18 anni si ha un bagaglio di sapere inutile con cui si può fare tutto. Mentre col sapere utile si possono fare solo piccole cose». Qualche anno prima, osservando l’Italia del boom economico, lo scrittore Pier Paolo Pasolini aveva criticato e profetizzato l’ascesa della tecnica, che rischia di «uccidere l’umanità, vale a dire l’umano nell’uomo». Per questo motivo, «fermarsi, rifiutare una situazione, cercare per altre vie, porsi degli interrogativi, in una parola educarsi, significa sottoporsi a una tale tensione, a una marcia controcorrente così faticosa che solo un’élite (e domani una superélite) potrà permettersi». [di Salvatore Toscano] 

Si scrive merito, si legge reddito. La scuola italiana rafforza le disuguaglianze. Dopo anni di tagli e mancati investimenti, il sistema d’istruzione ha perso la sua funzione di ascensore sociale. Ed è diventato lo specchio dei divari che frantumano la società. Che neanche il Pnrr riesce a livellare. Chiara Sgreccia su L'Espresso il 17 Aprile 2023.  

Dopo anni di mancata manutenzione l’ascensore si è rotto. In Italia chi nasce in una famiglia povera e con un basso livello di istruzione nella maggior parte dei casi muore nelle stesse condizioni. È la trappola della povertà educativa che la scuola non riesce più a contrastare. Scarse possibilità economiche limitano l’apprendimento, mancate opportunità di studio generano esclusione sociale, quindi povertà materiale.

Lo dimostrano gli ultimi dati disponibili di Eurostat 2020: il 53 per cento dei minori a rischio povertà o esclusione sociale ha genitori che non hanno il diploma. Il 10 per cento ha genitori laureati. Anche da un’analisi dei risultati delle prove Invalsi del 2022, test che valutano i livelli di apprendimento degli studenti sul territorio nazionale, si traggono le stesse conclusioni: più il punteggio delle prove è alto, più è elevato il livello sociale, economico e culturale delle famiglie in cui gli studenti sono cresciuti.

Ma che merito ha il più bravo della classe se vive in una casa in cui si parla correttamente l’italiano, ha uno spazio adatto a studiare, gli strumenti per farlo e familiari disposti a spiegargli quello che non ha capito durante le lezioni? La scuola invece di essere equa, di garantire a tutti le stesse opportunità di conoscenza, certifica le disuguaglianze. «Basta pensare alle spese che ogni famiglia deve affrontare per il materiale scolastico. E ai costi dei viaggi di istruzione», sostiene Aurora Iacob, del sindacato studentesco Rete degli studenti medi: «Chi è in difficoltà resta senza libri, non va in gita, non si può permettere le ripetizioni. Ottiene risultati più bassi e per questo viene considerato inferiore. Si demotiva e abbandona il percorso formativo con più facilità. La scuola dovrebbe offrire a tutti gli stessi strumenti, invece non lo fa». Perché i divari che frantumano il sistema educativo sono gli stessi che dividono l’Italia e sono intrecciati tra loro.

A impedire che le pari opportunità siano un diritto di tutti non ci sono solo le differenze di classe ma anche le disparità tra il Nord e il Sud del Paese, tra i centri e le periferie, tra il pubblico e il privato. Divari, anche di genere, che, come sottolinea Andrea Morniroli, co-coordinatore del Forum disuguaglianze e diversità, sono destinati a crescere se non si inverte la rotta: «La scuola dovrebbe tornare a essere una priorità della politica perché è il presupposto per lo sviluppo. Invece, da anni gli investimenti nella pubblica istruzione sono inferiori alla media europea: nel 2019, ad esempio, l’Italia ha speso circa 70 miliardi di euro per l’istruzione. La Germania più di 150, la Francia quasi 128 miliardi. I tagli impediscono alla scuola di svolgere la funzione di ascensore sociale che le è propria. E favoriscono sotto traccia anche la crescita degli istituti privati». Che rispondono alle esigenze che il pubblico non è più in grado di soddisfare. Ma solo per chi se le può permettere.

«Crescono le disuguaglianze anche all’interno dello stesso comune: da un lato ci sono i ragazzi che vanno alla scuola pubblica che ha abbassato le pretese pur di sopravvivere, dall’altro quelli che accedono alle paritarie e vivono contesti privilegiati e iper-protetti. Due mondi che non comunicano tra loro», spiega Pasqualino Costanzo, educatore di Cantiere Giovani, non profit che promuove l’inclusione sociale nell’area metropolitana di Napoli dove la dispersione scolastica sfiora il 23 per cento mentre nel resto del Paese è attorno al 12. In una regione, la Campania, in cui i risultati delle prove Invalsi sono tra i peggiori d’Italia. «Creiamo il tempo pieno dove non c’è», dice Cinzia Festa, la responsabile del progetto “Cantiere dei pirati”, a supporto dell’attività scolastica: «Prendiamo in gestione le casette dei custodi che ci sono quasi in ogni scuola, ma di solito sono abbandonate, e le trasformiamo in spazi polifunzionali dove gli studenti possono trascorrere i pomeriggi per fare i compiti e altre attività a favore dell’integrazione. Perché è provato che questi servizi non sono solo fondamentali per la conciliazione dei tempi di vita privata e di lavoro dei genitori ma costruiscono anche il diritto dei minori di accedere a percorsi di studio educativi che livellino le disuguaglianze».

Negli istituti del Sud mancano le palestre, non ci sono le mense, solo il 18 per cento delle scuole ha il tempo pieno, contro il 48 per cento del Centro-Nord. Tanto che – emerge da un recente studio di Svimez – gli studenti del Mezzogiorno frequentano la scuola così tante ore in meno che è come se perdessero un anno di formazione rispetto ai loro coetanei del centro-nord. La scuola pubblica si sta trasformando nel contenitore di chi non ha un’alternativa, mentre gli istituti paritari accolgono gli altri: i figli di chi cerca il tempo pieno per conciliare la cura con l’occupazione, crede nell’importanza di studiare le lingue straniere, del fare attività fisica per accrescere il benessere individuale.

Così le differenze di opportunità, determinate dalle condizioni di partenza e non dal merito, diventano strutturali. Balzano subito agli occhi di chi percorre la strada che, senza nessun riguardo per la divisione tra i centri abitati, attraversa l’area nord della città metropolitana di Napoli: basta uno sguardo veloce su Google maps per notare l’alta concentrazione di scuole private che c’è tra i Comuni di Frattamaggiore, Frattaminore, Cardito e Casandrino, zona conosciuta anche come il «diplomificio d’Italia». E di strutture ospitali pronte a accogliere gli studenti che arrivano dal resto del Paese per dare gli esami. Ma serve percorrere a piedi quella strada dai marciapiedi dissestati per vedere come accanto a casermoni grigi e a volte anche dall’apparenza fatiscente – le scuole pubbliche – spuntino edifici colorati, dall’aspetto invitante: le scuole paritarie non statali che attraggono iscritti, dai tre anni fino al diploma. Probabilmente così gradevoli anche grazie ai finanziamenti che ricevono dallo Stato, triplicati negli ultimi 10 anni: dai 286 milioni del 2012 ai 626 dell’ultima legge di Bilancio.

Un trend positivo inverso a quello che caratterizza l’istruzione pubblica. Che dalla crisi del 2008 e con la riforma Gelmini, di cui l’attuale ministro Giuseppe Valditara era stato relatore al Senato, sopporta un carico di tagli supplementari. Come spiega Salvatore Cingari, ordinario di storia delle Dottrine politiche all’università per stranieri di Perugia, «in quegli anni prende forma l’idea, ripresa dal governo oggi, che i docenti debbano valorizzare il merito per contrastare il lassismo e l’egualitarismo post-sessantottino, così da consentire a chi è bravo di emergere, senza riguardo per le condizioni sociali e senza aspettare chi rimane indietro. Smantellando il carattere democratico e emancipativo della scuola pubblica. Anche perché ciò che è meritevole è relativo e viene stabilito dai rapporti di potere: ad esempio, oggi è meritevole chi risponde alle esigenze delle imprese, chi sopporta lo stress. Ma siamo certi di volere una scuola selettiva che esalti la competizione invece di uno spazio per l’apprendimento che favorisca la cooperazione e insegni a pensare che ogni persona ha il proprio diverso valore?».

L’idea che un merito supposto, calato dall’alto, indirizzi le vite delle persone era già presente nel filosofo Giovanni Gentile (e prima di lui in Benedetto Croce) la cui riforma varata nel 1923 quando era ministro della pubblica istruzione nel primo governo Mussolini, puntava a fare della scuola il luogo di formazione della classe dirigente. Di cui potevano fare parte solo coloro che avevano superato l’esame di ammissione necessario per frequentare i licei classico e scientifico, gli unici a dare accesso all’università. «Generando un meccanismo di differenziazione sociale basato sulla diversificazione dei percorsi scolastici, destinato a perpetuare se stesso perché superavano l’esame soprattutto gli studenti che provenivano da contesti privilegiati», conclude Cingari, autore del libro “La Meritocrazia” che dimostra come il termine abbia una connotazione negativa fin dalla sua invenzione, con il romanzo del sociologo Michael Young in cui veniva utilizzato per descrivere una società distopica in cui la classe dirigente è al governo perché lo merita in quanto più intelligente secondo i test scientifici. Il risultato è una nuova società di casta in cui la maggioranza, umiliata ancora più sottilmente, alla fine si rivolta.

A 100 anni dalla riforma Gentile il Pnrr, il Piano nazionale di ripresa e resilienza, ha l’obiettivo di risanare le disuguaglianze che spaccano il Paese, tra nord e sud, centro e periferia, aree interne e aree urbane, così tanto che la riduzione dei divari territoriali è una delle tre priorità che attraversa tutto il Piano. Perché per accrescere la mobilità sociale in Italia, che è tra le più basse d’Europa, serve livellare le disparità di partenza. Quella educativa in particolare, a cui è dedicato anche un intervento specifico, l’investimento 1.4 della quarta missione, a cui sono destinati 1,5 miliardi di euro. La prima tranche da 500 milioni è stata assegnata a 3.198 istituti scolastici. Ma, sottolinea Andrea Morniroli, «è mancata l’individuazione di un set di indicatori aggiornato e condiviso e il coinvolgimento delle comunità educanti. La povertà educativa non si contrasta con i finanziamenti a pioggia calati dall’alto attraverso bandi di un anno, due o sei mesi. Si devono individuare le aree critiche e attuare interventi che accompagnino i progetti per archi di tempo che permettano di agire sui fenomeni che riducono la dispersione esplicita – chi abbandona – e implicita, cioè chi pur frequentando non acquisisce le competenze di base. In modo che gli istituti siano messi al centro di politiche non solo educative ma anche di rigenerazione sociale. Anche perché la scuola pubblica, seppur frantumata, resta ancora in molte zone d’Italia il punto di contatto tra la popolazione e la Repubblica».

Caro Saudino, la povertà e la ricchezza degli studenti non sono mai una colpa. Sciltian Gastaldi, Insegnante, giornalista e scrittore, su il Riformista il 13 Aprile 2023

L’insegnante di Storia e Filosofia, e mio collega per altro coetaneo, Matteo Saudino – autore di un bellissimo profilo YouTube in cui riprende le sue lezioni di Filosofia in aula per consentire a tutti gli studenti sufficientemente benestanti da possedere computer e connessione internet di ripassare a casa – ha scritto un articolo per Tecnica della Scuola dove ha spiegato che è molto contrario al premio in denaro assegnato da due scuole italiane agli studenti che raggiungono la media del 9.

Nel mio articolo apparso un paio di giorni fa su Il Riformista ho appunto detto che il concetto del premio in denaro a dei minorenni è l’unica cosa a mio avviso discutibile di quel provvedimento meritocratico che invece approvo.

Qui amplio il concetto: mi pongo un dubbio sul premio in denaro a minorenni perché mi pare che vada a far assurgere il denaro come traguardo in sé, gli si dà uno spessore, una credibilità direi filosofica che, a mio avviso, proprio non ha. Ne capisco il fine del premio in denaro, ma non lo condivido per i minorenni: gli adolescenti, in genere, se sanno di poter vincere anche solo 100€ come premio sportivo o scolastico, spesso sono stimolati a impegnarsi di più. Ma questo vale soprattutto per chi non è benestante.

Uno studente figlio di genitori benestanti non è impressionato dal vincere 100€ ma nemmeno 1000€ e a volte nemmeno 10.000€, dipende da quanto ricca in denaro è la sua famiglia. Quindi la trovo una scelta diseducativa (ho sempre detto ai miei studenti: “colui che muore col maggior numero di giocattoli – seconde e terze case, suv, moto, yacht, castelli, vacanze fighe – comunque muore”).

Di contro, è anche vero che le borse di studio in denaro per merito o per aiutare i più poveri a frequentare scuole e università hanno una tradizione antichissima, addirittura l’antica Roma imperiale e poi il medioevo. La solida tradizione anglosassone di fine Ottocento e del positivismo fa poi rinascere la filosofia della borsa di studio in denaro su una base di sinistra: l’ampliamento del Welfare State inglese che si prende cura anche di fornire ai suoi migliori studenti le somme di denaro per sostenere le rette scolastiche o universitarie. E badate: sono proprio soldini che arrivano nel conto corrente dello studente, più che la cancellazione della retta o del debito.

Ecco allora che questa idea saudiniana (e di moltissimi altri docenti, eh, intendiamoci) che il denaro sia lo sterco del demonio e che quindi non debba mai essere associato a degli studenti a me pare un rigurgito (ipocrita: vedi alle voci “vendita delle indulgenze”, Patti Lateranensi e ottox1000) cattolico che piace molto anche a diversi marxisti ben poco marxiani.

Infatti, l’odio per il denaro materiale non sarebbe piaciuto per niente a Karl Marx, il quale visse tutta la vita sui prestiti a fondo perduto (per non dire le donazioni, i regali in denaro) del sodale Engels. Senza i soldi del figlio di imprenditori tessili Engels, Marx non sarebbe potuto diventare Marx: non aveva nemmeno i soldi per le candele da accendere per leggere i libri presi in prestito dalla British library!

Più in generale, qui il problema è che lo Stile Saudino è quello di credere che gli studenti (e i proff, “but this is another can of worms” e lo scrivo così almeno finché il DDL Rampelli non passa a legge) siano tutti uguali e non possano mai e in nessun caso essere differenziati, nemmeno guardando alla qualità del loro impegno, del loro lavoro, del loro studio.

Quindi ecco che se uno prende 10 e uno prende 4, secondo Saudino non si può dire quale dei due sia lo studente “migliore” perché magari quello che prende 10 ha il peccato originale di venire da una famiglia ricca di libri e biblioteche (nota colpa atavica) e ha sempre avuto 10 o 9, mentre quello che prende 4 prima prendeva 1 e in più viene da una famiglia povera in canna dove l’unico libro presente in casa è il vecchio elenco telefonico del nonno (anzi solo il volume M-Z e non l’A-L). In più quello che prende 4 viene a scuola in piedi da La Sgurgola Marsicana, mentre quello che prende 10 è portato a scuola dall’autobus o, dio non voglia, dai genitori, o da Uber o – lo scrivo proprio solo per causare itterizia al caro Matteo Saudino – dalla macchina con lo chaffeur (Rampelli, sopportami) di mamma e papà.

Te lo dico chiaro, caro Matteo: io penso che la povertà (e la ricchezza) materiale dei miei studenti non siano MAI una colpa. Tu mi sa che la vedi per metà così: la povertà non è certo una colpa, mentre sulla ricchezza… eh beh, qui c’è da eccepire e alzare di molto il sopracciglio. A me questo sembra classismo pauperista. Da combattere, a scuola come nella politica.

Quindi per Saudino, in realtà, lo studente migliore è quello che prende 4 (o 7: io parafraso ma lui nel suo pezzo parlava di uno studente che arriva al 7 partendo da un 4) e non quello che prende 10, almeno considerando determinati contesti. Chi la pensa così come Saudino deve anche, per coerenza personale, dire che quando un cardio-chirurgo uccide per sua negligenza un paziente, perché – chessò – non ha fatto in tempo a leggere il capitolo del costoso manuale di chirurgia su quella parte del ventricolo destro che doveva operare, e così il suo paziente è morto, è in realtà migliore del cardio-chirurgo a cui l’operazione riesce perfettamente, perché si deve tenere in conto che il chirurgo assassino partiva da non sapere proprio nulla di medicina in senso lato, essendo venuto da una famiglia non di medici e alquanto povera, e per altro l’anno passato aveva ucciso tutti i suoi pazienti, mentre quest’anno ha ucciso solo l’80% di chi si è sdraiato in sala operatoria sotto i suoi ferri. Un bel miglioramento, oggettivo.

Volete mettere quanto migliore è rispetto al noiosissimo chirurgo che non uccide mai nessun paziente, e mai ne ha uccisi, per di più colpevole di venire da famiglia di medici e coi soldi?

Culto della fragilità. La scuola senza voti e l’abolizione del riscatto sociale. Assia Neumann Dayan su L’Inkiesta l’8 Aprile 2023

Il liceo di Mestre che decide di fare un quadrimestre «con giudizi meno impietosi» delle solite valutazioni è lo specchio di una società che vuole togliere ai bambini la possibilità di diventare adulti

È notizia di un paio di giorni fa che in un liceo di Mestre si è deciso di non dare più i voti agli studenti. Non è il primo, non sarà l’ultimo, il duca e il suo dominio montessoriano conquisteranno il mondo, dichiariamo la resa.

L’ Ansa scrive: «Troppe crisi d’ansia tra gli studenti dopo le interrogazioni o i compiti, troppi pianti dopo una chiamata alla lavagna da parte dell’insegnante finita magari con un impreparato. Così il liceo classico-scientifico Giordano Bruno di Mestre (Venezia) decide di sperimentare un quadrimestre di lezioni senza voti, sostituendoli con giudizi meno impietosi».

La prima cosa che mi viene in mente è: ma quelli bravi? Quelli bravi potrebbero pensare che essere bravi non serva a niente, potrebbero quindi decidere di smettere di esserlo e darsi, che ne so, alla microcriminalità o al teatro, o alla trap. Che gli adulti assecondino il culto della fragilità non mi stupisce perché si chiama «proiezione», e soprattutto non mi stupisce dopo aver visto gente che da mesi ancora parla di istruzione e merito, arrivando alla conclusione che il merito non esiste, ma a questo punto possiamo anche dirlo dell’istruzione.

Secondo quanto riportato dai giornali, ci sono alunni che non studiano e piangono se prendono un brutto voto: piuttosto che dirgli di studiare, che pare essere una nuova forma di violenza, si tolgono direttamente i voti. Nessuno vuole far male a nessuno, stiamo seriamente prendendo in considerazione l’ipotesi che sbattere il mignolo contro uno spigolo diventi malattia terminale.

La seconda cosa che mi viene in mente è: stiamo togliendo la possibilità agli adolescenti di diventare adulti, perché stiamo abolendo quello che ha reso il cinema il cinema e la letteratura la letteratura e i bambini degli adulti: il riscatto.

Il riscatto ha molto a che fare col merito: nessuno più sembra saper dire «adesso gliela faccio vedere io», nessuno sembra più interessato alla cosa. Abbiamo medicalizzato a tal punto il quotidiano che pensiamo che il disturbo d’ansia possa essere risolto dai presidi. La verità è che da quando abbiamo trasferito l’intero vocabolario medico, il DSM e i Freud che ci possiamo permettere nella vita di tutti i giorni, abbiamo reso accettabile farci le autodiagnosi, parlare di ansia, depressione, patologie varie senza nessuna cognizione di causa inventandoci l’attivismo.

Vi do una notizia: togliere i voti non fa sparire l’ansia. L’ansia è funzionale alla sopravvivenza, pensare di eliminarla forse si qualifica pure come tentata strage.

La terza cosa che mi viene in mente: quanto è diventato facile finire in cronaca? Ogni santo giorno che stiamo su questa terra a leggere i pezzi gratuiti dei quotidiani c’è un insegnante che non dà i compiti, ma invita gli studenti ad andare nella natura ad abbracciare gli alberi, un preside che si dà fuoco per le carriere alias, una mamma che urla che i compiti sono una violenza, un abuso, un reato.

Non avendo uno star system, lo star system è stato rimpiazzato dai nostri eroi quotidiani con il loro quarto d’ora di celebrità.

La quarta cosa che ho pensato è questa: ho detto a mio figlio di anni sei e mezzo che c’era una scuola che non dava i voti. Mi ha risposto: «Meno male, così non succede niente». Quindi ho pensato – oltre a: genio, maestro, luminare, insegnami la vita, Nobel – che questa cosa non riguarda la scuola, riguarda la casa.

Prendi un brutto voto e ti viene da piangere e l’ansia e la depressione perché lo devi dire a mamma e papà, e sai che potrebbe finire male, non troppo male, ma male. Ci siamo inventati che la scuola italiana sia competitiva, performativa, agonistica, ma forse più che la scuola lo è il nostro salotto.

È sempre stato così, è giusto che sia così, altrimenti togliamo la possibilità ai genitori di fare gli adulti; e infatti eccoci qua, in un posto dove hanno sovvertito la fisica rendendola sentimentale, dove a ogni azione corrisponde una reazione uguale, ma non contraria.

I possibili voti sulla pagella di mio figlio che frequenta la prima elementare sono: avanzato, intermedio, base, in via di acquisizione. I voti fanno riferimento alle competenze, non al bambino, e ci mancherebbe solo che qualcuno dicesse al mio bambino che è una persona «base». Forse bisognerebbe solo dire: hai preso un brutto voto, ma non sei un brutto voto a meno che tu non voglia esserlo.

La quinta cosa che ho pensato è che la fotografia di Maria Montessori a breve sostituirà quella di Sergio Mattarella. Perché il bambino è il maestro sì, però nessuno si è posto il problema se fosse buono o cattivo.

Mariella Palazzolo, Lobbista, su Il Riformista il 17 Febbraio 2023

 Quando, dopo le elezioni del 25 settembre, sono stati annunciati i nomi dei nuovi ministeri è scoppiata subito una polemica per l’aggiunta del sostantivo “merito” al ministero dell’istruzione, guidato da Giuseppe Valditara. In molti ci siamo chiesti perché questa parola spaventa e quali possono essere le sue interpretazioni.

Per PRIMOPIANOSCALAC di Telos A&S, ne abbiamo parlato con Fabio Lucidi, prorettore alla quarta missione ed ai rapporti con la comunità studentesca dell’Università ‘La Sapienza’ di Roma. Quando si parla di “quarta missione” ci si riferisce all’abbattimento delle diseguaglianze e alla promozione della mobilità sociale, quindi di “merito”. “Il concetto di merito non rimanda dunque all’esclusione di alcuni a vantaggio di altri, ma all’opportunità di ciascuno di vedere messo in rilievo il proprio contributo, quando questo è offerto con impegno e passione. Questo corrisponde alla necessità delle istituzioni formative di dare forza alle differenze individuali, poggino esse sul genere, sullo status socio-economico, su etnia o background migratorio, su qualsiasi orientamento, evitando che si trasformino in disuguaglianze” osserva Fabio Lucidi.

Queste considerazioni ci riportano al significato della parola “merito” e alle sue differenti accezioni. Per alcuni, l’introduzione di criteri meritocratici nell’istruzione italiana è l’anticamera per le classi differenziate e il sostegno a scuole private di eccellenza, a scapito delle scuole pubbliche. Senza arrivare a questi estremi, la Fondazione Milani chiarisce le sue perplessità: “Ci saremmo aspettati che il nuovo ministero dell’Istruzione fosse denominato ‘Ministero dell’Istruzione e dell’accoglienza’ anziché ‘Ministero dell’Istruzione e del Merito’ non perché la scuola non debba riconoscere ed esaltare i meriti di tutti e di ciascuno (è implicito nelle sue funzioni), ma perché sono gli abbandoni scolastici il vero problema”.

Una realtà che trova conferma nei dati di uno studio di Save the Children “Alla ricerca del tempo perduto. Un’analisi delle disuguaglianze nell’offerta di tempi e spazi educativi nella scuola italiana” (settembre 2022). L’indagine evidenza che, nel nostro Paese, il 12,7% dei ragazzi non arriva al diploma, perché abbandona gli studi, con punte 21,1% in Sicilia e 17,6% in Puglia. Il problema non è solo la dispersione, ma anche la qualità dell’istruzione. Il 9,7% dei diplomati nel 2022 non ha le competenze minime per affrontare il mondo del lavoro o l’università. Ora la parola “merito” può spaventare. Ma certamente dobbiamo dare una risposta concreta ai giovani. Ricordiamoci che l’ignoranza è una bestia tutt’altro che meritocratica, perché se la prende con i più deboli.

Il lato oscuro della meritocrazia: il libro in edicola con il «Corriere». CORRADO DEL BÒ su Il Corriere della Sera il 13 Febbraio 2023.

Esce il 14 febbraio con il quotidiano il saggio del filosofo americano Michael Sandel «La tirannia del merito». Non bastano buona volontà e impegno se le ingiustizie strutturali rendono iniqua la competizione

Il libro di Michael Sandel La tirannia del merito, oggi in edicola con il «Corriere della Sera», è un saggio filosoficamente accurato, politicamente acuto, culturalmente necessario. È innanzitutto un testo che sottopone a rigorosa analisi filosofica il tema del merito, tanto nei suoi aspetti concettuali quando nei suoi collegamenti con la storia delle idee. È poi un lavoro capace di sviluppare un potente affresco delle conseguenze dispotiche che derivano dalla combinazione di alcuni tratti caratterizzanti l’idea di merito con il milieu sociale nel quale tale idea si è radicata. È infine una riflessione che segnala al lettore il lato oscuro del merito sul piano culturale, nel momento in cui, diventando il mantra della società democratica contemporanea, finisce per prosciugarne l’ethos e convertirla in un’oligarchia da tempi moderni, la cosiddetta meritocrazia.

Nessuno ovviamente vorrebbe vivere in una società in cui i meriti non fossero riconosciuti, né Sandel intende negare che proprio l’idea di merito ha definito il passaggio dalle società di Ancien Régime alle società democratiche, in cui non è più il lignaggio, ma la competenza, a orientare i percorsi individuali, consentendo potenzialmente a tutti di dare prova delle proprie capacità e di farsi largo nel mondo. È il suo abuso, la tirannia che gli lasciamo esercitare, a fare problema.

Per capire come si sia arrivati fino a questo punto, secondo Sandel occorre risalire a una querelle di natura teologica: ci si salva per le opere individuali o per la Grazia divina?

È noto come la Riforma protestante abbia spostato l’accento sulla seconda, ma è pure accaduto che la sua versione calvinista, facendo del successo mondano un indicatore delle probabilità di salvezza, abbia aperto la strada a una visione delle vicende umane in cui tutto o quasi si riduce alla responsabilità individuale e all’impegno che ciascuno mette nel fare le cose, e quindi, in definitiva, ai meriti e ai demeriti che ne possono derivare.

Nell’orizzonte culturale americano, questa idea ha attecchito in una variante provvidenzialista estrema, alimentando una retorica dell’ascesa (sociale) che ha radicato la convinzione che, se si lavora duramente, si riuscirà a emergere (e, per converso, se non ce la si fa, è perché non si è fatto abbastanza e non si è meritata alcuna ascesa).

Peccato che i dati sulla mobilità sociale, che Sandel presenta e discute, non confortino affatto questo punto di vista: pochi dei bambini che nascono al fondo della piramide sociale riescono a compiere quel balzo in avanti che li porta a essere, da adulti, parte della classe dirigente, e oggi questo accade ancora meno che nella seconda metà del XX secolo.

Non basta, insomma, la buona volontà dei singoli, l’impegno appunto, quando le ingiustizie strutturali sono così sedimentate da rendere irrimediabilmente iniqua la competizione per il successo; anzi, giudicare gli esiti di tale competizione attraverso le categorie del meritare e del non meritare fa un cattivo servizio a una corretta valutazione delle reali capacità dei singoli e alla comprensione delle cause delle diseguaglianze economiche e sociali.

Il merito non è però, secondo Sandel, soltanto un ideale che non trova una realizzazione concreta all’altezza delle sue promesse, vittima della difficoltà di tradurlo in pratica: possiede anche dei limiti intrinseci, nel momento stesso in cui elude la questione per cui non possono certamente essere meritati, perché non sono oggetto di scelta, i talenti con i quali si nasce e il contesto familiare e sociale in cui si cresce — quel che un altro filosofo americano, John Rawls, aveva efficacemente definito come la lotteria naturale e la lotteria sociale. E questo è tanto più necessario rimarcarlo quanto più il merito diventa un determinante culturale, che orienta le scelte pubbliche e private, saldandosi con quel che l’autore chiama il «credenzialismo», ovvero la prospettiva per cui attraverso credenziali, prevalentemente accademiche, siamo in grado di certificare il valore delle persone.

Una prospettiva siffatta innesca tra l’altro una competizione senza requie, in cui sin da bambini si è educati a un sistema di acquisizione continua di «meriti» che si possono poi spendere nell’accesso alle università più prestigiose e, tramite queste, ai lavori più remunerativi. Col duplice perverso effetto da un lato di generare un deprecabile sentimento di superiorità in chi, grazie a vantaggi familiari e sociali, vince nella competizione, dall’altro di gettare stigma su chi in quella competizione perde perché è sin dall’inizio escluso, così generando in queste persone rancore e risentimento verso le élite, e rinforzando la tempesta populista e le sue derive antidemocratiche.

La tirannia del merito è sicuramente un libro molto americano, per come sviluppa i temi e per la temperie culturale che analizza e che prova a mettere in discussione. Ma se è vero che considera e approfondisce aspetti della vita sociale e politica che, nella vecchia Europa, ancora non si sono manifestati, perlomeno in tutta la loro virulenza, rimane però un libro che parla anche a noi europei; e non solo per la solita storia per cui quel che accade al di là dell’Atlantico presto o tardi si affermerà anche al di qua, ma anche e soprattutto perché comprendere a livello teorico certe dinamiche più profonde delle società meritocratiche già oggi può aiutarci a isolare uno degli elementi che rinfocolano il populismo, cioè l’arroganza delle élite, e allo stesso tempo metterci in guardia da un deprecabile e pericoloso esito possibile per le nostre comunità, vale a dire una divisione netta e radicale in vincitori e vinti.

Se il liberalismo storicamente nacque come proposta alternativa all’assolutismo e come nemico della tirannide, questo libro di Michael Sandel è un testo genuinamente liberale, solo che si riconosca che il merito può essere tiranno e debba perciò essere soggetto a un qualche tipo di limite, perlomeno se intendiamo avere assetti politico-sociali nei quali valga la pena vivere.

Il dibattito. La ricerca di un assetto che assicura vera equità

Esce martedì 14 febbraio in edicola con il «Corriere della Sera» il saggio del filosofo americano Michael J. Sandel La tirannia del merito, al prezzo di euro 9,90 più il costo del quotidiano. Il volume, realizzato in collaborazione con la casa editrice Feltrinelli, resta in edicola per un mese: è stato tradotto da Corrado Del Bò ed Eleonora Marchiafava. Del Bò, che firma l’articolo di presentazione pubblicato in questa pagina, è professore di Filosofia del diritto del dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Bergamo. Michael Sandel è nato nel 1953 a Minneapolis, nello Stato americano del Minnesota. Insegna Teoria del governo alla Harvard University ed è una delle voci più autorevoli del dibattito filosofico negli Stati Uniti d’America. Ha tenuto lezioni in Europa, Cina, Giappone, India ed è stato visiting professor alla Sorbona di Parigi. Numerosi i suoi libri pubblicati in Italia, tra i quali Quello che i soldi non possono comprare (traduzione di Corrado Del Bò, Feltrinelli, 2013) e Giustizia (traduzione di Tania Gargiulo, Feltrinelli, 2010). Nel libro Sandel si preoccupa di indicare anche un’alternativa alla meritocrazia: «Spesso — scrive — si presume che l’unica alternativa all’uguaglianza di opportunità sia un’uguaglianza di risultati sterile e opprimente. Ma esiste un’alternativa: un’ampia uguaglianza di condizione che permetta a quanti non ottengono grandi ricchezze o posizioni di prestigio di vivere una vita decente e dignitosa, sviluppando ed esercitando le proprie capacità con un lavoro che conquisti la stima sociale, condividendo una cultura dell’apprendimento ampiamente diffusa e deliberando insieme ai propri concittadini sulle questioni pubbliche».

I dottori di ricerca.

I dottori di ricerca sono un problema per la pubblica amministrazione. Il titolo di studio non sempre viene riconosciuto e l’aspettativa per conseguirlo è vissuta con fastidio. E invece bisogna tutelarli. Michele Zizza su L’espresso il 30 Marzo 2023

I ministri Anna Maria Bernini, e nella scorsa legislatura Renato Brunetta, hanno dato indicazione di riconoscere i titoli di studio nelle procedure concorsuali interne alla pubblica amministrazione. Proprio la neo ministra dell’Università ha parlato di maggiori opportunità nel mondo della ricerca e più spazio per coloro che hanno affrontato il percorso di dottorato. «Intendiamo valorizzare ricercatori e dottori di ricerca sia in andata dall’Italia che di ritorno verso il nostro Paese», ha scritto in una nota del 17 febbraio scorso.

Purtroppo, però, la realtà è diversa. Nella pubblica amministrazione, dalla Sanità alla Difesa, dal mondo della scuola a quello dell’Economia, chi vince un concorso per il dottorato viene visto, molto spesso, come un problema. Il messaggio è che il titolo serva a poco. Le testimonianze raccolte sono molteplici ma molti dottori di ricerca assunti non possono esporsi per paura di ritorsioni.

Alla base ci sono due questioni: la prima riguarda l’aspettativa che permette ai dottorandi di studiare lontano dalla pubblica amministrazione per 3-4 anni e questo non è sempre è gradito da alcuni dirigenti; il secondo riguarda il PhD come massimo titolo accademico che mette in crisi una organizzazione che riconosce esclusivamente il titolo magistrale o i master. Un cane che si morde la coda, se si considera che lo Stato spende circa 100 mila euro per formare un dottore di ricerca che una volta tornato dopo l’aspettativa non può mettere a disposizione le competenze acquisite.

Non solo, quindi, i dottori di ricerca rischiano di non avere posti riservati nei concorsi ma si vedono sottoutilizzati e demansionati poiché non vi sono normative che li tutelino. Un ulteriore disincentivo che contribuisce a fare dell’Italia il fanalino di coda in Europa nella classifica dei dottorandi (Germania 201.800, Spagna 90.755, Francia 66.901, Polonia 39.269, Grecia 30.671, Italia 29.480. Fonte: Openpolis, 2019). In media, solo il 3,75% degli studenti iscritti a un segmento di istruzione terziaria frequenta un dottorato di ricerca. I valori più alti si registrano in Lussemburgo (11,53%), Repubblica Ceca (6,78%) e Finlandia (6,2%). In fondo, i Paesi Bassi (1,76%), l’Italia (1,52%) e Malta (1,1%).

Un’azione di tutela per i dottori di ricerca della pubblica amministrazione la possono promuovere organizzazioni come la Sidri (Società italiana del dottorato di ricerca) e l’Adi (Associazione dottorandi e dottori di ricerca in Italia), sottoponendo alla politica alcune soluzioni. È necessario agevolare, ad esempio, piani di mobilità per far circolare i dottori di ricerca, già dipendenti pubblici, tra i vari settori della pubblica amministrazioni allo scopo di valorizzarne al meglio le competenze.

Bisognerebbe poi prevedere che nei passaggi tra aree e fasce retributive le pubbliche amministrazioni assegnino un valore superiore al titolo di dottore di ricerca. Occorrerebbe poi garantire, alla fine del percorso e col titolo acquisito, la ricollocazione dei dottori di ricerca nelle aree della pubblica amministrazione affini all’indirizzo scientifico del PhD. Prevedere poi posti riservati sia nei concorsi interni sia nei corsi di formazione ad elevata specializzazione organizzati dalla Scuola nazionale dell’amministrazione, secondo le aree tematiche di competenza. Si tratta di punti essenziali per contribuire alla valorizzazione del titolo, utili a facilitare i processi di modernizzazione della macchina pubblica.

Università, i dieci professori italiani emergenti dell’area umanistica.

Linguisti, storici, archeologi, studiosi di nuovi fenomeni culturali. Ecco chi sono i docenti di cui sentiremo parlare nei prossimi anni selezionati dall’Espresso. Emanuele Coen su L’Espresso il 21 marzo 2023

Freddi e impietosi, i numeri non lasciano spazio all’interpretazione: l’università italiana non è un pianeta per giovani. E poco, non abbastanza, per donne. Secondo le ultime statistiche del Miur, l’età media dei docenti degli atenei statali è pari a 58 anni per i professori ordinari, 52 per gli associati, e giù a scendere per ricercatori e assegnisti di ricerca. Quanto alla disparità di genere, gli uomini rappresentano circa il 60 per cento del totale, quasi tre su quattro tra gli ordinari. Ma c’è un altro dato interessante: per quanto riguarda l’età media, la situazione è sostanzialmente invariata negli ultimi vent’anni. Chi sono i professori universitari emergenti, i trenta-quarantenni di cui sentiremo parlare nei prossimi anni? Viaggiando da Nord a Sud, L’Espresso ne ha incontrati quaranta, tra ordinari e associati. Un’inchiesta, una galleria di ritratti, non una classifica ma la fotografia di una generazione di filosofi, linguisti, storici, letterati.

GIULIA ALBANESE. Veneziana, 48 anni, insegna Storia contemporanea all’Università di Padova. Professoressa ordinaria, allieva di Mario Isnenghi, uno dei più autorevoli storici italiani, spicca nel panorama non affollato della sua generazione. Il cuore dei suoi studi è il fascismo e la violenza politica delle origini della dittatura, su cui ha scritto diverse monografie tra cui “La marcia su Roma” (Laterza). Analogie con l’epoca che attraversiamo? «Vedo anche molte differenze», dice Albanese: «Oggi le democrazie sono più solide di quelle degli anni Venti del secolo scorso».

CAROLA BARBERO. Docente ordinaria di Filosofia del linguaggio all’Università di Torino, 47 anni, il suo prossimo libro “Quel brivido nella schiena” (il Mulino), in uscita a maggio, mette a fuoco la differenza tra il linguaggio delle opere letterarie e il linguaggio ordinario, il nesso tra verità e significato, forma e contenuto, stile e autore. L’oggetto principale delle sue ricerche. I suoi maestri sono stati i filosofi Maurizio Ferraris e Alberto Voltolini, ha collaborato con la scuola Holden. «Ora è fondamentale lavorare sul linguaggio», dice la docente: «I dibattiti più interessanti riguardano l’“hate speech”, le parole d’odio in rete, e il linguaggio di genere. Bisogna ribaltare la prospettiva».

MARCO CUCCO. Rientrato nel 2018 in Italia dopo diciotto anni all’estero, soprattutto in Svizzera, Cucco, 41 anni, è professore associato di “Culture della produzione cinematografica” e altri insegnamenti al Dipartimento delle Arti di Bologna, il corso di laurea nato undici anni fa dal Dams, creato nel 1971 e lanciato da Umberto Eco e altri intellettuali, fucina di idee e fermenti. Un approccio nuovo, il suo, che analizza il cinema e la cultura dal punto di vista economico e industriale. «Nella tradizione italiana questi aspetti sono stati trascurati», dice il professore: «Oggi occorre guardare all’industria culturale con un’ottica nuova, per favorire l’ingresso degli studenti nel mondo del lavoro».

LUDOVICA MACONI. La sua missione si chiama ArchiDATA (archidata.info), ma per chi non frequenta l’Accademia della Crusca il nome non dice granché. In sostanza, il progetto a cui da anni si dedica Maconi, 38 anni, professoressa associata in Linguistica italiana all’università del Piemonte Orientale, consiste nell’aggiornare le “date di nascita” di parole e accezioni del vocabolario italiano. Finora ne ha retrodatate oltre 10mila, come si può vedere sul sito della Crusca liberamente consultabile, insieme ai tanti studenti e assegnisti che collaborano all’ambizioso piano. Insieme a Mirko Volpi ha scritto per Carocci “Antichi documenti dei volgari italiani”, premio Pavese 2022 per la saggistica. «La ricerca umanistica oggi è sempre più legata al digitale», dice Maconi: «Bisogna però sfruttare le risorse informatiche in maniera intelligente, senza cancellare il senso della Storia».

ANTONIO MUSARRA. Studioso esperto di storia del Mediterraneo e delle crociate, della navigazione e della guerra navale, tra i suoi maestri annovera storici di prim’ordine come Franco Cardini e Marina Montesano. A 39 anni, Musarra è professore associato di Storia medievale presso Sapienza Università di Roma; ha all’attivo diversi saggi su temi a lui vicini, tra cui “Le crociate. L’idea, la storia, il mito” (Il Mulino) e “1492. Diario del primo viaggio” (Laterza), in cui ripercorre, tappa dopo tappa, l’incredibile avventura di Cristoforo Colombo. Sfatando luoghi comuni e sottolineando imprecisioni (come, ad esempio, che le caravelle fossero tre, mentre in realtà erano due e una nao, una grossa nave commerciale). Ora lavora a “L’isola che non c’è”, un libro sulla storia delle isole immaginarie, che uscirà in autunno per il Mulino. E collabora al progetto di scavo archeologico del Santo Sepolcro, a Gerusalemme. «Da storico mi occupo, in particolare, dei testi di pellegrinaggio e della descrizione del sito e della città nel Medioevo», afferma. In preparazione, un altro libro per Carocci: “Gerusalemme e l’occidente medievale”.

DAVIDE NADALI. Il contesto eccellente aiuta: Nadali, 45 anni, è professore associato in Archeologia e Storia dell'arte del Vicino Oriente antico a Sapienza Università di Roma, nel Dipartimento di Scienze dell’Antichità, leader nel mondo secondo la classifica World University di QS. È vice-direttore della Missione archeologica italiana in Siria a Tell Mardikh/Ebla, un’area del mondo estremamente ricca dal punto di vista archeologico ma stravolta da guerre, saccheggi e terremoti. «Durante gli scavi un tempo era normale e comune avere stretti rapporti con le direzioni delle antichità locali», dice il professore, in partenza per Damasco: «Oggi è addirittura urgente e d’obbligo con la priorità di fare sopralluoghi per evitare che le cose peggiorino. E non c’è solo Palmira: il sito archeologico di Ebla, ad esempio, è stato trasformato in campo militare dalle bande affiliate ad al Qaeda». Tra i tanti temi, Nadali si occupa di arte, architettura e urbanistica di età neo-assira, della guerra nel Vicino Oriente antico e l’analisi della produzione e dell’impatto delle immagini nell’antica Mesopotamia. Ha curato con Frances Pinnock il saggio “Archeologia della Siria antica” (Carocci).

PASQUALE PALMIERI. Il dottorato sotto l’egida di Anna Maria Rao, luminare di Storia moderna, una lunga esperienza come professore di italiano e latino nei licei, due anni e mezzo negli Usa tra la California e Austin, Università del Texas, dove ha conseguito un dottorato di ricerca in “Italian Studies” con lo storico americano Douglas Biow, specialista del Rinascimento, diventato suo mentore. Palmieri, 44 anni, è professore associato di Storia moderna nell’Università di Napoli Federico II e si occupa di rapporti fra media, politica e società, didattica storica e divulgazione. Grande lettore di romanzi storici, storie ai margini, dalle corti ai bassifondi, ha pubblicato nel 2022 “L’eroe criminale. Giustizia, politica e comunicazione nel XVIII secolo” (il Mulino), mentre è appena uscito per lo stesso editore "Le cento vite di Cagliostro", biografia del celebre alchimista vissuto nel Settecento. «Il vero problema dell’università è l’inclusione», afferma Palmieri: «Registriamo un altissimo tasso di studenti che non frequentano i corsi. La vera sfida è coinvolgere gli studenti che lavorano o vivono in periferia».

PAOLO PECERE. Scrittore prolifico (oltre ai romanzi ha scritto anche il bel saggio narrativo “Il dio che danza. Viaggi, trance, trasformazioni”, per Nottetempo), divulgatore attraverso podcast, co-organizzatore del Festival “Filosofia in dialogo” in collaborazione con Università di Roma Tre, dove insegna come professore associato Storia della filosofia. È un personaggio eclettico Pecere, 47 anni, si occupa principalmente dei rapporti tra filosofia, scienze della natura e psicologia in età moderna e contemporanea. Laureato in Estetica con Pietro Montani, ha fatto poi un dottorato in Epistemologia. Nel 2016 è stato Fulbright Research Scholar alla New York University, il suo ultimo libro è “La natura della mente. Da Descartes alle scienze cognitive” (Carocci). «Mi sforzo di presentare la filosofia in relazione ad altre discipline come la fisica e la psicologia. Sono aperto al confronto con i saperi tecnici», spiega il filosofo: «Del resto Socrate chiedeva a tutti: “Raccontami la cosa di cui ti occupi”».

ANNA ROSELLINI. Una vita a metà tra Italia e Francia, dove è Maîtresse de conférence all'École d'Architecture de la Ville & des Territoires di Paris-Est. Professoressa associata di Storia dell'architettura nel Dipartimento delle Arti di Bologna, 45 anni, Rosellini si concentra sui materiali dell'arte, le mostre di architettura, le relazioni tra habitat e sostenibilità. «Nelle mie ricerche esploro la linea sottile che separa i fenomeni sociali-ambientali e l'architettura», afferma la docente: «Indago su come questi principi vengono rimessi in discussione». In particolare, Rosellini analizza l'evoluzione dello spazio domestico nell'habitat contemporaneo, anche in chiave femminista. «Oggi, con il modello orizzontale di famiglia, cambia l'organizzazione degli spazi della casa. Il ruolo della cucina, rispetto al passato, non è più il luogo in cui viene confinata la donna».

NICCOLÒ SCAFFAI. Allievo di Luigi Blasucci, tra i più importanti studiosi di letteratura italiana, autore di saggi fondamentali su Leopardi, a 47 anni Scaffai è professore associato di Critica letteraria e letterature comparate all’Università degli Studi di Siena, dove dirige il Centro Interdipartimentale di Ricerca Franco Fortini in Storia della tradizione culturale del Novecento. Si è formato alla Scuola Normale Superiore di Pisa, poi ha insegnato per quasi dieci anni Letteratura contemporanea all’Università di Losanna. Autore del saggio “Letteratura e ecologia. Forme e temi di una relazione narrativa” (Carocci), il docente si occupa in particolare della relazione tra ecologia e letteratura al tempo dell'Antropocene. «Da un lato, il discorso ecologico si serve di strategie narrative, adottando costruzioni narrative tipicamente letterarie», dice il professor Scaffai: «Dall’altro lato, la letteratura trova nell’ecologia temi fondamentali come 'apocalisse e i rifiuti, e ispirazione per costruire a sua volta nuovi modi di raccontare».

Università, i dieci professori italiani emergenti di economia e diritto.

Divario di genere, cambiamenti climatici, piattaforme digitali: sono alcuni dei temi trattati da giuristi, economisti, scienziati politici, esperti di nuovi fenomeni sociali selezionati da L’Espresso. La fotografia di una generazione di docenti ordinari e associate. Emanuele Coen su L’Espresso il 21marzo 2023

La governance delle migrazioni attraverso l’intelligenza artificiale, lo studio del populismo attraverso la microeconomia, le disuguaglianze di genere e il corpo come strumento di potere. Economia, diritto e scienze sociali sono aree di ricerca sempre più contaminate, con confini sempre più sfumati e strumenti in continua evoluzione. Come dimostra questa galleria di ritratti di dieci professori emergenti, ordinari e associati.

CATHERINE DE VRIES. Politologa olandese, 44 anni, insegna Scienze politiche all’università Bocconi, dove è prorettrice per l’internazionalizzazione. Tema fondamentale per un ateneo in cui un professore su tre non è italiano. Al centro dei suoi studi la contestazione e lo scetticismo verso l'Unione europea. Ha vinto un premio ERC grant consolidator per un progetto di ricerca che si concentra su come le difficoltà economiche alimentino il sostegno ai programmi politici socialmente conservatori. «Abbiamo osservato che, quando le persone subiscono una perdita socio-economica tendono a compensare mettendo in primo piano altre parti della loro identità», afferma la docente, secondo cui l’adesione all’estrema destra si spiega anche così.

GIOVANNI FARESE. Nell’ultima classifica Censis spicca un ateneo non statale, l’università Europea di Roma, al secondo posto della graduatoria nazionale tra i piccoli. Qui insegna Farese, 41 anni, professore associato di Storia dell’economia, già Marshall Memorial Fellow del German Marshall Fund degli Stati Uniti, collabora con l’Aspen Institute ed è grande esperto dell’economia italiana del secondo dopoguerra. Al tema ha dedicato anche il libro “Mediobanca e le relazioni economiche internazionali dell’Italia”, frutto di un lavoro certosino di ricerca nell’archivio della banca d’affari, in cui indaga la figura di Enrico Cuccia e di altri protagonisti. «Oggi diamo valore al fatto che i politici siano i vicini della porta accanto, un tempo avevamo una grande classe dirigente con importanti esperienze internazionali», afferma con lieve nostalgia.

CRISTINA FASONE. Professoressa associata di Diritto pubblico comparato alla Luiss, a Roma, nonché direttrice del corso di laurea in “Politics, Philosophy and Economics”, a 39 anni Fasone è una delle giuriste in prima linea nello studio dei processi di integrazione europea. In sostanza, studia come le norme Ue impattano dal punto di vista politico e giuridico nei Paesi membri. Un ginepraio di norme in cui occorre orientarsi. «Uno dei temi fondamentali riguarda il rapporto tra le corti europee dei diritti dell’uomo e di giustizia e le corti nazionali», dice la professoressa: «Si generano di continuo conflitti, questioni irrisolte, su chi ha l’ultima parola».

EMANUELE FELICE. Tra i suoi mentori c’è Michele Salvati, economista e politologo, il primo a teorizzare la nascita del Pd. E dei dem Felice, 46 anni, ordinario di Politica economica allo IULM di Milano, è stato responsabile economico fino al 2021. Acqua passata: ha sostenuto Elly Schlein alle primarie, ma oggi nel partito non ha alcun incarico. Brillante e prolifico, ha scritto saggi sul Mezzogiorno (tra gli altri “Perché il Sud è rimasto indietro”, il Mulino), sulle disuguaglianze sociali e i nuovi diritti ambientali (“La conquista dei diritti”, il Mulino). «Il fenomeno preoccupante è la crescita dei lavoratori poveri, circa tre milioni, a cui la politica manca di rispondere con l’istituzione del salario minimo, come chiede l’Ue».

ROSSELLA GHIGI. Educazione di genere, discriminazione, stereotipi, disuguaglianze. Diritti riproduttivi, modifiche corporee. Si muove su temi di grande attualità Ghigi, 47 anni, professoressa associata di Sociologia all’Università di Bologna dopo un percorso di studi di rilievo, tra cui un DEA a l'École des Hautes Études en Sciences Sociales (EHESS) di Parigi. È co-fondatrice e responsabile scientifica del Centro Studi sul Genere e l'Educazione dell’ateneo felsineo. Tra gli altri, ha scritto insieme a Roberta Sassatelli il saggio “Corpo, genere e società” (il Mulino). «Se i nostri corpi non sono mai inerti o neutri, sono continuamente intessuti di relazioni di potere», dice Ghigi: «I corpi sono politici. Il corpo e il potere sono intimamente legati: sui corpi si gioca tanta parte di quanto, nel quotidiano, segna le disuguaglianze».

EDMONDO MOSTACCI. Le nuove tecnologie incidono sul godimento dei diritti fondamentali e sulla privacy, presentano rischi per le libertà, per i diritti politici e del lavoro. Si occupa anche di questi temi Mostacci, laurea in Bocconi con il massimo dei voti, 44 anni, professore associato di Diritto pubblico comparato nell'università di Genova, tra i giuristi più brillanti della sua generazione. «Il nuovo approccio si basa sul legame tra i processi politico-democratici e le acquisizioni delle scienze sociali», afferma. I suoi interessi spaziano in diversi campi: di recente, infatti, ha partecipato insieme ad altri esperti di diritto al primo convegno nazionale sulle cause in Italia per il risarcimento danni per crimini nazisti.

SALVATORE NUNNARI. Economia politica, teoria microeconomica, economia sperimentale. E un nuovo ERC Starting Grant per studiare le cause della crescente popolarità dei partiti populisti e della polarizzazione ideologica, attraverso modelli microeconomici ed esperimenti di laboratorio. Bocconiano doc, 39 anni, Nunnari è professore associato e dirige il BESS, il corso di laurea triennale in Economia e Scienze Sociali nell'ateneo più internazionale d'Italia, dove un docente su tre non è italiano. Prima di entrare in Bocconi come professore, ha insegnato nella University of California San Diego e nella Columbia University. «Nella mia ricerca uso strumenti al confine tra l’economia, la psicologia cognitiva e le science politiche, per studiare il comportamento umano in situazioni di interazione strategica, in particolare quelle in cui un gruppo di persone deve raggiungere una decisione comune, per esempio, con una elezione o la contrattazione».

IVANA PAIS. La ricerca che attualmente coordina, “WePlat” (weplat.it), affronta una delle grandi criticità del nostro sistema: l'economia e il lavoro di piattaforma. Pais, 46 anni, è docente ordinaria di Sociologia economica nell'Università Cattolica, a Milano. L'economia della piattaforma non comprende solo i rider, categoria particolarmente fragile, ma anche l'incontro tra domanda e offerta di servizi di cura alla persona: badanti, baby sitter, lavoratori domestici, psicologi e medici che offrono le proprie competenze e servizi attraverso le piattaforme digitali. «Questi lavoratori identificano un nuovo modello organizzativo, che si sta diffondendo anche in aziende tradizionali», afferma Pais. Per Egea la docente, che è anche co-direttrice (con Elena Esposito e David Stark) della rivista “Sociologica”, ha pubblicato il saggio “Percorsi di sociologia economica”, con Filippo Barbera.

SIMONE PENASA. Professore associato in Diritto pubblico comparato nell'università di Trento, Penasa, 44 anni, si occupa anche del rapporto tra diritto, scienza e tecnologie. Tra progetti in Italia ed europei. Fin dai tempi del dottorato fa parte del gruppo BioDiritto (biodiritto.org), concentrato sulle tematiche legate alle scienze della vita, ai progressi della medicina e della ricerca biotecnologica e, più di recente, all'intelligenza artificiale. Temi molto attuali, come il diritto all'immigrazione. «Sto sviluppando una ricerca che mira a indagare l'impatto sui diritti dei migranti delle nuove tecnologie», dice Penasa: «In particolare l'intelligenza artificiale nella governance delle migrazioni».

ANDREA ROVENTINI. Qualche anno fa, al tempo del governo giallo-verde, Luigi Di Maio lo aveva indicato come ministro dell'Economia ma poi la candidatura sfumò. Oggi Roventini, 45 anni, è professore ordinario di Economia politica alla Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa, tra i migliori dipartimenti d'Italia. Ha realizzato modelli che offrono una sintesi tra il pensiero di John Maynard Keynes sulla necessità dell’intervento pubblico per stabilizzare l’economia e quello di Joseph Schumpeter che vede nell’innovazione il motore dello sviluppo economico. Le sue ricerche lo hanno portato a pubblicare insieme al premio Nobel per l'economia Joseph Stiglitz. Da qualche anno, inoltre, il professore si occupa dell'economia del cambiamento climatico, pubblicando articoli scientifici su Pnas, organo ufficiale dell'Accademia delle Scienze degli Stati Uniti, e sulla rivista scientifica Nature Climate Change. «In particolare, analizzo i costi economici e sociali degli impatti climatici futuri e sulle politiche economiche necessarie per rilanciare innovazione e crescita in chiave sostenibile e inclusiva», afferma Roventini.

Università, i professori emergenti di Chimica, Ingegneria e Medicina

Studiano strumenti innovativi per la transizione energetica, materiali per il settore aerospaziale, batterie post-litio. E, nel settore sanitario, tecniche chirurgiche, biochimica, nanomedicina. Ecco dieci professori di cui sentiremo parlare. Emanuele Coen su L’Espresso il 27 marzo 2023

Se le carriere sono lente nell’area umanistica e in quella delle scienze sociali, come L’Espresso ha documentato nelle prime due puntate di questa inchiesta, in campo scientifico il percorso per raggiungere posizioni apicali risulta più rapido. Ma restano alcune forti criticità: in Italia i laureati nelle Stem e in Medicina sono ancora troppo pochi, un quarto del totale, in ritardo rispetto alla media europea. E le donne, per quanto in aumento, scarseggiano nelle discipline tradizionalmente maschili. Un divario che si riflette anche sui salari.

FABIANA ARDUINI. Nelle ricerche insieme con i suoi collaboratori, Arduini si impegna a favore della sostenibilità: sviluppa sensori miniaturizzati per misure in campi diversi, tutti di notevole interesse: biomedicale, ambientale, difesa e agroalimentare. A 44 anni, è professoressa associata di Chimica analitica nell’Università degli Studi di Roma Tor Vergata, in uno dei 180 dipartimenti italiani di eccellenza riconosciuti dal MUR, il suo nome è presente nella lista dei ricercatori più citati al mondo (World's Top 2% Scientists). È inoltre amministratore delegato della start-up SENSE4MED. «Rispetto alle grandi strumentazioni di laboratorio, la sensoristica è caratterizzata da un approccio sostenibile per la misura degli analiti nei diversi campioni», dice. Arduini e il suo gruppo di ricerca utilizzano la carta come supporto per la produzione dei sensori. «Se inizialmente abbiamo dimostrato il vantaggio dei sensori stampati su carta perché plastic-free, da qualche anno abbiamo creato una nuova linea di ricerca, dimostrando che la sensoristica su carta permette di minimizzare l'impatto ambientale».

FEDERICO BELLA. Pluripremiato, il più giovane professore ordinario di Chimica per le Tecnologie in Italia, in cattedra a soli 34 anni nel 2022, si occupa di transizione energetica ed ecologica. E insegna al Politecnico di Torino. In particolare, studia le batterie post-litio di nuova generazione. «La transizione sta ridisegnando la ricerca accademica e industriale ad una velocità mai sperimentata prima», dice il professore: «Se da un lato l’Europa sta costruendo gigafactory che ci consentiranno di produrre le nostre batterie al litio a partire dal riciclo di quelle esauste, per molte altre applicazioni stanno crescendo le cosiddette batterie post-litio». Il professor Bella è stato il primo in Italia a promuovere la ricerca sulle batterie al potassio: reperibile ovunque in abbondanza, garantisce lo stesso funzionamento dei sistemi a base di litio.

UMBERTO BERARDI. Una laurea in Ingegneria edile-architettura al Politecnico di Bari, un'esperienza di professore associato a Boston, negli Usa, poi come ordinario a Toronto, in Canada. Con un pallino: la ricerca di campo energetico. Dieci anni tondi all'estero, poi il rientro. A 38 anni, Berardi è professore ordinario di Fisica tecnica ambientale al Politecnico del capoluogo pugliese. «Mi occupo di materiali smart in campo termico, in particolare materiali a cambiamento di fase, che consentono di conservare l'energia termica per un utilizzo posticipato», dice. Inoltre conduce ricerche innovative su materiali super-isolanti come l'aerogel ad esempio, su cui ha realizzato diversi brevetti, un materiale super-leggero che si usa anche nelle tute degli astronauti per proteggerli dal gelo nel vuoto spaziale.

MARIA CINEFRA. Laurea in Ingegneria Aerospaziale e dottorato al Politecnico di Torino, esperienze internazionali, Cinefra a 38 anni è professoressa associata di Costruzioni e strutture aerospaziali nel Politecnico di Bari, che collabora con l'importante distretto tecnologico aerospaziale di Taranto. Tra gli argomenti di ricerca della docente spiccano i metamateriali. «Si tratta di materiali innovativi che, ad esempio, consentono di ridurre le vibrazioni e rumori delle strutture aeree. Non sono ancora utilizzati nel settore aerospaziale perché la progettazione è molto sofisticata, ma hanno grandi potenzialità». Quanto alla presenza femminile in un settore tradizionalmente maschile, Cinefra dice: «È ancora molto sbilanciato, ma le cose lentamente stanno cambiando».

MIRIAM COLOMBO. La nanomedicina, scienza dell'infinitamente piccolo collegata alla medicina, si è sviluppata in maniera esponenziale negli ultimi anni. Con importanti ricadute positive nel campo della cura dei tumori. Le ricerche di Colombo, professoressa associata di Biochimica clinica nell'Università di Milano-Bicocca, si focalizzano su questo settore. Insieme a Davide Prosperi coordina il NanoBioLab, laboratorio che si occupa del design e dello sviluppo di nanovettori per la diagnosi e la cura di patologie come tumori solidi e patologie infiammatorie. Ma non solo. La docente è responsabile anche di NanoCosPha, sei laboratori combinati per la produzione di farmaci, integratori e prodotti cosmetici. «Fino a ieri era considerato un tema frivolo ma oggi, nella visione olistica della salute, medicina e cosmetica sono strettamente collegate». L'obiettivo della ricerca è anche sostituire nei prodotti cosmetici le microplastiche, dannose per i mari, con nuove molecole di estrazione naturale.

MATTEO MAESTRI. Nella transizione energetica uno degli aspetti cruciali riguarda l'accumulo di energia. In sostanza, oggi utilizziamo le risorse accumulate milioni di anni fa, fossili creati con la CO2, l'acqua e le radiazioni solari, e li consumiamo in un tempo molto ristretto. Il che crea uno squilibrio nell'accumulo di anidride carbonica nell'ecosistema. Nelle sue ricerche Maestri, 43 anni, professore ordinario di Ingegneria chimica nel Politecnico di Milano, si concentra sull'analisi multiscala dei processi catalitici. «La vera sfida della transizione energetica consiste nello studio dei catalizzatori, che consentono di ottenere dei vettori energetici basati sulla fonti rinnovabili. E di immagazzinare energia in tempi molto brevi». Dal 2023 il docente è anche delegato del rettore per i programmi internazionali dei giovani ricercatori.

ANNA ODONE. A 38 anni insegna Igiene generale ed applicata all'Università di Pavia e tre anni fa, quando salì in cattedra, era la più giovane professoressa ordinaria d'Italia. Tuttora è il membro meno anziano del Consiglio Superiore di Sanità. Importanti esperienze all’estero, Odone dirige la Scuola di Sanità Pubblica dell’ateneo in cui insegna, le sua ricerca si concentra su medicina preventiva e organizzazione sanitaria, in particolare la prevenzione e il controllo delle malattie infettive. Per spiegare ai bambini il Covid-19 ha ideato il cartone animato “Leo e Giulia: Noi come voi”. «Non c'è il rischio di una recrudescenza del virus, ma abbiamo imparato che siamo esposti al rischio di emergenze sanitarie epidemiche e ambientali», dice: «Dobbiamo creare un sistema che consenta di essere preparati, investendo in prevenzione e sanità territoriale. C'è molto da fare, soprattutto a sostegno del sistema sanitario pubblico».

FRANCESCA RE. Dottorato in Neuroscienze, esperienze di studio in Gran Bretagna e Paesi Bassi, a 41 anni è professoressa associata di Biochimica e Nanomedicina nell'università Milano-Bicocca. Nelle sue ricerche, Re progetta nanoparticelle per la veicolazione di farmaci e acidi nucleici al sistema nervoso centrale, per il trattamento di tumori cerebrali e malattie neurodegenerative. In particolare, la sintesi di nanoparticelle biocompatibili e biodegradabili per il rilascio controllato di farmaci, in grado di superare le barriere biologiche, tra cui la barriera emato-encefalica, che protegge il cervello. «Il 98 per cento dei farmaci non riesce a oltrepassare questa barriera», dice la professoressa: «Il nostro auspicio è creare nanodispositivi in grado di portare davvero i farmaci al cervello». A questo scopo, Re progetta anche biomateriali impiantabili a livello cerebrale per il rilascio controllato di farmaci e nanoparticelle.

ALESSANDRO REALI. Classe 1977, pluripremiato, è professore ordinario presso l’Università degli Studi di Pavia, dove dirige il dipartimento di Ingegneria civile e Architettura, tra i 180 dipartimenti italiani d'eccellenza. I suoi temi di ricerca riguardano vari campi dell'ingegneria, tra cui la simulazione numerica, la meccanica strutturale e dei materiali, la biomeccanica. In nome dell'interdisciplinarietà. In sostanza, attraverso simulazioni al computer Reale cerca di predire il comportamento di strutture, fluidi, le loro intersezioni. E anche il comportamento di crescita dei tumori. «Risolvo problemi. Lavoro insieme a medici, ad esempio del San Raffaele di Milano e del Policlinico di Pavia, biologi, chimici, matematici, ma anche con economisti. Ha coordinato numerosi progetti di ricerca internazionali e nazionali, tra cui un ERC Grant dello European Research Council, ed è uno dei soci fondatori di ERC in Italy, l'associazione dei vincitori italiani di ERC Grant.

GAYA SPOLVERATO. Professoressa associata di Chirurgia nell'università di Padova, 38 anni, ha eseguito oltre 3.500 interventi di chirurgia maggiore da primo operatore, specializzata in chirurgia oncologica gastrointestinale e dei sarcomi dei tessuti molli. Esperienze internazionali di eccellenza, tra cui il Memorial Sloan Kettering Cancer Center di New York, nel 2015 Spolverato ha cofondato Women in Surgery Italia, l’associazione delle chirurghe italiane, di cui è presidente dal 2018. La sua missione, come delegata alle politiche per le pari opportunità dell'ateneo, è rafforzare il ruolo delle donne (e tutelare le altre diversità) all'interno dell'università. «Oggi il 30 per cento dei primari è donna, non si supera il 7 per cento nella chirurgia. Bisogna migliorare la formazione: sto sperimentando una scuola di leadership che diventerà operativa dal prossimo anno, per consentire alle donne di candidarsi alle posizioni apicali».

Università, i professori emergenti in Scienze, tecnologia e fisica

Fisici, astrofisici, scienziati della Terra, biologi. Esperti di genomica, intelligenza artificiale, tecnologia, computazione quantistica. Ecco dieci docenti che stanno disegnando il nostro future. Emanuele Coen su L’Espresso il 29 marzo 2023

Lunghe esperienze all’estero, competenze in diverse aree scientifiche, capacità di orientarsi tra bandi, burocrazia, la pioggia di soldi del Pnrr. È l’identikit del professore universitario, ordinario e associato, delle discipline STEM, acronimo dall’inglese Science, technology, engineering and mathematics.

Che diventa STEMM se si aggiunge Medicina, che raccontiamo nella terza puntata di questa inchiesta. Un mondo in cui i saperi sono sempre più interconnessi. Ecco dieci docenti, da Nord a Sud, impegnati a disegnare il nostro futuro.

MARICA BRANCHESI. Non capita a tutti di ricevere il distintivo di socia dell'Accademia dei Lincei dal premio Nobel Giorgio Parisi. È successo lo scorso 11 novembre alla professoressa Branchesi, 46 anni, una delle scienziate italiane più apprezzate nel mondo, ordinaria di Astrofisica al Gssi-Gran Sasso Science Institute all'Aquila. La sua attività di ricerca è finalizzata allo sviluppo dell'astronomia multi-messaggera, che utilizza osservazioni elettromagnetiche e onde gravitazionali per comprendere i fenomeni transienti, velocissimi, più carichi di energia dell'universo. Nel 2018 è stata inserita da Time tra le 100 persone più influenti del pianeta. Inoltre, è impegnata sul fronte del divario di genere. «Bisogna fare un lavoro culturale affinché, quando le donne raggiungono dei successi in campo scientifico, questi non vengano messi in discussione», ha detto in occasione della Giornata delle donne e delle ragazze nelle scienze 2023.

FRANCESCO CARDARELLI. Il suo gruppo di ricerca ha sviluppato un approccio in cui un fascio di luce laser viene fatto orbitare intorno a strutture cellulari o sub-cellulari per catturare informazioni su processi molecolari che avvengono al loro interno, alla scala del miliardesimo di metro. «Così possiamo studiarle con una precisione mai raggiunta prima. Si apre la prospettiva di guardare dentro strutture cellulari microscopiche e in movimento, per decifrare quantitativamente i processi che ospitano», afferma Cardarelli, 43 anni, professore associato di Fisica Applicata nella Scuola Normale Superiore di Pisa. Le sue ricerche, che di recente hanno ricevuto un finanziamento europeo (ERC consolidator) di due milioni di euro, hanno importanti risvolti in campo medico. «Il caso di studio è il granulo di insulina, struttura sub-cellulare chiave per il controllo della glicemia e implicata nella patologia diabetica».

CAMILLA COLOMBO. Come se non bastassero i rifiuti sulla Terra, c'è un'altra emergenza meno visibile ma sempre più preoccupante: i detriti spaziali. Le ricerche di Colombo, 42 anni, professoressa associata di Meccanica del volo spaziale nel Politecnico di Milano con un'esperienza decennale nel Regno Unito, hanno l'obiettivo di mitigare il rischio crescente di collisioni e consentire in futuro l'uso sostenibile dello spazio. La sua ricerca, finanziata dall'Agenzia Spaziale Europea, dal Consiglio Europeo della Ricerca e dall'Agenzia Spaziale Italiana, si concentra sulla modellazione e mitigazione dei detriti spaziali, nonché sull'analisi e la progettazione di missioni e gestione del traffico spaziale. Di recente ha ricevuto un Consolidator grant ERC per il progetto “Green species”, allo scopo di definire un modello economico per lo sviluppo sostenibile delle attività spaziali. «Con il progetto verrà sviluppato un modello probabilistico dei detriti spaziali, nel quale saranno considerate tutte le variabili di natura fisica, economica e politica».

FEDERICO FANTI. Ha ottenuto il dottorato di ricerca in Scienze della Terra all'università di Bologna, poi ha girato il mondo per studiare ecosistemi e faune fossili del periodo Mesozoico, partecipando a scavi in Alaska, Turkmenistan, Canada, Australia. A 41 anni, Fanti è professore associato di Paleontologia e Paleoecologia all'Alma Mater. Oltre a insegnare, realizza documentari. «Mi occupo principalmente di dinosauri e di come la loro evoluzione sia strettamente legata ai cambiamenti dell'ambiente», dice. Negli ultimi anni si è concentrato su due aree: il Deserto del Gobi in Mongolia, dove con un team internazionale ha lavorato per comprendere un ecosistema vecchio di 80 milioni di anni. La seconda è il Villaggio del Pescatore, a Trieste, il più importante sito dell'area mediterranea dove studiare i dinosauri. Nel 2017 è stato scelto come Emerging Explorer dalla National Geographic Society.

SIMONA GIUNTA. Il GiuntaLab, il laboratorio che dirige, studia il ruolo dell'instabilità genomica nelle malattie degenerative come cancro e invecchiamento. È rientrata in Italia nel 2020 dopo quasi vent'anni all'estero, grazie anche al premio Rita Levi Montalcini "Rientro dei Cervelli" del MUR. Ora è professoressa associata di Genetica umana a Sapienza Università di Roma e di recente ha ottenuto dall'European Research Council (ERC) un milione e mezzo di euro per continuare la ricerca avviata nel 2021 sui cromosomi, in particolare sul centromero umano. Questi fondi offriranno la possibilità di compiere passi decisivi nel campo delle scienze biomediche, acquisendo una conoscenza sempre più approfondita del centromero umano, includendo i processi di mutagenesi, danno e riparazione del Dna. «L’obiettivo del progetto è capire quanto sia significativa la variabilità nel Dna tra persone diverse, per migliorare la possibilità di intervenire in maniera mirata e personalizzata su queste regioni genomiche».

LUCA PAGANI. Per studiare il Dna e il rischio genetico di individui che derivano dalla mescolanza di varie popolazioni, Pagani ha combinato conoscenze evoluzionistiche e biomedicali. Laureato in Biologia nella Scuola Normale Superiore di Pisa, ha 38 anni ed è professore associato in Antropologia Molecolare nell'Università di Padova. Studia la genetica di popolazione e la storia evolutiva della nostra specie attraverso genomi moderni o estratti da reperti archeologici (Dna antico). Nel 2021 ha conseguito il premio Antonio Feltrinelli dell'Accademia dei Lincei nella categoria giovani per la biologia. «Ho studiato biologia molecolare, ma mi interessava studiare la storia delle popolazioni umane dal punto vista culturale ed etnografico. Poi con la rivoluzione della genomica ho scoperto che era possibile mettere insieme le due cose», afferma Pagani.

LAURA SANITÀ. Qual è il percorso minimo per andare dal lavoro a casa? Come fa un'azienda a ottimizzare le risorse umane? Dove collocare in una città ospedali, scuole e caserme? Per rispondere a queste domande occorre essere esperti di ottimizzazione combinatoria e algoritmi. «Questi problemi possono essere formulati matematicamente, e molti possono essere risolti in tempi brevi, malgrado esistano miliardi di soluzioni possibili», dice Sanità, 41 anni, professoressa associata del dipartimento di Computing Sciences in Bocconi. La docente si occupa di matematica discreta e informatica teorica ed è riconosciuta come una dei massimi esperti nell’area a livello internazionale. «Gli algoritmi oggigiorno sono utilizzati per problemi che hanno grande impatto sulla società, e dunque gli aspetti etici ad essi legati sono di fondamentale importanza».

MASSIMILIANO SCARPA. Molti immobili, la maggior parte, sono colabrodi energetici. Per questo motivo il campo di ricerca di Scarpa, 45 anni, professore associato di Fisica tecnica ambientale nell'università Iuav di Venezia dopo esperienze all'estero, è cruciale. Per migliorare l'efficienza energetica degli edifici e diminuire i costi di gestione utilizza tecnologie in fase di sviluppo, quali l'intelligenza artificiale e il BIM, cioè “Building Information Modeling”: un processo integrato di creazione e gestione delle informazioni relative a una costruzione. Un sapere di frontiera tra ingegneria, matematica e architettura che interessa tanto le costruzioni quanto la conservazione di opere di elevato pregio artistico-culturale. «L'intelligenza artificiale caratterizza molti aspetti della nostra vita, ma di solito è riferita a Internet o al settore industriale. Nel campo dell'edilizia gli aggiornamenti delle tecnologie sono molto lenti, dunque l'applicazione dell'intelligenza artificiale e del BIM a questo settore è molto promettente».

FABIO SCIARRINO. Il premio Nobel a Giorgio Parisi ha accresciuto la fama del dipartimento di Fisica di Sapienza Università di Roma, ma la scuola romana di fisica affonda le radici nella storia. «Siamo gli eredi dei ragazzi di via Panisperna», commenta con orgoglio Sciarrino, 44 anni, che a 21 si è laureato in Fisica nell'università Federico II, a Napoli, e a 25 ha conseguito il dottorato nell'ateneo di Roma. Ordinario di Fisica della materia alla Sapienza, senior research fellow nella Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati Sapienza, il professore studia l'ottica quantistica sperimentale, il calcolo e l'informazione quantistica. Negli ultimi anni la sua attività di ricerca si è concentrata sull'implementazione di protocolli di informazione quantistica tramite circuiti fotonici integrati. «L'idea è contribuire alla creazione di un nuovo paradigma di computazione, che vada oltre i computer di oggi, applicando i principi della fisica quantistica».

BOTOND SZABO. La matematica e la statistica rivestono un ruolo cruciale e sempre più rilevante per altre discipline scientifiche, come l'informatica e la medicina. Associato di Statistica, Szabo, 37 anni, è uno dei professori di punta della Bocconi. Di recente ha ottenuto uno Starting Grant ERC da un milione e mezzo di euro per un progetto (“BigBayesUQ”) per valutare le proprietà fondamentali di metodi statistici e di machine learning per trattare grandi quantità di dati complessi. «La crescente disponibilità di informazioni pone nuove sfide a statistici ed informatici. Molti dei nuovi algoritmi sono rapidi, ma per fidarci dei risultati dobbiamo capirne le proprietà matematiche, altrimenti potrebbero produrre effetti disastrosi». È coinvolto anche in progetti applicati, come lo sviluppo di un algoritmo per la diagnosi precoce dell’Alzheimer basato su un approccio di apprendimento chiamato “Stacked Penalized Logistic Regression” (StaPLR).

Le «due scuole italiane» e la forbice del divario che si allarga. Il Sud trabocca di 100 e lode ma i dati internazionali dipingono un panorama del tutto diverso: che i prof meridionali siano di manica più larga? Afferma Gian Antonio Stella l'11 agosto 2016 su "Il Corriere della Sera”. Gian Antonio Stella (Asolo, 15 marzo 1953) è un giornalista e scrittore italiano. È nato ad Asolo (TV), dove il padre insegnava, da una famiglia originaria di Asiago. Ha vissuto a Vicenza dove ha frequentato il Liceo ginnasio Antonio Pigafetta. «Questa è una scuola particolare: non c’è né voti, né pagelle, né rischio di bocciare o di ripetere. Con le molte ore e i molti giorni di scuola che facciamo, gli esami ci restano piuttosto facili per cui possiamo permetterci di passare quasi tutto l’anno senza pensarci...». Basterebbero queste poche righe scritte dagli alunni di Don Milani a spiegare quanto i voti possano essere, in una scuola ideale che formi davvero giovani preparati, colti e consapevoli, quasi secondari. Purché, appunto, i ragazzi così la vedano: una scuola «senza paure, più profonda e più ricca». Al punto che «dopo pochi giorni ha appassionato ognuno di noi». Ma è così la scuola italiana che esce dagli ultimi dossier? Mah... I numeri pubblicati ieri raccontano di un Mezzogiorno che trabocca di giovani diplomati con 100 e lode, con la Puglia che gode di una quota di geni proporzionalmente tripla rispetto al Piemonte o al Veneto, quadrupla rispetto al Trentino, quintupla rispetto alla Lombardia. Bastonata pure dalla Calabria: solo un fuoriclasse ogni quattro sfornati da Catanzaro, Cosenza o Crotone. Evviva. Ma come la mettiamo, se i dati del P.i.s.a. (Programme for International Student Assessment) dell’Ocse o i test Invalsi (Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo) dipingono un panorama del tutto diverso? Prendiamo la Sicilia, che oggi vanta proporzionalmente il doppio abbondante di «100 e lode» della Lombardia. Dieci anni fa il P.i.s.a. diceva che nessuno arrancava quanto i quindicenni siciliani. La più sconfortante era la tabella sulle fasce di preparazione. Fatta una scala da sei (i più bravi) a uno (i più scarsi) i ragazzi isolani sul gradino più basso o addirittura sotto erano il doppio della media Ocse. Il quadruplo dei coetanei dell’Azerbaigian. Poteva essere lo sprone per una rimonta. Non c’è stata. Lo certifica il rapporto Invalsi 2015: «Il quadro generale delineato dai risultati delle rilevazioni, che non è particolarmente preoccupante a livello di scuola primaria, cambia in III secondaria di primo grado, assumendo le caratteristiche ben note anche dalle indagini internazionali (...): il Nordovest e il Nordest conseguono risultati significativamente superiori alla media nazionale, il Centro risultati intorno alla media e il Sud e le Isole risultati al di sotto di essa». Peggio: «Lo scarto rispetto alla media nazionale del punteggio delle due macro-aree meridionali e insulari, piccolo in II primaria, va progressivamente aumentando via via che si procede nell’itinerario scolastico». Cioè alle superiori. La tabella Invalsi che pubblichiamo in questa pagina dice tutto: dal 2010 al 2015 tutto il Centronord stava sopra la media, tutto il Sud (Isole comprese) stava sotto. Molto sotto. E l’ultimo rapporto Invalsi 2016 non segnala progressi. Allora, come la mettiamo? Come possono i monitoraggi nazionali e internazionali sui ragazzi fino a quindici anni segnalare nel Mezzogiorno una scuola in grave affanno e i voti alla maturità una scuola ricca di spropositate eccellenze? È plausibile che nei due anni finali i giovani meridionali diano tutti una portentosa sgommata alla Valentino Rossi? Mah... Nel 2013 Tuttoscuola di Giovanni Vinciguerra mise a confronto la classifica delle province con più diplomati col massimo dei voti e quella uscita dal capillare monitoraggio Invalsi. I risultati, come forse i lettori ricorderanno, furono clamorosi: Crotone, primissima per il boom di studenti «centosucento», era 101ª nella Hit Parade che più contava e cioè quella della preparazione accertata con i test internazionali. Agrigento, seconda per «geni», era 99ª, Vibo Valentia quinta e centesima. A parti rovesciate, stessa cosa: Sondrio che era prima nella classifica Invalsi era solo 88ª per studenti premiati col voto più alto, Udine seconda e 100ª, Lecco terza e 89ª, Pordenone quarta e 59ª…Assurdo. E le classifiche regionali? Uguali. Un caso per tutti: la Calabria, ultima nei test Invalsi, prima per fuoriclasse. Sinceramente: è possibile un ribaltamento del genere? O è più probabile la tesi che i professori del Sud, per una sorta di solidarietà meridionale basata sul comune sentimento di emarginazione e di abbandono, abbiano verso gli studenti la manica un po’ più larga? Un punto, comunque, appare fuori discussione. Non solo esistono due Italie e due scuole italiane, due universi di studenti e due di professori. Ma il divario, anziché ridursi, si va sempre più allargando. E ciò meriterebbe da parte di tutti, non solo del governo, un po’ di allarmata attenzione in più.

Povera scuola italiana, ormai è un diplomificio. Maturità, passa il 99,5% degli studenti. Non esiste più selezione. Un danno per i giovani, scrive Mario Margiocco su "Lettera 43" l'11 Agosto 2016. Nato a Genova nel 1945, giornalista dal ’71 («Il Secolo XIX», «Panorama», «Italia Oggi»), dal 1992 al 2010 ha lavorato al «Sole 24 Ore». Corrispondente da Bruxelles e dalla Germania, ha seguito dagli Stati Uniti il crac finanziario e le elezioni presidenziali. Puntuali come le stelle di S.Lorenzo, arrivano tutti gli anni i risultati degli esami di Stato di fine ciclo della scuola media superiore di ogni tipo. E come sempre anche quest’anno in Italia è un trionfo. Anzi, nel 2016 un record: promosso il 99,5% degli ammessi agli esami. In Francia i promossi all’equivalente Bac, compresi quelli che hanno superato l’immediata prova orale di recupero dopo aver fallito la prova principale, sono stati nel 2016 l’88,5% dei candidati, una cifra simile a quella che era una volta la percentuale totale dei promossi anche in Italia. Poiché occorre tenere conto anche dell’ammissione all’esame, quest’anno rifiutata in Italia al 4% degli studenti che non si capisce come siano arrivati all’ultimo anno se ritenuti alla fine incapaci di potersi presentare all’esame, siamo a un soffio dalla promozione totale. La logica è chiara: si nega l’ammissione a quelli che sarebbero proprio un’onta per il corpo docente, e si promuovono tutti gli altri, salvo qualcuno rarissimo che ha proprio sbagliato tutto, magari perché in giornate “no”. Ma perché allora non si risparmiano i soldi necessari per gli esami e non si dichiara la promozione di tutti gli idonei al titolo secondo i docenti dell’istituto di origine? Perché la legge prevede un esame di Stato. Ma che credibilità ha un esame di Stato che promuove tutti? Il confronto con la Francia è micidiale. O la loro è una scuola di aguzzini, o la nostra un inattendibile diplomificio. In certe aree ben più che altrove. In genere chi ha fatto, e i più giovani sono oltre i 60, gli esami di una volta sia ai Licei che agli Istituti se nel sonno sogna ancora un esame scolastico, ed è un incubo, non è in genere un esame universitario, ma quello di maturità. Era, nella calura di luglio e agosto, un tormento, una prova di nervi. E restava sul terreno tra rimandati e bocciati un terzo circa degli studenti. Di questi, un 30% recuperava a ottobre, dopo essersi rovinata l’estate. Poi gradatamente tutto è diventato meno impegnativo e ora lo è assai meno. Bene, non è successo solo in Italia. Da noi però si è andati oltre il lecito e comprensibile, perché solo in Italia l’idea di una selezione che sarebbe in sé “antidemocratica”, quindi da rifiutare in blocco come concetto pedagogico classista, ha fatto breccia anche fra molti insegnanti. Che non a caso si sono formati, i più anziani ormai in pensione ma che hanno in tutti i sensi “fatto scuola”, in un periodo ben preciso della scuola e delle università italiane. L'inizio del declino con i movimenti studenteschi del 1968. Chi ha frequentato l’università, grossomodo, nel decennio 65-75 ricorderà benissimo la forte pressione di gruppi studenteschi organizzati contro la selezione e per la sostituzione di esami difficili con esami facili, per l’abolizione degli scritti, degli esami di lingua straniera dove non si poteva non tradurre decentemente alcune frasette, per iscritto, e via andare. Il danno, nelle facoltà umanistiche in genere perché in quelle tecnico-scientifiche era meno facile declassare il curriculum, è stato enorme. C’era molto da svecchiare, ma in nome della qualità, non della banalità. Vari dubbi sulla serietà del cosiddetto movimento studentesco del 68 – e dei suoi alleati e facilitatori sul fronte politico e sociale - sono incominciati così, osservando la voluta banalizzazione dei corsi di studio. Poi l’ondata ha raggiunto Licei e Istituti di vario genere. E ormai è endemica, e da anni. Tutto questo, si fa finta di ignorare da più parti, arreca grave danno agli alunni di origini modeste, tenuti agli studi con sacrificio personale e della famiglia, che hanno più di altri bisogno di un diploma valido e credibile, non solo perché è di Stato. Investono molto, è irresponsabile consegnargli alla fine un pezzo di carta svalutato. Un discorso particolare, anche quest’anno, meritano i 100 e lode in alcune regioni meridionali. Le prime regioni per numero assoluto di 100 e lode sono del Sud, anche se il Sud non brilla nelle prove internazionali, tipo Ocse e altre, di abilità scolastica degli studenti nelle varie materie. Le lodi sono 934 e in forte aumento sul 2015 in Puglia, (in aumento quasi ovunque, soprattutto al Sud, ma non sempre, è giusto rilevare), che ha meno degli abitanti del Piemonte ma cinque volte più lodati. Va detto che si distinguono, per serietà a parere di chi scrive, Abruzzo, Molise, Basilicata e Sardegna, che se avessero in rapporto alla popolazione gli stessi lodati della Calabria dovrebbero triplicare e oltre i propri. Se la Puglia avesse sulla popolazione gli stessi 100 e lode della Basilicata, ne avrebbe un terzo. Basilicata e la provincia autonoma di Trento, che ha un ottavo degli abitanti della Puglia ma solo un 45mo dei suoi 110 e lode, sono le uniche due realtà dove il massimo voto è meno frequente che nel 2015. Sulla scuola nel Sud Italia scrisse pagine memorabili un secolo fa e oltre Gaetano Salvemini, da Molfetta, uno degli uomini migliori, più onesti, generosi e brillanti, del 900 italiano. La pletora di voti massimi lascia il sospetto che l’analisi di Salvemini non sia del tutto superata, nonostante il molto tempo trascorso. L'intellettuale amava e difendeva la piccola gente del Meridione, allora braccianti per lo più analfabeti, e fece molto per loro. Non amava la media e piccola borghesia meridionale, a caccia di diplomi per assicurarsi il “posto” e continuare a primeggiare sulla piccola gente. E, ancora nel 1955, rieditando vecchi scritti sulla scuola, ripeteva una tesi a lui cara, avendo osservato la ricchezza che gli insegnanti estranei alla mentalità compromissoria locale avevano sempre seminato: inviare nel Sud per cinque anni, a stipendio maggiorato, i vincitori dei concorsi a cattedre del Nord, per spezzare il peso di quella piccola borghesia sul sistema scolastico meridionale. Non è successo proprio così. I più danneggiati da questa fiera diplomistica sono i bravi studenti di quelle regioni troppo generose messi alla pari di loro compagni, bravini forse, ma promossi generali sul campo con rito sommario. Un preside di Brindisi sembra non rendersene conto e, come altri in passato, taglia corto: «I nostri studenti sono davvero bravi». Anzi bravissimi, eccezionali. Tutti 100 e lode strameritati? Troppa grazia.

Essere un’eccellenza appaga mente, cuore e portafoglio. Ma senza esagerare, scrive TGCom 24. Perché se da un lato sono tante le università che, per esempio, prevedono alcune agevolazioni per chi si diploma con 100 e lode, dall’altro nel corso degli anni il premio previsto per gli stessi dal Ministero dell’Istruzione ha subito sforbiciate evidenti. Troppe lodi? Dati alla mano non si direbbe, anche se la polemica sulla generosità delle commissioni al Sud si ripete costantemente.

Il Corriere anche quest'anno rilancia la polemica sui "diplomifici", sostenendo che le scuole del sud Italia sgancino più facilmente votoni agli studenti, con la conseguenza che i maturandi meridionali ad aver preso 100 sono stati il doppio di quelli del Nord. Verità o bugia?

Gli opinionisti “po’ lentoni” (lenti di comprendonio, anche se oggi l’epiteto equivalente a “Terrone” da rivolgere al settentrionale è “Coglione”) su tutti i media la menano sulla solita tiritera: ogni qualvolta che il meridione d'Italia eccelle, lì c'è la truffa.

"Il Sud trabocca di 100 e lode ma i dati internazionali dipingono un panorama del tutto diverso: che i prof meridionali siano di manica più larga?", asserisce Gian Antonio Stella, opinionista del nordico “Il Corriere della Sera”. Lui, il buon veneto Gian Antonio Stella, spiega che: «Allora, come la mettiamo? Come possono i monitoraggi nazionali e internazionali sui ragazzi fino a quindici anni segnalare nel Mezzogiorno una scuola in grave affanno e i voti alla maturità una scuola ricca di spropositate eccellenze? Assurdo. Un caso per tutti: la Calabria, ultima nei test Invalsi, prima per fuoriclasse. Sinceramente: è possibile un ribaltamento del genere? O è più probabile la tesi che i professori del Sud, per una sorta di solidarietà meridionale basata sul comune sentimento di emarginazione e di abbandono, abbiano verso gli studenti la manica un po’ più larga? Un punto, comunque, appare fuori discussione. Non solo esistono due Italie e due scuole italiane, due universi di studenti e due di professori. Ma il divario, anziché ridursi, si va sempre più allargando. E ciò meriterebbe da parte di tutti, non solo del governo, un po’ di allarmata attenzione in più.»

Come si fa da un dato (i monitoraggi nazionali ed internazionali sui ragazzi fino a quindici anni) estrapolare l’assunto del broglio riguardanti i voti della maturità data ai ragazzi di tre o quattro anni più vecchi? E cosa ancora più grave, in considerazione della stima che si ha per un bravo giornalista, come si può mettere sullo stesso piano il dato oggettivo dei monitoraggi nazionali ed internazionali riguardanti il totale del corpo studenti di una data zona rispetto al voto soggettivo di eccellenza profuso in capo al singolo studente meritevole? E se fossero stati premiati apposta per il fatto che si siano elevati rispetto alla massa di mediocrità?

«I più danneggiati da questa fiera diplomistica sono i bravi studenti di quelle regioni troppo generose messi alla pari di loro compagni, bravini forse, ma promossi generali sul campo con rito sommario - rincara Mario Margiocco nato a Genova nel 1945, giornalista dal ’71.- Un preside di Brindisi sembra non rendersene conto e, come altri in passato, taglia corto: “I nostri studenti sono davvero bravi”. Anzi bravissimi, eccezionali. Tutti 100 e lode strameritati? Troppa grazia.». Chiosa in chiusura con evidente sarcasmo il ligure.

Cari signori dal giudizio (razzista) facile. Vi rammento una cosa.

Io, Antonio Giangrande, uno che si è laureato a 36 anni, sì, ma come? 

A 31 anni avevo ancora la terza media. Capita a chi non ha la fortuna di nascere nella famiglia giusta.

A 32 anni mi diplomo ragioniere e perito commerciale presso una scuola pubblica, 5 anni in uno (non gliene frega a nessuno dell’eccezionalità), presentandomi da deriso privatista alla maturità statale (non privata) assieme ai giovincelli.

A Milano mi iscrivo all’Università Statale alla Facoltà di Giurisprudenza. Da quelle parti son convinti che al Sud Italia i diplomi si comprano. E nel mio caso appariva a loro ancora più evidente. Bene!

A Milano presso l’Università Statale, lavorando di notte perché padre di due bimbi, affronto tutti gli esami in meno di 2 anni (non gliene frega a nessuno dell’eccezionalità), laureandomi in Giurisprudenza, dopo sosta forzata per attendere il termine legale previsto per gli studenti ordinari.

Un genio, no, uno sfigato, sì, perché ho fatto sacrifici per nulla: fuori dall’università ti scontri con una cultura socio mafiosa che ti impedisce di lavorare.

Mio figlio Mirko a 25 anni ha due lauree ed è l’avvocato più giovane d’Italia (non gliene frega a nessuno dell’eccezionalità).

Primina a 5 anni; maturità commerciale pubblica al 4° anno e non al 5°, perché aveva in tutte le materie 10; 2 lauree nei termini; praticantato; abilitazione al primo anno di esame forense con compiti corretti in altra sede. Così come volle il leghista Roberto Castelli. Perché anche lui convinto degli esami farsa al sud.

Un genio, no, uno sfigato, sì, perché ha fatto sacrifici per nulla: fuori dall’università, o dalle sedi di esame di abilitazione o nei concorsi pubblici ti scontri con una cultura socio mafiosa che ti impedisce di lavorare. Una cultura socio mafiosa agevolata anche da quel tipo di stampa omologata e partigiana che guarda sempre la pagliuzza e mai la trave. Che guarda il dito che indica la luna e non guarda mai la luna.

Alla fine si è sfigati comunque e sempre, a prescindere se hai talento o dote, se sei predisposto o con intelligenza superiore alla media. Essere del nord o del sud di questa Italia. Sfigati sempre, perché basta essere italiani nati in famiglie sbagliate, e forse, anche perché in Italia nessuno può dirsi immacolato. Per una volta, però, cari giornalisti abilitati (ergo: omologati) guardiamo la luna e non sto cazzo di dito.

Da marche.istruzione.it. Gian Antonio Stella: scheda bibliografica Gian Antonio Stella, 49 anni, vicentino, fa l'editorialista e l'inviato di politica, economia e costume al "Corriere della Sera", giornale in cui, dopo gli anni della gavetta giovanile e l'assunzione al pomeridiano "Corriere d'Informazione", Ë praticamente cresciuto. Sposato, un figlio, cuoco dilettante di un certo talento e chitarrista di appassionata mediocrit‡, vive un po' a Roma, un po' vicino a Venezia, un po' in giro. Vincitore di alcuni premi giornalistici (dall'"E'" assegnato da Montanelli, Biagi e Bocca al "Barzini", dall'"Ischia" al "Saint Vincent" per la saggistica) ha scritto vari libri. Tra i pi˘ noti "Schei", un reportage sul mitico Nordest, "Dio Po / gli uomini che fecero la Padania", un velenoso pamphlet sulla Lega, "Lo spreco", un'inchiesta su come l'Italia ha buttato via almeno due milioni di miliardi di vecchie lire, "Chic", un viaggio ironico e feroce tra gli italiani che hanno fatto i soldi; "Trib˘", uno spassoso e spietato ritratto della classe politica di destra salita al potere nel 2001, e infine ìLíorda, quando gli albanesi eravamo noiî (Rizzoli, 2002; edizione tascabile BUR, 2003), dedicato alla xenofobia e al razzismo anti-italiani che i nostri emigrati vissero sulla loro pelle.

Gian Antonio Stella e quando il Veneto rinunciava ai funerali. «Un aneddoto vissuto in prima persona sulla cultura imprenditoriale dei veneti? Se vuoi ti racconto quello che mi è capitato anni fa. È emblematico, credimi. Un giorno mi telefona a casa Antonio Albanese. Io non lo conoscevo, poi siamo diventati amici. Lui sapeva che avevo scritto parecchia roba sui veneti, sugli schei, sul loro attaccamento […] BRUNO PERINI isu nformazionesenzafiltro.it

La prof pugliese con il record di 100 e lodi: «Noi del Sud siamo più accoglienti, non faciloni». Valentina Santarpia su Il Corriere della Sera lunedì 31 luglio 2023.

La docente di latino e greco del Flacco di Bari: 4 lodi e otto cento nella sua classe. «Non siamo faciloni, ma riconosciamo gli sforzi. E le splendide carriere universitarie dei nostri studenti ci danno ragione. I ragazzi vanno valorizzati, non castigati» 

«Non capisco cosa c'è di strano: abbiamo un ministero che ha cambiato nome apposta, si chiama dell'Istruzione e del merito proprio perché vuole valorizzarlo. Noi lo facciamo e veniamo criticati? ». Patrizia Grima, 59 anni, insegnante di latino e greco dall’89, vanta nella sua classe, al liceo classico Flacco di Bari, 4 lodi e otto cento all'indirizzo internazionale quadriennale. Come certificato dai dati del ministero dell'Istruzione e del merito qualche giorno fa, la sua classe è una di quelle da record, che alla maturità ha fatto incetta di voti alti, portando proprio la Puglia in cima alla classifica con più «cento» e «lodi» di tutta Italia, in buona compagnia con altre regioni del Sud. Voti che sembrano cozzare con i risultati Invalsi, che invece vedono anche quest'anno gli studenti meridionali indietro rispetto a quelli del Nord.

«E di cosa ci stupiamo? - sorride Grima- Il modo in cui noi accogliamo i ragazzi, li curiamo, e come si comportano i prof del Nord, riflette la stessa differenza che c'è tra le città: se pensiamo a come possono essere accoglienti una città come Napoli o altre del Sud nei confronti di tutti, anche quelli che sono tra virgolette diversi, e quelle del Nord che senz’altro sono più respingenti. Noi professori del Sud siamo più accoglienti di quelli del Nord».

Vi rimproverano di essere meno severi.

«Ma non è così: quest'anno poi l'esame è tornato ad essere rigoroso, con le prove scritte e una commissione esterna. Nessun sospetto di “aiutini”. Piuttosto, siamo pronti a riconoscere il merito, come ci prescrive il ministero, e a riconoscere un percorso di studi. Abbiamo un modo diverso di valutare e di considerare i punti forti e deboli di uno studente. Non dobbiamo avere il braccino corto, e vedere cosa non manca, ma vedere cosa è stato fatto sulla strada della maturità».

Al Nord non ne tengono conto?

«Non so, credo che al Nord tengano conto più degli standard che di una didattica concentrata sullo studente, come succede qui al Sud. I docenti hanno un modo diverso di vedere i passi in avanti dei ragazzi e riconoscere i loro passi avanti».

Però i dati Invalsi sembrano dargli ragione...

«Non possiamo paragonare i dati sic et simpliciter alla maturità, quei test li fanno gli studenti di diverse classi. E quelli che si preparano alla maturità hanno la capacità di prepararsi all'esame di Stato e contemporaneamente di fare i test per l'università. Ci tengono, e dimostrano fino all'ultimo il loro impegno anche se hanno già in tasca un posto in qualche ateneo prestigioso. E noi li premiamo per questo».

Non rischiate di essere troppo generosi?

«No, io sono sicura che siamo sulla strada giusta. Dobbiamo stare attenti a curare il percorso dei ragazzi, a seguirli lungo la strada della maturazione, che è lenta. Spesso all’inizio arrancano e poi fanno un exploit, se andiamo a cercare ogni cavillo non abbiamo capito niente di didattica».

Ma questo metodo non falsa la percezione dei voti?

«Ma no. I ragazzi non pensano ai crediti quando sono al terzo anno, iniziano a pensarci solo all’ultimo anno quando ormai parte dei giochi sono fatti. E allora dobbiamo pensarci noi, individuare quegli studenti che hanno delle potenzialità e valorizzarli: dobbiamo essere lungimiranti, riconoscere le potenzialità e i risultati effettivi. Non solo considerando le loro performance alle interrogazioni e alle verifiche. Uno studente bravo non è solo quello che mi traduce alla perfezione».

E cosa bisogna considerare?

«La capacità di partecipazione ai progetti curricolari, di lavorare su più discipline, di partecipare alle gare di matematica, latino, greco, filosofia. Questo è un modo di vivere la scuola corretto: la scuola fa parte della vita».

Quelli del Nord non lo fanno?

«Non voglio fare confronti, ma credo che noi docenti non dobbiamo fare i castigamatti, ma fare didattica formativa. Non possiamo essere controllori col bastone, tutti gli sforzi vanno sostenuti e valorizzati, altrimenti i ragazzi si scoraggiano. Un cento e lode in più non ci fa essere meno attenti, né ci può far apparire faciloni, siamo solo capaci di considerare la qualità degli sforzi. E le carriere dei nostri ragazzi ci dimostrano che abbiamo ragione».

In che senso?

«Tutti i nostri studenti premiati da voti alti fanno carriere universitarie splendide, abbiamo riscontri pazzeschi. Alla fine il riconoscimento delle università, non solo baresi, sia chiaro, ma italiane e straniere, sono incredibili».

Inviterebbe i docenti del Nord a fare un po’ di scuola al Sud?

«Si, sarebbe bello fare degli scambi. Abbiamo tutti da imparare».

L’80 per cento dei nuovi prof del Sud. Perché trasferirli non è un complotto. I dati di «Tuttoscuola»: nel Meridione c’è soltanto un terzo delle cattedre disponibili. Non potendo muovere scuole e studenti sono i docenti a doversi spostare al Nord, scrive Gian Antonio Stella il 10 agosto 2016 su "Il Corriere della Sera". Allora: spostiamo gli studenti al Sud? A leggere certi strilli sulla «deportazione» dei docenti meridionali al Nord cadono le braccia. Certo, è possibile che il famigerato «algoritmo» che ha smistato maestri e professori abbia commesso errori. E vanno corretti. Ma i numeri sono implacabili: 8 insegnanti su 10 sono del Mezzogiorno però lì c’è solo un terzo delle cattedre disponibili. Non per un oscuro complotto anti meridionalista: perché gli alunni delle «primarie» e delle scuole di I° grado sono oggi mezzo milione in meno di vent’anni fa. Lo studio capillare che spazza via certi slogan urlati in questi giorni è di Tuttoscuola. Che grazie a un monitoraggio capillare, nome per nome, regione per regione, dimostra: «Solo il 37% degli studenti italiani risiede al Sud, Isole incluse (18 anni fa era il 47%); mentre ben il 78% dei docenti coinvolti in questa tornata di trasferimenti è nato nel Meridione». Risultato: la scuola italiana è come una «grande nave con un carico molto più pesante a prua (il Nord del Paese), che fa scivolare gradualmente verso quella prua una quota crescente del personale, collocato in misura preponderante a poppa (al Sud)». E non c’è algoritmo che, quella nave, possa raddrizzarla. Almeno in tempi brevi. Il guaio è che, prima ancora della frana 2013/2015, con più morti che nascite come non accadeva dalla influenza spagnola del 1918, il Sud subisce da tempo un’emorragia demografica. Conseguenza: «Meno studenti, meno classi attivate, meno personale docente. Confrontando i dati degli alunni iscritti nelle scuole del primo ciclo nel 1997-98 con quelli degli anni successivi, risulta una flessione costante». Nel ‘97-‘98, ad esempio, gli iscritti meridionali alle materne, alle elementari e alle medie erano 2.032.338 cioè il 46,6% del totale nazionale. Quest’anno 1.586.589, pari al 37,5%. Quasi mezzo milione, come dicevamo, in meno. Contro un aumento parallelo di 320.809 alunni al Nord. Di qua +14%, di là -22%. Va da sé che l’equilibrio domanda e offerta ne è uscito stravolto. E questo «squilibrio», prevede la rivista diretta da Giovanni Vinciguerra, sarà registrato «per altre migliaia di professori della secondaria di II grado». È la conferma che «il Mezzogiorno, da decenni avaro di posti di lavoro, privilegia come valvola di sfogo occupazionale l’insegnamento, mentre i giovani delle altre aree territoriali sembrano non prioritariamente interessati a questa professione, grazie forse a più favorevoli offerte di lavoro locali». Problema: non c’è bicchiere capace di contenere un litro d’acqua. I docenti meridionali sono 30.692 ma i posti a disposizione al Sud sono 14.192: «Come possono 14.192 sedi accogliere 30.692 insegnanti? Neanche Einstein avrebbe potuto inventare un algoritmo in grado di risolvere un’equazione simile». Maestri e professori «in eccedenza» nel Mezzogiorno sono complessivamente 16.500, quelli che mancano al Centro-Nord 17.628. Di qua quasi il 67% in meno, di là quasi il 54% di troppo. Con addirittura un picco del 64,3% di insegnanti in eccesso in Sicilia. La quale copre da sola oltre un terzo dei docenti costretti ad andarsene dalla propria regione. Capiamoci: come dicevamo, e come sono stati costretti ad ammettere la stessa Stefania Giannini o Davide Faraone, l’algoritmo usato per distribuir le cattedre in base a vari parametri (anzianità di servizio, titoli, specifiche esigenze familiari...) «incrociati» con l’ordine delle province preferite (ogni docente poteva metterne in fila cento, dalla propria a quella più lontana o più scomoda da raggiungere) può aver commesso errori. Anzi, vere e proprie ingiustizie che hanno premiato qualcuno a danni di altri. E quelle ingiustizie, come dicevamo, vanno riparate. Partendo dalla massima trasparenza chiesta a gran voce da chi contesta le graduatorie. Mediamente, spiega Tuttoscuola, «soltanto il 38% di docenti meridionali ha trovato sede nella propria regione, mentre il 62% è rimasto fuori. Al contrario, il 74% dei docenti nati nel Centro-Nord è rimasto nella propria regione». Colpa di quella nave sbilanciata a prua. Ma se un pugliese finisce in Sicilia e un siciliano in Puglia, dato che non pesava il merito professionale ma solo l’algoritmo, poteva probabilmente esser fatto di meglio. Ed è vero che, in cambio del posto fisso, viene chiesto a molte persone non più giovani, dopo anni di supplenza, con figli e famiglie radicate, un sacrificio pesante. A volte pesantissimo. Detto questo, le urla contro «la deportazione coatta», i lamenti per «una misura indecente e inaccettabile», le denunce degli «esiti nefasti della mobilità nella scuola», gli appelli contro «l’esodo biblico», sono esasperazioni che si rifiutano di tener conto di un dato di fatto: non potendo spostare scuole e studenti, devono spostarsi i docenti. Come accettò di andare a insegnare in un liceo dell’allora lontanissima Matera Giovanni Pascoli. O dell’ancor più lontana Nuoro Sestilio Montanelli, che si portò dietro tutta la famiglia, a partire dal nostro Indro. E centinaia di migliaia di altri docenti. Consapevole oggi dei disagi, dei problemi, dei drammi familiari, però, il governo potrebbe cogliere l’occasione, come invita Tuttoscuola, per dare una svolta alla scuola meridionale, marcata dall’altissima dispersione e da «scadenti risultati nei test Invalsi e Pisa». Alla larga dall’assistenzialismo, ma vale davvero la pena di tener aperte le scuole meridionali, incentivare il tempo pieno, puntare sull’istruzione. Soprattutto nelle aree a rischio.

Professori delle scuole paritarie discriminati. Il caso finisce alla Ue. Storia di Paolo Ferrario su Avvenire il 25 agosto 2023.

Toccherà alla Corte di Giustizia europea stabilire se il servizio pre-ruolo prestato nelle scuole paritarie può essere conteggiato ai fini della ricostruzione della carriera degli insegnanti. A rivolgersi alla magistratura di Lussemburgo è stato il Giudice del Lavoro del Tribunale di Padova, chiamato ad esprimersi sul caso di un insegnante che, una volta assunto a tempo indeterminato nella scuola statale, è stato inquadrato nella fascia retributiva con zero anni di anzianità, nonostante avesse prestato servizio, per cinque anni, in un istituto paritario della zona.

Una discriminazione vera e propria che ha origine in una legge di quasi trent’anni fa, mai aggiornata. L’articolo 485 del decreto legislativo 297 del 1994, riconosce, ai fini della carriera, il servizio prestato nelle scuole «parificate e pareggiate», confluite nelle scuole paritarie dopo l’approvazione della legge 62 del 2000. Il fatto però è che, appunto, l’articolo 485 non sia mai stato aggiornato, - e che, quindi, non contenga la parola “paritarie” - impedisce il riconoscimento di questo diritto a decine di migliaia di insegnanti precari.

Scuola, oltre 62mila assunzioni a tempo indeterminato

Oltre trecentomila, secondo il sindacato autonomo Anief, che ha sostenuto la battaglia del docente padovano e ora invita tutti i docenti potenzialmente interessati, a presentare ricorso per vedersi riconosciuto un diritto e la relativa retribuzione economica. Che ammonta a una discreta somma: oltre 2 miliardi e mezzo di euro che lo Stato ha risparmiato non adeguando le retribuzioni di circa 300mila insegnanti transitati dalle scuole paritarie alle statali. Cifra calcolata dal Comitato nazionale per il riconoscimento del servizio nelle paritarie, che conta 1.400 aderenti circa e che, con la portavoce Filomena Pinca, «plaude all’iniziativa dell’Anief». «In questi anni le abbiamo provate tutte e, adesso, speriamo davvero che la Corte di Giustizia europea ponga fine a questa odiosa discriminazione nei nostri confronti», aggiunge Pinca.

Un’eventuale pronunciamento favorevole ai docenti, dovrebbe essere tenuto in considerazione anche dal legislatore italiano, che finora si è sempre allineato alle sentenze della Cassazione e della Corte Costituzionale che, invece, hanno avallato il mancato computo del servizio di insegnamento nelle scuole paritarie. E ciò, nonostante il fatto che, lo stesso servizio, sia considerato valido, dalla legge 333 del 2001, per l’inserimento nelle Graduatorie ad esaurimento, da dove viene “pescato” il 50% dei docenti assunti dallo Stato a tempo indeterminato.

Una situazione «illogica e irragionevole» per il giudice di Padova. Che chiede alla magistratura europea di stabilire se questo comporti anche la violazione del principio di «parità di trattamento», stabilito dalla direttiva comunitaria 1999/70, tra dipendenti a tempo determinato e lavoratori a tempo indeterminato. Una prima risposta la dà lo stesso Tribunale di Padova: «Risulta pacifico che non sussiste alcuna differenza tra le funzioni, la formazione, i servizi e gli obblighi professionali di un insegnante a tempo indeterminato della scuola statale e quelli di un insegnante a tempo determinato della scuola paritaria». Forse, basterebbe aggiornare una legge vecchia di trent’anni, per evitare a migliaia di lavoratori di ricorrere alla giustizia per vedersi riconosciuto il diritto ad una giusta retribuzione.

Estratto dell’articolo di Umberto Mancini per “il Messaggero” lunedì 14 agosto 2023

L'allarme lo ha lanciato per prima l'Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario: il settore delle università telematiche deve riallineare gli interessi economici con la qualità dell'offerta formativa. […] E se da una parte c'è un mercato che vale 19,5 miliardi di euro, dell'altra c'è la sfida sulla qualità dello studio […]

Proprio per questo l'Anvur, l'Agenzia nazionale vigilata dal Ministero dell'Università e della Ricerca, ha messo sotto osservazione la modalità di gestione dell'offerta di digital learning da parte delle università telematiche che si distinguono oggi per non essere ancora allineate alla qualità delle università tradizionali

[…]

Come noto, uno degli indicatori per misurare la qualità della proposta formativa è il rapporto fra numero di docenti e di studenti all'interno dei corsi.

Stando all'ultimo documento sul Sistema della Formazione Superiore e della Ricerca pubblicato dall'Agenzia, pubblicato nello scorso mese di giugno, durante i corsi tenuti nel 2022 le università tradizionali hanno messo a disposizione un professore per ogni 28,5 studenti in media, mentre nelle telematiche il rapporto sale a 384,8 studenti per ogni docente.

Questo determina costi inferiori e ricavi decisamente più elevati per organizzare una stessa tipologia di corso, senza garantire gli stessi standard qualitativi di formazione.

[…] Il messaggio arriva a valle di una valutazione sulle 11 università telematiche messe a confronto con quelle tradizionali. Nessuna ha infatti ottenuto una promozione a pieni voti da parte dell'Agenzia. 

La maggioranza - ben otto - ha raggiunto un giudizio «soddisfacente», solo una università è considerata «pienamente soddisfacente» e ben due sono sotto state messe sotto osservazione per la mancanza di alcuni elementi di qualità fondamentali.

[…] Nel frattempo, il numero di scritti agli atenei telematici in Italia continua a crescere. Nell'anno accademico 2011/12 erano circa 44 mila, dieci anni dopo erano saliti a 224 mila unità. Un decimo del totale dei diplomi di laurea conseguiti in Italia nell'anno accademico 2020/21 è stato rilasciato dalle università telematiche. La percentuale diventa più rilevante per i "Master" di primo livello: il 35 per cento dei diplomi è stato emesso dagli atenei digitali.

Il solito velato razzismo ed approssimazione.

Record di diplomi facili, nell’istituto napoletano 866 iscritti in quinta (e nessuno nei primi quattro anni). Storia di Gian Antonio Stella su Il Corriere della Sera il 15 agosto 2023.

In un anonimo edificio sotto il Vesuvio, sopra il pianterreno occupato da un centro per il «dimagrimento a accelerazione metabolica», c’è il più obeso centro d’ingrasso dei diplomi di maturità italiani. In grado di iscrivere agli ultimi esami di maturità 2023, come denuncia un’inchiesta di : il doppio dei maturandi iscritti (451) all’Istituto alberghiero Pietro Piazza di Palermo, che con 2.308 allievi dalla Iª alla Vª superiore (e son calati: tre anni fa erano 2.840 con 175 classi!) risulta essere la più grande e iper-affollata scuola d’Italia. Tutti promossi, o quasi. In linea con la «severissima» media italiana delle promozioni diffusa qualche settimana fa dal ministero: 99,8% degli ammessi.

Un prodigio prodigioso: tutti i candidati interni delle paritarie hanno per legge «l’obbligo di frequenza per tre quarti del monte ore annuale» e ciascuno ha per legge diritto in aula a 1,96 metri quadri di «aria» più gli spazi comuni, dall’aula magna alle segreterie e tutto il resto. Dove metterli tutti insieme ammassandoli con gli iscritti dal primo al quarto anno? Sorpresa: l’istituto paritario vesuviano che offre la possibilità di maturarsi al Liceo di scienze umane, all’Istituto tecnico meccanico, amministrativo o elettrotecnico o all’Istituto professionale alberghiero, ha iscritti solo al 5° anno. E al primo, secondo, terzo e quarto anno che ogni istituto paritario dovrebbe avere per garantire un’offerta scolastica completa? Alunni zero, rispondono i tabulati della pubblica istruzione. Manco uno. Zero carbonella.

Vi chiederete: è mai possibile che esista una scuola così che porta all’esame finale 866 studenti cioè il quintuplo della media (184) di tutte le altre scuole italiane? Il formidabile dossier della rivista, intitolato «Il gran bazar dei diplomi di maturità», non fa nomi. «Non ci interessa far la lista dei (presunti) peccatori», dice il direttore Giovanni Vinciguerra, «ci preme di più mettere a fuoco il peccato. Perché il bubbone dei diplomi facili, come già spiegavamo un paio di settimane fa nel primo rapporto ripreso dal Corriere e raccolto dal ministro Valditara con l’apertura di un’inchiesta, sta scoppiando». Incrociando i dati di Tuttoscuola e quelli della banca dati ministeriale un nome però affiora. Quello del Centro scolastico «Elsa Morante» di Ottaviano, il comune nel parco del Vesuvio dominato dal grandioso castello mediceo che negli anni bui finì nelle mani del boss camorrista Raffaele Cutolo per esser poi confiscato e restituito alla comunità civile.

«Accelerate verso il futuro», incita l’home page. Palazzina moderna. Già sede di un bowling e un patronato sindacale. Quattro piani. Quello a terra occupato da un centro dimagrante con massaggi, ultrasuoni e fango-terapia, gli altri dall’istituto. Che linka come proprio indirizzo su google map (oggi lo cambieranno, ma fino a ieri sera era così) una via non di Ottaviano ma alla periferia di Torino (Strada di S. Mauro, 220), promette di «infondere ai ragazzi motivazione, autostima e fiducia in sé stessi» e svolazza con foto di maniera e testi finti nella certezza che nessuno li leggerà: «Focus sullo studente: i serramenti sono progettati in modo tale da garantire un altissimo livello di sicurezza» (sic!). Oppure: «Valore legale: offriamo lavorazioni su misura per rispondere alle richieste del cliente» e via così... Pressappochismo al cubo. Premiato, accusa l’inchiesta, da un crescente giro d’affari stimato «in un solo biennio» («Ognuno ha il suo interesse: diplomandi, gestori, docenti, che spesso però sono anche sfruttati e malpagati») sui «7 milioni e 650 mila euro». Con «utili prima delle imposte che supererebbero i 4 milioni in due anni».

Del destino di questa o quella «scuola» che getta ombre sinistre su migliaia di «paritarie» che funzionano, sia chiaro, a Tuttoscuola(e al Corriere) non interessa un fico secco. Ma che in quasi perfetta coincidenza col perimetro della «Terra dei fuochi» avvelenata dai rifiuti tossici ci sia un’area del Paese pari allo 0,4% del territorio scolasticamente avvelenata dalla metà esatta dei sospetti «diplomifici» (per il 90% intorno a Napoli) è un problema che tocca l’Italia tutta. Tanto più che in 14 dei 35 principali comuni coinvolti, da Ottaviano ad Acerra, è già avvenuto perfino il sorpasso di questo tipo di scuole paritarie su quelle pubbliche (rischiando d’infettare aree ancora più vaste) e l’andazzo, basato sull’assurdità che «un diploma vale l’altro», viene fin troppo tollerato se non agevolato da chi dovrebbe vigilare.

Dice la legge, infatti, che l’aggiunta in una scuola paritaria di una «classe collaterale» dovuta all’inatteso aumento di iscritti all’ultimo anno delle «superiori» dev’esser contenuta: al massimo una per indirizzo. Macché: nell’anno scolastico 2020-21 ne sono state autorizzate 664. Una a testa dagli uffici scolastici lombardi, piemontesi e veneti, 71 da quelli laziali, 86 da quelli siciliani e 462 (in 268 istituti) da quelli campani. Classi collaterali salite nel 2022-23 a 528. Per un terzo accordate direttamente dalle autorità scolastiche, per due terzi concesse dopo raffiche di ricorsi delle «paritarie» al Tar. Ricorsi quasi sempre benedetti da sentenze favorevoli all’allargamento delle maglie con la stessa motivazione: «La prescrizione contenuta al punto 4.8 per le classi terminali, riduttiva a una sola classe collaterale nei confronti degli studenti neo iscritti” che “non possano essere inseriti nelle classi esistenti”, non può ritenersi operante nei confronti degli studenti lavoratori “stante l’assenza di specifica previsione normativa e pertanto esplicante efficacia esclusivamente nelle ipotesi ordinarie di studenti non lavoratori».

Domanda: chi controlla che questa massa di iscritti nell’area dei diplomifici provenienti dalle più varie contrade italiane sia composta davvero di studenti lavoratori che peraltro dovrebbero frequentare almeno due terzi delle lezioni nelle «paritarie» campane pur vivendo a Biella, Barletta o Forlì? Nessuno. Perfino nei casi, come quello dell’istituto di Ottaviano, in cui non c’è un solo alunno che frequenti la scuola nei primi quattro anni di indirizzo prima dell’abnorme esplosione finale alla vigilia della maturità. No, così non va. E c’è un solo modo per uscirne: controllare che le regole vengano rispettate. E seguire una serie di suggerimenti, perfino ovvi, che la stessa rivista propone punto per punto. Sennò invocare il «merito» resterà sempre un’esercitazione di chiacchiere.

Estratto dell’articolo di Gian Antonio Stella per il “Corriere della Sera” sabato 29 luglio 2023

Mandereste vostro figlio a fare la maturità in una scuola tanto al chilo? Eppure così appaiono certi istituti paritari denunciati in un dossier di Tuttoscuola. Una rete di diplomifici che sfornano ogni anno migliaia di «titoli» buoni per i concorsi pubblici e si vantano online di «rilasciare certificati in media in un giorno» e di «irradiarsi in tutta la penisola con centri di ascolto» e di scansare perfino l’obbligo più ovvio: quello di frequentare almeno una parte delle lezioni. Alla faccia del «merito».

[…] E il direttore Giovanni Vinciguerra si rifiuta di puntare l’indice su questo o su quell’istituto: «È il sistema con le sue regole a consentire storture indecenti». Incrociando i dati e le «promesse» contrattuali offerte sul mercato agli aspiranti diplomandi, però, sul web si trova di tutto. Compresi indirizzi che si sdoppiano e si moltiplicano e rimandano nelle «street view» di Google map a sgarrupate periferie metropolitane, orrendi «bassi» popolari e talora vere e proprie catapecchie: muri scrostati, grondaie arrugginite, mattonelle divelte, spiazzi ingombri di sterpaglie.

Guai a fare d’ogni erba un fascio: la larga maggioranza delle «paritarie» italiane, quattro quinti, è estranea allo spaccio di attestati. I diplomifici, però, ci sono. Al punto di dar vita addirittura a fenomeni di «turismo diplomante». E sono riconoscibili per una caratteristica: hanno pochi o pochissimi studenti iscritti fino alla vigilia della prova finale per il pezzo di carta utile per i concorsi pubblici e poi iscritti che miracolosamente si moltiplicano tra il quarto e il quinto anno.

Un’impennata che nell’ultimo anno scolastico è arrivata a uno stratosferico +166%.

Con punte paradossali.

Un esempio? Quello di un istituto «passato da 11 iscritti in quarta a 296 l’anno dopo in quinta»: ventisette volte di più. Tutto «normale»? «Un altro istituto ha complessivamente avuto negli ultimi sei anni soltanto 31 studenti iscritti al quarto anno, diventati in tutto 1.083 al quinto con un incremento di 1.052 iscritti nel sessennio (+3.194%)». Un altro ancora partito da 138 è salito nello stesso periodo, sempre per il 5° anno, a 1.388: «Ipotizzando una retta media di 5 mila euro, i ricavi di questo istituto solo per le iscrizioni al 5° anno sfiorerebbero in sei anni i 7 milioni».

 […] queste scuole accuratamente scelte per ottenere la benedetta pergamena sono 92. 

Una quota minore (il 6,5%) delle 1.423 «paritarie» che portano gli studenti all’esame di maturità. Ma concentrata in una roccaforte: «Il 90,5% dei 10.941 nuovi iscritti sono in istituti paritari della Campania. Il 6,3% in istituti del Lazio. Il 3,2% in istituti della Sicilia. Stop: nessuno è localizzato in altre regioni d’Italia».  […] 

Una progressione inarrestabile: dal 2015/16 fino a questo anno scolastico «l’incremento di iscritti a livello nazionale nelle paritarie tra il quarto e il quinto anno delle superiori è stato di 166.314».

Oltre 105 mila in Campania, gli altri in tutte le altre regioni messe insieme. Un caso? Dice il Dpr 122/2009 che «ai fini della validità degli anni scolastici, compreso l’ultimo anno di corso (…) è richiesta la frequenza di almeno tre quarti dell’orario annuale». Ma in realtà «in base a quanto risulta da contratti per l’iscrizione nella scuola visionati da «Tuttoscuola», in molti casi sono esplicitamente previste nel corso dell’anno scolastico trasferte di 48-72 ore presso l’istituto dove si svolgerà l’esame finale per un numero di visite che si conta sulle dita di una mano». 

Un weekend ogni tanto… «La violazione di legge sulla frequenza per almeno tre quarti dei giorni di lezione messa in atto quasi sempre dagli istituti in odore di diplomificio è la loro carta vincente verso la clientela». Pronta a pagare, stando ai tariffari on-line, «una cifra compresa tra i 1.500 e i 3.000 euro, più una tassa d’iscrizione che va da 300 a 500 euro.

Per gli esami di idoneità, il prezzo varia tra i 1.500 e i 3.000 Euro. Per il diploma di maturità la retta media è 2.500-4.500 Euro. Ma ci sono casi in cui si arriva a 8.000 o addirittura a 10.000...» E lo Stato che fa? Boh...«Sembra abbia rinunciato alla lotta contro i diplomi facili, azzerando o quasi i controlli». Due numeri: negli anni 90 gli ispettori che facevano le verifiche «erano 696. Ne sono rimasti in servizio solo 24. Alcuni prossimi alla pensione. Ai quali si aggiungono 59 dirigenti tecnici con incarichi triennali che dovrebbero vigilare su circa 8 mila istituzioni scolastiche statali e circa 12 mila paritarie. Ottantatré ispettori per 20 mila scuole… Nel Regno Unito gli ispettori sono circa 2 mila (inclusi quelli part-time), in Francia circa 3 mila».  

Auguri... Perché non ne assumono? Una parola: «Il penultimo concorso è stato nel 1989; il successivo iniziato nel 2005 si è concluso nel 2014. Infine il nuovo concorso ha mosso i primi passi nel 2019 e ad oggi non è stato ancora bandito». Due concorsi in 34 anni. […]

Antonio Giangrande: Il pregio di essere un autodidatta è quello che nessuno gli inculcherà forzosamente della merda ideologica nel suo cervello. Il difetto di essere un autodidatta è quello di smerdarsi da solo. Antonio Giangrande

Antonio Giangrande:

Bisogna studiare.

Bisogna cercare le fonti credibili ed attendibili per poter studiare.

Bisogna studiare oltre la menzogna o l’omissione per poter sapere.

Bisogna sapere il vero e non il falso.

Bisogna non accontentarsi di sapere il falso per esaudire le aspirazioni personali o di carriera, o per accondiscendere o compiacere la famiglia o la società.

Bisogna sapere il vero e conoscere la verità ed affermarla a chi è ignorante o rinfacciarla a chi è in malafede.

Studiate “e conoscerete la verità, e la verità vi renderà liberi” (Gesù. Giovanni 8:31, 32).

Studiare la verità rende dotti, saggi e LIBERI!

Non studiare o non studiare la verità rende schiavi, conformi ed omologati.

E ciò ci rende cattivi, invidiosi e vendicativi.

Fa niente se studiare il vero non è un diritto, ma una conquista.

Vincere questa guerra dà un senso alla nostra misera vita.

Dr Antonio Giangrande

Quell’esame di maturità da privatista.

Manduria. Istituto Tecnico Statale Commerciale e per Geometri “Luigi Einaudi”. Ore 8 del giorno 22 giugno 1992.

Su comunicazione del preside prof. Giovanni Semeraro, con provvedimento n. 22565/91/3 del 19 maggio 1992, mi si ammetteva a sostenere l’esame di maturità per tutti e cinque gli anni di corso ordinario.

Esame non sostenuto in tempo debito perché in famiglia lo studio non era ritenuto essenziale per il futuro: meglio avere, che essere.

Avevo 29 anni. Uomo tra ragazzi.

Indifferente affrontai l’esame, prima scritto, poi orale. Tutte le materie dei cinque anni di corso.

La commissione si integrò con docenti per le materie non previste nella maturità ordinaria.

La prova scritta fu eccellente: ottimi voti, pari ai più bravi.

La prova orale fu una corrida: sfilze di domande da innumerevoli docenti.

Qualche commissario era restio a promuovermi, subissandomi di domande, anche a trabocchetto. Forse non per cattiveria (qualcuno sì) o non perché fossi impreparato, ma per l’eccezionalità del fatto che poteva creare un precedente scomodo.

Il presidente della Commissione alla fine mi chiese: perché hai affrontato l’esame?

Risposta: ho già tutte le patenti superiori, compreso il CAP (certificato abilitazione professionale), ho quasi vinto il concorso per autista del magistrato (nel periodo delle stragi di mafia), e sarebbe bello presentarsi ad esso come diplomato e non come analfabeta.

Alla fine la commissione espresse il seguente giudizio: “il curriculum e le prove integrative hanno evidenziato una adeguata cultura di base del candidato che durante le prove e del colloquio ha dimostrato di possedere una preparazione accettabile anche se non criticamente approfondita”.

Ringrazio Dio per avermi sostenuto.

Quel concorso non l’ho vinto, perché era truccato e già assegnato ad altri.

Decisi allora di non essere l’autista, ma lo stesso magistrato.

Partii per Milano per poter lavorare e studiare. Avevo moglie e due figli, avuti a 20 anni ed a 21.

In quel posto mi dissero che il diploma l’avevo comprato, perché impossibile ottenere quel risultato.

A Milano le 26 annualità, ossia gli esami per la laurea in Giurisprudenza quadriennale, li superai in due anni.

Dovetti aspettare altri due anni per poter sostenere l’esame di laurea.

Mi laureai l’11 luglio 1996.

Ringrazio Dio per avermi sostenuto.

Il 21 settembre 1996 inizia la mia pratica forense. Presso il Tribunale di Taranto.

Il 18 aprile 1998 inizia la mia attività forense con patrocinio legale, fino al 18 aprile 2004, in attesa dell’abilitazione che dopo 17 anni di esami farsa non arrivò mai.

Ero un elemento estraneo e scomodo al sistema.

La mia preparazione da privatista mi rese immune da influenze ideologiche e lobbistiche.

Affrontai altri concorsi: truccati. Presentai le prove: ignorate.

Tutti i miei sacrifici, e la mia vita sprecata, immolati alla ragion di uno Stato criminale.

Ormai anziano indigente posso solo fare il saggista di denuncia civile: libri che sul web tutti leggono, ma che nessuno compra.

Al contrario, buon sangue non mente, mio figlio è diventato l’avvocato più giovane d’Italia a 25 anni con la doppia laurea. Telenorba gli dedicò un servizio. Primina, esame di maturità allo stesso Istituto di cui sopra, al 4° anno perché aveva 10 in tutte le materie, abilitazione forense al primo anno di esame. Oggi non vuol fare l’avvocato, ma lavoro all’Ufficio del Processo di Parma, superando quel concorso e quello ostico di abilitazione di professore degli istituti superiori.

Ringrazio Dio di averlo sostenuto.

Antonio Giangrande

 Quel mio esame di Maturità da privatista a Gioia del Colle. Ricordo il tema di Italiano, e altro che cellulari in classe...Michele Mirabella su La Gazzetta del Mezzogiorno l’8 Gennaio 2023.

Ho sostenuto gli esami di maturità presso il Liceo Classico “Virgilio” di Gioia del Colle. Troppi anni fa. Vi fui destinato d’autorità stante la mia condizione di privatista.

Molti conoscono che cosa fosse quella condizione limbica: studenti che s’erano preparati lontano dalle aule scolastiche, privatamente, appunto. Studenti che avevano sciolto il legame con l’ordinamento della scuola: molti lo ritenevano penitenziale e prendevano la strada avventuriera dell’esame da privatista. Costui non era visto di buon occhio, anzi: v’era verso di lui un non so che di vigilanza soverchia, d’attenzione curiosa, di sospetto. Era un legionario straniero che aveva anticipato l’uscita dal fortino, mettendosi in viaggio senza il viatico rassicurante dell’istituzione scolastica, sciogliendosi dall’onere diligente della frequenza noiosissima e studiando da solo o appena assecondato da lezioni private. Queste che furono e, forse, ancora sono, provvidenziali integrazioni salariali per i professori maltrattati dall’esosità dello Stato ignaro della benemerita categoria, erano considerate dalle commissioni con malcelata antipatia, non si può negarlo. C’era, poi, anche il sospetto che il privatista fosse solo un figlio di papà, viziato e ciuccio, spintonato verso la maturità grazie a raccomandazioni pesanti e dosi massicce di nozionismo dell’ultima stagione.

Generalmente la falce delle commissioni calava sui privatisti in un’epoca in cui i maturi al primo turno, per così dire, erano un’esigua minoranza, parecchi solo dopo il ballottaggio di settembre e non pochi i respinti senza pietà nel purgatorio dei ripetenti. I recidivi delle bocciature, spesso, s’arruolavano tra i privatisti. L’avventura continuava.

Capitava, e a me capitò, d’incontrare un professore che m’aveva preparato nella commissione vagabonda che ti toccava in sorte. In tal caso la giustizia scolastica non perdeva tempo e, per legittimo sospetto, ti destinava ad altra giuria esaminatrice. A me, appunto, successe: tentai delle dichiarazioni spontanee, ma non potei neanche aprir bocca. Ed eccomi nei grandi e luminosi corridoi del Liceo Classico “Virgilio” di Gioia del Colle, da privatista deportato, per giunta.

Era una bella mattina di luglio e l’aria profumava di campagna anche nelle aule stagionate della scuola e, anzi, l’odore d’erba e terra e frutta si mescolava con quel tanfo tenue che avevano un tempo le scuole: un misto d’inchiostro, polvere, gesso, sudore, lavanda della professoressa d’Educazione Fisica, merende, matite, carta di quaderno, legno dei banchi, greve fumo di Nazionali super, fiori appassiti e cesso.

Il sole allagava di luce il corridoio dove sedevano, uno per banco, i maturandi tutti vestiti a festa. S’usava andare all’esame così, con una pretesa, se non d’eleganza, certo di correttezza. Mia madre aveva imposto la camicia bianca e una cravatta regimental di mio padre, rossa e blu.

Questi tremanti figurini si sarebbero dovuti misurare con i temutissimi temi. M’era stato detto e ripetuto di far molta attenzione all’”elaborato” (così dicevano i Provveditori) d’Italiano, perché la commissione l’avrebbe tenuto in gran conto per valutare la maturità del candidato, a cominciare dalla scelta della traccia tra le tre regolamentari. Le trovai tutte e tre bellissime e sentivo che avrei avuto da scrivere in tutti i casi. Ci pensai su dieci minuti. Scartai il tema storico, diffidando della mia memoria delle date e della mia scarsa simpatia per le conquiste coloniali italiane di cui avrei dovuto discettare. Altrettanto feci con il tema di Storia dell’arte che, pure, m’affascinava con quella riflessione che ci si chiedeva sulle cattedrali. Avevo in serbo un’elegante citazione a proposito di quei vertiginosi libri di pietra, ma lo sfoggio non sapeva andar oltre e rinunciai. Mi restava la traccia letteraria. Era spaventosa e bellissima: “La concezione del dolore in Leopardi e Manzoni”. Punto. Tutto qui.

M’avventai sul foglio protocollo e sciorinai tutto quello che avevo imparato ad amare su quell’argomento. Mentalmente ringraziavo il mio amatissimo professor Peppino Ricapito che aveva avuto il coraggio di affardellarsi del compito di istruire quel bel pezzo di privatista ch’ero io e scrissi a braccio con veemenza e passione direttamente in “bella”. Ammetto un piccolo peccato di vanità con il rimorso alimentato dalla nostalgia: consegnai dopo tre ore tra l’incredulità e l’invidia dei compagni. Uscii che il sole era quasi a picco.

Adesso m’accorgo che la vanità perdura: avevo cominciato a scrivere un prologo per trattare delle vicende arruffate e incomprensibili, in cui si dibatte la scuola italiana che rischia tra lo sgomento e la confusione di non riuscire a compiere l’irrinunciabile cammino educativo: si discute se consentire o meno l’uso del telefono cellulare nelle aule, durante le lezioni. Solo un ostinato ciuccio ripetente annidato dei ceti dirigenti può ignorare che quegli arnesi informatici sono fonte di sapere preziosa solo nella custodia magistrale degli insegnanti. Diventano milizie mercenarie dell’indolenza giovanile, la conosco bene, che il magistero della scuola deve correggere e reprimere, se necessario. I nativi digitali sono ancora all’asilo anche se sono ormai quasi adulti.

Avrei voluto, ma sarei andato fuori tema. Meglio “i ricordi”, come avrebbe scritto il Manzoni o “le ricordanze” come avrebbe poetato il Leopardi.

«Istruiti ma senza lavoro: questa è la fotografia dei giovani italiani». Rispetto alla media europea, il nostro Paese registra tassi di occupazione degli under 35 in possesso di titolo di studio assai bassi. Il problema è che domanda e offerta nel sistema produttivo nazionale sono disequilibrate. Servono interventi per riorganizzare l'economia e la formazione. Alberto Bruschini su L'Espresso il 15 Novembre 2023

L’indagine dell’Istat sui «livelli di istruzione e i ritorni occupazionali» fornisce un quadro desolante che, purtroppo, non allarma né chi è al governo, né chi è all’opposizione, né persino i cultori della politica economica. L’aspetto più significativo è costituito dalla differenza, in Italia rispetto alla media europea, nel tasso di occupazione dei giovani under 35 anni in possesso di titolo di studio. 

In Italia il tasso di occupazione dei diplomati è del 56,5%, in Europa del 76,9%. Quello dei laureati è del 74,6%, contro l’86,7%. Nella classe di età tra 25-34 anni, i laureati in Italia sono il 29,2%, contro il 42% in Europa. Questi dati pongono il problema sia della domanda sia dell’offerta di lavoro e mettono sul proscenio il tema dell’economia reale. Questione messa da parte con il trionfo della finanziarizzazione dell’economia (dalla fine degli anni ’80), non solo dai governi e dai partiti, ma anche dagli studiosi. 

Sembrava che il rapporto finanza-mercato fosse in grado di risolvere automaticamente il problema dell’adeguatezza dell’apparato produttivo di ciascun Paese all’evoluzione delle forze produttivi mondiali. I dati italiani ci mostrano il contrario. I livelli di istruzione e quelli occupazionali non trovano appropriate risposte neppure con specifici interventi pubblici (sgravi fiscali, contributivi…). 

In Italia sussiste il problema della dimensione troppo piccola delle imprese. Sono più di 4 milioni quelle con meno di 10 dipendenti e 4 mila con più di 250 addetti. I grandi gruppi industriali, peraltro a prevalenza pubblica, si contano sulle dita di una mano (Eni, Leonardo, Fincantieri) e sono oggetto, secondo le previsioni della legge di Bilancio, di dismissioni parziali per reperire 20 miliardi di euro per far tornare i conti. Una recentissima indagine di Excelsior, che prevede 1,2 milioni di assunzioni per il trimestre ottobre-dicembre 2023, mette il dito nella piaga. Infatti, più di 331 mila assunzioni sono previste nei servizi, 272 mila nella ristorazione e nel commercio, 217 mila per operai specializzati in vari settori, 109 mila per lavoratori non qualificati per servizi e costruzioni e soltanto 74 mila in manifattura e logistica, di elevata specializzazione. 

L’evoluzione dell’organizzazione produttiva italiana, nata con la ricostruzione industriale, è stata lasciata al laissez faire. In assenza di un dibattito sul destino dell’economia reale le Pmi si sono limitate a guardarsi dal di dentro per non essere travolte dalla dinamica industriale globale. La transizione ecologica e la digitalizzazione richiedono che ci si occupi di come dovrebbe evolvere la nostra struttura economica. In caso contrario, saremo travolti dall’espansione del turismo. Fenomeno che non colma affatto il vuoto lasciato dalla mancata riorganizzazione dell’attività produttiva, fulcro dell’occupazione per i giovani con livelli di istruzione adeguati. 

I distretti industriali, le filiere produttive della Lombardia, del Nord Est, dell’Emilia-Romagna, delle Marche, della Toscana e di tante vaste aree del Meridione devono diventare oggetto di riflessione e di studio del governo, dell’opposizione e dell’intellighenzia per diventare fucina di azioni pubbliche per l’adeguamento strutturale del sistema economico nazionale. Il nostro apparato produttivo deve uscire dalla nassa della piccola dimensione per cogliere le opportunità della profonda trasformazione mondiale in atto e per dare risposte positive per l’occupabilità di giovani con livello di istruzione crescente.

Estratto dell'articolo di open.online.it domenica 12 novembre 2023.

È servito a ben poco il ricorso al Tar della studentessa di Spadafora, nel Messinese, che ha denunciato irregolarità sulla prova orale di Maturità sostenuta la scorsa estate, costringendo anche tutti i suoi compagni di classe a ripetere l’esame. Alla maturità-bis, che si è svolta ieri, la ragazza ha ottenuto lo stesso punteggio che l’aveva indispettita e convinta a ricorrere alle vie legali: 69 su 100. Il caso ha catturato una grande attenzione mediatica e, rivela la Repubblica, sono in tanti a essere accorsi a Spadafora per assistere alla sua seconda prova orale [...] in un clima di gelo.

La prova orale pare non sia stata particolarmente brillante e la giovane studentessa si è vista riconfermare il 69/100 che tanto la aveva infastidita lo scorso luglio, quando a suo giudizio era stata penalizzata dai professori rispetto ai compagni di classe. Al suo arrivo a scuola, rivela sempre Repubblica, la ragazza è stata scortata dai genitori e dall’avvocata Maria Chiara Isgrò.

Per tutto l’arco dei nuovi esami di maturità non ha mai rivolto la parola ai compagni di classe. A confermare che si è trattato di tanto rumore per nulla è il fatto che non solo lei, ma anche tutti gli altri studenti di Spadafora si sono visti riconfermare il proprio voto di maturità. Solo un paio di loro hanno ottenuto un voto diverso, di uno o due punti superiore rispetto a quello della scorsa estate.

I veleni nella classe che ha rifatto la Maturità. I genitori della studentessa dell’esposto: «Isolata e messa alla gogna». Storia di Riccardo Bruno su Il Corriere della Sera il 27 novembre 2023.

Sono passate più di due settimane dall’esame di maturità ripetuto da 11 studenti del liceo «Galilei» di Spadafora. La vicenda, con la promozione confermata e gli stessi voti ribaditi, si è conclusa dal punto di vista giudiziario, ma restano strascichi, veleni e i rapporti lacerati tra ex compagni. Con il paradosso della studentessa che ha promosso la prima segnalazione, a cui l’ispezione scolastica ha dato ragione, ma finita lei sul banco degli imputati. Così adesso la sua famiglia ha deciso di reagire: «È scoppiata la voglia di protagonismo degli alunni e di alcuni genitori con interviste in televisione, TikTok, Facebook e chi più ne ha più ne metta, dove si continuano a diffondere notizie false. Come ad esempio che il ricorso al Tar l’ha fatto nostra figlia, che lo ha fatto per avere un voto migliore, che il ritardo nella ripetizione dell’esame è addebitabile a lei, quando è chiaro che solo l’ostinazione dei 10 alunni a non ripetere l’esame ha allungato i tempi».

Così la famiglia, assistita dall’avvocata Maria Chiara Isgrò, ricostruisce l’intera vicenda. Sin dal primo atto. «È stato presentato un esposto soltanto all’istituzione scolastica con cui si portava a conoscenza della trasmissione non legittima agli alunni via chat degli argomenti di inizio esame; non è stato mai chiesto l’annullamento dell’esame o un voto maggiore. Nessun ricorso al Tar». Da qui è partita l’indagine ispettiva da parte dell’ufficio scolastico regionale «a cui si sono presentati solo tre alunni, fra i quali nostra figlia, mentre altri otto alunni hanno ritenuto di non collaborare con gli ispettori, continuare le vacanze e non presentarsi per rendere le loro spiegazioni». «Dalle chat — aggiunge la famiglia della ragazza — risulta che c’era l’accordo di non presentarsi perché l’esame non sarebbe stato ripetuto. E qualche alunno dichiarava che avrebbe fatto intervenire persino un senatore».

Dopo che l’ufficio scolastico regionale ha stabilito la ripetizione dell’esame entro la fine di settembre, «10 studenti che non intendevano ripetere l’esame hanno impugnato al Tar il provvedimento di ripetizione dell’esame» aggiunge la famiglia della studentessa. Il Tar poi ha rigettato il ricorso dei dieci studenti, e il provveditorato ha fissato la nuova data per la ripetizione dell’esame di maturità. «Si è scatenata - lamenta ancora la famiglia della studentessa — un’ondata di disinformazione sui mass media e sui social con vittima nostra figlia, che è stata indicata come responsabile del tutto».

Un clima di poca serenità che, secondo i genitori della ragazza, avrebbe caratterizzato anche il giorno della nuova prova: «L’esame di nostra figlia, sentita per ultima, è stato condotto in un clima di grande tensione in un’aula gremita, con la presenza dei compagni di classe con rispettivi genitori e molte persone di loro conoscenza, e anche di alcuni professori del suo corso, i quali si sono rifiutati di salutarla. Nonostante la tensione, è riuscita a gestire la situazione controllando le emozioni».

Il resto è stato raccontato da giornali e tv, con la nuova commissione che ha confermato i voti della prima. Anche su questo, la famiglia solleva dei dubbi: «È evidente che la conferma dei voti rappresenta la migliore difesa per la precedente commissione d’esame ed ha l’effetto indiretto di attenuare eventuali responsabilità». E conclude: «Abbiamo intrapreso un percorso in modo del tutto sereno in cui siamo riusciti a far emergere le irregolarità . I giovani hanno diritto a credere nella giustizia, anche nella giustizia che è nella scuola».

In Sicilia. Classe ripete l’esame orale della Maturità dopo mesi, denunciate “irregolarità”: prova bis come in ‘Immaturi’. Carmine Di Niro su L'Unità il 10 Novembre 2023

Non siamo nel film “Immaturi”, il film di Paolo Genovese che racconta la storia di alcuni 40enni romani costretti dopo 20 anni a rifare l’esame di maturità per problemi burocratici, eppure la storia che arriva da da Spadafora, piccolo centro in provincia di Messina, ha diversi punti in comune.

A oltre quattro mesi dalla maturità gli ex studenti della V A del liceo scientifico Galilei sono stati costretti a ripresentarsi di fronte ad una commissione per svolgere nuovamente l’esame.

Tutto nasce dalla denuncia presentata dai genitori di una studentessa che, dopo aver svolto l’esame, segnala all’ufficio scolastico regionale gravi irregolarità. A spiegare la vicenda è il Corriere della Sera: l’ex alunna avrebbe preso molto più basso dei suoi compagni perché non avrebbe ricevuto, a differenza del resto della classe, il messaggino con cui una professoressa che faceva parte della commissione, via WhatsApp, dava ai ragazzi una serie di suggerimenti sugli argomenti che sarebbero stati oggetto delle domande.

Accertate le irregolarità, l’ufficio scolastico regionale ha quindi annullato le prove e disposto per gli ex alunni della V A il ritorno agli esami di fronte ad una nuova commissione. Inutile anche il tentativo di fermare la nuova prova: il ricorso al Tar di Catania degli ex studenti non è stato accolto.

Gli ex compagni di classe della studentessa che ha presentato ricorso, come evidente, non hanno apprezzato la mossa. Cinque su 11 hanno sostenuto la prova orale nella giornata di giovedì, ieri è stato il turno di altri quattro, mentre sabato toccherà agli ultimi due, tra cui la studentessa che ha presentato la denuncia.

Come racconta all’edizione di Palermo di Repubblica Caterina Galletta, mamma della giovane Andrea, nella doppia veste di genitore e legale che ha difeso gli altri 10 ragazzi, la studentessa che ha sporto denuncia “era una delle migliori amiche di mia figlia. Al termine degli esami di Stato, addirittura, erano partite assieme per un viaggio. E ha nascosto a mia figlia di avere già intrapreso un’azione legale. Il coraggio di denunciare? Ma quando mai. Se la ragazza aveva riscontrato delle irregolarità avrebbe potuto anche denunciare subito, senza aspettare i voti”.

La figlia di Caterina ha dovuto prendere un aereo da Malta e rientrare in Sicilia. Sull’isola frequenta un’università americana: “Avrei dovuto sostenere un esame a Londra la scorsa settimana, ma non l’ho potuto fare. E anche i costi del viaggio sono stati considerevoli. Per fortuna, però, è andata”.

È andata peggio sicuramente alla professoressa che ha via WhatsApp dava suggerimenti agli studenti: trasferita in un liceo di Messina, rischia 6 mesi di sospensione. Carmine Di Niro 10 Novembre 2023

Estratto dell'articolo di Martina Mazzeo per “la Stampa” venerdì 6 ottobre 2023. 

Servono più studenti negli Istituti Tecnologici Superiori, o Its Academy, scuole professionalizzanti a cui si può accedere con il diploma, e più investimenti ordinari. Ma bisogna correre per recuperare 40 anni di ritardo. […] 

È l'allarme lanciato dal «Rapporto Its Academy: una scommessa vincente? L'istruzione terziaria professionalizzante in Italia e in Europa», realizzato dalla Fondazione Agnelli con l'Università di Milano. Un rapporto che fotografa lo stato dell'arte dopo 15 anni dalla nascita degli Its mettendo l'Italia a confronto con Paesi come la Spagna, la Francia, la Germania e la Svizzera,

[…] gli studenti – al maschile, perché le femmine scarseggiano – sono troppo pochi. Mentre in Svizzera e Germania il peso dell'istruzione terziaria professionalizzante sul totale dell'istruzione terziaria supera, in termini di iscritti, il 40%, in Italia rappresenta poco più dell'1%. Nei 146 Its italiani gli studenti sono circa 25mila, quanti ne possiede un ateneo di medie dimensioni. Ogni Its ha in media solo 180 studenti, con un forte divario territoriale: 230 studenti al Nord, 170 al Centro e 125 nel Mezzogiorno. In Lombardia sono 25 gli Its, seconde a pari merito il Lazio e la Campania con 16, segue la Sicilia con 11. Ultime Umbria, Molise e Basilicata con 1, secondo dati Indire. Capitolo finanziamenti.

L'attuale finanziamento statale, poco meno di 50 milioni di euro l'anno, […]  non basta a garantire una crescita significativa. Ipotizzando l'obiettivo di 80mila studenti ogni anno e ipotizzando per studente un costo annuo di 6. 600 euro, l'ammontare necessario a regime è circa un miliardo di euro l'anno. 

La legge 99/2022 del Governo Draghi e le risorse del Pnrr (1, 5 miliardi) mirano a irrobustire il sistema ma potrebbero rivelarsi una fiammata, con il rischio che dopo il 2026 il volume di risorse ordinarie torni agli insufficienti livelli pre-pandemia. C'è poi almeno un altro ostacolo […]: la mancata sinergia con l'istruzione secondaria di secondo grado e l'istruzione universitaria. […]

 «Gli attuali Its – ha esortato Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Agnelli – hanno sempre cercato di stringere legami forti con il sistema produttivo circostante, a differenza di Francia e Spagna dove sono direttamente incardinati negli istituti tecnici e professionali». Per uscire dall'impasse, prosegue Gavosto, «bisogna garantire almeno mezzo miliardo all'anno per il funzionamento ordinario, cioè didattica, assunzione di docenti di qualità, bollette, la spesa ordinaria insomma, e poi per fare campagna pubblicitaria.

Chi finisce un istituto tecnico o professionale deve sapere che gli Its sono uno sbocco d'elezione, persino emozionante, e non la serie B rispetto all'università. È necessario poi costruire un collegamento più forte con le scuole e investire nella programmazione, non più anno per anno ma almeno triennale». Nei fatti, bisogna far uscire gli Its dall'isolamento. […]

Estratto dell’articolo di Salvatore Cannavò per “il Fatto quotidiano” venerdì 22 settembre 2023.

Carlo Bonomi, come già rivelato dal Fatto, non è laureato, ma esistono documenti in cui si qualifica “dottore”. A questo punto il problema non è più solo la nomina a presidente dell’Università Luiss (di proprietà di Confindustria) alla quale aspira, ma le possibili sanzioni verso questo comportamento. 

Il codice penale all’articolo 498, prevede che “chi si arroga dignità o gradi accademici, titoli, decorazioni o altre pubbliche insegne onorifiche” incappa nella “sanzione amministrativa pecuniaria da centocinquantaquattro euro a novecentoventinove euro”. Fino al 1999 la sanzione sarebbe stata penale, ma il reato è stato depenalizzato.

Bonomi non ha esitato ad apporre la sua firma, preceduta dal titolo “dott.” in calce a un “Accordo di collaborazione per la diffusione della normazione tecnica presso le organizzazioni imprenditoriali” (che il Fatto ha consultato) siglato tra Confindustria e Uni, Ente italiano di normazione, a Milano il 25 novembre 2021. La firma, apposta in stampatello, è stata confermata digitalmente da Bonomi il 17 dicembre 2021. 

Al di là di contenziosi giudiziari, però, si potrebbe porre il problema dentro la stessa Confindustria. La Carta dei valori, infatti, favorisce “comportamenti improntati all’etica e trasparenza, fondati su integrità, correttezza, lealtà, equità, imparzialità” etc. L’elezione a cariche interne, poi, secondo il Codice di condotta, prevede la “piena aderenza ai principi e agli impegni contenuti nel Codice etico” e si prevede la remissione del mandato in caso di “azioni lesive per il sistema e per la sua immagine”.

[...] La Luiss compatta non vuole Bonomi il quale potrebbe addirittura nominarsi da solo presidente di ALuiss, l’associazione che governa l’università per poi automaticamente divenirne presidente. Per questo sta premendo sull’attuale presidente, Vincenzo Boccia, affinché convochi il Consiglio di ALuiss, ottenendone finora il secco rifiuto. 

Nei giorni scorsi è circolata l’ipotesi che al posto di Bonomi fosse avanzata la candidatura di Alberto Marenghi, attuale vicepresidente di Confindustria e braccio destro del presidente. Dai curriculum vitae di Marenghi, però, risulta che anche lui possieda solo la maturità classica conseguita nel 1996 presso il liceo B. Spagnoli di Mantova. Ma il 22 luglio 2021, a nome del General Management Office di Confindustria Servizi firmava il documento di Sostenibilità interno. Con la qualifica di “Dr.”. A quanto pare è un vizio.

Estratto dell'articolo di Fabrizio D’Esposito per “Il Fatto Quotidiano” il 17 Settembre 2023

Laurea non c’è. Sigh! Anzi “sig.”, l’abbreviazione più detestata dal potere, che predilige quantomeno la qualifica basica di “dott.”. “Sig.” come signore e “dott.” come dottore, ovviamente. Di mezzo c’è il solito, fatidico titolo universitario, da incorniciare e poi appendere. 

L’Italia, e non solo, è gravida di potenti, consiglieri e galoppini che si fanno passare per laureati. Stavolta a farsi irretire da questa atavica vanità accademica è addirittura Carlo Bonomi, il presidente di Confindustria che l’altro giorno ha parlato nell’ultima assemblea del suo mandato, iniziato nel 2020.

A Bonomi, in questi anni al vertice degli industriali, è stata accreditata una generica laurea in economia e commercio, a partire dal suo profilo di Wikipedia. Il Corriere della Sera, per dire, l’ha scritto pure il 30 luglio scorso, dentro a un pezzo sull’“allarme crescita” lanciato da Confindustria. Sul sito della Bocconi, la prestigiosa università meneghina, Bonomi è invece appellato come “dott.” all’interno del consiglio d’amministrazione dell’ateneo: venne nominato nel 2018 quale presidente di Assolombarda. 

Ebbene, Bonomi non ha mai smentito la notizia di avere una laurea. Eppure forse avrebbe dovuto farlo. Ché l’attuale capo di Confindustria non è dottore. Non ha mai completato gli studi universitari. A metterlo nero su bianco sono i verbali di due assemblee della Fiera Milano Spa, redatti e sottoscritti dal notaio Mario Notari. 

Bonomi, infatti, è anche presidente del cda di Fiera Milano Spa dall’aprile del 2020, quando era stato già designato per la guida di Confindustria. E dalla società quotata in Borsa incassa 107mila euro all’anno più altri 45mila, sempre annui, riconosciutigli per mansioni che solitamente non rientrano tra quelle del presidente. Cioè: “Curare e implementare, anche a livello internazione, le relazioni esterne istituzionali”. 

Eccoli, dunque, i due verbali che attestano il buco nero accademico di Bonomi. Il primo è dell’assemblea ordinaria di Fiera Milano Spa, “tenutasi in data 28 aprile 2021”. L’allegato C del documento è dedicato alle domande degli azionisti arrivate via mail. Domanda numero 4, secca: “Il Presidente di Fiera Milano in cosa è laureato?”. Risposta della società, altrettanto secca che però suona come un ossimoro fantozziano: “Il Dottor Bonomi non possiede alcun titolo di laurea”. Resta Dottore, con la maiuscola, ma senza titolo. Fantastico. 

Un anno dopo, l’assemblea di Fiera Milano Spa è sempre ad aprile, il giorno 22. Stavolta la domanda, formulata dall’azionista Tommaso Marino (lo stesso del 2021), è la numero 1: “Leggo a pag. 79 della Relazione Finanziaria 2021, che, indirettamente, il ‘Dottor Carlo Bonomi’ avrebbe una laurea. Ma proprio qualche tempo fa qui mi fu risposto qui (sic!) che ne fosse sprovvisto. E questo a parte quello che io penso e cioè che ciò dimostra come quando una persona sia capace, la laurea non serva, tant’è che il dott. Bonomi ha raggiunto i vertici di Confindustria pur essendo privo di laurea. Gliel’hanno data di recente, honoris causa?”. 

La risposta è la stessa dell’anno precedente, con la differenza che Bonomi viene appellato come “Presidente”, non più come “Dottor”: “Come già indicato lo scorso anno, il Presidente Bonomi non è laureato”. Pratica chiusa. Amen. 

In realtà, il problema di Bonomi dottore o signore non è secondario, per il futuro dello stesso presidente, che nel 2024 finirà il suo mandato in Confidustria. Detta in maniera volgare la questione è semplice: Bonomi vuole un’altra poltrona per rimanere a Roma.

[…] Detto questo, adesso il progetto di Bonomi è quello di arrivare a sedersi sulla poltrona di presidente del cda della Luiss, l’università confindustriale. Per una consuetudine consolidatasi nei decenni i capi uscenti di Viale dell’Astronomia hanno traslocato lì. 

Da Guido Carli e Luigi Abete fino all’ultimo, Vincenzo Boccia. Tutti fregiati dall’alloro accademico, però. Del resto, guidare la Luiss senza una laurea è come guidare un’auto senza la patente. Ma Bonomi vuole il posto a tutti i costi, dimenticando che anche la legge non consente questa nomina.

Il decreto legge numero 13 del 24 febbraio scorso, quello per l’attuazione del Pnrr, al comma 9 dell’articolo 26 introduce quale requisito per la carica di presidente di un’università il possesso di un titolo di studio non inferiore alla laurea. Bonomi però non si rassegna e insisterà fino in fondo. La Luiss è in rivolta e la storia è appena all’inizio. […]

L’ascensore sociale rallenta ai piani degli studi universitari. MARIA TERESA PEDACE su Il Quotidiano del Sud l'11 Settembre 2023 

L’ascensore sociale non funziona per gli studi universitari: nonostante il livello medio di istruzione sia cresciuto negli ultimi cinquant’anni, lo svantaggio per i giovani che provengono da famiglie meno istruite non ha subito riduzioni significative

Ancora oggi i figli di genitori laureati hanno oltre il triplo delle possibilità di laurearsi rispetto ai figli di chi ha conseguito la terza media. E ancora: nella fascia di età 30-39 anni la probabilità che i figli di laureati conseguano il medesimo titolo è del 61%, scende al 30% per i figli di diplomati e crolla fino al 18% per i figli di chi ha conseguito solo la licenza media.

Questi i dati emersi dal Rapporto Inapp-PLUS 2022 “Comprendere la complessità del lavoro” redatto da INAPP (Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche) al termine di un’ampia rilevazione – circa 45mila interviste. A più di dieci anni dall’ultima edizione del rapporto PLUS, che già usciva nella scia di una lunga recessione che aveva travolto il mondo del lavoro evidenziandone le debolezze, i numeri attuali sottolineano l’impatto della crisi economico-sanitaria, la polarizzazione in termini di ricchezza e opportunità e le nuove forme di fragilità legate ai modi di produzione e all’evoluzione globale dei mercati.

Dati, questi, che risultano particolarmente significativi in queste settimane dedicate alla ripresa delle attività scolastiche e accademiche e in cui si riaccendono i riflettori su tematiche quali il caro libri e il caro affitti, che rendono spesso una sfida frequentare l’università.

L’ASCENSORE SOCIALE SI FERMA AI PIANI DEGLI STUDI UNIVERSITARI

Nonostante il livello medio di istruzione sia cresciuto negli ultimi cinquant’anni – la quota di laureati è passata dal 14% dei 50-64enni al 28% dei 30-39enni – lo svantaggio relativo dei giovani che provengono da famiglie meno istruite non ha subito riduzioni significative. Secondo INAPP, le cause sono da ricercarsi nelle esperienze passate dei genitori, che possono in qualche modo “plasmare” le scelte dei figli, ma anche nelle possibilità economiche delle famiglie, nelle insufficienti misure di sostegno ai meno abbienti, nell’inadeguatezza dei servizi di orientamento e nella diffidenza sulla reale utilità del titolo di studio nel mercato del lavoro.

In particolare, nelle famiglie meno istruite la laurea non viene vista come un elemento fondamentale per l’affermazione lavorativa e i dati Ocse confermano che l’istruzione italiana si classifica tra quelle a più basso rendimento. Ma c’è di più: l’abbandono degli studi universitari è salito al 7,4% tra gli studenti e al 7,2% tra le studentesse.

A ciò bisogna poi aggiungere i fenomeni della disoccupazione intellettuale, della sotto-occupazione e della fuga dei cervelli: ci troviamo di fronte a una vera e propria emergenza della formazione e dell’uso consapevole del grande capitale umano del nostro Paese. Basti pensare che l’ultimo rapporto Istat sulle migrazioni ha certificato circa un milione di connazionali espatriati tra il 2012 e il 2021, un quarto dei quali con il titolo di laurea: abbiamo perso ogni anno tra il 5 e l’8% dei nostri giovani altamente formati.

IL RAPPORTO ALMALAUREA 2022 SULL’OCCUPAZIONE DEI LAUREATI

Il rapporto Almalaurea 2022 sulla condizione occupazione dei laureati, inoltre, ha sottolineato un aumento rispettivamente del 9,1% e del 7,7% della retribuzione mensile netta per i laureati di primo e di secondo livello, ma questi ultimi all’estero percepiscono il 41,8% in più rispetto ai giovani rimasti in Italia. A cinque anni dalla laurea il tasso di occupazione in Italia si attesta all’89,6% per i laureati di primo livello e all’88,5% per quelli di secondo livello e gli stipendi medi si attestano su 1.599 euro; all’estero, invece, la media è di 2.352 euro, con un gap del 47,1%.

Anche in questo caso le cause sono molte e vanno dalla mancanza di programmi di orientamento all’assenza di supporto psicologico, passando per la mancanza di prospettive lavorative e per le difficoltà economiche. La condizione degli studenti e dei laureati italiani merita un’attenzione maggiore da parte della classe dirigente: non è più tempo di definire i nostri giovani “bamboccioni” o di chiedere continuamente sacrifici a una generazione che non vede di fronte a sé prospettive di realizzazione. Una società che possa davvero definirsi equa e giusta implica che siano l’impegno e le ambizioni, e non il contesto famigliare oppure la posizione di partenza, a determinare lo status socioeconomico di ciascun individuo.

IL SISTEMA EDUCATIVO DOVREBBE DARE GARANZIE AI GIOVANI

Il sistema educativo dovrebbe garantire a tutte le ragazze e i ragazzi l’opportunità di prendere parte a processi di apprendimento efficaci, siano essi universitari o professionalizzanti, garantendo processi continui di aggiornamento, sostegno ai bisogni emergenti e percorsi formativi dignitosi. È, infine, fondamentale che gli interventi mirino alla riduzione delle disuguaglianze, siano essere Nord/Sud oppure piccoli/grandi centri urbani, tenendo conto delle peculiarità dei singoli territori: nel Mezzogiorno si registrano ancora oggi oltre 4 milioni di persone con solo la licenza media inferiore nella popolazione tra i 30 e i 64 anni. Maggiori e giuste possibilità farebbero bene all’intera società: è il momento di agire.

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Scuola: se un alunno la percepisce come un obbligo, lo Stato fallisce. In un Paese che ha a cuore il proprio futuro, dunque i propri giovani, ben venga l’estensione dell’obbligo scolastico fino ai diciotto anni, ma cultura e formazione devono andare di pari passo alla libertà di prendere le proprie scelte consapevolmente. Edoardo Caucchioli su Il Riformista il 10 Settembre 2023 

Scuola dell’obbligo. Un’espressione chiara che risulta utile nel mondo legislativo, ma che purtroppo spiega troppo spesso come viene percepita dagli studenti l’istruzione fino all’età di sedici anni. Ogni volta in cui un alunno percepisce la scuola come un obbligo, lo Stato fallisce. Fallisce nel far capire ai giovani che cultura significa libertà significa prendere scelte consapevoli, significa emancipazione, significa prendere in mano la propria vita e farla andare nella direzione che vorremmo. Matteo Renzi a Meritare L’Europa ha ripreso il toccante discorso fatto dal Presidente Mattarella al Meeting di Rimini sull’immigrazione, in cui viene ricordato il ragazzino morto naufrago nel Canale di Sicilia nell’anno 2015: cucita all’interno della giacca che indossava si trovò la sua pagella. Questa giovane vittima del mare, nonostante provenisse da una realtà difficile, è riuscita a capire meglio di tanti altri l’importanza dell’istruzione.

In un Paese che ha a cuore il proprio futuro, dunque i propri giovani, ben venga l’estensione dell’obbligo scolastico fino ai diciotto anni; ben venga l’invio degli insegnanti più qualificati nelle aree d’Italia che vantano, si fa per dire, dei dati sull’istruzione più preoccupanti. Inoltre, sarebbe utile l’estensione del pacchetto culturale trasversale di tutte le scuole secondarie di secondo grado. Vorrei che un film di Pasolini venisse affrontato anche al di fuori dei licei artistici, che le basi di economia, di diritto, di informatica e di psicologia venissero affrontate in tutte le scuole, non solo in quelle che contengono specificamente queste materie. Le competenze pratiche che vertono all’inserimento lavorativo devono poggiare su solide basi che permettano di affrontare il mondo, anche quello del lavoro, in maniera sicura, consapevole e incisiva. Concludendo, attraverso la cultura si porta avanti una lotta sistematica, molto più efficace dei continui aumenti di pena e della continua creazione di nuovi reati.

Edoardo Caucchioli

Estratto dell'articolo di Michela Allegri per “il Messaggero” martedì 22 agosto 2023.

Sei insufficienze, ma non può scattare la bocciatura. Il motivo? Per i giudici del Tar la non ammissione alla classe successiva non deve essere un provvedimento afflittivo, ma deve servire per educare l'alunno, spronandolo. Di più: deve rappresentare una vera e propria «eccezione». Anche quando i professori pensano che uno studente non abbia dimostrato di essere in grado di affrontare l'anno scolastico, a cambiare le carte in tavola ci pensa costantemente il Tribunale amministrativo, che si adegua a un orientamento emesso del Consiglio di Stato.

E così può succedere, appunto, che un alunno con una sfilza di insufficienze, di cui una grave, per il quale i professori hanno deliberato all'unanimità la non ammissione all'anno successivo della scuola media, venga invece riammesso dai magistrati. È successo all'Istituto Comprensivo Statale Tivoli V, di Tivoli Terme, provincia di Roma, dove gli insegnanti hanno bocciato una studentessa di prima media perché era risultata carente in sei materie, in un caso in modo pesante.

I genitori, assistiti dagli avvocati Michele Bonetti e Silvia Antonellis, hanno presentato ricorso davanti al Tribunale amministrativo, chiedendo l'annullamento del provvedimento, ma pure del verbale di scrutinio e della pagella. E i giudici hanno dato loro ragione, sconfessando la decisione dei professori, che si erano attenuti alla delibera del Consiglio dei docenti, di classe e di istituto, in cui erano stati determinati i criteri per l'ammissione: un massimo di un'insufficienza grave (4) e due insufficienze lievi (5). 

[...] I professori hanno sottolineato anche che «nel corso dell'anno la frequenza è stata regolare» e il comportamento «buono», ma l'impegno è stato «scarso e inadeguato, sia nell'esecuzione dei compiti che nello studio». Il Tar ha dato ragione ai genitori della ragazzina, sostenendo che i docenti non hanno considerato l'intero percorso di studi: «L'alunna, dal primo mese di scuola sino al termine delle lezioni, ha visto incrementare le proprie conoscenze e migliorare i propri voti», nonostante in molti casi non abbia raggiunto la media del 6, si legge nella sentenza.

Di più: nel ricorso viene messa in evidenza la mancata predisposizione da parte della scuola di «sistemi di ausilio e di supporto per il recupero», visto che, per esempio, l'ultima verifica di francese è stata svolta nel mese di marzo 2023. Una tesi sposata dal Tar. In sostanza, per essere promossi non serve più colmare le lacune e recuperare le insufficienze: basta dimostrare di avere voglia di impegnarsi. [...]

D'altronde, per il Consiglio di Stato «la non ammissione alla classe successiva nella scuola media inferiore deve essere considerata un'eccezione». E i professori devono attivare «specifiche strategie per il miglioramento dei livelli di apprendimento». Soprattutto, ed è questo il passaggio considerato più pericoloso da chi insegna: il legislatore ha «elevato a regola la promozione per gli alunni della scuola secondaria di primo grado». 

Per bocciare uno studente, quindi, non basta più un lungo elenco di insufficienze. Serve una motivazione che sia ancora «più pregnante». Non servono i numeri: deve essere formulato un giudizio prognostico sulla possibilità per il minore di recuperare o meno il deficit di apprendimento. In questo caso la ragazzina ha incrementato i voti in 7 materie, recuperando due insufficienze gravi e tre insufficienze lievi in italiano, tecnologia, arte e immagine, migliorando una situazione che nel primo quadrimestre era stata definita «globalmente lacunosa». [...]

 «Da noi toghe aiuto agli allievi lavativi? Sono solo fake-news». Gia Serlenga, giudice del Tar Puglia: «La bocciatura non sempre rappresenta la soluzione ai problemi scolastici dei ragazzi con deficit». Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 28 agosto 2023

«Guardi, nessuno vuole sminuire l’attività, quanto mai difficile e complessa soprattutto in questo momento, dei professori italiani», afferma la magistrata Gia Serlenga, giudice del Tar Puglia e presidente uscente dell’Associazione nazionale magistrati amministrativi, gettando così acqua sul fuoco a proposito delle polemiche degli ultimi giorni riguardo la vicenda che ha visto protagonista una ragazza che ha frequentato la prima media presso una scuola statale di Tivoli. La ragazza, al termine dell’anno scolastico, aveva riportato insufficienze in sei materie (geografia, francese, matematica, scienze, inglese e musica), di cui una grave, e gli insegnanti avevano quindi deliberato all'unanimità la sua bocciatura. I genitori della ragazza avevano allora presentato ricorso al Tar del Lazio, chiedendo l'annullamento del provvedimento. Il ricorso era stato accolto in quanto nel corso dell'anno la ragazza aveva avuto una frequenza regolare a scuola e il comportamento era stato buono. L'impegno, tuttavia, si era rivelato scarso e inadeguato, sia nell'esecuzione dei compiti che nello studio. Secondo il Tar, i professori, però, non avrebbero considerato il percorso della studentessa dall'inizio alla fine. L'alunna, dal primo mese di scuola fino al termine delle lezioni, aveva infatti visto incrementare le proprie conoscenze e migliorare i propri voti. E la scuola - sempre secondo il Tribunale amministrativo - aveva le sue responsabilità per non aver messo a disposizione sistemi di ausilio e di supporto per il recupero.

Dottoressa Serlenga, nell’opinione pubblica si fa sempre più strada l’idea che i giudici amministrativi vengano in soccorso di chi non ha voglia di studiare.

Non è affatto vero. La situazione è ben diversa.

Ci spieghi.

Se guardiamo con attenzione le statistiche per questo tipo di ricorsi, vediamo che la maggior parte di essi sono respinti. Quindi non è vero che il Tar “promuove” tutti i bocciati.

Però il problema si pone.

Certo. La prima conseguenza di questo erroneo messaggio che sta passando è il notevole aumento dei ricorsi in tale ambito. Negli ultimi anni si assiste a una loro costante crescita. Senza comunque voler entrare nel caso specifico, il discorso richiede però una riflessione.

Proviamo.

Diciamo che la bocciatura non sempre rappresenta la soluzione ai problemi scolastici dei ragazzi con deficit. Andrebbe ricordato che questi ricorsi, per la maggior parte, riguardano ragazzi che hanno delle disabilità, anche gravi.

Disabilità a cui la scuola non trova soluzioni idonee?

Esatto. La scuola deve organizzare dei corsi per aiutare questi ragazzi che non possono frequentare come i loro compagni, avendo problemi di apprendimento.

E le famiglie?

Il loro ruolo, ovviamente, è importantissimo. Non possono per tutto l’anno disinteressarsi di cosa fa il proprio figlio a scuola per poi accorgersi, quando le lezioni sono terminate, che è pieno di insufficienze. I genitori accedono al registro elettronico e quindi hanno costantemente sotto controllo la situazione.

Cosa manca secondo lei?

Il dialogo che deve essere costante. Tutti devono farsi parte diligente. E poi la scuola non deve essere punitiva. Ovviamente servono regole chiare per evitare possibili fraintendimenti. Come in questo caso, dove prima di esprimere giudizi è opportuno leggere la sentenza. Molte volte queste bocciature non sono affatto motivate. Sul caso era intervenuto nei giorni scorsi il ministro dell'Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara, affermando che “al Tar spettano le verifiche sulle procedure, ma nel merito decidono i docenti”. E anche l'ufficio stampa del Consiglio di Stato e della giustizia amministrativa era voluto intervenire ricordando che i giudici avevano “rilevato un deficit di motivazione da parte dell'amministrazione scolastica, secondo quanto previsto dalla legge e dalle circolari ministeriali, e che essi hanno al contempo reinvestito il Consiglio di classe della valutazione in ordine all'ammissione dell'alunno alla classe successiva, nel pieno rispetto delle reciproche competenze istituzionali”.

Giampiero Mughini per Dagospia venerdì 4 agosto 2023.

Caro Dago, mi immagino che nel sapere che il prodigioso nuotatore italiano Thomas Ceccon avesse messo un vistoso "boia chi molla" in testa a un suo post rammemorante il suo non eccezionale esito ai recenti campionati del mondo, legioni di semianalfabeti "antifascisti" fossero insorti dallo sdegno. 

E' così che funziona l'odierna civiltà dello schiamazzo digitale. Due parole messe in fila ed ecco che sopravviene il finimondo. Ma come, Ceccon è il nuovo Pino Rauti, il nuovo sovvertitore della democrazia repubblicana, il nuotatore in camicia nera? Naturalmente non era nulla di tutto questo. Solo che il prode Ceccon non conosceva il truce passato di quelle due parole, ha addirittura chiesto scusa per averle usate.

E' un ragazzo di vent'anni, non ha in casa i sette o otto tomi della biografia mussoliniana di Renzo De Felice, come del resto non ce li hanno in casa la gran parte di quelli che un'ora sì e l'altra no cianciano di fascismo/antifascismo. 

Qualcosa di simile, fare rumore con la bocca a mezzo di un'espressione non politically correct, era successa se non sbaglio al giovane Gigi Buffon, un monumento al calcio moderno che io saluto con affetto e commozione.

Nella società dello schiamazzo digitale basta una parola, basta un niente per suscitare il finimondo delle chiacchiere che durano ognuna trenta secondi. 

Viviamo e nuotiamo nel nulla e purché sia il nulla. Di recente sono stato in mezzo a una compagnia di giovani amici, tutte persone per bene, nessuno dei quali sapeva come fosse morto Benito Mussolini. 

I post sui social sono divenuti la Bibbia della democrazia di massa, e va bene che adesso un ministro vuole apporre delle tasse a carico di chi di quei post ci campa alla grande, alla grandissima. 

Datemene uno e vi solleverò il mondo. Libri che hanno fatto la storia italiana hanno venduto ciascuno un paio di migliaia di copie. Una troietta addobbata unicamente di uno slip si assicura like a milioni. Tutto qui. Vi ci trovate a vostro agio in un mondo così?

(Non) sapere è potere. La nuova società è degli ignoranti e la virtù è degli incompetenti. Tom Nichols su L'Inkiesta il 5 Agosto 2023

In “La conoscenza e i suoi nemici”, edito da Luiss University Press, Tom Nichols analizza la crisi della cultura di oggi, definendo questa come l’epoca dell'orgogliosa faciloneria e delineando i possibili rischi della democrazia

Si tratta di qualcosa in più che un naturale scetticismo nei confronti degli esperti. Temo che stiamo assistendo alla fine dell’idea stessa di competenza, un crollo – alimentato da Google, basato su Wikipedia e impregnato di blog – di qualsiasi divisione tra professionisti e profani, studenti e insegnanti, conoscitori informati e fantasiosi speculatori; in altre parole, tra coloro che hanno ottenuto un qualche risultato in un’area e coloro che non ne hanno raggiunto nessuno.

Spesso gli attacchi al sapere consolidato e la conseguente eruzione di cattive informazioni tra i cittadini sono divertenti. A volte addirittura esilaranti. Molti comici dei programmi in onda in seconda serata costruiscono i loro sketch ponendo al pubblico domande che ne rivelano la diffusa ignoranza sulle idee che difende con forza, l’attaccamento alle mode e la riluttanza ad ammettere la propria incompetenza sugli eventi d’attualità. Quando le persone affermano con enfasi, per esempio, di evitare il glutine per poi ammettere di non avere idea di cosa sia, è una cosa innocua. E diciamocelo: la gente non la smette mai di pronunciare con sicumera opinioni estemporanee su scenari grotteschi, come “l’assenza di Margaret Thatcher a Coachella favorisce la decisione della Corea del Nord di sganciare una bomba nucleare?”.

[…] La crescita di questa ostinata ignoranza in piena era dell’informazione non si può spiegare soltanto come l’esito di ignoranza bella e buona. Molti di coloro che conducono campagne contro il sapere consolidato sono cittadini capaci e di successo nella vita quotidiana. In un certo senso, siamo di fronte a qualcosa di peggio dell’ignoranza: si tratta di un’arroganza infondata, dello sdegno di una cultura sempre più narcisistica che non riesce a sopportare neanche il minimo accenno di diseguaglianza, di qualsiasi tipo essa sia. Con l’espressione “fine della competenza” non intendo il crollo delle capacità reali degli esperti, la conoscenza di argomenti specifici che distingue alcune persone da altre in vari settori. Ci saranno sempre medici e diplomatici, avvocati e ingegneri, e molti altri specialisti in vari campi. Nella vita quotidiana, il mondo non potrebbe funzionare senza di loro. Se ci fratturiamo un osso o se ci arrestano, chiamiamo rispettivamente un medico o un avvocato. Quando viaggiamo, diamo per scontato che il pilota sappia come funzioni un aereo. Se ci troviamo ad affrontare problemi mentre siamo all’estero, chiamiamo un funzionario del consolato che, presumiamo, saprà cosa fare.

Questo, però, vuol dire che ci affidiamo agli esperti come tecnici. Non c’è un dialogo tra loro e la comunità allargata, ma l’uso di un sapere consolidato come se fosse una merce preconfezionata da adoperare alla bisogna, fintantoché si desidera farlo. Mi ricucia questo taglio alla gamba, ma non mi faccia ramanzine sulla mia dieta (più di due terzi degli americani sono in sovrappeso); mi aiuti a superare questo problema con le tasse, ma non mi ricordi che dovrei redigere un testamento (grossomodo la metà degli americani con figli non si è mai preoccupata di scriverne uno); mantenga il mio Paese sicuro, ma non mi stia a confondere con i costi e i calcoli che riguardano la sicurezza nazionale (la maggior parte dei cittadini americani non ha idea, neppure lontanamente, di quanto ammontino le spese militari degli Stati Uniti).

Tutte queste scelte, dal proprio regime alimentare alla difesa nazionale, richiedono un dialogo tra cittadini ed esperti, ma sempre di più, a quanto pare, i cittadini non vogliono prendere parte a questa conversazione. Preferiscono credere di possedere informazioni a sufficienza per prendere queste decisioni per proprio conto, ammesso che siano interessati a farlo.

D’altro canto, molti esperti, e in particolare quelli che appartengono al mondo accademico, hanno abdicato al loro dovere di interagire con il pubblico. Si sono trincerati dietro il proprio gergo e la propria irrilevanza, preferendo interagire soltanto tra loro. Nel frattempo, coloro che si trovano a metà, a cui spesso ci riferiamo con l’espressione “intellettuali impegnati” – mi piace pensare di essere uno di loro –, stanno diventando altrettanto frustrati e radicalizzati del resto della società.

La fine della competenza non è solo un rifiuto del sapere esistente. È fondamentalmente un rifiuto della scienza e della razionalità obiettiva, che costituiscono le fondamenta della civiltà moderna. È segno, come ha affermato una volta il critico d’arte Robert Hughes descrivendo l’America di fine Novecento, di “una politica ossessionata dalle terapie e piena di diffidenza per la politica formale”, cronicamente “scettica nei confronti dell’autorità” e “in preda alla superstizione”. Abbiamo chiuso il cerchio, partendo dall’età premoderna, in cui la saggezza popolare colmava inevitabili lacune nella conoscenza umana, attraverso un periodo di rapido sviluppo fortemente basato sulla specializzazione e la competenza, fino a un mondo postindustriale e orientato all’informazione, dove tutti i cittadini si ritengono esperti di qualsiasi cosa.

Ogni affermazione di competenza da parte di un esperto vero, nel frattempo, produce un’esplosione di rabbia in alcuni segmenti della popolazione americana, pronti a lamentarsi che simili rivendicazioni non sono altro che fallaci “appelli all’autorità”, segni inequivocabili di un temibile “elitarismo”, nonché un evidente tentativo di usare delle qualifiche per soffocare il necessario dialogo richiesto da una democrazia “reale”. Gli americani ormai credono che avere diritti uguali in un sistema politico significhi anche che l’opinione di ciascuno su qualsiasi argomento debba essere accettata alla pari di quella di chiunque altro. Moltissime persone ne sono convinte, nonostante si tratti di un’evidente assurdità. È una rivendicazione categorica di uguaglianza che è sempre illogica, talvolta divertente e spesso pericolosa.

[…] La reazione più immediata di molte persone quando si affronta il tema della fine della competenza è di dare la colpa a internet. Quando si trovano di fronte clienti che pensano di saperla più lunga di loro, i professionisti, in particolare, tendono a indicare nella Rete la colpevole. Come vedremo, non è una tesi del tutto sbagliata, ma resta pur sempre una spiegazione semplicistica. Gli attacchi al sapere consolidato hanno un lungo pedigree e internet è solo lo strumento più recente nell’ambito di un problema ciclico, che in passato ha afflitto allo stesso modo la televisione, la radio, la stampa e altre innovazioni.

Allora perché tutto questo clamore? […] Siamo davvero alla “fine della competenza” o si tratta solo delle solite lamentele degli intellettuali per il fatto che nessuno li ascolta, nonostante si siano autoproclamati le persone più intelligenti sulla piazza? Forse non è nient’altro che una forma d’ansia che i professionisti nutrono nei confronti delle masse dopo ogni ciclo di trasformazione sociale o tecnologica. O forse è solo un’espressione caratteristica della lesa vanità di professori sovraistruiti ed elitaristi come me. Forse, infatti, la fine della competenza è un segno di progresso. I professionisti istruiti, dopotutto, non stringono più il sapere in una morsa. I segreti della vita non sono più nascosti in giganteschi mausolei di marmo, le grandi biblioteche del mondo le cui sale incutono timore anche al numero relativamente piccolo di persone che vi entrano. A parità di condizioni, in passato c’è stato minore attrito tra esperti e profani, ma solo perché, semplicemente, i cittadini non erano in grado di sfidare gli esperti in modo sostanziale.

Inoltre, nell’èra precedente alle comunicazioni di massa erano pochi i luoghi pubblici in cui lanciare simili sfide. Fino all’inizio del Ventesimo secolo la partecipazione alla vita politica, intellettuale e scientifica era molto più circoscritta e i dibattiti sulla scienza, la filosofia e la politica pubblica erano tutti condotti con penna e inchiostro da una piccola cerchia di maschi istruiti. Non erano esattamente giorni idilliaci e non sono poi così distanti nel tempo. L’epoca in cui la maggior parte delle persone non portava a termine la scuola superiore, pochi andavano all’università e solo una piccola frazione della popolazione aveva accesso alle professioni è ancora presente nella memoria di molti americani.

Solo negli ultimi cinquant’anni i cambiamenti sociali hanno infranto le vecchie barriere di razza, classe e sesso, e non solo tra gli americani in generale, ma anche, in particolare, tra i cittadini non istruiti e l’élite degli esperti. Uno spazio di dibattito più ampio ha significato più conoscenza, ma anche più attriti sociali. L’educazione universale, il maggiore potere delle donne e delle minoranze, lo sviluppo di una classe media e l’aumento della mobilità sociale sono tutti fattori che hanno messo in contatto diretto una minoranza di esperti e la maggioranza dei cittadini, dopo quasi due secoli in cui raramente le due categorie hanno dovuto interagire tra loro.

Eppure il risultato non è stato un maggiore rispetto per il sapere, ma il diffondersi tra gli americani di una convinzione irrazionale secondo cui tutti sono altrettanto intelligenti di chiunque altro. Questo è l’opposto dell’istruzione, il cui obiettivo dovrebbe essere che le persone, non importa quanto siano intelligenti o abili, apprendano per tutta la vita. Invece ormai viviamo in una società dove l’acquisizione di un sapere anche minimo è il punto di arrivo dell’istruzione, anziché l’inizio. E questa è una cosa pericolosa. 

Tratto da “La conoscenza e i suoi nemici. L’era dell’incompetenza e i rischi per la democrazia” di Tom Nichols, edito da Luiss University Press, pagine 248, €22,00.

Estratto dell’articolo di Mirella Serri per “la Stampa” l'1 agosto 2023. 

Prendiamo il celebre inizio dei Promessi sposi: «Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi...vien quasi a un tratto, tra un promontorio a destra e un'ampia costiera dall'altra parte». […] circa i tre quarti degli abitanti adulti della Penisola attualmente non sono in grado di afferrare il senso complessivo di uno dei capisaldi del nostro insegnamento letterario scolastico.

Al massimo ne comprendono quello che i sociologi e gli addetti ai lavori chiamano "codice ristretto": la parola "lago", certo, suona familiare mentre sfugge il complesso del discorso, i dettagli e la suggestione del paesaggio. I residenti nello Stivale che oggi posseggono la piena comprensione del testo sono infatti appena il 6 o il 7 per cento della popolazione. Si sta verificando un cataclisma, siamo entrati in quella che le più recenti ricerche sul nostro sistema scolastico chiamano l'era della "povertà educativa". 

L'incapacità di misurarci con il mondo che ci circonda e con la sua comunicazione scritta non riguarda solo la letteratura, l'informazione e le arti ma coinvolge pure, è un altro drammatico risvolto, la facoltà di svolgere con padronanza le minime operazioni matematiche, come accedere al proprio conto in banca con il bancomat.

Chi sono dunque e come mai sono veramente una pletora i nuovi poveri dal punto di vista culturale? Ne fanno parte i giovani che sui banchi non imparano abbastanza ma pure gli adulti che usciti dalle aule hanno scordato le nozioni di base e che si qualificano come analfabeti di ritorno. […] L'Italia è il paese più scarsamente dotato d'Europa proprio dal punto di vista delle nozioni essenziali e la sua popolazione è incapace di rinnovarsi […]

L'impoverimento culturale oggi continua a essere quasi totalmente ignorato: lo denunciano i sociologi e studiosi di sistemi educativi Orazio Giancola e Luca Salmieri nella ricerca La povertà educativa in Italia. Dati, analisi, politiche (Carocci editore). Un popolo di santi, di poeti e di navigatori è ora anche un popolo di ignoranti? 

Macché: il morbo contemporaneo è molto più grave dell'ignoranza. […] mancano gli elementi basilari […] Siamo di fronte a una gran massa di "analfabeti funzionali" che […] non sono in grado di farsi coinvolgere dai testi scritti; sanno svolgere una moltiplicazione a due cifre ma non sanno interpretare un semplice grafico (il meteo, per esempio) basato su percentuali. Questo grave handicap conoscitivo domina in Italia nonostante la crescita e l'estensione della scolarizzazione. Com'è potuto accadere?

La Penisola è il paese Ocse con la più bassa quota di laureati (18 per cento della popolazione adulta) e il più basso investimento pubblico in istruzione (il 7 per cento della spesa per servizi); si colloca addirittura nella terzultima posizione europea, prima della Grecia e della Romania. Gli insegnanti nostrani sono i meno retribuiti del vecchio continente e i nostri studenti nei test internazionali e nazionali sono scarsi: la colpa di tutto questo bailamme è della scuola? 

[…] Da cosa dipende allora la diffusa indigenza conoscitiva? La responsabilità delle difficoltà dei giovani nell'apprendimento affonda senza dubbio le proprie radici nelle ristrettezze della famiglia di origine. Ma adesso le più moderne indagini guardano anche al capitale umano e culturale. Papà e mamma vivono in stato di necessità? Non necessariamente accompagnano nella crescita figli disappetenti nei confronti di cultura e di nozioni varie. Anzi, se sono consapevoli dell'importanza dei libri, del cinema e dell'informazione, potranno crescere con il loro "capitale umano" un pargolo vincente nelle aule, nella vita e nelle professioni. 

Non sempre va così, esiste la sventura del circolo vizioso: le scarse competenze iniziali possono condurre a minori opportunità di svilupparle in seguito. In questo serpentone che si morde la coda sono intrappolati milioni di italiani privi di competenze di base […] Sono italiani che, proprio per la loro povertà, non riescono ad adeguarsi alla complessità dei cambiamenti sociali, culturali e tecnologici […] non sono in grado di continuare ad apprendere lungo tutto il corso della vita. […]

Licenza elementare o media: sono al Sud le Province con i più basi livelli di istruzione. Corriere della Sera 31 luglio 2023.

Sono tutte del Mezzogiorno le dieci province con la più elevata incidenza di residenti con basso livello di istruzione, cioè uguale o inferiore alla licenza media. Lo rivelano i dati elaborati dal Sole 24 Ore sui titoli di studio della popolazione residente oltre i 9 anni, età minima di riferimento per l’alfabetizzazione. In territori come il Sud della Sardegna, Nuoro e Oristano, sono fino a sei su dieci i residenti con basso titolo di studio; nelle province più istruite invece questa incidenza scende sotto i quattro su dieci. Le uniche province non del Mezzogiorno tra le prime venti dove è più diffuso un «basso» livello di istruzione sono Prato, Pistoia e Biella. Dai dati su base comunale (esclusi i Comuni sotto i mille abitanti) emergono poi alcune località «interne» particolarmente colpite dal fenomeno della povertà educativa. Oltre ad alcuni centri urbani dell’entroterra calabrese e siciliano, anche a Goro (Ferrara) e Valstrona (Verbano-Cusio-Ossola) il 73% della popolazione con più di 9 anni ha un titolo di studio uguale o inferiore alla licenza media. Dal lato opposto spiccano, con i più elevati livelli di istruzione, il comune di Basiglio (Milano), seguito da Pino Torinese (Torino) e Camogli (Genova).

Resta un problema per il sistema-Paese, con ricadute sul piano socio-economico che diventano più incalzanti col passare degli anni. Se nel 2008 era del 51% la quota di occupati tra i 18 e il 24 anni con la licenza media, nel 2020 il tasso è sceso al 33,2%. Ma una progressiva riduzione della dispersione scolastica si è comunque verificata, come dimostrano i dati Istat e Eurostat. Nel 2020 gli abbandoni precoci erano il 13,1%, nel 2021 sono scesi al 12,7% e nel 2022 si sono fermati all’11,5%. Con l’ultima rilevazione dello scorso anno, l’Italia scende al quinto posto a livello europeo rispetto al terzo degli anni precedenti. Un trend incoraggiante ma ancora distante dalla media europea del 9,6% di abbandoni dopo la licenzia media, e dall’obiettivo del 9% fissato nel Quadro strategico sull’istruzione e la formazione 2021-2030. Ma i numeri da soli, almeno in Italia, non bastano a comprendere un fenomeno più complesso, per il quale non esistono indicatori sufficientemente approfonditi. Basti pensare che nell’ultimo rapporto Invalsi si sottolinea la cosiddetta «dispersione scolastica implicita o nascosta», intendendo così la quota di studenti che, pur completando il ciclo di studi, non acquisisce le competenze di base necessarie. E le prime crepe affiorano già nelle classi elementari, con risultati in italiano e matematica inferiori agli anni precedenti.

Il problema si è acuito negli anni della pandemia, con la didattica a distanza che ha mostrato tutti i suoi limiti. Ma il recupero fatica a manifestarsi. Alle superiori, secondo il rapporto Invalsi 2023, gli studenti che in italiano hanno raggiunto almeno il livello base sono solo il 51%. Percentuale che solo nel 2019 arrivava al 64%. Ma anche restando sui numeri, il quadro nazionale è tutt’altro che uniforme. Nello specifico delle Regioni, rispetto alla media dell’11,5% di giovani tra i 18 e 24 anni che ha conseguito la sola licenzia media, molto al di sopra si collocano la Sicilia (18,8%), la Campania (16,1%), la Sardegna (14,7%), la Puglia (14,6%), e la Valle d’Aosta (13,3%). Tutte le altre Regioni restano al di sotto della media nazionale: tra l’11% e il 10,3% Piemonte, Toscana, Trentino Alto Adige, Calabria e Liguria; tra il 9,9% e il 5,3% primeggiano Lombardia, Emilia Romagna, Veneto, Abruzzo, Molise, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Umbria, Marche e Basilicata. Ma c’è un altro dato che emerge, e che sembra stridere con questi aspetti: l’alta percentuale di cento e lodi, cioè di voti alti, alla maturità, nelle regioni del Sud: secondo i dati pubblicati dal ministero dell’Istruzione e del Merito la scorsa settimana, in percentuale, considerando il numero di studenti per regione, le regioni che registrano il più alto numero di diplomati con lode sono la Puglia e la Calabria (con il 5,6%). Seguono l’Umbria (4,7%), il Molise e la Sicilia (entrambe con il 4,2%).

(ANSA il 12 luglio 2023) In alcune regioni del Mezzogiorno solo 1 ragazzo su 2 delle scuole medie comprende correttamente quello che legge e addirittura 2 studenti su 3 (il 35-40%) non sono capaci di leggere e comprendere un testo in inglese. E' quanto emerge dal Rapporto Invalsi 2023 presentato oggi. 

Si confermano, in parte ampliate, forti evidenze di disuguaglianza di opportunità di apprendimento nelle regioni del Mezzogiorno sia in termini di diversa capacità della scuola di attenuare l'effetto delle differenze socio-economico-culturali sia in termini di differenze tra scuole e, soprattutto, tra classi.

 (ANSA il 12 luglio 2023) Metà dei giovani che termina le scuole superiori non è in grado di comprendere quello che legge (solo il 51% degli studenti -1 punto rispetto al 2022 raggiunge almeno il livello base, con un divario tra Nord e Sud che raggiunge la quota di ben 23 punti percentuali; in Matematica il 50% degli studenti (invariato rispetto al 2022) raggiunge almeno il livello base con un divario tra le aree del Paese che raggiunge i 31 punti, anche se c'è un leggero progresso al Sud e nelle Isole. 

In Inglese il 54% degli studenti raggiunge il B2 nella prova di reading (+2% rispetto al 2022) e il 41% in quella di listening (+3% sul 2022 e + 6% dal 2019). "E' giusto dire che assistiamo ad un effetto 'long Covid', è una immagine appropriata - ha detto il presidente di Invalsi Roberto Ricci - si fatica a tornare ai livelli pre covid. Gli apprendimenti sono un continuum, se si inseriscono discontinuità questo finisce per avere un peso".

ella seconda classe delle superiori, in Italiano il 63% degli studenti (- 3 punti rispetto al 2022 e -7 punti percentuali rispetto al 2019) raggiunge almeno il livello base (dal livello 3 in su). Le differenze tra l'Italia centro-settentrionale e quella meridionale si accentuano; in Matematica il 55% degli studenti (+1 punto percentuale rispetto al 2022 e -7 punti percentuali rispetto al 2019) raggiunge almeno il livello base (dal livello 3 in su). La distanza nei risultati tra Centronord e Mezzogiorno si amplia ed è decisamente maggiore di quella riscontrata per l'Italiano.

(ANSA il 12 luglio 2023) Peggiora il rendimento degli studenti italiani: il confronto nel tempo degli esiti della scuola primaria mostra un indebolimento dei risultati in tutte le discipline sia in II che in V elementare. In II elementare i risultati di Italiano e di Matematica sono più bassi di quelli del 2019 e del 2021 e, sostanzialmente in linea con quelli del 2022. In Matematica 1 bambino su 3 non raggiunge le competenze di base nè in II nè in V. Qui i risultati del 2023 sono più bassi di quelli degli anni precedenti, compreso il 2022, in tutte le discipline, incluso l'Inglese. E' quanto emerge dal Rapporto Invalsi 2023 presentato oggi. 

Il rapporto Invalsi 2023 evidenzia una differenza dei risultati tra scuole e tra classi più accentuata nelle regioni meridionali, specie per quanto riguarda la Matematica e la prova di Listening. Ciò significa - evidenzia l'istituto Invalsi - che la scuola primaria nel Mezzogiorno fatica maggiormente a garantire uguali opportunità a tutti, con evidenti effetti negativi sui gradi scolastici successivi In seconda elementare, in Italiano circa il 69% (era il 72% nel 2022) raggiunge almeno il livello base (dalla fascia 3 in su).

Molise, Basilicata e Umbra sono le regioni con quote più elevate di allievi almeno al livello base, la Calabria e la Sicilia quelle con le quote più basse; In Matematica circa il 64% (era il 70% nel 2022) raggiunge almeno il livello base (dalla fascia 3 in su). Molise, Provincia Autonoma di Trento e Basilicata sono le regioni con quote più elevate di allievi almeno al livello base, la Calabria, la Sicilia e la Sardegna quelle con le quote più basse. In V elementare in Italiano circa il 74% (era l'80% nel 2022) raggiunge almeno il livello base (dalla fascia 3 in su). Molise, Umbria, Abruzzo e Friuli Venezia Giulia sono le regioni con quote più elevate di allievi almeno al livello base, la Sicilia è quella con la quota più bassa; in Matematica circa il 63% (era il 66% nel 2022) raggiunge almeno il livello base (dalla fascia 3 in su).

Umbria, Molise, Provincia Autonoma di Trento e Friuli-Venezia Giulia sono le regioni con quote più elevate di allievi almeno al livello base, la Calabria, la Sicilia e la Sardegna quelle con le quote più basse; anche i risultati d'Inglese sono in calo rispetto al 2022. L' 87% (era il 94% nel 2022) degli allievi raggiunge il prescritto livello A1 del Qcer nella prova di lettura (reading), mentre nella prova di ascolto (listening) è l'81% di allievi (erano l'85% nel 2022) a raggiungere il prescritto livello A1. Calabria, Sicilia e Sardegna sono le regioni con le quote più elevate di allievi che non raggiungono il livello A1 sia nella prova di Reading sia in quella di Listening.

Cosa dicono i dati INVALSI e perché preoccuparsene. Marcello Bramati su Panorama il 14 Luglio 2023

Sono stati pubblicati i dati INVALSI per le scuole di ogni ordine e grado: il quadro è generalmente costante e sconfortante. Ecco cosa dicono davvero e cosa bisognerebbe fare prima che sia troppo tardi

I dati INVALSI certificano una volta di più che la scuola italiana vive una crisi profonda e che presenta caratteristiche ben determinate. La prima è il peggioramento dei livelli di apprendimento man mano che si avanza con il ciclo di istruzione. Insomma, la scuola, procedendo anno dopo anno, perde pezzi, rallenta lo sviluppo delle competenze e delle conoscenze di chi la frequenta, dai primi anni fino ai dati sconcertanti che riguardano gli studenti a un passo dalla maturità che sanno comprendere a fatica un testo in lingua italiana e sono scarsi in matematica. I dati riferiscono questo. Il secondo elemento lampante è che l’Italia è spaccata in due, come ha chiarito anche il ministro Giuseppe Valditara commentando l’aggiornamento INVALSI. La scuola non riesci ad essere un elemento di riscatto sociale, anzi accresce il divario tra le aree sviluppate e quelle svantaggiate, adeguandosi totalmente all’ambiente di cui fa parte e venendo meno a uno dei suoi ruoli sociali più strategici, vale a dire garantire pari opportunità e un’istruzione valida a chiunque la frequenti. E così Nord e Sud a due velocità, centro e periferia a due velocità e via così. I dati riferiscono questo. Ancora, numeri, indicatori e risultati stupiscono per la loro costanza. Nell’Italia post-covid i livelli di apprendimento si sono abbassati ulteriormente e si sono stabilizzati al ribasso, senza peraltro che la fine della pandemia abbia contribuito a invertire lo stato delle cose. Ecco un segnale forte da considerare: non c’è più l’emergenza sanitaria, ma i saperi non acquisiti o appresi in DaD non si stanno recuperando e sono ormai fardelli con cui una intera generazione, e non un paio di annate ormai diplomate, dovrà fare i conti. Dare la colpa al covid o alla DaD è facile ma irritante e insufficiente, perché la crisi educativa è in atto da almeno vent’anni e il biennio pandemico ha solamente accelerato alcune dinamiche, senza cambiare nessuna rotta. I dati riferiscono questo. Infine, stonano ancora una volta alcuni esiti degli esami di maturità – in alcuni casi si legge di 100 e 100 e lode a pioggia - in confronto a questo quadro sconfortante, come se si trattasse di dati provenienti da studenti differenti. Ma non è così.

Che fare, quindi? Vestire i panni degli spettatori dell’affondamento annuale del Titanic non può bastare. Educatori e professionisti di ogni estrazione lo ribadiscono in ogni modo e ora ci sono anche banche dati ricolme di elementi statistici che confermano un quadro formativo, educativo e di apprendimento allarmante che presenta un analfabetismo funzionale crescente anno dopo anno. Innanzitutto occorre prendere atto di vivere in un’età di emergenza educativa: una società che si consideri sana, o comunque responsabile e che intenda guarire dai suoi mali, dovrebbe dedicare energie intellettuali e risorse economiche per venire a capo di questa situazione incresciosa in cui oggi sono impaludati i nostri figli, ma domani lo saranno coloro che rappresentano il cuore pulsante di chi costituisce il Paese socialmente, politicamente, economicamente, culturalmente. Risolvere questo baratro culturale è il tema principale di questa stagione, insieme alla questione ambientale, s’intende, e occorre fare qualcosa, anzi molto, e subito, a cominciare dai più piccoli, perché se c’è una novità da questi dati INVALSI è proprio la manifestazione della crisi sin dalla scuola primaria. La scuola non può essere l’unico ente additato come colpevole né l’unico indicato a risolvere una crisi di questa entità. Serve un patto generazionale che coinvolga famiglie, scuole, politica e l’universo degli educatori di ogni settore, ma anche chi – ad esempio – si occupa di comunicazione, trasmette messaggi, contenuti, modi e mode. Gli studenti, dai più piccoli ai più grandi, fuori da scuola sono travolti dall’uso dello smartphone. Guardatevi in giro, quando siete in pizzeria: i genitori hanno generalmente abdicato al loro ruolo educativo, rinunciando al dialogo e al gioco con i figli a cui viene affidato uno smartphone, più o meno ad accesso libero. I bambini non parlano, non osservano l’ambiente in cui vivono con il corpo e sono immersi in quello proposto dallo schermo, artificiale, visivamente iperstimolante, ma totalmente passivo. Questa generazione, privata della possibilità di annoiarsi, pensare e notare ciò che la circonda, quando va a scuola vive una situazione unica, perché viene richiesto di scrivere, di fare mente locale, di guardarsi dentro, di imparare e contare con le dita, con le mani, astraendo. E’ un discorso che vale per i piccoli e che vien buono per i ragazzi che crescono, sempre meno esposti al silenzio e quindi meno disposti a farne esperienza per pensare e per cogliere sfumature, differenze, increspature. La scuola ha le sue responsabilità, vive l’immobilismo e quando si rinnova va generalmente incontro a semplificazione e riduzionismo, come richiede la società di cui è specchio. Ripartiamo da stati generali sulla scuola e più ampiamente sull’educazione e sulla formazione di una intera generazione che merita uno stato che se ne curi, un’azione politica ampia che se ne curi, famiglie disposte alla fatica educativa per dare ai figli le migliori possibilità. Che non passano solo da una scintillante costosissima scuola che immerge nella lingua inglese, ma dal piccolo grande impegno quotidiano profuso per un libro letto, una storia raccontata, del tempo sottratto al lavoro e dedicato ai più piccoli, fino a una nuova fiducia nei confronti della scuola, ridandole ruolo e dignità. Prima di pretendere la Luna, occorre iniziare a ridare priorità alla cultura, a cominciare dal piccolo sacrificio che richiedono i compiti assegnati per casa accolti senza sbuffare e altre eroiche azioni giornaliere.

La scuola non conta. Gli undicenni somari in matematica e il poco onorevole record italiano della Dad pandemica. Carmelo Palma su L'Inkiesta il 15 Luglio 2023

L’ultima prova Invalsi mostra quanti danni ha fatto la scelta del governo Conte II di chiudere le scuole per trecentoquarantuno giorni durante la pandemia

Chissà se a qualcuno, leggendo i dati tanto prevedibili quanto terrificanti dell’ultimo Rapporto Invalsi (2023), è tornata alla mente la discussione surreale che, all’inizio di gennaio del 2022, oppose il Presidente del Consiglio Mario Draghi, deciso a riaprire le scuole malgrado il picco dei contagi, a tutto il caravanserraglio dei professionisti dell’anti-Covid: dall’Ordine dei Medici alle associazioni dei presidi, dai governatori e sindaci di ogni colore agli scienziati di qualunque risma e dottrina, tutti persuasi che quella mossa arrischiata avrebbe seppellito l’Italia, malgrado il nostro fosse un Paese in cui il numero abnorme di giorni di lockdown scolastico, accumulati dal marzo 2020, già chiaramente rappresentava un effetto o un corollario del numero abnorme di morti per Covid, non un’efficace barriera opposta alla diffusione e alle conseguenze della pandemia.

Già allora, insomma, l’Italia era il Paese che più di tutti, in Europa, aveva chiuso le scuole e instaurato un sistema di Dad generalizzata (lasciamo da parte le ossessioni reclusorie del Governo Conte II, che meriterebbero un approfondimento psico-ideologico, cui la parabola successiva di Giuseppi offrirebbe spunti interessanti) e insieme il Paese in cui di Covid si moriva come mosche, anche rispetto ad altri con analoghe caratteristiche socio-demografiche. Quindi si chiudevano le scuole non per strategia, ma per demagogia e per liturgia propiziatoria. Per non sapere cosa fare e per dimostrare che tutto, in qualche modo, si stava facendo per meritare la benevolenza del destino. E le prime vittime sacrificali chi sono state? Gli studenti.

Ci sono stati vari capipopolo – come i due inarrivabili omonimi, il campano Vincenzo De Luca e il siciliano Cateno De Luca – che sfidarono il Governo, prorogando comunque con ordinanza la chiusura delle scuole per scongiurare l’ecatombe. Persero, grazie a Dio, davanti al giudice amministrativo nella loro caccia all’untore di Palazzo Chigi.

Rimane il fatto che l’Italia ha chiuso causa Covid le scuole per complessivi trecentoquarantuno giorni mentre in Europa le chiusure sono state mediamente pari circa a un terzo e in alcuni fortunati Paesi (mediamente descritti dagli esperti italiani come irresponsabili) di pochissimi giorni. E chissà cosa sarebbe successo se Draghi non si fosse impuntato all’inizio del 2022, scommettendo tutto sull’efficacia e diffusione della campagna vaccinale e non su quel “tutti a casa” che negli anni della pandemia ricordava sinistramente quello dell’8 settembre 1943.

L’altra faccia della medaglia di questa strategia per cui le scuole, fino alla decisione di Draghi, sono state la prima cosa a chiudere e l’ultima a riaprire è che i risultati dell’istruzione scolastica sono diventati gravemente scadenti (non che prima fossero eccellenti) e tutti i ritardi accumulati si sono consolidati (o per meglio dire cronicizzati) con il trascorrere del tempo. Prendiamo un dato esemplare dell’ultimo Rapporto Invalsi: il trentasei per cento degli alunni delle quinte elementari (classe 2012) non ha competenze sufficienti in matematica. Ci sono significative differenze tra territori, scuole e classi diverse (i divari non sono solo territoriali, ma anche socio-culturali): comunque, nel complesso, gli undicenni italiani sono somari in matematica come mai erano stati, neppure negli anni immediatamente precedenti.

Non c’è la controprova, ma non ci vuole troppa fantasia né malizia per correlare questi risultati al fatto che gli alunni che quest’anno hanno finito le elementari (cioè gli undicenni) hanno passato in classe meno dei due terzi del proprio corso di studi e hanno frequentato per il resto del tempo le lezioni a distanza, dove le differenze delle situazioni familiari (in che case vivono, con quali dispositivi telematici e quali spazi fisici disponibili, con quali sostegni emotivi e cognitivi) amplificano i divari, in buona parte irrecuperabili, nell’apprendimento.

La verità è che chiudere le scuole non è mai stata una strategia anti-Covid, ma una campagna di comunicazione, un modo per arginare il rischio del discredito e dell’impopolarità a fronte dello spappolamento della medicina territoriale e delle conseguenze di una pandemia fuori controllo. È stata la scelta ritenuta suicidariamente meno costosa e demagogicamente più spendibile (non mandiamo i bimbi a scuola così non infettano i nonni – come siamo solidali) proprio perché in Italia il tema dell’equità intergenerazionale delle politiche pubbliche non è solo negletto, ma concettualmente abolito.

Si sono chiuse le scuole più di tutti per la stessa ragione per cui anche dopo la riforma Fornero abbiamo più di tutti largheggiato nella spesa previdenziale. Per la vecchia storia per cui, in vista delle prossime elezioni, si fottano pure le prossime generazioni, che tanto non votano.

Tra le varie lezioni che il Covid c’ha impartito questa massimamente dovremmo apprendere: in società invecchiate, impaurite e demograficamente fragili, non è solo la difesa della Patria, ma anche la difesa della salute l’estremo rifugio delle canaglie politiche. Tanto stiamo diventando così scarsi in matematica da non riuscire neppure a far di conto sui danni di tutta questa delinquenza.

Estratto da leggo.it venerdì 7 luglio 2023.

Pascoli? Dipingeva quadri. Al contrario di Dalì che, invece, viene scambiato per un letterato. E chi ha scritto la Divina Commedia? Su questo punto è davvero consigliabile tapparsi le orecchie. Si è sentito davvero di tutto, quest’anno, dai ragazzi interrogati alla maturità. A raccogliere la galleria degli orrori è stato il portale skuola.net, che ha chiesto la testimonianza direttamente ai maturandi. […] 

Sarà stata colpa del caldo ma qualcuno si è mostrato decisamente confuso visto che ha assicurato alla commissione che Giovanni Pascoli era un pittore. E non si è trattato di un lapsus o di un momento di distrazione visto che lo studente è entrato nei dettagli collocando il poeta addirittura nel movimento avanguardista tedesco Die Brücke, Il Ponte.

Non è stato l’unico, un altro maturando ha invece assegnato il dipinto di Salvador Dalì “La persistenza della memoria” all’autore letterario Marcel Proust. Difficile capire come si sia arrivati a un tale scambio di persone. 

Ma non serve infatti andare a scomodare artisti stranieri, ci sono errori grossolani anche tra gli autori principali dei volumi di letteratura italiana della scuola superiore. Un esempio? L’autore della “Divina Commedia” è niente di meno che Giuseppe Garibaldi. In un colpo solo si buttano a terra due personaggi protagonisti della storia e della cultura italiana. Ma non se la prenda Dante: non va certo meglio al più recente Pirandello, visto che è stato ricordato in sede di esame per aver scritto “Uno, Nessuno e Duecentocinquantamila”. […] 

È rimasto invece raccolto in un preoccupante silenzio lo studente a cui è stato chiesto: «Chi è Sergio Mattarella?». Incredibile ma vero, non ha saputo rispondere. Mentre c’è stato anche chi, parlando della deportazione degli ebrei, ha spiegato che venivano rinchiusi nei «campi di concentrazione».

[…]Un’altra gaffe memorabile è quella che ha stravolto il nome dello psicanalista de “La Coscienza di Zeno” di Italo Svevo: si chiama Dottor S ma viene ricordato dal maturando con un Signor S, il “cattivo” delle storie dei “Me contro Te”, la celebre coppia di youtubers evidentemente nota al maturando. Di sicuro più della letteratura.

Maturità 2023: ecco tutti gli strafalcioni, dalla Divina Commedia di Garibaldi a Giovanni Pascoli pittore. Come ogni anno il portale Skuola.net si diverte a raccogliere le testimonianze sugli strafalcioni durante i colloqui. Anche i professori protagonisti di gaffe clamorose. Cristina Balbo su Il Giornale il 7 luglio 2023.

 La confusione dei maturandi

 La pittura, il “nemico” più grande della letteratura

 I problemi con la linea del tempo

 La Storia, una brutta “bestia” per i maturandi

 Gli errori tutti italiani, forse i peggiori

 I professori tra clamorosi errori e “delirio di onnipotenza”

Come ogni anno quando si parla di esami di maturità, che si tratti di prove scritte o orali, non mancano mai gli strafalcioni che vedono coinvolti non soltanto gli alunni, ma anche i professori che, presi da una sorta di “delirio di onnipotenza” pretendono che i candidati siano a conoscenza di alcune nozioni a volte anche fuori contesto.

La confusione dei maturandi

Anche quest’anno a raccogliere le testimonianze degli strafalcioni dei maturandi ha pensato il portale Skuola.net che, grazie ai racconti delle ragazze e dei ragazzi che sono stati protagonisti ai colloqui orali o hanno semplicemente assistito alle interrogazioni dei compagni, ci permette di avere accesso a quel calderone di errori – e orrori - che un po' per ansia, un po' per paura, un po' per tensione o anche per credenze errate i candidati fanno.

La pittura, il “nemico” più grande della letteratura

A fare da protagonista della maturità 2023 la commistione tra arte e letteratura; in particolare, un ragazzo che ha assistito all’orale di un compagno ha riferito che il collega maturando aveva la convinzione che il quadro di Salvador Dalì, La persistenza della memoria, fosse un’opera di Marcel Proust e, quindi, letteraria. Ma non è finita qui; come se non bastasse, infatti, qualcuno ha pensato bene di assicurare alla commissione d’esame che Giovanni Pascoli fosse un pittore. Semplicemente un lapsus? Assolutamente no. Lo studente ha continuato a sostenere la sua ipotesi collocando “il pittore” Giovanni Pascoli nel movimento avanguardista Die Brücke, Il Ponte, peraltro nato in Germania.

I problemi con la linea del tempo

Ad arricchire la galleria degli errori, anche le sviste cronologiche, come quelle che collocano Giacomo Leopardi tra i poeti del ‘900 (anche se il poeta dell’Infinito ha vissuto a malapena sino alla prima parte dell‘800, più precisamente 1837, l’anno della sua morte). E ancora, c’è chi ha collocato il famosissimo quadro di Giuseppe Pellizza Da Volpedo, Il Quarto Stato, nel filone realista, nonostante fosse un’opera chiave della corrente divisionista. Infine, come non citare l’alunno che ha ricondotto il superuomo di D’Annunzio alla lezione di Sigmund Freud e non, come invece è, a quella di Nietzsche. E sulla scia filosofica qualcuno ha anche sostenuto che la teoria del “noumeno” di Schopenhauer fosse figlia di quella già sviluppata da Marx (e non da Kant).

La Storia, una brutta “bestia” per i maturandi

La storia è certamente l’argomento su cui gli studenti ogni anno “si divertono” a regalare le perle più preziose. Per uno studente la strategia della “guerra lampo” (Blitzkrieg) è stata molto utilizzata nel corso della Prima Guerra Mondiale; tuttavia, ha fatto la sua comparsa soltanto nel secondo conflitto mondiale.

Orecchie ben tese anche per il maturando che ha collocato le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki dopo la fine della II Guerra Mondiale; anche in questo caso se la storia non inganna le due bombe atomiche furono uno dei fattori decisivi per lo stop all’ostilità. Qualche piccolo problemino anche in Geografia, quando un candidato ha attribuito il "New Deal” americano a Winston Churchill - premier britannico -anziché al “padre” Roosevelt. Ma al peggio non c’è mai fine: è emerso che durante il Nazismo gli ebrei venissero rinchiusi nei campi di “concentrazione”.

Gli errori tutti italiani, forse i peggiori

L’autore della Divina Commedia? Naturalmente Garibaldi; un’opera di primo piano di Pirandello? “Uno, Nessuno, Duecentocinquantamila". Potremmo dire che questo hanno sicuramente un posto assicurato nella top ten degli strafalcioni tutti italiani, come anche la poesia X Agosto” di Giovanni Pascoli che è diventata “Per Agosto”. Attenzione, però, soprattutto alla studentessa che spiegando la trama de La Coscienza di Zeno di Svevo ha confuso il “Dottor S” - lo psicanalista che aveva in cura il protagonista dell’opera - con il “Signor S”, il malefico avversario dei “Me contro Te”, gli youtuber idoli dei bambini.

I professori tra clamorosi errori e “delirio di onnipotenza”

Anche i docenti, presi dall’euforia si sono lasciati andare a delle perle. Uno in particolare che ha ribattezzato l’operazione T4 - nonché il programma di pulizia etnica ideato dai nazisti, incentrato sull’eliminazione dei disabili e dei malati incurabili - chiamandola operazione T9 e, quindi, il sistema di scrittura utilizzato da smartphone e tablet. Era chiaro che la tecnologia oggi stesse prendendo il sopravvento, ma forse non fino a questo punto. Come anticipato, in molti sono stati gli insegnanti che hanno scambiato l’esame di maturità per un quiz da prime time: “Quanti figli aveva Gustav Klimt?” ha chiesto un docente; e ancora, "Che differenza c’è tra Tokyo e Kyoto?”, “Qual è il fuso orario del Giappone?”, “Quale fiume attraversa Las Vegas?” che peraltro non è attraversata da alcun fiume. Qualche insegnante – più di uno – pare avere confuso anche i programmi tra due classi che gli erano state affidate, sottoponendo quindi agli alunni quesiti non idonei. Qualcun altro, invece, ha ben pensato di giocare al cellulare mentre il candidato sosteneva l’esame. Insomma, gli anni passano, ma su una cosa non ci saranno mai dubbi che la maturità, in un modo o in un altro, riesce sempre a sorprenderci.

Povera laurea. su Panorama il 19 Giugno 2023. Laurea Cristina Colli

In Italia si registra un calo degli stipendi reali per i laureati di primo livello e per quelli di secondo livello, rispetto all’anno precedente. E a soffrire sono di più le donne. A dirlo il rapporto AlmaLaurea

I laureati trovano lavoro in Italia, ma per guadagnare 1300 euro al mese. L’inflazione colpisce anche qui, stando al 25esimo Rapporto sul profilo e sulla condizione occupazionale dei laureati nel nostro Paese. L’indagine mostra un calo delle retribuzioni reali del 4,1% per i laureati di primo livello e del 5,1% per quelli di secondo livello, rispetto all’anno precedente. E a soffrire sono di più le donne, che hanno l’11% di probabilità in meno di trovare lavoro dopo la laurea e quando entrano nel mercato del lavoro guadagnano in media 70 euro netti in meno al mese. Partiamo dai dati positivi dell’indagine che ha coinvolto 281 mila laureati del 2022 e per la parte relativa al mercato del lavoro 670 mila laureati, analizzando i risultati raggiunti nel 2022 da chi si è laureato da uno, tre e cinque anni. Dopo il periodo difficile e con segno meno della pandemia, nel 2022 il tasso di occupazione è migliorato, tanto che si registrano i più alti livelli occupazionali dell’ultimo decennio. A un anno dalla laurea è del 75,4% per i laureati di primo livello (+0,9% sul 2021) e del 77,1% per quelli di secondo livello (+ 2,5% sul 2021). Se si guarda al mondo del lavoro di chi si è laureato nel 2017 si vede che oltre 9 su 10 laureati di primo livello lavorano (92,1%) e quasi 9 su 10 (88,7%) per quelli di secondo livello. Cosa incide sulla facilità di trovare un’occupazione dopo la tesi? I soggiorni di studio all’estero aumentano del 12,3% la possibilità di avere un lavoro entro 12 mesi dalla laurea, i tirocini fanno crescere le chance del 4,3%. Altro lato positivo riguarda il tipo di contratto. È in aumento quello a tempo indeterminato, sia per chi ha finito la laurea triennale (+4,6%) sia per la magistrale (+3,9%). Meno contratti a tempo determinato e meno attività in proprio anche per i laureati da cinque anni. Resta eredità della pandemia l’uso dello smart working, che è in calo rispetto al 2021, ma che coinvolge quasi 3 laureati di secondo livello su 10. Sono buone notizie anche i tempi con cui ci si laurea (il 62,5% lo ha fatto nei tempi previsti dagli ordinamenti), l’età della laurea che è sempre più bassa (25,6 anni) e il voto elevato (in media, 104,0 su 110). Pesano però, e non poco, la differenza di genere e le retribuzioni basse, una volta usciti dagli atenei. A un anno dalla laurea i dottori hanno l’11,7% di probabilità in più di entrare nel mondo del lavoro rispetto alle colleghe. E guadagnano in media 70 euro netti in più al mese. Ed ecco il capitolo stipendio. Le retribuzioni mensili nette sono aumentate in termini nominali nel 2022, ma è cambiato il potere d’acquisto con il boom dell’inflazione e così gli stipendi sono in calo del 4,1% per le lauree di primo livello e del 5,1% per quelle di secondo livello. Nel 2022, a un anno dalla laurea, lo stipendio per un laureato triennale è di 1332 euro e per chi ha fatto la magistrale di 1366 euro. A cinque anni dal titolo la retribuzione mensile netta è di 1.635 euro per i laureati di primo livello e a 1.697 euro per quelli di secondo livello (rispettivamente -2,4% e - 3,3% sul 2021). Forse è da cercare anche qui il motivo della fuga all’estero di tanti giovani. Basti pensare che un laureato che lavora all’estero guadagna 600 euro netti mensili in più rispetto a chi lavora nel Sud Italia. E nel nostro Paese così il mismatch (il disequilibrio tra domanda e offerta) cresce. Mancano i laureati. Secondo i dati di Unioncamere e Anpal nel 2022 il 47% dei profili richiesti dalle aziende per le assunzioni è risultato difficile da trovare, ci sono voluti mesi e non sempre la ricerca è andata a buon fine. Al primo posto mancano i laureati in indirizzo sanitario paramedico, poi quelli in ingegneria elettronica e dell’informazione, a seguire quelli in scienze matematiche, fisiche e informatiche.

Lascia gli studi un ragazzo su 6: al Sud il buco nero della scuola. Conchita Sannino su La Repubblica il 6 aprile 2023.

I dati Svimez fotografano un’Italia divisa in due: al Centro-nord il tasso di abbandoni è del 10,4%, nel Mezzogiorno del 16,6%. E a Napoli arriva a sfiorare il 23%. Una disparità che riguarda tutti i servizi, dalle mense alle palestre al tempo pieno

Dispersi, soprattutto nelle regioni del Sud, ma non solo. Invisibili, almeno fino a quando non incrociano precarietà, sfruttamento, fragilità esistenziali. In qualche caso, il reclutamento criminale. Erano 83mila i ragazzi che, alla chiusura degli scorsi scrutini, sono stati bocciati solo perché non hanno raggiunto la soglia minima delle presenze. Rischiano almeno di raddoppiare, nel 2023. È la piaga dispersione scolastica.

Lascia gli studi un ragazzo su 6 al Sud il buco nero della scuola

I dati Svimez fotografano un’Italia divisa in due: al Centro-nord il tasso di abbandoni è del 10,4%, nel Mezzogiorno del 16,6% E a Napoli arriva a sfiorare il 23%. Una disparità che riguarda tutti i servizi, dalle mense alle palestre al tempo pieno. DI CONCHITA SANNINO su La Repubblica il 6 aprile 2023.

Dispersi, soprattutto nelle regioni del Sud, ma non solo. Invisibili, almeno fino a quando non incrociano precarietà, sfruttamento, fragilità esistenziali. In qualche caso, il reclutamento criminale. Erano 83mila i ragazzi che, alla chiusura degli scorsi scrutini, sono stati bocciati solo perché non hanno raggiunto la soglia minima delle presenze. Rischiano almeno di raddoppiare, nel 2023. È la piaga dispersione scolastica. Che assegna la maglia nera al Mezzogiorno, ma ha un picco nell’area metropolitana di Napoli.

In Europa li osservano più a valle, sono Early leavers, i precoci nell’abbandono: ragazzi tra i 18 e i 24 anni con nessun titolo di studio o al massimo la licenza di scuola media, rappresentano la somma di tutte le evasioni ignorate: e oggi sono al 16,6% nel Sud Italia (a fronte del 10,4% nel Centro-Nord); quindi quasi il doppio della media del 9 in Europa. Una ferita italiana. Ma non interroga il governo come gli sbarchi, non allarma come irave party. E se la pandemia ha moltiplicato le povertà educative, il progetto di Autonomia tracciato dal ddl Calderoli rischia di sparare il colpo di grazia.

C’era una volta la pubblica istruzione che univa. Oggi, dimmi dove sei nato e saprai quale destino ti tocca. Stretta la connessione, tra i servizi che la scuola nega in alcuni territori e l’abbandono: vedi il tempo pieno, che al Sud è solo al 18 %, contro il 48 del resto del Paese. Di più: a Milano è all’80%, a Napoli solo al 20. Grandi disuguaglianze montano: gli analisti di Svimez guidati dal dg Luca Bianchi, per dire, con il manager Ernesto Albanese de l’Altra Napoli onlus,ci hanno costruito un amaro cartoon, titolo:Un Paese, due scuole.

Due ragazzini di quinta elementare, nati lo stesso giorno: uno vive in Toscana, dove l’85 % delle scuole ha una mensa, e il 75 dispone di palestra; l’altro scolaro invece sta a Napoli, con l’80% delle scuole senza il tempo pieno, e l’83 che non ha palestra. Il bimbo del Nord avrà avuto alla fine della quinta, grazie al tempo pieno, 1.226 ore di formazione, e quello del Sud solo mille. Risultato:alla fine del ciclo, il ragazzino del Meridione è in credito di un intero anno in termini di formazione, doposcuola, educazione alimentare e allo sport. In pratica: un anno di crescita che manca, il “prezzo” della Costituzione tradita. Divario che nessun Pnrr, con la sua miliardaria — e ancora astratta — potenza di fuoco potrebbe mutare, senza azioni sinergiche d’impatto (mai varate, anche da governi di sinistra). E i numeri continuano a crescere.

Quota 23% di dispersione, in media, nell’area metropolitana di Napoli, dove il Comune ha attivato una piattaforma integrata per controllare il fenomeno. Era stato siglato un anno fa anche il “Patto educativo”, ancora al palo, in verità. Il prefetto Claudio Palomba ha ripetuto spesso: «In provincia siamo a picchi del 50-60%, impressionante». E il recente dossier voluto da Ettore Acerra, Ufficio scolastico della Campania, segnala: 3.757 denunce alle due Procure per i minori per inadempienze. Bianchi, da Svimez, anticipa aRepubblica: «Il Pnrr che dedica importanti risorse all’istruzione non raggiunge l’obiettivo di colmare i divari: la priorità oggi è rafforzare il sistema soprattutto nelle aree più marginali, garantendo asili nido, tempo pieno, palestre. Da una ricerca Svimez in via di pubblicazione emerge che l’investimento per alunno del Pnrr sull’istruzione (esclusi gli asili nido) è stato pari a 903 euro nella provincia di Milano, dove il tempo pieno è assicurato al 75 % dei bambini della primaria, mentre è di 725 euro a Palermo, col tempo pieno solo al 10%». E con l’Autonomia? «C’è il rischio grave: adattare l’intensità dell’azione pubblica alla ricchezza dei territori. Quindi, più investimenti e stipendi lì dove se li possono permettere: pregiudicando la funzione principe della scuola, fare uguaglianza». Denunce, carte. «Partono le segnalazioni ai Servizi sociali e alla Procura. E poi? Poi nulla», testimonia Valeria Pirone, la dirigente che a Napoli est guida il Vittorino da Feltre, 850 alunni, dai 3 ai 14 anni. Per inciso, un’altra delle sue allieve,Chiara, è diventata mamma a 14 anni. Caso isolato? «Macché, tante».

Gli esempi positivi esistono. Ma quasi sempre partono dal basso. Proprio dall’incontro tra Fondazione Riva e salesiani (con padre Loffredo, Fondazione San Gennaro, Cometa, If, Millepiedi, Regione) è nata a Napoli nel 2019 la Scuola del Fare. «Sembrava una follia. Volevamo dare una reale prospettiva di ingresso nel mondo del lavoro a giovani che avevano mollato la scuola — spiega il presidente Antonio Riva — Oggi, 140 ragazzi frequentano. E quelli del quarto anno sono inseriti, come operatori della logistica o di officine meccaniche». E poiché il caso (non) fa strani scherzi, la scuola è intitolata a Giulia Civita Franceschi, che negli anni Venti del secolo scorso trasformò la nave Caracciolo in una innovativa scuola per 750 ragazzi. Scugnizzi che diventarono i “caracciolini”: strappati a ignoranza e povertà. Per inciso, ci pensò il fascismo a spezzare uno straordinario modello educativo che guardava al futuro.

LA STORIA «RACCONTANO UN’INTERA GENERAZIONE». La prof e i bigliettini requisiti agli studenti: «Così si copiava prima dei telefonini». Vicenza, Carla Rosati va in pensione e svuota i cassetti: «Mi sono commossa a rivedere quelle carte che avevo sequestrato anni prima». Andrea Priante su Il Corriere della Sera l’11 Gennaio 2023.

Arrotolati, infilati nei polsini o sotto l’elastico delle mutande. Scritti in fretta su fogli a righe. Oppure dettagliati e con i caratteri minuscoli che si affiancavano a grafici e tabelle in scala ridotta, che neanche un monaco amanuense avrebbe saputo fare di meglio. Quando la professoressa vicentina Carla Rosati, fresca di pensione, ha svuotato il contenuto di quel vecchio scatolone, ha avuto un tuffo al cuore. «Lo ammetto: mi sono commossa» racconta. È parte del «bottino» di quanto ha sequestrato ai suoi studenti in 39 anni di carriera come insegnante di anatomia all’istituto professionale «Fedele Lampertico» di Vicenza: decine e decine di bigliettini che utilizzavano i ragazzi degli anni Novanta e primi Duemila per copiare durante i compiti in classe. Non solo. Nello scatolone c’erano finiti anche i passatempi di quegli anni, da impegnare col compagno di banco quando la lezione si faceva noiosa: carte da gioco disegnate a mano, palloni da calcio fatti di carta appallottolata e dadi realizzati con cartoncino e nastro adesivo. E pure qualche lettera appassionata o qualche poesia (perché, a quell’età, infatuarsi della prof non è poi così strano).

«Reperti che, per quanto recenti, appartengono a un mondo che non esiste più» li definisce Rosati. «Ora gli studenti copiano da Wikipedia, con il telefonino, e durante la ricreazione passano il tempo incollati ai social oppure giocando on line, perennemente con in mano i loro apparecchi elettronici. Sono circondati dai coetanei, eppure così isolati…». Quando a settembre è andata in pensione, la prof ha portato a casa il proprio materiale scolastico. E quando, un paio di giorni fa, ha riscoperto il contenuto di quello scatolone, non ha resistito alla tentazione di scattare un paio di foto e pubblicarle sul suo profilo Facebook.

Gli studenti l’hanno inondata di messaggi

Effetto amarcord. In poche ore i suoi ex studenti l’hanno inondata di messaggi colmi di gratitudine e nostalgia: è come se in quelle immagini avessero rivisto gli anni – ricchi di emozioni e turbamenti, ma scanditi anche dalla paura di un brutto voto - della loro adolescenza. «Quelle foto raccontano una generazione lontana anni luce da quelle attuali» riflette la docente alla quale - a giudicare dalla mole di materiale «confiscato» - passando in rassegna i banchi durante i compiti in classe capitava spesso di scoprire alunni intenti a barare.

Così si evoluta l’«arte» di copiare

In qualche modo, ha potuto seguire l’evoluzione della nobile arte dello scopiazzare: dai boomer ai millennials. «I bigliettini scritti a mano si utilizzavano soprattutto fino agli anni Novanta. Scoprirli era diventato quasi un gioco tra professore e alunno: li trovavo nascosti nelle maniche, negli astucci, infilati tra le gambe. Una volta, perfino scritti sul dorso della tessera per le fotocopie» ricorda. In fondo, avevano pure una certa utilità: «Lo studente trascorreva ore a trascrivere gli appunti, riepilogando il contenuto del capitolo e qualcosa, dopo tutta quella fatica, gli rimaneva in testa. Ma poi sono arrivate le fotocopie rimpicciolite, che non richiedevano neppure lo sforzo di sintetizzare il testo. Infine, con la diffusione degli smartphone, negli ultimi anni copiare è divenuto un esercizio vuoto, superficiale: nessun impegno, massima accuratezza ma niente che possa contribuire alla formazione del ragazzo. E se un docente li pizzica a barare non può certo requisirgli lo smartphone, ché magari rischia pure una denuncia».

«Chi veniva scoperto si vergognava»

Sono cambiate anche le reazioni, quando si viene scoperti. «Ci si vergognava. C’era chi cercava una giustificazione, chi mi giurava che era la prima volta, in un paio di occasioni credo che qualche studentessa si sia perfino messa a piangere. Li intristiva il brutto voto ma, ancora di più, temevano la nota sul libretto perché avrebbe significato che i genitori li avrebbero messi in castigo». Negli ultimi anni sembra sparito il «brivido» del rischio: «Nessuna reazione – racconta la prof - i ragazzi sono talmente proiettati su loro stessi da non vedere dove sta il problema: il mondo è dei furbi e difficilmente vengono chiamati a rispondere delle loro mancanze. Mi è capitato che qualche genitore mi dicesse che, in fondo, è normale che il figlio provi a farla franca».

«La scuola di oggi non mi manca»

La scuola di oggi non le manca più di tanto. «Negli ultimi anni avevo proprio l’impressione di essere diventata vecchia perché non riuscivo più a capirli, gli studenti. Arriva il momento in cui un insegnante deve andare in pensione – conclude - lasciando spazio ai prof più giovani. Loro sì, che riescono a entrare in sintonia con i ragazzi. Con tutti quanti. Compresi quelli che copiano».

Estratto dell'articolo di Ilaria Venturi per “la Repubblica” il 19 dicembre 2022.

Quando Beatrice sentiva che le mancava l'aria, chiedeva di andare a casa prima. Anche la minima verifica, per lei, era insostenibile. L'educatore di Save the children chiamato a farle da tutor online per aiutarla in italiano all'inizio vedeva nello schermo solo una sua ciocca di capelli. La compagna Eleonora condivideva la stessa paura di non farcela. Entrambe al primo anno di un istituto superiore di Torino. Anche Polly, genitori moldavi, al secondo quadrimestre della prima media in provincia di Venezia si era bloccata: «Sono indegna». 

La lettera che preannunciava la bocciatura era già arrivata, ma dietro alle insufficienze in pagella pesava la solitudine di una ragazzina dai lunghi capelli e dall'autostima zero. Silvia è scoppiata a piangere in presidenza, istituto professionale di Firenze: «La prof in palestra favoriva l'altra squadra: l'ho insultata, non so cosa mi è preso, sono andata fuori di testa». Nomi di fantasia, storie vere. Ragazze e ragazzi sulla soglia delle aule scolastiche: basta un passo sbagliato per perderli. 

Rientrati dopo due anni di pandemia, si sono ripresentati all'appello delle medie e delle superiori più fragili, più arrabbiati. Isolati o aggressivi, meno preparati. Ed è allarme nelle scuole per una fascia grigia che rischia di andare a ingrossare le file degli abbandoni. I docenti raccontano che crescono le diagnosi di disturbo da ansia sociale, «mai viste prima certificate dalle Asl». I presidi parlano di classi prime ingestibili. 

A preoccupare sono le troppe assenze conteggiate già ora, al primo trimestre. Il segnale è arrivato a giugno di quest' anno: i bocciati per troppe assenze sono stati quasi 74mila ragazzi, oltre 67mila alle superiori. «Non scrutinabili», vuole un gergo scolastico che sa di timbro postale. Contano quanto gli abitanti di città come Asti o Caserta, ma non contano.

Nei licei e istituti tecnici e professionali si è passati dal 2,8% di studenti non scrutinati per mancata validità dell'anno scolastico nel 2018-19 al 3,1% del 2021-22, con punte intorno al 4% in Calabria, Sicilia, Marche e Puglia e il record della Sardegna al 6,2%. «Una parte di loro è destinata ad allargare il numero di chi abbandona» traduce Marco Rossi- Doria, presidente di "Con i bambini". Non ha dubbi Arduino Salatin, voce della commissione sulla dispersione scolastica dell'Autorità garante per l'infanzia e l'adolescenza: «Che l'assenza sia un predittore di dispersione è fuori discussione». […]

«La pandemia ha schiacciato i bisogni famigliari verso il basso, ora l'ansia è arrivare a fine giornata e le carriere scolastiche dei figli passano in secondo piano», spiega. Chi proviene da contesti difficili è destinato ad abbandonare la scuola. «Qui bisogna agire, non dopo», insiste Colomba Punzo, preside di Ponticelli. Michele Gramazio, preside al tecnico e professionale Einaudi di Foggia, allarga le braccia: «Perdiamo il 20% di alunni nelle prime, ma cosa possiamo fare? […]

Ignoro ergo post. Il tempo in cui non sappiamo niente, ma proprio niente, e ce ne vantiamo un sacco. Guia Soncini su L'Inkiesta il 16 Novembre 2023

In passato essere ignoranti era imbarazzante ma anche più facile perché c’erano gli adulti a guidarti. Ora al posto loro ci sono TikTok e Google e i riferimenti culturali sono scomparsi

Uno dei più gravi problemi del presente – un problema dei giornali e dei consumi culturali in generale – è la smania di non escludere nessuno. Di tener dentro tutti, che già sarebbe un’istanza curiosa (escludere è il modo in cui una scelta culturale si definisce) ma diventa ridicola in un’epoca in cui il pubblico non ha nessuna voglia di far fatica.

Ricordo perfettamente la prima volta in cui ascoltai “American Pie”, brano del 1971 che è parte del canone pop (ora arriva qualcuno che mi dice che il folk non è pop) americano. Avevo ventisette anni, ero smaniosa di presente com’è congruo lo sia una ventisettenne, e ignorante com’è fisiologico sia una ventisettenne.

Però era il 2000: esistevano gli adulti. Adulti in grado di dirmi che la canzone che io scoprivo rifatta da Madonna aveva una storia che avrei dovuto conoscere, una versione più lunga che avrei dovuto ascoltare, un contesto culturale.

Era più facile essere ignoranti – non c’era Spotify, non c’era YouTube, a stento c’era Google – ma era più imbarazzante. Delle lacune ti vergognavi, ti arrabattavi a colmarle, sapevi da sempre e per sempre che non avresti mai finito di imparare e che nel mondo erano state fatte e pensate troppe cose perché tu le sapessi tutte.

Adesso, le voragini delle proprie conoscenze si rivendicano. Adesso, se fosse il 2000, io direi: eh ma non ero neanche nata, come facevo a conoscerla. Adesso, un brano di dieci anni fa – “A bocca chiusa”, di Daniele Silvestri – spunta da qualunque video ed entusiasmo d’attualità perché sta nel film di Paola Cortellesi, e dieci anni fa è come se fossero cento per il pubblico malato di presentismo che mica lo conosceva prima, mica se lo ricordava prima, mica possiamo pretendere abbia idea delle canzoni non di stagione.

Adesso, le lacune sono tali solo se possiamo farne indignazione social, e se una derelitta ventottenne in tv chiede agli ospiti come sia lavorare con un certo cantautore, ignara che quel certo cantautore è morto ventisei anni fa. Ignara come lo sono quelli a casa, che però diversamente da lei hanno davanti il telefono e quindi, forti di Google, diventano improvvisamente storici della musica.

Mi hanno aggiunta a una chat con velleità culturali. È piena di gente pagata per far funzionare l’intelletto, alcuni persino più vecchi di me (non credevo ne esistessero). Mi ha aggiunto qualcuno che non conosco e che aveva trovato il mio numero nella chat di Sgarbi e Morgan, e un giorno di questa modalità per cui le chat culturali sono i nuovi muri dei cessi degli autogrill e tutti si sentono autorizzati a usare il tuo numero dovremo parlare – ma non oggi.

L’altro giorno, in questa chat, un adulto ha linkato un articolo che riportava come Gino Paoli avesse detto che i Maneskin non li conosce ma ne sente parlare fin troppo. Il commento di questo teoricamente adulto teoricamente non analfabeta, cui davano ragione altri teoricamente adulti teoricamente non analfabeti, era: «Non so se tra 100 anni qualcuno si ricorderà fuori dall’Italia di Gino Paoli, certamente dei Maneskin si… grazie anche a questi sprezzanti giudizi…» (puntini e mancanza d’accenti come nell’originale).

Quando ho pensato che al racconto dei tic di questo secolo servisse la categoria del presentismo, non avrei mai osato immaginarne un esempio così perfetto. Pensare che a restare sarà ciò che è famoso oggi, ed è famoso per le copertine e i vestiti e senza che nessuno ne conosca una canzone che sia una; che a essere ricordato non sarà quello le cui canzoni canticchiamo da sessant’anni. Finché lo pensa un ragazzino delle medie – ma il guaio è che i ragazzini delle medie siamo diventati noialtri, fallimentare classe dirigente.

(Poi certo, «tra cent’anni» è un trucco retorico infallibile, giacché nessuno di noi sarà qui per verificare e dire «hai visto che avevi torto». Peraltro spero molto in un ventiduesimo secolo in cui i sussidiari, tra i fenomeni minchioni del secolo precedente, raccontino anche la dittatura degli stylist e come essa poteva fare e disfare fenomeni, e in quel caso i Maneskin ci starebbero benissimo).

Può essere che il Lorenzo Jovanotti che ventiseienne cantava «se io fossi capace, scriverei “Il cielo in una stanza”» fosse un eroe dell’approfondimento culturale perché conosceva una canzone di prima che nascesse? O è che all’epoca (era il 1992) eravamo consapevoli d’un’ovvietà quale il fatto che le canzoni sono la cosa più senza tempo che ci sia? Era normale che io conoscessi Battisti o persino Modugno; sarebbe normale adesso (e per alcuni fortunati ragazzini lo è) che i ventenni cantassero dei Guccini di quando persino i loro genitori non erano nati, e che non stanno nella pagina delle novità di Spotify.

Mentre sul mio telefono comparivano deliri su Gino Paoli invidioso dei Maneskin come Salieri di Mozart (l’esempio giusto sarebbe stato: come Margo Channing di Eve Harrington – ma il cinquantenne presentista ha tra i film di formazione “Amadeus” e non “Eva contro Eva”, del quale probabilmente direbbe «Eh ma non ero neanche nato»), io pensavo al libro di Zadie Smith, “L’impostore”.

Che parla d’un processo davvero avvenuto, nell’Inghilterra dell’Ottocento, e d’uno scrittore realmente vissuto e dimenticato; chi intervista l’autrice cerca disperatamente ciò che riconosce tra le righe e si esalta quando trova Charles Dickens (finalmente una cosa che so in questo cruciverba non facilitato), ma non Thackeray (perché in Italia “La fiera delle vanità” pensano sia un giornale e non un romanzo).

Nelle settimane più ricche, il libro di Zadie Smith vende trecento copie, perché nonostante sia per venirci incontro frammentato in capitoli di tre pagine ha troppi strati, troppa storia, troppi personaggi da seguire, e facciamo fatica, e non la vogliamo fare. Se solo trovassimo un modo di semplificare e tener dentro i giovani e la loro labile attenzione e i loro inesistenti riferimenti culturali. Magari, se di Zadie facessero una versione a fumetti. Magari, se di “La gatta” facesse una cover Tedua, chiunque egli sia.

Dario Fabbri ha la laurea? Lettera-fiume di Mentana: come replica a Puglisi. Il tempo il 07 settembre 2023

Qualche giorno fa l'economista Riccardo Puglisi ha posto un interrogativo al popolo di X (ex Twitter): Dario Fabbri ha laurea? Subito gli utenti hanno partecipato al dibattito. Se qualcuno ha preso le parti dell'analista geopolitico, qualcun altro gli ha puntato il dito contro e ha chiesto la verità. Oggi il professore di scienza delle finanze dell'Università degli Studi di Pavia è tornato sull'argomento pubblicando sui social una lunga lettera scritta da Enrico Mentana. Il direttore del Tg di La7 si è espresso in merito a quanto circolato su Fabbri, l'esperto di geopolitica che fin dall'inizio della guerra in Ucraina ha commentato in diretta tv gli sviluppi del conflitto.  

"Gentile professore, apprendo solo ora che nei giorni scorsi mi ha lanciato una serie di domande riguardanti Dario Fabbri e il suo titolo di studio attraverso X, fu Twitter. Mi è stata descritta la sua campagna, che non discuto ma certo non è fatta per appassionarmi: io, come saprà, a suo tempo non mi sono laureato. Interruppi l'università alla fine del 1979, quando il direttore del tg1, Emilio Rossi, mi fece sapere che mi avrebbe assunto come praticante. Anche di questo non mi sono mai pentito": questo l'esordio di Mentana. Il giornalista ha continuato: "Da 32 anni svolgo a mia volta il ruolo di direttore responsabile, dapprima nel nascente tg5 e poi nel tg La7. Non spetta certo a me giudicare se i due diversi editori abbiano fatto bene ad affidarmi la nascita del primo e il rilancio del secondo, nonostante l'assenza di un diploma di laurea. So però che ho avuto anche la fortuna di assumere molti giovani, poi affermatisi nella professione. Potrà verificare che a nessuno di loro ho mai chiesto né per chi votassero né se fossero laureati". 

L'oggetto della lettera inviata a Puglisi è stato quindi così argomentato da Mentana: "Così anche è stato - per venire alla sua "magnifica ossessione" - con Dario Fabbri, che ho conosciuto il giorno dell'invasione russa dell'Ucraina: non mi sono mai chiesto, né ho chiesto a lui, per chi votasse e se fosse laureato. E mai fino a oggi mi sono posto il problema, che per me non rileva: senza fare improponibili paragoni, il più grande divulgatore scientifico italiano, e primo animatore del debunking antibufale, Piero Angela, non era laureato. E il figlio Alberto, nel raccoglierne il testimone, ha scelto nella squadra del suo programma proprio Fabbri per il settore geopolitico". 

Mentana ha chiarito: "A Fabbri non ho chiesto per chi votasse o che cursus di studi avesse neanche quando gli ho proposto l'avventura di Domino, e nemmeno ho verificato se fosse iscritto all'ordine dei giornalisti. Da quando è nata la rivista di geopolitica, per un'ovvia misura di buon gusto, non l'ho più avuto ospite nel tg e nei programmi di cui sono conduttore, così come non ho più invitato Franco Bechis da quando ha accettato di dirigere Open". "Sperando di aver soddisfatto le curiosità sue e dei suoi interlocutori social, cosi come mi sono state sommariamente riassunte, la invito in caso di nuove impellenti ed epocali domande di questo tipo a scrivermi o a telefonarmi direttamente, come fanno tutte le persone per bene, quale che sia il loro titolo di studio. Buon lavoro", ha concluso. 

Dario Fabbri: Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Biografia. Dario Fabbri si è laureato in scienze politiche nel 2013.

Ha lavorato dal 2013 a gennaio 2022 per la rivista di geopolitica Limes, di cui è stato consigliere scientifico e coordinatore per l'America. Nel 2021 è diventato vicedirettore della Scuola di Limes. Ha collaborato con altre riviste italiane, come Gnosis, e internazionali, come Conflits, e ha firmato commenti per Italy Daily, il supplemento italiano dell'International Herald Tribune e per i quotidiani nazionali La Stampa e il Riformista. Dal 2014 al 2022 ha condotto Radio 3 Mondo, la rassegna della stampa estera di Rai Radio 3. È stato autore dei podcast Stati di tensione (Chora Media), Imperi (Rai), Grandi leader e comunità (Intesa San Paolo) e Nove Minuti (Rai). Da febbraio ad aprile 2022 ha curato Scenari, periodico di geopolitica del quotidiano Domani[9]. Ad aprile 2022, ha fondato con Enrico Mentana la rivista di geopolitica Domino di cui Fabbri è divenuto direttore editoriale, mentre Mentana ne è editore e direttore responsabile. A settembre 2022 ha fondato la Scuola di Domino di cui è direttore.

È socio della Società italiana di storia militare (SISM). Tiene seminari e conferenze in diverse università italiane e straniere. Ha tenuto corsi di geopolitica mediorientale presso la Scuola di formazione del Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica e di narrazione geopolitica presso la Scuola Holden di Torino e presso il master in relazioni internazionali dell'università IULM di Milano. Ha tenuto una lectio in "grammatica imperiale" all'Oriel College di Oxford e seminari in strategia e tattica delle potenze al board di Microsoft USA. Spesso è stato ospite a Rai 3 (TG3 Linea Notte, Agorà e Kilimangiaro) e LA7 (Omnibus, In onda, Piazzapulita, Atlantide e TG LA7) per commentare l’attualità internazionale. È intervenuto nel programma Noos - L'avventura della conoscenza.

Vita privata

Riguardo alla vita privata mantiene uno stretto riserbo, si sa solo che nel giugno del 2023 si è sposato.

Premi

Nel 2017 ha ricevuto il Premio Amerigo nella categoria "periodici".

Nel 2022 ha ricevuto il Premio Partenope presso il Giffoni Film Festival.

Opere

Dario Fabbri, Grandi temi della geopolitica, Edizioni Gribaudo, 2022, ISBN 88-580-4305-7.

Il laureato. Zadie Smith, Fabbri e il mondo in cui titoli e premi valgono più di tutto. Guia Soncini su L'Inkiesta il 9 Settembre 2023.

Il nuovo romanzo della più strepitosa intellettuale della mia generazione è stato stroncato da una vincitrice di Pulitzer (la più stolida a vincerlo). A Mentana è stato chiesto se l’esperto di geopolitica sia dottore. Perché ciò che conta oggi non sono le competenze, ma se hai la pergamena incorniciata

Che cos’hanno in comune Zadie Smith, forse la più strepitosa intellettuale della mia generazione, e Dario Fabbri (chiunque egli sia)? Fino all’altroieri avrei detto niente, ma poi la vita s’incarica di collegamenti mai sospettati.

“The Fraud”, il nuovo romanzo della Smith, è uscito in Inghilterra un paio di giorni fa. Sono ancora al primo capitolo e già sono pazza della vedova Touchet, che ritiene che, visto che tutti i tentativi di pronunciare il cognome del defunto marito sono ridicoli, tanto valga optare per la ridicolaggine francofona. Ma del libro parliamo poi (esce in Italia il 10 ottobre).

Prima ancora che m’arrivasse il romanzo, ne ho letto una stroncatura su Vulture, le pagine culturali del New York Magazine. Era un articolo così stolido che, se l’avessi letto qualche anno fa, avrebbe fatto barcollare tutte le mie certezze: è il New York, è un giornale di cui mi fido, com’è possibile.

Sono andata a cercare su Google l’autrice, e ho scoperto un’altra cosa che qualche anno fa mi avrebbe devastata: la tizia che lancia a Zadie Smith la vibrante accusa di, ohibò, preferire l’interpretazione psicologica a quella ideologica, questa tizia ha vinto il Pulitzer per la critica. E io ancora non sono étoile alla Scala: allora ditelo che non c’è meritocrazia.

Breve divagazione: tra le altre cose, la Pulitzer più stolida del mondo accusa Smith di ciò che secondo Keats caratterizzava la scrittura di Shakespeare, di non avere convincimenti morali inamovibili o solide opinioni (di essere un’intellettuale e non una sacerdotessa, ma tu pensa).

Mentre Keats e Smith fanno una seduta spiritica per domandarsi come sia finito questo secolo ad avere intellettuali così scarsi, a me viene in mente “Inferno”, la rilettura dantesca fatta da Claudio Giunta per Feltrinelli, e il suo elogio del padre di Proust e della sua ignavia – ma anche di questo libro parliamo poi (esce la settimana prossima).

Una volta la scoperta del Pulitzer assegnato a questa inutile compilatrice di tesine universitarie incapace di capire cosa sia un romanzo mi avrebbe devastata, perché una volta non c’erano i social. E io non avevo modo di sapere quanti Pulitzer imbecilli, grandi giornali ottusi, prestigiose istituzioni da mettersi le mani nei capelli esistessero.

Sono i social o è la vecchiaia? È che, se vivi abbastanza a lungo, incontri abbastanza medici cani e avvocati imbarazzanti da sapere che una laurea non garantisce niente? O è che i social – con le loro note biografiche in cui la gente meno è in grado di trovarsi il culo con le mani e più rimarca le proprie cattedre e dottorati – hanno scostato la tenda di Oz?

Questo è il punto in cui in genere i più stolidi tra i laureati, quelli che la loro l’hanno incorniciata e se non riconosci il valore morale del titolo di studio è perché sei invidiosa, sibilano: eh, certo, tu sei per l’università della vita. Che è una frase temibile, in questo tempo in cui tutti siamo terrorizzati di sembrare lo scemo del villaggio globale, quello che crede che nel vaccino ci sia il chip, o che Birkenau fosse una stazione termale.

Ma ovviamente la contrapposizione non è quella un po’ elementare percepita dagl’istruiti che si percepiscono colti. La questione non è: i titoli di studio sono una truffa, per strada sì che s’impara. La questione è: se non capiscono niente di niente neanche quelli che hanno studiato, figuriamoci quelli che neppure hanno studiato, com’è possibile che non ci siamo ancora estinti con questa imbecillità media, com’è possibile che non cadiamo in un tombino ogni volta che usciamo di casa, aiuto.

L’altroieri ho scritto un articolo in cui ipotizzavo che una certa risposta di Landini sul costo della vita e il costo del caffè nei bar fosse un tentativo di far chiudere Cova, a Milano, e ripopolare il Molise coi baristi licenziati. Sotto a un retweet (o come si chiama ora) dell’articolo, c’erano gli indignati commenti d’un tizio che lo accusava d’essere molto inattendibile come articolo «di analisi sociale ed economica».

Il tizio così capace di decodificare un registro comico e valutare con criteri sensati quel che legge ha ovviamente la sua brava nota biografica su Twitter (o come si chiama ora), nota che ci svela ch’egli è «prof a contratto di analisi dei media». Una volta le università erano posti ai quali ci iscrivevamo certi di trovarci gente che sapesse spiegarci il mondo. Ora sono queste botti di ferro che paghi per mandarci i tuoi figli a imparare a non saper leggere.

Certo, diranno i miei piccoli lettori, meglio analisi dei media che cardiochirurgia, meglio che gli imbecilli non facciano danni in campi seri. Questa settimana sul magazine del New York Times c’è un articolo che s’interroga sul perché gli americani non abbiano più fiducia nell’istruzione universitaria. È perché le università americane costano troppo, è per quello che in Francia si laureano di più, ipotizza l’ennesimo articolista che non capisce il mondo.

Essere costose è l’ultimo valore rimasto alle università americane (nulla di ciò che è gratis ha un valore percepito e quindi viene preso sul serio: se il professore a contratto pagasse per leggermi, ci penserebbe tre volte prima di dire scemenze; se poi dovesse pagare per commentarmi, allora sì che cominceremmo a ragionare).

Se sono le prime a declinare non è perché sono le più costose: è perché sono le prime a essersi specializzate in stronzate. Nell’articolo c’è uno schemino che dice che, rispetto a quarant’anni fa, la laurea produce meno ricchezza per chi la prende. Ettecredo: vale la pena indebitarsi coi costi della retta per i gender studies? Quanti posti di lavoro per spiegatrici di femminismo su Instagram potranno mai esserci, una volta presa la laurea da incorniciare?

E quindi, nella penultima avvincentissima polemica di Twitter (o come diavolo eccetera), quella in cui un Carneade (ovviamente con la sua brava cattedra specificata nella biografia social) chiede ossessivamente a Enrico Mentana se Dario Fabbri sia laureato, e Mentana gli risponde che non ha mai domandato i titoli di studio a nessuno, e nelle sue trasmissioni neanche si è mai rivolto a lui col vocativo «dottore» (aggiungerei: non essendo un parcheggiatore), ecco, in quest’avvincente polemica qui, io osservo incantata questa specie la cui sopravvivenza mi risulta inspiegabile.

Coloro che, in un secolo in cui la realtà s’impegna ogni giorno a dimostrare che non esistono garanzie, che sono crollati i muri e le certezze, che il mondo come lo conoscevamo è finito, coloro che in questo delirio globale restano aggrappati al Novecento come DiCaprio alla porta su cui galleggiava Kate Winslet, certi di poter sopravvivere grazie alla convinzione che i titoli cambino qualcosa, le lauree cambino qualcosa, i premi cambino qualcosa.

Coloro che del tizio che vedono alla tele non vogliono sapere se stia dicendo o no una stronzata oggi, ma se vent’anni fa sia andato con l’alloro in testa a farsi consegnare una pergamena. Coloro che, se la critica più stupida del mondo vince il Pulitzer e Zadie Smith no, si rifiutano di mettere in dubbio le loro certezze: per fare il bagno bisogna aspettare tre ore dopo mangiato, e tra due scrittrici la migliore è senz’altro quella che ha vinto il Pulitzer.

Così l'università è diventata il regno del conformismo. L'ex tempio della ricerca oggi è ormai un'istituzione ideologica al servizio delle battaglie "corrette" e "verdi". I progetti di ricerca? Tutti di sinistra. Carlo Lottieri il 20 Agosto 2023 su Il Giornale.

Qualche giorno fa, in un programma televisivo, la biologa Antonella Viola (già messasi in mostra nel biennio pandemico) s'è presa la licenza di negare credibilità scientifica ad Antonino Zichichi per le sue tesi sul cambiamento climatico. Che ne può sapere di tali questioni chi studia linfociti e membrane cellulari? Nulla, ma in questo come in altri casi probabilmente era necessario allinearsi alle parole d'ordine prevalenti. Perché uno dei tratti essenziali di chi oggi di professione fa lo studioso sta proprio nella sua vocazione a rimanere nel gregge.

Le ragioni sono note. Ogni sistema di potere poggia sul controllo della forza, ma al tempo stesso il ricorso alla violenza deve essere limitato. Per conseguire questo risultato è indispensabile che vi siano istituzioni prestigiose che legittimano lo status quo agli occhi dei cittadini. In altre parole, ogni regime politico ha bisogno di apparati ideologici al proprio servizio e oggi le università sono in larga misura proprio questo.

Nate in età medievale quali spazi di ricerca gestiti direttamente dagli studenti oppure dai docenti, nel corso dei secoli le università hanno perso in larga misura la loro indipendenza per diventare apparati statali: anche quando sono formalmente private (e questo perché ricevono fondi pubblici, pure negli Stati Uniti, e sono sottoposte a una rigida regolamentazione). È allora comprensibile che in una serie di questioni culturali e scientifiche non vi sia quasi discussione, e che anzi vi sia la metodica repressione delle voci discordanti.

Le origini di tale disastro sono remote. Nel pieno della Rivoluzione francese la Convenzione diede vita all'Institut de France, con l'idea di creare un vero «parlement du monde savant» (parlamento del mondo intellettuale). Le élites giacobine ritenevano indispensabile legare a sé artisti, letterati e scienziati, conferendo loro prestigio e prebende. Quell'operazione fu la rielaborazione di quanto già i monarchi in precedenza avevano realizzato, dato che l'Institut mise assieme accademie preesistenti: tra cui l'Académie Française (creata nel 1635 dal cardinale Richelieu, primo ministro di Luigi XIII) e l'Académie des Sciences (creata nel 1666 dal cardinale Mazzarino). Già la monarchia, d'altro canto, aveva assorbito le università e limitato alquanto l'autonomia della ricerca.

Le conseguenze del crescente controllo che i sovrani hanno saputo esercitare su idee e istituzioni culturali saranno rilevanti. Lo stesso Voltaire, scrittore per altri aspetti assai polemico, dopo avere passato un anno alla Bastiglia e dopo esser stato esiliato, sarà accolto all'interno dell'Académie française anche grazie a una sorta di campagna elettorale che il letterato stesso organizzò con efficacia: così da garantirsi una sinecura.

Pure nel dibattito italiano post-unitario, la visione dell'istruzione pubblica che s'impose fu basata sull'idea, per citare Francesco De Sanctis, che la missione dello Stato «è veramente di essere il capo, la guida, l'indirizzo dell'educazione e dell'intelligenza del Paese». Ben prima dei regimi autoritari e totalitari (prima di Andrei Zhdanov, Giuseppe Bottai e Joseph Goebbels) il potere sovrano aveva insomma compreso la necessità di controllare la cultura: a partire dalle università, naturalmente. L'operazione non è mai stata troppo difficile dato che, a loro volta, gli intellettuali hanno spesso subito il fascino dell'autorità.

Il servilismo degli intellettuali non è allora qualcosa che caratterizzi in maniera esclusiva il nostro tempo. È comunque vero che nelle società occidentali, grosso modo equamente divise tra progressisti e conservatori, l'accademia è quasi interamente schierata a sinistra. I motivi sono vari, ma certamente molto dipende dalla struttura degli atenei e dalle modalità che presiedono all'ingresso in università e al progresso della carriera.

Oggi chi voglia avere successo in università deve realizzare progetti di ricerca. Il risultato è che uno studioso è ormai ritenuto valido non tanto se scrive volumi o articoli innovativi e importanti, ma invece se ottiene finanziamenti da istituzioni ritenute prestigiose. Il guaio è che nei bandi di questi concorsi si pensi a quelli che dai noi sono probabilmente i più importanti, quelli Horizon Europe si trovano quasi sempre gli stessi temi: e naturalmente si tratta delle questioni care a chi comanda e al mainstream (genere, riscaldamento globale, razzismo e inclusione, ecc.). Le classi politiche finanziano la ricerca, ma nel farlo l'indirizzano verso esiti a loro favorevoli: che permettano un'espansione del controllo che esercitano su di noi. D'altra parte, quando nei bandi si focalizza sempre e soltanto l'attenzione su alcuni argomenti si sta già predefinendo l'esito delle ricerche stesse.

La situazione attuale è quindi caratterizzata da una ben precisa gestione politica della scienza: al punto che perfino un premio Nobel della fisica che avanzi perplessità sull'origine antropica del riscaldamento globale può essere censurato (com'è successo a John Clauser). Va poi aggiunto che ormai sappiamo che durante la pandemia funzionari dell'Fbi si recavano negli uffici di Twitter per accordarsi con i manager di quell'azienda in merito alle misure da assumere: con il risultato che perfino alcune ricerche pubblicate dal prestigioso British Medical Journal hanno subito una sorta di censura. Perché oggi il potere non è confinato nei palazzi governativi, ma conta su tutta una serie di tentacoli gestiti dagli uomini di affari e dagli intellettuali.

È insomma chiaro che ormai il mondo accademico non solo è uniforme nei propri valori e nei propri orientamenti culturali, ma è pure sotto scacco: con il risultato che pure chi volesse dissentire troverebbe numerosi ostacoli dinanzi a sé. In effetti, un giovane che voglia diventare professore deve prima entrare in un programma di dottorato, poi ottenere una posizione da ricercatore e infine diventare prima associato e poi ordinario. In genere concluderà questo percorso dopo avere compiuto cinquant'anni e in tutto questo periodo avrà dovuto evitare ogni contrasto con il proprio barone accademico, con il dipartimento in cui si trova a lavorare e con l'intera disciplina in cui si colloca (se studia diritto costituzionale, ad esempio, con l'insieme dei costituzionalisti più affermati). Il rischio è che alla fine, dopo decenni di necessarie autocensure, sia più un pollo da allevamento che non uno studioso determinato a seguire scienza e coscienza.

Che fare? La questione istituzionale è cruciale ed è quindi necessario che lo Stato si ritragga il più possibile dalle università. Ma è egualmente cruciale che ovunque anche fuori dalle cittadelle universitarie, se necessario s'imponga un modo di studiare e insegnare che abbia quale criterio soltanto la ricerca della verità, e che muova da un più che giustificato scetticismo verso tutte le parole d'ordine imposte dalla presente alleanza tra la politica, gli affari e le idee.

C-cultura. Ma il pensiero forte è sempre stato anti-accademico. Leopardi, Croce, Montale: è lungo l'elenco di chi ha fatto a meno della laurea...Giancristiano Desiderio il 20 Agosto 2023 su Il Giornale.

La storia della filosofia non riguarda l'università ma il carcere. La cosa può suonare strana ma l'origine stessa del pensiero come libertà e critica non è proprio la galera? Eh sì, Socrate, che è il filosofo per eccellenza, creò la filosofia come pensiero della vita libera rifiutandosi di dare l'anima al potere. Platone fu ridotto in schiavitù dal tiranno e Aristotele lasciò Atene per disse «evitare che pecchiate una seconda volta contro la filosofia». Questo in Grecia. In Italia? Sappiamo come e perché morì Giordano Bruno «academico di nulla academia» - mentre Tommaso Campanella passò più tempo dentro che fuori e Galileo Galilei abiurò per aver salva una vita che passò in gattabuia. Ma ecco il punto che vale la pena sottolineare nessuno di loro sapeva che farsene di carte e titoli di studio. Il padre della scienza sperimentale non era laureato: studiò a Pisa ma non riuscì ad ottenere una borsa di studio e solo grazie al padrino di battesimo del fratello Michelangelo riuscì a seguire i corsi. Poi lasciò Pisa per Firenze e quindi il padre lo rispedì a Pisa per fargli studiare medicina e invece lui seguì lezioni di matematica e di fisica e ne ricavò, autonomamente e contro gli studi accademici, quella che noi oggi chiamiamo scienza moderna. Il tutto senza laurea. Ma davvero c'è da meravigliarsi? Se la scienza per venire al mondo avesse dovuto attendere l'università non avrebbe fatto mai giorno, come diceva più o meno il poeta Rocco Scotellaro che, naturalmente, non era laureato. Tralasciamo Giacomino Leopardi le cui «sudate carte» e lo «studio matto e disperatissimo» non hanno nulla a che vedere con l'accademia e soffermiamoci di passata su Eugenio Montale. Forse, il maggior poeta italiano del secolo scorso che in Ossi di seppia diceva: «Codesto solo oggi possiamo dirti/ ciò che non siamo, ciò che non vogliamo». Sembra quasi un programma per tenere in non cale gli studi organizzati, istituzionalizzati, burocratizzati che tutto sono tranne che conoscenza. Infatti, Montale che fu poeta e critico e giornalista e tant'altro, non era laureato. Come non lo era Federico Fellini. Né Vittorio De Sica e per questa strada si potrebbe continuare a lungo.

Ed eccoci al punto: l'organizzazione statale degli studi, soprattutto in chiave monopolista, non va d'accordo con la libertà di pensiero che è per natura come si è ricordato con Socrate a guardia della libertà civile. Il maggior filosofo italiano del Novecento, Benedetto Croce, non solo non era laureato ma teorizzò con lucida consapevolezza la necessità di dar vita a un movimento di pensiero extra-accademico perché e lo diceva in una lettera del 1903 all'hegeliano Sebastiano Maturi «la filosofia richiede animi liberi» e non è roba da professori. Il sapere nasce fuori dalla cittadella accademica e l'università serve a replicare solo il già noto. Per tutta la vita Croce tenne fede a questa fondamentale esigenza di libertà e non confuse mai ciò che è pensiero e filosofia e scienza con le cattedre, le dispense, le carriere professorali. Quando, ai primi del Novecento, difese Giovanni Gentile che l'università di Napoli teneva alla porta, scrisse un opuscolo Il caso Gentile e la disonestà e nella vita universitaria italiana in cui arrivava ad accusare l'università di Napoli di camorra. Poi Gentile, si sa, riuscì ad entrare e fece carriera nell'università, forse anche troppa arrivando a sovrapporre filosofia e istituzione, pensiero e stato; tuttavia, anche la vita filosofica di Gentile, soprattutto per come morì, non la si può ridurre alla sua professione di professore di filosofia. In Croce, per altro, vi era proprio la netta distinzione tra filosofo e professore e, anzi, riteneva che il filosofo di professione, il filosofo puro, appunto, il professore di filosofia non poteva fare altro che cedere il passo al filosofo-storico ossia al filosofo che, forte delle sue esperienze reali riguardanti ora la poesia, ora la politica, ora l'economia, ora la morale, era in grado di giudicare gli atti umani concretamente senza cadere in vaniloqui o nella retorica e la pedanteria che sono tipiche espressioni dell'accademia italiana. Non deve essere per nulla un caso che un allievo di Gentile, che lo seguì a La Sapienza di Roma, è oggi riconosciuto come un importante filosofo italiano ma mai si laureò: Andrea Emo. Era veneziano, scrisse senza pubblicare e solo nel 1986 i suoi Quaderni finirono tra le mani di Massimo Cacciari che si rese conto del valore del suo pensiero che per statuto è anti-accademico. E Manlio Sgalambro? Non imparò di certo l'arte di pensare all'università. Si iscrisse pure a giurisprudenza ma «la filosofia la coltivavo già autonomamente. Mi piaceva il diritto penale e per questo scelsi giurisprudenza». Ma basta leggere uno qualunque dei libri di Sgalambro, a partire da La morte del sole per trovarsi dinanzi uno spirito che riguarda il mondo e non il mondo accademico. Del resto, l'ispiratore di Sgalambro è stato Schopenhauer che - amato da Anacleto Verrecchia, altro spirito anti-accademico, e da Sossio Giametta, anche lui estraneo al circuito dei professori senza filosofia nell'Ottocento fu un feroce critico dell'università, arrivando a dire che è la morte del pensiero. Arthur era invidioso di Hegel (che non era filosofo in quanto professore ma professore in quanto filosofo). Ma questa, come si dice, è un'altra storia.

Giancristiano Desiderio

Università, il grande esodo degli studenti da Sud a Nord. Continua il calo degli iscritti, nonostante il proliferare degli atenei. E Roma, Milano, Bologna, Napoli e Torino assorbono metà dei ragazzi. Una concentrazione che accentua le diseguaglianze. Emanuele Coen su L'Espresso Sera il 31 Maggio 2023

Se le disuguaglianze si accentuano, come testimonia la protesta degli studenti accampati contro il caro affitti, l’università non fa eccezione. I dati parlano chiaro: cresce il divario tra Nord e Sud, dove gli atenei registrano un calo più pesante delle immatricolazioni. E anche la distanza tra grandi città, dove si addensa il maggior numero di iscritti, e piccoli centri.

Oggi oltre il 50 per cento degli avvii di carriera degli studenti delle lauree magistrali avviene in cinque metropoli: Roma, Milano, Bologna, Napoli e Torino. Una concentrazione senza precedenti, che impatta anche sul costo della vita e sul prezzo degli alloggi. «Si tratta di un processo di lungo corso, cominciato con la crisi globale del 2008-2009. Nel giro di qualche anno nelle università italiane si è passati da 340mila iscritti a 270mila, come se fosse scomparsa la Statale di Milano», afferma Ivano Dionigi, già rettore dell’università Alma Mater e oggi presidente del consorzio interuniversitario AlmaLaurea, che rappresenta 80 atenei e circa il 90 per cento dei laureati in Italia: «Si è registrato un progressivo incremento delle immatricolazioni fino al 2020-2021, poi un calo del 3 per cento. Una tendenza che si conferma anche quest’anno: per la prima volta anche l’ateneo di Bologna perde iscritti». 

Secondo l’ultimo Rapporto AlmaLaurea, le migrazioni per motivi di studio sono quasi sempre dal Mezzogiorno al Centro-Nord: il 28 per cento dei giovani del Sud decide di conseguire la laurea in atenei del Centro e del Nord, mentre il 92 per cento di chi proviene dall’estero sceglie di studiare nel Centro-Nord.

Per capire quanto sia importante potenziare il sistema universitario al Sud basta scorrere le tabelle dell’ultimo rapporto Anvur, l’agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca, che ha selezionato i 180 dipartimenti di eccellenza degli atenei statali per il quinquennio 2023-2027: si vede bene che l’unica grande università del Sud e Isole sopra la media è la Federico II di Napoli, che da qualche anno ha intrapreso un percorso molto virtuoso.

Al di là degli aspetti territoriali, a preoccupare è anche un altro dato: in Italia meno del 40 per cento dei diciannovenni si iscrive all’università. «Abbiamo il 28,5 per cento di laureati tra i 24 e i 35 anni, penultimi in Europa, seguiti solo dalla Romania. La media europea è del 40 per cento, in Francia del 49 per cento», aggiunge il presidente di AlmaLaurea, che sottolinea alcune cause di questa crisi.

«Anzitutto manca la cultura della laurea, inoltre i laureati hanno sfiducia nei confronti del mondo del lavoro e risentono della crisi economica. Tra dieci anni, quando si faranno sentire gli effetti del decremento demografico, le cose peggioreranno. Oggi l’articolo 34 della Costituzione sul diritto allo studio è scritto sulla sabbia», conclude Dionigi.

In un contesto così complicato invertire la rotta è una chimera. Cosa si può fare? Il saggio “Salvare l’università italiana” (Il Mulino), fotografa la situazione e indica alcune possibili vie di uscita per arrestare il declino. Secondo gli autori – Giliberto Capano, Marino Regini e Matteo Turri – il punto di partenza per restituire agli atenei il loro ruolo culturale, economico e civile è ristabilire il ruolo di coordinamento del ministero dell’Università e della Ricerca.

«Qualsiasi tentativo di salvare l’università italiana che non sia fondato su un ruolo propulsivo e responsabile del centro del sistema non avrebbe nessuna speranza di successo», sottolinea Turri, professore ordinario di Economia aziendale all’Università Statale di Milano e studioso di sistemi universitari. Serve una gestione centralizzata, dunque, per impedire tra le altre cose che aumenti la sperequazione territoriale e la conseguente concentrazione degli studenti in sole cinque grandi città. «Oggi, in Lombardia, il 36 per cento degli iscritti proviene da fuori Regione. È un fenomeno in crescita», aggiunge Turri. Un altro punto cruciale riguarda le disuguaglianze di classe, peggiorate negli ultimi quindici anni: oggi, per le famiglie a basso reddito, mantenere un figlio all’università fuori sede è diventato quasi impossibile.

Senza contare che negli ultimi anni sono cresciuti in maniera importante gli iscritti agli atenei telematici, spesso a detrimento delle piccole università. «Rafforzare il centro non vuol dire che gli atenei decentrati siano di qualità inferiore. Il problema non è la quantità di sedi, la Gran Bretagna ad esempio ne ha di più. Ma bisogna farle lavorare meglio», precisa il docente, che tuttavia nel saggio indica alcuni difetti dell’eccessivo localismo. I tre autori criticano la proliferazione dei corsi di studio, che si rivela come «l’esito di negoziazioni tra gruppi di accademici e solo in subordine è stata orientata verso obiettivi formativi coerenti». E, ancora, «molti atenei assecondano le ambizioni delle élite politiche locali e aprono sedi decentrate in assenza di adeguati investimenti e di garanzie sulla loro sostenibilità».

Il divario tra ricchi e poveri passa anche attraverso la capacità di acquistare materiali didattici di qualità. Oltre alle tasse universitarie e al costo della vita, i libri sono una delle voci critiche del budget degli studenti.

«Il bonus cultura da 500 euro per i diciottenni, che ora è stato abolito, è stato ampiamente utilizzato per comprare testi universitari malgrado non fosse il suo scopo principale», afferma Maurizio Messina, vicepresidente dell’Associazione italiana editori (Aie) e responsabile del gruppo accademico-professionale, che comprende 108 case editrici. Una fetta consistente, più di un quarto, del mercato del libro in Italia. Messina sottolinea come, in un mondo in cui le risorse si restringono, a rimetterci è anche la qualità dei materiali didattici.

Di recente i rappresentanti dell’Aie hanno incontrato i vertici del Mur per avanzare una proposta a sostegno delle famiglie meno abbienti per l’acquisto dei libri, che rischia di diventare un ulteriore deterrente. «Tra gli studenti, sui canali Telegram o nei gruppi WhatsApp, proliferano materiali raccogliticci», conclude Messina: «Non solo fotocopie ma veri e propri patchwork tra pezzi di lezione e appunti, dove è difficilissimo individuare le parti coperte dal diritto d’autore. C’è grande attenzione alla ricerca, molto meno alla didattica».

Selvaggia Lucarelli contro il ministro Lollobrigida: "Vuole i giovani nei campi ma si è laureato dal divano di casa". L'affondo della giornalista. La Repubblica il 4 Aprile 2023

"Ma quindi Il ministro Lollobrigida, quello per cui anziché stare sul divano col reddito di cittadinanza i giovani dovrebbero andare nei campi, si è laureato dal divano di casa all'università telematica Cusano". Affondo di Selvaggia Lucarelli su twitter contro il ministro dell'Agricoltura Francesco Lollobrigida che da Verona, inaugurando la 55esima edizione di Vinitaly, aveva invitato "chi ha reddito di cittadinanza a lavorare in agricoltura".

"C'è bisogno di immigrazione legale e il primo nemico è quella illegale e c'è bisogno di combattere i clandestini", aveva detto Lollobrigida. Ad ora il governo non sta pensando alla riapertura del decreto flussi ma in futuro "c'è la volontà di organizzarli seriamente cercando di rapportarci con le nazioni di provenienza dei migranti, facendo informazione e formazione ma prima di fare questo dobbiamo mettere tutti gli italiani che sono in condizione di lavorare di farlo perché voglio lanciare una messaggio chiaro lavorare in agricoltura non è svilente". Poi, tra gli applausi, aveva aggiunto: "Lo dico a chi è sul divano mentre prende il reddito di cittadinanza".

Assurdo attacco di Lucarelli a Lollobrigida: “Giovani nei campi? Tu laureato dal divano di casa”. Il Tempo il 04 aprile 2023

Si scatena la polemica a distanza tra Selvaggia Lucarelli e il ministro dell'Agricoltura Francesco Lollobrigida. L’esponente del governo Meloni, durante la 55esima edizione di Vinitaly, aveva invitato “chi ha reddito di cittadinanza a lavorare in agricoltura”. Una frase che è stata colta come spunto dalla giornalista de Il Fatto Quotidiano per attaccarlo sul suo curriculum: “Ma quindi Il ministro Lollobrigida, quello per cui anziché stare sul divano col reddito di cittadinanza i giovani dovrebbero andare nei campi, si è laureato dal divano di casa all'università telematica Cusano”.

Lucarelli ha quindi dileggiato il ministro per una laurea telematica (pubblicando lo screenshot del curriculum), prendendosi però una valanga di rimproveri sui social. Questi alcuni dei numerosi commenti apparsi, che smontano del tutto il messaggio su Twitter della giurata di Ballando con le Stelle: “Io sono uno studente della Cusano e garantisco impegno e professionalità da parte dell’ateneo ma capisco anche i luoghi comuni itagliani che se non sei laureato alla Sapienza vali 0. Ogni tanto un po’ di rispetto ci vorrebbe”, “Embé? È consentito farlo, quindi non trovo nulla di strano. Mio figlio è costretto a seguire le lezioni da casa (non ti sto a spiegare il motivo) ha media 29. Problemi?”, “Però sminuire l’università telematica non è cosa buona, durante la pandemia sono state molto utili”, “La laurea si ottiene studiando sui libri.. puoi farlo sul divano, sulla sedia o sdraiato su un prato.. l'importante è arrivare alla fine a sapere le cose che si son studiate..”, “Sminuire le università online non mi sembra il giusto approccio... Molte non hanno nulla da invidiare a polverosi istituti tradizionali, e soprattutto vanno incontro a chi non ha la possibilità di farsi mantenere 5 anni dai genitori per studiare”. Un vero e proprio autogol.

Estratto dell'articolo di Corrado Zunino per “la Repubblica” il 24 gennaio 2023. 

[…] in Italia mancano gli insegnanti di Matematica (e di Fisica, Chimica, Informatica) e il reclutamento degli insegnanti non funziona: «Ripartiamo dalla motivazione e dall’attitudine di chi vuole fare questo lavoro», dice il preside Ludovico Arte.

 È così. L’Italia, nel suo affastellamento di percorsi formativi per costruire un insegnante — Ssis, Tfa, Fit, crediti in surplus —, è riuscita a diventare un Paese ostile alle matematiche. […] I numeri sono evidenti, e da emergenza. La percentuale di giovani tra i 16 e i 19 anni con competenze digitali base o superiori è il 64 per cento del totale. Un buon numero? Siamo penultimi in Europa, davanti a Romania e Bulgaria. E siamo penultimi nelle competenze digitali sulla “soluzione dei problemi”. La questione si riversa […] sulla preparazione dei futuri insegnanti: all’ultimo concorso per docenti Stem (le discipline dure della scienza) il 90 per cento dei candidati non ha superato lo scritto.

«Da vent’anni non esiste un percorso di formazione di scuola secondaria e questo determina l’abbassamento del livello dell’insegnamento matematico», dice la professoressa Melloni. «Dobbiamo occuparci del reclutamento, oggi fumoso, valorizzare i docenti in servizio e il loro salario. È una catena, e si è spezzata da vent’anni. […] Tra gli studenti è rimasta intatta la voglia di insegnare, ma sono spaventati dalle prospettive. Oggi un laureato in Fisica e Matematica, […] dovrebbe conoscere una specializzazione parallela sulla Didattica delle discipline: cosa significa insegnare quel contenuto. E poi, una volta in cattedra, scegliere un metodo.[…]».

L’ex ministro dell’Istruzione, Francesco Profumo, spiega che oggi al corso di laurea in Matematica un diplomato preferisce percorsi affini con inclinazioni digitali o ambientali e applicazioni visibili: […]«con una generazione dal sapere più veloce e superficiale la Matematica è vissuta come un mondo duro e invasivo del privato. Non sono tempi in cui l’impegno è al primo posto nei pensieri dei ragazzi».

Claudia Osmetti per “Libero quotidiano” il 29 Dicembre 2022.

Si tratta di una decisione (con tanto di avvallo del Tar, al secolo il tribunale amministrativo regionale) che rischia di diventare un precedente. E pure per molti. La laurea da dentista conseguita a Iasi, in Romania, può non essere riconosciuta dall'università di Bari, in Puglia, perché ci sarebbero «notevoli difformità» tra i due percorsi formativi. Tutto nasce quando un ragazzo, che la corona d'alloro se l'era già messa, qualche anno fa, nel Paese dell'Est, chiede all'ateneo barese l'equipollenza del proprio titolo di studio. 

Cioè chiede, in soldoni, che quel pezzo di carta sudato (e studiato) all'estero venga accettato anche in Italia. Si è laureato, lui, in Medicina dentale, prima ancora aveva seguito alcuni corsi ad Odessa, in Ucraina, ed è persino stato ammesso a un master di secondo livello in Chirurgia orale avanzata. Insomma, un curriculum (almeno sulla carta) di tutto rispetto.

Epperò la direzione Offerta formativa dell'università barese sceglie di non accogliere la sua richiesta, dice che i due corsi di studio «non sono sovrapponibili» e rimanda la decisione finale al Tar. Che la sposa in pieno, con la stessa identica motivazione. Il corso di laurea in Odontoiatria, da noi, prevede la frequenza obbligatoria, prevede attività di carattere professionale e prevede tirocini mirati. Tutti insegnamenti che il ragazzo non ha, invece, indicato nel suo piano di studi: motivo per cui, ora, a Bari, lui non potrà frequentare un anno che non sia il primo. O si immatricola o niente.

Può sembrare una storia appesa, un caso su tanti: ma così non è. A chiarirlo è lo stesso rettore dell'università di Bari, Stefano Bronzini: «Questa sentenza», racconta sulle pagine locali di Repubblica, riferendosi alla disposizione del Tar, «è importante perché ribadisce un principio che potrà essere applicato anche ad altri contesti». Le lauree all'estero, le "lauree facili" (come si chiamano, non senza un pizzico di malizia), le lauree prese laddove è più semplice accedere ai corsi, magari perché non ci sono i test di ingresso e i requisiti per l'ammissione sono più bassi rispetto ai nostri. 

È un fenomeno tutt' altro che marginale. Solo a Bari, e solo quest' anno, ossia nel 2022, sono circa cinquecento (468, per essere precisi) gli studenti che hanno chiesto di trasferirsi a studiare in Puglia e di farlo in una classe avanzata (quindi non la prima): a disposizione, però, ci sono solo otto posti.

E ad andare a spulciare i dati del dopo, del mondo del lavoro, s'incappa nella stessa questione: già nel 2017 la Fnomceo, la Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurgi e odontoiatri, constatava come circa il 40% dei suoi iscritti avesse studiato non in una delle 97 istituzioni universitarie dello Stivale, ma altrove. Fuori. Lontano da casa. Il 40% è un numero significativo, vuol dire quasi un rapporto di uno a uno e non è nemmeno una combinazione che queste statistiche siano state prodotte dai camici bianchi.

È Medicina, da sempre, la facoltà più impegnativa, quella per cui, da noi, c'è una selettiva prova d'ingresso che mediamente, ogni anno, rimanda sei aspiranti su sette. E cosa si fa, allora? Alcuni scelgono percorsi di studio affini, come Farmacia, nella speranza di ritentare i test l'anno successivo. Altri scelgono un periodo all'estero, per fare lo stesso e, se proprio va male ancora, per conseguire un certificato che potrebbe (ma da ora non è detto) essere equiparato a quelli italiani.

Non solo Romania, tuttavia: anche Slovacchia, Albania, Bulgaria. E non solo Medicina, ma anche Giurisprudenza: l'abilitazione alla professione forense, in Spagna, è considerata più semplice, persino più veloce (zompa a piè pari i due anni di praticantato in uno studio legale che, qui, sono obbligatori) e ci sono diversi siti che spiegano nei dettagli come non perdersi tra i cavilli burocratici.

Dopodiché tocca essere chiari, il riconoscimento delle lauree estere, in Italia, non è automatico né tantomeno scontato. Il Miur, il ministero dell'Università, sul suo sito raccoglie tutti i dettagli e le procedure necessarie: come sempre, è un dedalo di documenti e passaggi amministrativi. Ma ci mancherebbe il contrario: ogni anno il Cimea, che poi è il Centro di informazione sulla mobilità e le equivalenze accademiche, viene sommerso da qualcosa come 20mila richieste, mica son poche. È per questo che la decisione del tribunale amministrativo della Puglia potrebbe avere un peso (e un peso importante) in tantissimi casi analoghi a quello del dentista formatosi in Romania.

Assenteisti.

La scuola sgarrupata.

La scuola per pastori.

I Compiti.

Le Vessazioni.

Le Aggressioni.

Fallimenti e suicidi.

La maleducazione.

Lo Smartphone in classe.

Assenteisti.

"20 anni di assenze su 24": scatta la stangata contro la prof assenteista. La professoressa di storia e filosofia ha accumulato un ingente quantitativo di assenze nella sua carriera, e in classe ha dimostrato tutte le sue lacune: la Cassazione conferma il provvedimento di destituzione. Federico Garau il 25 Giugno 2023 su Il Giornale.

20 anni di assenze su 24 di servizio: per la professoressa di storia e filosofia arriva il provvedimento di destituzione. Il caso a Chioggia, in provincia di Venezia.

Cosa è successo

Il fatto alcuni anni fa. Era stata la dirigente di una scuola secondaria di Chioggia a segnalare il caso al Miur (ministero dell'Istruzione e del Merito), sollecitando dei controlli. Gli ispettori del Miur avevano effettuato tre giorni di ispezione, riscontrando delle effettive anomalie. Sposata con un ufficiale della Guardia di Finanza, la docente era destinataria di assegnazioni annuali. Tante le ore di assenze in 24 anni di carriera, addirittura 20. La donna aveva provato a tornare in cattedra, ma le sue lacune erano purtroppo risultate evidenti. In soli quattro mesi continuativi di lezione, la professoressa era stata oggetto di lamentele da parte degli stessi studenti, che avevano parlato di impreparazione e casualità nell'assegnazione delle valutazioni. Non solo. I ragazzi avevano raccontato che l'insegnante si presentava in classe senza portare neppure i libri di testo indispensabili per le lezioni.

Un quadro davvero negativo, che aveva infine fatto scattare l'ispezione ministeriale, avvenuta nel marzo 2013. Secondo i tre inviati del Miur la docente aveva effettivamente presentato delle modalità "incompatibili con l'insegnamento". Il Miur aveva inoltre constatato una scarsa cura nel preparare le lezioni, ed evidenziato anche altre lacune. Da qui la decisione di procedere nei confronti della professoressa, che però aveva presentato ricorso.

La decisione della Cassazione

In questi giorni la delibera della Cassazione. Nel tentativo di difendersi, la docente aveva cercato di appellarsi alla libertà di insegnamento, e nel 2018, in primo grado, il tribunale aveva dichiarato illegittimo il provvedimento. La controversia, però, è andata avanti.

I giudici della Cassazione non le hanno dato ragione, confermando il provvedimento di destituzione nei suoi confronti, già stabilito nel 2021 dalla Corte di Appello di Venezia nel 2021. L'insegnate è stata accusata di "inettitudine permanente e assoluta". Il ricorso della donna è stato respinto dalla Cassazione, in quanto "la liberà di insegnamento in ambito scolastico è intesa come autonomia didattica diretta e funzionale a una piena formazione della personalità degli alunni, titolari di un vero e proprio diritto allo studio".

Non vi è dunque, sottolinea la Suprema Corte, una libertà fine a se stessa. Libertà di insegnamento, si legge nella sentenza 17897 della Sezione Lavoro riportata da Ansa, "non significa che l'insegnante possa non attuare alcun metodo o che possa non organizzare e non strutturare le lezioni".

Nei tre giorni di controllo, gli ispettori del Miur avevano registrato tante problematiche, come scarsità d'attenzione e uso continuo del cellulare. Elementi che non hanno ovviamente convinto a dare fiducia alla docente.

Estratto da open.online il 26 giugno 2023.

«Inettitudine permanente e assoluta». Questo il giudizio definitivo della Cassazione sul caso di una professoressa di storia e filosofia di una scuola superiore a Chioggia (Venezia) che è stata assente per un totale di 20 anni su 24 complessivi di servizio. 

La docente aveva fatto ricorso contro il ministero, ma gli ermellini hanno confermato che la sua destituzione dall’attività di insegnamento è legittima. Il suo licenziamento non sarebbe causato solo dal lungo periodo di assenza, ma anche dalle sue modalità di fare lezione, definite dal ministero «incompatibili con l’insegnamento».

L’inizio della storia risale al marzo 2013, quando il Miur invia tre ispettrici per osservare e valutare i metodi impiegati in classe dalla professoressa. Il giudizio è lapidario: «Assenza di criteri sostenibili nell’attribuire voti, non chiarezza e confusione nelle spiegazioni, improvvisazione, lettura pedissequa del libro di testo preso in prestito dall’alunno, assenza di filo logico […], attribuzione di voti in modo estemporaneo ed umorale, pessima modalità di organizzazione […]». Dopo l’ispezione ministeriale la donna viene destituita dal suo incarico, ma prova a far valere le proprie ragioni per via giudiziaria.

Nel 2018, la sentenza del tribunale di primo grado, che dà ragione alla donna e dichiara illegittimo il provvedimento di destituzione. Nel 2021, la Corte d’appello di Venezia ribalta il verdetto. Infine, proprio in questi giorni, il parere decisivo della Cassazione, che conferma la legittimità del suo licenziamento.

Per tutto l’iter giudiziario la donna ha rivendicato il concetto di «libertà di insegnamento».  Una strategia che sembra non aver convinto i giudici della Cassazione: «La liberà di insegnamento in ambito scolastico – scrivono gli «ermellini» – è intesa come autonomia didattica diretta e funzionale a una piena formazione della personalità degli alunni, titolari di un vero e proprio diritto allo studio».

In altre parole, aggiungono i giudici, libertà di insegnamento «non significa che l’insegnante possa non attuare alcun metodo o che possa non organizzare e non strutturare le lezioni». Pare che alla donna siano state assegnate annualmente le cattedre nella scuola di Chioggia in quanto moglie di un ufficiale della Guardia di Finanza che lavora nella zona. […] Dal rapporto del ministero emerge inoltre che la docente «non aveva con sé il libro di testo» delle materie che insegnava. Di conseguenza, spesso «lo prendeva in prestito temporaneo dagli alunni».

Estratto dell’articolo di Viola Giannoli per repubblica.it il 26 giugno 2023.

Mentre le agenzie battevano la notizia della sentenza della Cassazione che la destituiva dall’insegnamento, la prof assenteista, contattata per una replica, rispondeva: “Scusate, ma ora sono al mare”. Forse perché era domenica o forse perché non poteva andare diversamente per una storia che, come emersa sin qui, ha dell’incredibile. 

Perché Cinzia Paolina De Lio, docente di Storia e Filosofia, classe ‘57, originaria di Reggio Calabria, ma passata per i licei di Chioggia, in provincia di Venezia, e di Trieste, dove ha insegnato pure alla Scuola allievi della polizia, è stata assente per vent’anni su ventiquattro di servizio. 

E nei soli quattro mesi consecutivi che avrebbe trascorso in cattedra si sarebbe distinta perché “impreparata” e “confusa” nelle spiegazioni, “disattenta” durante le interrogazioni, “imprecisa” nel preparare i programmi e “casuale” nell’assegnazione dei voti.

[…]  “Ricostruirò la Verità dei fatti di questa vicenda assolutamente unica e surreale”, promette ora De Lio, che vuole “gestire personalmente l’aspetto mediatico della vicenda” in quanto giornalista pubblicista, oltre che “diplomata in pianoforte, tre lauree, specializzata in nuove tecnologie e autonomia scolastica”, con “perfezionamento in criminologia, pet therapy, storia della medicina, parassitologia del territorio, disturbi specifici dell’apprendimento, igiene mentale dell’adolescenza". 

Contattata da Repubblica aggiunge: “Non rispondo a domandine di giornalisti buttate qua e là che non renderebbero giustizia all’affermazione della Verità in merito alla mia vicenda, unica in senso assoluto. Sono disponibile, ovviamente, a trasmettere ai colleghi che me lo chiederanno atti e documenti utili”. […]

Estratto dell’articolo di Viola Giannoli per “la Repubblica” il 27 giugno 2023.

Se nell’«incapacità didattica» e nell’«inettitudine permanente e assoluta» stanno le ragioni uniche del licenziamento della prof fantasma, ci vuole forse anche una certa abilità per sparire per quasi vent’anni. E Cinzia Paolina De Lio, l’insegnante di Storia e filosofia di liceo destituita il 22 giugno da una sentenza della Cassazione per «incompatibilità con l’insegnamento », qualcuna di queste abilità deve averla messa in campo.  Documentata e certificata, come alcune difficoltà personali che ne disegnano una biografia complessa.

De Lio, 56 anni, originaria di Reggio Calabria, vince un concorso e diventa docente di ruolo alle superiori nel 2001. Da lì passa prima per l’istituto magistrale di Polistena (Reggio Calabria), poi per il liceo scientifico Galilei a Dolo (Venezia), per il Veronese di Chioggia (sempre Venezia), per il Carducci di Trieste. Trasferimenti e assegnazioni provvisorie annuali, anche per via della sicurezza personale del suo convivente, ufficiale della Guardia di Finanza.

Ebbene, nei vent’anni che vanno dal primo settembre del 2001 al 30 giugno del 2021 la prof colleziona 67 certificati di assenza per malattia che la portano lontano dalla cattedra, si legge anche nella sentenza della Cassazione, da 40 a 180 giorni l’anno, interrotti solo da piccole pause. 

E ancora: 2 assenze per infortuni sul lavoro, 16 permessi per motivi personali, 3 interdizioni dal lavoro per tutela della salute, i congedi di maternità e allattamento, alcune assenze per malattia del bimbo piccolo, 7 periodi di congedi parentali retribuiti, 24 congedi e permessi per assistere familiari portatori di handicap gravi, 5 esoneri giornalieri per la partecipazione a corsi di aggiornamento e formazione.

Più di cento giustificazioni in totale. Che collegate alla sospensione delle lezioni, tra festività, ferie natalizie ed estive, hanno ridotto l’attività didattica di una lunga carriera a un gruzzoletto di insegnamenti di circa quattro anni. 

Giudicati, per di più, «improvvisati », «disattenti», «carenti», «imprecisi », «casuali». «Assenze abnormi », scrive la Corte, […] . Ma così episodica è la sua presenza a scuola che l’ispezione comandata dal ministero dell’Istruzione per pochi mesi nel 2015 e nel 2016 al liceo di Chioggia dopo le proteste nella scuola viene ritenuta più che sufficiente ad appurare se il suo metodo di insegnamento sia idoneo o meno. 

Le continue assenze della prof finiscono pure al centro di uno sciopero studentesco: una trentina di ragazzi del liceo Veronese si ritrovano a manifestare perché la docente diserta le lezioni di settimana in settimana. […]

Nel frattempo però De Lio prende tre lauree, si diploma in pianoforte, colleziona diplomi di specializzazione e perfezionamento annuali e biennali in autonomia scolastica, storia della medicina, parassitologia del territorio, pet therapy, criminologia, nuove tecnologie, disturbi dell’apprendimento. 

Scrive su riviste online come giornalista pubblicista, partecipa a convegni, prende parte a seminari e frequenta corsi di aggiornamento sulla storia degli ospedali o la dispersione scolastica. Un gran bagaglio di conoscenze che allunga il suo ricco curriculum e che però in cattedra non porta quasi mai.

Nel 2017 arriva la sospensione per «incapacità didattica». La prof viene reintegrata un anno dopo dal tribunale di Venezia. E di nuovo destituita nel 2021 dalla Corte d’appello. Non è finita qui: nel 2009 c’era stato un altro provvedimento di sospensione con il trasferimento a mansioni di ufficio e la nomina di un supplente al suo posto.

Era stata la stessa prof De Lio a denunciare l’episodio come un’ingiustizia e uno spreco di denaro visto che nello stesso istituto due insegnanti erano stipendiati per lo stesso lavoro ma solo l’altro, il supplente, poteva fare lezione. 

La prof lo aveva raccontato in un articolo apparso su una rivista online per rispondere indignata a Gian Antonio Stella che in quei giorni sul Corriere della Sera pubblicava i dati sull’assenteismo dei docenti […]. De Lio replicava elencando i trasporti carenti, le strade pericolose,[…]  le carenze delle scuole della sua terra. Per concludere che «l’insegnante calabrese che lavora al Nord non ha motivo di assentarsi ». Salvo eccezioni, come la sua.

E’ da qui partono i commenti razzisti dei soliti noti non nuovi ad uscite di questo genere.

Quando la prof di Chioggia assenteista rispondeva al Corriere sui docenti malati o lavativi: «Colpa dell'Aspromonte». Elisa Messina su Il Corriere della Sera il 26 giugno 2023.

«Il  fattore ambientale crea  la discriminante relativa al tasso di presenze a scuola dei docenti». Così, in un articolo del 2011 la prof Cinzia Paolina De Lio replicava a Gian Antonio Stella sui dati dell'assenteismo in Calabria  

Cinzia Paolina De Lio, 56 anni

«Replico da giornalista, come lui, che a differenza sua non ha mai vissuto nell’Iperuranio Platonico, ma si è sempre guadagnata il pane facendo l’insegnante». Presentandosi così, da giornalista, la professoressa calabrese Cinzia Paolina De Lio, in un articolo pubblicato su una rivista on line nel 2011, iniziava una puntuta replica a Gian Antonio Stella («lui») che in quei giorni, sul Corriere, aveva pubblicato un articolo sui dati dell'assenteismo dei docenti dal titolo: «Prof malati, a Reggio Calabria il triplo che ad Asti». Seguiva un’argomentata difesa degli insegnanti di Reggio Calabria e dei loro maggiori ostacoli (anche geografici) rispetto a quelli dei colleghi astigiani. Niente di strano se non fosse che l'insegnante/giornalista autrice è la docente di Chioggia che è stata in questi giorni destituita dal suo incarico dopo una lunga battaglia legale perché su 24 anni di servizio complessivo, non si era recata sul posto di lavoro per ben 20 anni tra assenze e lunghi periodi in malattia.

L'articolo

L’articolo del Corriere partiva da un dato pubblicato in quel periodo nel dossier di Tuttoscuola:  in media i docenti reggini si ammalano 12,8 giorni l'anno. Tre volte e mezzo di più dei colleghi astigiani: 3,6. «Prova provata che, anche dopo la tremendissima offensiva brunettiana contro i fannulloni, la svolta sull' assenteismo è ancora lontana», osservava Stella riferendosi all’allora ministro della Pubblica Amministrazione (governo Berlusconi IV) e alla sua storica battaglia contro l’assenteismo dei dipendenti pubblici. 

La differenza e il fattore ambientale

La  prof De Lio, non potendo replicare sui numeri, che non sono un’opinione, rispondeva elencando le enormi differenze tra le vite di un insegnante che lavora ad Asti e uno che lavora a Reggio in termini di trasporti carenti, collegamenti stradali pericolosi (La Salerno Reggio Calabria e la statale 106, «la superstrada della morte») avversità metereologiche e anche geografiche («Si dà il caso che al centro della provincia di Reggio Calabria insista quel monumento geologico che chiamasi “Aspromonte”»). Per non parlare poi delle carenze delle strutture scolastiche calabresi. Insomma, tutte queste dificoltà «fanno sì che l’insegnante calabrese che lavora in Piemonte non abbia motivo di assentarsi» mentre quello che lavora al sud di motivi ne ha parecchi. Dunque «è  il “fattore ambientale” a creare la discriminante relativa al tasso di presenze a scuola dei docenti». Questa la conclusione di De Lio, che precisa di scrivere e argomentare non solo da insegnante ma anche da filosofa e da giornalista autrice di articoli su pubblicazioni «a tiratura nazionale».

La sospensione

Aldilà dell'efficacia o meno degli argomenti usati per difendere gli (eroici) insegnanti del Sud, in questo lungo articolo-requisitoria, la docente racconta anche la sua esperienza personale di docente, quando, dopo il trasferimento dal Sud a Trieste, sì è trovata a «subire» un procedimento di sospensione dalla cattedra con trasferimento all’ufficio scolastico provinciale: «Dal giorno 11 settembre 2009 fino al 12 maggio 2010 io sono stata rimossa dal mio incarico, sono stata retribuita, al mio posto è stato nominato un supplente anch’esso (ho da presumere) retribuito». La prof non si spiega e non ci spiega il perché di questa sospensione ma aggiunge che nel periodo di lavoro in ufficio aveva mansioni che non corrispondevano al suo status giuridico, quindi era sottoimpiegata. 

Ne seguì un giro di ricorsi finché non venne nuovamente mandata alla scuola da quale veniva ma «a disposizione». Insomma, una vicenda di ingiustizia, a suo dire, che dimostrava spreco di denaro pubblico, visto che nella stessa scuola due docenti erano stipendiati per lo stesso lavoro: lei e il supplente, ma solo il secondo insegnava.

La Cassazione

Ora, tutta questa vicenda, se riletta alla luce della decisione attuale della Corte di Cassazione di confermare la destituzione della prof De Lio dal ruolo di insegnante, potrebbe prestarsi a ben altra interpretazione. La docente, infatti, è stata sollevata dall’incarico dal Miur (atto confermato dalla Cassazione) per la «assoluta e permanente inettitudine alla docenza» riscontrata dopo un’ispezione condotta nel 2015 e nel 2016 nella scuola dove lavorava. Nel rapporto degli ispettori si parla di disattenzione, disorganizzazione, «assenza di filo logico» nelle lezioni, confusione nelle spiegazioni e «assenza di criteri oggettivi nell’attribuire voti e la pessima modalità di organizzazione e predisposizione delle verifiche».

Raggiunta dai giornalisti la prof garantisce ora di voler fornire atti e documenti che spiegheranno tutto. E soprattutto di voler seguire personalmente l’aspetto mediatico della vicenda. Da giornalista e filosofa quale è.

Gian Antonio Stella: «La professoressa licenziata danneggia soprattutto i suoi colleghi, esposti a riprovazione che non meritano».  Il commento del giornalista a cui la professoressa di Chioggia, assente 20 anni su 24 e poi destituita, aveva risposto nel 2011. Gian Antonio Stella / CorriereTv su Il Corriere della Sera il 27 giugno 2023.

La professoressa che è appena stata licenziata aveva risposto ad un articolo che avevo fatto nel 2011 in cui parlavo di uno studio in cui si diceva che gli insegnanti, soprattutto calabresi, avevano un tasso di assenza triplo rispetto agli altri. Non era un’accusa alla dottoressa, ma lei si sentì punta sul vivo. E mandò una lettera in cui se la prendeva con tutti.

Ma quello che indigna l’opinione pubblica è che c’è una impunità sostanziale perché di ricorso in ricorso alla magistratura si finisce per rinviare le sentenze definitive attraverso i trucchi più impensabili che danneggiano soprattutto i tantissimi insegnanti meridionali che lavorano anche al nord, e che lo fanno bene guadagnandosi stima affetto e considerazione degli italiani. Questa professoressa danneggia soprattutto loro e i suoi colleghi che lavorano al Sud che vengono esposti ad una pubblica riprovazione che non meritano»

E i prof reggini si ammalano più del triplo degli astigiani.

Gian Antonio Stella su Il Corriere della Sera il 7 maggio 2011.

L’ aria dello Stretto fa male ai professori? Non puoi non farti questa domanda davanti ai dati dell’ ultimo rapporto di Tuttoscuola: in media i docenti reggini si ammalano 12,8 giorni l’ anno. Tre volte e mezzo di più dei colleghi astigiani: 3,6. Prova provata che, anche dopo la tremendissima offensiva brunettiana contro i fannulloni, la svolta sull’ assenteismo è ancora lontana. Sono impressionanti, alcuni dei dati contenuti nel dossier del mensile diretto da Giovanni Vinciguerra. A partire, appunto, da quelli sulla salute più o meno cagionevole di chi nella scuola lavora. Dove emerge in modo netto quanto forti siano ancora le differenze fra il Nord e il Sud del Paese. Spiega infatti lo studio di Tuttoscuola, il quale segue a distanza di quattro anni il primo rapporto, che «in tutti i gradi di scuola – vale a dire in quattro universi statistici distinti (docenti di scuola dell’ infanzia, primaria, secondaria di I e II grado) – i docenti che fanno meno assenze per malattia sono sempre quelli del Piemonte (dove peraltro operano molti professori di origine meridionale). Quelli che ne fanno di più – anche qui ripetutamente in tutti i gradi di scuola – sono invece quelli della Calabria, che si assentano dal servizio più del doppio dei colleghi piemontesi. In particolare, i più virtuosi sono i docenti delle scuole superiori della provincia di Asti (3,6 giorni medi all’ anno di assenza per malattia). I meno virtuosi, o appunto i più cagionevoli di salute, cioè quelli che si assentano di più per malattia, sono quelli delle scuole superiori della provincia di Reggio Calabria (12,8 giorni medi all’ anno pro capite)». Quanto al personale Ata (amministrativo, tecnico e ausiliario) e cioè i bidelli, le segretarie e così via, «la provincia con meno assenteismo è quella di Cuneo (7,5 giorni all’ anno), quella con più assenteismo per motivi di salute quella di Nuoro, che sfiora (in media) i 15 giorni (Reggio Calabria è subito dietro con 14,5 giorni)». Parliamo di giorni lavorativi: «giusto tre settimane all’ anno a letto, che si sommano a ferie (che come si sa per i docenti, complice la chiusura estiva delle scuole, sono particolarmente lunghe), festivi, Santi patroni e nel 2011 anche al centocinquantenario dell’ Unità d’ Italia». Alle scuole materne la situazione non cambia molto: cinque giorni d’ assenza media l’ anno a Piacenza, 16,9, e cioè più del triplo, a Vibo Valentia. Numeri che offendono tutti quei maestri, bidelli, professori che quotidianamente si spendono con generosità per mandare avanti la scuola nonostante le delusioni, gli stipendi ingenerosi, le carenze infrastrutturali, la perdita di peso e di status nella società. Ma offendono soprattutto i maestri, i bidelli, i professori del Mezzogiorno che cercano di arginare con la loro dedizione e la loro professionalità i buchi lasciati dai colleghi furbetti e vengono ingiustamente esposti dalle statistiche al pubblico sconcerto, alla pubblica riprovazione. Non è solo in questa tabella, tuttavia, che la Calabria svetta in cima alle classifiche. Ma anche, per esempio, in quella dei voti più alti dati ai maturandi. Spiega infatti il dossier della rivista, sotto un titolo ironico («quasi geni a Vibo Valentia») che nel Vibonese «si registra alla maturità una delle più alte percentuali di studenti promossi con il massimo dei voti e la più bassa percentuale di studenti promossi con il minimo dei voti». Tanto per capirci: il 33,6% dei diplomati può mettere in bacheca un 100 o addirittura un 100 e lode. Una percentuale molto più alta della media nazionale (23%) ma addirittura tripla rispetto a quella della provincia di Varese. Domanda: è mai possibile che tutti i cervelloni si erano concentrati nel Vibonese e tutti i somari nel Varesotto? Come è possibile prendere sul serio un dato come questo se viene drammaticamente smentito, ad esempio, dai rapporti Pisa (Programme for international student assessment) dell’ Ocse che ogni tre anni valutano la preparazione degli studenti quindicenni di tutto il mondo? E’ una malizia immaginare che a Vibo Valentia i docenti usino un metro di misura diverso da quello usato a Varese? La tendenza, del resto, è uguale a livello di macroaree: i «bravissimi» premiati con il 100 o il 100 e lode sono nel Sud il 25,8%, nel Nord-Ovest il 18,7: quasi un terzo di meno. Sul piano regionale, le differenze sono ancora più marcate: gli studenti che escono con il massimo dei voti dagli istituti superiori calabresi sono il 30,4%. Da quelli lombardi la metà: 16,6%. Uno squilibrio totale che lo stesso rapporto di Tuttoscuola sottolinea: numeri alla mano, c’ è da scommettere che si aprirà «un vivace dibattito sui criteri e sui metodi di valutazione degli studenti». Così come c’ è da scommettere che, accanto al sollievo per il netto miglioramento in molti indicatori delle scuole del Mezzogiorno, le quali negli ultimi quattro anni hanno fatto segnare progressi proporzionalmente superiori a quelli del Nord, altre polemiche potrebbero scoppiare per i dati sulla precarietà. Dove emergono differenze altrettanto abissali. Spiega il rapporto a pagina 86: «La precarietà è di casa al Nord, mentre è molto più attenuata al Sud e nelle Isole». Qualche esempio? Solo 5,6% di docenti precari nella scuola dell’ infanzia statali al Sud e 18,9 nel Nord-Est, solo 3,2 nelle primarie al Sud e 16,2 nel Nord-Ovest, 24,5% tra insegnanti di sostegno al Sud e 56,2 al Nord-Est. E così via… Una tendenza costante: «tra le province hanno fatto registrare una condizione di bassa precarietà Agrigento, Caserta e Lecce, mentre all’ opposto, si trovano in fondo a questa poco invidiabile graduatoria Bologna e Modena. Negli ultimi 15 posti di questa graduatoria complessiva della precarietà si trovano 6 delle 9 province emiliano-romagnole e 5 delle 11 province lombarde». Il dato più preoccupante, tuttavia, è probabilmente quello sull’ abbandono scolastico: «Ancora una volta Sardegna, Sicilia e Campania registrano le più alte punte di dispersione scolastica, perdendo per strada – negli istituti tecnici – circa quattro ragazzi ogni dieci iscritti al primo anno». Eppure il dato che «sembra destinato a fare sensazione», perché inaspettato, «è quello che attribuisce alla provincia di Novara la palma del maggior abbandono scolastico: il 36,3 per cento degli iscritti, alla fine del quinquennio dei licei classici e degli istituti ex magistrali, e il 46,8 per cento alla fine del biennio iniziale degli istituti professionali». Una ecatombe. Soprattutto se i numeri vengono «paragonati con quelli delle province più virtuose: Perugia perde per strada solo l’ 1,6 per cento degli studenti, alla fine del biennio iniziale degli istituti professionali. Alla fine del biennio iniziale degli istituti tecnici a Campobasso si ritirano l’ 1,8% dei ragazzi, a Novara – che ha anche qui il record negativo nazionale – il 30,1%». Agghiacciante. Tanto più in un mondo dove i ragazzi non hanno alternative: o si mettono in concorrenza con gli ingegneri, i manager, i ricercatori stranieri per i posti di un livello più alto oppure con la manovalanza extracomunitaria per i lavori meno pagati. Tertium non datur. Ma possiamo pretendere che sappiano due parole di latino?

La sfortuna di trovarsi nella scuola sbagliata. L'ALIENO su oltreimuri.blog il 26 giugno 2023.

“Replico da giornalista, come lui (Gian Antonio Stella), che a differenza sua non ha mai vissuto nell’Iperuranio Platonico, ma si è sempre guadagnata il pane facendo l’insegnante…”

(Prof.ssa Cinzia Paolina De Lio, in un articolo pubblicato su una rivista on line nel 2011 contro Gian Antonio Stella, giornalista del Corriere della Sera, che in quei giorni aveva pubblicato un articolo sui dati dell’assenteismo dei docenti a Reggio Calabria risultanti il triplo che ad Asti. Seguiva un’argomentata difesa degli insegnanti calabresi…)

La prof.ssa Cinzia Paolina De Lio 

di L’Alieno

“Ricostruirò tutta la verità, ma ora sono al mare” risponde così, un po’ alla Oblomov, la prof.ssa (e giornalista) Cinzia Paolina De Lio a “La Repubblica”. Era stata contattata per una replica alle accuse, a proposito della sua destituzione dall’insegnamento dopo 20 anni di assenze su 24 anni totali di carriera scolastica. E a ben vedere i meriti della nostra “Cavaliera del lavoro” non si sono nemmeno limitati ai due decenni di assenze, ma anche all’“assoluta e permanente inettitudine alla docenza”, come risulta dai verbali di un’ispezione condotta nel 2015 e nel 2016 nel liceo di Chioggia dove insegnava Storia e Filosofia (si fa per dire).

Storie incredibili che possono accadere soltanto nella nostra pubblica amministrazione. 24 anni per arrivare al licenziamento, coerentemente con una visione che rifiuta a priori il concetto di merito. 

Ma la scuola era già stata surreale protagonista anche qualche giorno prima. Grazie a quei bravi studentelli pistoleri dell’Itis Viola Marchesini di Rovigo, promossi con un bel nove in condotta. “So’ ragazzi” che ci volete fare. Forse un po’ vivaci, ma è la giusta vivacità che ci vuole nella vita, per darle un po’ di colore. In fondo si è trattato solo di un simpatico tiro al bersaglio con la prof. e le pallottole erano di gomma. Insomma, uno scherzetto innocente che la seriosa professoressa non ha gradito. Addirittura esagerando con il ricovero ospedaliero.

Detto tra noi, per avere dieci in condotta cosa bisogna fare in quella scuola? Fare secca una docente con una pistola vera? Il dubbio viene.

Però in una scuola sana, degna di rispetto, dopo il caso dell’insegnante stacanovista di Chioggia e quello degli studenti pistoleri di Rovigo, doveva pur esserci anche un caso di genitori all’altezza del resto della compagnia. Ed ecco che il premio “genitori dell’anno” potrebbe essere assegnato a quella coppia di genitori che di fronte alla bocciatura del proprio figlioletto, reo soltanto di aver accoltellato una docente, all’Istituto Alessandrini di Abbiategrasso, ha ritenuto di non arrendersi neppure di fronte all’evidenza della colpa. Così si è rivolta alla giustizia per ottenere dal giudice ciò che la cattiva scuola non ha voluto riconoscere al proprio figlioletto: il pieno merito della promozione. E probabilmente hanno pure ragione. Se si fossero trovati All’Itis Marchesini di Rovigo, forse il ragazzo sarebbe stato promosso e anche con un bel dieci in condotta. La sfortuna di trovarsi nella scuola sbagliata.

Estratto da open.online venerdì 7 luglio 2023.

«Non sono mai stata destituita e non ho ricevuto sanzioni». Rompe il silenzio Cinzia Paolina De Lio, la professoressa di Storia e Filosofia del liceo Veronesi a Chioggia, in provincia di Venezia, che risulta essere stata assente per 20 anni su 24 complessivi di servizio, ragione per cui la Corte di Cassazione ha dato il via libera al Miur per procedere con la destituita dell’incarico. 

De Lio, attraverso due comunicati stampa, ha precisato di non essere mai stata destituita dal suo incarico: «Quanto si legge nella sentenza di Cassazione è totalmente non rispondente a verità fondata in diritto. Non vi è alcun cenno della parola “destituzione” nella sentenza di primo grado, ma appare per la prima volta dal nulla nella sentenza d’Appello, poi pedissequamente riportata in quella di Cassazione: ne deriva l’assenza di qualsivoglia fondamento giuridico procedurale».

Secondo quanto riferito dalla docente, nel verdetto 17897 della Sezione Lavoro della Corte di Cassazione viene menzionato l’articolo 512 del Decreto legge 297/1994. L’articolo in questione prevede che un insegnante venga dispensato dal servizio per incapacità didattica e non destituito: «La destituzione costituisce la più grave delle sanzioni disciplinari a carico degli impiegati civili dello Stato, e nel corso della mia carriera non ho mai ricevuto una sanzione disciplinare». 

E De Lio prosegue sottolineando che secondo la dicitura del decreto firmato dal dirigente scolastico è stata dispensata dall’incarico «per incapacità didattica» e non «destituita».

La docente, inoltre, accusa la Corte di Cassazione di aver accolto il ricorso della Corte d’Appello che ha introdotto un elemento nuovo tra le accuse. Il Miur aveva infatti chiesto all’inizio la sospensione dell’incarico della docente solo per «incapacità didattica». Quando il Ministero aveva poi presentato il ricorso alla Corte d’Appello aveva chiesto di dispensare l’insegnante anche per le sue numerose assenze.

E De Lio spiega: «Quella delle assenze è una tesi infondata nella realtà, non credibile anche a prima vista e senza conoscere i fatti e gli atti da parte di chiunque sia dotato di pur minimo discernimento ma, soprattutto, è una tesi “nuova” che come tale non avrebbe potuto essere proposta nel ricorso d’Appello». 

[…] De Lio conclude: «Mentre, dunque, pacificamente la Corte di Cassazione in tutte le sue sentenze in materia di “nuova” introduzione nel giudizio di Appello si esprime per l’inammissibilità del ricorso, per la prima volta nella storia della Repubblica la stessa Suprema Corte condanna la professoressa De Lio che è stata la vittima dell’introduzione di un tema nuovo in Appello».

Cinzia De Lio, la prof. reggina licenziata. Una carriera ricca di titoli: 3 lauree e 7 specializzazioni. Da reggio.gazzettadelsud.it il 28 giugno 2023. 

L’insegnante salita alla ribalta delle cronache nazionali nella sua carriere di docente e giornalista ha rivendicato l’abnegazione di chi si trova a svolgere questo delicato ruolo in territori difficili. Cinzia De Lio la docente di origine reggina, licenziata a seguito di una sentenza della cassazione nei 24 anni di carriera ha maturato tanti titoli ed un curriculum che conta 3 lauree, 7 specializzazioni, una docenza universitaria ha anche collaborato da giornalista pubblicista a più riviste.

E nella doppia veste di docente e giornalista ha risposto alle accuse di fannulloni rivolta dalle colonne de “Il Corriere della sera”. Nel 2011 scriveva la prof: «Mentre a Trieste due docenti sono stati retribuiti sullo stesso posto, roba da far tremare il ministro Brunetta e la Corte dei Conti, replico a Gian Antonio Stella, al suo articolo “Prof. malati, a Reggio il triplo che ad Asti. Ma in Calabria il record dei voti massimi per i diplomati”. Replico da giornalista, come lui, che a differenza sua non ha mai vissuto nell’Iperuranio Platonico, ma si è sempre guadagnata il pane facendo l’insegnante. Ho insegnato per 13 anni in provincia di Reggio Calabria, territorio che ha una superficie di 3.183 Kmq. La provincia di Asti ha una superficie di 1.511 Kmq». Racconta delle difficoltà logistiche dettate dal fatto che «al centro della provincia insista quel monumento geologico che chiamasi “Aspromonte”.

Docenti "malati e lavativi" al Sud. "Sani e belli" al Nord. Cinzia De Lio replica a Gian Antonio Stella e al suo articolo sul Corriere della Sera. Cinzia De Lio il 19 Maggio 2011 su jeaccuse.eu.

"Gentile dott.ssa Marando, sono una  giornalista calabrese ma vivo al nord, sono una docente di ruolo di filosofia e storia. Oggi Le trasmetto un commento ad un articolo  pubblicato ieri dal Corriere della Sera sugli insegnanti meridionali assenteisti, chiedendoLe di pubblicarlo, se lo ritiene, sul sito on line. E' stato già publicato sul più importante sito on line di psichiatria, AIPSIMED, che ospita il mio blog ... La ringrazio per l'attenzione Cinzia De Lio  Sabato 7 maggio 2011"

Quando si dice il danno e la beffa. I piemontesi che 150 anni fa distrussero il sud, con a capo quel tagliagole di Garibaldi e i suoi compari con la corona, portati a modello di onestà a confronto con i "fraudolenti fratelli" calabresi. Se questo non è seminare zizzania. Dividi et impera. Noi del sud non vorremmo questionare ancora, vorremmo un poco di pace, ma veniamo tirati per la giacchetta ancora una volta. E dobbiamo punto per punto controbattere. Altrimenti ancora per altri 150 anni si dovranno sentire falsità. Noi non ci saremo ma i nostri discendenti si. Per amore loro e della verità dobbiamo con dati di fatto spiegare le cose ai nostri "fratelli d'Italia" del nord. Perchè vogliamo essere veramente uniti. A che non si creino più fraintendimenti e barriere. Pubblichiamo con piacere l'interessante e istruttivo articolo di Cinzia De Lio.

Il direttore di J'Accuse...!

PROFESSORI MALATI (FANNULLONI) AL SUD  E PROFESSORI SANI (VIRTUOSI) AL NORD? 

Mentre a Trieste due docenti sono stati retribuiti sullo stesso posto, roba da far tremare il min. Brunetta e  la Corte dei Conti, replico a Gian Antonio Stella, al suo articolo “Prof. malati, a Reggio il triplo che ad Asti.  Ma in Calabria il record dei voti massimi per i diplomati” pubblicato venerdi scorso dal Corriere della Sera. Replico da giornalista, come lui, che a differenza sua non ha mai vissuto nell’Iperuranio Platonico, ma si è sempre guadagnata il pane facendo l’insegnante. Saranno bastati,  poi, dieci anni di lavoro non retribuito nella redazione reggina di un quotidiano catanzarese, scrivendo dalla “nera”, alla politica, alla critica d’arte e musicale (ebbene si, i miei titoli di studio sono molti e vari!)? E saranno bastate pubblicazioni su periodici a tiratura nazionale come “Il fisco” ed “Argomenti”?  La collaborazione con il più importante sito on line di psichiatria, Aipsimed? Sarà bastato tutto ciò per farmi  “le spalle larghe” e per comprendere ed affermare che “etica” è una parola dolorosamente spesso assente dal “breviario del giornalista” ? Ciò premesso, vengo al dunque. Ho insegnato per 13 anni in provincia di Reggio Calabria. Poiché scrivo da filosofo e da giornalista, insieme, poiché la mia formazione e la mia struttura di personalità me lo impediscono, mi risparmio i sofismi (argomentazioni seppur false atte a sostenere la propria verità) sovente presentati con quello strumento retorico che è l’ironia, ed analizzo i dati.

Questo perché sia da filosofo sia da giornalista ricerco sempre la Verità senza mancare di rispetto a nessuno, anche nel caso in cui ho da contestare condotte o presunte tali. 

L’avvio di un articolo con una domanda retorica, poi, intrisa di ironia serve soltanto per catturare l’attenzione di quei lettori meno svegli, incapaci da soli, di riflettere e di analizzare dati ed informazioni. Incapaci, così, di verificare la correttezza delle informazioni fornite dal giornalista che  per mestiere le informazioni le dà, le usa, le manipola.

La provincia di Reggio Calabria ha una superficie di 3.183 Kmq. La provincia di Asti ha una superficie di 1.511 Kmq. Chi volesse andare a studiare un po’ di geografia si accorgerebbe a vista d’occhio che mentre il capoluogo di provincia piemontese sta al centro del proprio territorio, Reggio Calabria sta bella e placida a guardare lo Stretto di Messina, totalmente decentrata, dunque, dal proprio territorio. Eh già, perché si dà il caso che al centro della provincia insista quel monumento geologico che chiamasi “Aspromonte”. Questo vuol dire che un docente che vive a Reggio Calabria e che si trova ad insegnare al confine della provincia o nel cuore dell’Aspromonte, per arrivare a scuola alle otto ci riesce soltanto se si alza al mattino alle cinque, sovente dopo aver percorso il tragitto con mezzi di trasporto vari del tipo auto+treno+auto (il che vuol dire acquistare un’auto da “lasciare” alla stazione più vicina), oppure bus+ auto, oppure treno+bus. O, rassegnato, in auto. E non è cosa bella mettersi in cammino per tre ore per raggiungere la scuola e ritornare a casa tre ore dopo il termine delle lezioni! Escludo che un collega astigiano percorra strade intrise “di passione e di sangue” come un collega calabrese. Si, anche strade di sangue, perché un collega astigiano percorre quotidianamente le strade che attraversano le dolci colline del suo territorio. Il collega calabrese percorre la Strada Statale 106, altrimenti chiamata “superstrada della morte” o l’autostrada Salerno-Reggio Calabria, martoriata da lavori senza fine, poi prende strade di montagna senza neanche guardrail e a sera, quando torna a casa, (perché alle 16 d’inverno è già buio) deve ringraziare il suo Dio se è ancora vivo. E che dire delle avversità metereologiche? Sulle strade della provincia di Reggio Calabria non ci sono gli spazzaneve già attivi, perché allertati, alla caduta del primo dolce fiocco e poi a spargere sale sulle strade! Se arriva una nevicata mentre il docente è a scuola nel cuore dell’Aspromonte, lì rimane…!

Per non parlare poi delle strutture e della tecnologia di cui un collega astigiano gode a scuola. Il collega reggino no: in Aspromonte o sulla Piana di Gioia Tauro sono moltissime le scuole che non hanno le aule multimediali, non hanno le lim (lavagne interattive multimediali), non hanno il collegamento con l’osservatorio astronomico, più semplicemente non hanno neanche le macchinette erogatrici di acqua, the, panini, tramezzini, cioccolatini, caffè, cioccolata. 

Eppure i professori e gli operatori del mondo della scuola della provincia di Reggio Calabria, non sono figli di un Dio minore, non sono ereditieri che possono concedersi il lusso di lasciare “su strada” metà del loro stipendio. E non sono neanche figli di nessuno che possono/devono rischiare la vita ogni giorno per portare a casa lo stipendio. Però così di fatto è.

Prima di ergersi a giudici bisognerebbe conoscere il mondo. E come può un giornalista parlare di ciò che non conosce?

Certo, che se “i docenti che fanno meno assenze per malattia sono sempre quelli del Piemonte (dove peraltro operano molti professori di origine meridionale). Quelli che ne fanno di più - anche qui ripetutamente in tutti i gradi di scuola - sono invece quelli della Calabria che si assentano dal servizio più del doppio dei colleghi piemontesi” una mente pensante avvezza ad analizzare i fenomeni potrebbe analizzare la circostanza e, legittimamente, arrivare alla conclusione che è  il “fattore ambientale” a creare la discriminante relativa al tasso di presenze a scuola dei docenti. E non mi riferisco certamente al fatto che “l’aria dello Stretto fa male ai professori calabresi”, viceversa alla circostanza che condizioni quali l’agevolezza nel raggiungimento della sede di lavoro, la vivibilità degli spazi dedicati alla vita scolastica, la possibilità di utilizzare strutture avanzate per la didattica adeguate all’evoluzione delle nuove tecnologie al servizio del processo insegnamento/apprendimento, fanno si che l’insegnante calabrese che lavora in Piemonte non abbia motivo di assentarsi. E non ce l’ha perché le condizioni del suo lavoro non lo “usurano”. Come usurano l’insegnante che lavora in Calabria.  

Quanto ai voti alti dei diplomati in Calabria: non è da escludere che quel cocktail culturale e genetico di cui il territorio del Meridione ha goduto, nel corso dei  millenni ha geneticamente dotato i meridionali di un’intelligenza brillante atta a compensare le avversità “ambientali” che sono stati/e sono ancora costretti ad affrontare. La civiltà araba, la cultura pitagorica, la Magna Grecia, la Scuola Poetica Siciliana, la cultura normanna: tutta questa meraviglia la storia non la colloca certo a Varese! 

Un commento sui dati Ocse Pisa: poiché – il mio grande maestro di giornalismo, il siciliano Carmelo Garofalo – mi ha insegnato a farmi comprendere da tutti, spenderò due parole su cos’è Ocse e su cos’è Pisa. L’Ocse è l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico un'organizzazione internazionale di studi economici per i paesi membri, paesi sviluppati aventi in comune un sistema di governo di tipo democratico ed un'economia di mercato, che ogni tre anni promuove un’indagine per valutare le competenze degli studenti di 15 anni in tre ambiti (comprensione della lettura, matematica e scienza), tale indagine è, per l’appunto, PISA Programme for International Student Assessment. L’INVALSI, Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema Educativo di Istruzione e di Formazione, è l’agenzia nazionale per l’Ocse Pisa. Ebbene, dall’ultima indagine del 2009 la Calabria risulta, in tutte le valutazioni (punteggi medi in lettura, punteggi medi in matematica, punteggi medi in scienze) all’ultimo posto.

Ora – sempre una mente pensante – si chiede se il quoziente intellettivo dei calabresi è inferiore alla media oppure se qualcosa non funziona nella rilevazione dei dati.

A giudicare dalla circostanza che l’assenza di una struttura sociale di supporto spinge tanti meridionali a migrare al Nord ove gli stessi ricoprono posti di prestigio in tutti i settori – e questo è un dato oggettivo (mi risparmio i numeri per non abusare con la statistica) la prima ipotesi la scarterei. Non rimane che la seconda. 

Ed è da qui che l’Ocse, l’Invalsi, la Direzione Regionale Calabrese del Ministero dell’Istruzione devono cominciare a riflettere.

Concludo questa parte di mia riflessione con una considerazione di Piero Cattaneo, docente all’Università Cattolica del Sacro Cuore, ma con un “valore aggiunto”: l’aver mantenuto il suo posto di dirigente scolastico. Ecco perché di una riflessione di Cattaneo posso fidarmi: perché lui non pontifica dall’alto dei cieli. Ma dal basso della quotidianità della vita dentro le aule, anche se le sue sono quelle di Casalpusterlengo in provincia di Lodi, e non quelle di Platì in provincia di Reggio Calabria. Da Cattaneo ho ascoltato la verità più vera in merito alla valutazione: noi valutiamo grazie ad uno standard. Lo standard è la condizione che può essere confrontata. E qui arriva la sconvolgente, quanto a mio avviso veridica, conclusione di Cattaneo: non è scontato che tutti vogliano standard nazionali. Non è detto, aggiungo io, che tutti vogliano essere giudicati su standard etero imposti, che dovrebbero presupporre una condivisione di valori non sempre possibile, talvolta addirittura impossibile. Non sempre è possibile la costruzione di una comune cornice di senso, non sempre è possibile la lettura attraverso la medesima lente. 

E adesso, con questo discorso chiudo perché quei quattro lettori che avranno avuto sin qui la pazienza di leggermi hanno altro da sapere.

Quanto all’espressione usata dal giornalista Stella “anche dopo la tremendissima offensiva brunettiana contro i fannulloni, la svolta sull'assenteismo è ancora lontana” mi sento di dichiarare che ciò è vero. Non contestualizzato nel contesto in cui l’espressione è usata, com’è ovvio.

E’ accaduto ad esempio a me, che dalle Piramidi – per motivi che al mondo non ritengo di dover rivelare - sono andata a finire all’estremo confine dell’Italia: Trieste.

Qui, alla faccia del povero Ministro Brunetta, appena la scorso anno ho vissuto un’esperienza che ha dell’incredibile! La farò breve, prometto.

Il primo settembre mi è stata assegnata in assegnazione provvisoria la mia cattedra di filosofia e storia. L’11 settembre vengo raggiunta da un messo che mi catapulta in mano una lettera con cui mi si annuncia l’esistenza di un “provvedimento in corso” da parte della Direzione Scolastica Regionale diretta dalla dott. Daniela Beltrame secondo il quale sono stata rimossa dalla mia cattedra per essere assegnata alla sottoarticolazione dell’Ufficio Scolastico Provinciale, retto a sorti alterne. Inoltro la prima richiesta di accesso agli atti, poi la seconda, ad entrambe non viene data risposta. Sul mio posto, nel frattempo, viene nominato un supplente, certo F. C. di R.. Io non mi capacito: non avevo violentato nessun alunno, non ero andata “fora de coppi” come si dice a Trieste, ossia non ero diventata matta (e Trieste di matti se ne intende!), non avevo subito procedimenti disciplinari, non ero imputata in nessun processo. Per sei mesi vengo costretta all’inattività o ad attività non confacenti al mio status giuridico ed al mio ruolo come contare depliant e spostare pacchi. Sono stata costretta al silenzio perché i tempi biblici del Tar comunque non avrebbero risolto la situazione. Dopo ben sei mesi dall’emissione, la dott. Beltrame, leghista, a dire dei ben informati gravitante  nell’orbita dell’onorevole Pittoni, Lega Nord, si compiace di notificarmi il “provvedimento in corso” che mi rimuove dall’incarico, mi obbliga a prestare servizio per 36 ore settimanali anziché le 18 come da contratto docente per farneticanti “compiti connessi all’autonomia” e mi lascia senza un ordine di servizio. Vita personale ed equilibrio familiare sconvolti, dolore psichico per il senso di impotenza indotto, per muro di gomma del silenzio alle ripetute richieste di accesso agli atti. Fino a che, con il provvedimento in mano, chiedo l’annullamento dello stesso in autotutela, invocando i principi del diritto amministrativo violati. 

A quel punto, dura lex sed lex, la Direttore Generale dell’Ufficio Scolastico per il Friuli Venezia Giulia, Beltrame, altro non ha potuto fare che revocare l’atto! Eravamo al 12 maggio. Sono stata mandata nuovamente alla scuola dalla quale ero stata rimossa ma, naturalmente “a disposizione” che tradotto vuol dire: quando manca qualcuno far il “tappabuchi”, in alternativa girarsi le dita.

Ed il sig. F. C. di R., intanto, continuava ad essere retribuito. Con i miei, con i soldi di meridionali e settentrionali, perché  - al di là di chi vuole creare divisioni – gli abusi gravano sulla busta paga di tutti.

Riassunto per il ministro Brunetta e per la Corte dei Conti, qualora ritenessero il mio racconto meritevole di approfondimenti: dal giorno 11 settembre 2009 fino al 12 maggio 2010  io sono stata rimossa dal mio incarico, sono stata retribuita, al mio posto è stato nominato un supplente anch’esso (ho da presumere) retribuito. Dall’11 settembre 2009 fino al 12 maggio 2010 nessun atto formale, anche a grandi linee mi è stato dato su quali avrebbero dovuto essere i miei compiti e le mie funzioni. Sono stata talvolta sottoimpiegata quasi sempre non impiegata. In pratica sono stata retribuita per non adempiere al mio dovere.

Questo è stato l’operato della dott. Beltrame, Direttore Regionale Ufficio Scolastico Friuli Venezia Giulia la quale, sempre secondo voci bene informate, a breve assumerà anche l’incarico di reggente dell’Ufficio Scolastico Regionale del Veneto.

Sede attualmente vacante, sede che negli anni ha portato la scuola a valori d’eccellenza!

Cinzia De Lio  Sabato 7 maggio 2011

Il Nord Italia e la scuola: Quando l’invidia la fa da padrona.

Prove Invalsi – Ocse ed Esame di Maturità con lode: c’è chi fa, volutamente, confusione per instillare, ancora una volta, malsane stille di razzismo. Si fa confondere l’oggettivo con il soggettivo.

Quando il nord vuol sempre primeggiare e quando i dati vengono analizzati dalle opinioni risibili e partigiane degli opinionisti settentrionali.

Inchiesta del dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

Il presidente della Regione Veneto Luca Zaia, alla luce dei risultati scolastici degli studenti italiani diffusi l’11 agosto 2016 dal ministero dell'Istruzione, solleva il problema delle modalità di valutazione degli studenti nelle scuole italiane, scrive “L’Ansa" il 12 agosto 2016. «E' evidente che c'è qualcosa che non funziona nella scuola italiana e nei suoi sistemi di valutazione - accusa - se i ragazzi del Nordest, in testa alle classifiche Ocse e Invalsi per preparazione, poi risultano all'ottavo posto nelle statistiche dei "cento e lode" alla maturità». Da qui l'appello al ministro: «convochi al più presto una commissione ministeriale di esperti, riattivi sistemi di verifica su campioni omogenei di scuole e di studenti». E' un leghista e per tale va trattato.

Il problema dell’umanità è che gli stupidi sono strasicuri, mentre gli intelligenti sono pieni di dubbi (Bertrand Russell)

L’ignorante parla a vanvera. L’intelligente parla poco. ‘O fesso parla sempre (Totò)

Se la Maturità del Sud trabocca di 100 e lode.

«Questa è una scuola particolare: non c’è né voti, né pagelle, né rischio di bocciare o di ripetere. Con le molte ore e i molti giorni di scuola che facciamo, 

gli esami ci restano piuttosto facili per cui possiamo permetterci di passare quasi tutto l’anno senza pensarci...». Basterebbero queste poche righe scritte dagli alunni di Don Milani a spiegare quanto i voti possano essere, in una scuola ideale che formi davvero giovani preparati, colti e consapevoli, quasi secondari. Purché, appunto, i ragazzi così la vedano: una scuola «senza paure, più profonda e più ricca». Al punto che «dopo pochi giorni ha appassionato ognuno di noi».  Ma è così la scuola italiana che esce dagli ultimi dossier? Mah... I numeri pubblicati ieri raccontano di un Mezzogiorno che trabocca di giovani diplomati con 100 e lode, con la Puglia che gode di una quota di geni proporzionalmente tripla rispetto al Piemonte o al Veneto, quadrupla rispetto al Trentino, quintupla rispetto alla Lombardia. Bastonata pure dalla Calabria: solo un fuoriclasse ogni quattro sfornati da Catanzaro, Cosenza o Crotone. Evviva. Ma come la mettiamo, se i dati del P.i.s.a. (Programme for International Student Assessment) dell’Ocse o i test Invalsi (Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo) dipingono un panorama del tutto diverso? Prendiamo la Sicilia, che oggi vanta proporzionalmente il doppio abbondante di «100 e lode» della Lombardia. Dieci anni fa il P.i.s.a. diceva che nessuno arrancava quanto i quindicenni siciliani. La più sconfortante era la tabella sulle fasce di preparazione. Fatta una scala da sei (i più bravi) a uno (i più scarsi) i ragazzi isolani sul gradino più basso o addirittura sotto erano il doppio della media Ocse. Il quadruplo dei coetanei dell’Azerbaigian. Poteva essere lo sprone per una rimonta. Non c’è stata. Lo certifica il rapporto Invalsi 2015: «Il quadro generale delineato dai risultati delle rilevazioni, che non è particolarmente preoccupante a livello di scuola primaria, cambia in III secondaria di primo grado, assumendo le caratteristiche ben note anche dalle indagini internazionali (...): il Nordovest e il Nordest conseguono risultati significativamente superiori alla media nazionale, il Centro risultati intorno alla media e il Sud e le Isole risultati al di sotto di essa». Peggio: «Lo scarto rispetto alla media nazionale del punteggio delle due macro-aree meridionali e insulari, piccolo in II primaria, va progressivamente aumentando via via che si procede nell’itinerario scolastico». Cioè alle superiori. La tabella Invalsi che pubblichiamo in questa pagina dice tutto: dal 2010 al 2015 tutto il Centronord stava sopra la media, tutto il Sud (Isole comprese) stava sotto. Molto sotto. E l’ultimo rapporto Invalsi 2016 non segnala progressi.  Allora, come la mettiamo? Come possono i monitoraggi nazionali e internazionali sui ragazzi fino a quindici anni segnalare nel Mezzogiorno una scuola in grave affanno e i voti alla maturità una scuola ricca di spropositate eccellenze? È plausibile che nei due anni finali i giovani meridionali diano tutti una portentosa sgommata alla Valentino Rossi? Mah... Nel 2013 Tuttoscuola di Giovanni Vinciguerra mise a confronto la classifica delle province con più diplomati col massimo dei voti e quella uscita dal capillare monitoraggio Invalsi. I risultati, come forse i lettori ricorderanno, furono clamorosi: Crotone, primissima per il boom di studenti «centosucento», era 101ª nella Hit Parade che più contava e cioè quella della preparazione accertata con i test internazionali. Agrigento, seconda per «geni», era 99ª, Vibo Valentia quinta e centesima. A parti rovesciate, stessa cosa: Sondrio che era prima nella classifica Invalsi era solo 88ª per studenti premiati col voto più alto, Udine seconda e 100ª, Lecco terza e 89ª, Pordenone quarta e 59ª... Assurdo. E le classifiche regionali? Uguali. Un caso per tutti: la Calabria, ultima nei test Invalsi, prima per fuoriclasse.   Sinceramente: è possibile un ribaltamento del genere? O è più probabile la tesi che i professori del Sud, per una sorta di solidarietà meridionale basata sul comune sentimento di emarginazione e di abbandono, abbiano verso gli studenti la manica un po’ più larga? Un punto, comunque, appare fuori discussione. Non solo esistono due Italie e due scuole italiane, due universi di studenti e due di professori. Ma il divario, anziché ridursi, si va sempre più allargando. E ciò meriterebbe da parte di tutti, non solo del governo, un po’ di allarmata attenzione in più (da Stella, corsera)

SE GLI ESAMI NON FINISCONO MAI. Da la Repubblica martedì 16 agosto 2016.

Se gli esami non finiscono mai

In questo periodo la scuola fa discutere per il maggior numero di voti alti alla maturità tra gli studenti meridionali e per i trasferimenti dei docenti dal Sud al Nord

Ilvo Diamanti: IN TEMPI di vacanze scolastiche, la scuola resta, comunque, un argomento di discussione. Nelle famiglie e nella vita quotidiana. D’altronde tutti hanno figli, nipoti, parenti che studiano. Frequentano scuole di vario ordine e livello. E, parallelamente, molti sono gli insegnanti. Così non sorprendono le polemiche che “accendono” questa pausa estiva. Fra un anno scolastico e l’altro. Riguardano, in primo luogo, i voti conseguiti alla maturità dagli studenti. In secondo luogo, i trasferimenti dei docenti, nella scuola primaria e nella scuola secondaria. In entrambi i casi, il “terreno” (letteralmente) del contendere coinvolge la storica differenza, meglio, frattura fra Nord e Sud.

Nel caso dei voti attribuiti negli esami di maturità, infatti, è emerso un evidente squilibrio di punteggi favorevoli, a tutto vantaggio del Mezzogiorno. I dati diffusi dal ministero dell’Istruzione, infatti, hanno sottolineato una vera crescita di 100 e lode, soprattutto a Sud. In Puglia, Campania, Sicilia. Tutte al di sopra della media nazionale. Mentre le principali regioni del Nord e del Centro – Lombardia, Veneto, Toscana – risultano indietro nella graduatoria nazionale. Si tratta di dati che contrastano con le indagini di Ocse Pisa e con i test Invalsi, a cui sono sottoposti gli studenti per verificarne il livello di apprendimento. In questo caso, infatti, si ripropone il divario fra Nord e Sud. Ma in senso inverso. In quanto le regioni del Sud ottengono risultati peggiori rispetto a quelle del Nord.

Come si spiega questa prospettiva rovesciata? Al di là delle riserve sui criteri adottati nei test di verifica dei livelli di apprendimento, appaiono legittime le perplessità sui metri di valutazione adottati dai docenti. In base al contesto. Gian Antonio Stella, sul Corriere della Sera, alcuni giorni fa, ha sostenuto la tesi che “i professori del Sud, per una sorta di solidarietà meridionale basata sul comune sentimento di emarginazione e di abbandono, abbiano verso gli studenti la manica un po’ più larga”. Questa disparità di giudizi, peraltro, condiziona anche i canali di reclutamento, soprattutto nel pubblico impiego. Dunque, nella stessa scuola. Dove il punteggio ottenuto nella maturità assume importanza.

Si spiega anche così l’altra questione che scuote la scuola, in questo periodo. Riguarda l’assegnazione degli incarichi agli insegnanti, da parte del ministero. Un provvedimento che prevede numerosi trasferimenti. In larga misura, dal Sud verso il Nord. Al proposito, alcuni docenti e sindacalisti hanno parlato di “deportazione coatta”. Tuttavia, le ragioni di questo “esodo” sono ben chiarite in un recente Focus preparato da Tuttoscuola. Che apre rammentando: “Lo spostamento del baricentro della scuola italiana: più studenti e più posti al Nord, sempre meno al Sud, dove però risiede l’80% di chi vuole insegnare”. Così, ha commentato, ancora, Stella: “Non potendo spostare scuole e studenti, devono spostarsi i docenti”.

Queste polemiche intorno alla scuola riflettono le questioni storiche che attraversano il Paese. Anzitutto: la tensione fra Nord e Sud. In altri termini: la “questione meridionale”. Tuttavia, tanta attenzione richiama, anzitutto, l’importanza della Scuola, per gli italiani. Non solo sul piano dell’organizzazione sociale, ma, prima ancora, della “reputazione” dei cittadini. La Scuola, infatti, è al terzo posto fra le istituzioni più stimate, secondo il rapporto “Gli italiani e lo Stato” realizzato, nel 2016, da Demos per la Repubblica. Riscuote, infatti, la fiducia del 56% dei cittadini. Superata solamente da papa Francesco e dalle forze dell’ordine. E gli insegnanti della Scuola pubblica, a loro volta, risultano tra le figure professionali che dispongono di maggiore prestigio sociale. Per primi, i “docenti universitari”, superati solo dai medici. Quindi, gli insegnanti delle scuole elementari, superiori e medie. Ottengono, tutti, un credito superiore al 55%. In crescita significativa, negli ultimi anni. Segno che la scuola, per quanto criticata, per gli italiani, conta molto. Come, d’altronde, gli insegnanti. In tutte le aree del Paese. Nel Sud, infatti, la fiducia nei loro riguardi risulta superiore alla media nazionale. Ciò si spiega, a mio avviso, per la loro “funzione sociale”. L’istruzione. Spesso svalutata, a parole. Mentre, nella realtà, gode di grande reputazione. Anche per questo ai “professionisti” della cultura e dell’istruzione è richiesta mobilità territoriale. Il problema, semmai, è che la considerazione sociale e il prestigio professionale non sono sostenuti adeguatamente dal punto di vista delle condizioni normative e di reddito.

Io, comunque, per insegnare, da 26 anni mi reco a Urbino. In auto. Da Vicenza. Con cadenza settimanale. Certo, un paio d’anni fa mi sarei potuto avvicinare. Ma ho preferito restare. Perché, nel tempo, ho “cresciuto” una scuola, con alcuni studiosi e ricercatori di valore. E perché mi trovo bene. Naturalmente, me lo posso permettere. Perché la mobilità “settimanale” non mi sarebbe possibile se insegnassi alle scuole medie o alle superiori. Tuttavia, insegnare, fare ricerca, scrivere sui giornali, insomma, poter fare quel che mi piace, nonostante la fatica: è un privilegio. Che io stesso ho “coltivato”. Perché le valutazioni scolastiche contano. Ma non sanciscono il nostro destino. Per anni, a Padova, alla facoltà di Statistica, ho potuto seguire i lavori di Lorenzo Bernardi. Che se n’è andato, troppo presto. Si occupava, in particolare, dei percorsi scolastici-professionali. Dalle sue ricerche ho appreso che non c’è una relazione stretta e diretta fra il successo scolastico alle Scuole superiori e le performance in ambito professionale. Ma, francamente, me n’ero convinto prima. Anche senza condurre studi specifici. D’altronde, io e Gian Antonio Stella abbiamo fatto il liceo insieme. Per tre anni siamo stati vicini di banco. E agli esami di maturità siamo usciti, entrambi, con un voto basso. Fra i peggiori.

Ci siamo rifatti più avanti. Perché gli esami, come ha scritto il grande Eduardo, non finiscono mai. Per fortuna.

Bianca, una vita da precaria: assunta e licenziata alla vigilia della pensione. Gianluca Sollazzo Martedì 20 Settembre 2022 su Il Mattino

Da “Benvenuta al sud” al licenziamento. Bianca Mosca, in una calda estate di quattro anni fa, era al Provveditorato di Salerno per stipulare il contratto di nomina in ruolo. Oggi, dopo un anno di prova e altri tre anni di servizio tra Eboli e Agropoli, maestra Bianca è tornata precaria. A 62 anni ha ricevuto una lettera di licenziamento su ordine dell’amministrazione scolastica. «Non dormo più la notte e sto avendo problemi di salute, spero che il ministro dell’Istruzione Bianchi mi ascolti», l’appello disperato della docente. Dopo essere giunta da Brescia quattro anni fa per prendere l’immissione in ruolo a Salerno, con alle spalle tanti anni di precariato in Lombardia, si è vista privare della realizzazione di una vita. Il suo licenziamento è tanto beffardo quanto doloroso. «Sono scesa dal nord al sud - racconta la maestra Bianca, originaria di Vallo della Lucania - Sono entrata di ruolo in un caldissimo giorno di agosto di quattro anni fa, da allora ho svolto un anno di prova superato senza problemi e tre anni di servizio nel Cilento. Tra 4 anni vado in pensione e ho avuto la doccia più gelata della mia vita». 

Prima dell’inizio dell’anno scolastico, maestra Bianca era pronta a prendere servizio nella sua scuola di titolarità. «Ma il 24 agosto io e altre colleghe siamo state licenziate dall’oggi al domani - racconta - Sto vivendo un incubo professionale e umano.

Ero pronta a riabbracciare i miei alunni e la mia scuola. E adesso non ho più nulla, attualmente sono senza lavoro». Licenziata perché diplomata al magistrale. La sua storia si intreccia con l’annosa e intricata vertenza del mondo della scuola che non è mai stata sanata. Chi era in Graduatorie ad esaurimento provinciali in virtù del titolo di diploma magistrale ed è stato assunto negli anni, deve essere licenziato. «Mi sento avvilita, sono ritornata precaria - dice maestra Bianca - Sto vivendo un incubo. Non c’è l’ho col Provveditorato, perché hanno ottemperato ad una sentenza. Ma ce l’ho col sistema che ci ha tradite. Noi maestre diplomate siamo state tradite nei nostri sogni ed aspirazioni». Maestra Bianca ha svolto quattro anni fa l’anno di prova. Poi i tre anni di pandemia. Ad agosto è piombato dalla sera alla mattina il licenziamento. È tornata supplente. 

Il Provveditorato ha emesso il 24 agosto il decreto che depenna retroattivamente la maestra Bianca dalle Graduatorie ad esaurimento, le liste delle precarie storiche abilitate e con servizio da cui si attinge annualmente per l’immissione in ruolo. In quelle graduatorie, secondo i giudici amministrativi, le maestre diplomate non possono esserci più: il loro diploma ha valore abilitante e dà diritto ad ottenere incarichi annuali, ma non consente la permanenza nelle graduatorie ad esaurimento e quindi nega lor il diritto dell’assunzione diretta. Sulla vertenza maestre diplomate è intervenuta di recente anche la sentenza del 2021 della Cassazione. Affitto, mutuo e bollette. Ora maestra Bianca, tornata supplente come da ragazza, dovrà stringere ancora di più i cordoni della borsa. «Dovrò risparmiare su tutto - confessa la maestra - avrei continuato a lavorare da precaria annuale in Lombardia, forse era meglio. Dopo tanti anni di servizio, mi ritrovo senza prospettive. Ho iniziato a insegnare nel 1996, per cui mi mancano quattro anni per andare in pensione. Il mio appello al ministro Bianchi è: fatemi continuare a lavorare, ormai mi manca poco tempo, dall’oggi al domani mi ritrovo senza stipendio. Vivo sola e devo tirare avanti. Tra affitto, muti e bollette, col rincaro che c’è stato sarà durissima». Poi un attacco alla classe politica, proprio nella settimana che anticipa il voto. «Tutti i governi che si susseguono - contesta maestra Bianca - fanno solo annunci, ma non hanno mai fatto nulla per la disperazione dei docenti col diploma magistrale. Chiedo al ministro di intervenire e subito». Pochi giorni fa maestra Bianca ha fatto domanda di disoccupazione nell’attesa di una supplenza, anche breve. A quattro anni dal collocamento al riposo dovrà riprendere il cammino del precariato. 

La scuola sgarrupata.

Le scuole pubbliche italiane cadono a pezzi: 61 crolli in un anno. Roberto Demaio su L'Indipendente martedì 26 settembre 2023.

Tra il settembre 2022 e l’agosto 2023 sono stati ben 61 gli episodi di crolli o distacco di intonaco nelle scuole italiane. A denunciarlo è Cittadinanzattiva – organizzazione fondata nel 1978 che promuove l’attivismo dei cittadini per la tutela dei diritti, la cura dei beni comuni e il sostegno alle persone in condizioni di debolezza – all’interno del XXI Rapporto sulla sicurezza delle scuole e degli atenei, il quale sottolinea come si tratti di un numero mai raggiunto da quando si è iniziato a monitorare il fenomeno, ovvero da sei anni a questa parte. I crolli (24 al Sud e nelle Isole, 23 al Nord, 14 nelle Regioni del Centro) hanno provocato il ferimento di sei studenti, di un’insegnante e di una collaboratrice scolastica, oltre che l’interruzione della didattica. Tra le cause vi sono l’età degli edifici e l’assenza tanto di provvedimenti di manutenzione quanto di investimenti nelle indagini relative agli interventi da effettuare. Adriana Bizzarri, coordinatrice nazionale di Cittadinanzattiva, ha sottolineato come sia necessario «che siano maggiormente informate e coinvolte le scuole, le famiglie e le comunità locali sull’andamento degli interventi del PNRR, che si provveda con urgenza ad effettuare interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria da parte degli enti locali proprietari degli edifici per prevenire il ripetersi incontrollato degli episodi di crolli, strutturali e non, che contribuisce a creare insicurezza e timori per un sereno rientro a scuola di studenti e personale scolastico».

Ma l’indagine di Cittadinanzattiva non è l’unica che denuncia la condizione critica delle scuole italiane. Anche Legambiente, nella XXII edizione del rapporto Ecosistema Scuola, ha pubblicato dati tutt’altro che rassicuranti: anche se tra il 2017 ed il 2021 il 59,3% degli edifici scolastici ha beneficiato di interventi di manutenzione eccezionale, nel 2021 il 30,6% delle scuole necessita ancora di interventi straordinari. Al Sud si sale al 36,8% e nelle Isole al 53,8%. Le indagini diagnostiche dei solai risultano eseguite solo nel 30,4% degli edifici, dato che scende nelle Isole a quota 18,8%. Gli interventi per la loro messa in sicurezza, invece, sono stati realizzati a livello nazionale solamente sul 12% degli edifici. Per quanto riguarda l’adeguamento sismico, nonostante il 53,8% dei comuni capoluogo di provincia abbia dichiarato di aver realizzato gli appositi interventi negli ultimi 5 anni, tali lavori hanno interessato solo il 3,1% degli edifici scolastici. Infine, a pesare sono anche i ritardi sull’efficientamento energetico: sebbene a livello nazionale l’81% delle amministrazioni ha dichiarato di aver realizzato interventi, questi sono stati rivolti solo al 17% degli edifici scolastici, dato che sale al Nord al 21,2% mentre nelle Isole riguarda appena il 5,8% delle scuole. Ad oggi solo il 4,2% delle scuole risulta in classe energetica A, appena il 10,8% nelle prime tre classi energetiche, mentre ben il 74,8% è fermo nelle tre ultime classi energetiche (il 39% in Classe G).

Solo quest’anno il freddo ha reso necessario l’intervento di un’ambulanza per soccorrere una studentessa universitaria e a Palermo una bambina di 10 anni è stata colpita da ipotermia e poi ricoverata. A Firenze, invece, la preside ha annullato le lezioni per colpa delle temperature delle aule mentre a Genova centinaia di bambini tra i 6 e gli 11 anni sono rimasti a casa dopo che i genitori hanno deciso di non poterli mandare a scuola in quelle condizioni. Oscar Wilde diceva che “la scuola dovrebbe essere un posto così bello che i bambini disobbedienti, per punizione, dovrebbero esserne esclusi il giorno dopo”. In Italia spesso sembra funzioni in maniera esattamente opposta e andare a scuola d’inverno è ormai, per molti, come entrare in una casa spettrale: fredda, a pezzi e piena di cattedre fantasma. [di Roberto Demaio]

Non è un paese per insegnanti. La disastrata condizione della scuola pubblica italiana. Silvia Calvi su L'Inkiesta il 30 Maggio 2023

Assegnazioni precarie, edifici fatiscenti, stipendi bassi e burocrazia sempre più asfissiante. Insegnare in Italia è diventata una missione più che un lavoro. E dopo le medie si moltiplicano le carenze di un’istituzione che non riesce più a essere incisiva nella vita dei suoi alunni

Se sul lavoro devi fare una fotocopia e ti viene chiesto di portare la carta da casa, non c’è dubbio: lavori nella scuola pubblica italiana. Un mondo complesso, fatto di grandi numeri (su tre milioni di dipendenti pubblici, circa uno – tra insegnanti, educatori e personale Ata – è impiegato nella scuola), punte di eccellenza che il mondo ci invidia e moltissimi problemi. Storici ma anche nuovi. 

Tra i primi problemi che affliggono la scuola pubblica ci sono la cronica mancanza di fondi per le normali attività scolastiche e per la manutenzione ordinaria (da cui rubinetti che perdono, muri scrostati e bagni che rimangono fuori servizio per mesi) e gli stipendi bassi degli insegnanti (circa milletrecento euro a inizio carriera – sotto la media Ocse – per arrivare, scatto dopo scatto, a poco più di duemila euro a fine percorso). E poi i balletti delle supplenze per coprire i posti scoperti (dovuti in parte alla disponibilità delle cattedre, in parte al malcostume mai sradicato di chi si candida per un incarico lontano da casa e, poi, si mette in malattia), supplenze pagate con mesi di ritardo e l’inadeguatezza di molti edifici scolastici. L’ottanta per cento delle scuole italiane si trova in edifici vecchi o non progettati per l’attività didattica: senza cortili, senza palestra, senza verde, senza spazi per i laboratori.

Accanto a questi, i nuovi problemi come l’aumento esponenziale delle certificazioni negli ultimi dieci anni: gli alunni con DSA, disturbi specifici dell’apprendimento, sono passati dallo 0,9 per cento del 2010 al 5,4 per cento del 2021, con relativo carico di adempimenti burocratici e incontri extra degli insegnanti con le famiglie i neuropsichiatri. E poi l’introduzione delle tecnologie digitali che, quando funzionano, vengono impiegate poco e male; la difficoltà a organizzare uscite didattiche di qualità – così importanti per gli studenti – perché troppo costose per molte famiglie o per mancanza di adulti accompagnatori (gli insegnanti non vengono retribuiti per le ore di lavoro extra); l’abolizione del tempo pieno proprio dove servirebbe di più.

La scuola primaria, per esempio, che insieme a quella dell’infanzia rappresenta il 69 per cento delle 40.658 sedi scolastiche italiane, svolge un servizio fondamentale per 2.380.000 bambini, 306.836 dei quali di cittadinanza non italiana – in Lombardia i bambini provenienti da altri Paesi oggi sono circa il venticinque per cento della totalità degli studenti- e 100.434 con disabilità, e per le loro famiglie. Può farlo grazie all’impegno quotidiano dei suoi 250.202 maestri e maestre e centoventisettemila insegnanti di sostegno (che, complessivamente, nel 2001 rappresentavano l’8,6 per cento della totalità degli insegnanti, mentre oggi hanno superato il venti per cento). Ma in condizioni per niente facili.

«La scuola italiana è disomogenea. Ci sono situazioni valide e importanti, dove la scuola rappresenta l’unico presidio della Repubblica, altre in cui non riesce a svolgere il suo compito principale, cioè quello di attenuare le discriminazioni» esordisce Franco Lorenzoni, maestro elementare, ricercatore e formatore nel laboratorio pedagogico d’avanguardia da lui fondato a Cenci (Amelia), in Umbria. Il suo ultimo libro è: Educare controvento. Storie di maestri e maestre ribelli (Sellerio). «In questi giorni si è parlato molto di Don Milani ma forse non tutti sanno che una delle sue “fissazioni” riguardava il tempo: per imparare a parlare una lingua c’è bisogno di tempo. Ecco perché a Barbiana, caso unico, si faceva scuola anche 10-12 ore al giorno. Ebbene oggi, proprio dove ci sarebbe più bisogno di scuola, come nelle isole, in molte zone interne o al Sud, il tempo pieno non c’è, non è mai partito fin dal 1971, quando fu introdotto come grande luogo di sperimentazione. Ebbene, niente tempo pieno vuol dire un anno netto in meno di scuola. Però è anche giusto dire che la primaria rimane ancora la scuola che funziona meglio: una recente indagine sulla capacità di lettura dei bambini europei, per esempio, vede gli italiani ai primi posti. Il grande problema comincia dalle medie in poi». 

I cinque anni della primaria

«Se la scuola primaria riesce a mantenere ancora buoni livelli è perché i suoi insegnanti sono i migliori che escono dalle facoltà di Scienze della formazione dove studiano pedagogia, psicologia, strategie didattiche, cooperative learning. Purtroppo questo non vale per i docenti della secondaria, medie o superiori, che non sono formati sui metodi di insegnamento né nella psicologia e si trovano a lavorare con ragazzi in una fase di crescita delicatissima» spiega Barbara Romano, ricercatrice senior in Fondazione Agnelli. 

A questo si aggiunge il problema dei bassi stipendi, come ha spiegato il sociologo Gianluca Argentin nel suo saggio Gli insegnanti della scuola italiana (Il Mulino): vista la scarsa appetibilità, nella scuola secondaria spesso ci finisce chi non ha trovato lavoro da altre parti. «Discorso ancora più critico per il sostegno, perché gli insegnanti qualificati non bastano a coprire tutti i posti, così le segreterie ricorrono ai candidati che hanno spedito una MAD, Messa a disposizione, il documento che permette a chiunque abbia una qualsiasi laurea di svolgere un incarico così delicato come accompagnare il percorso di bambini con difficoltà di apprendimento di vario tipo. 

Questo spiega anche perché la percentuale di precari per il sostegno è il doppio (sessanta per cento) di tutte le altre categorie». Visto il calo demografico, però, almeno non c’è più il problema delle “classi-pollaio”. Anzi, dal 2020 al 2030 nelle nostre scuole ci sarà un milione di studenti in meno. «Da un nostro studio abbiamo visto che le lassi sovraffollate persistono nei primi due anni delle superiori, quindi lo 0,5 per cento del totale, mentre in alcune zone si comincia a parlare di classi bonsai, con meno di quindici studenti.

C’è un’altra decisione da prendere: ridurre il numero degli insegnanti, causando l’ulteriore invecchiamento della popolazione docente, oppure continuare ad assumere e favorire la diffusione del tempo pieno anche alle medie, magari introducendo nuovi corsi? Per cominciare, però, occorre risolvere il mismatch che impedisce alle nostre scuole di mettere le persone giuste al posto giusto, sia per le materie curricolari sia per il sostegno. Per fare un esempio, nell’anno scolastico 2020-2021, su ottantacinquemilacattedre di ruolo disponibili, se ne sono potute assegnare solo ventimila perché i candidati con i requisiti per diventare di ruolo si trovavano docenti specializzati in discipline già coperte».

Dalla prima media in poi

Con la preadolescenza, età di per sé difficile, esplodono infatti tutte le carenze di un’istituzione che non riesce più a essere incisiva nella vita dei suoi alunni. «Questo dipende anche dall’atteggiamento diffuso di famiglie che non credono più alla cultura come luogo di costruzione della libertà di scelta, a differenza di quelle immigrate che avranno sì problemi linguistici, ma credono moltissimo nella scuola» continua Franco Lorenzoni. «Poi ci sono i social che offrono mille possibilità di relazione, gioco e divertimento fuori dalla scuola e fuori dal controllo dei genitori. E, infine, il problema degli spazi: a un ragazzo che entra in un edificio degradato, dove d’inverno fa freddo, manca la biblioteca e la palestra è un’aula riadattata offriamo la traduzione plastica della scarsissima considerazione che abbiamo della scuola. Gli spazi sono importantissimi, e dove lo hanno capito, come in Trentino, le scuole sono belle e organizzate secondo un pensiero pedagogico». 

E le superiori? Scontano un problema di classismo culturale: ci sono quelle di serie A (vedi liceo classico) e quelle di serie B, cioè gli istituti dove la formazione tecnica e professionale non riesce a essere di alto livello. «Ma non possiamo neanche mettere tutto sulle spalle della scuola perché dove funzionano le comunità educanti, cioè i patti educativi che in un territorio uniscono la scuola, le associazioni, la Asl, le parrocchie e i centri culturali, allora si attivano circoli virtuosi preziosissimi di cuoi beneficia il territorio tutto e, naturalmente, anche la scuola». L’educazione, dunque, come tema che funziona bene solo se riguarda tutti.

I nuovi insegnanti

Intanto, per non citare la solita Finlandia, tanti altri Paesi come Canada, Regno Unito, Australia, Francia, Nuova Zelanda e Singapore, hanno reso istituzionali sistemi di formazione per insegnanti improntati a una didattica più moderna. «Quello della formazione e del reclutamento degli insegnanti è il problema di fondo della scuola italiana, perché avviene in modo disgiunto dalle capacità professionali dei candidati, oltre a essere amministrata da dirigenti sempre più manager e con meno competenze didattiche» esordisce Daniele Novara, pedagogista e autore del saggio Cambiare la scuola si può (Bur), in questi giorni in libreria con il libro Nessuno si educa da solo (Sonda). «L’alienazione tra scuola e pedagogia, intesa come scienza dell’educazione e della didattica, non è mai stata così profonda e nei fatti produce una scuola vecchia. Una scuola che, a cento anni dalla riforma Gentile, resta abbarbicata a idee arcaiche come la valutazione numerica, la lezione frontale, la campanella, il nozionismo. Resistono alcuni movimenti come quello della “scuola senza voti” e di quella “senza zaino”, che propongono forme di didattica alternativa, ma sono ancora piccole esperienze positive in un mare che procede per moto inerziale. Personalmente, poi, io sono contrarissimo a questo boom delle certificazioni, basate sull’idea che il bambino “difficile” sia un bambino “con un disturbo”. Una deriva che ha portato a una sorte di “medicalizzazione” della scuola».

Vecchia, secondo Novara, anche l’idea dell’orario di lezione quando altrove, in Europa, si parla di “tempo di lavoro”, cioè moduli flessibili e in collaborazione con gli altri docenti che spezza il dispotismo della materia. «Il modello italiano, dopo il periodo d’oro degli anni Settanta, oggi è ridotto a un reperto archeologico: come Centro psicopedagico noi lavoriamo moltissimo nelle scuole di Paesi come Paesi Bassi, Francia, Austria e Croazia, dove l’attenzione agli aspetti pedagogici è altissima. Molto meno in Italia: come mai?».

Fuori sede. Finalmente l’università sta diventando di massa, ma l’Italia non è ancora pronta. Gianni Balduzzi su L'Inkiesta il 17 Maggio 2023.

Nel nostro Paese non si è mai pensato seriamente a finanziare forme di welfare studentesco perché la percentuale di italiani con genitori laureati è la più bassa in Europa

Finalmente i ragazzi italiani scelgono di fare l’università. Una buona notizia per il Paese penultimo in Europa per percentuale di laureati sulla popolazione. Ma come dimostrano le proteste per gli alloggi nelle sedi delle università più grandi, non siamo pronti a questo fenomeno. Eppure non è nuovissimo. Vi era già stato un aumento del numero di iscritti negli atenei italiani tra il 1999 e il 2003, ma dopo sette anni di stabilità erano seguiti cinque anni di discesa, legati alla crisi economica e al calo demografico. Da allora però l’aumento è ripreso: anche considerando la leggera riduzione nell’anno accademico 2021/22 rispetto al precedente, in sei anni vi è stato un incremento del 10,4 per cento, che contrasta con la contemporanea riduzione dei ventenni nel nostro Paese. Erano sei milioni e trecentosessantacinquemila nel 2015 e sono diventati sei milioni e tremila nel 2021.

Non abbiamo visto arrivare questo fenomeno perché la sua crescita non è stata omogenea, ma si è concentrata in alcune aree, quelle già più avanzate del Paese. Secondo i dati del ministero dell’Università nel 2010/11 negli atenei dell’Emilia Romagna erano iscritti quattromila studenti in meno che in quelli della Sicilia e 52.400 meno che in quelli della Campania. dodici anni dopo superavano quelli di entrambe le regioni Allo stesso tempo se all’inizio dello scorso decennio gli universitari che avevano scelto sedi lombarde erano solo novemila in più di quelli che frequentavano quelle del Lazio, nel 2022/23 erano diventati 64.100 in più. Insomma, ad avere attirato gli studenti sono stati gli atenei lombardi, emiliani, piemontesi, mentre per quelli del Sud vi è stato un crollo.

Questo trend è stato evidente sia nel corso di tutto lo scorso decennio che nel periodo di generale aumento degli iscritti cominciato dal 2015/16, che ha visto sempre Emilia Romagna, Piemonte e Lombardia prevalere tra le maggiori regioni quanto a incremento dei frequentanti. La stessa tendenza è visibile anche per quanto riguarda l’origine degli studenti. Gli atenei del Mezzogiorno si svuotano anche perché dal Sud e dalle Isole semplicemente vengono meno universitari, mentre crescono quelli del Centro-Nord. Gran parte di questo divario è causato dalle divergenze demografiche: negli anni c’è stato un crollo nel numero dei ventenni del Sud che non si è verificato altrove. 

Le sedi universitarie in cui c’è stato un incremento in doppia cifra sono state Torino, il Politecnico di Milano, la Cattolica, sempre nel capoluogo lombardo, nonché Padova; mentre per Bari e Catania vi è stato un crollo.

Per comprendere l’attuale emergenza degli alloggi, però, è utile capire che a Milano, per esempio, l’aumento delle iscrizioni non è dovuto solo al numero sempre più grande di giovani lombardi che fa l’università, ma c’è anche un altro aspetto: crescono a un ritmo maggiore quanti vengono da fuori regione.  Prendiamo per esempio il Politecnico di Milano, la percentuale di lombardi in sei anni è scesa dal 74,2 per cento al 55,6 per cento. È aumentata quella degli stranieri, che è arrivata all’11,3 per cento, quella dei meridionali che è passata dall’8,3 per cento all’11,5 per cento, di coloro che vengono dal Centro e dal resto del Nord.  

Gli atenei più attrattivi sono in grandi città del Nord o in centri che hanno già importanti tradizioni universitarie. E all’aumento degli studenti si affianca la loro concentrazione. È qualcosa che si è già visto da tempo in tutta Europa. Però a differenza che in altri Paesi in Italia sono presenti peculiarità che rendono il fenomeno non solo nuovo, ma anche più sfidante per il sistema Paese. Basta guardare la statistica sul background dei genitori: solo il 34 per cento degli universitari italiani è a sua volta figlio di un laureato, è la percentuale più bassa d’Europa. In enorme ritardo è in atto un cambiamento generazionale. 

Questo spiega anche perché nel nostro Paese non si è mai pensato seriamente a finanziare forme di welfare studentesco, studentati, incentivi economici per chi decide di proseguire gli studi. In fondo una volta fare l’università era appannaggio di una ricca élite, non un fenomeno di massa come sta diventando ora. Non a caso sono solo il 10 per cento gli iscritti che ricevono una borsa di studio, contro il 63 per cento francese o l’89 per cento svedese, e allo stesso tempo solo il 24 per cento lavora mentre studia, molto meno del 47 per cento tedesco, ma anche del 59 per cento polacco.

La mancanza di strumenti come i mini-job tedeschi, pensati anche per gli studenti, si fa sentire. Non stupisce che in assenza di sostegno economico pubblico o di sostentamento proveniente dal lavoro la maggioranza degli universitari viva con i genitori, il 68-69 per cento a seconda dell’età, contro una media europea che non va oltre il 46 per cento neanche nel caso dei più giovani, i 20-22enni. Se la quota di quanti stanno da soli o con altri inquilini non è molto lontana da quella che si ritrova in altri Paesi a fare la differenza è la percentuale di quelli che stanno in studentati, il 23% nel caso dei 20-22 anni nella Ue e solo il 7 per cento in Italia.

In sostanza l’Italia soffre problemi di affollamento presso le sedi universitarie, simili a quelli che vivono altre grandi città europee (per esempio Amsterdam) nonostante in realtà nel nostro Paese la proporzione di studenti sul totale della popolazione sia ancora molto più bassa.Cosa succederebbe se dovessimo diventare veramente europei, se a proseguire gli studi fossero più di metà di quanti si diplomano? 

Si parla molto del fatto che in tanti non vogliono fare pendolarismo, che vogliono per forza studiare e abitare a Milano, che ormai è una Mecca per i giovani, l’unica città veramente cosmopolita italiana. È normale, a vent’anni (ma non solo) le mode e il passaparola influenzano moltissimo, è sempre stato così. Possiamo anche commentare, con molte ragioni, che ci si deve rassegnare a cercare casa più lontano, a Lodi, a Bergamo, in Brianza, ma dobbiamo anche fare i conti con la realtà. 

Siamo di fronte a una tendenza ineluttabile, quella a spostare il centro delle attività umane nei grandi centri, abbandonando la provincia, è un trend mondiale e non si può fermare con l’invettiva o con l’ironia contro i giovani pretenziosi. La si deve accettare e governare. Anche se riuscire a trovare risorse economiche distogliendole ai tesoretti e alle misure per pensionati e pensionandi è molto più difficile che ignorare o guardare con sufficienza gli studenti che protestano.

Dall’inizio dell’anno scolastico ci sono stati 44 crolli nelle scuole italiane. Infiltrazioni di acqua, calcinacci, bagni guasti e palestre inesistenti. Gli studenti italiani frequentano istituti vecchi e pericolosi. E la tragedia è sempre dietro l’angolo. Chiara Sgreccia su L'Espresso il 26 Aprile 2023. 

Buio. Non pesto come se fosse notte, ma cinereo come il colore del cielo quando scoppia un temporale. Fuori il rumore della pioggia che scroscia, dentro quello delle gocce d’acqua che scendono dal soffitto e cadono sul banco. La professoressa invita gli alunni ad alzarsi: è il momento di cambiare aula. Il collaboratore scolastico arriva con il secchio. Salta la luce, non scatta il sistema di emergenza. «Attenti ragazzi, non toccate i distributori automatici, i computer. Niente in cui ci sia corrente», scandisce un docente durante lo sgombero dall’edificio. Uno dei pannelli che compone il controsoffitto si sgancia e finisce a terra.

«Per fortuna non c’era nessuno in classe», racconta Laura che frequenta il terzo anno di uno degli storici licei classici di Roma. «Anche la palestra si allaga ogni volta che piove, così periodicamente saltiamo la lezione di educazione fisica. Su dodici bagni, otto erano inagibili fino a poco fa. La scuola era diventata invivibile, per questo lo scorso dicembre abbiamo deciso di occupare. Oggi la situazione è migliorata, alcune delle nostre richieste sono state prese in considerazione: hanno riparato i bagni, sistemato la guaina esterna dell’edificio per evitare le infiltrazioni d’acqua e il wifi che non funzionava da mesi ed è essenziale per fare lezione. Ma la palestra continua ad allagarsi». Una condizione, questa, che rappresenta la normalità di tante scuole in Italia. 

Ad Arezzo, il 4 aprile, un pezzo del controsoffitto in cartongesso è caduto in testa a uno studente di 13 anni che, in un’aula della scuola media “Margaritone”, chiacchierava con gli altri compagni in attesa che il professore entrasse in classe. Niente di grave, il ragazzo è tornato a casa dal Pronto Soccorso solo con qualche punto di sutura. Ma, come spiega la preside dell’istituto, una fessura nel soffitto aveva già attirato l’attenzione degli alunni. Ed era stata fatta la segnalazione alle autorità competenti. Il 16 marzo, invece, nella succursale della scuola professionale “Don Geremia Piscopo” di Arzano, comune della città metropolitana di Napoli, il solaio della palestra ha ceduto. Il crollo, che pare sia dovuto a infiltrazioni d’acqua, è avvenuto durante la notte. «Tragedia sfiorata, menomale», dicono docenti e studenti. «Ma non è possibile sentirsi in pericolo mentre si studia». Ancora: a Firenze, l’8 marzo, un grosso albero è caduto nel giardino della scuola primaria “Vittorio Veneto”, che fa parte dell’Istituto comprensivo Centro Storico Pestalozzi. Nel crollo la pianta ha sfondato un tavolo di legno, dove poco prima i bambini facevano ricreazione con l’insegnante. Anche qui solo per caso, quando l’albero è caduto, nel giardino non c’era nessuno. Fortuna che non si è ripetuta a Quartu Sant’Elena, in Sardegna, all’interno della scuola media “Bellavista”: il 16 febbraio, la porta di un bagno è caduta in testa a uno studente di undici anni, causandogli un trauma cranico. In Sicilia, tre giorni prima, all’Istituto per geometri “Filippo Juvara” di Siracusa, i calcinacci caduti dal soffitto hanno impedito agli alunni di entrare in classe e sedersi al proprio banco.

«Sono almeno 44 i crolli avvenuti da settembre 2022 ad aprile 2023. Sta andando ancora peggio dell’anno scorso, quando i cedimenti che abbiamo monitorato nelle scuole erano stati 45 in tutto», spiega Adriana Bizzarri che è coordinatrice nazionale Scuola di Cittadinanzattiva, onlus che promuove l’attivismo dei cittadini per la tutela dei diritti, dei beni comuni e delle persone in condizioni di debolezza. «La maggior parte dei danni agli edifici scolastici è causata dall’infiltrazione d’acqua. Non è un caso, infatti, che registrino il loro picco proprio durante l’autunno e l’inverno, quando c’è maltempo. Sono solitamente dovuti alla mancanza di manutenzione ordinaria. Problemi all’inizio piccoli che, per incuria oppure per mancanza di fondi o personale negli uffici tecnici degli enti preposti alla gestione degli edifici come Comuni, aree metropolitane e Province, vengono sottovalutati fino a quando non si aggravano. Si aggiunge il fatto che le scuole italiane, per la maggior parte, sono allocate in strutture vecchie». 

Secondo l’ultima indagine di Cittadinanzattiva, pubblicata lo scorso settembre, il 42 per cento delle oltre 40 mila scuole statali che ci sono in Italia è stato costruito prima del 1976 (16.794). Di un altro quarto non si conosce il periodo dell’edificazione. Quasi 17 mila scuole, poi, non hanno la certificazione di collaudo statico, essenziale affinché un edificio possa essere posto in esercizio. Più di 23 mila non sono in possesso della certificazione di agibilità, documento che attesta la sussistenza delle necessarie condizioni di sicurezza, igiene, salubrità e risparmio energetico. A 22 mila, infine, manca l’attestato di prevenzione incendi.

«Negli ultimi vent’anni si è parlato tanto, ma si è fatto poco. Certo, ci sono stati dei progressi, il tema della sicurezza delle scuole è entrato nel dibattito pubblico e politico, ma il lavoro fino a oggi svolto non è per niente sufficiente. È impensabile accompagnare i propri figli a scuola con la possibilità di ritrovarli sotto le macerie quando si torna a prenderli», denuncia Antonio Morelli, il presidente del Comitato vittime di San Giuliano di Puglia. Sua figlia Morena, che frequentava la prima elementare, è morta così, sotto le macerie della scuola “Francesco Jovine” del paesino molisano, crollata durante il terremoto di magnitudo 6.0 del 31 ottobre 2002. Con lei sono morti altri 26 bambini e un’insegnante. Ma il terremoto è stato solo una circostanza scatenante del collasso della scuola. «Anche una nevicata avrebbe potuto provocarlo. Perché un piano sopraelevato in cemento armato era stato costruito meno di un anno prima su una struttura vecchia, non in grado di reggerne il peso, per ampliarne la capienza. Hanno aperto la scuola senza neppure collaudarla. Si tratta di buon senso: non è possibile che gli spazi per l’apprendimento degli studenti non siano luoghi sicuri», prosegue amareggiato Morelli. «Ma noi del Comitato non abbiamo alcuna intenzione di arrenderci, continueremo a monitorare la sicurezza delle scuole e a fare pressioni affinché venga garantita. Affinché per le vittime del crollo della scuola di San Giuliano di Puglia sia fatta giustizia. Sono passati più di vent’anni».

Come spiega ancora Bizzarri, il Pnrr punta molto sul miglioramento dell’edilizia scolastica. I principali interventi – al netto del piano per la costruzione di asili nido e scuole dell’infanzia, mense scolastiche e aule 4.0 – sono tre, previsti per il periodo 2021-2026: la messa in sicurezza e la riqualificazione degli edifici, il piano per la sostituzione e la riqualificazione energetica degli stessi e il potenziamento delle infrastrutture per lo sport. «Si tratta di interventi fondamentali, preziosi. Che, però, da soli non bastano. C’è necessità di un monitoraggio continuo degli edifici e di risorse per favorire la manutenzione ordinaria. Di recente il ministero dell’Istruzione ha pubblicato l’elenco di 399 interventi di edilizia scolastica richiesti dalle Regioni, per una cifra totale di più di 900 milioni di euro. Il 60 per cento di questi riguarda l’adeguamento sismico e l’efficientamento energetico, il 21 per cento è riferito a edifici che verranno ricostruiti o demoliti. Puntare sulla sostituzione progressiva delle strutture è fondamentale per ridurre i lavori di manutenzione, che edifici vetusti richiedono con più frequenza», continua la coordinatrice. «Inoltre, la scuola non è solo lo spazio della lezione frontale, ma un luogo di crescita, interazione, apprendimento. Per questo, per favorire una didattica più inclusiva e per cercare di ridurre il numero di alunni presenti in ogni classe, diventa importante ripensare la configurazione degli ambienti scolastici. Cosa che in edifici vecchi, “aulocentrici”, è difficile fare».

È d’accordo anche Tullia Nargiso, coordinatrice del sindacato Rete degli studenti medi che, con Fillea Cgil, ha dato vita alla campagna “Fateci Spazio”, non solo per monitorare lo stato dell’edilizia scolastica nel Lazio – «la situazione è drammatica» – ma anche per lanciare una nuova idea di scuola che sia coinvolgente. «Studiamo in classi che hanno una media di 25 alunni. Una densità alta che obbliga alla lezione frontale, che non favorisce la relazione tra docente e allievo. Ciò è particolarmente penalizzante per la qualità della didattica e la strutturazione di percorsi egualitari, quando ci sono alunni con disturbi dell’apprendimento».

Come si legge nel report del 2022 “Osservatorio civico sulla sicurezza a scuola”, le classi che contengono un numero di studenti superiore a 26 sono 13.974: il 3,8 per cento del totale. Ma quasi diecimila delle «classi-pollaio» sono nelle scuole secondarie di secondo grado. Soprattutto nei primi anni. «Studiare in aule così affollate compromette anche la sicurezza. E le possibilità di movimento», aggiunge Irene, rappresentante d’stituto al “Guglielmotti” di Civitavecchia: «Dobbiamo fare la ricreazione in classe perché manca il personale per il controllo del cortile. Ma stare chiusi lì è come non avere un momento di stacco anche per andare in bagno, comprare la merenda. Ma soprattutto per socializzare, favorire l’integrazione».

Un altro grave problema che caratterizza molte scuole in Italia è la presenza di barriere architettoniche, che impediscono di muoversi liberamente agli alunni con disabilità. Nell’anno 2020/21, questi ultimi erano quasi 278 mila. «Parlare con i rappresentanti delle scuole ci è servito per capire quali sono le criticità su cui è necessario intervenire. Così abbiamo portato le richieste all’attenzione delle istituzioni», conclude Nargiso. Perché gestire gli spazi influenza anche il modo di vivere la scuola.

La scuola per pastori.

Parte la scuola per pastori, boom di domande: “Anche da Germania e Stati Uniti”. Vito Califano su Il Riformista il 29 Marzo 2023

Come comandare un gregge, mungere gli animali, fare il formaggio. Partirà ad aprile, il 22, la scuola per pastori presso il Parco Nazionale delle Foresti Casentinezi del progetto Life ShepForBio cofinanziato dall’Unione Europea. Otto gli ammessi alle lezioni, che saranno teoriche e pratiche, e che permetteranno agli studenti di diplomarsi entro ottobre da conduttori di mandrie di pecore, capre e bovini bradi.

I candidati erano 168, oltre ogni aspettativa. I fortunati prescelti che accederanno alle lezioni sono molto giovani e divisi tra cittadini e campagnoli, di diverse e variegate provenienze lavorative o scolastiche. Dovevano essere sei e invece saranno otto. Quattro uomini e quattro donne, tutti sotto i trent’anni tranne uno. Quattro arrivano dalla Toscana, uno dall’Emilia Romagna, tre dalle province di Varese, Savona e Ancona. La lista è ancora top secret.

Il corso è completamente gratuito per tutti i partecipanti. Le lezioni teoriche si terranno nei fine settimana. Le attività saranno realizzate grazie al coinvolgimento del personale qualificato messo a disposizione dal partenariato del progetto composto da Dream Italia, beneficiario coordinatore, e da altri dieci partner: Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, Regione Toscana, Università di Firenze e Roma – La Sapienza, Unioni dei Comuni del Casentino, Pratomagno, Valdarno e Valdisieve e Romagna Forlivese, Studio Verde e Euromontana.

Prevista la collaborazione delle associazioni DifesAttiva e Rete Appia. Alla parte teorica seguirà lo stage di trenta giorni nelle aziende agricole del Parco e dei suoi comuni, selezionate tramite un apposito bando. La scuola, che punta a contrastare lo scarso ricambio generazionale presente nel mondo zootecnico montano e si pone come obiettivo quello di promuovere la pastorizia nelle aree rurali e montane, si articolerà in quattro cicli di formazione tra gli anni 2023-2027.

Ci saranno quelle teoriche con insegnanti e anche docenti universitari, gli stage presso le aziende pastorali del parco per imparare a condurre un gregge, mungere e fare il formaggio. Le domande erano arrivate persino da Germania e Stati Uniti. Fra i candidati c’erano anche medici, giornalisti, professionisti studenti.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

I Compiti.

Estratto dell'articolo di Salvo Intravaglia per repubblica.it il 28 marzo 2023.

Mamme e papà alle prese con quesiti e problemi che non sanno risolvere neppure loro si scagliano contro i docenti dei propri figli che assegnerebbero troppi compiti per casa. […]

 Negli altri Paesi

Andando a spulciare i dati messi a disposizione delle indagini internazionali sugli apprendimenti degli alunni di scuola elementare e media, sembrerebbe che i docenti italiani assegnino effettivamente più compiti a casa, o da svolgere in proprio, ai propri alunni di quanto non avvenga all'estero. Prendendo in esame l'ultimo dossier pubblicato, il Timss 2919, che indaga sulle competenze in Matematica e Scienze degli alunni di quarta elementare e terza media di 39 paesi di tutto il mondo emergono dati interessanti. […]

Partiamo dai bambini di quarta elementare. I compiti a casa delle maestre italiane ai propri alunni risultano 3,3 volte superiori a quelli che affrontano i loro coetanei francesi e superiori del 50% di quelli con cui si devono confrontare settimanalmente i bambini spagnoli e finlandesi. Solo i piccoli tedeschi ne svolgono una quantità simile ai loro compagni italiani. In Scienze, sempre in quarta elementare, le cose cambiano poco. Anzi, il divario si incrementa.

L'impegno richiesto ai bambini italiani è 8 volte superiore a quello dei piccoli francesi, doppio rispetto ai bambini spagnoli e triplo rispetto a quelli tedeschi. Stesso discorso alla scuola media. Con tempi richiesti in Italia che risultano tre a quattro volte superiori rispetto a quelli previsti per i ragazzini francesi, portoghesi e finlandesi.

[…] in parecchi paesi europei, le attività didattiche si protraggono nel pomeriggio e i compiti si possono svolgere a scuola con la supervisione dei docenti. E in Italia? Secondo la banca dati del ministero dell'Istruzione e del merito, su tutto il territorio nazionale le classi di scuola primaria a tempo pieno, con lezioni fino alle 16:00, rappresentano poco più di un terzo del totale: il 38%.

E soltanto una su cinque (il 21%) al sud. Quando le lezioni terminano attorno alle 13:00 il peso dei compiti a casa viene scaricato su genitori e nonni o insegnanti privati, per coloro che se lo possono permettere. E alla scuola media la situazione si aggrava. Le classi che offrono attività didattiche anche nel pomeriggio non superano il 10%.

Le Vessazioni.

Estratto dell’articolo di Valentina Lupia per “Repubblica – Edizione Roma” il 6 aprile 2023.

Ci sono il "cinesino isterico" e "il tunisino piccolino", poi anche "l'orso Baloo scansafatiche e polemico", lo studente "di Prati", "quello che non studia mai", quello "bravo con gli occhiali" e il "chiacchierone polemico" con la "madre professoressa".

 È composta così, secondo un docente di italiano e storia, una classe del primo anno dell'istituto Galileo Galilei, una delle più antiche scuole superiori di formazione tecnico-industriale di Roma e d'Italia, a due passi dalla fermata Manzoni della metro A.

Il protagonista della vicenda è un supplente che ha preso il posto di un collega in aspettativa. Ad anno scolastico già avviato ha "ereditato" diverse classi e per identificare più rapidamente studenti e studentesse ha preferito usare degli appellativi, piuttosto che impararne a memoria i nomi.

 Così ha stampato i nomi degli alunni e accanto, oltre ai voti, ha scritto i suoi appunti. Spesso basati sulle origini e le caratteristiche fisiche. Più di un genitore non ha apprezzato e ora accusa il docente di "essere razzista" e di "aver fatto body shaming" nei confronti dei ragazzi, tutti minorenni.

Le lamentele sono arrivate anche alla dirigente scolastica, Elisabetta Giustini, che ha avviato subito un procedimento disciplinare. La preside sta approfondendo l'accaduto per chiarire i contorni della vicenda.

 "Ho convocato il professore, che non mi sento di difendere, davanti a dei testimoni come la vicepreside e il mio collaboratore - spiega Giustini a Repubblica - lui ha aperto il registro davanti a me, si è difeso spiegando che sono parole utilizzate in tono scherzoso per identificare e ricordare gli studenti, avendo tante classi, per lui si tratta di termini quasi affettuosi, non si tratta di body shaming o insulti razzisti". […]

Studenti UniSalento: «Noi vessati», il Rettore avvia verifiche. Tra le opzioni si suggerisce di «allargare la commissione d'esame e fare un nuovo appello». Redazione online su La Gazzetta del mezzogiorno l’11 Febbraio 2023.

«In seguito alla recente denuncia degli studenti e ai fatti in esame riportati, ho avviato un’indagine interna, attualmente ancora in corso, al termine della quale l’Università del Salento renderà note le proprie decisioni a riguardo. Prima della conclusione dei lavori non commenterò più la vicenda, e auspico che così facciamo tutti coloro che vi sono coinvolti. Solo in un clima di serenità, infatti, sarà possibile prendere le decisioni più opportune». Lo afferma in una nota il rettore dell’Università del Salento, Fabio Pollice, in riferimento alle proteste degli studenti che nei giorni scorsi hanno parlato di vessazioni e umiliazioni durante l’esame di letteratura latina da parte della professoressa Sabina Tuzzo. «In attesa che si completino le verifiche in corso - aggiunge Pollice - ho suggerito al Consiglio Didattico di Lettere di allargare la Commissione d’esame e di inserire un nuovo appello».

Nella nota il rettore sottolinea che «nel corso dell’ultimo anno accademico ho incontrato più volte la professoressa Tuzzo assieme ai rappresentanti degli studenti, per cercare una soluzione condivisa sulle modalità di svolgimento dell’esame e su un’equa valutazione degli studenti, nel rispetto del diritto di libertà di insegnamento dei docenti». «Nonostante questi tentativi, non si è giunti al nuovo clima auspicato - conclude Pollice che spiega anche di essere intervenuto sulla vicenda "finanziando uno specifico tutorato a supporto degli studenti». 

Estratto dell’articolo di Claudio Tadicini per corriere.it il 29 giugno 2023.

Per superare l’esame ha dovuto perfino mettere a rischio la sua vita, fino a svenire davanti alla professoressa per la patologia che combatte da quando aveva appena 10 anni. A subire umiliazioni, offese e rimproveri anche davanti ad altri studenti. Costretta pure a porgerle le scuse da parte della madre per sostenere l’ultimo esame prima della laurea – rimandata di un anno - per averla mandata «a quel paese» dopo essere stata bocciata, perché accusata (senza prove) di ricevere suggerimenti via cuffiette. 

 Mortificazioni che, nel suo caso, hanno travalicato anche nella sfera personale, quando la prof – informata delle sue precarie e certificate condizioni di salute – le avrebbe risposto: «Dei tuoi problemi di salute non me ne frega un cazzo».

Quella di Elena (nome di fantasia per tutelare la sua privacy), 25enne brindisina, oggi studentessa della Magistrale, è tra le numerose testimonianze che il consiglio di disciplina di UniSalento ha raccolto dopo l’esplosione del caso della docente Sabina Tuzzo, ordinaria di Lingua e letteratura latina presso l’ateneo leccese. 

Dal primo luglio sospesa per 4 mesi anche dalla retribuzione, è stata accusata a febbraio in una lettera dell’Udu – indirizzata al rettore Fabio Pollice e al ministro dell’Istruzione e della Ricerca Anna Maria Bernini - di vessare e umiliare gli studenti durante gli esami. E di permettere al marito, in pensione, di continuare ad interrogare.

Ci racconta la sua esperienza?

«[…]. La prof iniziò subito a gridare, perché tardai a condividere lo schermo del pc: «Incapace», «non capisci nulla». Mi chiese di mettermi spalle al muro, lontano dal pc, ma continuò a sbraitare quando le dissi che non riuscivo a leggere. Iniziai l’esame seduta, ma lei borbottava mentre cercavo di leggere e tradurre. Mi ritirai, così era impossibile continuare». 

La seconda volta, invece, come andò?

«Sempre online, fui bocciata. Chiesi di anticipare l’esame per svolgere alcuni accertamenti clinici e accettò. Durò mezzora, fui impeccabile, ma poi mi accusò di ricevere suggerimenti dalle cuffie che indossavo. Iniziò ad urlare ed insultare, io cercai di mantenere la calma. 

Avendo seri problemi di salute, le dissi che fregarla era l’ultimo dei miei pensieri, ma rispose “a me, dei tuoi problemi di salute, non me ne frega un cazzo” e mi bocciò. La mandai a quel paese e chiusi il pc». […]

La terza volta svenne, cosa successe?

«Rifiutò di farmi sostenere l’esame online. Era un mio diritto, poiché affetta da patologia autoimmune, che mi espone a serie conseguenze in caso di contagi, rischi di ictus e trombosi, con crisi epilettiche pluriquotidiane. L’unico modo per sostenere l’esame sarebbe stato ricevere le scuse scritte di mia madre: a suo dire, era stata lei a mandarla a quel paese, ma non era in casa. […] Svenni dopo 5 minuti. Solo allora capì la gravità e si scusò con mia madre: “Non pensavo fosse vero”. Dopo qualche giorno superai l’esame con 25». […]

Estratto dell’articolo di Claudio Tadicini per corriere.it il 12 febbraio 2023.

È tacciata di vessare e umiliare gli universitari durante gli esami, tanto che l’Udu ha scritto al ministro Bernini e al rettore Pollice, per chiedere provvedimenti e scongiurare tragedie come quella avvenuta alla Iulm di Milano. La professoressa Sabina Tuzzo, docente ordinario di Lingua e Letteratura latina di UniSalento, però, respinge le accuse.

 Come replica agli studenti che dicono di essere umiliati e terrorizzati in sede d’esame?

«Trovo del tutto infondate, offensive e diffamatorie le illazioni che mi sono state rivolte, supportate da studenti evidentemente delusi dall’esito dell’esame, istigati e strumentalizzati ad arte ed a fini speculativi, per screditare il mio lavoro e la mia correttezza e serietà professionale».

 […]

A cosa potrebbe essere dovuto questo «malessere diffuso»?

«L’esame, obbligatorio e professionalizzante, prevede una preparazione più accurata ed impegnativa. Molti studenti non hanno studiato latino a scuola, […] Molti lasciano l’esame per ultimo, preparano parzialmente il programma e ricorrono all’ormai reiterato ricatto dell’imminente laurea, per estorcere una promozione gratuita all’ultimo minuto. […]».

 Ha individuato, assieme al rettore (o chi per lui), una possibile soluzione?

«Ho invitato spesso il rettore (o chi per lui) a presenziare a qualsiasi mio appello d’esame, anche a sorpresa, per rendersi conto non solo del modus agendi et operandi mio e della mia commissione d’esame, ma soprattutto del livello di preparazione e talvolta di supponenza di non pochi studenti. […]».

[…] Come si sente?

«Infastidita ed indignata per la risonanza mediatica che si è voluto dare alla vicenda: si poteva risolvere discretamente e molto più efficacemente con un confronto diretto […]. Al contempo, però, serena perché seria e coscienziosa: ho sempre agito con la massima professionalità ed il massimo rispetto di tutti gli studenti - cui non mi permetto neanche di dare del “tu” […]».

 Ha ricevuto solidarietà dai colleghi? E da qualche studente?

«Certo. I colleghi di commissione sono increduli[…]. Alcuni studenti mi hanno contattato[…] dicendosi pronti a testimoniare il contrario».

 Perché allora quella lettera?

«[…]. Sono associazioni studentesche con fini politici: evidentemente, dopo i fatti di Milano, intendono speculare sull’esame e sull’insegnamento di latino. Non escludo di tutelare la mia onorabilità, oltre che dinanzi agli organi accademici, anche in altre e competenti sedi».

Le Aggressioni.

Fine adolescenza mai. I genitori, l’equilibrio psichico dei loro puccettoni e la saggezza di Crepet. Guia Soncini su L'Inkiesta il 31 Maggio 2023

Gli adulti che dicono di imparare dai loro figli, che non sanno niente, stanno crescendo migliaia di pirla pronti a piagnucolare, come ci ricorda lo psichiatra torinese. Forse per temprare il carattere basterebbe fare come quelli della generazione di Gianni Agnelli: andare in guerra 

Giornate di stremanti interrogativi per gli ufficialmente adulti che, pur di non crescere, sono determinati ad avere un rapporto alla pari coi figli, figli ai quali non s’è completata la mielinizzazione del cervello ma lasciamo stare i termini scientifici: quel che è importante è dar loro il diritto di voto anche se non sanno allacciarsi le scarpe.

Dunque abbiamo da una parte un sedicenne che accoltella una professoressa, dall’altra una undicenne che lascia un commento a Chiara Ferragni su Instagram. Poiché non sappiamo come giustificare il primo – certo, possiamo dire che non l’abbiamo ascoltato abbastanza, ma ecco, l’accoltellamento appare comunque difficile da inserire nella nostra lettura «i giovani hanno sempre ragione e c’insegnano la vita» – decidiamo che il problema è la seconda.

Adulti perlopiù scemi ma in qualche caso persino normodotati si aggirano per i social chiedendosi con aria dolente «cosa ci fa una undicenne su Instagram, non ci può stare, non è giusto che ci stia». Le loro figlie avranno come minimo un OnlyFans su cui fanno vedere il contenuto delle mutande, senza che i genitori se ne siano mai accorti, ma non è neanche questo l’importante.

Il punto non è cosa diavolo farà tua figlia senza che tu te ne accorga se tu sei così stolido che ti sembra un’anomalia l’undicenne su Instagram. Il punto è che la domanda non è cosa ci faccia un’undicenne su Instagram: la domanda è cosa ci faccia tu, cinquantenne, su Instagram.

Tu che ogni giorno ci racconti che dai tuoi figli impari ogni giorno, da quei figli che interrompono ogni riunione, ogni conversazione, ogni cena tra adulti perché, in un’epoca in cui cianciamo di burnout e guai al lavoro che osi pretendere la nostra attenzione un minuto dopo l’orario d’ufficio, se il puccettone videochiama si molla tutto.

Elenco, non esaustivo e non di fantasia, di videochiamate in seguito alle quali ho visto correre genitori via da impegni adulti per salvare l’equilibrio psichico puccettonico messo a grave rischio.

«Mi avete lasciato in casa solo penne nere, io scrivo solo con penne blu». Madre e padre si passano il telefono con uno sguardo da rifugio antiaereo, poi uno dei due corre a casa abbandonando il mojito che il cameriere gli ha appena poggiato sul tavolo, cinque euro ogni foglia di menta. Scusate, ma dove la comprate una penna a quest’ora. No, ma a casa ci sono, è che lui s’infastidisce a cercarle.

«Mi hai comprato il libro sbagliato». La puccettona ha dato ordine alla madre di comprarle non so quale storia analfabeta che desiderava leggere, le ha dettato un titolo e la tapina ha eseguito, ma il titolo era sbagliato, e quindi comunque l’errore è dell’acquirente pure se si limitava a eseguire ordini. La tapina madre interrompe la riunione che dovrebbe presiedere per ovviare a questo increscioso errore, giacché sappiamo tutti che i desideri filiali funzionano come diceva Carrie Fisher: instant gratification takes too long.

«Devi venirci a prendere ma non devi parlare». Maschio altrimenti alfa, fino alla riproduzione considerato carismatico e brillante, abbandona il tavolo allo stellato che aveva prenotato tre mesi prima e di cui aveva per tre mesi studiato il menu perché figlia pretende di venire trasbordata con le amiche con cui sta festeggiando un compleanno da bar improvvisamente divenuto non di loro gradimento ad altro locale; l’adulto non è autorizzato a rivolger loro la parola per non rovinare l’atmosfera, né può dirle di chiamare Uber perché sennò poi la piccina si fa venire il deficit di accudimento.

Eccetera.

L’età non è importante, giacché sappiamo tutti che ormai l’adolescenza è un ergastolo ostativo, una pena che non finisce mai, uno stato anagrafico che copre anche la senilità, senilità durante la quale facciamo le smorfie alla telecamera del telefono salvo poi trasecolare se le fanno le undicenni, che almeno sarebbero giustificate a esser sceme.

La laureanda che frigna perché il padre osa preferirle la partita è figlia del suo tempo, e d’un padre che le avrà detto che da lei impara qualcosa ogni giorno, invece di dirle «ringrazia che ti pago gli studi». Figlia d’un tempo e d’una società che da tre anni le dicono che nessuna è mai stata traumatizzata quanto lei che ha fatto lezione su Zoom: cara grazia se non finisce ad accoltellare il relatore.

Se provi a dire che tutto ciò non è sano, vieni accusata d’invocare il ripristino delle punizioni corporali, punizioni corporali che peraltro nessuno di coloro che partecipano al dibattito ha conosciuto: siamo andati a scuola in anni in cui nessuno ci bacchettava e si cominciava persino a dar del tu alle maestre; ma, se oggi qualcuno osa dire che no, i sedicenni non hanno capito il mondo meglio di noi, non foss’altro perché non hanno avuto il tempo di capirlo, allora i giovanili, gli alleati dei giovani, gli interiormente sedicenni si poggiano il dorso della mano sulla fronte e sospirano: ah, quindi vuoi il ritorno del libro Cuore.

L’altro giorno, in un’intervista alla Stampa, Paolo Crepet ha detto che «i genitori di oggi rinunciano a educare i propri figli non perché vanno in miniera, ma a giocare a padel» (aggiungerei: chiedono ai figli di andarli a guardare giocare a padel, e sono tutti fieri se finiscono sul TikTok filiale; pur non avendo mai giocato a padel né figliato, sento di dovermi scusare a nome d’una generazione di scemi: non so cosa sia andato storto, forse le radiazioni di Chernobyl ci hanno interrotto la crescita).

Ha detto anche: «I disturbi mentali sono comunicazione: se parlo di depressione, allora avrò moltissimi depressi. […] Sentiamo in continuazione dire che gli studenti universitari sono stressati. Ma di cosa, vorrei sapere. Non ce la fanno più. Ma di che, di studiare? Quello devono fare, quello è il loro mestiere. Il problema è che molti gli danno pure retta. Così il rischio è di crescere migliaia di pirla, pronti ad andare a piagnucolare da schiere di psicoterapeuti che sono felici di avere un cliente in più». Ecco. La principale ragione per cui sono felice di aver installato TikTok è che è pieno di conferenze in cui Crepet dice queste cose, oasi di sanità in un mondo impazzito che chiede il bonus psicologo e sostiene senza mettersi a ridere che i giovani si suicidano perché l’alberghiero di Massa Lubrense è troppo performativo.

Ci sono quelli che raccontano l’università italiana, un posto in cui anche una pianta grassa può prendere 30, come fosse il Giappone, e poi c’è Crepet. «Tra le mail ricevute negli ultimi tempi ricordo quella di una professoressa. Mi ha scritto che i suoi studenti, otto volte su dieci, quando devono compilare il campo data e ora le chiedono che giorno è. Il registro elettronico, la chat dei genitori, la possibilità di geolocalizzare i figli sono potentissimi strumenti di deresponsabilizzazione. Ma poi cosa ci aspettiamo? Che a 25 anni vadano in Argentina in cerca di fortuna? Restano a casa, il loro futuro è mettere l’appartamento del nonno in affitto su booking, che per quello non servono competenze».

Ieri parlavo di Succession con amici, di come le seconde generazioni di ricchi siano sempre imbecilli: non ti sei mai dovuto guadagnare niente, come ti saresti potuto temprare. A un certo punto di queste conversazioni c’è sempre qualcuno che dice: eh ma Gianni Agnelli. Che in effetti era una terza generazione. Però una terza generazione che ha fatto una guerra mondiale. Ho idea che, per temprare il carattere, abbia funzionato più che guardare in tv Chernobyl, o le Torri gemelle, o la pandemia.

Le ragioni dell'adolescenza violenta. Cristina Brasi su Panorama il 31 Maggio 2023

Il 16 enne che ha accoltellato la sua professoressa a scuola è solo l'ultimo episodio di una lunga lista di fatti dietro i quali ci sono spiegazioni sociali e non solo

La sensazione comune è quella che vi sia un crescendo di comportamenti aggressivi, fortemente disturbanti o violenti ad opera di adolescenti. In realtà condotte prepotenti e impetuose sono sempre state presenti, quanto è cambiato concerne le modalità con cui questi agiti si manifestano e, soprattutto, come questi vengono percepiti dal contesto sociale. Si pensi semplicemente alla lotta o al gioco della guerra, modalità che consentono al bambino l’acquisizione di abilità sociali anche più complesse affini all’ordine morale, quali il bene e il male, il rispetto reciproco o di ordine puramente collettivo, quali il riconoscimento dell’ordine gerarchico e il rispetto dei ruoli. Tali modalità di gioco, in grado di consentire anche uno scarico dell’aggressività e la possibilità di un confronto tra pari, vengono percepite dal contesto sociale come condotte di natura violenta, quando in realtà sono momenti di coeducazione, di scambio reciproco e di negoziazione di significati tra pari. I giochi di combattimento svolgono un ruolo importante nella formazione del bambino, consentendogli di mettersi alla prova, attraverso la finzione, in esperienze di confronto, di socialità, di gestione regolata dell'aggressività. Limitarsi a inibire questi giochi, ritenendoli semplicemente violenti non è una buona azione educativa. Il problema dell'aggressività infantile non è transitorio, il suo sviluppo appare relativamente stabile, non casuale e continuo nel tempo. Considerare tali comportamenti inaccettabili o da correggere immediatamente, può recare danno allo sviluppo sociale del bambino.

La situazione si aggrava se si pensa alla sempre più frequente esposizione dei bambini alla violenza passiva e alla impossibilità di poter gestire in modo diretto l'aggressività, così come avviene nel gioco motorio. Il gioco è per sua natura educante, in tutte le sue forme simboliche, drammatiche, individuali, costruttive, scientifiche e assume una valenza pedagogica determinante nel processo di sviluppo del bambino. Togliendo anche parte di queste possibilità si nega al bambino la possibilità di acquisire competenze sociali in ordine alle competenze che riguardano il proprio grado di sviluppo cognitivo ed emotivo. I bambini non possiedono un adeguato linguaggio simbolico ed emotivo, è proprio l’attività del gioco a consentirgli un confronto con la realtà immaginaria conservando una relazione con la vera realtà, ma consentendogli contemporaneamente di distaccarsi dalla prima. Il gioco è un autentico spazio potenziale utile non solo allo sviluppo psicologico, ma anche a quello emotivo e conoscitivo, a partire dall’intelligenza creativa, ovvero la capacità di inventare, produrre eventi e risolvere i problemi. Il gioco è quindi uno spazio che offre al bambino infinite possibilità per la formazione della sua personalità. Il diniego dinnanzi a determinate condotte ludiche, perché erroneamente associate dall’adulto contemporaneo alla violenza, non farà altro che portare ad un aumento della rabbia che verrà espressa a livello verbale. Nel bambino però la competenza verbale, intesa come la padronanza dei registri comunicativi corretti, è in fase di acquisizione, per cui ciò porterà inevitabilmente ad un aumento della rabbia, in quanto sarà costretto ad utilizzare un canale non adeguato che lo farà percepire come inadeguato. Tutto ciò va ad inserirsi in un contesto educativo e sociale del tutto particolare, basato sul soddisfacimento immediato dei bisogni individuali e sempre meno collettivi, in un surplus di beni di facile accesso e in cui i genitori non sono in grado di tollerare la frustrazione dei propri figli. Molto genitori, difatti, non accettano liberamente le manifestazioni emotive dei propri figli senza intervenire e senza offrire loro indicazioni di comportamento. Sono permissivi e non pongono regole nella convinzione sbagliata che i bambini debbano crescere liberi da qualsiasi vincolo. Questi bambini cresceranno con un fragilissimo senso di onnipotenza che andrà in frantumi alle prime difficoltà, con il risultato di trasformarsi in un profondo e diffuso senso di angoscia e di inadeguatezza. L’accesso a un surplus di beni materiali concorre alla formazione di un Sé grandioso che poco riesce a mediare con le asperità del quotidiano. L’avere tutto e subito non consente di sviluppare il desiderio, di tollerare l’attesa, di progettarsi nel futuro, di darsi obiettivi e di trovare soluzioni anche creative per il raggiungimento degli stessi. La tendenza che andrà a svilupparsi sarà quella del consumo scevro da emozioni, con la conseguenza di far sentire i figli da una parte padroni del mondo e, dall’altra, di essere anestetizzati a causa del bombardamento sensoriale che va ad inibire il processo di rielaborazione delle informazioni. Questi bambini si sentiranno pertanto vincolati dal tutto e subito correndo il rischio di divenire dei piccoli narcisisti fragilissimi, incapaci di assaporare la gioia delle cose e ancor più incapaci di tollerare la frustrazione della perdita e del conflitto. I figli, per costruirsi un’identità integra, necessitano di imparare a conoscere, riconoscere, gestire e modulare i propri stati emotivi. Senza questa decodifica rimarranno in balia di quanto provato, ma, al contempo, saranno anche spinti alla realizzazione immediata. Il problema non concerne quindi solo l’avere troppo, con conseguenze importanti anche sull’impossibilità di sviluppare capacità decisionali, ma quanto è pregnante è che essi sentono poco. I figli sentono poco il limite della gratificazione, la validità di una relazione significativa e la forza di un buon contenimento affettivo ed emozionale. Se non si abituano i bambini all’attesa non si consente loro di affrontare le frustrazioni e di trovare degli strumenti per gestirla. Se non permettiamo loro di stare da soli senza sentirsi soli, imparando ad utilizzare la creatività per sopperire alla noia, il rischio sarà quello di avere degli adolescenti non in grado di sopportare anche le più piccole sensazioni disturbanti. L’effetto sarà quello di dar luogo a quei comportamenti violenti indicati in apertura. Nell’aggressione i giovani tentano di percepire un’identità con la sopraffazione dell’altro, nel tentativo di modulare le proprie risposte emotive senza riuscirci. Attraverso l’atto violento tentano di attenuare il sospetto della rappresentazione di un Sé percepito come inadeguato e che si vergogna dei propri limiti e delle proprie paure. Un comune denominatore della rabbia adolescenziale è rappresentato dal forte bisogno di esprimere e comunicare dolore, sofferenza, angoscia, paura dell’abbandono. Spesso non si sentono capiti e questo non fa altro che rafforzare la convinzione di inadeguatezza e la conseguente paura a cui, in difesa, si risponde con rabbia ed agiti anche di natura violenta.

Docenti sono l’autorità e devono essere rispettati. “Per favore Professoressa, può bocciare mio figlio?”, il caso di Abbiategrasso e il sindacalismo genitoriale. Andrea Ruggieri su Il Riformista il 31 Maggio 2023 

“Per favore Professoressa, può bocciare mio figlio? Io gli voglio bene e osservo alcuni difetti che una bocciatura correggerebbe. Lo dico per lui”. Così, mio padre, in un colloquio al liceo con una mia insegnante, che incredula obiettava: “Ma come si fa? È il secondo della classe”. “Si impegna poco, non vorrà mica lui creda che nella vita tutto gli riuscirà senza sforzo…?” ribatteva lui (e credo che analoga richiesta venne fatta dai miei zii “contro” i miei cugini). Era la stagione dei genitori che, fattisi da soli, ritenevano che giustificare sempre i figli solo in quanto tali, facesse il loro male.

Uno dei primi, stupendi ricordi della mia vita sono le gremitissime lezioni-show universitarie di mio padre, brillantissimo e amatissimo – ancorché esigentissimo – professore di Scienza delle Costruzioni ad Architettura, a Roma. Siccome era alla mano e simpaticissimo, agli studenti era chiaro che se le cose agli esami andavano male, era per il loro interesse che glielo faceva ripetere. Mai mezza storia. Perché questo mio ricordo personale? Perché l’aggressione alla professoressa di Abbiategrasso grida vergogna. E rivela un andazzo che fa male ai ragazzi, quindi all’Italia di domani.

Fare i professori è un mestiere-missione: forma la mentalità dei giovani, la nazione del futuro. Come vi azzardate, mocciosi, a discutere l’autorità’ di chi vi fa del bene e insegna a vivere? Possibile siate così deboli, schiavi solo del consenso di chi ammira qualche bravata? No, non è possibile. E allora la causa è da cercare altrove: negli adulti, vostri genitori. Che anziché educarvi alla vita, a diventare uomini, vi considerano loro protesi, mai autonome, e difendono la loro incapacità educativa giustificando voi anziché chi da noi è pagato per pretendere da voi, e in cambio darvi gli strumenti per camminare sul viale della vita.

Che pena i genitori che protestano contro i voti dati al figlio, persino contro le scelte del mister della squadra di calcio che li mette in panchina. Il sindacalismo genitoriale fa orrore, e male a tutti voi figli. Oltre a offendere un professionista che, pur non facendosi ricco, esercita una missione cruciale: formare voi, gli italiani di domani. Costanza Esclapon, influente manager della comunicazione, quando la preside prima diede uno schiaffo a sua figlia e poi si scusò, si presentò a scuola sgridandola: “Preside, lei sbaglia a scusarsi. Mia figlia deve imparare il rispetto dell’autorità”.

Venerdì quella figlia consegue il master ad Harvard con una borsa di studio. Esatto: i professori sono l’autorità, e devono essere rispettati. Potete anche far finta non sia così. Lo scoprirete dopo, e pagherete il doppio in termini di insuccesso. Poi vi resterà solo di sfogare frustrazione e invidia sui social. Sai che ficata. Quindi ragazzi, poche scuse (“Sento la pressione”, ma per favore) un consiglio: noi vi aspettiamo fiduciosi nel mondo dei grandi, ma se i vostri genitori vi giustificano sempre, smettete di seguirli. Vi farete un favore. E giù le mani dai professori, cui bisogna solo dire grazie. Andrea Ruggieri

Scuola, le aggressioni ai docenti continuano ad aumentare: la prof ferita ad Abbiategrasso è solo l’ultimo caso. Uno studente su 5 ha assistito a episodi di violenza in classe. Che nel 40 per cento dei casi vengono filmati, secondo il sondaggio di Skuola.net. «È necessario ridare autorevolezza alla figura dell’insegnante». Chiara Sgreccia su L'Espresso il 30 Maggio 2023

Ad Abbiategrasso uno studente ha ferito la professoressa con un coltello. È successo nella mattina del 29 maggio, all’istituto superiore Emilio Alessandrini, nella città metropolitana di Milano. Poco prima dell’aggressione lo studente di 16 anni aveva spinto i compagni ad uscire dalla classe utilizzando una pistola giocattolo. È l’ultimo tra i fatti di cronaca che, secondo la maggior parte degli esperti, sono manifestazioni di un disagio che diventa sempre più esteso e profondo. Che sempre più giovani vivono soprattutto da quando, a causa del Covid-19, hanno trascorso mesi chiusi in casa. Molto spesso soli.

Il lunedì precedente, il 15 maggio, una professoressa dell’istituto Comprensivo Statale Salvo D’Acquisto di Miano, vicino Napoli, era stata picchiata da uno studente di 13 anni: un pugno allo zigomo. Di una settimana prima la notizia, controversa, della professoressa del liceo scientifico G.B. Grassi di Latina che presenta una denuncia in procura per essere stata bullizzata dai suoi alunni.

«L’emergenza educativa è tra le principali del paese», commenta l’avvocato Iside Castagnola, del Comitato media e minori del ministero delle Imprese e del made in Italy. «Si può risolvere soltanto rimettendo l’istruzione al centro dell’interesse della società e rinsaldando il legame tra scuola e famiglia, come si legge anche nella legge 71/2017 per la prevenzione ed il contrasto dei fenomeni del bullismo e del cyberbullismo. È necessario restituire autorevolezza e credibilità alla figura dell’insegnante. È un compito che spetta soprattutto ai genitori che dovrebbero smettere di fare i sindacalisti dei propri figli».

Che i genitori spesso difendano a prescindere le azioni commesse dai figli, lo dimostra anche un sondaggio realizzato lo scorso marzo dal portale Skuola.net: succede nel 29 percento dei casi. Nel 49 percento prima di esprimersi valutano la situazione. Solo poche volte, il 22 per cento, difendono apertamente gli insegnanti. «Anche il fatto che molto spesso le aggressioni vengano riprese per essere pubblicate suoi social media è un indicatore della trasformazione della concezione sociale del ruolo del docente», spiega Castagnola. Almeno il 40 percento di chi ha preso parte a episodi violenti ha filmato la situazione. L’80 percento di questi spiega di aver «creato o reso più scenografica la scena proprio per trasmetterla in video».

Il sondaggio di skuola.net condotto su un campione di 1.800 studenti delle superiori conferma l’aumento di casi di aggressioni nei confronti dei docenti che c’è stato nell’ultimo anno: uno studente su 5 dice di aver assistito a uno scontro tra alunno e professore, in classe. Nella maggior parte dei casi si tratta di aggressioni verbali, come insulti o risposte fuori luogo, ma il 18 percento degli episodi di violenza invece è fisico, «molto simile a una lite da bar», raccontano gli studenti intervistati.

Estratto dell'articolo di Cesare Giuzzi per milano.corriere.it il 29 maggio 2023.

Lo studente che ha aggredito la prof all'istituto Alessandrini di Abbiategrasso aveva un grosso coltello da caccia, identico a quello di Rambo. Ma non l’ha usato subito. 

Lo ha tenuto nascosto nello zaino fino, sembra, all’interrogazione dove ha preso un'insufficienza:5.  Dopo la prova - erano le 8.25 - ha avuto una discussione con l’insegnante di Italiano 51enne e l’ha colpita in aula, davanti ai compagni. Una scena terribile con i ragazzi che scappavano disperati e in lacrime [...] 

Mentre il ragazzo - 16enne italiano, residente in un paese vicino, che frequenta il secondo anno del liceo tecnico scientifico- colpiva la professoressa ad un braccio e forse anche alla testa. Le urla, il sangue a terra e l’insegnante che si rifugia in bagno.

Quando sono arrivate le prime pattuglie dei carabinieri lo studente era ancora in aula, da solo, e si teneva la testa con le mani. Come se si fosse reso conto solo in quel momento di quanto aveva combinato. Avrebbe anche cercato di ferirsi in modo superficiale dopo il gesto. 

I carabinieri hanno fatto uscire tutti gli studenti, tra urla e momenti d’angoscia. Poi con i giubbetti antiproiettile addosso sono entrati nell’istituto e hanno seguito le macchie di sangue. Il sedicenne, infatti, aveva con sé anche una pistola, risultata poi per fortuna un’arma giocattolo a gas e caricata a pallini. Non è chiaro se l’abbia davvero utilizzata.

Secondo le prime informazioni raccolte all’istituto tecnico industriale statale Alessandrini di Abbiategrasso, sembra che il movente dell’aggressione sia legato al comportamento scolastico del sedicenne. Nelle scorse settimane avrebbe ricevuto diverse note, quattro in particolare dall’insegnante poi aggredita. Sembra che il rendimento dello studente fosse buono, ma c’erano stati seri problemi legati al comportamento [...] 

«Non abbiamo mai avuto avvisaglie della possibilità di un comportamento simile, non potevamo certo immaginare questo, però domani era previsto un colloquio con lo studente e con i genitori per dei problemi didattici, sui quali non entriamo nei particolari». A dirlo è Michele Raffaeli, dirigente scolastico del plesso [...]

 La prof accoltellata dall'alunno ad Abbiategrasso: «È stato lui, non me l’aspettavo». Giovanna Maria Fagnani e Gianni Santucci su Il Corriere della Sera il 30 Maggio 2023

«Pensava che le fosse caduto addosso qualcosa dal soffitto». Il marito: questo lavoro mia moglie lo ama. La senatrice Licia Ronzulli, legata alla famiglia della prof: una volta uscita chiederà del ragazzo

«Ha avuto solo la forza di dirmi: “È stato... Non me l’aspettavo”. E io non ho voluto chiederle molto altro. Non volevo tormentarla. Era troppo scossa». Elisabetta Condò (l’insegnante aggredita) e suo marito Giuseppe Di Staso sono entrambi insegnanti. Lui al liceo scientifico Bramante, a Magenta. Lei invece, dopo molti anni nelle scuole medie di Abbiategrasso, dove è stata anche sindacalista per la Cgil, da due anni insegna italiano e storia all’«Alessandrini», indirizzo scienze applicate. 

Una scuola con circa 700 alunni. Ieri pomeriggio accanto alla docente, in ospedale a Legnano (tutti i paesi in cui si è svolta questa vicenda sono a Est di Milano), c’erano il marito e i figli. «Uno ha esattamente l’età dello studente che l’ha aggredita, l’altra è più giovane di due anni — racconta il marito —. Mia moglie non ha ancora la forza di parlare di quanto accaduto. È sotto anestesia. Ha subito un intervento al polso per la ricostruzione dei tendini. I medici mi hanno parlato di sei coltellate: alla clavicola, al polso, alla testa». 

Qualcuno si chiede se, quando tutto questo sarà superato, avrà la forza di tornare a scuola. «È presto per pensarci — dice Di Staso — Ci sarà un periodo lungo di rieducazione, si parla di settembre. E sarà verosimilmente necessario un percorso di aiuto psicologico: sia per lei, sia per i nostri figli. Però una cosa è certa: questo lavoro mia moglie lo ama. È molto motivata ed esperta, e questo è il riscontro che abbiamo sempre avuto dai suoi alunni e dalle famiglie, ma anche dai dirigenti con cui ha lavorato. Mia moglie in zona è molto conosciuta e stimata. Per questo l’accaduto ha fatto ancora più scalpore». 

Il vicepreside Davide Rondena ha raccontato che, all’inizio, la docente non si è resa conto di essere stata aggredita: «Pensava che le fosse caduto addosso qualcosa dal soffitto». «È vero», spiega il marito. «Poi si è voltata e ha visto il ragazzo col coltello». Quel ragazzo che per lui era uno sconosciuto. «Non me ne aveva mai parlato in particolare. È uno come tanti altri, con qualche difficoltà scolastica, ma niente lasciava presagire una cosa del genere. Poi, si può spendere un pensiero anche per questo studente. Si è rovinato la vita». 

La senatrice Licia Ronzulli, legata alla famiglia di Elisabetta, ha detto: «Se la conosco, una volta uscita dalla sala operatoria chiederà notizie del ragazzo che l’ha ferita». «È probabile», conferma il marito. Se di quello studente in particolare non aveva mai parlato, «dai suoi racconti emergeva però la fotografia di una scuola dove c’è una problematica di carattere educativo, prima ancora che scolastico — conclude Giuseppe Di Staso —. L’adolescenza è un’età problematica da sempre, ma anche io, nelle mie classi, mi rendo conto che i ragazzi in questo periodo sono sofferenti. A questo si aggiungono le mancanze dello Stato».

E conclude: «Al ministro Valditara, che è venuto a trovare mia moglie, ho chiesto di impegnarsi, al di là delle parole di circostanza, per far avere più fondi alla scuola e alla sanità pubblica, proprio per la prevenzione del disagio giovanile. Sarebbe importante avere uno psicologo nelle scuole. Al momento abbiamo un supporto veramente blando e centellinato».

Estratto dell’articolo Gianni Santucci e Giovanna Maria Fagnani per il “Corriere della Sera” il 30 maggio 2023.

«Ha avuto solo la forza di dirmi: “È stato... Non me l’aspettavo”. E io non ho voluto chiederle molto altro. Non volevo tormentarla. Era troppo scossa». Elisabetta Condò (l’insegnante aggredita) e suo marito Giuseppe Di Staso sono entrambi insegnanti. Lui al liceo scientifico Bramante, a Magenta. 

Lei invece, dopo molti anni nelle scuole medie di Abbiategrasso, dove è stata anche sindacalista per la Cgil, da due anni insegna italiano e storia all’«Alessandrini», indirizzo scienze applicate.  Una scuola con circa 700 alunni. 

Ieri pomeriggio accanto alla docente, in ospedale a Legnano (tutti i paesi in cui si è svolta questa vicenda sono a Est di Milano), c’erano il marito e i figli. «Uno ha esattamente l’età dello studente che l’ha aggredita, l’altra è più giovane di due anni — racconta il marito —. Mia moglie non ha ancora la forza di parlare di quanto accaduto. È sotto anestesia. Ha subito un intervento al polso per la ricostruzione dei tendini. I medici mi hanno parlato di sei coltellate: alla clavicola, al polso, alla testa».

Qualcuno si chiede se […] avrà la forza di tornare a scuola. «È presto per pensarci — dice Di Staso — Ci sarà un periodo lungo di rieducazione, si parla di settembre. E sarà verosimilmente necessario un percorso di aiuto psicologico: sia per lei, sia per i nostri figli. Però una cosa è certa: questo lavoro mia moglie lo ama. […] è il riscontro che abbiamo sempre avuto dai suoi alunni e dalle famiglie, ma anche dai dirigenti con cui ha lavorato. Mia moglie in zona è molto conosciuta e stimata. Per questo l’accaduto ha fatto ancora più scalpore». 

Il vicepreside Davide Rondena ha raccontato che, all’inizio, la docente non si è resa conto di essere stata aggredita: «Pensava che le fosse caduto addosso qualcosa dal soffitto». «È vero», spiega il marito. «Poi si è voltata e ha visto il ragazzo col coltello». 

Quel ragazzo che per lui era uno sconosciuto. «[…] È uno come tanti altri, con qualche difficoltà scolastica, ma niente lasciava presagire una cosa del genere. Poi, si può spendere un pensiero anche per questo studente. Si è rovinato la vita».

La senatrice Licia Ronzulli, legata alla famiglia di Elisabetta, ha detto: «Se la conosco, una volta uscita dalla sala operatoria chiederà notizie del ragazzo che l’ha ferita». «È probabile», conferma il marito. 

Se di quello studente in particolare non aveva mai parlato, «dai suoi racconti emergeva però la fotografia di una scuola dove c’è una problematica di carattere educativo, prima ancora che scolastico — conclude Giuseppe Di Staso —. L’adolescenza è un’età problematica da sempre, ma anche io, nelle mie classi, mi rendo conto che i ragazzi in questo periodo sono sofferenti. A questo si aggiungono le mancanze dello Stato. Al ministro Valditara […] ho chiesto di impegnarsi, al di là delle parole di circostanza, per far avere più fondi alla scuola e alla sanità pubblica, proprio per la prevenzione del disagio giovanile. Sarebbe importante avere uno psicologo nelle scuole […]».

Ad Abbiategrasso. Prof accoltellata dall’alunno 16enne: “Dai genitori nessuna scusa, nessuna parola di vicinanza o dispiacere”. La 51enne è stata dimessa dall'ospedale, dopo una delicata operazione. "Non mi sono resa conto subito di essere stata accoltellata. Ero di spalle piegata su un banco, ho sentito il primo taglio fortissimo al collo. Ho girato il braccio per difendermi e ho sentito i fendenti dall’alto che mi colpivano. È durato tutto pochi secondi". Redazione Web su L'Unità il 4 Giugno 2023

Elisabetta Condò è tornata a casa, è stata dimessa dall’ospedale San Paolo di Milano dopo essere stata accoltellata da un suo studente all’Istituto Superiore Alessandrini di Abbiategrasso. All’insegnante di 51 anni era stata prescritta una prognosi di 35 giorni e la riabilitazione, è stata sottoposta a una delicata operazione per la ricostruzione dei tendini del polso. Il ragazzo di 16 anni è stato arrestato con l’accusa di tentato omicidio aggravato. Quello che più ha ferito la docente però è stato il comportamento dei genitori del ragazzo: “Non odio quel ragazzo – ha detto a Repubblica – ma almeno i genitori dovevano scusarsi”.

Nessun movente, nessuna spiegazione da parte del 16enne. Dall’inizio dell’anno aveva ricevuto sei note. Aveva un’insufficienza in storia. I medici hanno parlato di un disturbo paranoide del minore che avrebbe scatenato la violenza contro la professoressa. “Non aveva una situazione critica, non rischiava l’anno. Le note che aveva erano di febbraio per compiti che non aveva fatto. C’era stata qualche piccola ragazzata di recente, come lo spray maleodorante sparso in classe insieme ad altri due compagni. Per questo la coordinatrice, non io, aveva convocato i genitori dal preside. Dovevano incontrarsi martedì, il giorno dopo i fatti”.

L’insegnante non riesce a spiegarsi l’accaduto. La mattina dell’aggressione aveva avvisato l’alunno che sarebbe stato interrogato in storia. Era un’interrogazione prevista, non punitiva. “Non mi sono resa conto subito di essere stata accoltellata. Ero di spalle piegata su un banco, ho sentito il primo taglio fortissimo al collo. Ho girato il braccio per difendermi e ho sentito i fendenti dall’alto che mi colpivano. È durato tutto pochi secondi“. La famiglia ha fatto sapere che il ragazzo ha chiesto scusa a tutti e che all’insegnante scriverà per chiedere perdono.

Dai genitori però neanche una parola. “Mi è dispiaciuto molto non aver avuto dalla famiglia nessun tipo di contatto o comunicazione, magari tramite l’avvocato. Non me lo aspettavo dal ragazzo, che è sicuramente sotto choc, ma almeno dai genitori mi sarei attesa un’espressione di vicinanza o dispiacere. Nessuna parola. Comunque non porto nessun rancore. Voglio che il mio studente recuperi equilibrio e normalità”.

Redazione Web 4 Giugno 2023

Elisabetta Condò, la prof ferita ad Abbiategrasso: «L’iPad che ho lasciato a scuola. Portatemelo qui, così aiuto colleghi». Giovanna Maria Fagnani su Il Corriere della Sera il 31 Maggio 2023

Il primo pensiero di Elisabetta Condò, sono stati loro: i suoi alunni dell’istituto Alessandrini. Lo raccontano i suoi colleghi, il preside e il vicepreside martedì mattina, che ieri finalmente hanno potuto parlarle al telefono. 

«L’iPad che ho lasciato a scuola. Portatemelo qui, così posso aiutare i colleghi da remoto. Siamo alla fine dell’anno…». La scuola, i suoi studenti, al primo posto. Anche se in convalescenza, dopo un intervento durato sei ore, il primo pensiero di Elisabetta Condò, sono stati loro: i suoi alunni dell’istituto Alessandrini. Lo raccontano i suoi colleghi, il preside e il vicepreside ieri mattina, che ieri finalmente hanno potuto parlarle, anche se solo qualche istante, al telefono. 

«E’ rincuorata da tutti gli attestati di affetto e di stima e mi ha fatto piacere sentire la sua voce perché, anche se provata dall’esperienza, ho sentito una persona che è presente e vuole reagire. Ci vorrà molto tempo per metabolizzare quanto accaduto» dice il preside Michele Raffaeli. Commovente è stata la telefonata con il vicepreside Davide Rondena, il primo soccorrerla e a fare un laccio emostatico al braccio, per cercare di fermare il sangue dalle ferite al braccio, usando una cintura («ma ho fatto solo il mio dovere» dice lui). 

«Elisabetta è coordinatrice di classe e ha detto che vuole continuare a seguire il percorso dei suoi studenti. Continua a pensare alla scuola: è la sua caratteristica, è una docente a tutto tondo» racconta Marco Marelli, insegnante di religione e sindaco di Morimondo, piccolo centro vicino a Abbiategrasso. Ieri la mattinata all’Alessandrini è trascorsa fra lezioni e momenti di riflessione. «Ho cercato di capire le emozioni che i ragazzi avevano dentro e ho trovato persone mature, che hanno saputo contestualizzare la cosa. 

La domanda di tutti è il perché un coetaneo o chiunque possa arrivare a una cosa del genere. Perché quello che ci si porta dentro possa venir fuor in modo così violento. Si è anche ragionato sull’aspetto civico della comunità in cui ci si trova» conclude Marelli. Si cerca di recuperare la serenità, anche se non è semplice. «Per alcuni alunni ci sono stati ancora lacrime e momenti di debolezza. Sono increduli, come Elisabetta stessa» dice il vicepreside. 

La classe in cui è avvenuta l’aggressione è rimasta a casa e riprenderà oggi le lezioni, sotto la guida di due psicologi inviati dal Comune di Abbiategrasso. «Tutta la comunità ha subito un trauma, quindi anche insegnanti e il personale. Tutti hanno bisogno di essere accompagnati nel percorso verso una normalità da ricostruire» sottolinea il dirigente scolastico. Lo studente rischia l’espulsione. «Il nostro regolamento la prevede, in caso di comportamenti violenti e penalmente perseguibili, ma è una decisione che compete al consiglio di classe. Agli scrutini si valuterà anche la sua posizione».

Estratto dell’articolo di G. San. Per il “Corriere della Sera” il 30 maggio 2023. 

«Io non lo sapevo, che avesse preso sei note disciplinari solo quest’anno». Le segnalazioni sono sul registro elettronico. Il padre del ragazzo che ha aggredito la sua professoressa ad Abbiategrasso lo apprende a metà pomeriggio di ieri, mentre suo figlio è con i medici dell’ospedale «San Paolo» di Milano. Note disciplinari che nella mente di quell’uomo aprono le domande che ogni genitore può farsi, quando scopre all’improvviso di avere un vuoto di conoscenza sul proprio figlio.

Note disciplinari che però, almeno all’apparenza, spiegano poco della violenza. All’origine di quelle ammonizioni ci sono per lo più scherzi un po’ plateali, che hanno disturbato la classe, provocato risate e un po’ di trambusto, e un fastidio per gli insegnanti. I compagni li definiscono «dispetti». 

Quello più insistito era staccare la spina della lavagna elettronica, interrompendo le lezioni di inglese. E poi, un’altra volta, uno spray puzzolente spruzzato in aula, così «per far perdere tempo». Quel […] Tutto questo però […] ha a che fare con un «carattere un po’ turbolento, ma non violento», racconta chi ha avuto modo di approfondire la condotta dello studente.

Però, forse, proprio la condotta qualcosa può far ipotizzare, sul perché l’equilibrio di questo ragazzino che non ha ancora compiuto 17 anni si sia spezzato, tanto da presentarsi a scuola con un coltellaccio: soprattutto per via dello scherzo dello spray, rischiava il 5 in condotta, che insieme con un brutto voto (un 2 preso nei giorni scorsi per una verifica consegnata in bianco), rischiava di abbassargli la media e portarlo, forse, almeno nella sua testa, a una bocciatura. 

Tutto questo non giustifica, ma racconta di una fragilità profonda e non espressa con nessuno, che ieri pomeriggio fa riflettere suo padre con i sanitari: «È un disastro quello che è successo, è terribile, ma almeno è ancora con noi e cercheremo di andare avanti... perché poteva mettersi una corda al collo e adesso non era più qua». 

Ed è un pensiero che […] dice solo il terrore che si spalanca in una famiglia quando scopre un ignoto di cui non aveva alcun sospetto. «Non ci sono state avvisaglie — ripete il padre ai medici — davvero nessun segnale che potesse farci pensare a una cosa di questo genere».

Il ragazzo non ha precedenti di alcun tipo, non ha mai avuto a che fare con la giustizia, non era in cura per un disagio psicologico. In quella classe di liceo scientifico è arrivato l’anno scorso e, stando al racconto dei compagni, «ha tranquillamente fatto amicizia con tutti […]. Non aveva voti particolarmente brutti e non si può dire che in classe si comportasse male, a parte gli scherzi. Anche con la professoressa non ha avuto mai particolari problemi». 

[…]  In mattinata, prima di entrare a scuola, con i compagni ha scambiato poche frasi su una verifica di chimica e sulla partita dell’Inter del fine settimana. In aula la professoressa ha chiesto a lui e ad altri se intendessero scusarsi per quegli «scherzi» che avevano creato problemi alla classe. Lui, come gli altri, ha risposto di no. Aveva un’interrogazione già programmata.

La coltellata. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 30 Maggio 2023

Anche se ogni fatto di cronaca contiene sempre (e per fortuna) un elemento di eccezionalità, lo studente di Abbiategrasso che accoltella la professoressa di Storia perché la vive come una nemica mette in evidenza due corollari della fragilità contemporanea, non solo giovanile: la paura del giudizio e la ricerca ossessiva del capro espiatorio. 

Intendiamoci, in ogni epoca gli esseri umani hanno cercato di attribuire a qualcun altro la responsabilità delle cose spiacevoli che li riguardavano. Però l’ambiente circostante contrastava questa loro tendenza. Adesso invece la asseconda. Si fa sovente l’esempio dei genitori che un tempo davano ragione all’insegnante del figlio e mai al figlio, ma lo schema può essere applicato a qualsiasi altro ambito. Respiriamo un clima di complotto costante che giustifica e quasi reclama l’esistenza di una congiura ai nostri danni. 

Prendiamo i politici: qualunque cosa li infastidisca è colpa di chi c’era prima, o di qualche cupola che trama nell’ombra all’unico scopo di distruggerli. Un atteggiamento mentale che riguarda e incarognisce tutti, a cominciare da chi lascia la macchina in seconda fila e si arrabbia se glielo fai notare perché la colpa non è sua, ma del sindaco che non costruisce i parcheggi. 

La scuola è inevitabilmente il luogo più sensibile e l’insegnante il bersaglio perfetto su cui sfogare il proprio disagio di vivere e di accettare la dura realtà: che nessuno complotta contro di noi, tranne talvolta noi. 

Abbiategrasso, lo studente che ha accoltellato la prof aveva sei note disciplinari. Il padre: «Non sapevo nulla». Giovanna Maria Fagnani e Gianni Santucci su Il Corriere della Sera il 30 Maggio 2023

Il 16enne ammonito a causa di scherzi e dispetti, dallo spegnimento della  lavagna elettronica allo spray puzzolente. Non era in cura per un disagio psicologico. L'ultima verifica consegnata in bianco, voto 2 

«Io non lo sapevo, che avesse preso sei note disciplinari solo quest’anno». Le segnalazioni sono sul registro elettronico. Il padre del ragazzo che ha aggredito la sua professoressa ad Abbiategrasso lo apprende a metà pomeriggio di ieri, mentre suo figlio è con i medici dell’ospedale «San Paolo» di Milano. Note disciplinari che nella mente di quell’uomo aprono le domande che ogni genitore può farsi, quando scopre all’improvviso di avere un vuoto di conoscenza sul proprio figlio. Note disciplinari che però, almeno all’apparenza, spiegano poco della violenza. All’origine di quelle ammonizioni ci sono per lo più scherzi un po’ plateali, che hanno disturbato la classe, provocato risate e un po’ di trambusto, e un fastidio per gli insegnanti. I compagni li definiscono «dispetti». Quello più insistito era staccare la spina della lavagna elettronica, interrompendo le lezioni di inglese. E poi, un’altra volta, uno spray puzzolente spruzzato in aula, così «per far perdere tempo». Quel giorno la classe ha dovuto trovare un’altra stanza per far lezione. Tutto questo però, sempre all’apparenza, ha a che fare con un «carattere un po’ turbolento, ma non violento», racconta chi ha avuto modo di approfondire la condotta dello studente.

Però, forse, proprio la condotta qualcosa può far ipotizzare, sul perché l’equilibrio di questo ragazzino che non ha ancora compiuto 17 anni si sia spezzato, tanto da presentarsi a scuola con un coltellaccio: soprattutto per via dello scherzo dello spray, rischiava il 5 in condotta, che insieme con un brutto voto (un 2 preso nei giorni scorsi per una verifica consegnata in bianco), rischiava di abbassargli la media e portarlo, forse, almeno nella sua testa, a una bocciatura. Tutto questo non giustifica, ma racconta di una fragilità profonda e non espressa con nessuno, che ieri pomeriggio fa riflettere suo padre con i sanitari: «È un disastro quello che è successo, è terribile, ma almeno è ancora con noi e cercheremo di andare avanti... perché poteva mettersi una corda al collo e adesso non era più qua». Ed è un pensiero che non ha neppure per un attimo l’intento di minimizzare l’aggressione all’insegnante, ma dice solo il terrore che si spalanca in una famiglia quando scopre un ignoto di cui non aveva alcun sospetto. «Non ci sono state avvisaglie — ripete il padre ai medici — davvero nessun segnale che potesse farci pensare a una cosa di questo genere».

Il ragazzo non ha precedenti di alcun tipo, non ha mai avuto a che fare con la giustizia, non era in cura per un disagio psicologico. In quella classe di liceo scientifico è arrivato l’anno scorso e, stando al racconto dei compagni, «ha tranquillamente fatto amicizia con tutti; ovviamente c’erano persone con cui si trovava di meglio, come capita sempre. Non aveva voti particolarmente brutti e non si può dire che in classe si comportasse male, a parte gli scherzi. Anche con la professoressa non ha avuto mai particolari problemi».

Lunedì lo studente, nella prima mattinata, entra in pronto soccorso in ambulanza, seguito da una pattuglia dei carabinieri. I medici gli curano le ferite alla testa: se le è fatte da solo, probabilmente con lo stesso coltello dell’aggressione, ha perso molto sangue. Il resto della giornata lo trascorre con gli psichiatri, che devono valutare profili e profondità di quello squilibrio esploso in maniera così violenta. In mattinata, prima di entrare a scuola, con i compagni ha scambiato poche frasi su una verifica di chimica e sulla partita dell’Inter del fine settimana. In aula la professoressa ha chiesto a lui e ad altri se intendessero scusarsi per quegli «scherzi» che avevano creato problemi alla classe. Lui, come gli altri, ha risposto di no. Aveva un’interrogazione già programmata.

Abbiategrasso, la furia dello studente contro la prof: «L'aggressione si è fermata quando lei è fuggita dall’aula». Gianni Santucci su Il Corriere delle Sera il 2 Giugno 2023

Le testimonianze dei compagni di classe. Il 16enne in carcere per tentato omicidio aggravato. Non ha spiegato i motivi dell’accoltellamento ma ha riconosciuto la propria responsabilità. L'ipotesi di un agguato premeditato 

Lo hanno raccontato i compagni di classe, in testimonianze che concordano su un punto centrale, e che è stato confermato anche dalla professoressa. Se dell’inizio dell’aggressione la donna non s’è resa conto subito, perché era girata di spalle, chinata su un banco, e ha pensato che le fosse «caduto qualcosa addosso», la fine è avvenuta «solo quando» l’insegnante è «riuscita a fuggire dall’aula», come spiega la Procura del Tribunale per i minorenni. In quei pochi istanti Elisabetta Condò, 51 anni, lunedì mattina, nel liceo scientifico «Alessandrini» di Abbiategrasso è stata colpita da almeno sei coltellate. Le profonde ferite al corpo e alla testa, e appunto il nuovo elemento che emerge dalle indagini, cioè che l’aggressione s’è interrotta non perché lo studente che deve ancora compiere 17 anni si sia fermato, ma perché la vittima è riuscita a scappare, hanno definito lo scenario di un tentato omicidio aggravato. Per quel reato l’arresto è stato ieri convalidato dal giudice per le indagini preliminari. E per lo studente è stato deciso il carcere, contro la proposta del legale della sua famiglia, che chiedeva la sistemazione in una struttura sanitaria.

L’accoltellamento è avvenuto lunedì mattina, una ventina di minuti dopo l’ingresso a scuola. Il ragazzo, bloccato dai carabinieri chino in un angolo dell’aula, con un coltello da caccia e la riproduzione di una pistola appoggiati su un banco, da quel momento è stato ricoverato al «San Paolo»: sia per le ferite alla testa che s’è fatto da solo, sia per una valutazione nel reparto di neuropsichiatria. Nei giorni passati in ospedale ha parlato abbastanza poco, e poche sono state le parole ieri davanti al giudice. Nell'interrogatorio lo studente avrebbe potuto spiegare meglio i fatti, e soprattutto le motivazioni alla base dell’aggressione contro la docente che, nell’ultimo anno, aveva firmato quattro delle sei note disciplinari che compaiono a suo carico nel registro elettronico (per lo più per scherzi e dispetti che disturbavano le lezioni). Invece ha di fatto solo «ammesso la propria responsabilità, non riuscendo a fornire una giustificazione per il gesto compiuto».

L’aspetto più critico però è un altro: «Non ha formulato alcuna riflessione critica rispetto alla gravità dei propri atti». Nella decisione di mandarlo in carcere probabilmente questo aspetto ha avuto un peso, oltre la gravità del reato, e le aggravanti. In particolare gli atti dell’inchiesta mostrano, come già si poteva dedurre dalla dinamica, che si sia trattato di un agguato premeditato e in qualche modo pianificato: lo studente infatti ha prima colpito con il coltello la sua insegnante di italiano e storia, poi con la pistola finta (ma identica a un’arma vera perché aveva tolto il tappo rosso che la identifica come riproduzione) ha fatto allontanare tutti i compagni dall'aula, spaventandoli.

Il ragazzo «non aveva mai manifestato segnali particolari di aggressività», e già da ora si può prefigurare un percorso giudiziario nel quale saranno fondamentali gli accertamenti per comprendere quali eventi abbiano creato la rottura nel suo equilibrio psichico. La Procura, sulla vicenda, fa una riflessione più generale: «Al di là delle condizioni personali che possano aver determinato il gesto in questione, lo stesso va letto, a parere di questo ufficio, quale episodio isolato, non sintomatico o tendenziale del disagio e malessere diffuso in alcune fasce della popolazione giovanile e adolescenziale».

Estratto da lastampa.it il 21 giugno 2023.

Il Consiglio d'Istituto del liceo scientifico Alessandrini di Abbiategrasso […] ha votato all'unanimità per l'esclusione dallo scrutinio, che comporta la non iscrizione al prossimo anno scolastico, e per l'espulsione dalla scuola dello studente sedicenne che lo scorso 29 maggio ha ferito a coltellate la sua insegnante di italiano. La famiglia del ragazzo farà ricorso […] ha commentato all'Ansa l'avvocato Stefano Rubio […]

«Una scelta presa in fretta e furia con gli scrutini imminenti per chiamare fuori la scuola lavandosene le mani, anche se la famiglia non l'aveva mai tirata in ballo», aggiunge l'avvocato Rubio. «Invece di passare dal Consiglio di classe dove avrebbero deciso gli insegnanti che conoscono meglio il ragazzo - prosegue - si è delegata la decisione al personale ausiliario, ai genitori e ad altri insegnanti che non fanno parte della classe, in un clima che era quello che era». 

Secondo il legale, «sono state fatte delle forzature, delle contestazioni e delle applicazioni di sanzioni sul bullismo quando tutti gli atti lo escludono totalmente - spiega - è un ragazzo tranquillissimo e sull'unico episodio che lo ha coinvolto ci sono ancora accertamenti, anche con gli psicologi, per capirne le cause». Quindi «faremo ricorso perché lo si deve al ragazzo. Non c'è ragione di bocciarlo se a scuola andava bene. […]».

La prof. accoltellata a scuola ci obbliga ad affrontare il problema culturale ed educativo dei giovani. Marcello Bramati su Panorama il 29 Maggio 2023.

Un altro episodio di violenza nelle aule scolastiche italiane. Tra bullismo, diverbi, litigi e episodi di cronaca nera, ormai se si parla di scuola serve ricorrere al lessico del conflitto, della guerra. E adesso bisogna fare qualcosa, prima che la deriva sfoci in tragedia.

E’ lunedì mattina e occorre già aggiornare il bollettino di guerra dal fronte scolastico. Uno studente sedicenne dell’istituto Alessandrini di Abbiategrasso, in provincia di Milano, ha minacciato una sua docente, poi l’ha ferita con un coltello e infine si è asserragliato in un’aula con alcuni compagni, armato di una pistola giocattolo. All’arrivo delle forze dell’ordine, non ha opposto resistenza e sono finiti tutti all’ospedale: il ragazzo dopo essere stato interrogato dai Carabinieri, la docente in codice rosso, poi tramutato in giallo. L’episodio va in archivio avendo evitato le conseguenze peggiori per le persone coinvolte, ma se si pensa alle condizioni della scuola italiana, l’avvenimento è un nuovo limite in basso e richiede una riflessione sul clima che si vive nelle nostre scuole e una considerazione circa la direzione in cui si stia andando. La scuola è un disagio per molti. Solo quest’anno, moltissimi studenti hanno protestato, anche con toni forti, per la mancanza di dialogo tra l’istituzione e i loro bisogni. Gli episodi di violenza, di cui quello di stamattina è solo l’ultimo in ordine cronologico, non si contano più. E a questi va aggiunto il bullismo tra pari, gli sberleffi nei confronti dei docenti, perpetrati quotidianamente - e spesso filmati e pubblicati - nelle scuole cosiddette “di frontiera” ma che andrebbero chiamate “della repubblica” per non abituarsi a certe derive, per non consentire che ci siano ambienti in cui sia permesso di tutto. Sempre più frequenti sono i diverbi e litigi tra genitori e docenti, in questo caso senza assegnare responsabilità, ma solamente registrando il confronto avvertito sempre più come scontro e incomunicabilità. Ancora, gli sportelli psicologici sono pieni di docenti in “burnout” lavorativo, esauriti dalle incombenze e dalle responsabilità; meglio non va agli studenti sempre più medicalizzati, tra disturbi dell’apprendimento trascurati o sopportati, malattie nervose, abbandoni scolastici, crisi. A tutto questo, si aggiunga la precarietà di alcune scuole in condizioni fatiscenti e l’insicurezza spesso dovuta anche alla mancanza di personale, docente e non docente, che non consente un’adeguata copertura sulla comunità scolastica. La scuola italiana parla di eccellenza, si rifà il lifting con la tecnologia di facciata, da trent’anni parla di svecchiare i programmi magari non leggendo più Verga (come ha suggerito la scorsa settimana l’autrice Susanna Tamaro) o escludendo dall’obbligo della lettura dei Promessi Sposi (come disse Matteo Renzi tempo fa) ma poi deve fare i conti con il suo lato oscuro che certe mattine la avvicina ad alcune scuole americane, e non per nuove collaborazioni in lingua inglese, ma perché ogni tanto c’è una strage, o quasi. Per non dare seguito a questa deriva, serve un intervento deciso della politica, ad esempio colmando i tanti buchi di personale ancora esistenti. Ma questo sarebbe il primo passo, il primo di tanti necessari in cui dovrebbe impegnarsi anche tutta la società civile, perché gli studenti sono giovani, figli, nipoti, fratelli, utenti, spettatori, clienti. L’episodio di oggi mostra che gli studenti sono ragazze e ragazzi di sedici anni – come in questo caso – che hanno troppa confidenza con l’uso della violenza, probabilmente consumata tramite serie tv e social, e che con la leggerezza e l’irresponsabilità della loro età rischiano di rovinare la vita a loro stessi e a chi sta loro intorno, per caso – è il caso dei compagni di scuola – o per mestiere, e qui il pensiero va al personale scolastico. La scuola ha le sue responsabilità, ma non è l’ente educativo, formativo e di istruzione unico nella vita di un ragazzo. Serve una riflessione seria sul ruolo delle famiglie, sugli esempi esaltati dai social e dalla stampa, su quanto si stia investendo per favorire un mondo in cui – nel quotidiano e nel sociale – si dialoghi partendo dall’ascolto, si accolga l’altro, si impari a gestire una sconfitta. La vita fuori da videogiochi e serie tv non si scrive a matita e certe azioni non si possono cancellare. Facciamo in modo – serve dirlo? - che questa lezione non si impari con il sangue, ma con l’educazione preventiva e attenta a ciò che passa per le mani, per gli occhi e dalle orecchie dei nostri giovani. Non è facile, ma è tutto qui.

Fallimenti e suicidi.

Estratto dell'articolo di Francesca Pierantozzi per “il Messaggero” il 18 Settembre 2023

Lette oggi, due settimane dopo che Nicolas si è impiccato in camera sua, le risposte della scuola ai genitori che chiedevano aiuto rendono la tragedia ancora più terribile. «Sono una vergogna» ha commentato il ministro dell'istruzione francese Gabriel Attal. […]

Nicolas aveva 15 anni. Si è ammazzato impiccandosi con una federa il 5 settembre, a casa sua a Poissy, alla periferia ovest di Parigi. Ha retto un solo giorno di scuola del nuovo anno scolastico. A nulla è servito aver cambiato scuola: aveva cominciato il secondo anno delle superiori, un istituto tecnico. […] Lui […] non ne parlava più. Non dopo aver letto, con la madre Béatrice, la lettera raccomandata inviata dal provveditorato della provincia di Versailles il 20 aprile. 

Il testo è stato reso noto due giorni fa dall'emittente BFMTV, accompagnato dalle lettere inviate dal preside ai genitori. Un carteggio che rivela un'istituzione incapace di riconoscere e rispondere ai fenomeni di bullismo. Il ministro Attal ha convocato una conferenza stampa. Ha fatto sapere che «un'inchiesta amministrativa» è stata aperta subito dopo il suicidio di Nicolas […] 

i genitori di Nicolas si erano sentiti rispondere che aver rimproverato al preside un eccessivo immobilismo era un comportamento «inaccettabile», erano stati richiamati al «rispetto della comunità educativa», veniva loro ricordato che «denunciare in modo inesatto un pubblico ufficiale» può essere passibile di «cinque anni di prigione e 45mila euro di ammenda» e infine veniva loro «ingiunto» di avere «un atteggiamento costruttivo e rispettoso».

Insomma di essere più educati. «Da quel giorno Nicolas non è stato più lo stesso», ha detto ieri Beatrice Le Blay in un'intervista al Journal du Dimanche. Le molestie erano cominciate il primo giorno di scuola, il 30 settembre 2022 alle ore 10, come aveva denunciato anche in commissariato. Erano soprattutto in due, se la prendevano con lui e anche con la sua famiglia: «Sei brutto, fai schifo come tua madre e tua sorella, nessuno ti vuole bene».

 Lo facevano anche davanti ai professori. «Ma non durante l'ora di lezione, durante la ricreazione» è stato risposto ai genitori dal preside, per sottolineare come questo impedisse provvedimenti. […]

Morire di università. Inchiesta sulla sequenza di suicidi nei nostri atenei. Carlo Bonini (coordinamento editoriale), Corrado Zunino. Coordinamento multimediale Laura Pertici. Produzione Gedi Visual su La Repubblica il 16 Aprile 2023

L'ultima bugia, la più grande, così difficile da spiegare, ha portato Diana Biondi, 27 anni, fuoricorso alla triennale in Lettere moderne all'Università di Napoli, sul terrazzo di quel ristorante di Santa Maria di Castello chiuso da stagioni. Trentacinque minuti lontano dall'ateneo, due chilometri di salita affannata da casa sua, Somma Vesuviana. Dal terrazzo Diana, sorella maggiore e insicura di una famiglia piccolo borghese, papà impiegato Telecom, mamma casalinga, si è lanciata sul piazzale sottostante, il lato che si affaccia sul vallone.

È stata la sorella, con cui condivideva l'appartamento da fuorisede, a trovare il corpo. Le memorie affidate a un block notes in cui ha raccontato tutte le insoddisfazioni del percorso accademico e le bugie ai genitori. REDAZIONE ONLINE su La gazzetta del Mezzogiorno il 7 aprile 2023.

Per mesi ha raccontato bugie alla famiglia sugli esami universitari che non aveva sostenuto, confidando - invece - la verità a un block notes di ben 42 pagine. Poi il peso da sostenere è diventato troppo, e si è tolto la vita, a quanto pare impiccandosi in casa, quell'abitazione da fuorisede che condivideva con la sorella.

È stata proprio lei a trovare il corpo del protagonista di questa tragedia, un ragazzo di 29 anni di Manduria (Ta) che studiava all'università in Abruzzo. La sorella ha chiamato immediatamente il 118, ma non c'è stato nulla da fare.

Gli inquirenti hanno trovato in casa proprio quel block notes in cui il giovane ha fatto riferimento al rendimento universitario che non era andato come voluto, e alle bugie raccontate ai genitori. Ora si cercherà di far luce sui fatti, ma purtroppo le pagine di quel diario si sono concluse nella maniera più dolorosa di tutte.

«Sono inconcludente e inutile», un altro studente si toglie la vita. Chiara Sgreccia su La Repubblica il 7 Aprile 2023

Frequentava la facoltà di medicina, era fuoricorso. Il 6 aprile a Chieti un ragazzo di 29 anni si è suicidato. «Non possiamo più restare fermi davanti a tutto questo. Non si può morire di università»

È successo di nuovo: un altro studente universitario si è tolto la vita. Anche perché si è sentito inadeguato rispetto al percorso di formazione che aveva intrapreso. Aveva 29 anni, studiava medicina all’Università degli Studi G. D’annunzio, viveva a Chieti, in un’abitazione che condivideva con la sorella più grande, non lontana dalla facoltà.

Su un block notes ha scritto un lungo messaggio, più di 40 pagine, per descrivere anche le motivazioni che non gli permettevano di stare bene: definisce la sua vita «inconcludente e inutile», parla di un esame di Anatomia patologica che non riusciva a superare. Scrive di «bugie», forse a proposito di esami non sostenuti. Si è tolto la vita il 6 aprile, ha ritrovato il suo corpo la sorella verso le 15 quando è rientrata a casa.

«Gli studenti di medicina sono in piena sessione di esame. Che terminerà dopo le vacanze di Pasqua», spiega Carmela Santulli, presidente dell’associazione studentesca dell’università D’annunzio “360 gradi” e rappresentante della consulta degli studenti. «È un periodo molto stressante, in tanti si scrivono agli esami per tirarsi, invece, all’ultimo perché non si sentono pronti». Santulli racconta che gli studenti avevano già manifestato al Rettore la necessità di implementare i servizi per il benessere individuale. «Tra questi anche l’attività di counseling psicologico, che al momento procede con difficoltà per le tante richieste e la mancanza di personale».

«Siamo sconvolti», ripete più volte Santulli con tono flebile. «Abbiamo saputo questa notte che uno studente di medicina si è tolto la vita. Purtroppo, però, non si tratta di un caso isolato: solo nell’ultimo mese sono venuta a conoscenza che ci sono stati altri due tentativi di suicidio. Il disagio tra gli studenti è evidente, non capisco perché se ne parli così poco. Perché non si cerca di risolvere il problema a monte: in tanti sono sotto stress. I disturbi alimentari e gli episodi di autolesionismo sono molto diffusi. Come l’uso degli psicofarmaci soprattutto per dormire».

L’università dovrebbe essere uno spazio creativo di crescita personale e culturale: «Una fucina di idee. E invece no. Pressione sociale, paura di fallire, sensi di colpa, bugie, il mondo universitario è diventato sempre più un luogo di depressione e ansia», scrive l’Unione degli universitari che dalla Pandemia porta avanti un’intensa battaglia per la tutela della salute mentale. Tra le aule delle scuole e degli istituti universitari e anche in Parlamento grazie a una proposta di legge presentata il mese scorso.

Estratto dell’articolo di Gennaro Totorizzo per bari.repubblica.it il 7 aprile 2023.

Ha affidato i suoi ultimi pensieri alle pagine di un block notes. Un lungo messaggio di oltre 40 pagine nel quale raccontava di non sentirsi realizzato nella vita, ritenuta "inutile e inconcludente", e anche di non riuscire a superare un esame di Anatomia patologica. Uno studente fuori sede 29enne di Oria, nel Brindisino (ma nato a Manduria), si è tolto la vita nel primo pomeriggio di giovedì a Chieti, nell'appartamento nel quale viveva con la sorella più piccola, anche lei studentessa nella stessa università D'Annunzio, sempre nella scuola di Medicina.

 A ritrovare il corpo è stata proprio la sorella, alle 15 circa del 6 aprile, quando è rientrata a casa e ha lanciato l'allarme. I due condividevano un'abitazione a poche centinaia di metri dal campus universitario dove hanno sede le facoltà mediche, nel Villaggio Mediterraneo.

Sul posto è intervenuta la Polizia e un'ambulanza del 118 ma per il giovane non c'era già più niente da fare. Il 29enne aveva studiato in passato prima Veterinaria, all'Università di Bari, e poi è passato a Medicina (sempre nel capoluogo pugliese) fino a trasferirsi all'ateneo in Abruzzo, poco prima dell'avvento della pandemia. Attualmente era fuori corso, ma a quanto riferito agli amici questo sarebbe dovuto essere l'ultimo anno di studio prima della laurea.

 Secondo la Questura, lo studente mostrava già da tempo segni riconducibili a uno stato depressivo. I conoscenti raccontano che negli ultimi tempi si è più volte scollegato dai social. Prima di togliersi la vita, ha scritto un lungo messaggio nel quale ha raccontato le sue preoccupazioni e ciò che lo aveva portato al gesto.

Sembra che non si sentisse realizzato, in generale nella sua vita, e in particolare nel suo percorso universitario. Nelle memorie, il giovane ha fatto riferimento a un esame di Anatomia patologica che per lui sarebbe apparso un ostacolo insormontabile. Lo studente parlava anche di "bugie", rivolte forse alle persone a lui vicine per esami che diceva di aver superato, quando in realtà non era così, oppure indirizzate a se stesso. Tutti lo descrivono come un ragazzo estremamente timido e riservato. "Non sapevamo nulla delle sue difficoltà negli studi - racconta un amico - era un ragazzo che sorrideva sempre: gli piaceva viaggiare e fare foto. A tutti noi diceva che all'università andava tutto bene e che questo sarebbe stato il suo ultimo anno".

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Chieti, bugie ai genitori sugli esami all'Università, studente 29enne tarantino si suicida. Sul diario: «La mia vita inutile». Cesare Bechis su Il Corriere della Sera il 7 Aprile 2023

Il giovane viveva con la sorella, due esami avevano rallentato il corso di studi e non aveva mai avuto il coraggio di dirlo al padre e alla madre

Studiava Medicina all’università Gabriele D'Annunzio di Chieti, ma era in ritardo con gli esami. Due, in particolare, ne avevano rallentato la marcia e lui aveva continuato a mentire ai genitori. Il 5 aprile un 29 enne originario di Manduria (Taranto), non ha retto più il peso della situazione e s’è impiccato nella casa che a Chieti Scalo, a poche centinaia di metri dal campus universitario dove hanno sede le facoltà mediche, nel Villaggio Mediterraneo, condivideva con la sorella a poche centinaia di metri dal campus.  È stata proprio lei, intorno alle 16, a scoprire il corpo senza vita del fratello e a chiamare il 118 il cui personale nulla ha potuto se non constatare la morte del 29enne. I pensieri sul disagio, sulla sofferenza per la sua situazione e sulle motivazioni del gesto estremo il 29enne manduriano le ha affidate a un diario di 42 pagine ritrovato in casa dagli inquirenti che continuano gli accertamenti mentre la salma è a disposizione dell’autorità giudiziaria. «Sono inconcludente e inutile», c'era scritto in una pagina del diario. Sul posto è intervenuta anche la polizia scientifica, che ha eseguito i rilievi.

L'allarme sulle pressioni

Essere indietro con gli studi universitari e non raggiungere gli obiettivi prefissati scatenano reazioni talvolta depressive che spingono gli studenti a creare situazioni non corrispondenti alla realtà da trasferire alla famiglia. La menzogna diventa sistematica e quando la pressione raggiunge il punto più alto di insostenibilità il castello di bugie può trovare sbocchi tragici. È un fenomeno studiato e analizzato di recente anche da indagini statistiche preparate dagli esperti di problematiche scolastiche. Sulla tragedia di Chieti è intervenuta l'Unione degli universitari nazionale abruzzese: «Pressione sociale - si legge in una nota -, paura di fallire, sensi di colpa, bugie, il mondo universitario è diventato sempre di più un luogo di depressione e ansia quando dovrebbe essere una fucina di idee, studio, curiosità e approfondimento»; secondo gli studenti «serve un cambio di rotta: più servizi per il benessere psicologico; una nuova visione di università dove vengono rispettate le persone per le loro competenze e qualità, decostruendo la narrazione meritocratica e la retorica delle migliori».

Il diario dello studente: «Inconcludente e inutile»

Alle 42 pagine di un block notes che la polizia ha trovato in casa, il 29enne ha affidato quelle che possono essere considerate le motivazioni alla base del gesto e che provano a spiegare una vita che lui stesso avrebbe definito «inconcludente e inutile». Il mancato raggiungimento del traguardo della laurea in Medicina avrebbe amplificato una situazione di sofferenza che probabilmente aveva maturato da un po'.

Che succede al successo. Storia di Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 5 aprile 2023.

Ancora una volta — stavolta a Ferrara, all’inaugurazione dell’anno accademico davanti a Mattarella — una studentessa ha ammesso in pubblico di avere pensato al suicidio dopo un insuccesso scolastico: il mancato superamento del test di ammissione a Medicina. Ancora una volta un’esponente della nuova generazione ha contestato apertamente il mito della meritocrazia, il culto della performatività, l’idea che per valere qualcosa nella vita tu debba riuscire a importi meglio e in meno tempo degli altri. Un modello retorico che viene spacciato come l’unico possibile e come tale è subìto dai genitori, non contrastato dalla politica e alimentato dai media con l’esaltazione dei «super-studenti» e la diffusione di talent-show dove si è giudicati di continuo e conta solo arrivare primi. Alla ragazza che ha lanciato il grido di dolore, Alessandra De Fazio, vorrei poter dire che è sempre andata così, ma sarei un bugiardo. Quando avevo la sua età, nessuno ti chiedeva di essere eccezionale. C’era la convinzione che i talenti non si riducessero a quelli che propiziano il successo in una determinata professione. Si indicavano a modello degli individui che oggi definiremmo dei falliti, solo perché non sono famosi o non hanno compiuto exploit straordinari, anche se vivono con maggiore serenità ed esprimono in altro modo il loro talento personale (tutti ne hanno uno). Sarebbe ora di togliere lucentezza al successo. Non tutta, ma un po’. Considerandolo per quel che è: un participio passato. Il Caffè di Gramellini vi aspetta qui, da martedì a sabato. Chi è abbonato al Corriere ha a disposizione anche «PrimaOra», la newsletter che permette di iniziare al meglio la giornata. Chi non è ancora abbonato le modalità per farlo e avere accesso a tutti i contenuti del sito, tutte le newsletter e i podcast, e all’archivio storico del giornale.

Gli studenti italiani chiedono aiuto: “vogliamo uno psicologo in ogni scuola”. Salvatore Toscano su L'Indipendente il 3 aprile 2023.

Unione degli universitari (Udu) e Rete degli studenti medi hanno presentato alla Camera dei Deputati un disegno di legge per istituire presidi psicologici in tutte le scuole e università. Tale richiesta si inserisce nella più ampia mobilitazione a tutela della salute mentale portata avanti dagli studenti. A Bologna, ad esempio, la nuova ondata di proteste e occupazioni è stata all’insegna del “fortissimo disagio psicologico che si avverte tra le mura scolastiche”. Secondo l’indagine Chiedimi come sto, effettuata su un campione di 30mila studenti, il 91% degli alunni delle superiori e delle università vorrebbe il supporto di esperti negli istituti. Il sondaggio rivela poi dei dati allarmanti sul disagio dei giovani italiani, acuitosi durante le restrizioni pandemiche. «Il sentimento più provato durante il periodo pandemico è stata la noia per il 76% dei rispondenti; emergono anche l’ansia al 59% e il senso di solitudine al 57%. Il 28% del campione è stato interessato da disturbi alimentari, mentre il 14,5% ha avuto esperienze di autolesionismo». Gli studenti partono dal disagio provato durante la pandemia per chiedere un supporto costante e di qualità, a tutela della non più trascurabile salute mentale. La denuncia si rivolge, dunque, anche a un sistema scolastico giudicato “sbagliato e troppo incentrato sulla competizione” .

Nell’autunno del 2020, il Ministero dell’Istruzione sottoscrisse un protocollo d’intesa con l’Ordine degli Psicologi per rimediare ai disagi legati alle restrizioni pandemiche. In pochi mesi, il 70% degli istituti scolastici si ritrovò dotato di uno sportello psicologico: 5.662 su 8183 scuole, secondo i dati MIUR. Il governo Meloni ha deciso di non rifinanziare la misura, puntando invece sulla nuova figura del “docente tutor”, che grazie a un corso sprint di 20 ore sarà in grado di rimpiazzare il lavoro dello psicologo, almeno secondo gli auspici dell’esecutivo. «L’apprendimento va di pari passo col fatto di stare bene», ricorda il presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine degli Psicologi (CNOP) David Lazzari, aggiungendo: «visto il successo dello sportello psicologico durante il covid, poteva essere l’occasione buona per scrivere una legge quadro che istituisse una volta per tutte la figura dello psicologo scolastico, inteso non come un servizio a gettone ma come una presenza fissa, parte del personale di ciascun istituto». La proposta presentata dagli studenti ha un costo stimato di 100 milioni di euro, il minimo per garantire un servizio di base ed evitare discriminazioni «fra ricchi e poveri, con le scuole delle aree più benestanti che si pagano il servizio con il contributo delle famiglie e le altre che restano a secco», conclude Lazzari.

Dall’inizio dell’anno scolastico ad oggi, 56 studenti hanno abbandonato il liceo classico Berchet di Milano, considerato l’eccellenza in termini didattici, per trasferirsi in altri istituti. Il dato, già di per sé considerevole, è accompagnato da altri segnali allarmanti. Un sondaggio condotto dagli studenti del liceo ha rivelato infatti una situazione di stress e ansia diffusi. All’indagine hanno partecipato in 533, più della metà dei 906 iscritti totali. La maggior parte ha affermato di soffrire di stress e ansia, mentre il 53% sente una forte pressione da parte degli insegnanti e il 57% non riesce ad essere sereno durante le prove scritte e orali. In quello che sembra essere il risveglio del sentimento di appartenenza e cooperazione tra gli studenti, l’esodo dal liceo Berchet è destinato a diventare un simbolo. La risposta non a un’eccezione ma alla sintesi di un sistema scolastico che, plasmato sul modello aziendale, insegue di continuò la produttività, premia il merito e si dimentica del benessere degli studenti. [di Salvatore Toscano]

Estratto dell’articolo di Sara Bernacchia per “la Repubblica” il 30 marzo 2023.

L’ultimo allarme arriva dal Berchet di Milano, uno dei classici più antichi e blasonati del Paese. Ma prima c’era stato il grido d’aiuto lanciato dai ragazzi di alcuni licei bolognesi — «Questo modello di istruzione ci distrugge» — e fiorentini. E a protestare non sono solo gli studenti: è una scuola che «logora i nostri ragazzi», denunciano i genitori di un gruppo di alunni del Cassini di Genova.

 Sono i luoghi dove dovrebbe formarsi la classe dirigente di domani, ma oggi da quelle stesse aule i ragazzi stanno scappando. L’allarme arriva da sempre più studenti: ansia e stress non permettono di vivere serenamente la scuola, il posto in cui trascorrono la maggior parte delle giornate. E le difficoltà, in alcune situazioni, sono tali da spingere giovani e famiglie a cambiare istituto.

[…] Così gli studenti li citano per chiedere aiuto, insieme ai risultati di un sondaggio (a cui hanno risposto in 533 su 906 allievi totali) secondo il quale oltre la metà di loro (il 57 per cento) soffre di stress e ansia a causa della scuola e il 53 per cento sente una forte pressione da parte degli insegnanti. […]

 Ma il disagio è più profondo e secondo i ragazzi la causa non sarebbe da ricercare solo nel Covid: «Le criticità erano presenti già prima della pandemia. Ora stanno solo venendo alla luce con più forza ed è importante che siano affrontate». L’obiettivo — sottolineano gli allievi del Berchet — non è «denigrare la scuola, ma far emergere ciò che non funziona e far sì che le cose cambino». Così non puntano allo scontro, ma al dialogo con i propri insegnanti.

E fanno lo stesso anche gli studenti che in questi giorni hanno occupato i licei Minghetti, Copernico e Sabin di Bologna: tra le motivazioni citano il profondo disagio psicologico e la volontà di contrastare un sistema scolastico incapace di ascoltarli e che li fa sentire «in gabbia».

Come avevano fatto a dicembre anche gli occupanti dei licei fiorentini Michelangiolo, Dante e Rodolico. «Stiamo tutti male — affermano dal collettivo del Minghetti — la maggior parte degli alunni qui è in cura da psicologi».

 Tutta colpa, secondo gli studenti, di un sistema scolastico che punta troppo sul merito, non solo alle superiori ma anche all’università. E qui il riferimento è alla tragedia della studentessa della Iulm, che si è tolta la vita a inizio febbraio. […]

Il pericoloso limite sulle aspettative dei nostri figli a scuola. Marcello Bramati su Panorama il 28 Marzo 2023

Studenti disperati, ma la colpa non è soltanto loro .

Un’indagine sugli studenti universitari italiani mostra una generazione in bilico tra ipocrisie e isterismi, costretta a nascondere le proprie fragilità con mille bugie anche tra le mura domestiche. Perché fa tanta paura non farcela? Abbiamo una generazione di studenti universitari che vive sul filo di un rasoio. Uno studente su quattro potrebbe ipotizzare un gesto estremo se la propria famiglia venisse a conoscenza della reale situazione del proprio corso di studi: questo afferma un’indagine di Skuola.net, sito di riferimento a vantaggio di studenti liceali per materiali di ogni tipo e anche portale capace di raccogliere l’umore delle generazioni sui banchi, o negli atenei, in questi anni. I dati raccolti questa volta restituiscono un’immagine allarmante costruita su menzogne, nascondimenti, serenità di facciata e una voragine sotto i piedi. I ragazzi che frequentano le università italiane se non sono in pari con gli esami non lo dicono, mentono, e lo fanno anche se di esami non ne danno nemmeno uno in anni e anni di percorso accademico. Fino a quando la situazione, ormai insostenibile, li getta nello sconforto e qualcuno, purtroppo, decide di farsi male, fino a togliersi la vita. Anche senza pensare al gesto estremo, è necessario riflettere sulla fragilità di questa generazione e sull’incapacità di mostrarsi in difficoltà. Non è sempre stato così, infatti nel mondo antico il tema del naufragio, della sconfitta e del fallimento era centrale. Achille è un eroe che sbaglia e agisce senza pensare alle conseguenze, pagando a caro prezzo i suoi eccessi, Odisseo è un personaggio differente ma temprato dalla sofferenza, così come Enea, fondatore della stirpe romana, è un profugo, uno sconfitto. E poi Giona, il profeta che nella Bibbia fa l’opposto di ciò che gli viene comandato da Dio, fino a Dante, oggi intoccabile ma nella Commedia ridotto a personaggio sempre in difetto, pronto a inciampare, fraintendere, non capire. Gli antichi avevano chiaro che sbagliare, cadere e fallire fa parte della vita. La società attuale invece non tollera l’incertezza, non accetta la sconfitta, non dà spazio al ripensamento. Chi non ce la fa non è da contenuto social, non può ambire a raccontarlo, non sarà un vincente, non finirà in nessuna menzione speciale, è e sarà un’occasione sprecata che respira. Non si tratta di aspettative alte da parte delle famiglie, anzi le famiglie sono sempre più comprensive e sulla difensiva nei confronti dei figli, fino a quando è possibile, vale a dire fino al termine della scuola, così come non si tratta di studi inaccessibili, al contrario generalmente gli atenei sono meno ostici. Il problema è il modello proposto dalla nostra civiltà, un modello di vita impossibile da riprodurre. La civiltà dell’immagine e della facciata non lascia margine a chi non splende, figurarsi a chi ha cicatrici, smagliature e imperfezioni. Vale a dire a tutti noi, o quasi. Che si parli di pelle liscia, peli superflui o carriera universitaria, il discorso non cambia: è accolta solo l’omologazione verso l’alto, se si parla di risultati, che peraltro devono arrivare senza sembrare NERD, affaticati, sudati, appassionati. Il modello vincente è lo studente brillante che non fatica più di tanto, che riesce a imporsi ma che sa divertirsi, che fa esperienze di successo ma non rinuncia a nulla, che sa l’inglese, perfettamente, ma non ha sacrificato ore e ore per impararlo. E’ l’immagine di un tipo che non esiste, perché per sapere bisogna impegnarsi, per affermarsi occorre sudare, perché non tutti ce la fanno, perché ci si può iscrivere all’università e accorgersi di avere sbagliato facoltà, perché si può passare un periodo nero e non essere più in pari con gli esami, perché -ancora- si può vivere un tempo di vita in cui non si ha più voglia o motivazione per portare avanti un progetto, e rallentare, o cambiare. Ecco, tutto ciò corrisponde alla vita e a quello che Eugenio Montale chiama coincidenze, prenotazioni, trappole e scorni della vita quotidiana. E questa vita incarnata, essendo poco vendibile come invidiabile, cozza con il modello schizofrenico vincente e disimpegnato proposto da social e media, mandando in crisi un’intera generazione di studenti, che non riuscendo a essere così, fa i conti con battute d’arresto, inadeguatezza, fragilità. Tutte realtà da nascondere, imparando a mentire fino a che non se ne esce più. Il secolo ventuno e la società del risultato da sbandierare con il sorriso a trentadue denti, bianchissimi, ha sulla coscienza tutti quelli che arrancano e finiscono per chiudersi in se stessi, mentire ai genitori, cadere in depressione, smettere di mangiare, farla finita. E il ventunesimo secolo lo stiamo costruendo noi così. Tocca a noi accettare che l’uomo sbaglia, fatica, imbruttisce, non riesce e muore. Finché gli errori saranno cancellati, la fatica rimossa, la bruttezza corretta digitalmente e la morte nemmeno pronunciata,

Università: uno studente su tre mente ai genitori sugli esami dati. Redazione Scuola su Il Corriere della Sera il 17 Marzo 2023.

Aumentano i casi di studenti che soffrono di ansia e difficoltà psicologiche. Perché si mente: per tranquillizzare i genitori. Il sondaggio di Skuola.net

Ci sono storie che finiscono malissimo, altre, come quella raccontata venerdì 17 marzo su Twitter da Paola, che mostrano resilienza e offrono speranza: «Avevo congelato la mia carriera universitaria perché di colpo e per motivi che neanche io ho ancora capito ho avuto un crollo», racconta in un thread che ha avuto oltre duecentomila visualizzazioni in poche ore. Il finale è una riscossa: dopo anni di fatica, blocco, «bolla d’ansia», Paola ha ripreso a studiare e a dare esami. Aumentano i casi di difficoltà psicologica, crisi da stress, ansia da prestazione, timore di essere inadatti e incapaci, di non rispondere alle aspettative dei professori e delle famiglie. Secondo un sondaggio tra gli studenti fatto dal sito Skuola.net circa uno studente universitario su 3 ammette di aver mentito alla famiglia sulla propria carriera studentesca. In circa la metà di questi casi - si parla del 16% del totale - la bugia è sistematica. Tra chi, a oggi, continua a tenere nascosta la realtà dei fatti, solo 1 su 3 afferma di essere nel pieno controllo della situazione. Mentre il 32% vorrebbe vuotare il sacco ma non riesce a trovare il coraggio, e il 35% è convinto che non si possa più tornare indietro. Se venisse scoperto dalla famiglia sul reale stato delle cose, il 25% ritiene di poter essere preda di uno stato di disperazione e la stessa percentuale afferma di poter ipotizzare anche un gesto estremo.

Intervenire sulla famiglia

Con questi dati viene da chiedersi se non sia tardi per correre ai ripari e soprattutto quale può essere una strategia utile per fermare o limitare questo fenomeno che rischia di diventare patologico. Secondo gli studenti il problema è in famiglia: uno su due (46 per cento) vorrebbe che passasse il messaggio che non è che una laurea sia per forza il sinonimo di successo. La prima spiegazione di chi comincia a mentire sui propri esami ai genitori è quella di volerli tranquillizzare. Solo il 15% vede utile potenziare il supporto psicologico da parte degli atenei, mentre uno su tre vorrebbe un approccio più umano e comprensivo da parte delle Università.

Estratto dell’articolo di Titti Beneduce per corriere.it il 2 marzo 2023.

La certezza non c’è ancora, ma potrebbe essere proprio di Diana Biondi, la giovane donna di Somma Vesuviana scomparsa da alcuni giorni, il corpo avvistato in un dirupo proprio a Somma, nella zona di Santa Maria a Castello.

 Diana, quindi, per ritrovare la quale i familiari avevano lanciato appelli disperati compreso alla trasmissione Rai “Chi l’ha visto?”, si sarebbe tolta la vita lanciandosi nel vuoto. Al momento non sono ancora chiare le cause del gesto, ma potrebbe trattarsi di problemi con l’università, l’ultimo posto dove Diana era stata vista.

Diana, 26 anni, era uscita di casa il 27 febbraio per andare a studiare: era iscritta infatti alla facoltà di Lettere moderne della Federico II a Napoli. Sulla sua scomparsa erano state avanzate diverse ipotesi. […-]

 Nel pomeriggio di lunedì, dopo aver frequentato i corsi della facoltà di Lettere moderne, Diana avrebbe dovuto far rientro a casa. Ma il cellulare ha smesso di squillare dalle 17. E da quel momento è rimasto sempre spento. Inutili anche i tentativi di contattarla attraverso Whatsapp, non è mai stata online. 

In Ateneo, come raccontato da alcuni colleghi di università, la giovane è regolarmente arrivata. Ha seguito le lezioni e poi è andata via. Da sola. Ed è da questo momento che si sono perse le tracce.

Dalle prime indagini è emerso che Diana da diverso tempo aveva problemi con l’università: i familiari erano convinti che fosse prossima alla laurea, forse addirittura che avrebbe dovuto discutere la tesi in tempi brevissimi.

 Sembrerebbe tuttavia che non avesse fatto tutti gli esami previsti dal piano di studi e addirittura che negli ultimi anni non avesse pagato la retta di iscrizione. I carabinieri sono al lavoro per verificare queste notizie. […]

Mancava un esame, Diana ritrovata in un dirupo. Impariamo ad ascoltare. Storia di Maurizio Patriciello su Avvenire il 2 marzo 2023.

Vado all’università. Devo ritirare la tesi”. Non era vero. Le mancava un esame e non avrebbe potuto laurearsi come previsto. Diana, 27 anni, è stata ritrovata senza vita in un dirupo. Non bisogna dare per scontato niente. Ogni generazione ha il dovere di ridire ai figli le verità acquisite perché le facciano proprie. Gli ideali alti sono da proporre mai da pretendere.

Ognuno deve dare quello che può. Rispettando i propri tempi, le proprie capacità. Certamente si può, e si devono aiutare i giovani a modellare il proprio carattere, a formare la propria personalità, ma senza esercitare pressione. Tutti i genitori vogliono per i figli il meglio, ma è fondamentale che i figli percepiscano che sono amati per se stessi e non per i successi ottenuti nello studio o nella carriera.

Dobbiamo imparare tutti che anche nella debolezza c’è la nostra grandezza. Che ad ammettere e confessare quello che altri potrebbero definire un limite non c’è niente di male. Dobbiamo insistere fin da quando i figli sono piccini, senza stancarci di ripetere loro: “Ti amo perché sei tu, perché sei unico. Sono contento di stringerti tra le braccia. Sei bello, ma non ti amo per questo. Ti amerei anche se non lo fossi”.

E da grandi: “Bene, mi fa piacere che l’esame è andato benissimo. Brindiamo al tuo 30, ma ricorda che avremmo brindato anche se ti avessero dato un voto più basso”.

E voi ragazzi, aiutateci ad aiutarvi. L’amore mette le ali si piedi, è vero, ma non sempre ci permette di leggere il malessere, la sofferenza che passa nel vostro cuore. Parlate. Confidatevi con chi vi ha messo al mondo, con i vostri amici, i vostri insegnanti. Raccontateci i vostri progressi - negli studi, in amore, nello sport - ma anche le battute di arresto. Noi vi amiamo così come siete.

Tutti abbiamo diritto a essere fragili, anche tu, figlio mio. I superuomini non ci interessano. La gioia non abita negli eroi ma negli uomini e nelle donne che sanno dare e ricevere amore. Cari figli, siamo più vicini di quanto questo nostro tempo ci fa credere. Non dimenticate che abbiamo avuto la vostra stessa età solo qualche decennio fa. Sta a noi genitori ma anche a voi, generazione nuova, accorciare le distanze del solcato che, a tutti i costi, si vorrebbe scavare fra noi.

Diana, cara, cara Diana, il dolore per la tua scomparsa è grande. Sei la figlia di tutti. Ogni mamma, ogni papà oggi fa suo l’angoscia che schiaccia e opprime il tuo papà e la tua mamma. Con loro, ci chiediamo:” Dove abbiamo sbagliato?” ma la risposta o non arriva o arriva con un carico di tante altre domande.

Addio, Diana. Addio, figlia di una generazione fragile e sensibile più di quanto siamo portati a credere ed ammettere. Somma Vesuviana, la Campania, l’Italia intera piange la tua scomparsa. Assurda. Dolorosissima. Evitabile. Il dialogo schietto e sincero tra le generazioni potrà evitare in futuro simili tragedie.

Studenti suicidi schiacciati dal peso della performance: «Ma eccellere non è prendere 30 agli esami». Chiara Sgreccia su L’Espresso il 16 Febbraio 2023.

Sono preoccupati per il futuro, terrorizzati dal mondo del lavoro e incassano solo delusioni. Nei loro messaggi d’addio si definiscono “falliti”. Ma a partire dalle loro tragedie va ripensato il modello universitario. «Cominciamo a premiare le differenze».

A vent’anni non si dovrebbe credere di aver fallito. Non in modo così drastico da farla finita. Eppure succede. «Fallimento, università e politica», ha scritto nel suo messaggio d’addio un ventiduenne studente di Economia all’università di Palermo. Si è tolto la vita a una settimana dalla sessione d’esame, lo scorso 15 gennaio. In pochi ne avevano parlato. Almeno fino a quando la tragedia della studentessa di 19 anni, che la mattina del primo febbraio è stata trovata morta nel bagno dell’università Iulm che frequentava, a Milano, non ha riaperto il dibattito sul malessere degli studenti. Anche lei, prima di fermarla, aveva definito la sua vita «un fallimento».

«Non si può morire di università. Contro un merito che ci uccide», ha scritto l’Unione degli universitari di Palermo sullo striscione vicino al dipartimento di Economia. «Rompiamo il silenzio», hanno gridato quelli del collettivo Cambiare Rotta di Milano. Per ricordare «che quanto è successo non è un caso isolato». Nel 2022 sono stati almeno tre i suicidi tra gli universitari. A pesare nella loro scelta anche la percezione di inadeguatezza nelle tappe che scandiscono il percorso di studi. Altri due in un solo mese nel 2023. Sintomo che sempre più studenti si sentono schiacciati dal mito dell’eccellenza, dalle difficoltà d’accesso al mondo del lavoro, dal peso di trovare un ruolo in una società che gli lascia poco spazio.

«All’interno dell’università ci sono le stesse logiche di competizione che regolamentano il mondo del lavoro -spiega Giorgia Salvati, studentessa di Filosofia di 21 anni che fa parte di Cambiare Rotta - Tra noi studenti c’è una “guerra” nella speranza di poterci costruire un futuro dignitoso. Essere fuoricorso, ad esempio, è motivo di vergogna perfino con i compagni. Anche perché non significa solo dover pagare altre tasse che sempre meno persone possono permettersi, ma sentirsi esclusi da opportunità di impiego. Chi si laurea in anticipo o con il massimo dei voti fatica a trovare lavoro, figurarsi chi arriva in ritardo con gli esami».

Come spiega Laura Parolin, presidente dell’Ordine degli psicologi della Lombardia, «tra le ragioni per cui gli studenti soffrono c’è il peso dell’eccellenza: come se essere eccellenti, o eccezionali, fosse l’unico segnale possibile di successo. Questo tipo di educazione lascia fuori non solo ciò che non funziona ma anche tutto quello che è medio, normale. Generando la sensazione, in chi non raggiunge il massimo, di aver fallito. E, come conseguenza, l’incapacità di tollerare l’insuccesso. Che invece costituisce un valore nel processo di crescita personale, perché permette di ripensare, ripartire, ricostruire».

Per Parolin, «il 30 all’esame, la laurea in tempo sono parametri rigidi. Guidano una generazione poco abituata a scoprirsi, a pensare ai propri talenti, a premiare le differenze».

Il successo, insomma, come unico standard, uguale per tutti. Anche per Laura Nota, presidente della Sio, la Società italiana orientamento, «chi si occupa di indirizzare le scelte dei ragazzi non dovrebbe indicare la direzione, ovvero una professione o una scuola, ma partecipare alla costruzione del loro futuro. Per questo serve fornirgli strumenti per comprendere criticamente la realtà e trasformarla».

Studentessa di 19 anni si suicida nella sua università: «La mia vita è un fallimento». Chiara Sgreccia su La Repubblica l’1 febbraio 2023.

La tragedia allo Iulm di Milano riapre il dibattito sulle pressioni percepite dagli studenti, che avevano già portato a esiti tragici. «Questo modello dell’eccellenza uccide»

Ha lasciato un biglietto per salutare amici e parenti in cui definisce la sua vita un fallimento. E poi si è suicidata. La tragedia di una ragazza di 19 anni, trovata mercoledì mattina nel bagno dell’Università Iulm che frequentava, riapre il dibattito sulla sempre più lunga serie di suicidi che coinvolgono studenti nel nostro Paese. 

Secondo i primi accertamenti, riportati dall’Ansa, la morte risalirebbe a martedì sera: i genitori avevano denunciato la scomparsa della giovane, ritrovata poi mercoledì in mattinata. «A 20 anni non si può morire chiedendo scusa per i propri fallimenti», commenta il collettivo universitario Cambiare Rotta. «Una nostra coetanea si è tolta la vita dentro la sua università. Un gesto estremo che conferma come questo modello di eccellenza sia un modello che uccide, come questo sistema sia fallimentare per gli studenti». Un dibattito, quello sulle aspettative che spesso schiacciano i ragazzi, che era già esploso nel nostro paese dopo i suicidi di quattro studenti tra il 2021 e il 2022. Tragedie che si erano consumate spesso in prossimità di feste di laurea annunciate ai genitori ma che in realtà non erano previste dagli atenei poiché i ragazzi erano in ritardo con gli esami ma non erano riusciti a confessarlo ai parenti.

«Non c’è mai solo una causa a motivare gesti così estremi come il suicidio. Sarebbe limitante incolpare il sistema universitario ma certamente la pressione sociale che gli studenti vivono tutti i giorni potrebbe essere la goccia che fa traboccare il vaso», aveva spiegato a L’Espresso la professoressa Antonella Curci, ordinaria di Psicologia generale all’Università di Bari e referente del Rettore per il counseling psicologico.

L’università dovrebbe essere un luogo di aggregazione, di crescita personale, di condivisione. Non soltanto di formazione e preparazione al lavoro. Altrimenti porta gli studenti all’alienazione. «Nessuno dovrebbe sentirsi solo dentro le mura dell’ateneo», dice a L’Espresso Aestetica Sovietica, l’editoriale indipendente impegnato affinché salute mentale e benessere collettivo acquisiscano spazio nel dibattito contemporaneo.

«A prescindere dalle motivazioni che hanno portato la ragazza al suicidio, il fatto che il gesto sia avvenuto dentro l’università investe l’ateneo di una responsabilità fondamentale. Dovrebbe assumere un ruolo centrale, propulsivo, di riflessione. L’università si sarebbe dovuta porre come il centro di una discussione condivisa sulle motivazioni che possono portare a compiere simili gesti. Invece, Iulm ha scelto di non fermare completamente l’attività didattica».

Proprio la scelta dell’Università ha alimentato le critiche online. «Iulm esprime il suo cordoglio e osserva tre minuti di silenzio», spiega l’ateneo in una nota, in cui annuncia la sospensione delle lezioni ma non degli esami. «Così vale una vita umana?», scrivono molti studenti sui social. E anche chi ha dovuto sostenere l’esame oggi commenta stupefatto: «”Buongiorno ragazzi iniziamo velocemente con l’appello”. Così poche ore dopo è iniziata la mia giornata in quello stesso ateneo, alienato da una verità che giace senza vita a due passi dall’aula dove 230 studenti vengono chiamati per nome, per sostenere un esame. Uno tra tanti ma forse uno di quelli che ha mancato la soddisfazione di un’anima pesantemente fragile, una di quelle a cui si doveva dare ascolto. Ed ho quasi l’impressione che oggi, nonostante il suo ultimo agonizzante urlo, tutti siamo improvvisamente divenuti sordi e che il fallimento che se l’è portata via sia adesso in ognuno di noi», confida ad aestetica sovietica una studentessa che questa mattina ha sostenuto un esame. A pochi metri dal bagno in cui è stata ritrovata morta la diciannovenne.

L’ennesimo suicidio in Università e il sistema spietato dell’istruzione di “eccellenza”. di Francesca Naima su L'Indipendente il 4 Febbraio 2023.

Il primo gennaio una studentessa di quasi 20 anni che frequentava il primo anno della facoltà di Arti e turismo presso l’Università IULM di Milano si è tolta la vita, impiccandosi. Era alla sua prima sessione di esami. Il corpo della ragazza è stato ritrovato nel bagno dell’edificio 5 dell’ateneo con il collo avvolto da una sciarpa, oggetto con il quale la giovane ha compiuto il gesto estremo. Vicino al cadavere rinvenuto da un custode all’apertura degli edifici, un biglietto in cui la giovane parlava della sua vita personale e studentesca come “un fallimento”. Le ultime parole della ragazza non sono state condivise pubblicamente, ma dalle informazione pervenute la studentessa avrebbe sentito di essere arrivata a un punto di non ritorno per motivi personali, familiari e “professionali”, scusandosi con gli affetti per averli delusi. Viene da sé come a soli 20 anni percepirsi come falliti non debba e non possa essere normale; il recente suicidio dell’universitaria ha infatti riaperto un dibattito che critica un percorso scolastico troppo spesso competitivo e caratterizzato da esclusioni, arrivismi e standard inumani, fino a mettere in evidenza la rischiosa tendenza della società contemporanea, nella quale si pretendono risultati basati su modelli inarrivabili.

Eppure di eventi tragici, riprova della necessità di abbracciare sensibili cambiamenti non solo nel mondo universitario, se ne hanno a iosa, come ha anche ricordato Camilla Piredda, coordinatrice dell’organizzazione studentesca italiana di ispirazione sindacale, confederata alla Rete della Conoscenza, ovvero l’Unione degli Universitari (UDS): «Negli ultimi anni abbiamo visto il progressivo deterioramento della salute mentale, anche a causa di una costante pressione sociale che impone un modello sempre più performativo. Denunciamo come il sistema universitario non solo sia incapace di ascoltare e supportare coloro che manifestano difficoltà durante il proprio percorso di studi, ma anzi li sottoponga a uno stress continuo, a delle aspettative sempre maggiori. Sul fronte del supporto psicologico, poi, vi sono soltanto servizi di counseling che, da soli, non possono affrontare appieno le esigenze e i bisogni psicologici della popolazione giovanile»

L’intervento della coordinatrice UDS chiede inoltre che «questi tragici episodi non cadano nel vuoto. Da troppo tempo le nostre richieste vengono ignorate dalla politica, che preferisce parlare di un senso distorto del merito anziché di inclusione, ascolto e supporto psicologico». Un’assenza di azione che macchia la coscienza delle istituzioni di perdite umane, anche dopo le pressioni sempre più numerose, specialmente dopo un periodo come quello pandemico in cui il dibattito si è intensificato mentre la risposta della Sanità italiana ha dimostrato una pericolosa impreparazione. Non solo: Camilla Piredda fa notare come esista «una sofferenza, un’ansia diffusa che viene costantemente ignorata: quando le istituzioni si renderanno conto che è arrivato il momento di cambiare narrazione, intervenendo con risorse e strumenti adeguati di supporto agli studenti?». Senza dimenticare come lo studio oltre a un diritto, dovrebbe essere motivo di arricchimento e libero scambio di opinioni e permettere di accrescere e migliorarsi, ma anche di provare piacere, sensazione che oggi sembra consumarsi e lasciare spazio solamente a stress e ansia.

E non sorprende come le studentesse colleghe universitarie della vittima, in una dettagliata lettera pubblicata sempre dall’UDS, parlino ormai di sola tossicità: «Non possiamo tacere davanti all’ennesima giovane che mette fine alla propria vita a causa del proprio percorso universitario. Ci viene chiesto perennemente di ambire all’eccellenza, ci viene insegnato che il nostro valore dipende solo ed esclusivamente dai nostri voti. Questo sistema universitario continua e continuerà ad uccidere. Serve prevenire, serve costruire un sistema accademico ed universitario in grado di insegnarci che non siamo numeri ma persone»

Il fatto che il gesto estremo sia stato compiuto da una studentessa interna a un ambiente universitario particolarmente noto (e privato) rende ancora più profonda la riflessione sul funzionamento accademico, nel quale viene presentata come unica strada la sopportazione di un ambiente altamente tossico, primo assaggio del percorso successivo, quello lavorativo. L’imposizione dell’eccellenza e concetti quali il merito, la foga competitiva che tiene conto della vetta e mai del percorso, l’ossessione per la valutazione e per il giudizio, sono messi al primo posto. Ultima invece, la salute mentale. L’ennesima dimostrazione delle falle di un sistema che nuoce gravemente alla salute psicofisica e non agisce nemmeno per rimediare ai propri errori ha mosso ancora una volta la comunità universitaria e studentesca in generale, la quale ribadisce sia giunto il momento di cambiare e prendere una direzione finalmente umana, perché certe tragedie si possano prevenire: «Tempo, una costante nella vita dei giovani, che studino o meno. La pressione che non viene mai alleviata. Togliersi la vita però non è dovuto da una decisione momentanea. Non ci si impiega certo tre minuti. No, è il risultato di un carico che si porta da mesi, o anni che la società ci butta addosso senza mai voltarsi indietro a controllare il nostro stato di salute. Non ci si può fermare mai. Neanche davanti a un atto tragico che non coinvolge solo la sfera personale, ma più che mai sociale. Siamo costantemente costretti a soddisfare delle aspettative, raggiungere dei numeri. Altrimenti sei lasciato indietro, fuori dal sistema, non vali abbastanza. Al fianco delle studentesse della Iulm, al fianco di chi si sente oppressa o oppresso». [di Francesca Naima]

Stanchezza e vergogna. Storia di Alessandro D’Avenia su Il Corriere della Sera il 5 febbraio 2023.

Qualche giorno fa una ragazza si è tolta la vita con una sciarpa nel bagno di un’università milanese: nel biglietto d’addio chiedeva scusa per i suoi fallimenti. Vorrei andare oltre la critica alla cultura della performance per capire piuttosto come curare in tempo le ferite che uccidono, fisicamente o spiritualmente, i futuri ventenni. Da tempo collaboro con il regista Gabriele Vacis e abbiamo realizzato un lavoro tratto dal libro «L’Appello» con i bravissimi ragazzi della sua scuola di teatro, i quali alla fine del triennio hanno costituito una compagnia (PEM) che ha appena portato in scena a Torino «Antigone e i suoi fratelli», spettacolo ispirato alla tragedia di Sofocle in cui una ragazza si oppone alle leggi ingiuste della città per difendere i legami familiari, pagando con la vita. Vacis ha chiesto ai ragazzi di rispondere alla domanda chiave dell’opera: per chi o cosa, come Antigone, vale la pena dare la vita? E così è nato il monologo «Ho nostalgia della guerra» di Lorenzo Tombesi, uno degli attori poco più che ventenni dei PEM. Incastonato nello spettacolo è una dolorosa confessione sulla fatica di trovare, oggi, una ragione sufficiente per cui dare la vita: «Sia l’una cosa, morire, che l’altra, cioè vivere, richiedono una scelta. Io non ho il coraggio di fare una scelta. E quindi cambio idea, continuamente. Non ho una fede. Non ho una causa per cui lottare, perché ne ho troppe». Non mancano le cause, ma allora che cosa manca? Il monologo risponde: «Il piccolo motore interno che ho mi ha portato lontano da casa, ma per fare un mestiere che non credo valga più di un altro. Quanto è stata ribellione? Quanto è stato talento? Forse oggi recito, ma domani? E questo mi fa rabbia! Perché significa che niente è insostituibile, che niente è indispensabile. Necessario. Anzi che tutto è inconsistente, è troppo comodo, è fiacco, è opaco, sicuro, vecchio, tutto è uguale a tutto!». L’attore si chiede in che cosa è insostituibile: non vuole la resa alla realtà ma una presa sulla realtà. Per questo ai miei studenti dell’ultimo anno dico: «Per avere la maturità (non l’esame, formalità superata dal 99,5% dei maturandi) dovete riuscire a rispondere a una sola domanda: perché sei venuto al mondo?». La risposta smaschera le finzioni (copioni di vita imposti o interiorizzati ma non propri) con cui cerchiamo di armare il nostro ego e indebolisce la paura che paralizza le scelte e quindi la crescita. Provo a rispondere io: sono venuto al mondo per aiutare altri a trovare il proprio destino, attraverso la bellezza. Scrivere, insegnare, raccontare a teatro... sono modi di realizzare, nello spaziotempo in cui vivo, ciò per cui sono qui. A molti ragazzi oggi manca «il perché», che non li aiutiamo a trovare e a far fiorire (in famiglia e a scuola) soffocandolo con decine di «come» e di «che cosa» fare. Infatti Lorenzo continua: «Non ho il coraggio di dimenticare l’idea della sicurezza economica, che rispetto ad altri considero meno perché ho intrapreso una strada molto incerta, ma mi pesa il timore di non riuscire a raggiungere una stabilità. Non ho il coraggio di credere in Dio, in Allah, in Zeus, perché chi dovrebbe raccontarmi certe storie non ne è più capace. Sono davvero invidioso dei giovani ucraini… a loro è capitata la guerra e non hanno altra scelta che prendere in mano il fucile». Lorenzo afferma provocatoriamente che vorrebbe esser messo in una questione di vita o morte. Nei periodi di pace i suicidi dei giovani aumentano, smascherando il vuoto di una cultura che, non offrendo ragioni per vivere, è poi costretta a darsene una per morire, come la guerra. È una pulsione che Freud chiama «di morte», opposta all’unico fine perseguito dalla specie: la sopravvivenza (conservazione e perpetuazione). Quest’ultima però non è sufficiente, non ci basta sopravvivere, noi vogliamo vivere «sopra», cioè dare un senso alla vita, e se non lo troviamo decidiamo incredibilmente di dare e/o darci la morte. Il monologo infatti finisce così: «Dico queste cose e allo stesso tempo mi accuso - mea culpa mea culpa mea culpa, ma come faccio a non subire il fascino di chi sceglie di morire? Non voglio più avere tutte queste reti, tutte queste possibilità, tutte queste alternative! Come faccio a scegliere se c’è tutta questa scelta? Forse un tempo c’era la rabbia, a me è stato lasciato quello che viene dopo: la stanchezza. C’è qualcosa per cui saresti disposto a morire? Per cosa vale la pena vivere? Non ho niente da rispondere. E mi vergogno anche per avere pensato le cose che ho detto, e soprattutto mi vergogno di averle dette». Troppe scelte, nessuna che valga la vita, la seduzione della morte e le ferite generazionali: stanchezza e vergogna, quelle che portano al suicidio una ventenne. Che fare? La risposta di Antigone è valida da quando fu pronunciata quasi 25 secoli fa: «Io sono nata (éphyn) non per odiare (synéchthein) ma per amare (synphiléin)». Sofocle inventa per lei due verbi che in traduzione sbiadiscono: a philéin (amare) e a échthein (odiare) aggiunge infatti syn (con), preposizione che indica unione e pienezza (sinergia e compagnia, simpatia e compassione, sintonia e concerto, simposio e congresso...). La giovane Antigone afferma che il suo destino (il verbo significa nacqui, venni al mondo, la mia natura) è syn-philéin: «con-amare», «tutto-amare», e non «con-odiare», «tutto-odiare», cioè creare legami (essere amata e amare) e non catene (essere odiata e odiare), cioè guerra, in ogni forma, tra singoli o popoli, di parole o fucili. L’odio infatti è capace di dare senso ed energia alla vita come ci riesce l’amore, ma con esiti opposti: (auto-) distruttivi. Con amare qui si intende l’appartenere a qualcuno a tal punto da poter anche dare la vita per lui, come quando diciamo ti amo da morire (cioè voglio impegnarmi perché tu esista di più, costi quel che costi). Il sapere «perché» è venuta al mondo rende quindi Antigone capace di opporsi al potere e dare la vita per i fratelli: non può tradire se stessa, smetterebbe di vivere da viva. Compito educativo, ieri come oggi, resta quindi quello di far sentire ai ragazzi questa «appartenenza» (relazioni autentiche e stabili) che consente poi loro di «venire al mondo» con coraggio, da infanti a fanti, che vanno «alla vita» e non «alla guerra». L’assenza di relazioni di appartenenza significative, legame profondo con la vita, impedisce di darla: solo chi viene «da» poi può essere «per», se non sono in cordata non avanzo e non conto per nessuno (non sono insostituibile), sono uno «slegato». Auguro allora a Lorenzo (in fondo aver creato i PEM grazie a un maestro come Vacis non è già una risposta?) e ai ventenni come lui di non cedere alla seduzione della distruzione che manda a morire tanti giovani (come i fratelli di Antigone che si sono dati la morte a vicenda pur di ottenere il potere), provando invece a vivere in queste domande: a chi appartengo e chi mi appartiene? Perché sono venuto al mondo? Che cosa posso essere e fare solo io, oggi, per aumentare la vita in e attorno a me?

La maleducazione.

La lunga scia di sangue degli insegnanti in Corea del Sud: ecco cosa succede. Storia di Federico Giuliani su Il Giornale martedì 5 settembre 2023.

In Corea del Sud decine di migliaia di insegnanti hanno organizzato uno sciopero di massa per protestare contro le diffuse molestie da parte di genitori prepotenti e studenti indisciplinati, le stesse due cause che hanno portato, nel corso degli anni, svariati membri del personale didattico a togliersi la vita. I manifestanti hanno chiesto al governo maggiori misure di sostegno per la loro categoria dopo l'ultimo episodio verificatosi lo scorso luglio, con il suicidio di un'insegnante 23enne di una scuola primaria, vittima di pressioni e abusi da parte dei genitori dei suoi alunni.

La protesta degli insegnanti

Nella sola capitale sudcoreana, Seoul, sarebbero scesi in piazza circa 50.000 insegnanti, mentre in tutto il Paese il numero avrebbe toccato quota 200mila. Il problema del bullismo (e della violenza) tra gli studenti in Corea del Sud è un fenomeno conosciuto e ben documentato. L'indignazione ha però raggiunto il punto di non ritorno con il citato suicidio di una giovane insegnante, ritrovato senza vita in dopo aver più volte espresso ansia per le denunce subite da parte dei genitori violenti dei suoi alunni.

Quella è stata la scintilla che ha fatto nascere il “movimento degli insegnanti”, i quali dal canto loro chiedono protezione e tutele. Da quel momento in poi, gli insegnanti hanno organizzato veglie e manifestazioni ogni fine settimana per piangere la morte del loro collega e chiedere un rafforzamento dei diritti, culminando in una manifestazione nel fine settimana a Seoul e in altre città del Paese. Le notizie degli ultimi giorni di diversi altri presunti suicidi di insegnanti hanno ulteriormente alimentato l’indignazione.

Bullismo e prepotenze

Di recente, due casi simili a quello citato avevano spinto i sindacati degli insegnanti sudcoreani a chiedere una revisione della legge sul welfare minorile, che contiene disposizioni di dubbia interpretazione sulla cui base gli insegnanti potrebbero essere ritenuti responsabili di abusi subiti dai loro studenti. La mobilitazione ha portato alla chiusura di almeno 37 istituti scolastici nel Paese, 11 dei quali nella sola capitale.

Durante i sei anni fino a giugno, ha sottolineato Reuters, circa 100 insegnanti delle scuole pubbliche si sono suicidati in Corea del Sud. Cinquantasette di loro insegnavano nelle scuole elementari, secondo i dati del governo. Il presidente Yoon Suk Yeol ha ordinato ai funzionari di ascoltare le richieste degli stessi insegnanti e di lavorare per proteggere i loro diritti, ha fatto sapere il suo ufficio.

Le autorità hanno avvertito che l'azione collettiva degli insegnanti per interrompere le lezioni era illegale e hanno minacciato misure disciplinari. Tuttavia, il sindacato degli insegnanti sudcoreani non è stato coinvolto nelle manifestazioni di lunedì, ha affermato il gruppo leader della protesta, Everyone Together As One.

I dati sui suicidi

La Corea del Sud ha il tasso di suicidio più alto tra i paesi sviluppati, come mostrano i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e dell’Ocse, con più di 20 persone su 100.000 che si tolgono la vita. Il ministero dell'Istruzione si è impegnato a prevenire episodi di punizioni di insegnanti per attività educative legittime e a migliorare la comunicazione tra insegnanti e genitori.

"Il numero delle denunce indiscriminate di abusi sui minori è in aumento, poiché i diritti degli studenti sono stati eccessivamente enfatizzati, mentre quelli degli insegnanti non sono stati rispettati. Sosterremo gli insegnanti affinché possano concentrarsi sull'istruzione, senza preoccuparsi di ricevere denunce indiscriminate di abusi sui minori", si legge in una nota del ministero.

Lo stesso ministero ha istituito una task force per rafforzare le misure legali e garantire i diritti degli insegnanti, come ad esempio non rispondere alle telefonate dei genitori sui loro telefoni personali. Qualcosa, seppur lentamente, inizia a muoversi.

Parla la Frassinetti, Sottosegretario combattivo del Ministero dell’Istruzione e del Merito. Cultira identità il 20 aprile 2023.

Per il sottosegretario all’Istruzione onorevole Paola Frassinetti lo Stato può e deve fare di più per fermare la ”via crucis” della violenza che interessa in questi ultimi anni molte città italiane: non solo femminicidi e violenza contro le donne, ma anche il fenomeno preoccupante delle baby gang: occorre assolutamente prevenirne le azioni criminose. Fondamentale l’educazione civica nelle scuole, per insegnare non solo il valore della conoscenza ma anche il rispetto per gli altri.

Onorevole Frassinetti, lei è nata a Genova, vive da tempo a Milano e viaggia spesso a Roma. Ma qual è la sua città identitaria?

Sono tre città che amo per ragioni diverse. Genova rappresenta le mie radici, la terra dove sono nata, i miei nonni e la mia infanzia. Roma rappresenta il mio percorso politico nelle diverse fasi della mia militanza prima e dei miei ruoli istituzionali poi. La mia città identitaria è però Milano, dove mi sono trasferita con la famiglia a 4 anni. Lì ho frequentato scuole e università, ho incontrato gli amici più cari e ho iniziato fin da ragazzina la mia attività politica nel Liceo. Dal vento e dal mare di Genova mi sono subito abituata ai nebbioni padani.

Il 5 aprile ha presentato in Senato la conferenza stampa nella quale Unione Nazionale Vittime ha riproposto la Mostra Itinerante “Sui passi della violenza”. Come donna e come politico cosa pensa del progetto?

Penso che sia una mostra di grande impatto per riflettere sulla violenza in tutte le sue forme: dal bullismo alla violenza di genere finanche alle stragi, come nel caso del Ponte Morandi o del Tribunale di Milano. Una violenza che colpisce nel profondo ogni persona sensibile, non solo chi ha vissuto direttamente l’avvenimento, ma pure chi ha il coraggio di ascoltare, riflettere e immergersi nel dolore senza voltarsi dall’altra parte.

Siamo nel periodo di Pasqua. Anche i quadri della mostra parlano di un Via Crucis, quella delle vittime. Spesso, infatti, chi rimane vive un vero e proprio percorso di dolore tra lunghe attese giudiziarie e stress psicologico. Lo Stato dovrebbe e potrebbe fare di più?

La Via Crucis di nostro Signore è sofferenza prolungata, è un percorso lungo e tortuoso che porta alla Croce. Senza voler fare paragoni irriverenti molto spesso le donne subiscono violenze reiterate nel tempo che sono per loro delle vere e proprie Vie Crucis. Lo Stato potrebbe certamente fare di più prevenendo delle violenze e delle morti troppo spesso annunciate. Questo è il problema, bisogna poter intervenire con tempestività mettendo la salvezza della vittima davanti a tutto.

A marzo ha partecipato ad un incontro con i ragazzi dell’Istituto Nautico di Genova con cui si sono affrontati i temi caldi del bullismo e cyber bullismo, oltre che della violenza in generale, partendo proprio da alcuni di questi quadri. Che ruolo hanno l’educazione civica e la realizzazione di progetti attivi nella scuola che lei immagina ed andrà a forgiare?

L’educazione civica ha un ruolo fondamentale e deve servire soprattutto ad insegnare il rispetto per l’altro da sé. Troppo spesso la famiglia non è capace di trasmettere questi valori e la scuola in quei casi diventa l’unico luogo dove è possibile riflettere su queste cose. L’educazione Civica serve ad insegnare i principi costituzionali, la forma dello Stato, il valore dell’ambiente ma soprattutto il rispetto per gli esseri viventi e per le loro diversità.

Quale Sottosegretario all’istruzione, cosa vede nel futuro dei ragazzi e cosa pensa possa fare lo Stato per migliorarne la formazione?

Per migliorare il futuro dei ragazzi ci vuole una scuola dove non ci sia più livellamento verso il basso e dove i capaci e meritevoli senza possibilità economiche possano affermarsi con facilità. Una scuola dove l’insegnante sia rispettato nella sua autorevolezza dagli studenti e dalle loro famiglie. Una scuola dove la trasmissione delle conoscenze torni ad essere prioritaria.

Le baby gang sono un problema sempre più preminente in diverse città italiane, da Genova a Milano crescono i casi e spesso le amministrazioni locali si trovano a gestire veri e propri moti di violenza collettiva che coinvolgono giovani di diversi gruppi e i cittadini che si trovano sul loro percorso. Strade e stazioni, zone specifiche delle città diventano loro territorio e le persone si vedono limitare spostamenti in orari serali, ma anche durante il giorno. Come affrontare il problema? Quanto incide l’arrivo di minori non accompagnati in questo panorama?

Le baby gang stanno diventando uno dei maggiori problemi di ordine pubblico soprattutto nelle grandi città. Solitamente sono formate da stranieri, per lo più sudamericani con una forte dose di violenza innata favorita dall’uso smodato di alcol. Risulta difficile, pertanto, individuare queste bande e prevenire le loro azioni criminose. L’arrivo di minori non accompagnati incide molto sulla pericolosità di queste bande. Per contrastare questo fenomeno ci vorrebbe maggiore capacità di prevenzione e uno studio meticoloso dei loro spostamenti e delle loro modalità di vita.

Ad aggredire la prof anche la nonna dell'alunna. Aggredita dalla mamma dell’alunna, il dolore della prof: “Noi docenti non meritiamo di essere dati in pasto alle belve”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 28 Marzo 2023

Erano in quattro, tutti familiari. Sono entrati dal portone principale senza che nessuno abbia provato a fermarli. Davanti a tutti la madre di F., una ragazza della prima. Poi il marito, la nonna e un giovane. Hanno iniziato a cercarmi, aula per aula”. Inizia così il racconto di Lucia Celotto, 61 anni, insegnante di Inglese da trentacinque, di quanto le è accaduto quattro giorni fa nel liceo di Castellammare di Stabia dove insegna. Secondo la famiglia dell’alunna, la prof avrebbe messo voti troppo bassi alla ragazza. E per questo motivo volevano picchiarla. Punirla.

Un’aggressione avvenuta davanti a decine di studenti con la docente, prima insultata, poi afferrata per i capelli e presa a schiaffi in faccia. La situazione è rientrata solo grazie all’intervento delle persone presenti che hanno bloccato la mamma della giovane alunna e portato via l’insegnante. La prof in un’intervista alla web tv La Voce della scuola e riportata da Repubblica, racconta che quel giorno era all’ultima ora quando è iniziato il trambusto nel corridoio. “Ero tranquilla e volevo trasmettere tranquillità ai miei ragazzi. Loro mi dicevano: ‘Prof, stia attenta’. Non avrei mai immaginato un’aggressione in corridoio, dopo trentacinque anni di servizio“.

Il giorno precedente la preside l’aveva avvertita di proteste di alcuni genitori che la accusavano di dare “voti sbagliati” con “due pesi e due misure”. “Insegno da 35 anni, sono sempre stata nella valutazione tendenzialmente generosa – ha detto – perché penso che i ragazzi vanno solo ed esclusivamente gratificati, mai puniti o penalizzati o etichettati. Anzi, spesso dico loro che ingabbiarli in un numero non mi appartiene e se potessi lo eviterei”.

La prof racconta di aver già incontrato la madre violenta dell’alunna nel primo quadrimestre, dopo un 4 dato alla figlia e ad altri che non avevano fatto i compiti. “Non li controllo spesso, ma se scopro la mancanza dei compiti mica posso fare finta di nulla – ha raccontato ancora – Mi avevano colpito, di quella donna, le continue domande su una compagna di classe di sua figlia: ‘E perché non ha preso quattro anche lei, perché?’. Sembrava ossessionata dall’altra ragazza tanto che le dovetti dire: ‘Vogliamo parlare del rendimento di sua figlia?’. Poi ho saputo che aveva già aggredito alcune colleghe”.

La professoressa racconta quegli attimi concitati dell’aggressione. “Sono uscita io, nel corridoio. Avevo finito la lezione. La madre era laggiù, gli occhi pieni di odio. Non mi ha spiegato perché, non mi ha parlato di 4, di 5, ma è corsa verso di me riempiendomi di insulti. I ragazzi erano terrorizzati. La donna ha iniziato a colpirmi, schiaffi sulla testa, sulle spalle, in faccia”. Racconta che mentre veniva aggredita alcuni alunni, in particolare una sua studentessa, sono accorsi in sua difesa. “Quella donna se l’è presa anche con lei, l’ha minacciata: ‘Se sei amica di questa, ti faccio fare la stessa fine'”.

Secondo quanto racconta la prof con la mamma c’erano anche altri membri della famiglia. “Era impressionante la nonna, un fascio di cattiveria e improperi. Sembrava pronta a picchiare, anche lei”. La prof, consapevole di trovarsi in un luogo educativo, ha subito impietrita la violenza senza reagire: “Non è nella mia natura e non volevo mostrare il peggio di me agli alunni”. Una brutta storia che ha segnato profondamente la prof che dopo l’aggressione è andata in pronto soccorso. E mentre veniva colpita, la prof continuava a preoccuparsi per l’ingiustizia che stavano subendo anche gli altri alunni nel dover assistere a tanta violenza tra le mura scolastiche, un luogo sicuro, di apprendimento e fiducia. La professoressa dice che che non tornerà presto a scuola perché è ancora troppo scossa: “Mi devono ridare la mia dignità di insegnante, non meritiamo di essere lasciati in pasto alle belve“.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Estratto dell’articolo di Mariella Parmendola per repubblica.it il 25 marzo 2023.

«Non so quando tornerò a scuola. In 34 anni di insegnamento ho sempre pensato di lavorare in un ambiente protetto. Ora so che non è così. Sono scossa. Non ho dormito. Continuo a ripensare a quanto mi è accaduto, ma soprattutto al trauma subito dai miei alunni». La professoressa Lucia Celotto, stimatissima per le doti di equilibrio e umanità, non riesce a nascondere il turbamento.

 Le tornano in mente le immagini della violenza subita mentre era in classe, mercoledì mattina, con i suoi studenti. Raggiunta fin dentro la scuola, una succursale del liceo Plinio Seniore di Castellammare di Stabia (Napoli), dalla mamma di una sua alunna infuriata per un brutto voto. «Mi ha picchiata e insultata, con offese irripetibili. Sono rimasta sola, nessuno mi ha aiutato».

Come sta ora professoressa?

«Penso ai miei alunni. Alla scena a cui sono stati costretti ad assistere. […] sentendo bussare con insistenza mi hanno detto di non aprire la porta».

 E lei invece ha aperto.

«Ma sì. Ero tranquilla. In aula stavamo proprio confrontandoci con i ragazzi. Chiedevo se mi ritenessero equa. Il giorno prima ero stata mandata a chiamare in presidenza. Mi è stato riferito che una famiglia mi accusava di favorire degli studenti rispetto ad altri […]Una ragazza ha cominciato ad agitarsi, mi ha detto che non si sentiva molto bene. Mi ha solo chiesto di uscire e dopo un po’ è arrivata la madre. Non mi sarei mai immaginata che potesse accadermi una cosa del genere nella mia scuola».

Cosa è successo?

«Sono stata picchiata, i miei occhiali si sono rotti. Ho ricevuto schiaffi alla spalla, sulla testa. Mi accusava di cose assurde, di avere penalizzato la figlia. La ragazza ha preso un quattro e dei cinque perché questo è il suo rendimento […] ».

 Mentre la mamma della sua alunna l’aggrediva è intervenuto qualcuno?

«Nessuno mi ha aiutato. Nessuno che abbia almeno tentato di intervenire o fermare la donna. Solo i miei alunni mi sono stati accanto. Hanno provato a circondarmi e la mamma ha cominciato ad insultare anche loro. Il collaboratore scolastico sullo stesso piano è rimasto fermo.

Come il bidello che ha fatto entrare la madre in compagnia di tutta la famiglia. Ancora mi chiedo come sia stato possibile che fossero tutti lì. E anche il docente, coordinatore responsabile della succursale in cui è avvenuto l’episodio, non ha fatto nulla. Sono andata al pronto soccorso da sola, a piedi. […] Mi pesa non essere stata tutelata. Né prima, né dopo».

 Neanche prima?

«La famiglia dell’alunna ha precedenti di questo tipo. Una parente ha già picchiato una maestra. […]». «Denunciare chi mi ha aggredito, ma anche la scuola che non mi ha saputo tutelare» […]

Estratto da lastampa.it il 25 marzo 2023.

Una prof di Inglese aggredita dalla mamma di una alunna alla quale avrebbe dato voti troppo bassi, nel Napoletano, un preside preso a pugni dal parente di una alunna andato a prendere la nipote a scuola senza la delega dei genitori. Sono due gli episodi di violenza di queste ultime ore, con protagonisti genitori o parenti e insegnanti.

 A Castellammare di Stabia, la mamma di una ragazzina ha fatto irruzione nel liceo artistico Plinio Seniore, nella succursale di via Virgilio […] A Cesena, il caos è successo all'uscita dalla scuola media di via Pascoli, quando un parente pretendeva di portare a casa una alunna, ma senza alcuna autorizzazione […]

Il ministro dell'Istruzione Giuseppe Valditara ha detto che di fronte a questi episodi non lascerà insegnanti e presidi soli e in caso di cause valuterà di proporre una costituzione di parte civile eventualmente lamentando anche un danno di immagine alla Amministrazione. Potrebbe essere, secondo il ministro, un avvocato dello Stato ad assumere la difesa nelle cause in modo che gli insegnanti aggrediti non debbano pagare di tasca propria un legale.

 […]

Basta con la scuola buonista che si dimentica di educare. Episodi recenti di professori presi di mira da studenti e genitori dicono di un "perdonismo" diffuso e deleterio. Massimo Arcangeli il 21 Febbraio 2023 su Il Giornale.

Università del Piemonte orientale. Una specializzanda della Scuola di Pediatria ottiene quasi il massimo (68/70; il minimo è 42/70), ma il voto è sgradito ai parenti lì presenti. Due di loro, il padre e il suocero della studentessa, inveiscono contro le sette commissarie e, in particolare, contro la presidente di seduta, Ivana Rabbone, associata presso l'ateneo (già abilitata a ordinaria) e coordinatrice della Commissione dei direttori del complesso delle scuole di specializzazione dell'ateneo piemontese. I due, oltre a lei, sono arrivati a minacciare i suoi familiari e lei ha sporto querela, su sollecitazione del suo Rettore, denunciando il fatto alla caserma dei carabinieri di Novara. Ieri l'ho sentita per telefono, e mi ha raccontato la sua storia nei minimi dettagli.

«La studentessa era già uscita, e così tutti gli altri. Erano rimasti in aula solo i due, che ci hanno assalite, cogliendoci anche un po' impreparate, con insulti e minacce gravissime. Il padre della specializzanda, cui non è bastato avermi dato della carogna, ci ha tenuto a farmi sapere di essere a conoscenza del fatto che ho un figlio che gioca a calcio, e studia come sua figlia. Una vera e propria intimidazione, che ho vissuto sulla mia pelle come docente e come madre, ma anche come donna». Perché Ivana mi confessa di essersi sentita per giunta vittima dell'ennesimo episodio di discriminazione di genere (proprio lei, peraltro, che aveva proposto di alzare il voto della candidata rispetto alle formulazioni delle sei colleghe commissarie) e ora si aspetta di essere controquerelata dalla famiglia. Teme anche che quest'episodio possa incidere sulla sua carriera. Intanto le è giunta almeno la solidarietà delle rappresentanze studentesche, che sulla vicenda hanno diramato un documento.

«Padre e suocero», continua Rabbone, «ci hanno aggredite coi Lei non sa chi sono io e Questa cosa non finisce qui, vantando conoscenze in ambito politico e regionale e dicendosi dirigenti di aziende sanitarie pubbliche. Si erano bene informati su di me, sulla mia vita privata. Mi hanno spiata, controllata. Hanno senz'altro agito con premeditazione. Hanno filmato tutto, ed erano perciò prevenuti. La studentessa aveva peraltro accumulato un debito formativo che ci aveva indotto a ritardare di due mesi la seduta per il conseguimento del titolo, un ritardo ingiustificato, per i suoi familiari, e dunque motivo di acredine (sebbene la specializzanda stessa fosse d'accordo sul posticipo)». «E tutto questo», conclude la docente minacciata e insultata «per un voto che non è neanche richiesto per una scuola di specializzazione, costituendo titolo soprattutto il contesto lavorativo nell'arco dei cinque anni di durata di un corso per il quale, va detto, gli iscritti percepiscono 1.800 euro mensili. Un motivo in più per essere quanto più obiettivi e rigorosi nel giudizio, anche per rispetto nei confronti di tanti studenti che non godono della stessa condizione privilegiata».

Il Rettore dell'ateneo piemontese, Gian Carlo Avanzi, ha rilasciato un duro comunicato sull'accaduto: «Un comportamento come quello che si è verificato da parte della famiglia della neo-specializzata, oltre a essere spropositato e penalmente rilevante, reca i segni dell'ingratitudine e della profanazione del luogo deputato alla creazione e alla diffusione della conoscenza. Qualunque attacco alla capacità e alla libertà di giudizio dei docenti, che sono un valore inviolabile di ogni Ateneo, va respinto con la massima energia. Ci riserviamo come istituzione, dunque, la possibilità di adire a vie legali nei confronti di questi soggetti che hanno minacciato così gravemente l'Università intera attraverso gli attacchi a una docente stimata e apprezzata come la professoressa Rabbone».

Non si riservi la possibilità di ricorrere alle vie legali, il Rettore Avanzi, le imbocchi senza esitazione. È ora di dire basta con la violenza nelle università e nelle scuole italiane ai danni di tanti docenti colpevoli solo di fare il loro lavoro. Ivana Rabbone mi ha confessato di sentirsi traumatizzata. Lo stesso è accaduto a Maria Cristina Finatti, l'insegnante sessantunenne di Scienze e Biologia di un istituto d'istruzione superiore di Rovigo che, nel gennaio scorso, ha denunciato i 24 studenti di una sua prima classe per lesioni personali, atti persecutori, oltraggio a pubblico ufficiale e diffamazione via social. L'11 ottobre 2022 quattro di quegli studenti avevano organizzato un piano ai suoi danni, una vera e propria imboscata con la complicità del resto dei compagni, prendendola a pallini (di gomma). A Maria Cristina si era sparato una prima volta all'inizio della lezione, e si era diffusa subito dopo in rete, dopo essere stata ripresa coi cellulari, la scena della bravata. Il primo colpo era andato a vuoto, ma la seconda volta l'insegnante era stata colpita alla testa ed era uscita piangendo dall'aula. A distanza di tre mesi Maria Cristina ha reagito, accusando i genitori dei quattro perché conniventi e denunciando l'intera classe al Tribunale dei Minori di Venezia. Ben fatto. Un insegnante è un pubblico ufficiale lo dice il legislatore (legge n. 94/2009; sez. 3, n. 12419 del 06/02/2008, Zinoni, Rv. 239839), e lo confermano alcune recenti sentenze (come questa: Cassazione V Penale n. 15367 del 2014) e da pubblico ufficiale deve comportarsi.

È ora di dire basta al buonismo e al perdonismo educativo generalizzato di una scuola e un'università, che, con la connivenza di molti genitori, divenuti amici, complici o difensori a oltranza dei loro figli, stanno sempre più drammaticamente rinunciando al loro ruolo educativo. Se sei empatico non ti sparano con una pistola ad aria compressa, ha sproloquiato un'inqualificabile Luciana Littizzetto. Un altro modo per dire che, se vuoi riuscire nel tuo compito di educatore, devi rinunciare proprio al tuo dovere primario. Quello di educare, per l'appunto, facendo dei tuoi studenti (e, quando serve, dei loro familiari) cittadini coscienti e responsabili.

Le relazioni dei Procuratori generali. Reati dei minori, è allarme: tutte le colpe della scuola. Astolfo Di Amato su Il Riformista il 9 Febbraio 2023

Le relazioni dei Procuratori Generali in occasione della inaugurazione dell’Anno Giudiziario non sono sempre del tutto inutili. Accanto alla solita litania sulla insufficienza dei mezzi messi a disposizione della Giustizia e sulla inadeguatezza del legislatore, specializzato nel complicare il lavoro dei magistrati, e agli anatemi contro ogni possibile ipotesi di “perdono” collettivo, quali potrebbero essere l’amnistia o l’indulto, è possibile, spesso, trovare le tracce di quali cambiamenti profondi stia attraversando la società italiana.

Nelle recenti relazioni dei Procuratori Generali, vi è un dato che le accomuna quasi tutte: l’esplosione dei reati commessi dai minorenni. Si tratta di un fenomeno caratterizzato prevalentemente da quattro aspetti: spesso si tratta di reati che sono diretta ed esclusiva espressione del male di vivere e dell’incapacità di guardare con speranza al futuro, come avviene nei frequenti episodi di risse collettive, convocate a mezzo social per il solo gusto di menare le mani; sono consumati nello spazio pubblico e in pieno giorno, come ad esempio le rapine nelle strade della movida milanese, con l’impudenza di chi si sente ormai pronto a violare qualsiasi tabù; un ruolo prevalente hanno, nelle bande organizzate, gli immigrati di seconda generazione, a conferma che il processo di integrazione è spesso restato al livello di sole buone intenzioni (e il pensiero non può non andare allo sfacelo delle banlieue parigine); vi è una crescita esponenziale degli stupri, commessi facendo assumere inconsapevolmente alla vittima droghe, crescita che appare direttamente proporzionale alla sempre maggiore incapacità di avere sane relazioni umane e sociali.

È un dato che mette necessariamente, sul banco degli imputati, la scuola. Esso, del resto, appare perfettamente coerente con altri dati che, in questi ultimi anni, sono costantemente emersi, assolutamente omogenei tra di loro e di estrema gravità, anche se poi spesso relegati nei trafiletti di cronaca. Basta citarne alcuni a caso: i numerosi episodi di violenza contro docenti da parte di genitori che non avevano sopportato che i loro figli fossero oggetto di rimproveri o di cattive valutazioni; la vicenda della professoressa colpita con dei proiettili di gomma da un’intera classe, con una nota comica che ha mosso l’addebito alla stessa professoressa di non essere evidentemente stata capace di essere in sintonia con i suoi allievi; i risultati delle analisi Invalsi, i quali danno conto di un complessivo degrado del processo formativo in Italia, addirittura maggiore nei territori più disagiati, quali quelli del Mezzogiorno; l’esito della correzione degli scritti in un recente concorso in magistratura, il quale ha fatto emergere che la maggior parte dei candidati, sebbene laureati, non era neppure capace di scrivere in un corretto italiano; la lettera ai giornali di una famiglia finlandese che, trasferitasi a Siracusa, ha poi deciso di lasciare l’Italia per la necessità di proteggere i figli da un sistema educativo del tutto insufficiente.

L’esplosione dei reati dei minori, messa in luce dalle relazioni dei Procuratori Generali, non può, dunque, costituire una sorpresa. Neppure può essere spiegata facendo esclusivo riferimento al prezzo, che i minori in particolare hanno dovuto pagare, in termini psicologici e di mancata socializzazione, per i lockdown determinati dalla pandemia Covid19. Si tratta di un processo che ha radici lontane e che la pandemia ha solo aggravato. È, occorre aggiungere, un processo che è stato colpevolmente ignorato e nascosto sotto il tappeto per molto, troppo tempo da un buonismo peloso e irresponsabile. Il contenuto dele relazioni dei Procuratori Generali indica che continuare a perdere tempo significherebbe condannare le nuove generazioni alla irrilevanza. Ha scritto Walter Veltroni, sul Corriere del 29 gennaio “Per gli adolescenti di oggi il futuro non è passato, semplicemente non esiste. Si sentono l’ultima generazione e non capiscono il disinteresse del mondo a proposito del proprio ultimo destino. Possibile che gli adulti non capiscano il dolore che sale dai comportamenti, dalle parole, dai silenzi, dalle porte chiuse dei ragazzi del nostro tempo?”.

Veltroni ha perfettamente ragione. L’Italia ha alle spalle anni nei quali la scuola è stata la cenerentola dei servizi pubblici e si è fatto di tutto per togliere dignità, autorevolezza e prestigio ai docenti. Se questo non fosse successo, il tema della formazione sarebbe probabilmente restato estraneo ai progetti di autonomia regionale. Al tempo stesso, il dibattito sulla immigrazione, almeno sotto l’aspetto che qui rileva, è stato del tutto avulso dalla realtà. Nessuno, a cominciare dai “buoni”, si è dato carico della circostanza che l’immigrazione, senza un adeguato sforzo di integrazione, finisce con l’essere un fattore di disgregazione della società e, per gli stessi immigrati, il punto di partenza di un cammino fatto di vessazioni e di sofferenze, destinate a colpire, ancora più duramente, le nuove generazioni.

Il Governo Meloni ha il merito di avere, attraverso il Ministro Valditara, rimesso, al centro del dibattito politico, la scuola e, attraverso di essa, almeno alcuni aspetti della questione giovanile in Italia. Non è questa la sede per dare un giudizio sulle soluzioni proposte. Occorre, qui, sottolineare che non si è affatto in presenza di una questione marginale: le relazioni in occasione delle inaugurazioni dell’Anno Giudiziario indicano che si tratta di una questione vitale e urgente per il futuro prossimo del Paese. Astolfo Di Amato

Scuola, i professori aggrediti saranno difesi dallo Stato: l'annuncio dopo il boom di violenze. Valentina Conti su Il Tempo il 09 febbraio 2023

Il Ministero dell’Istruzione e del Merito prende posizione netta sulla violenza a scuola. A seguito del «recente, allarmante aumento degli episodi di violenza nei confronti degli insegnanti e del personale scolastico all'interno degli istituti», viale Trastevere, di fronte a casi di questo tipo, «richiederà all'Avvocatura generale dello Stato di rappresentare nei giudizi civili e penali i docenti e i lavoratori della scuola». La novità è contenuta in una circolare, emanata dal Ministro Giuseppe Valditara, inviata ieri a tutte le scuole. Una decisione motivata dall'esigenza di tutelare concretamente la dignità professionale e l'incolumità di docenti e personale. «Sarò sempre dalla parte degli insegnanti aggrediti. La nostra priorità è riportare responsabilità, serenità e rispetto nelle scuole», ha affermato Valditara.

Per queste ragioni, i dirigenti scolastici sono invitati a segnalare tempestivamente - come viene specificato nel documento - al competente Ufficio scolastico regionale episodi di violenza ai danni del personale nelle strutture scolastiche. Poi l'Usr, valutata la segnalazione, la inoltrerà al Ministero, il quale richiederà, per l’appunto, l'intervento dell'Avvocatura. In precedenza, fu l'ex Ministro dell'Istruzione Marco Bussetti, ricordando come gli insegnanti siano equiparabili ai pubblici ufficiali durante lo svolgimento delle loro funzioni di insegnamento, a promettere di costituire l’allora Miur (Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca) parte civile in ogni contenzioso, in modo tale da assicurare un risarcimento danni e la possibilità di usufruire di avvocati dello Stato da parte dei docenti. Ora è arrivata la circolare a firma dell’esponente dell’esecutivo targato Meloni, all’indomani degli ultimi fatti di cronaca emersi. Specialmente quello della docente di Rovigo colpita da una serie di pallini in gomma sparati da uno studente con una pistola ad aria compressa, che nelle scorse settimane ha animato non poco il dibattito sul tema.

Una vera escalation di situazioni di simile portata sopravvenute con maggiore intensità anche conseguentemente al periodo di emergenza sanitaria da Covid-19, su cui adesso ad intervenire sarà, dunque, lo Stato. Plaude alle parole di Valditara a tutela dei prof dalle aggressioni, il coordinatore nazionale della Gilda degli Insegnanti, Rino Di Meglio, che in un post su Facebook rivendica: «Avevamo proprio richiesto che gli insegnanti vittime di episodi violenti fossero, nella loro qualità di pubblici dipendenti, sollevati dalle spese legali mediante l’intervento dell’Avvocatura dello Stato. Ho appreso oggi (ieri, ndr) della circolare del Ministro. Spero che la cosa si concretizzi rapidamente». Su un altro versante, intanto, il Ministro dell’Università, Anna Maria Bernini, dopo il recente suicidio di una studentessa nei bagni della Iulm a Milano, ha deciso di predisporre un provvedimento per la creazione di presìdi per il benessere psicologico degli studenti negli atenei. Un'idea, la sua, che potrebbe essere mutuata e adattata al mondo della scuola.

Estratto dell’articolo di Nicolò Delvecchio per corriere.it l’1 febbraio 2023.

Nell’Istituto Majorana nessuno ufficialmente sa nulla. «Non mi risulta siano avvenuti atti di violenza nella mia scuola, altrimenti sarei intervenuta», il commento della preside Paola Petruzzelli. Sotto il suo naso, invece, sembra succedano cose che in qualsiasi contesto andrebbero trattate con la massima severità.

 Il caso è quello raccontato ieri dal Corriere del Mezzogiorno: a novembre 2021, dopo mesi di vessazioni a danno della figlia da parte di una ex amica e compagna di classe, una mamma si sarebbe rivolta alla scuola per chiedere provvedimenti, non ricevendo alcun tipo di solidarietà.

Si sarebbe quindi recata in classe per chiedere alla bulla di smetterla, ma ne sarebbe nato un litigio al termine del quale la donna avrebbe aggredito la ragazza con una testata. Quella sera il patrigno della bulla avrebbe incominciato a minacciare pesantemente la donna, che poco dopo lo ha denunciato ottenendo un rinvio a giudizio per stalking.

 «La preside non sa nulla? Bene, ne prendo atto…», dice l’avvocato Roberto Loizzo, che difende la mamma dell’alunna bullizzata. E credere alla versione della dirigente è effettivamente complicato, per diversi motivi. Il primo è che lunedì la vicepreside dell’istituto, la professoressa Vaglio, ha detto in udienza che l’unico episodio di cui è a conoscenza è la testata data dalla donna alla ragazza.

La scuola ha poi spedito la bulla in una classe diversa per dividerla dalla sua vittima. E la 14enne bullizzata, che per mesi non è andata a scuola per paura, ha ottenuto l’autorizzazione per anticipare l’orario di uscita all’ultima ora. La preside, quindi, prima smentisce la sua vice, che invece ha ammesso quantomeno l’aggressione. Poi sembra non avere una giustificazione per i provvedimenti presi da lei in prima persona. I conti tornano poco. […]

Enrico Ferro per “la Repubblica” il 12 gennaio 2023.

«Li denuncio tutti per difendere la mia dignità e quella dei miei colleghi, ma soprattutto perché è stato oltrepassato un confine». Maria Luisa Finatti è un'insegnante di Scienze e Biologia all'Itis Marchesini di Rovigo. Tre mesi fa è comparsa in un video girato dai suoi studenti, la riprendevano mentre altri della classe le sparavano a lezione con una pistola ad aria compressa. La docente ha denunciato tutti i 24 studenti di quella classe prima per i reati di lesioni personali, oltraggio e pubblico ufficiale, diffamazione a mezzo social e atti persecutori.

Professoressa, ricorda bene quel giorno?

«Certo, era l'11 ottobre scorso, un mese dopo l'inizio della scuola. Erano studenti di prima, appena arrivati alle superiori. Hanno avuto il coraggio di spararmi per ben due volte, una all'inizio della lezione e poi anche alla fine. Quattro o cinque pallini, mi hanno colpito allo zigomo».

 Lei come ha reagito?

«Non mi sono resa conto subito della situazione. Alcuni di loro avevano organizzato tutto: uno ha portato la pistola, uno ha sparato, altri hanno filmato con i telefonini. E tutto per cosa? Per guadagnare follower su Instagram e TikTok. Sono uscita dall'aula piangendo».

Cos' ha fatto dopo quell'episodio?

«Sono rimasta a casa qualche giorno e ho passato notti insonni. Non ho più insegnato in quella classe ma l'ansia c'è ancora, così come il timore di essere derisa». La denuncia è un atto forte, da parte sua. «Così spero non succeda più a nessuno. I genitori dovrebbero essere nostri alleati, invece sono totalmente schierati con i figli».

Estratto dell'articolo di Natascia Celeghin per corriere.it il 24 gennaio 2023.

Spari in classe alla prof dell’Itis del capoluogo, parla Tosca Sambinello l’avvocato della docente raggiunta al volto da due pallini di gomma partiti da una pistola-giocattolo, dopo l’intervento tagliente di Luciana Littizzetto su Radio Dj. «Littizzetto ha perso un’occasione per starsene zitta» la stroncatura della legale. La showgirl, in passato anche insegnante[…] ha dichiarato: «Se il professore riesce a essere empatico non gli sparano in classe».

 […] lunedì è arrivata la risposta degli avvocati della professoressa di Scienze, Maria Cristina Finatti, che dopo essere stata bersaglio dei colpi l’11 ottobre scorso in una classe prima ha querelato tutti e 24 gli alunni in classe in quel momento. «Mi auguro che sia stata una boutade delle sue perché, se la battuta è pensata, sta a significare che la signora “tollera” gli atti di bullismo in classe […]» ha replicato Sambinello, legale della docente assieme all’avvocato Nicola Rubiero.

LE REAZIONI DELLA POLITICA

Sulla vicenda sono arrivate anche le reazioni della politica. […] «Sarebbe bene non ironizzare su un episodio molto doloroso sia per l’insegnante coinvolta che per tutta la scuola. Pensare che i ragazzi di Rovigo abbiano sparato i pallini contro la professoressa per il fatto che quest’ultima non sarebbe stata “empatica” vuol dire trovare una giustificazione» ha dichiarato la capogruppo di Forza Italia in consiglio regionale, Elisa Venturini che conclude: «Quando uno studente spara ad un insegnante non ci sono se e non ci sono ma. Educhiamo al rispetto sempre e comunque». Così anche il ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara, intervenuto già domenica sulle dichiarazioni della comica.

Proprio Valditara oggi riceverà a Roma la preside del «Viola Marchesini», Isabella Sgarbi, convocata dopo l’indagine interna partita a livello scolastico. «Sarà un incontro informativo in cui la dirigente andrà a riferire quanto accaduto dato che il ministro ha espresso la volontà di seguire personalmente il caso» ha precisato Roberto Natale che dirige l’Ufficio scolastico di Padova e Rovigo. […]

 I PENSIERI DEI RAGAZZI

[…]. Dopo il clamore mediatico a livello nazionale, specie in Tv, il Comitato studentesco dell’Itis ha rotto il silenzio: «Non si diventa consapevoli di un errore perché si riceve una punizione. Eppure nessuno alla televisione lo dice, nemmeno i più esperti. Tutti a puntare il dito verso la nostra scuola, senza intenzione di capire, di andare oltre il giustizialismo che ingrossa le polemiche, agita gli animi, aumenta l’audience, ma non educa mai». […]

La Littizzetto sui professori la spara grossa. Vi confesso una cosa: a me la Littizzetto non ha mai fatto ridere. Massimiliano Parente il 23 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Vi confesso una cosa: a me la Littizzetto non ha mai fatto ridere. Ma sarà un problema mio, perché praticamente è mantenuta dalla Rai (cioè da tutti noi) dove Fabio Fazio alle battute della Littizzetto ride sempre (ma lui ride di default a ogni battuta dei suoi ospiti, purché suoi ospiti della cerchia di Repubblica, altri non sono invitati), e pubblica libri che non mi fanno ridere con Mondadori, cioè con Berlusconi, che lei odia, e questo forse fa ridere (però anche lì tutti a sinistra pubblicano con Mondadori) perché significa che c'è molta gente che compra i suoi libri che a me non fanno ridere.

Poi ieri ho letto di Maria Luisa Finatti, insegnante di Scienze e Biologia a Rovigo, che ha denunciato i suoi studenti per lesioni personali, in quanto tre mesi fa è stata colpita alla testa da uno di loro con pallini di pistola a aria compressa, e siccome si parlava della Littizzetto sono andato a vedere cosa c'entrasse la Littizzetto. Pensando: ok, avrà fatto un'altra battuta che non fa ridere da Fazio. Invece no, era a Radio Deejay ed era seria, non era lì per far ridere, e allora mi sono detto: stai a vedere che magari da seria mi fa ridere. In sintesi ha difeso gli studenti, perché se impallinano la professoressa è colpa della professoressa. Precisamente ha detto: «Se il professore riesce a essere empatico, non gli sparano in classe». Ma mica è finita qui. Ha spiegato che lei, la Littizzetto, ha insegnato per 9 anni (e qui ho cominciato un po' a sorridere, davvero insegnava?) e sapeva come gestire una classe, perché lei era empatica, e «c'erano delle classi particolarmente turbolente, mi tiravano i gessetti, ma non ho mai pensato di denunciare o scrivere ai giornali». D'altra parte Luciana è venuta su sessantottina, ovvio che era empatica. Si immedesimava non con il proprio ruolo di insegnante ma con gli alunni che la bullizzavano (chissà che scuola ha fatto, ai miei tempi sarei finito dal preside e sospeso). Se non sei empatico è colpa tua. È per questo che poi escono da scuola e magari un giorno fanno carriera per culo e diventano Di Maio, il quale forse avrà avuto la Littizzetto come insegnante. Questo spiega molte cose.

Insomma, pensavo: come scrittore, in 25 anni, non sono mai stato invitato da Fazio, né mai ci andrei perché ormai rifiuto qualsiasi invito televisivo. Ma adesso ho cambiato idea, vorrei andarci. Non come ospite, ma tra il pubblico. Con una pistola a aria compressa, perché ho capito la lezione: non sono io a non capire le battute della Littizzetto, è lei a non essere empatica con me.

Luciana Littizzetto attaccando la docente di Rovigo fa male alla scuola. Marcello Bramati su Panorama il 23 Gennaio 2023

«Se c'è empatia non ti sparano con la pistola ad aria compressa» ha detto la comica in merito alla vicenda di Rovigo schierandosi dalla parte degli aggressori e non della vittima

Fa ancora discutere il caso della docente di Rovigo colpita in aula da proiettili di una pistola ad aria compressa. Questa volta perché Luciana Littizzetto ha individuato nella debolezza e nella mancanza di empatia di alcuni docenti le responsabilità di gesti come questo. Facendo un torto al buon senso. Insomma, se l’è cercata. La docente colpita con una pistola ad aria compressa mentre stava facendo lezione a quanto pare odorava di debolezza, e se i ragazzi “fiutano la debolezza” , poi colpiscono. E così, come una vittima di molestie ha la colpa di vestire provocante, anche il docente poco empatico, o debole, paga dazio.

Il sillogismo non è di Luciana Littizzetto, ma il procedimento da un caso all’altro logicamente non fa una piega, purtroppo, a dimostrazione del fatto che le parole della Littizzetto riguardo alla vicenda di cronaca che vede coinvolta una professoressa di Rovigo e gli alunni della sua classe sono straordinariamente infelici. E’ accaduto che alcuni ragazzi abbiano sparato con una pistola a pallini di gomma, durante un’ora di lezione, probabilmente per girare un video da mettere sui social. In aggiunta, la classe è stata chiamata a spiegare l’accaduto, non ha preso posizione e non sono emersi nomi e responsabilità. Il fatto è grave da ogni angolazione si consideri e mostra un sistema scolastico fragile, ormai ostaggio di un impianto educativo allo sbando, incapace di favorire rispetto, ruoli e atteggiamento decoroso quando è opportuno, incapace di far leva sulla collaborazione di chi si trova e dovrebbe guardare nella stessa direzione. In questo quadro desolante, si inserisce l’intervento della nota comica Luciana Littizzetto che però ha preferito guardare ai docenti e alle loro responsabilità, ricordando che alcuni sono deboli, che alcuni dovrebbero cambiare mestiere, che altri sono poco empatici. Per quanto anche il corpo docente rappresenti un tema da approfondire se si dovesse ripensare la scuola, a commento di quanto avvenuto appare totalmente fuori luogo, addirittura irrispettoso nei confronti di un’insegnante che ha vissuto un trauma e che ha paura a rientrare in classe. Innanzitutto, si dovrebbe evitare di commentare un fatto di violenza con l’enfasi che spetta a una storiella, in questo caso facendo della scuola ancora una volta uno stereotipo in cui si parla di energumeni e non di studenti, fino al proverbiale – quanto assente, alla prova dei fatti - lancio dei gessetti. Una rappresentazione pittoresca, triste e stirata della scuola.

Sarebbe utile, al contrario, mostrarne tutta la complessità: il disagio sociale di alcuni, le condizioni limite in cui lavorano molti insegnanti, la preparazione deficitaria di un corpo docente mandato in classe con poco stipendio e ancor meno preparazione alla gestione della classe e la mancanza di qualsiasi tipo di selezione in ingresso, al di là di qualche esame formale necessario per abilitarsi che prima o poi tutti superano, o per meriti o per anzianità. Avendo visibilità ed esperienza sul campo, come Littizzetto dice di avere e in effetti ha, con un microfono e una telecamera capaci di parlare a tutta l’Italia a disposizione, sarebbe lodevole spendersi per la scuola invocando classi a numero ridotto, assunzioni di psicologi a migliaia, revisione del sistema scolastico dagli edifici al reclutamento. Invece la comica si è limitata a un bozzetto caricaturale, ricordando che a lei “non ha mai sparato nessuno” e chiudendo il discorso con una rappresentazione vera, ma melensa, del bravo docente che è empatico, dialoga con la classe e quindi non viene preso a pistolettate. Littizzetto dimentica però, o quantomeno lascia cadere, che un gesto violento non ha necessariamente una ragione, un movente, ma proviene spesso da un disagio più profondo, oda un vuoto vertiginoso di valori e di disimpegno che porta a compiere azioni scriteriate, come è quella di sparare a un docente, fosse anche con una pistola a pallini di gomma, fosse anche un pessimo docente. O no?

"E tu perché hai lasciato la scuola?". Così la prof zittisce la Littizzetto. Maria Cristina Finatti parla per la prima volta dell'esperienza subita in classe e inchioda la comica che le aveva scagliato un attacco choc. Lorenzo Grossi il 5 Febbraio 2023 su Il Giornale.

Non ha alcuna intenzione di arretrare di un solo centimetro Maria Cristina Finatti, la professoressa colpita in classe con una pistola a pallini e filmata dai suoi studenti. Loro – una volta querelati dall'insegnante – si sono scusati dopo quei fatti avvenuti nell'ottobre scorso. Ma lei non si ritiene soddisfatta. Finatti sostiene infatti che gli studenti l'abbiano colpita "perché cercano i follower, la condivisione sui social. E subito dopo cercano i soldi. Perché non hanno educazione, né un sentimento di riconoscimento del prossimo. Perché non si rendono conto di quello che fanno e io proprio non riesco a perdonarli". E anche nei confronti di Luciana Littizzetto l'atteggiamento è tutt'altro quello del perdono.

La provocazione rivolta alla Littizzetto

La stilettata nei confronti della comica da parte della professoressa non lascia scampo. Al giornalista che le ricordava la frase della Littizzetto ("Se ti sparano in classe non hai proprio una grande empatia con i ragazzi") Finotti risponde in questo modo: "Difficile che uno mi possa dire che non ho interessato gli studenti, solo chi non mi conosce può parlare così. Una che dice queste cose non la considero neanche. Ha una parola per tutto, la Littizzetto? E perché ha lasciato la scuola? Ha trovato di meglio nel mondo dello spettacolo? Io la scuola non la lascerei anche se dovessi trovare di meglio. E poi, mi chiedo, Luciana Littizzetto che cosa fa per i giovani? La verità è che bisogna farli lavorare e io da loro pretendo. Oggi, però, i ragazzi, tutti, non solo quelli che mi hanno fatto del male, mi spaventano". In effetti 'Lucianina' Littizzetto aveva intrapreso, a metà degli anni '80 l'insegnamento della musica alla Scuola media statale Carlo Levi di Torino: una professione che la terrà occupata per nove anni prima di cambiare completamente strada. Ma, di quel trascorso lavorativo, evidentemente si è ricordata poco o nulla visto quella battutaccia che si era lasciata scappare.

Nel frattempo la scuola ha risposto a Finotti con tre sospensioni "con obbligo di frequenza. La preside mi ha tenuto fuori da tutto, non so nulla dell'inchiesta interna. Mi ha tolto tre classi, questo sì, di nove che ne avevo. Ho temuto che me le togliesse tutte e nove". Secondo la prof "dovrebbero ricevere una punizione superiore a quella di oggi. Sono stati sospesi per cinque giorni con l'obbligo di frequentare un'associazione collegata all'istituto. Mi sembra poco. E il resto della classe continua a prendermi in giro a distanza, anche se non sono più lì. Hanno preso una nota per questo, con un altro docente".

Il racconto di quella giornata

La professoressa racconta così per la prima volta, in un'intervista a Repubblica, che cosa successe l'11 ottobre 2022, rivelando inoltre che la preside dell'istituto le ha tolto successivamente tre classi. Ricorda che quel martedì era alla quarta lezione con loro. "In fondo alla classe c'era quello con la pistola, a fianco a me, alla mia destra, il compagno che doveva far partire il telefonino. L'avevano appoggiato sul banco, e tenuto diritto da uno zaino. Avevano organizzato tutto". Secondo Maria Cristina Finatti loro "hanno spinto uno dei ragazzi a sparare, lo dirà anche lui: 'Mi hanno costretto'".

Poi, il secondo colpo: "Ero seduta alla cattedra e ho sentito un dolore fortissimo. Mi sono alzata. Non avevo visto sparare, no. Non avevo visto neppure la pistola giocattolo". La preside, racconta la prof, le ha intimato di andare a casa. "Mi avevano sparato ed ero io il problema, sembrava fosse colpa mia, che avessi fatto male in classe. Non ha neppure chiamato i carabinieri. Avrei dovuto andarci io, con i pallini in mano. Invece li ho consegnati al vicepreside". Nello stesso momento gli alunni avevano già inviato il primo video su WhatsApp. "Il vicepreside l’ha visto subito, ma non ha voluto mostrarmelo. Io l’ho recuperato dopo una settimana. Successivamente, è entrato nella lavatrice social e a gennaio è riesploso. Credo che senza video, e la pubblicità al caso che ha imposto, la vicenda degli spari si sarebbe chiusa. Oggi, dico, senza quelle immagini così plateali non saprei come difendermi".

La prof impallinata in aula punita anche dalla preside. La denuncia: "Ora l'istituto mi ha tolto tre classi". Il ministro: "Io sto con chi fa rispettare le regole". Valeria Braghieri il 5 Febbraio 2023 su Il Giornale.

La prof è nel mirino. Prima in quello degli studenti che durante la sua lezione di Scienze l'hanno letteralmente «impallinata» con una pistola ad aria compressa (in realtà era uno solo mentre gli altri lo incoraggiavano e ne riprendevano le «gesta» per poi postarle sui social), adesso anche in quello della preside che, dopo tutta la bagarre sollevata dal caso, pare abbia tolto alla docente Maria Cristina Finatti, addirittura tre classi. O almeno è quanto la Finatti stessa dichiara. Una vicenda interminabile quella iniziata l'ottobre scorso a Rovigo con «l'episodio dei pallini» in classe lanciati all'indirizzo della donna. Sono seguiti post, indignazione in Rete, articoli di giornale, servizi di Tg, denunce. Ora la docente, in un'intervista rilasciata al quotidiano la Repubblica accusa addirittura: «Nessuna solidarietà dai colleghi e quella degli alunni somigliava a una condoglianza. I ragazzi sono superficiali, non li perdono. E la preside mi ha tenuto fuori da tutto, non so nulla dell'inchiesta interna. So che mi ha tolto tre classi, questo sì, di nove che ne avevo. Ho temuto che me le togliesse tutte e nove». In realtà si era immediatamente detta delusa dall'atteggiamento tenuto dopo l'accaduto da alunni e genitori. Si sarebbe aspettata scuse più reali, decise e tempestive. Invece si era quasi sentita sotto accusa. E in effetti c'era stato chi aveva preso le parti degli studenti, come la comica Luciana Littizzetto con la quale la prof ha battibeccato a distanza. Ma per quanto riguarda l'atteggiamento dei ragazzi, Finatti ha una sua convinzione. Tutto è accaduto, secondo l'insegnante, «perché cercano i follower, la condivisione sui social. E subito dopo cercano i soldi. Perché non hanno educazione, né un sentimento di riconoscimento del prossimo. Perché non si rendono conto di quello che fanno e io proprio non riesco a perdonarli». Dopo il fatto, sono scattate le sanzioni a carico dei ragazzini da parte della scuola con sospensioni e richiami. Nessuna scusa - secondo la professoressa - da parte dei genitori ma anche assenza di solidarietà dei colleghi tanto da indurla a sporgere denuncia alla magistratura: la docente ha querelato infatti tutti e 24 gli studenti. Un genitore, per difendere il proprio figlio dalle sanzioni, è ricorso al Tar.

Ieri, in difesa della Finatti, ma anche per condannare i tanti casi di violenza nelle scuole, è intervenuto via Twitter anche il ministro dell'Istruzione Giuseppe Valditara: «Sarò sempre dalla parte degli insegnanti aggrediti. Riportiamo responsabilità, serenità e rispetto nelle scuole». Ma anche Paola Serafin, che guida i dirigenti scolastici della Cisl Scuola: «Non ho informazioni dirette sull'episodio che in se è di una gravità inaudita, non deve esistere, non è accettabile. È un episodio che non può trovare giustificazione». Intanto la prof resta nel mirino, pare. Isolata e guardata con sospetto da colleghi, alunni e genitori. Perché come di solito accade, si inizia col sollevare un problema e si finisce col diventare un problema.

La Prof impallinata. Storia di Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 12 gennaio 2023.

Non sarò una mamma finlandese, però nutro anch’io qualche lievissima perplessità sullo stato di salute della scuola italiana. E forse non solo della scuola. A Rovigo, per dire, c’è una professoressa di scienze, Maria Luisa Finatti, che ha appena denunciato alla magistratura una classe intera, ventiquattro ragazzi: alcuni di loro per averle sparato addosso dei , e gli altri per avere ripreso e diffuso la scena sui social con commenti tra il gongolante e l’irridente. L’episodio risale all’ottobre scorso. Ebbene, a dar credito alla prof, ciò che l’ha spinta a compiere un gesto così irrituale è stato il silenzio di tutti. Il silenzio degli studenti, tranne l’unico che si è scusato, ma di nascosto, per non fare brutta figura con i compagni. Il silenzio della scuola, che non ha ancora preso provvedimenti nei confronti dei pistoleri. Ma soprattutto il silenzio delle famiglie: in tre mesi neanche un genitore di quella scoppiettante combriccola si è sentito in dovere, non dico di strigliare il proprio figliolo (e quando mai?), ma almeno di chiamare la prof per chiederle come stava, esprimerle solidarietà e tentare di ricostruire un canale di comunicazione tra la famiglia e la scuola, le due istituzioni in disarmo che si occupavano dell’educazione dei giovani prima di essere rimpiazzate dai più agili smartphone. Un’istituzione non dovrebbe mai fare pena, ma non saprei descrivere diversamente ciò che provo per quella professoressa, e un po’ per tutti noi.

Estratto dell’articolo di Corrado Zunino per repubblica.it il 4 febbraio 2023.

Professoressa Maria Cristina Finatti, perché i ragazzi di 15 anni a cui stava mostrando diapositive di Scienze le hanno sparato due pallini di gomma addosso?

"Perché cercano i follower, la condivisione sui social. E subito dopo cercano i soldi. Perché non hanno educazione, né un sentimento di riconoscimento del prossimo. Perché non si rendono conto di quello che fanno e io proprio non riesco a perdonarli".

 Proviamo a ricordare quel giorno?

"Era un martedì, martedì 11 ottobre. La prima ora e mezza di lezione, dalle otto alle nove e trenta. Sono in una classe prima. Li conoscevo da un mese, sarà stata la quarta lezione con loro".

 Quando è entrata...

"C'era un'aria strana, un'agitazione".

Com'era quella classe?

"Come tutte le altre, non vogliono studiare. Sono tanto superficiali 'sti ragazzi. Credono di sapere, ma non hanno un punto di vista sulle cose".

 Lei ci prova a farli crescere?

"Certo, ma sono difficili da tenere. Se li fai studiare, si ribellano. Se non fai fare niente, abbassano la conflittualità. Vorrebbero quello: non fare niente".

 Torniamo a martedì 11.

"Avevano sistemato i cellulari sul davanzale, sopra i caloriferi. Ho accettato di non metterli dentro la solita scatola, come ci chiede la preside. Abbiamo fatto un compito, l'hanno completato e ho visto che si sono messi in postazione. In fondo alla classe c'era quello con la pistola, a fianco a me, alla mia destra, il compagno che doveva far partire il telefonino. L'avevano appoggiato su uno zaino messo sopra il banco. Avevano organizzato tutto".

Si è accorta di quello che stava succedendo?

"Ho ricostruito dopo, in quel momento non mi sono accorta di nulla. Hanno spinto uno dei ragazzi a sparare, lo dirà anche lui: 'Mi hanno costretto'. Il primo proiettile non mi ha colpita. Mi sono alzata in piedi per requisire l'arma, ma non l'ho trovata. Mi sono rimessa a spiegare. Stavo mostrando alcune diapositive e, quando eravamo a fine ora, dal fondo arriva una domanda, era la prima volta dall'inizio dell'anno.

  'Torni indietro prof, ci ripete quello che ha appena detto?'. Scienze è una disciplina bellissima, sa, ed ero contenta di quell'improvvisa attenzione. La verità, però, è che volevano solo che mi mettessi nella posizione migliore. Volevano colpirmi. Mi stavo facendo in quattro per far capire loro la disciplina, ma non stavano seguendo proprio nulla".

 È partito il secondo colpo.

"Ero seduta alla cattedra, e ho sentito un dolore fortissimo. Mi sono alzata di nuovo. Non avevo visto sparare, no. Non avevo visto neppure la pistola giocattolo".

 Il secondo proiettile l'ha colpita alla testa, vicino all'occhio sinistro.

"Sì. Ho visto a terra, finalmente, i due pallini. E i ragazzi intorno, tutti, che mi prendevano in giro: 'Cos'è successo prof?'".

 Nessun studente ha preso le distanze?

"Uno sì. L'ho sentito dire 'che cosa avete fatto? Non dovevate sparare'. L'hanno insultato e si è messo a sedere".

 Ha chiesto aiuto, a chi si è rivolta?

"Con il primo proiettile avevo lasciato andare. Non avevo niente in mano, ho pensato che i dirigenti non mi avrebbero neppure creduto. Dopo il secondo sparo sono andata dalla preside".

 E lei?

"Ha ascoltato e mi ha detto: 'Vai a casa'. Così, senza neppure accompagnarmi, farmi accompagnare. Mi sono sentita subito sola. Mi avevano sparato ed ero io il problema, sembrava fosse colpa mia, che avessi fatto male in classe. La dirigente non ha neppure chiamato i carabinieri. Avrei dovuto andarci io, coni i pallini in mano. Invece li ho consegnati al vicepreside, che stupida".

 […]

Ora sono scattate le sospensioni a scuola per tre studenti.

"Tre, quattro, non so, sospensioni con obbligo di frequenza. La preside mi ha tenuto fuori da tutto, non so nulla dell'inchiesta interna. So che mi ha tolto tre classi, questo sì, di nove che ne avevo. Ho temuto che me le togliesse tutte e nove".

 […]

 Si considera una docente buona? Troppo buona?

"Non può essere una vergogna essere buoni, credo che dare agli altri sia importante e mi riconosco in pieno nelle indicazioni della religione cattolica. Credo sia importante perdonare, sì. E so sopportare.

 Ma questo non vuol dire che in classe, alle interrogazioni, non dia i miei 3. Alcuni alunni a fine quadrimestre in Scienze hanno l'insufficienza. Purtroppo, per questa prima non ho partecipato all'ultimo scrutinio. La preside mi ha cambiato a ottobre con una docente veneziana, specializzata sul sostegno".

 […]

Luciana Littizzetto, la comica, per nove anni è stata insegnante. Ha detto in radio: "Se ti sparano in classe non hai proprio una grande empatia con i ragazzi".

"Difficile che uno mi possa dire che non ho interessato gli studenti, solo chi non mi conosce può parlare così. Una che dice queste cose non la considero neanche. Ha una parola per tutto, la Littizzetto? E perché ha lasciato la scuola? Ha trovato di meglio nel mondo dello spettacolo? Io la scuola non la lascerei anche se dovessi trovare di meglio. E poi, mi chiedo, Luciana Littizzetto che cosa fa per i giovani? La verità è che bisogna farli lavorare e io da loro pretendo. Oggi, però, i ragazzi, tutti, non solo quelli che mi hanno fatto del male, mi spaventano".

La prof di Rovigo colpita dagli studenti con i pallini: «Non riesco più a tornare quella che ero, ora ho paura di loro». Roberta Polese su Il Corriere della Sera il 15 Gennaio 2023.

L’insegnante ha denunciato la classe: «Non me ne vado». L’omertà: «Gli studenti mi hanno teso un’imboscata. Solo uno ha preso le distanze ed è stato insultato. La loro omertà è pericolosa. Ora qualcuno farà loro capire di aver sbagliato»

«Sono passati tre mesi da quel giorno e io non riesco più a tornare quella che ero. Sono cambiata, mi sono chiusa, non riesco a insegnare come prima. I ragazzi in generale mi fanno paura, e non dico solo quelli della classe che ho denunciato, parlo di tutti. Poi però devo anche ammettere che ci sono molti altri studenti che mi sono vicini». Maria Cristina Finatti insegna Scienze all’Istituto Viola Marchesini di Rovigo.

L’11 ottobre dello scorso anno in una classe prima i ragazzi le hanno sparato addosso dei pallini di gomma che l’hanno colpita molto vicino agli occhi. Tutto è stato ripreso dai telefonini e il video è finito su TikTok. Mentre la docente chiedeva conto di quella violenza, altri l’hanno derisa e denigrata. Ora la professoressa, assieme all’avvocato Tosca Sambinello, ha deciso di denunciare tutta la classe. La professoressa Finatti è una donna minuta, mite. Quando parla con i giornalisti le trema la voce, davanti ai microfoni è imbarazzata, ha l’aria di chi tutto poteva pensare, tranne che dover stare sotto i riflettori.

Sono passati tre mesi da quel giorno. Ora come sta?

«Sto cercando di risollevarmi, ma è faticoso, è come se si fosse rotto qualcosa, insegno da oltre vent’anni, ora non mi sento più la stessa».

Ha deciso di denunciare tutta la classe: cosa vuole ottenere?

«Quello che è accaduto è di una gravità estrema, erano tutti uniti, tutti compatti, mi hanno teso una vera e propria imboscata. Quando sono entrata nell’aula quel giorno, come sempre ho chiesto di mettere via i telefonini, e i ragazzi, che avevano già organizzato tutto, mi hanno detto “guardi prof li mettiamo qui sul davanzale sopra i termosifoni”. Io non ci ho dato peso, ma in realtà erano accesi, pronti a riprendere la scena. Così hanno sparato una prima volta, senza colpirmi. A quel punto sono scattata in piedi per requisire l’arma e chiedere conto di quello che era successo. In pochi secondi il video di quei primi colpi era già online. Poi, non contenti, alla fine della lezione hanno sparato ancora e mi hanno colpita, e nessuno si è alzato in piedi per prendere le distanze dai compagni. Anzi, un ragazzo c’era, l’ho sentito dire “che cosa avete fatto? Non dovevate sparare” agli altri, e per tutta risposta lo hanno insultato. Questo ragazzo si è messo a sedere e non ha fiatato. Il clima di omertà che si è creato in quella classe è pericoloso, li ho denunciati tutti, così finalmente qualcuno si occuperà di andare a parlare con ognuno di loro, qualcuno dovrà far loro capire che hanno sbagliato: ha sbagliato chi ha sparato, ha sbagliato chi si è messo sotto l’ala protettrice dei violenti».

L’istituto non ha sospeso nessuno, anche perché un genitore ha bloccato l’iter per un errore nella trascrizione della sospensione. Si sarebbe aspettata di più dalla sua scuola?

(Allarga le braccia). «Forse sì, ma non è giusto spostare l’attenzione sugli errori della scuola. Questo è un istituto di eccellenza, qui aveva studiato anche mio padre, ho un legame affettivo con questa scuola. È sugli studenti che si deve accendere un faro, e anche sui genitori che prendono le distanze da quello che avviene in classe. Come se quello che accade a scuola fosse completamente scollegato dalla loro quotidianità. Ho ricevuto scuse solo da un genitore: dove sono tutti gli altri?».

Dicono che avrebbero voluto contattarla, ma che non sono riusciti perché la scuola glielo ha impedito.

«Sono passati tre mesi. Se qualcuno avesse voluto chiedermi scusa un modo lo avrebbe trovato. Non lo hanno fatto perché non lo ritengono importante, questa è la verità. Ma la cosa peggiore è sentirmi dire che non sono una buona insegnante perché non sono in grado di tenere tranquilla una classe, quasi che la colpa di quello che è successo fosse mia».

Chi glielo ha detto?

«Qualche studente me lo ha rinfacciato».

Ha ricevuto solidarietà dai colleghi?

«Sì, da tutti. Mi hanno raccontato le loro disavventure con studenti maleducati. Quello che è successo a me è gravissimo, ma anche ad altri accadono cose terribili».

Che spiegazione si è data di questo comportamento degli studenti?

«L’unica cosa che interessava ai ragazzi che mi hanno colpita erano i follower su TikTok, dovevano fare il video e condividerlo, non gli interessava nient’altro, quella dei cellulari è una questione che va affrontata con coraggio da parte delle famiglie, sono tanti i ragazzi che passano pomeriggi interi sui social, sono soli, quella è la loro compagnia, e non va bene così».

Ha pensato di lasciare questa scuola?

«Sì ci ho pensato, ma non è giusto: non devo andarmene io, non posso darla vinta a quei genitori. Io resto e combatto, mi hanno tolto quella classe, ma ne ho molte altre».

Gli altri studenti come si comportano con lei?

«Sono tutti comprensivi, mi vedono cambiata, e stanno cercando di tirarmi su».

Come?

(Le si illuminano gli occhi). «Ieri siamo stati in gita all’università di Padova per studiare la genesi dei terremoti, erano tutti attenti, partecipavano, mi hanno fatto sentire orgogliosa. Saranno loro a salvarmi».

Il caso nella scuola di Rovigo. Spararono pallini alla prof, la mamma dell’unico bocciato: “A 14 anni si può sbagliare, hanno pagato l’errore”. Rossella Grasso su L'Unità il 23 Giugno 2023

La vicenda scosse l’Italia quando l’11 ottobre iniziarono a girare sul web i video che riprendevano, a sua insaputa, la professoressa Maria Cristina Finatti alla cattedra mentre veniva bersagliata da due pallini di gomma sparati in una delle aule dell’Istituto Viola Marchesini di Rovigo. La docente spaventata e dolorante all’epoca dei fatti ha denunciato i tre alunni responsabili dell’accaduto e atteso che la scuola prendesse provvedimenti. Poi la notizia che dei tre ragazzi, tutti tra i 14 e i 15 anni, uno solo è stato bocciato, gli altri promossi con buon profitto e 9 in condotta. La docente ha commentato amaramente la decisione: “Nessuno mi ha chiesto scusa. Ho dedicato la mia vita alla scuola. E ora mi sento emarginata”, ha detto in un’intervista a Repubblica.

La docente spiega ancora di aver aspettato prima di fare denuncia un gesto da parte della scuola o dei familiari. “Le uniche scuse arrivate sono state tramite la preside, a condizione che ritirassi la denuncia! Alla fine, non volevo più sentirmi così umiliata e ho presentato esposto, denuncia e querela nei confronti di tutta la classe presso la Procura della Repubblica al Tribunale dei Minori a Venezia per lesione dolose, reiteramento del reato, interruzione al servizio di pubblica utilità e oltraggio al pubblico ufficiale”, aggiunge. Dal ministro Valditara vorrebbe sapere “quali sono stati i criteri utilizzati per dare un 9 in condotta e perché l’episodio è stato svalutato”. Infine: “Posso capire che si possano fare delle bravate, ma quello che mi ha delusa e indignata è che nessuno mi ha mai chiesto scusa. Se ci fossero stati un’ammissione di colpa, un sincero pentimento, un gesto umano di empatia sarebbe stato diverso. È l’indifferenza che ti distrugge”.

La docente ha espresso il suo rammarico e il suo duro punto di vista sulla vicenda. Ma la mamma di uno dei ragazzi coinvolti non ci sta. E alla docente ha risposto in un’intervista al Corriere della Sera: “Lo sostiene la professoressa, che i ragazzi non sono stati puniti a sufficienza. Io, invece, so che mio figlio ha fatto, e sta ancora facendo, il suo percorso per affrontare tutto ciò che è accaduto da quell’11 ottobre in poi. E quindi, sinceramente, ciò che ora dice quell’insegnante non mi riguarda”, ha detto. A parlare è la mamma dell’unico ragazzo bocciato del gruppetto ritenuto responsabile dell’episodio. Sarebbe quello che ha portato materialmente a scuola la pistola ad aria compressa. Sotto inchiesta sono finiti il quindicenne che quel giorno ha premuto il grilletto, il suo coetaneo che ha filmato il brutto gesto con il telefonino per poi diffondere il video sui social. Il figlio della signora intervistata è l’unico ad essere stato bocciato, forse semplicemente in base al suo rendimento scolastico.

La donna racconta al Corriere che tutti i ragazzi coinvolti in quel folle gesto hanno dovuto affrontare un percorso formativo deciso dall’istituto, hanno svolto del volontariato e sostenuto dei colloqui con degli psicologi. Dunque un percorso volto all’educazione di minori che hanno sbagliato e che la scuola sta cercando di riabilitare avendo tutta la vita davanti. “La prof ora è tornata a parlare in televisione, e io che dovrei dirle? Più di averle fatto le scuse, più di aver fatto tutto ciò che si doveva, che altro vuole?”, dice la mamma.

E aggiunge: “Guardi, io sono per il merito e per le cose giuste: se un ragazzo è in difficoltà è giusto che venga bocciato. Ma per quanto riguarda i due ragazzi che sono stati promossi, penso che sicuramente se lo siano meritati quel 9 in condotta e pure la promozione. Per un comportamento sbagliato, uno solo, allora non credo sia giusto far perdere l’anno scolastico”. E anche se il gesto è stato grave la mamma spiega: “A 14 anni si può sbagliare. Vorrei vedere se chiunque, a 14 anni, non ha mai sbagliato… Ma allora mi chiedo: perché dobbiamo condizionare questi ragazzi, continuando a puntare il dito contro di loro? Qualcuno me lo spieghi. Perché è proprio questo l’insegnamento che la professoressa, con le sue parole, sta dando. È una vergogna”. Rossella Grasso 23 Giugno 2023

Da “il Fatto Quotidiano” il 23 giugno 2023.

Rovigo: 9 in condotta agli allievi che spararono pallini di gomma alla prof. Il 10 lo danno a chi usa proiettili veri.

Estratto dell’articolo di Vera Mantengoli per “la Repubblica” il 23 giugno 2023.

Il 9 in condotta di chi l’ha bullizzata è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso, già colmo di mesi di delusioni e disagi. E così ieri, quando la professoressa Maria Cristina Finatti ha saputo della promozione dello studente che lo scorso 11 ottobre le ha sparato palline di plastica con una pistola ad aria compressa, ha annunciato che avrebbe scritto al ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara. 

I legali che la seguono, Tosca Sambinello e Nicola Rubiero, hanno fatto richiesta di accesso agli atti per capire quali criteri la scuola abbia utilizzato per dare 9 in condotta al quattordicenne, che non è mai stato sospeso. «La scuola deve essere prima di tutto una scuola di vita e quindi insegnare il rispetto e l’educazione» ha detto l’insegnante di Scienze all’Istituto Tecnico Viola Marchesini di Rovigo, classe 1961. «Nessuno in questi mesi mi ha mai chiesto scusa. Ho dedicato la vita alla scuola e ora mi sento sempre più emarginata».

[…]

Cos’è successo lo scorso 11 ottobre?

«[…] Quel giorno sono stata raggiunta per due volte da palline di plastica sparate da una pistola ad aria compressa, con la seconda ho rischiato di perdere un occhio, per fortuna avevo la mascherina. Ho pianto perché non capivo cosa stesse succedendo, quando mi sono ripresa ho capito che stavano girando un video che poi è stato diffuso». 

Cos’ha fatto dopo?

«Prima il vicepreside mi ha messo del ghiaccio in testa, poi sono andata a casa in bicicletta. […] Da quel giorno ho sempre sentito disagio ad andare a scuola, io che ai ragazzi ho dedicato la vita». 

Come mai l’8 gennaio ha poi denunciato la classe?

«[…] Speravo che si prendessero dei provvedimenti, che da questo episodio potesse scaturire un percorso di confronto tra docenti e studenti, ma anche con i genitori. Nulla. Le uniche scuse arrivate sono state tramite la preside, a condizione che ritirassi la denuncia! […]». 

[…]

Cosa si aspetta dal ministro?

«Vorrei sapere quali sono stati i criteri utilizzati per dare un 9 in condotta e perché l’episodio è stato svalutato». 

Cosa ne pensa di quanto successo?

 «Posso capire che si possano fare delle bravate, ma quello che mi ha delusa e indignata è che nessuno mi ha mai chiesto scusa. Se ci fossero stati un’ammissione di colpa, un sincero pentimento, un gesto umano di empatia sarebbe stato diverso. È l’indifferenza che ti distrugge».

Estratto dell’articolo di Laura Berlinghieri per “la Stampa” il 23 giugno 2023.

Promossi alla classe successiva, la seconda dell'istituto professionale Viola Marchesini di Rovigo. E pure con il 9 in condotta, il voto che si accorda agli studenti modello. Nonostante soltanto nell'ottobre scorso uno di loro avesse sparato contro l'insegnante di Scienze con una pistola ad aria compressa, mentre un compagno di classe filmava la scena, per poi pubblicarla sui social. 

Il sottofondo di quel video sono le risate fragorose degli amici, per la goliardata. Il seguito, la sospensione di quattro ragazzi - quello che aveva sparato, l'autore del filmato, il proprietario della pistola e un quarto studente - per cinque giorni, con obbligo di frequenza. L'ulteriore seguito: la promozione dei due studenti "protagonisti" dell'episodio, con il premio del 9 in condotta.

«Perché la vicenda era relativa al quadrimestre precedente - spiega Nicola Bergamini, legale dell'alunno che ha sparato - e poi si è trattato di un episodio spiacevole e riprovevole, ma isolato. Posto in essere da un ragazzo che ha sempre dimostrato il massimo impegno e ha sempre tenuto una condotta ineccepibile, come dimostra il voto finale». 

L'insegnante, Maria Cristina Finatti, è sconvolta e si è lasciata andare a un lungo sfogo con il suo avvocato: «La scuola ha preferito nascondere la polvere sotto il tappeto, per dare l'immagine di un istituto che promuove le eccellenze. Per loro sarebbe stato meglio fare finta di niente, meglio non denunciare, come mi aveva chiesto la preside. Meglio ritirare la querela, come mi avevano chiesto i ragazzi».

La querela, invece, rimane lì, come un monito. Anche perché il ruolo educativo dei professori andrebbe interpretato ad ampio spettro, non limitato alla funzione di insegnamento. «E invece la scuola ha deciso di legittimare l'impunità» commenta Tosca Sambinello, avvocata dell'insegnante insieme a Nicola Rubiero. 

«Esaurite le prime dimostrazioni di solidarietà, sono stata lasciata sola. Dopo tanti anni di insegnamento e lavoro con i ragazzi, è frustrante». Lo sdegno per la decisione assunta, però, è unanime. Arriva dal presidente veneto Luca Zaia, che ha parlato del «poco coraggio dimostrato dalla scuola», aggiungendo che «nessun cittadino avrebbe mai premiato quei ragazzi con il 9 in condotta».  […]

Ho chiesto una relazione dettagliata sulle motivazioni che hanno condotto a questa decisione». E proprio al ministro Valditara l'insegnante di Rovigo ha annunciato che invierà una lettera: «Abbiamo fatto domanda di accesso agli atti, per conoscere gli esatti provvedimenti che sono stati presi nei confronti degli studenti. Soprattutto per capire se i ragazzi sono stati sospesi, se hanno effettivamente affrontato un percorso di volontariato e riparazione. E poi per avere certezza del 9 in condotta e della promozione. Acquisite ufficialmente tutte le informazioni, scriveremo al ministro».

Dall'altro lato, i ragazzi sono pronti a godersi le vacanze, senza il peso di alcun «debito formativo». «Ma lo studente che seguo è estremamente dispiaciuto e pentito per quello che ha fatto. Tant'è che si è immediatamente scusato con l'insegnante, scrivendole una mail appena poche ore dopo l'accaduto» assicura Bergamini, il legale dello studente. Ma è una ricostruzione che non torna ai difensori dell'insegnante.  […]

(ANSA l'1 luglio 2023) - La famiglia del ragazzo che sparò con una pistola ad aria compressa contro Maria Cristina Finatti, la docente dell'Itis Viola Marchesini di Rovigo, potrebbe agire in sede penale e civile, per diffamazione e danni morali, qualora la docente proseguisse nel diffondere notizie 'non veritiere' sul pentimento e le scuse dopo l'episodio. Lo ha detto all'ANSA il legale della famiglia, l'avvocato Nicola Bergamini: "L'alunno ha incontrato la docente a scuola e si è scusato, e anche i genitori. La famiglia finora non ha mai voluto esporsi, per non alimentare il processo mediatico, ma la presenza delle prof sui media è costante".

Secondo quanto ricostruito dalla famiglia sui fatti avvenuti da ottobre fino ad oggi, "è stato messo in evidenza - prosegue Bergamini - che le informazioni fornite da parte di Finatti sul loro figlio sono assolutamente imprecise, se non addirittura false. Non si contesta l'episodio, ma la docente dice he i ragazzi non si sono pentiti, non si sono scusati, non c'è stato un processo rieducativo, e ancora oggi vivono serenamente senza punizione. Questo non è vero". 

Il legale ha quindi puntualizzato che il ragazzo che materialmente ha sparato "si è scusato personalmente e assieme alla famiglia in svariate occasioni, fin dal giorno stesso dell'episodio. Appena tornato a casa, quel giorno, ha mandato una mail alla prof, che aveva abbandonato la scuola, porgendo subito le sue scuse, chiedendo un contatto telefonico per programmare un incontro per scusarsi di persona. La professoressa Finatti ha risposto dopo un'ora, ha apprezzato che il ragazzo si fosse accorto della gravità del fatto e avesse accettato le scuse, tanto che non riteneva necessari un incontro personale".

 La docente, ha quindi puntualizzato Bergamini "nei giorni successivi agli spari non è mai stata a casa, l'alunno l'ha incontrata sui banchi di scuola e si è scusato di nuovo. I genitori sono andati a scuola per porgere le loro scuse". Quello che la famiglia contesta a Finatti "è che ripete di sentirsi abbandonata, parla sempre in maniera generica sulla scuola. Ci lamentiamo perché sta creando dei danni nei confronti del ragazzo, dipinto come un 'mostro'.  

Eppure lui ha fatto e sta continuando a fare volontariato, perché ritiene giusto il percorso rieducativo. Siccome la presenza sui media della prof è costante, i media e le tv se ne occupano. Dice che i ragazzi lo hanno fatto per esibirsi sui social, ma il ragazzo non è mai stato presente su alcun social network. Se si continuerà a generalizzare su condotte del ragazzo che non risultano vere del ragazzo, la famiglia vorrà tutelare l'immagine del ragazzo, sia in sede penale che civile", ha concluso.

Lo Smartphone in classe.

Smartphone in classe, Valditara ribadisce il divieto ma non mette nuove sanzioni. Gianna Fregonara e Orsola Riva su Il Corriere della Sera il 20 Dicembre 2022.

Pubblicata la circolare del ministro dell’Istruzione e del Merito sull’uso dei cellulari a scuola. Cellulari ammessi solo a scopo didattico. Valditara: «Voglio una scuola seria. Le scuole vigilino sul rispetto dei regolamenti da parte degli alunni»

Repetita iuvant, dicevano i latini. Nonostante i cellulari siano vietati in classe ormai da 15 anni, dai tempi della circolare Fioroni, e la maggior parte dei regolamenti di istituto prevedano espressamente l’obbligo di tenere lo smartphone in cartella durante le lezioni - quando non richiedono di consegnarlo all’ingresso-, il ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara, come promesso nelle scorse settimane, ha ritenuto utile emanare una nuova circolare che portasse la sua firma. Niente di nuovo, in sostanza, rispetto a quanto già stabilito. Semmai un richiamo all’importanza di regole costantemente disattese. La circolare Valditara ricalca sostanzialmente quella di Fioroni che a sua volta faceva riferimento allo Statuto degli studenti e delle studentesse del 1998 secondo cui «l’uso del cellulare e di altri dispositivi elettronici rappresenta un elemento di distrazione sia per chi lo usa che per i compagni, oltre che una grave mancanza di rispetto per il docente configurando, pertanto, un’infrazione disciplinare sanzionabile».

Le sanzioni

E’ dunque confermato il divieto di utilizzare il cellulare durante le lezioni. L’utilizzo di dispositivi digitali in classe è consentito «solo con il consenso del docente, per finalità inclusive, didattiche e formative». «L’interesse delle studentesse e degli studenti, che noi dobbiamo tutelare, è stare in classe per imparare - commenta il Ministro Giuseppe Valditara -. Distrarsi con i cellulari non permette di seguire le lezioni in modo proficuo ed è inoltre una mancanza di rispetto verso la figura del docente, a cui è prioritario restituire autorevolezza. L’interesse comune che intendo perseguire è quello per una scuola seria, che rimetta al centro l’apprendimento e l’impegno». Alla circolare è allegata una recente indagine conoscitiva della VII commissione del Senato sugli «effetti dannosi che l’uso senza criterio dei dispositivi elettronici può avere su concentrazione, memoria, spirito critico dei ragazzi»: nella relazione firmata dal senatore Andrea Cangini (Forza Italia) lo smartphone è paragonato alla cocaina e gli studenti italiani vengono definiti dei «decerebrati» . «Con la circolare - spiega il ministro - non introduciamo sanzioni disciplinari, ci richiamiamo al senso di responsabilità». Le sanzioni spettano semmai alle singole scuole che possono introdurle nei loro regolamenti. Quella di Valditara è una moral suasion rivolta non solo agli studenti ma anche a docenti e presidi affinché vigilino sul rispetto delle regole da parte dei ragazzi:«Invitiamo le scuole a garantire il rispetto delle norme in vigore e a promuovere, se necessario, più stringenti integrazioni dei regolamenti e dei Patti di corresponsabilità educativa, per impedire nei fatti l’utilizzo improprio di questi dispositivi».

Libero smartphone. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 21 Dicembre 2022.

Ministro Valditara, la circolare con cui vieta l’uso dei telefoni a scuola durante le lezioni mi ha fatto tenerezza, e non solo perché è identica a quella che emise quindici anni fa il suo predecessore Fioroni. È che non si ferma il vento con le mani (lo disse Seneca, come ho appena letto sul cellulare). Platone proibiva agli studenti di prendere appunti, avendo della scrittura la stessa pessima considerazione che lei ha degli smartphone. Però questo non gli impedì di arrendersi all’evidenza e di mettersi a scrivere (benissimo) anche lui.

Ecco, ministro, sono qui per proporle una resa. Camuffata da ricerca del dialogo, senso di responsabilità e tutte le altre belle cose che si dicono in questi casi per indorare la pillola. Ma che la pillola vada ingurgitata non v’è dubbio: bisogna arrendersi alla realtà, che purtroppo non conosce retromarce. Beniamino Placido sosteneva che quando nel tuo condominio viene installato l’ascensore, è inutile che ti riprometti di continuare a usare le scale: troverai sempre una buona scusa per non farle.

Lo smartphone è come l’ascensore. Possiamo vietarlo ai ragazzi, quando sono gli adulti i primi a farne un uso scriteriato? Meglio trasformarlo in uno strumento di didattica. Se li costringiamo ad accenderlo per seguire la lezione, non potranno più utilizzarlo per scrollare i video di TikTok. Non in contemporanea, almeno. Tranne che si presentino a scuola con due telefoni. Nel qual caso, caro ministro, le toccherà emanare due circolari.

«Lo smartphone? E’ come la cocaina e gli studenti italiani sono decerebrati». Ecco il documento che ha ispirato Valditara. Gianna Fregonara e Orsola Riva su Il Corriere della Sera il 20 Dicembre 2022.

La relazione del senatore Andrea Cangini (Forza Italia) sui danni fisici, psicologici e mentali dello smartphone è stata allegata alla circolare sul divieto di cellulari in classe

«Ci sono i danni fisici: miopia, obesità, ipertensione, disturbi muscolo-scheletrici, diabete. E ci sono i danni psicologici: dipendenza, alienazione, depressione, irascibilità, aggressività, insonnia, insoddisfazione, diminuzione dell’empatia. Ma a preoccupare di più è la progressiva perdita di facoltà mentali essenziali, le facoltà che per millenni hanno rappresentato quella che sommariamente chiamiamo intelligenza: la capacità di concentrazione, la memoria, lo spirito critico, l’adattabilità, la capacità dialettica». Non è un libro di fantascienza distopica, è la relazione presentata a giugno dell’anno scorso dal senatore Andrea Cangini (Forza Italia) sull’impatto del digitale sugli studenti (leggi qui il testo integrale) che il ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara ha allegato alla sua circolare sullo stop all’uso del telefonini in classe. Un’indagine che paragona l’uso e abuso dello smartphone (chissà perché solo da parte dei giovani) alla tossicodipendenza. «Niente di diverso dalla cocaina - scrive Cangini nella relazione mandata da Valditara alle scuole -. Stesse, identiche, implicazioni chimiche,neurologiche, biologiche e psicologiche».

A sostegno di questa tesi vengono portate le opinioni raccolte da neurologi, psichiatri, psicologi, pedagogisti, grafologi ed esponenti delle Forze dell’ordine «auditi» nel corso dell’indagine conoscitiva portata avanti da Cangini. Si cita il caso limite della Corea del Sud dove «il 30 per cento dei giovani tra i dieci e i diciannove anni è classificato come «troppo dipendente» dal proprio telefonino: vengono disintossicati in sedici centri nati apposta per curare le patologie da web». In Cina, scrive ancora Cangini, « i giovani “malati” sono ventiquattro milioni. Quindici anni fa è sorto il primo centro di riabilitazione, naturalmente concepito con logica cinese: inquadramento militare, tute spersonalizzanti, lavori forzati, elettroshock, uso generoso di psicofarmaci. Un campo di concentramento. Da allora, di luoghi del genere ne sono sorti oltre quattrocento». Sempre per restare nell’Estremo Oriente si fa anche un riferimento en passant agli hikikomori giapponesi: ragazzi che «vegetano chiusi nelle loro camerette perennemente connessi con qualcosa che non esiste nella realtà. Un milione di zombi».

Il mondo nuovo

La conclusione non è meno apocalittica: lo smartphone, dice Cangini, atrofizza il cervello e «non è esagerato dire che decerebrando le nuove generazioni». «Tutte le ricerche internazionali citate nel corso del ciclo di audizioni - è scritto nella relazione - giungono alla medesima conclusione: il cervello agisce come un muscolo, si sviluppa in base all’uso che se ne fa e l’uso di dispositivi digitali (social e videogiochi), così come la scrittura su tastiera elettronica invece della scrittura a mano, non sollecita il cervello. Il muscolo, dunque, si atrofizza. Detto in termini tecnici, si riduce la neuroplasticità, ovvero lo sviluppo di aree cerebrali responsabili di singole funzioni». Pleonastico a questo punto anche scomodare Aldous Huxley come fa Cangini evocando la «dittatura perfetta» da lui vaticinata nei suoi libri di fantascienza: «Una prigione senza muri in cui i prigionieri non sognano di evadere. Un sistema di schiavitù nel quale, grazie al consumismo e al divertimento, gli schiavi amano la loro schiavitù». Quella dittatura, conclude Cangini, è già realtà. I nostri figli, i nostri nipoti, in una parola il nostro futuro sono già «giovani schiavi resi drogati e decerebrati». Questo sono gli studenti italiani.

Caos Scuola, colpa dell’Iphone. Eleonora Ciaffoloni su L'Identità il 21 Dicembre 2022

Nell’epoca del digitale, la scuola dice basta al cellulare. Anzi, lo dice il Ministero dell’Istruzione e del Merito che, attraverso una circolare, ha confermato il divieto di utilizzare il cellulare durante le lezioni. Ma non era già così? Per alcuni sì, per alcuni no. Alcune scuole avevano già regolamentato l’uso del telefono cellulare per gli studenti in classe e infatti, per quattro studenti – del liceo – su dieci, questo divieto esisteva già, da anni. Per i sei studenti su dieci restati, il divieto è considerato ingiusto. Una percentuale di no, che è per nulla sorprendente: la generazione Z ha mosso i primi passi con gli strumenti digitali, rimasti al loro fianco dal momento in cui sono venuti al mondo. Ormai da qualche anno, per questi nuovi giovani, il cellulare è da considerarsi un prolungamento del braccio. Non solo per Instagram e TikTok, ma anche per la didattica a distanza: sembra passato un secolo, ma negli ultimi due anni milioni di studenti – dalle elementari fino all’università – hanno avuto connessione con il mondo – e con l’istruzione – grazie agli strumenti digitali (telefoni, computer o tablet che siano). Ma ora il dicastero di viale Trastevere ha deciso di tracciare una linea comune per lo stop all’uso dei cellulari.

LA CIRCOLARE

lLa circolare firmata dal ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara, contiene le indicazioni sull’utilizzo dei telefoni cellulari e di analoghi dispositivi elettronici nelle classi: “È confermato il divieto di utilizzare il cellulare durante le lezioni, trattandosi di un elemento di distrazione propria e altrui e di una mancanza di rispetto verso i docenti, come già stabilito dallo Statuto delle studentesse e degli studenti del 1998 e dalla circolare ministeriale n. 30 del 2007”. Infatti, non è una novità: le distrazioni si evolvono con le nuove generazioni e oggi, quella del cellulare, si somma alle vecchie forme di sollazzo di classe, dai fumetti di Topolino ai test di “Cioè”. Distrazione a cui si aggiunge la mancanza di rispetto per i docenti che, stando alle testimonianze raccolte dal ministero, non riuscirebbero a gestire la mancanza di attenzione derivante dal cellulare. Distrazione, mancanza di rispetto, tutela: “L’interesse delle studentesse e degli studenti, che noi dobbiamo tutelare, è stare in classe per imparare” scrive nella circolare il ministro Valditara. “Distrarsi con i cellulari non permette di seguire le lezioni in modo proficuo ed è inoltre una mancanza di rispetto verso la figura del docente, a cui è prioritario restituire autorevolezza”.

NULLA DI NUOVO

Eppure, molte scuole dall’alba dei telefoni cellulare, partendo da quelli che ricevevano solo squilli ed SMS, avevano iniziato a prendere provvedimenti per lezioni e compiti in classe, mentre questa nuova circolare del ministero, se non rispettata, non prevede sanzioni disciplinari: “Con la circolare, non introduciamo sanzioni disciplinari, ci richiamiamo al senso di responsabilità” per far rispettare la nuova regola, “invitiamo peraltro le scuole a garantire il rispetto delle norme in vigore e a promuovere, se necessario, più stringenti integrazioni dei regolamenti e dei Patti di corresponsabilità educativa, per impedire nei fatti l’utilizzo improprio di questi dispositivi”. Regola unica, ma da far rispettare a discrezione delle scuole che, di fronte ai comportamenti “non responsabili” degli studenti, dovranno prendere provvedimenti non regolamentati dalla norma del ministero. Un giro di parole – e di norme – più facile a dirsi che a far rispettare, perché, proseguono dal ministero: “l’utilizzo dei cellulari e di altri dispositivi elettronici può essere ovviamente consentito, su autorizzazione del docente, e in conformità con i regolamenti di istituto, per finalità didattiche, inclusive e formative, anche nell’ambito degli obiettivi del Piano Nazionale Scuola Digitale (PNSD) e della ‘cittadinanza digitale’”. E di nuovo la palla passa alle scuole a cui, come ricordavamo in precedenza, la consuetudine non era nuova. Anche il presidente dell’Associazione nazionale presidi Antonello Giannelli, che reputa la circolare “condivisibile”, ricorda anche come una quindicina di anni fa “il ministro Fioroni aveva dato disposizioni abbastanza precise su questo aspetto: non si possono utilizzare i cellulari per distrarsi, giocare o chattare. Invece se il regolamento di istituto lo consente, e quindi viene valorizzata l’autonomia delle scuole, e se il docente lo consente, può essere utilizzato come strumento didattico o addirittura inclusivo per favorire gli aspetti didattici” conclude Giannelli.

RISCHI PER LA SALUTE

Nella parte finale della circolare del ministero vengono sottolineati i rischi per la salute dei ragazzi “che possono derivare dall’uso perdurante dei cellulari”. Per dimostrarlo è stata diffusa in allegato alla circolare la relazione finale dell’indagine conoscitiva realizzata nella scorsa legislatura dalla VII Commissione del Senato “Sull’impatto del digitale sugli studenti, con particolare riferimento ai processi di apprendimento”. Una indagine che ha evidenziato gli effetti dannosi che l’uso senza criterio dei dispositivi elettronici può avere su concentrazione, memoria, spirito critico dei ragazzi: “La scuola deve essere il luogo dove i talenti e la creatività dei giovani si esaltano, non vengono mortificati con un abuso reiterato dei telefonini” conclude la comunicazione a firma del ministro. “Un segnale forte”, ha detto il ministro Valditara, che ha voluto dare agli studenti e alle scuole per far capire che “in classe si va per apprendere e non per chattare”. L’interesse del ministro è quello di ripristinare “una scuola seria, che rimetta al centro l’apprendimento e l’impegno”, con nuove regole che vanno a tappare i buchi di una circolare – quella del 2007 – “mai applicata”. Vedremo se quella nuova, senza sanzioni “ufficiali”, possa rispondere alle aspettative.

Vietare lo smartphone è come togliere il pos fumetti in aula… e si copierà coi bigliettini. Redazione su L'Identità il 21 Dicembre 2022

di GIADA BALLOCH

Torneremo a distrarci con i fumetti e già c’è chi scommette che non ci distrarremmo più. O c’è Alessandro, 17 anni, che già pensa a come copiare la versione di greco senza il telefono. “E’ un po’ come il dibattito sul Pos. Torneremo al nostro contante – scherza – Useremo i bigliettini di carta dentro i libri e i dizionari, come faceva mio padre una vita fa”. Battute a parte, idee strampalate pure, c’è una lezione che arriva da molti studenti italiani dopo il divieto del ministro di usare in classe il cellulare. E cioè che se a scuola le cose non vanno, forse la colpa non è solo loro. Nè degli studenti, né dei telefonini. Ma anche di un sistema che fa acqua da tutte le parti, dove insegnare è diventata una professione di serie B e imparare un optional.

Così, ci si accorge che girando per i corridoi dei licei, come degli istituti tecnici, c’è un refrain: “Ancora una volta si attribuisce il malfunzionamento del sistema scolastico italiano agli studenti – spiega Sara, 16 anni, quarto anno dello scientifico -. Ma qualcuno prende in considerazione che magari la colpa non è tutta nostra? Di certo se un alunno si vuole distrarre, il telefono gli facilita il compito, grazie ai social e alle mille altre funzionalità a disposizione. Ma se chiedete ai vostri nonni, anche prima dell’invenzione del telefono cellulare ci si distraeva ed era comunque possibile trovare un modo per copiare senza l’utilizzo di dispositivi elettronici”.

E la cosa che incuriosisce è che chi queste cose le studia davvero, e ce ne sono di dossier sull’uso e l’abuso delle tecnologie in classe, magari non la mette giù proprio così, ma poco ci manca.Tanto che su Twitter nelle scorse ore si è scatenata la solita guerra fra sì e no, a suon di insulti e lezioncine, ognuno con la sua idea della scuola che, però, di problemi ne ha di ben più gravi e urgenti dello smartphone.

Quello che a noi pare evidente è la solita ipocrisia degli adulti – aggiunge Matteo, 19 anni, due volte in quinta superiore, ma – giura – non a causa del telefonino. Sono tutti convinti che imponendo un divieto risolveranno i problemi creati da loro stessi. Tutto come prima. Rendiamo la scuola moderna invece di vietare di limitare la libertà dei ragazzi, che come ci insegna la storia, non ha mai portato a nulla di buono”.

Agli studenti, insomma, almeno a molti di loro, pare surreale scegliere di non concentrarsi su come migliorare il sistema scolastico, come incoraggiare gli studenti ad aver voglia di studiare, di scoprire e di essere interessati a ciò che studiano. Invece no, “ministro e governo decidono che la soluzione migliore per risolvere tutte le distrazioni è quella di levare il cellulare a chi studia”.

Un dibattito destinato a durare. Anche perché da questo provvedimento ci si aspetta una mutazione dei comportamenti. Il ministero di Largo Arena parla, infatti, di mancanza di rispetto nell’uso del cellulare. “Il rispetto è fondamentale. Ma dovrebbe essere reciproco”.

Smartphone a scuola; i nostri giovani vittime del device. Jacopo Coghe su Panorama il 21 Dicembre 2022.

Fa discutere la circolare del Ministro Valditara che ribadisce il no all'uso dei cellulari in classe

Danni fisici come miopia, obesità, ipertensione, disturbi muscoloscheletrici e addirittura diabete. Ma soprattutto danni psicologi e “sociali”: dipendenza, alienazione, depressione, irascibilità, aggressività, insonnia, insoddisfazione e, cosa ancor più inquietante, riduzione delle facoltà intellettive e “intelligenti” come concentrazione, memoria, dialettica.

Sembrerebbero le conseguenze dell’uso di droghe “pesanti” come la cocaina ma in realtà sono gli effetti dell’impatto dell’abuso degli strumenti digitali sugli studenti, con particolare riferimenti, appunto, ai processi di apprendimento. Dettagli inquietanti già emersi da un’indagine conoscitiva condotta dal Senato della Repubblica nel 2021 e che dunque giustificano la decisione odierna del Ministro dell’Istruzione del Merito Giuseppe Valditara nel confermare lo stop all’uso dei cellulari in classe. L’abuso di dispositivi digitali - quindi non solo smartphone ma anche pc, tablet, videogame, ecc. - ha secondo la maggior parte di neurologi, psichiatri, psicologi, pedagogisti e perfino grafologi e Forze dell’Ordine, delle conseguenze devastanti sul benessere e l’apprendimento dei nostri figli. Un quadro oggettivamente allarmante, destinato a peggiorare, come confermano dati e statistiche. I nostri giovani, infatti, passano dalle 4 alle 6 ore al giorno letteralmente “incollati” al cellulare, che si trasforma così da strumento - positivo e dalle grandi potenzialità - a vera e propria appendice del corpo, con conseguenze negative ed estremamente impattanti. Una sorta di protesi da cui però dipendono l'autostima e l'identità dei giovani e che, quando se ne abusa, porta ad un’accelerazione dei disagi. Pensiamo infatti a ragazzi e ragazze che non si vedono “belli” e con corpi perfetti, tentando di raggiungere modelli ideali. Oppure, al contrario, si pensi a come l’iperdigitalizzazione porti ad una ipersessualizzazione dei propri corpi, dunque anche con pornografia, adescamenti, revenge porn e così via. Scoraggiare l’abuso di smartphone e strumenti digitali in classe, quindi, non ha solo motivazioni didattica e di rispetto verso gli insegnanti, ma anche e soprattutto serve per instradare i nostri figli, i nostri nipoti, su una cultura delle relazioni interpersonali vere ed autentiche e del porsi dei limiti in ciò che si e ciò che si usa. Anche da questi punti di vista ci vengono in “aiuto” - per quanto altrettanto drammatici e tragici - gli esempi e le storie di altri Paesi che hanno già sperimentato (o lo stanno facendo) la piaga di una digitalizzazione incontrollata dei corpi e delle menti dei giovani. In Corea del Sud, per esempio, il 30% dei giovani tra 10 e 19 anni è classificato come «troppo dipendenti» dal proprio telefonino e per questo sono addirittura nati ben sedici centri medici specializzati per curare le cosiddette patologie da web. In Cina, invece, i giovani «malati» sono 24 milioni e il primo centro di riabilitazione risale addirittura a ben 15 anni fa. Rimanendo sempre in oriente, che è stato per primo “all’avanguardia” nelle nuove tecnologie, in Giappone sono aumentati a dismisura - fino a 1 milione - i cosiddetti “hikikomori” , termine autoctono per definire i giovani tra i 12 e i 25 anni che si isolano completamente dalla società, tanto da stare chiusi nelle loro camere anche per anni senza mai uscire neanche per un istante. In questo caso, contrariamente a quanto si pensi, la dipendenza di internet non è tanto una causa ma soprattutto una possibile e ancor più drammatica conseguenza. Forse - e grazie a Dio - per ora l’Italia è abbastanza distante da questi fenomeni così critici, ma di sicuro non possiamo dirci poi così lontani. La pandemia in particolare, infatti, ha accelerato determinati processi, anche in materia di contatti - tramite la tecnologia - con contenuti per adulti o aberranti per i minori. Dati anche questi drammatici se si pensa che, soltanto nel primo anno del Covid-19, più di un bambino su quattro tra gli 11 e i 16 anni, con un profilo sui social, ha sperimentato qualcosa di sconvolgente. Di questi, inoltre, solo uno su cinque ne ha parlato con qualcuno. Cellulari e smartphone, dunque, rappresentano palesemente una grande opportunità per la crescita e il futuro dei nostri bambini e ragazzi, ma allo stesso tempo e in modo altrettanto chiaro e palese, sono delle armi devastanti. Sensibilizzare al loro uso e vietarlo in classe se non per usi didattici e quando previsto da insegnanti e professori è una strada di civiltà e, soprattutto, di salvezza per i giovani. Jacopo Coghe

La noia dei libri di testo allergici alle cose attuali. ELVIRA FRATTO su Il Quotidiano del Sud l'11 Settembre 2023 

SONO i nipoti dell’Abbecedario di Pinocchio, i nipoti della Maestrina dalla penna rossa e i cugini dei sussidiari: i libri di testo, i libri di scuola, sono i veri protagonisti di settembre. Il loro profumo di nuovo, le pagine ancora dritte e senza pieghe il cellophane ancora integro rappresentano il sabato del villaggio della scuola, il momento in cui tutto attende e in cui tutto deve ancora succedere.

È una domanda che ci siamo posti tutti, almeno una volta nella vita, imparando a memoria quei nomi che ci facevano compagnia tutti i giorni sul banco: chi li scrive i libri di scuola? Da bambini immaginavamo senza fatica degli esseri sferici onniscienti che assumevano sembianze e usanze umane per tradurre in libri di testo e trasferire così anche a noi una seppur minima parte del loro sconfinato sapere. Qualcuno li ringraziava, qualcun altro li malediva e nemmeno troppo segretamente: mai nessuno come gli autori dei libri per la scuola ha ricevuto una quantità simile di inviti a farsi gli affari propri. La verità però è molto meno romanzata di così: per scrivere un libro per la scuola, e che quindi finirà in mano all’utente più giovane nel panorama dei lettori, bisogna essere stati bravi a scuola.

Sembra una presa in giro, ma di fatto sono gli esperti di una determinata materia, insieme a un team di docenti, che danno l’avvio alla costruzione dei libri di testo. Docenti, quindi, spesso agli antipodi (in pensione oppure molto giovani e freschi di studi), psicologi, esperti di didattica, pedagogisti e perfino presidi: non c’è un’età per chi scrive un libro di testo per la scuola, è campo aperto dai 35 ai 65 anni. Il contenuto dei libri di testo per la scuola, che si tratti di storia, geografia, italiano o matematica, si attiene fedelmente al programma previsto per la classe che lo adotterà, ma è la modalità con cui quel contenuto viene espresso a cambiare ed a fare la differenza: non a caso pare che siano più di mille i sussidiari tra i quali i docenti devono scegliere, e non è quasi mai una scelta semplice. Una delle più grandi difficoltà del libro di scuola è quella di doversi adattare alle teste dei bambini o dei ragazzi che lo leggeranno e che interagiranno attivamente con i suoi contenuti.

Tutto ciò che è contenuto nel libro lavora alacremente per rispettare degli standard: qualitativi, innanzitutto, perché mica si può saltare la Prima Guerra Mondiale. Che ce ne faremmo di un libro di geografia che non nomini almeno una volta le intramontabili colture della barbabietola da zucchero? Per non parlare dei libri di grammatica, ai quali tocca, forse, il compito più arduo: studiare meticolosamente gli schemi, le tabelle, le strategie dialogiche più accurate possibili degne di un tavolo ONU per consentire ai giovani allievi di imparare l’importante numero di tempi verbali che la lingua italiana prevede (e per giunta uno dei motivi che la rendono così ostica ai nostri amici stranieri). Ma non è solo il contenuto che conta, anzi: immagini, colori, fotografie d’epoca, perfino tracce audio da ascoltare in classe per memorizzare meglio alcuni concetti e completare gli esercizi, affinando l’attenzione e l’ascolto. Alzi la mano chi ricorda lo stereo che la maestra d’inglese portava sempre in classe durante le sue ore: il “listening” rimane tutt’oggi uno dei momenti più odiati dagli studenti, costretti a ore di fortissimo accento britannico e a non perdere mai di vista il CD (momento Amarcord) incollato in terza di copertina e avvolto dalla bustina di plastica, ché non averlo durante le ore dedicate all’ascolto si trasformava automaticamente in una nota sul registro. Ed ancora: attività didattiche, tracce per temi, riassunti e impressioni personali.

Sembra una contraddizione, ma il libro di scuola lo scrive proprio l’alunno. Chi lo struttura si limita a dare indicazioni in bianco che la crescita e il progresso personale del ragazzo o della ragazza provvederanno a colorare e a riempire, ciascuno a suo modo. Ma che succede se, oltre ai ragazzi che rischiano di arrivare il giorno dopo a scuola senza compiti fatti, anche il libro si rende “colpevole” di alcune mancanze? È uno dei grandi temi della scuola moderna: il programma di classe. Una scaletta di argomenti che nel corso degli anni è diventata ridondante e ripetitiva, che ha seguito finora uno schema talmente appiattito della didattica da essere diventata una macchietta. Chiunque abbia mai visto il film “Notte prima degli esami” lo sa: gli argomenti che Luca Molinari, il protagonista, studia sotto l’occhio severo del Professor Martinelli, amorevolmente soprannominato dagli alunni “Carogna”, sono gli stessi che hanno visto impegnate anche le generazioni successive alle porte del diploma. Ungaretti, Montale, Quasimodo; Seconda Guerra Mondiale, Guerra Fredda; Alessandro Manzoni, Ugo Foscolo, Luigi Pirandello e, forse, Grazia Deledda: il limite è il Contemporaneo. Tutto ciò che sfiora la Storia più recente e che si esprime in tematiche geografiche, scientifiche e perfino sociali viene trascurato. Come se ci fosse da imparare soltanto dal passato; eppure anche presente e futuro hanno dimostrato di poter essere degli ottimi maestri.

E l’attenzione all’ambiente? La grande sfida dei sussidiaristi di oggi non è soltanto quella di costruire dei libri di testo più accattivanti, più moderni e scorrevoli, ma anche al passo con i tempi dal punto di vista sociale. Sono molti i docenti che negli ultimi tempi preferiscono adottare libri che abbiano tra le attività interattive quelle legate alla cura dell’ambiente e l’educazione all’ecologia. Ancora un sei di incoraggiamento meritano i libri che, soprattutto per la fascia delle scuole elementari, strutturano gli esercizi rischiando di cadere facilmente nello stereotipo. “Cosa fa la tua famiglia?”, chiede la traccia. Ma le alternative sono sempre poche: “mamma stira, lava i piatti e pulisce, papà va al lavoro”. L’educazione civica entra in aula tutte le mattine in ritardo e l’educazione sessuale non si vede da mesi; bocciate anche loro.

Ma la verità è che forse abbiamo smesso da tempo di aver bisogno solo e soltanto dei libri. Abbiamo capito (probabilmente troppo tardi) che il testo supporta, ma è l’esempio che guida. “Studio” ha smesso di essere soltanto una parola molto tempo fa per divenire un concetto a tutto tondo: qualunque evento sia alla nostra portata dev’essere oggetto di studio, compresi i nuovi fenomeni sociali che ci riguardano così da vicino e che devono diventare i primi strumenti attraverso i quali i ragazzi sviluppano una coscienza critica e un metodo di ragionamento autonomo: i fatti di cronaca di domani, insomma, sono nelle mani dei libri di oggi. Il segreto è lasciarli aperti anche dopo scuola. Aperti sul mondo, come fossero occhi. E del resto, che insegnamento è se i libri lavorano solo per il tempo di una campanella?

L’aggiotaggio scolastico. L’adozione dei libri di testo scolastici è deliberata dal collegio dei docenti entro la seconda decade di maggio per tutti gli ordini e gradi di scuola.

Le materie scolastiche sono sempre quelle. Gli autori dei testi scolastici sono sempre quelli.

Perché ogni anno si cambiano i libri, anziché riusare l’edizione dell’anno prima? Dove l’aggiornamento è necessario “nulla quaestio”, (Nulla quaestio (in italiano "nessuna questione", "nessun problema") è una locuzione latina della tradizione giuridica medievale, utilizzato, spesso in relazione a varie ipotesi, per indicare che in una determinata circostanza una data questione non si pone, ma ove la nuova versione non sia necessaria, tale modo di fare è dannoso per le famiglie e può nascondere un’azione criminale.

Si impedisce alle famiglie di riusare i testi per gli altri figli, ovvero di acquistarli sul web o nei mercatini scontati del 50%.

Cui prodest? – Frase latina («a chi giova?»), tratta dal passo della Medea di Seneca, a. III, vv. 500-501, cui prodest scelus, is fecit «il delitto l’ha commesso colui al quale esso giova»; è appunto in questo senso che la domanda viene posta, nella sua formulazione abbreviata, quando si cerca di scoprire chi sia l’autore o il promotore di un fatto (non necessariamente delittuoso), nel presupposto che può esserlo soltanto chi se ne ripromette un vantaggio per sé.

Il vantaggio sicuro è per gli editori. Ma cosa ci guadagnano i docenti con questa azione scellerata?

 Sostituzione libri di testo in caso di nuovo docente.  Libri di testo: l’insegnante può cambiare i testi scelti dal Collegio docenti? GIOVANNI BATTISTA DICIOCIA il 25 luglio 2022 su tuttoscuola.com

Domanda

Quale dirigente scolastico di un Istituto comprensivo, sottopongo alla sua c.a. il seguente quesito. Un docente di matematica e scienze della scuola media facente parte del “mio” Istituto, in servizio dal 1° settembre 2016, ha cambiato, senza darmene avviso alcuno, i libri di testo delle due discipline di insegnamento. Di fatto, ha imposto agli alunni delle proprie classi l’acquisto di libri di testo differenti da quelli deliberati dal Collegio docenti nel decorso mese di maggio e da utilizzarsi nel corrente anno scolastico. Un tale comportamento non mi sembra corretto. Se così è, cosa posso fare nei confronti del docente? 

L’esperto risponde

L’adozione dei libri di testo nelle scuole di ogni  ordine e grado è sempre stato tema particolarmente sentito dal Miur che, di anno in anno, emana apposite circolari esplicative.

In questi ultimi anni o, per dir meglio, dalla conseguita autonomia delle istituzioni scolastiche, le circolari hanno fatto luce sulle molte novità legislative che si sono susseguite in tema: dal rispetto del tetto di spesa da non superare per l’adozione nelle diverse classi alla adozione di testi digitali o misti; dal vincolo pluriennale di adozione al superamento dello stesso. E ancora: dall’adozione dei libri di testo all’indicazione dei testi consigliati; dalle specifiche tecniche dei testi cartacei alla definizione di prezzi di copertina del libri di testo per la scuola primaria, ecc.

In questo panorama ordinamentale, connotato da particolare dinamicità, il percorso istituzionale relativo alla adozione dei libri di testo è rimasto pressoché  immutato.

La competenza alla adozione dei libri di testo è prerogativa del Collegio docenti che – ai sensi dell’art. 7, comma 2, lett. e), del T.U. n. 297/1994 – vi provvede sentite le proposte dei consigli di interclasse o di classe. Non solo.

La delibera adottata dall’Organo collegiale è tenuta a conseguire un duplice obiettivo:

–  garantire che l’adozione dei libri di testo risulti coerente con il Piano dell’offerta formativa (cfr. art. 4, comma 5, Dpr n. 275/1999);

– assicurare che le scelte siano espressione della libertà di insegnamento e dell’autonomia professionale dei docenti ( cfr. c.m. n. 3503 del 30.03.2016). E quest’ultimo richiamo significa non altro che, ad ogni docente, durante il dibattito che normalmente precede la decisione finale, è riconosciuta la facoltà di esprimere il proprio punto di vista. Vale a dire, ogni insegnante è titolato  ad argomentare pro o contro le proposte di adozione avanzate, oltre che – in caso di dissenso o di non condivisione –  proporne di altre e diverse. Ed è sulla base delle posizioni emerse e formalizzate nel dibattito, che l’Organo collegiale è chiamato ad assumere la specifica delibera; delibera, però, che per riscontrare piena legittimità abbisogna  dei seguenti presupposti:

– essere assunta da un Collegio la cui seduta veda la presenza di almeno la metà più uno dei propri componenti;

– derivare dalla maggioranza assoluta dei voti validamente espressi.  

La delibera approvata nel rispetto di tali condizioni risulta, così, essere atto o provvedimento amministrativo definitivo (ex art. 14, comma 7, Dpr n. 275/99) e, pertanto, vincolante per tutti i docenti della Istituzione scolastica di riferimento, che non possono disattenderne gli esiti o discostarsene in alcun modo. Il MIUR, a tal proposito, con le circolari annuali “ ricorda che non è consentito modificare ad anno scolastico iniziato, le scelte adozionali deliberate nel mese di maggio” (c.m. 30.03.2016, n. 3503).   

Ne consegue: il docente, ancorché in servizio dal 1° settembre del 2016, è obbligato a mantenere l’adozione dei testi scelti dal Collegio nel mese di maggio della precedente annualità scolastica e, ove contravvenga a tale scelta, imponendo, ad esempio, ai propri alunni l’acquisto di differenti libri di testo, integra, sicuramente, un illecito disciplinare.

Sostituzione libri di testo in caso di nuovo docente. Da notiziedellascuola.it il 2009.

È dichiarata illegittima la C.M. 16 del 10 febbraio 2009 recante “adozione dei libri di testo per l’a.s. 2009/2010” nella parte in cui impone il divieto assoluto di modificazione dei libri di testo nel quinquennio neppure nel caso di trasferimento di docenti, senza la valutazione delle specifiche e motivate circostanze.

È dichiarata illegittima la C.M. 16 del 10 febbraio 2009 recante “adozione dei libri di testo per l’a.s. 2009/2010” nella parte in cui impone il divieto assoluto di modificazione dei libri di testo nel quinquennio neppure nel caso di trasferimento di docenti, senza la valutazione delle specifiche e motivate circostanze.

Lo ha stabilito il Tar Lazio, sezione III bis, con la sentenza n. 7528 del 24 luglio 2009, con la quale ha riaffermato l’orientamento espresso nella precedente sentenza di maggio, dichiarando che un nuovo docente che subentra al altro collega è presupposto per il cambio dei libri di testo.

La circolare n. 16 del febbraio 2009, secondo il Tar, introduce inopinatamente criteri restrittivi nelle operazioni di scelta dei libri di testo seppure effettuabili con cadenza pluriennale, mancando di rispettare, sotto tale profilo, la normazione sovraordinata, rappresentata dal D.L. n. 137/2008, come modificato dalla legge di conversione, che, all’art. 5, stabiliva che i libri di testo potessero essere modificati con cadenza quinquennale a valere per il successivo quinquennio e per la scuola secondaria di primo e di secondo grado ogni sei anni “salva la ricorrenza di specifiche e motivate esigenze”.

La suddetta C.M. n. 16/2009, che dovrebbe essere meramente applicativa della norma di rango superiore, ha in realtà introdotto al punto 3.3 lett. b) “la non modificabilità delle scelte da parte degli insegnanti e della scuola nell’arco dei due periodi previsti” a partire dall’anno scolastico 2009/2010 ed al penultimo comma ha introdotto la disposizione per cui “L’assegnazione di altro docente nella classe, a decorrere dal 1° settembre 2009, non consente in alcun modo una diversa scelta di libri di testo già effettuata. In proposito il dirigente scolastico è tenuto ad esercitare una scrupolosa vigilanza sul rispetto di tale divieto.”. Tali istruzioni impediscono che un docente trasferito o sopraggiunto per cessazione di altro docente possa scegliere il libro di testo dovendo piuttosto adeguarsi per i successivi cinque anni alle scelte effettuate dal predecessore o che altre gravi esigenze, opportunamente motivate, possano dar luogo al cambio del libro di testo durante il quinquennio.

Sulla base di quanto sopra, pertanto, vanno annullati la lettera b) ed il primo periodo del penultimo comma del punto 3.3 della Circolare n. 16 del 10 febbraio 2009 nella parte in cui non prevedono la deroga recata dall’espressione “Salva la ricorrenza di specifiche e motivate esigenze” stabilita dal secondo periodo dell’art. 5 del D.L. n. 137/2008 nella cadenza quinquennale per l’adozione dei libri di testo.

Il business dei libri di scuola. Da ilpost.it il 29 settembre 2015

L'editoria scolastica è un quarto del mercato dei libri in Italia, ma funziona in modi del tutto diversi da quella che si rivolge alle librerie

L’editoria scolastica vale un quarto del mercato editoriale italiano. In termini di fatturato significa circa 600 milioni di euro annuo contro i quasi 3 del mercato editoriale complessivo (il 2014 registrerà un fatturato lievemente minore del 2013, l’ultimo ufficiale che fu di 2,6 miliardi di euro). È una grande industria che ha caratteristiche e problemi specifici, ma che rimangono sconosciuti perché nessuno, a partire da autori ed editori scolastici, ha molto interesse a raccontarla. Mentre nel resto del business dei libri i successi si annunciano ed esagerano nella speranza di creare un effetto emulazione, nel mondo dei libri scolastici – dove le vendite sono dettate da meccanismi diversi – prevale il pudore. L’idea che fare libri per gli studenti sia un’attività a scopo di lucro a molti non piace, anche perché suona in conflitto con l’articolo 34 della Costituzione, quello che dice: «La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso». Tra i mezzi con cui si intende rendere effettivo il diritto, i libri di testo non sono citati.

Il mercato è enorme, ma non ha potenziali di crescite maggiori perché il numero degli studenti rimane sostanzialmente stabile. A settembre – dice il ministero dell’Istruzione – nelle scuole italiane, materne escluse, si sono iscritti 6.861.718 di studenti divisi in 326.599 classi gestite da 817.291 docenti. Arrotondando significa quasi 7 milioni e mezzo di lettori potenziali, che formano l’unica categoria di lettori al mondo obbligata ad acquistare i libri, più ancora che a studiarli. Nel 2013 il ministero ha abbassato del 10 per cento il tetto massimo di spesa per ogni tipo di classe, e anche se in alcune scuole viene superato, i prezzi sono rimasti stabili da allora. Così si va dai 117 euro annui per alunno della seconda media ai 382 del terzo anno del liceo classico (qui vedete i tetti di spesa per ogni classe). Sono cifre consistenti, ma anche quasi sempre inferiori al costo di un caffè al giorno. Altre novità sono arrivate nel 2014 con l’abolizione dell’obbligo di adottare libri di carta (ma pochissimi insegnanti hanno rinunciato a farlo), la fine del blocco di cinque anni per le nuove edizioni (che infatti sono state subito pubblicate) e l’obbligo di affiancare a ogni libro anche un’edizione digitale. Per gli editori è un grosso investimento – Zanichelli nel 2014 ha investito sul digitale 5 milioni di euro –, che al momento rimane solo un costo: non influisce sui tetti di prezzi consentiti, e la percentuale degli studenti che effettivamente scarica la versione digitale è ancora sotto il 5 per cento.

La “scolastica” produce bestseller clamorosi di cui nessuno si accorge. La metà degli studenti delle superiori, per esempio, studia matematica sul Bergamini-Barozzi di Zanichelli: il che significa circa 200 mila ragazzi per anno, un milione considerando che gli anni vanno moltiplicati per cinque. Nessuno altro autore in Italia – a parte forse il Papa, che però è vaticano – può sognarsi numeri del genere. Altri grandi bestseller della scolastica sono l’Amaldi di fisica, sempre di Zanichelli, o l’Abbagnano di Filosofia di Pearson: il successo dipende anche da quanto le varie materie sono insegnate. I diritti d’autore sono comparabili a quelli dell’editoria normale, quindi dal 7-8 per cento fino al 14-15.

I primi cinque editori si dividono il 71 per cento del mercato (in altri paesi come Francia e Spagna, la concentrazione è anche superiore). La loro classifica per fatturato è questa:

1. Zanichelli (appartiene alla famiglia Enriques. Possiede Loescher, D’Anna, oltre ai dizionari Zingarelli, Ragazzini, Boch. La sede è a Bologna).

2. Pearson (è l’editore più grande del mondo, anche dopo avere venduto Economist e Financial Times. In Italia comprende Paravia, Bruno Mondadori, Linx, Archimede, Elmedi, i Pinguini. La sede è a Milano)

3. Mondadori (dichiara di avere il 13 per cento dell’editoria scolastica. Oltre alle varie linee scolastiche di Mondadori, possiede Einaudi e Piemme scuola, LeMonnier, Signorelli, e, Juvenilia, Minerva)

4. Rcs (Bompiani per la scuola, Fabbri, Edizioni il Quadrifoglio, Calderini, Etas, Edagricole scolastico e aula Digitale)

5. De Agostini Scuola (Garzanti scuola e linguistica, Cedam, Marietti, Cideb, Ghisetti&Corvi, Theorema, Petrini, Valmartini e Black Cat che fa libri in lingua originale)

Al sesto e settimo posto, i primi editori che non sono grandi gruppi: Hoepli di Milano, antica casa editrice specializzata in manuali tecnici che ha un bestseller di informatica Corso di Informatica CLIPPY, la “Collana Biennio”, e Sei, dei salesiani. Seguono, in ordine sparso, Giunti, per le medie, Atlas di Bergamo, il Capitello e Lattes di Torino, Palumbo di Palermo, il Gruppo La Scuola di Brescia e Principato di Milano.

Nel suo libro Il libro Gian Arturo Ferrari – oggi vicepresidente di Mondadori Libri – sostiene che l’editoria scolastica è l’altra faccia della luna del libro. Editoria scolastica e generalista sono due attività distinte, se non contrapposte: la generalista è marketing oriented, cioè deve indurre bisogni (nessuno ha bisogno di leggere un giallo svedese, bisogna fargli venire voglia di farlo), mentre l’editoria scolastica deve soddisfare bisogni che esistono. Questa differenza di prospettiva ribalta completamente il modo di fare promozione. I libri di testo non hanno bisogno di pubblicità o di recensioni. Hanno bisogno che gli editori costruiscano un rapporto quanto più possibile capillare con le scuole, e con i professori che li adotteranno, che sono molto numerosi. Non tutti gli 800 mila professori della scuola italiana sentono l’esigenza di cambiare libro di testo, ma ognuno può decidere di farlo, e quindi ognuno è un potenziale cliente. Non esiste un decisore unico centralizzato, come per esempio accade in alcuni stati degli Stati Uniti: in venti, come Texas, Alabama e la Virginia, l’adozione è di Stato. In Italia questa libertà di insegnamento comporta un alto costo commerciale.

Per dare un’idea del peso del cosiddetto reparto commerciale: su 240 persone assunte in totale da Zanichelli – l’unico editore scolastico che abbia una rete interna – quelle che si occupano di promuovere i libri presso i professori sono un centinaio, a fronte di solo quaranta “editoriali”, e gli altri cento sono nei servizi, magazzini o amministrazione. Hoepli, che pubblica una quarantina di novità all’anno, ha circa centocinquanta «propagandisti» pagati a provvigione – tre per ogni libro nuovo – per portare i libri ai docenti e riportare all’editore le loro esigenze. L’editoria scolastica è forse l’unica attività commerciale al mondo che si rivolge a destinatari di fatto irraggiungibili (gli studenti) e che dipende dagli intermediari (i professori) non solo per vendere i suoi libri, ma anche per sapere come migliorarli. Invece dei costi pubblicitari degli editori normali, la scolastica spende per  i “saggi” da dare ai professori per convincerli ad adottare il libro, circa il 10 per cento di copie stampate. Gli intermediari tra l’altro non vengono retribuiti (né, risulta, compensati in forme torbide o occulte come nel simile mercato dei medici e medicinali). Il vantaggio non da poco è che questo permette di conoscere esattamente il numero di copie da stampare e i luoghi in cui distribuirle, e quindi non avere rese e nemmeno macero, che sono tra i costi e le complicazioni dell’editoria da libreria. I costi industriali dei libri scolastici sono però molto maggiori rispetto ai libri normali, essendo molto più articolati: il formato è più grande, la carta più spessa, l’impaginazione complessa, le rilegature più resistenti e la stampa è a quattro colori. I libri di testo sono poi sempre il risultato di un lavoro di gruppo.

L’accusa più comune che si rivolge alla scolastica è di inventare ogni anno inutili nuove edizioni, per rendere impossibile la rivendita dei libri usati. In genere c’è un’edizione ogni cinque anni, ma possono aumentare a causa di altri fattori, come una riforma della scuola che stabilisce nuovi programmi o dell’esame di Stato.  Gli editori si difendono anche dicendo che i libri di scuola non possono essere immobili, perché intorno alla scuola cambia tutto – le materie, le tecnologie, il linguaggio e i gusti di studenti e professori – come se la scuola fosse un grande animale in movimento che i libri possono solo inseguire. La fine del blocco delle edizioni ogni cinque-sei anni deciso dal ministero nell’aprile 2014 ha sicuramente prodotto nuove edizioni, ma il mercato dell’usato pesa comunque per il 40 per cento del totale: cioè è un ulteriore settore editoriale, ancora più sconosciuto della scolastica, e anch’esso assai consistente.

L’adozione dei libri di testo scolastici è deliberata dal collegio dei docenti entro la seconda decade di maggio per tutti gli ordini e gradi di scuola.

Le materie scolastiche sono sempre quelle. Gli autori dei testi scolastici sono sempre quelli.

Aggiotaggio. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Delitto di Aggiotaggio

Fonte Codice penale italiano Libro II, Titolo VIII, Capo I Disposizioni art. 501

Competenza Tribunale ordinario

Procedibilità d'ufficio

Arresto non consentito

Fermo non consentito

Pena reclusione fino a tre anni e multa da 516 fino a 28 822 euro

L'aggiotaggio è un reato previsto dal codice penale italiano. L'etimologia del termine è solitamente riferita alla parola in francese agiotage, derivata dal sostantivo italiano aggio, inteso come «vantaggio, opportunità che si dà o si riceve per aggiustamento della valuta di una moneta a quella di un'altra, ovvero per barattare la moneta peggiore nella migliore».

Il contenuto

L'articolo 501, intitolato "Rialzo e ribasso fraudolento di prezzi sul pubblico mercato o nelle borse di commercio", recita:

Chiunque, al fine di turbare il mercato interno dei valori o delle merci, pubblica o altrimenti divulga notizie false, esagerate o tendenziose o adopera altri artifizi atti a cagionare un aumento o una diminuzione del prezzo delle merci, ovvero dei valori ammessi nelle liste di borsa o negoziabili nel pubblico mercato, è punito con la reclusione fino a tre anni e con la multa da euro 516 a 25.822

Se l'aumento o la diminuzione del prezzo delle merci o dei valori si verifica, le pene sono aumentate. Le pene sono raddoppiate:

1. se il fatto è commesso dal cittadino per favorire interessi stranieri;

2. se dal fatto deriva un deprezzamento della valuta nazionale o dei titoli dello Stato, ovvero il rincaro di merci di comune o largo consumo.

Le pene stabilite nelle disposizioni precedenti si applicano anche se il fatto è commesso all'estero, in danno della valuta nazionale o di titoli pubblici italiani.

La condanna importa l'interdizione dai pubblici uffici».

Le previsioni del codice civile

Inoltre è regolato dall'art. 2637 del codice civile italiano, poiché da operazioni di aggiotaggio è possibile trarre grandi profitti illeciti, provocando conseguentemente danni economici agli altri operatori sul mercato finanziario:

«Chiunque diffonde notizie false, ovvero pone in essere operazioni simulate o altri artifici concretamente idonei a provocare una sensibile alterazione del prezzo di strumenti finanziari, quotati o non quotati, ovvero ad incidere in modo significativo sull'affidamento che il pubblico ripone nella stabilità patrimoniale di banche o di gruppi bancari, è punito con la pena della reclusione da uno a cinque anni».

Prescrizione

Il reato di aggiotaggio si prescrive in sei anni, la prescrizione estingue il reato decorso il tempo corrispondente al massimo della pena edittale stabilita dalla legge e comunque un tempo non inferiore a sei anni se si tratta di delitto e a quattro anni se si tratta di contravvenzione, ancorché puniti con la sola pena pecuniaria.

Esso dunque, essendo sanzionato nel massimo con la reclusione fino a tre anni, si prescrive in sei anni. Se invece interviene uno dei cosiddetti atti interruttivi della prescrizione elencati in modo tassativo dall'art. 160 c.p., il tempo necessario a prescrivere aumenta fino ad un massimo di un quarto, ossia fino a sette anni e mezzo.

Libri di testo, i continui aggiornamenti li rendono usa e getta. E al solito, paga Pantalone. Emanuele Romano su Il fatto Quotidiano il 15 agosto 2021.

Sto facendo dei lavori a casa, mi sembra una buona occasione per dare un nuovo assetto alla mia stanza: e sposta la scrivania, e sposta il pc, e sposta il letto, butta via la roba che non serve più… Senonché l’occhio mi cade su quei vecchi libri di scuola che mi sono sempre rifiutato di buttare, che però continuano a occupare un sacco di spazio e prendere polvere.

E lì mi incazzo, per ragioni che saranno presto chiare. Alcuni libri sono quelli di un liceo classico; il costo di ognuno arriva a superare anche i 30 €, ma in altre liste ne ho visti alcuni raggiungere i 40 €. Altri libri invece sono da università. Uno poi, il miglior libro destinato alla didattica su cui abbia mai studiato, l’ho pagato 22.50 €. Ma è solo un esempio: ci sono molti testi universitari di buon livello a prezzi per niente mostruosi.

La differenza tra i primi e i secondi? I primi sono libri usa-e-getta, perché vengono usati mediamente per due o tre anni, dopodiché non serviranno più né allo scolaro né a nessun altro: non trovi nessuno che se li prende nemmeno se li vuoi regalare; non ti servono più nemmeno per consultazione: le informazioni ivi contenute, più superficiali rispetto ad un testo universitario, sono facilmente reperibili su internet. I secondi sono libri che possono essere usati per sempre, e anche se non ti servono più e li vuoi rivendere non fai troppa fatica a trovare un acquirente. Perché valgono qualcosa, sempre.

Eppure tutti e due i tipi di libro vengono fabbricati allo stesso modo: come libri fatti per durare. E questo spiega il costo analogo. Più di una volta ho provato a parlarne con qualche professore di scuola, e mi è stato risposto sempre allo stesso modo: “Eh ma non ci puoi far niente se i libri di scuola hanno un ciclo di vita limitato… È vero che la storia e la matematica sono sempre le stesse, ma i programmi vengono aggiornati, e con essi i libri”. Giusto, mi va benissimo. Ma questo conferma la contraddizione cui ho accennato sopra: i libri di scuola sono usa-e-getta, ma vengono fabbricati (e fatti pagare!) come libri per durare.

Una soluzione potrebbe essere imporre “per legge” un tetto di prezzo piuttosto basso per i testi scolastici: ciò obbligherebbe le case editrici a fabbricare i libri in edizione economica; e se si rovinano o si spaginano facilmente non frega niente a nessuno: tanto non serviranno più. Ma si può fare ancora meglio. Io non sono affatto un sostenitore del formato digitale ad ogni costo (la bellezza di un libro cartaceo è quella che è!), tanto più che questo formato, adottato in contesti non opportuni, ha fatto solo disastri. E rischia di farne ancora in futuro.

Tuttavia, se c’è un contesto perfetto per fare esclusivamente uso del formato digitale, quello è proprio l’ambito scolastico: i libri costerebbero molto meno (a occhio direi che costerebbero non più di un terzo, o anche meno) e sarebbe molto più agevole aggiornarli, per la gioia di coloro a cui piace cambiare programmi e libri di testo ogni due per tre. Si potrebbe sostituire quel ridicolo “bonus cultura” (una mancetta che la metà più furba dei giovani aventi diritto ha usato per comprarsi console e videogiochi. L’altra metà non l’ha usato affatto) con un più economico ma più opportuno “bonus tablet” per tutti gli scolari. E si potrebbe cogliere l’occasione per educare questi ad un sano uso della tecnologia e di internet, insegnando loro come si usa quell’affare, magari con un’apposita ora settimanale (al posto dell’ora di religione sarebbe perfetto, ma forse chiedo troppo). E non sarebbe più nemmeno necessario portarsi dietro pesanti zaini, perché si avrebbero tutti i testi scolastici (e anche quelli non scolastici) nel palmo di una mano.

Mi si dirà: “Dalla scuola sei uscito da un bel pezzo, la cosa non ti riguarda più, perché ti prendi la briga di fare tante storie?”. Non so se siete mai stati a piazza Dante a Napoli verso metà settembre, poco prima delle aperture delle scuole. Piazza Dante è il “distretto” della compravendita di testi scolastici nuovi e usati, ci sono un sacco di librerie che praticano questo business. Ci sono stato più di una volta, ed ogni volta ho assistito allo stesso, triste, spettacolo: mandrie di genitori con pile di libri usati in mano, che si recano alle librerie con la speranza di recuperare quel 30% del prezzo di copertina per comprare libri per gli anni successivi. Per la maggior parte di quei libri si sentono dire “questo non va più bene”, “questo è stato cambiato”, “questo non è più aggiornato” e simili. A fine giornata, terminati gli affari, in piazza si trovano, qua e là, pile di libri abbandonate per terra o su qualche muretto. Libri usati per un paio di anni, poi buttati. Destinati alla spazzatura.

Ho sempre condannato quel tipo di comportamento: i libri non si buttano, mai. Ma adesso che mi ritrovo in questa situazione di imbarazzo con i miei vecchi testi, mi rendo conto che quei genitori, tutto sommato, avevano ragione: come ho già detto, quegli oggetti non servono più, né a loro, né a nessun altro. Mi ritrovo a dar loro ragione al punto da essere io stesso ad avere la tentazione di buttare i miei, cosa che reputavo impensabile fino a ieri. Potrei mettere qualche annuncio su internet: “regalo libri”, ma so già che non servirebbe a niente. Oppure potrei andare alla biblioteca comunale, per vedere se lì li vogliono; ma ho il forte sospetto che sarebbe altrettanto inutile. Metterli in un ripostiglio non avrebbe molto senso, anche lì farebbero la stessa cosa che fanno nella mia stanza: occupare spazio e prendere polvere.

Se proprio devo buttarli, forse potrei usarli per compiere un atto di protesta civile, una provocazione. Che ne so… abbandonarli in qualche piazza con un cartello “questi sono i soldi che buttate per mandare i vostri figli a scuola”. Magari non in una piazza qualsiasi, ma davanti al ministero della Pubblica istruzione. È questo che mi fa arrabbiare: al di là del fatto che io, come tutti gli altri, quei libri li ho pagati, al di là dello spreco, al di là dell’ingiustizia… un “sistema” che praticamente ti costringe a buttare i libri, il simbolo dell’istruzione e della cultura, per me è schifosamente sbagliato.

E voglio aggiungere un’ultima cosa. Io non sono uno di quelli che crede alle teorie del complotto, ma è fuori discussione che riguardo questa faccenda gli interessi economici ci sono. Lo spreco è nell’ordine delle centinaia di euro per ogni scolaro; moltiplicatelo per il numero di scolari e avrete una pallida idea del giro di affari che si consuma. Ogni anno, cinque anni per scolaro (sto contando solo le superiori, perché l’uso del tablet prima mi sembra discutibile… Anche se comunque si potrebbero imporre edizioni economiche come dicevo prima). E a farne le spese è sempre lo stesso: il povero genitore che vuole assicurare un futuro ai propri figli. Come al solito, “paga Pantalone”.

Lo scandalo dei libri di scuola nuovi e buttati nei cassonetti. "Colpa degli editori". Laura Mancini su La Repubblica il 13 settembre 2022.

A Lungotevere Oberdan cataste di volumi scaricati in strada da studenti e librai. La denuncia: "Nessuno li vuole perché aggiornano continuamente i testi, anche di autori morti"

Due ragazzi camminano a passo svelto con un borsone sportivo, lo trasportano insieme tanto è pesante, una cinghia per uno. Sono le quattro del pomeriggio, il traffico è ancora clemente, il sole alto, i canottieri remano convinti nel Tevere. I ragazzi si fermano davanti ai secchi della spazzatura, tirano la zip del borsone per aprirlo e ne svuotano a terra il contenuto.

Libri di scuola buttati nei cassonetti: ecco perché.

Gli aggiornamenti spingono le scuole ad adottare nuovi testi con sempre maggiore frequenza. Eppure, in molti casi, si tratta di variazioni irrilevanti e che non giustificano l'invecchiamento dei testi usati in precedenza...di Federico Bianchetti su Skuola.net il 15 Settembre 2022

"Matematica attiva", "Mondi o civiltà", "Tutte le voci del mondo": sono solo alcuni dei manuali gettati davanti ai secchi della spazzatura sul Lungotevere Oberdan, a Roma. 

Un cumulo di libri, appunti e qualsivoglia materiale scolastico ormai in disuso. Le nuove edizioni scacciano quelle degli anni precedenti, e così cataste di libri si accumulano sui marciapiedi della zona dove risiede lo storico mercatino di testi scolastici.

L'inchiesta de “La Repubblica” fa luce su una vicenda che – in questi tempi di incertezza e di aumento dei prezzi – grava sulla spesa delle famiglie italiane. 

”Dopo tre anni di Convitto, ora che sto per iniziare il quarto, i miei libri sono già troppo vecchi", spiega Luca, intervistato da “La Repubblica” mentre getta i testi nel secchio. "Non saprei dove mettere tutti questi testi, pensavo di venderli ma nessuno li vuole, al massimo potrei cercare un altro secchio che non sia già pieno. Ma ho visto che passa il furgone dell'Ama, raccoglierà anche i miei” gli fa eco Matteo. A deciderlo in alcuni casi è il collegio docenti, in altri lo stesso editore. Di conseguenza – come spiegano i due ragazzi – si tratta di manuali fuori mercato e che quindi non vengono acquistati nemmeno dai mercatini dell'usato: destinati a finire in discarica, con la speranza che vengano quantomeno riciclati.

Il continuo aggiornamento dei testi fa sì che alcuni manuali vengano usati a volte per solo un anno scolastico. Un aggiornamento che però sempre più spesso è irrilevante in ottica di apprendimento, con variazioni minime a livello di contenuto e che quindi non giustifica un invecchiamento precoce dei manuali. Un fenomeno che in realtà sembra rispondere alla legge economica dell'obsolescenza programmata: ovvero accorciare la vita naturale di un prodotto, spingendo il consumatore ad acquistare prima del tempo la versione successiva.

Serge Latouche, economista francese del secondo '900, ne parla in una sua celebre opera, dal titolo “Usa e getta: le follie dell'obsolescenza programmata”, ma sono in molti ormai a ritenere che questo fenomeno, derivante dal consumismo, si applichi anche al contesto scolastico. Una trovata geniale da un punto di vista commerciale, ma forse discutibile sotto il profilo etico e soprattutto dannosa per l'ambiente.

Scannerizzare o fotocopiare libri usati potrebbe portare multe e la reclusione. ALBERT VERDESE l'1 settembre 2022 su proiezionidiborsa.it.

Si avvicina a grandi passi il rientro degli studenti presso le scuole e le università di tutta Italia. Gli studenti fuori sede tornano a viaggiare, mentre i genitori dei più piccoli devono pensare al cosiddetto caro libri. Con questa parola ci si riferisce al costo che a settembre le famiglie devono sostenere per acquistare i libri di testo per tutti gli studenti più giovani. Una problematica che cade in un periodo di aumento generale e tendenziale del costo della vita.

Esistono invero dei metodi di successo per acquistare e vendere libri usati. Si tratta di applicazioni e metodi che fanno risparmiare o recuperare alle volte più del 30% delle spese investite. Non male, se si considera un risparmio complessivo di qualche centinaio di euro.

Tra gli studenti universitari vige spesso la pratica delle fotocopie. Specie quando i professori assegnano alcuni capitoli in alcuni testi, mentre il resto non è necessario. Ma è di fondamentale importanza conoscere quali sono i limiti, visto che in alcuni casi potremmo ricadere in illeciti anche gravi. Scannerizzare o fotocopiare libri usati potrebbe portare multe e la reclusione. Così vediamo cosa dice la legge in merito.

Indice dei contenuti

Rilevanza penale del fatto

Scannerizzare o fotocopiare libri usati potrebbe portare multe e la reclusione

Rilevanza penale del fatto

La legge sul diritto d’autore (Legge n.633/1941) tutela la proprietà delle opere di ingegno di carattere creativo. Lo fa in maniera netta, anche se ci sono delle eccezioni previste dalla stessa legge. Fotocopiare libri al di fuori di queste previsioni è un reato. Alcuni potrebbero fraintendere la rilevanza penale del fatto. Infatti la sanzione per il fatto può essere costituita da una multa.

Chi cade in questo fraintendimento potrebbe ingenuamente far coincidere la sanzione economica con una sanzione amministrativa. Ovviamente questo è un errore, visto che la multa può rientrare tra le conseguenze del reato. La multa in questione varia da 51 euro a 2065 euro se le fotocopie sono effettuate senza scopo di lucro.

Ancora maggiori sono le conseguenze per quanti effettuano questo atto per fini di lucro, cioè con la finalità di compravendere l’opera intellettuale. L’acquisto o vendita del libro in quanto tale è lecita. Non però della sua riproduzione. In questo caso potrebbe addirittura scattare la reclusione fino a 3 anni e una multa da 2.582 euro fino a 15.493.

Scannerizzare o fotocopiare libri usati potrebbe portare multe e la reclusione

Esistono però delle importanti eccezioni previsti dalla legge. In primo luogo, vige il limite del 15% consentito. Questo ovviamente è previsto per uso personale, anche se non si intende l’atto cumulativo. Possiamo cioè riprodurre ciascun volume o periodico per uso personale complessivamente entro il 15% del contenuto complessivo. Non potrebbe dunque valere l’espediente di aver effettuato riproduzione del testo in momenti diversi fino a raggiungere una soglia maggiore.

La stessa possibilità vige anche nei confronti di biblioteche accessibili o centri di ricerca, al cui interno, previo pagamento di somma forfettaria alla casa editrice, è possibile procedere con la riproduzione del 15% dei testi.

Oltre alla possibilità di citazione o riassunto di parti del libro (purché con indicazione della fonte) esiste infine la possibilità di riproduzione a mano o con mezzi di riproduzione non idonei alla diffusione.

Lettura consigliata

Fino a 660 euro di multa e sospensione della patente per l’automobilista che viola questa norma del Codice della Strada

Adozione libri di testo nelle scuole, modello di circolare. Da tuttoscuola.com il  20 aprile 2023.

Come devono regolarsi le scuole per l’adozione libri di testo è indicato nelle istruzioni della nota prot. 2581 del 9 aprile 2014 che precisa la determinazione dei prezzi nella scuola primaria e dei tetti di spesa nella scuola secondaria (D.M. n. 781/2013) nel rispetto dei diritti patrimoniali dell’autore e dell’editore, tenendo conto della riduzione dei costi dell’intera dotazione libraria derivanti dal passaggio al digitale e della disponibilità dei supporti tecnologici.

Adozione libri di testo: i tetti di spesa

Ai sensi dell’articolo 3 del decreto del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca del 27 settembre 2013, n. 781, i tetti di spesa sono ridotti del 10 % se nella classe considerata tutti i testi adottati sono stati realizzati nella versione cartacea e digitale accompagnata da contenuti digitali integrativi (modalità mista di tipo b – punto 2 dell’allegato al decreto ministeriale n.781/2013); gli stessi tetti di spesa sono ridotti del 30 % se nella classe considerata tutti i testi adottati sono stati realizzati nella versione digitale accompagnata da contenuti digitali integrativi (modalità digitale di tipo c – punto 2 dell’allegato al decreto ministeriale n. 781/2013). Il collegio dei docenti motiva l’eventuale superamento del tetto di spesa consentito entro il limite massimo del 10%.

Adozione libri di testo: come funzionano

L’adozione dei libri di testo scolastici, è deliberata dal collegio dei docenti, per l’a.s. 2022/2023, entro la seconda decade di maggio per tutti gli ordini e gradi di scuola. Le riunioni degli organi collegiali, come ricorda la circolare, sino al 31 marzo 2022  possono continuare a essere svolte con modalità a distanza (articolo 16, comma 1, del decreto legge 24 dicembre 2021, n. 221 e relativo allegato A, punto 4 che proroga i termini delle previsioni di cui all’articolo 73, comma 2 bis, del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, convertito con modificazioni, dalla legge 24 aprile 2020, n. 27). Ai sensi dell’articolo 15, comma 2, del decreto legge 25 giugno 2008, convertito dalla legge 6 agosto 2008, n. 133 e ss.mm., i collegi dei docenti possono confermare i testi scolastici già in uso, ovvero procedere a nuova adozione libri di testo per le classi prime e quarte della scuola primaria, per le classi prime della scuola secondaria di primo grado, per le classi prime e terze e, per le sole specifiche discipline in esse previste, per le classi quinte della scuola secondaria di secondo grado.

Nelle istituzioni scolastiche in cui sono presenti alunni non vedenti o ipovedenti i dirigenti scolastici devono richiedere tempestivamente ai centri specializzati la riproduzione dei libri di testo relativi alle classi interessate dalla scelta adozionale e alle successive classi di passaggio, nonchè dei materiali didattici protetti dalla legge o l’utilizzazione della comunicazione al pubblico degli stessi. In base all’articolo 1, comma 2, del decreto del Ministero per i beni e le attività culturali del 14 novembre 2007, n. 69, la riproduzione e l’utilizzazione della comunicazione al pubblico si effettuano attraverso la registrazione audio delle opere su qualsiasi tipo di supporto, l’impiego di dispositivi di lettura idonei per gli ipovedenti, la sottotitolazione delle opere e dei materiali protetti visualizzabili e comunque la trasformazione in un formato elettronico accessibile con le tecnologie assistite, secondo quanto previsto dalla legge 9 gennaio 2004, n. 4, recante disposizioni per favorire l’accesso alle persone con disabilità agli strumenti informatici.

Adozione libri di testo: la nota ministeriale

La nota ministeriale ricorda ai dirigenti scolastici di esercitare la necessaria vigilanza affinché l’adozione libri di testo di tutte le discipline sia deliberata nel rispetto dei vincoli normativi, assicurando che le scelte siano espressione della libertà di insegnamento e dell’autonomia professionale dei docenti. Al fine di disporre di un quadro esauriente di informazioni sulla produzione editoriale, la nota invita i dirigenti scolastici a consentire gli incontri tra i docenti e gli operatori editoriali scolastici accreditati dalle case editrici o dall’associazione nazionale agenti rappresentanti promotori editoriali (ANARPE), nel rispetto dei protocolli di sicurezza e delle norme igienico sanitarie appositamente emanate, ferme restando le esigenze di servizio e il regolare svolgimento delle lezioni. A tal fine, per agevolare i predetti incontri, appare utile rendere preventivamente noto ai suddetti operatori le condizioni per l’accesso all’istituzione scolastica. Com’è noto ai sensi della normativa vigente chiunque acceda alle strutture delle istituzioni scolastiche deve possedere ed e’ tenuto a esibire la certificazione verde COVID-19, pertanto tale obbligo grava anche in capo agli operatori editoriali scolastici.

Con riguardo alla scuola primaria, ove ciò sia possibile, la circolare ministeriale consiglia di individuare un locale dove i docenti possano consultare le proposte editoriali; i dirigenti scolastici avranno cura di consentire il ritiro, da parte dei promotori editoriali, delle copie dei testi non adottati entro il prossimo mese di settembre. Nel caso in cui l’evolversi della situazione epidemiologica in alcuni contesti territoriali non consenta la promozione editoriale in presenza, la nota invita le istituzioni scolastiche a far conoscere ai docenti le opportunità di consultazione online delle proposte editoriali, appositamente comunicate dagli operatori editoriali scolastici alle suddette istituzioni.

Infine, il Ministero  rammenta il divieto di commercio dei libri di testo ad opera del personale scolastico (art.157 del d.lgs. 16 aprile 1994, n. 297) La comunicazione dei dati adozionali va effettuata, da parte delle istituzioni scolastiche, on line, tramite l’utilizzo della piattaforma presente sul sito adozioniaie.it o in locale, off line, entro il 7 giugno. Le istituzioni scolastiche che hanno deciso di non adottare libri di testo accedono alla piattaforma specificando che si avvalgono di strumenti alternativi ai libri di testo.  A tal fine, e considerato che molti studenti acquistano i libri di testo prima dell’avvio delle lezioni, la circolare ricorda che non è consentito modificare, ad anno scolastico iniziato, le scelte adozionali deliberate nel mese di maggio.

Per aiutare le scuole, di seguito un modello di circolare adozione libri di testo per la scuola Secondaria di I grado

Ai Sigg. docenti di scuola Secondaria di I grado

Al DSGA

Al personale ATA – profilo professionale Assistente Amministrativo

Al sito web dell’Istituto

OGGETTO: Adempimenti adozione libri di testo a.s. 2022/2023 – Scuola secondaria di primo grado

VISTO l’art. 25 del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165

VISTO il D. Lgs. 16 aprile 1994, n. 297 ed in particolar modo l’art. 7, comma 2, lettera e l’art. 157

VISTO il D.M. del 27 settembre 2013, n. 781

VISTA la Nota MIUR del 9 aprile 2014, prot. n. 2581 che disciplina le istruzioni per l’adozione dei libri di testo

VISTA la Nota MIUR del 30 marzo 2016 prot. n. 3503

VISTA la nota MIUR del del 6 maggio 2017, prot. n.5371

VISTO il D.M del 7 agosto 2014 prot.n. 609

VISTA la Legge 8 novembre 2013, n. 128, (articolo 6)

VISTO il D.M. 13 maggio 2020, n. 2

VISTA la nota del Ministero dell’Istruzione del 28 febbraio 2022, prot. n. 5022 “Adozione dei libri di testo nelle scuole di ogni ordine e grado – anno scolastico 2022/2023”

CONSIDERATA la situazione emergenziale da COVID-19

CONSIDERATO che ai sensi dell’articolo 15, comma 3, del decreto legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito dalla legge 6 agosto 2008, n. 133 e successive modificazioni, con decreto ministeriale di natura non regolamentare sono fissati il prezzo dei libri di testo della scuola primaria e i tetti di

spesa dell’intera dotazione libraria necessaria per ciascun anno della scuola secondaria di primo e secondo grado, nel rispetto dei diritti patrimoniali dell’autore e dell’editore, tenendo conto della riduzione dei costi dell’intera dotazione libraria derivanti dal passaggio al digitale e della disponibilità dei supporti tecnologici

CONSIDERATO che ai sensi dell’articolo 3 del decreto del Ministro dell’istruzione, dell’Università e della Ricerca del 27 settembre 2013, n. 781, i citati tetti di spesa sono ridotti del 10% se nella classe considerata tutti i testi adottati sono stati realizzati nella versione cartacea e digitale accompagnata da contenuti digitali integrativi (modalità mista di tipo b – punto 2 dell’allegato al decreto ministeriale n. 781/2013); gli stessi tetti di spesa sono ridotti del 30 % se nella classe considerata tutti i testi adottati sono stati realizzati nella versione digitale accompagnata da contenuti digitali integrativi (modalità digitale di tipo c – punto 2 dell’allegato al decreto ministeriale n. 781/2013)

CONSIDERATO che eventuali sforamenti degli importi relativi ai tetti di spesa della dotazione libraria obbligatoria delle classi di scuola secondaria di primo grado devono essere contenuti entro il limite massimo del 10 per cento (rientra in tale fattispecie l’adozione di testi per discipline di nuova istituzione), si forniscono, di seguito, le indicazioni circa gli adempimenti connessi all’adozione dei libri di testo per il prossimo anno scolastico.

Il libro di testo rappresenta nell’ambito dell’autonomia delle istituzioni scolastiche, uno strumento che accompagna i percorsi di apprendimento e contribuisce ad assicurare sistematicità e coerenza all’insegnamento tenendo in considerazione il piano dell’Offerta Formativa, i Piani di Studio e le innovazioni derivanti dall’uso delle tecnologie digitali.

In applicazione della citata nota del 12 marzo 2021, prot. n. 5272, le attività connesse alle diverse fasi di lavoro per l’adozione dei libri di testo per l’anno scolastico 2021/22, sono soggette ai “vincoli” stabiliti con C.M. n. 16/2009 e chiariti con D.M. 26/03/2013 n. 209 (per quanto riguarda le classi seconde e terze di scuola Media), nonché alle prescrizioni contenute nel DM 781/13 per quanto riguarda i testi in formato digitale ed i limiti di spesa (relativi alle classi prime di Scuola Media). Le classi che si attiveranno per l’analisi e l’adozione sono le classi terze di Scuola secondaria per le classi prime dell’A.S. 2022/23.

I tetti di spesa vigenti per la Scuola secondaria, in mancanza di aggiornamenti, rimangono rispettivamente a 294,00 euro per la prima classe, 117,00 euro per la classe seconda e 132,00 euro per la terza classe.

Dovendo porre in essere il piano con i vincoli e le prescrizioni sopra esplicitati, anche quest’anno si procederà ad analisi di testi scritti e/o illustrati per le classi prime, verificando che i testi abbiano una versione in formato digitale accompagnato da contenuti digitali integrativi (modalità mista di tipo b – Allegato 1 DM 781/2013). Per i testi di Religione Cattolica occorre verificare che quelli attualmente in uso siano conformi alle nuove disposizioni in merito ed aderenti alle indicazioni di cui al DPR 11 febbraio 2010.

Le operazioni per il corrente anno scolastico si sintetizzano in due adempimenti:

– Conferma di adozione dei testi già in uso per le classi seconde e terze per le quali non si procede a nuova adozione

– Analisi per deliberare l’adozione, in seno al Collegio dei Docenti, dei testi soggetti a nuova scelta per le classi prime.

Per la scuola secondaria una buona adozione è il frutto di un ponderato equilibrio tra la qualità dei libri di testo e il loro costo, con l’applicazione dei limiti di spesa contenuti nelle norme, come sopra esplicitati. I docenti sono tenuti, anche e comunque, a verificare, per quanto possibile, che il peso

dei libri sia contenuto.

Al fine di ottemperare al rispetto dei tetti di spesa, i docenti verificano, con i colleghi della stessa classe, se l’ammontare della spesa complessiva risulta compatibile con il tetto, apportando le opportune modifiche in modo collegiale all’interno del consiglio di classe e sottoponendo alla scrivente le risultanze per la verifica del tetto di spesa. Tali limiti di spesa vanno rispettati per tutte le classi. Va, pertanto, calcolata la spesa anche in proiezione per gli alunni che frequenteranno nei prossimi due anni le classi seconde e le classi terze. 

Deve essere privilegiato, inoltre, il sistema di adozione che proceda nell’adottare un unico testo per tutti gli alunni delle classi dell’Istituto, anche per permettere ad alunni appartenenti a corsi diversi di usufruire di testi di parenti e/o amici. È importante che i testi tengano conto dei programmi di insegnamento, degli obiettivi del P.T.O.F. di Istituto, del complessivo itinerario della progettazione didattica e dei più recenti indirizzi in materia di curricolo della scuola di base. Per consentire il rispetto dei tempi, si invitano sin da ora, i Signori Docenti a discutere, nei Consigli di classe, la proposta di adozione libri di testo per l’anno scolastico 2022-2023. Si sottolinea l’importanza dell’operazione di adozione, fase finale di un processo che vede tutti i docenti impegnati in valutazioni relative alla difficoltà che i diversi testi presentano, ai contenuti proposti e alla metodologia utilizzata, alle attività laboratoriali presentate e, non per ultimo, al prezzo al pubblico.

Al fine di una scelta consapevole, i docenti si doteranno di un quadro chiaro e completo delle proposte editoriali presentate, esaminando le diverse proposte che gli operatori editoriali scolastici vorranno far pervenire seguendo le modalità in allegato che saranno rese note agli stessi tramite

avviso sul sito web di istituto. I docenti, porteranno, al termine del percorso le loro scelte nei consigli di classe presentando ai rappresentanti dei genitori i libri individuati e dunque al Collegio dei docenti, organo deputato a deliberare in merito durante la seduta di maggio 2022.

Si affida ai docenti coordinatori di classe il compito di raccogliere le proposte e formalizzare le relazioni in base alle quali si procederà alle operazioni di competenza del Collegio e di compilare i modelli allegati alla presente.

I testi della scuola secondaria saranno custoditi presso le sedi scolastiche di scuola secondaria e potranno essere consultati nel rispetto delle misure di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da Covid-19. Eventuali richieste di adozione/variazione devono essere segnalate compilando l’apposito modello allegato che dovrà essere inviato, entro e non oltre le ore le ore 13:00 del 06 maggio 2022, tramite e-mail istituzionale, all’indirizzo —-, al personale amministrativo per i successivi adempimenti.

Prima dell’invio e della chiusura delle operazioni, la scheda contenente l’elenco dei libri, scaricata dalla piattaforma AIE, sarà consegnata ai docenti per una verifica finale dei dati.

Gli elenchi dei testi adottati saranno pubblicati sul sito web della scuola nonché sul portale ministeriale “Scuola in chiaro”, suddividendo i libri tra obbligatori e consigliati (questi ultimi senza vincolo di acquisto da parte delle famiglie degli studenti).

Si rammenta, infine, che:

· non è consentito modificare, ad anno scolastico iniziato, le scelte adozionali deliberate;

· è vietato il commercio dei libri di testo ad opera del personale scolastico ai sensi dell’art.157 del d.lgs. 16 aprile 1994 n. 297. In caso di violazione da parte dei destinatari del divieto, che è rivolto “ai docenti, ai direttori didattici, agli ispettori tecnici ed, in genere, a tutti i funzionari preposti ai servizi dell’istruzione elementare”, la richiamata norma minaccia provvedimenti disciplinari.

Si ringrazia per la consueta e fattiva collaborazione. 

Libri di testo, Valditara blocca i tetti di spesa ma i prezzi aumentano «fino al 12 per cento». Anna Rosa Besana e Rossella Gattinoni, docenti di Lettere dell’IISS A. Greppi di Monticello in Brianza (Lecco), su Il Corriere della Sera il 24 aprile 2023.

Le tabelle dei tetti di spesa per le scuole fissate dal Ministero sono bloccate da un decennio, ma i prezzi continuano ad aumentare anche per il costo della carta. Che fare? 

Ogni anno si ripresenta un problema spinoso: come scegliere libri di testo di qualità a basso costo? Perché, in fondo, è questo che il Ministero chiede quando fissa rigidamente dei tetti di spesa all’acquisto dei libri scolastici. Così, quello che potrebbe sembrare un mero adempimento burocratico si trasforma in un arengo, dove si è costretti a mercanteggiare per non sforare le cifre indicate dal Ministero per ogni anno di corsi di studi dalle primarie alle superiori. Ed è proprio questo che spesso accade, soprattutto nelle scuole superiori, quando i Consigli di Classe del mese di maggio si trasformano in piccole arene dove far valere le ragioni di scelte di adozione, rivaleggiando con i colleghi per ottenere l’agognata approvazione e assicurarsi l’anno scolastico a seguire con la «prima scelta». In alternativa, si passa a opzioni meno costose, non del tutto convincenti ma rispettose del paniere di spesa, oppure si cercano altri escamotage come inserire i testi nella casella «consigliati» (quindi senza farli confluire nel conteggio finale), salvo poi rivelare agli studenti, non senza imbarazzo, che quei libri li devono comunque comprare.

E veniamo ad uno dei punti più controversi: i tetti di spesa. Come si evince dalla normativa, è il Ministro in carica che provvede, con decreto di natura non regolamentare, a determinare il prezzo dei libri della primaria e i tetti di spesa della secondaria di I e di II grado nel rispetto dei diritti patrimoniali dell’autore e dell’editore, tenendo conto della riduzione dei costi dell’intera dotazione libraria derivanti dal passaggio al digitale e della disponibilità dei supporti tecnologici. Ragione per cui, in presenza delle estensioni digitali, i costi ammessi vengono ulteriormente ridotti. Il problema vero nasce dal fatto che, da un decennio a questa parte, le tabelle dei tetti di spesa delle scuole superiori non sono state più aggiornate, forse in virtù dell’introduzione del digitale che avrebbe ridotto il costo materiale del testo. Ma è poi vero? Occorre aggiungere due fatti: in primo luogo, è intervenuta la riforma degli ordinamenti che, con l’introduzione di nuove materie, ha di fatto reso necessari anche nuovi libri di testo; a ciò si è aggiunto il cambiamento delle prove del Nuovo Esame di Stato, che, conseguentemente, ha comportato l’adeguamento dei testi. In questo lasso di tempo, nessun ministro ha fatto la scelta impopolare di variare i tetti di spesa; ma i costi dei manuali non sono rimasti gli stessi in tutti questi anni (secondo quanto denunciato qualche giorno fa dal Sindacato italiano librai, l’aumento medio dei libri di testo di quest’anno si aggirerebbe attorno all’8 per cento, con punte fino al 12 per cento. Ma l’Associazione italiana editori ha precisato che nel 2023, a fronte di un’inflazione programmata ad oggi fissata al 5,4%, i prezzi dei testi scolastici sono cresciuti mediamente del 3,2%. Proprio per affrontare queste criticità è stato avviato un tavolo di lavoro al Ministero dell’Istruzione e del Merito, ndr) . Non si può dimenticare che il costo della carta, a seguito dell’aumento delle materie prime, è lievitato paurosamente negli ultimi anni: stampare libri è diventato, oggettivamente, più oneroso. È vero, d’altra parte, che le case editrici continuano a fornire profusamente ai docenti testi cartacei, a volte nemmeno richiesti. Forse, si potrebbe risparmiare offrendo in consultazione le versioni digitali.

È d’altra parte inopportuno scegliere un libro in base al prezzo: una scuola di qualità esige anche strumenti di qualità e il testo, cartaceo o digitale che sia, è strumento d’elezione per la didattica. Pensiamo allo studio della letteratura che, ormai da decenni, ha messo al centro dell’insegnamento il lavoro sul testo: qui è fondamentale un manuale che sia al passo con le più recenti acquisizioni critiche. Perché la scelta deve essere fatta sulla base del costo? Qualcuno potrà obiettare che esiste la possibilità da parte dei docenti di realizzare i libri di testo da usare in classe. Davvero si pensa che sia così facile confezionare un testo scolastico? Il rischio poi è quello di ridurre i contenuti a compendi semplificatori, privi di lessico specifico e complessità di argomentazione. Ricordiamoci che in Italia la scuola pubblica è di tutti e per tutti. Proprio per questo la frequenza scolastica costa poco: le tasse hanno cifre modeste, attorno ai 15 euro, a cui si aggiungono i contributi volontari, a volte contestati dalle famiglie e sempre nell’ordine di circa 150 euro per le superiori, contro gli oltre 7000 euro di costo a studente di scuola superiore per lo Stato. E con quei pochi euro si forniscono servizi di qualità: laboratori, account di posta elettronica, fotocopie, computer e, in alcuni casi libri di testo in comodato d’uso.

E veniamo proprio a quest’ultimo punto: quali strumenti ulteriori offre lo Stato per venire incontro alle famiglie indigenti, per le quali, effettivamente, l’acquisto del materiale scolastico (dunque anche dei libri di testo) costituisce un onere difficilmente sostenibile? A tal fine risponde il bonus scuola, riservato alle famiglie che ne necessitano proprio per l’acquisto del materiale scolastico. Lo scorso anno, con decreto del 15 maggio 2022, sono stati erogati 133 milioni di euro direttamente alle Regioni proprio per la fornitura gratuita dei libri di testo (ma anche programmi e sistemi operativi per alunni con disturbi dell’apprendimento e disabilità) per le famiglie meno abbienti che hanno figli che frequentano sia le scuole dell’obbligo sia le secondarie di II grado. E qui, ad una rapida scorsa dei dati, appare sconcertante notare il gap tra Regioni e il reale bisogno di incentivi alle famiglie. Pertanto, viste le polemiche sui costi dei libri di testo, pare doveroso ricordare che esiste una normativa a sostegno del diritto allo studio.

In estrema sintesi, se da un lato il Ministero dell’Istruzione e del Merito sostiene materialmente le famiglie che faticano a far fronte ai costi del materiale didattico, dall’altro lo stesso Ministero mostra una certa resistenza a riaggiornare le tabelle sulla base dell’aumentato costo della vita. Perciò, se le lamentele riguardano un generale mal di pancia quando si deve mettere mano al portafoglio per soldi spesi in cultura e libri, allora, forse, sarebbe opportuno ricondurre il ragionamento al senso che un paese vuole attribuire alla scuola e all’istruzione in generale, magari con l’obiettivo ambizioso di cambiare, un poco, la mentalità di chi continua a non ritenere un buon investimento quello fatto per scuola e cultura.

Alla scoperta dell’educazione parentale: intervista a un’attivista. Roberto Demaio su L'Indipendente  giovedì 7 settembre 2023.

L’istruzione è un obbligo, certo, ma esistono diversi tipi d’apprendimento riconosciuti dalla Costituzione e tra questi vi è l’educazione gestita direttamente dalle famiglie, che si distingue principalmente in tre categorie: unschooling, homeschooling e scuola parentale. La differenza sta nel fatto che, mentre le prime due si basano sull’istruzione a domicilio, la scuola parentale prevede un luogo fisico e un progetto educativo riconosciuto e condiviso da un comitato di genitori. Ma c’è un denominatore comune: l’istruzione dei ragazzi avviene al di fuori delle strutture istituzionali e nella piena responsabilità delle famiglie. Famiglie e genitori che, accompagnate dai loro figli e dai tutor, parteciperanno alla decima edizione dell’Incontro Nazionale S-COOL che si terrà al Camping Village La Badiaccia a Castiglione del Lago (PG) l’8, 9 e 10 settembre. Verrà festeggiato “il non ritorno a scuola” e saranno condivise esperienze, progetti e obiettivi comuni. L’evento è “aperto a tutti coloro che hanno a cuore l’educazione dei propri figli”: sia per famiglie che prediligono l’istruzione parentale, sia per chi vuole esplorare nuovi metodi d’apprendimento per bambini e ragazzi. Tuttavia, non sono poche le critiche che vengono mosse a questo genere di educazione, prima tra tutte quella che riguarda il sovrapporsi del ruolo di insegnante e genitore e quello di privare i giovani del contesto di socializzazione che verrebbe invece garantito a scuola. Per saperne di più, scoprire i motivi dell’iniziativa e le ragioni di chi sceglie di affidarsi all’homeschooling, L’Indipendente ha contattato Erika Di Martino, attivista sociale che mira a rivoluzionare il ruolo della famiglia nell’educazione, Portavoce e coordinatrice di S-COOL e co-fondatrice del network EDUpar.it.

Che cos’è esattamente S-COOL?

S-COOL è l’Incontro Nazionale annuale sull’Educazione Parentale. È un weekend di festa che permette di venire a contatto con la realtà dell’homeschooling e gli altri tipi di istruzione parentale. È un evento rivolto a tutti e dedicato al festeggiamento dell’anno non accademico classico. Celebriamo la libertà d’istruzione e ci diamo supporto e ispirazione tra famiglie. Quest’anno la località sarà un campeggio sul lago Trasimeno immerso nella natura, dove i bambini potranno giocare prendendo il sole e respirando aria pulita e i genitori potranno godersi un momento di relax condividendo le loro conquiste e sfide mentre si creano progetti per il nuovo anno.

Quali sono le differenze tra homeschooling, unschooling e scuola parentale? E che cosa c’è in comune con il sistema scolastico tradizionale?

Sia gli homeschoolers che gli unschoolers vengono educati fuori da un sistema scolastico o simil-scolastico: invece di seguire il programma classico, rispettano le Indicazioni Nazionali per il Curricolo del MIUR e mirano ad aumentare le competenze degli studenti e a colmare eventuali lacune, che sono diverse per ciascuno. Si può dire che gli unschoolers abbiano un approccio ancora più naturale: il bambino è completamente al centro del processo di apprendimento che prosegue in base ai suoi interessi e stimolando la sua curiosità. Naturalmente, esistono tante sfumature di homeschooling e unschooling quante sono le famiglie che lo praticano, dato che ognuno ha un tipo di apprendimento diverso e dinamiche differenti in casa. La scuola parentale invece, oltre a prevedere un progetto prestabilito, delega l’istruzione ad un gruppo di tutor/educatori. In questo caso le dinamiche sono molto simili alla scuola, dato che la routine porta i ragazzi ad avere orari prestabiliti e materie standardizzate. Tutte e tre le categorie, proprio come il sistema tradizionale, prevedono esami di idoneità annuali su linee guida MIUR ed esami di stato per la licenza media e superiore.

Qual è il vantaggio dell’istruzione parentale?

Il vantaggio principale è la possibilità di creare un progetto personalizzato: non dobbiamo attenerci ad una programmazione statica che non tiene conto delle caratteristiche degli studenti, dobbiamo solo rispettare le Indicazioni Nazionali del MIUR che parlano di competenze. L’obbligo di seguire un programma spesso costringe i professori a passare da un argomento all’altro velocemente e non viene ritagliato abbastanza spazio per gli studenti con delle particolari lacune, o altri che possono essere più svelti a terminare il lavoro richiesto. La scuola è un sistema d’istruzione standardizzato che spesso non trova il tempo da dedicare a chi non rientra nella media. In questo modo fioccano le diagnosi di “disturbi dell’apprendimento” o “plusdotazione”, che suonano come delle etichette. Secondo me “DSA” è un termine sbagliatissimo: un disturbo è un martello pneumatico nelle orecchie, non un bambino che elabora le informazioni in modo diverso rispetto agli altri. Il rischio, quindi, è che il sistema tradizionale, al posto che colmare le lacune tenda ad allargarle. Non è una lotta tra “istruzione parentale e genitori contro scuola tradizionale e professori”, ma si tratta di riconoscere che l’educazione tradizionale è un metodo che purtroppo non può sostenere tutti quanti. Talvolta accade che siano proprio i professori a consigliare ai genitori di istruire privatamente i propri ragazzi.

Come vengono gestiti e incentivati i rapporti sociali? Come viene insegnato ai ragazzi a vivere in una società? Esiste il rischio che si isolino dal mondo arroccandosi in casa?

Per prima cosa, vogliamo davvero il tipo di società che viene trasmessa in una classe oggi? È quello il tipo di società migliore che possiamo offrire? Vedendo le classi come una società, significherebbe dividere le persone per età e non in base agli interessi comuni, inserirle in ambienti poco accoglienti e ritmati da squilli di campanelle e ansia da prestazione per interrogazioni. Si può essere circondati da persone ma sentirsi comunque soli e, tra l’altro, le statistiche su bullismo e suicidi non sono affatto promettenti. È questa la sfida centrale da affrontare quando si intraprende la strada dell’educazione parentale: l’intera responsabilità ricade sul genitore, che deve occuparsi dell’intero atto sociale in quanto è tanto importante quanto quello accademico, se non di più. L’evento S-COOL è un punto di partenza anche in questo senso: è un incontro che invita i genitori ad organizzare altri eventi locali e che mira ad unire i ragazzi. Ci sono tantissime reti sociali e network come EDUpar.it adibite a questo scopo. La parte difficile è che, vivendo in una società che predilige l’individualismo, non ci sono stati dati aiuti e si è sempre in corsa contro il tempo. L’homeschooling è rivoluzionario anche per questo, perché mette in discussione anche la routine e il modo in cui le persone si organizzano e trascorrono il tempo insieme.

Come funziona l’immissione nel mondo universitario e del lavoro? Esistono pregiudizi sull’educazione parentale?

Non c’è alcuna differenza sostanziale rispetto a chi ha ricevuto l’educazione tradizionale. Esistono linee guida istituzionali che regolano l’istruzione parentale e gli studenti possono accedere al mondo del lavoro o dell’Università come tutti gli altri. Le uniche differenze sono a livello burocratico. Purtroppo, non posso dire lo stesso per i pregiudizi: da attivista e consulente sono stata a contatto con moltissime famiglie e nel 50% dei casi il personale scolastico ha avuto atteggiamenti ostili all’alunno che si è presentato a fare l’esame. Il fattore umano influisce eccome e mi auguro che in futuro ci sia più rispetto e conoscenza verso questa forma di istruzione garantita dalla Costituzione, che non ha nulla da invidiare alla scuola.

Ma come fanno i genitori a trovare tempo per lavorare e gestire l’educazione dei figli?

Chiaramente, è difficile per un genitore che deve lavorare fuori casa dalle 9 del mattino alle 6 di sera dedicarsi completamente all’istruzione parentale. L’homeschooling è una scelta di vita e sia io che mio marito ci siamo reinventati lavorativamente più volte per garantire questo percorso ai nostri cinque figli. Bisogna investire nei giovani per il bene della società tutta. Noi, così come tante altre famiglie, lo stiamo facendo in prima persona.

[di Roberto Demaio]

Intervista al Professor Carmine Di Martino. La genialità pedagogica di Don Giussani, l’educazione come introduzione alla realtà totale. Al Meeting di Rimini si tiene un incontro su “La genialità pedagogica di don Giussani”. Il titolo riprende un’espressione di Papa Francesco nel discorso all’udienza concessa al Movimento di Comunione e Liberazione il 15 ottobre 2022. Filippo Campiotti su Il Riformista il 22 Agosto 2023 

Oggi al Meeting di Rimini si tiene un incontro su “La genialità pedagogica di don Giussani”. Il titolo riprende un’espressione di Papa Francesco nel discorso all’udienza concessa al Movimento di Comunione e Liberazione il 15 ottobre 2022. Ne parliamo con Carmine Di Martino, Professore ordinario di Filosofia morale all’Università di Milano, tra i relatori dell’incontro e curatore di tre volumi dedicati al pensiero teologico, filosofico e pedagogico-sociale di Giussani, in occasione del centenario della nascita.

Professore, qual è la caratteristica della proposta pedagogica di don Giussani, che porta il Papa ad usare l’espressione che dà il titolo all’incontro?

«Se parliamo di educazione alla fede, anzitutto il suo punto di partenza, cioè la vivida intuizione del Fatto cristiano come realtà presente qui e ora, che cambia la vita dell’uomo. Alla radice della pedagogia giussaniana alla fede vi è la concezione del cristianesimo come avvenimento. Un avvenimento accaduto duemila anni fa – Dio si è fatto carne nel ventre di una ragazza di nome Maria –, che permane nella storia proprio come avvenimento che accade e ci sorprende oggi, là dove viviamo, e ha il volto della compagnia che da Cristo è nata ed è arrivata sino a noi: la Chiesa, Suo corpo, modalità della sua presenza oggi, fatta di persone in carne e ossa, guidata dal Vescovo di Roma. Si incontra pertanto il Fatto cristiano imbattendosi in persone che quell’incontro hanno già compiuto e la cui vita da esso, in qualche modo, è già stata “perturbata”, resa più umana, offrendosi carica di attrattiva e di promessa a chi ne viene in contatto. È questa riproposizione chiara e decisa del nucleo essenziale del cristianesimo che diventa in Giussani metodo di evocazione e di educaazione alla fede, genialità e arte dei passi».

Potrebbe farci capire meglio il nesso fra le due cose?

«Se si rimane fedeli ai connotati originali dell’annuncio, il cammino degli apostoli con Gesù (l’incontro con lui, lo stupore per la sua presenza, il seguirlo, il sentirlo parlare, l’assistere ai miracoli, il crescere nella certezza in lui, la loro domanda su chi egli veramente sia, nonostante sapessero tutto quello che si poteva sapere di lui, la domanda che egli rivolge loro: «E voi chi dite che io sia?»…) non è solo un’esperienza del passato, ma un’esperienza possibile nel presente. A partire dall’incontro con il volto che Cristo assume ora nella Chiesa, nella comunità cristiana, nella carne di testimoni credibili. Se i dati originali dell’annuncio non sono rispettati, invece, tutto diventa metaforico o interioristico: l’incontro, lo stupore, il seguire… e la pedagogia alla fede non può adeguatamente svilupparsi, facilmente riducendosi, per esempio, in senso dottrinaristico o moralistico, oppure ai modelli socio-pedagogici e psicologici in voga».

Perché la sua proposta ha avuto una così forte presa sui giovani?

«Perché è la proposta di una fede ragionevole, che c’entra con la vita e la rende più vita. Non basta dire: «Dio si è incarnato» o «Dio si è fatto uomo». Occorre comunicare e far percepire l’esistenzialità dell’annuncio, vale a dire che ciò che si è fatto uomo, presenza nella storia, è il significato, la bellezza, il compimento della vita. E questo è possibile in quanto l’avvenimento, l’incontro che muove alla adesione di fede si rivela corrispondente come nient’altro alle esigenze ed evidenze originali dell’uomo e al tempo stesso si dimostra capace di gettare una luce chiarificatrice sulle circostanze, le situazioni, i problemi di cui è fatta l’esistenza personale e sociale. Ma questa non è solo una affermazione, è una esperienza da fare, una verifica da compiere. Un termine chiave della pedagogia giussaniana è «verifica»: occorre impegnarsi, diceva Giussani, a verificare esistenzialmente la verità dell’annuncio cristiano, attraverso il tentativo di affrontare i problemi e le urgenze dell’esistenza alla luce dell’avvenimento di Cristo, per sorprenderne la pertinenza, la capacità di risposta. La parola «verifica» non rientrava nel lessico pedagogico tradizionale cattolico e nemmeno non cattolico: Giussani la introduce come l’unica strada di una adesione personale ragionevolmente fondata alla proposta cristiana come a ogni altra proposta. Il suo pensiero pedagogico è dedicato infatti anche alla dinamica educativa in generale».

Può accennare gli aspetti salienti?

«Giussani ha una radicale consapevolezza della decisività dell’educazione. Essa è la chiave dell’umanizzazione della vita, il problema capitale per il presente e l’avvenire di una società, il cardine di una civiltà. Educare, nel senso generale, significa per lui «introdurre» un individuo «alla realtà totale», ossia promuovere tanto lo sviluppo integrale di tutte le sue strutture quanto l’affermazione di tutte le possibilità di connessione attiva di quelle strutture con la realtà. In vista di ciò occorre anzitutto la comunicazione di un’ipotesi esplicativa della realtà, senza cui il bambino e poi il giovane non possono entrare in rapporto con essa. In secondo luogo è necessario l’incontro con qualcuno in cui quell’ipotesi venga persuasivamente mostrata nelle sue ragioni, nella sua capacità di corrispondere ai desideri e alle evidenze umane costitutive e di rendere affrontabile la problematica cui la vita espone. È la figura dell’«autorità», della «presenza autorevole»: solo seguendola si sviluppa la propria originale fisionomia. Bisogna però, terzo fattore, che l’ipotesi sia verificata dal giovane, affinché possa essere criticamente personalizzata oppure abbandonata. Si annuncia nella sua drammaticità il quarto fattore: il “rischio educativo”, che mette alla prova l’educatore, poiché la verifica implica il rispetto della libertà di chi la compie. Ma, se si vuole educare, occorre amare la libertà dell’altro fin nel rischio».

Filippo Campiotti

Studere, studere. Dalle lezioni nei boschi all’educazione collaborativa, l’Italia registra un aumento di scuole alternative. Silvia Calvi su L'Inkiesta l'8 Luglio 2023

L’articolo trenta della Costituzione sancisce il diritto dei genitori di istruire i propri figli in autonomia. E, complice il Covid-19, nel nostro Paese diminuiscono le iscrizioni alle forme di apprendimento tradizionali, preferendo metodi innovativi e più esperienziali

«È dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli […] Nei casi di incapacità dei genitori, la legge provvede a che siano assolti i loro compiti». Recita così l’articolo trenta della Costituzione che, di fatto, sancisce l’obbligo all’istruzione ma anche il diritto di mamma e papà a potersene occupare in totale autonomia, scegliendo di gestirla in famiglia, a volte con l’aiuto di tutor (in questo caso si chiama “istruzione parentale”) oppure all’interno di organizzazioni esterne ma con un approccio educativo differente da quello della scuola tradizionale.

Quelle, per esempio, ispirate a principi della Waldpadagogikc, la pedagogia esperienziale o costruttivista, come le “scuole nel bosco” nate in Danimarca negli anni Cinquanta e basate sull’apprendimento attraverso l’esplorazione all’aria aperta (ce ne sono anche sul fiume e sugli alberi) oggi presenti un po’ in tutta Italia. Oppure quelle che si rifanno alle teorie di pedagogisti come Marcello Bernardi e Gianni Milano, tra gli ispiratori delle “scuole libertarie o democratiche”, senza campanella o lezioni frontali e dove è sancita la libertà dei bambini di riunirsi in assemblea per decidere cosa e quando imparare.

Tante possibilità differenti, insomma, che il progetto “Tutta un’altra scuola” promosso da Terra Nuova Edizioni ha cercato di mappare arrivando a contare duecentotrentaquattro scuole alternative: nel cinquanta per cento dei casi Montessoriane, il restante cinquanta per cento diviso tra steineriane, parentali e libertarie. Percorsi di studio che si ispirano a linee guida scientifiche diverse accomunate però – per riassumere – da un insegnamento non convenzionale, più creativo, esperienziale, basato sulla collaborazione tra i pari e molto più rispettoso dei differenti tempi di apprendimento, possibilità che oggi vengono prese in considerazione da un numero sempre maggiore di genitori, a partire dall’home schooling.

Secondo gli ultimi dati ministeriali acquisiti dall’Adnkronos, in Italia sono triplicati gli homeschooler, passando da un totale di cinquemilacentoventisei registrati per l’anno accademico 2018-2019 a ben quindicimilatrecentosessantuno nel 2020-2021. E, anche se per il 2022-2023 mancano ancora dati ufficiali, gli addetti ai lavori parlano di un fenomeno in crescita, in Italia come all’estero, dove queste forme alternative di istruzione esistono da più tempo. Sessantamila bambini in Canada, settantamila in Inghilterra e due milioni negli Stati Uniti (vale a dire un bambino su cinque) invece di frequentare la scuola vengono istruiti in casa, da genitori o tutor. Ed è stata proprio la pandemia a far lievitare il numero di bambini che studiano a casa, istruiti dai genitori, da insegnanti privati o da comunità di educatori più larghe.

Nella maggior parte dei casi, nel nostro Paese l’istruzione alternativa è scelta soprattutto per la scuola materna e la primaria. Oltre diecimila dei quindicimila studenti italiani impegnati in percorsi di istruzione parentale nell’anno scolastico 2020-2021 erano bambini della scuola elementare, circa quattromilatrecento ragazzini della scuola media e solo la restante parte (poco più di novecentoquaranta alunni) ragazzi delle scuole superiori. Ma perché non inserire i figli in un percorso scolastico tradizionale, che sarebbe in fondo più semplice? Per offrire esperienze più stimolanti, creative e che prevedano molte ore all’aria aperta.

A sceglierlo sono sia i giovani genitori, sia i genitori “di ritorno”, quindi nuovamente padri e madri dopo una separazione. «Il nostro progetto si rivolge ai bambini dai tre ai sei anni ed è ispirato alla “Pedagogia della lumaca” di Gianfranco Zavalloni» spiega Elisa Valsecchi, fondatrice con Paola Ravasio e Daniele Vanoli nel 2019 dell’associazione “La Lumaca ribelle” che a Carvico, in provincia di Bergamo, ha aperto la scuola dell’infanzia “Casa della lumaca”. «L’obiettivo è quello di rimettere al centro i bisogni dei bambini che, spesso, per molte ragioni diverse, nella scuola tradizionale non hanno spazio. Ma non è un servizio “contro”, bensì in dialogo con gli insegnanti del territorio, ai quali proponiamo corsi sull’outdoor education, per fare rete, valorizzare i possibili punti in comune e trovarne di nuovi. Pedagogia della lumaca, in pratica, vuol dire educazione lenta, lontanissima dalla “performance” e basata sulle esperienze: dall’osservazione delle foglie e degli insetti alla falegnameria, dalla cucina alla coltivazione dell’orto, dal cucito fino alle letture, in aula o nella biblioteca comunale». Il tutto con un rapporto bambini-educatori (al momento gli iscritti sono sedici) decisamente ideale, di uno a dieci.

Niente voti e interrogazioni, invece, per i bambini delle elementari e delle medie che frequentano la scuola dell’associazione “A tutto cielo” (Cascina santa Brera, San Giuliano milanese, Milano). Una scuola nella natura, tra campi, asini e orto, che accoglie studenti dai tre ai tredici anni. E dove le giornate cominciano sempre all’aperto, tutti insieme attorno al fuoco, per un momento di condivisione e ascolto di storie e pensieri. Poi, via, ciascuno con la propria classe.

«“A tutto cielo”, dove lavoro ormai da dieci anni, non è una scuola “alternativa” ma, semplicemente, un luogo che offre ai bambini la possibilità di fare e imparare le cose in un altro modo» spiega Giacomo Caneschi, insegnante ed educatore di Cascina Santa Brera. Matematica, lingua inglese (potenziata perché, con un’insegnante e una lettrice madrelingua, qui i bambini la praticano per sette/otto ore la settimana), scienze e storia, non manca nessuna materia.

«Lavoriamo seguendo le indicazioni ministeriali anche perché, alla fine dell’anno, i bambini devono sostenere un esame che certifichi le competenze acquisite e la possibilità di accedere alla classe successiva. Poi però rispettiamo i tempi e il bisogno che hanno i bambini di esplorare sé stessi, le proprie emozioni, il mondo e se stessi nel mondo. Quindi offriamo continue occasioni di apprendimento esperienziale, situazioni-stimolo e di cooperazione tra pari, anche perché le nostre classi sono piccole, con dieci studenti al massimo ciascuna» continua Caneschi.

Iscrivere i figli in scuole di questo tipo, naturalmente, non è una scelta come un’altra. Richiede la collaborazione dei genitori. Sul piano della partecipazione (oltre che del sostegno economico) ma soprattutto della coerenza educativa. Dall’alimentazione agli orari fino all’uso di telefonini e computer. «I nostri bambini vengono introdotti gradualmente al digitale a partire dalla V elementare-I media. Ma, in generale, continuiamo a utilizzare moltissimo carta, dizionari, enciclopedie: sarebbe un problema se, a casa, non ci fosse lo stesso tipo di attenzione. In genere, però, chi viene da noi condivide già la nostra filosofia educativa» dice Caneschi.

Certo, passare da esperienze di questo tipo a una scuola superiore tradizionale poi non deve essere facile. «Ma ogni cambiamento comporta crisi e qualche difficoltà. L’importante è saperle affrontare grazie alla conoscenza di sé maturata fino a quel momento» aggiunge l’insegnante.

Cosa dice la legge

L’articolo trentatré della Costituzione italiana stabilisce che: «L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento. La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi». Operando la distinzione fra scuola e istruzione, dunque, questo articolo viene interpretato nel senso di una più generale obbligatorietà dell’istruzione e non del tipo di scuola, e una conseguente legittimità delle scuole parentali. Per legge, infine, la famiglia è tenuta esclusivamente all’obbligo di avvisare il sindaco e il dirigente scolastico della scuola di appartenenza di voler educare i figli in casa.

La riforma Gentile? Fu una salvezza. Quella scuola creò una vera classe dirigente che guidò i successi del Paese nel dopoguerra. Francesco Perfetti il 14 Novembre 2023 su Il Giornale.

Giovanni Gentile era al culmine della carriera accademica quando venne chiamato a far parte del primo governo Mussolini come ministro della Pubblica istruzione. Mussolini non lo conosceva e il suo nome gli fu suggerito da un vecchio amico di battaglie politiche, il sindacalista Agostino Lanzillo. Prima di accettare il filosofo chiese e ottenne la garanzia che non avrebbe dovuto modificare le proprie idee sull'esame di stato obbligatorio e aggiunse che non avrebbe potuto far parte di un «governo dittatorio». A quell'epoca, a 47 anni compiuti, Gentile era nel pieno della sua maturità di studioso, aveva scritto opere importanti, collaborava con Benedetto Croce sia a La Critica sia in altre attività editoriali e aveva già delineato i caratteri del suo «attualismo».

Da sempre si era interessato di pedagogia e di questioni inerenti l'educazione. Era, quindi, la persona giusta per il posto giusto. La scuola, l'insegnamento, la formazione degli insegnanti e la creazione di una classe dirigente erano tutti temi all'ordine del giorno. All'indomani dell'unificazione, nel 1861, era stata estesa all'intero territorio nazionale la Legge Casati, che cercava di organizzare in modo organico l'ordinamento scolastico. Peraltro, nel corso dei decenni successivi, le questioni della scuola erano state discusse e studiate per giungere a una legislazione che tenesse presenti le trasformazioni e le esigenze di uno Stato ormai cresciuto.

Gentile, appena nominato ministro, si mise subito al lavoro con una squadra di personalità, molte delle quali provenienti dall'ambiente crociano e salveminiano, tutte di grande qualità: da Ernesto Codignola a Giuseppe Lombardo Radice, da Leonardo Severi a Giorgio Pasquali e via dicendo. Grazie ai poteri che la Camera aveva concesso a Mussolini, egli poté lavorare attraverso l'emanazione di una serie di decreti-legge che, nel loro complesso, disegnarono e realizzarono una riforma organica complessiva passata alla storia, appunto, come «riforma Gentile».

I provvedimenti adottati si tradussero, insomma, in una vera e propria costruzione normativa che, avendo come presupposto l'innalzamento dell'obbligo scolastico fino al quattordicesimo anno di età, partiva dalla scuola elementare e giungeva fino all'università. Essi prevedevano l'istituzione di asili per bimbi dai tre ai sei anni e una scuola elementare in gran parte affidata all'impegno e alla libertà didattica dell'insegnante, cui seguivano diverse possibilità di percorsi pedagogici in certo senso collegati ai ruoli che i giovani, divenuti adulti, avrebbero svolto nella società. Si poteva scegliere tra una scuola «complementare» triennale per l'avviamento al lavoro ovvero un istituto tecnico quadriennale, o ancora l'istituto magistrale o, infine, il ginnasio seguito dal liceo classico che consentiva l'accesso a tutte le facoltà universitarie e che era considerato da Gentile «il vivaio principale delle classi superiori della nazione». Erano anche previsti un liceo scientifico quadriennale che dava accesso soltanto ad alcune facoltà scientifiche e un liceo femminile.

Certo, la riforma Gentile, a ben vedere, aveva un connotato fortemente elitario e selettivo fondato sul merito. Essa privilegiava le discipline umanistiche, dava spazio all'insegnamento della religione considerata come forma primigenia di filosofia e assegnava grande importanza agli esami di maturità. L'università doveva essere la meta cui sarebbero dovuti giungere i migliori studenti destinati a dirigere lo Stato e a occuparsi degli studi e di ricerca scientifica. I criteri e i fini della riforma furono illustrati da Gentile in una intervista al Corriere Italiano del 17 gennaio 1924. In quella occasione egli disse che si era proposto di «restituire a ciascuna scuola il suo fine ben determinato e a tutte la libertà e la serietà della vita spirituale». Sintetizzò così le caratteristiche dei principali istituti previsti dalla riforma: «il liceo-ginnasio, istituto di preparazione all'alta cultura, ha carattere storico-umanistico; accanto ad esso il liceo-scientifico sarà una scuola con una intonazione più realistica, ma non perciò meno formativa. Natura diversa hanno le due sezioni degli istituti tecnici: il loro carattere pratico sarà meglio determinato con la partecipazione dei tecnici professionisti alle commissioni d'esame che abiliteranno all'esercizio dell'agrimensura e della ragioneria. L'istituto magistrale ha natura sua propria, che esce ben determinata dalla formulazione dei programmi delle singole materie: istituto non artificiosamente e meccanicamente professionale, ma formativo anch'esso, a base umanistica, e sottratto alla vieta formalistica del pedagogismo. In esso coloro che vi entrano troveranno un ambiente adatto per poter sviluppare liberamente la propria attitudine e la vocazione alla cura dell'infanzia». Nella stessa intervista Gentile disse che alle università era stata data «autonomia amministrativa e didattica» e precisò: «se di esse gli istituti sapranno fare buon uso, avremo un rinnovamento della scienza e della tecnica italiana. La concorrenza degli istituti che sorgeranno accanto alle università statali, non potrà non elevare il tono di queste».

Molti elogiarono la riforma e tra questi vi fu Giuseppe Prezzolini che le riconobbe una certa autonoma «virtù liberale» indipendentemente dall'avvento del fascismo. Ma naturalmente non pochi non soltanto tra gli antifascisti come Piero Gobetti o Augusto Monti la criticarono. Gentile, tuttavia, la difese sempre con grande energia dagli attacchi concentrici intensificatisi dopo aver lasciato il ministero. Il 5 febbraio 1925, per esempio, in occasione del dibattito sul bilancio della Pubblica istruzione, ribadì in Senato il concetto che si trattava di una riforma organica dalla scuola elementare all'università, risultato di studi fatti o promossi dai suoi predecessori: una riforma, insomma tutt'altro che eversiva o rivoluzionaria ma che si risolveva in un ordinamento che egli non esitò a definire «liberale» con il pensiero rivolto a quel liberalismo della Destra storica centrato sullo Stato etico teorizzato da Bertrando Spaventa che egli avrebbe poi difeso in una celebre e amichevole polemica con Mario Missiroli.

Sul «liberalismo» della riforma Gentile molto si è scritto, a proposito o a sproposito, per contestarlo, spesso con gli occhi offuscati dalla ideologia. Vale la pena di rammentare che Gentile, quando fu chiamato a guidare il ministero della Pubblica istruzione, era proprio un liberale che rivendicava l'eredità della visione del Risorgimento propria della Destra storica: non a caso, quando decise di aderire formalmente al fascismo, lo fece ribadendo, in una lettera a Mussolini, di essere «liberale per profonda e salda convinzione» e precisando di essersi deciso a quel passo perché convintosi che il liberalismo com'egli lo intendeva e «come lo intendevano gli uomini della gloriosa Destra, che guidò l'Italia del Risorgimento, il liberalismo della libertà nella legge e perciò nello Stato forte e nello Stato concepito come realtà etica» non era più rappresentato da coloro che si definivano liberali ma da quanti si stringevano attorno a lui.

Non è privo di significato ricordare che il primo grande tentativo di stravolgere la riforma Gentile nel suo complesso, a parte certi «ritocchi» tentati o realizzati nel corso degli anni, venne quando il fascismo era ormai proiettato verso la fase «totalitaria» della storia del regime, con la Carta della scuola redatta da Giuseppe Bottai con lo scopo di rendere sempre più pervasiva la presenza del fascismo nell'educazione dei giovani. La Carta della scuola, peraltro, fu destinata a rimanere inattuata per lo scoppio della guerra. Così la riforma Gentile restò in vigore, pur con taluni ritocchi, nel dopoguerra, almeno fino all'inizio degli anni Sessanta quando venne introdotta la scuola media unificata con l'abbandono della scuola di avviamento professionale e quando ebbe inizio una lunga stagione di interventi legislativi in campo scolastico ed educativo.

Che la riforma Gentile abbia funzionato, contribuendo a formare lavoratori e dirigenti professionalmente preparati ed educati al senso del dovere e al senso dello Stato, è fuor di dubbio, come dimostrano il livello culturale della classe politica dell'immediato dopoguerra e i successi del Paese. Poi tutto cambiò: il Sessantotto e la contestazione studentesca, indipendentemente dalle motivazioni originarie, finirono per scardinare l'intero sistema aprendo la strada verso il precipizio. La scuola, a tutti i livelli, dalle elementari all'Università, ha perduto poco alla volta la propria fisionomia e la propria vocazione educativa. È giusto pertanto, e doveroso, ricordare a cento anni di distanza la realizzazione di una buona, ottima riforma, la riforma Gentile.

Crapa Pelata, ecco il libro sul fascismo per formare baby-partigiani. Alberto Busacca su Libero Quotidiano il 10 novembre 2023

C'era una volta un uomo calvo e vestito di nero. Quest’uomo si chiamava Crapa Pelata ed era il capo indiscusso del Regno di Belpaese. Eccola qui la trama di Crapa Pelata e la Banda dei mille colori, un libro scritto da Daniele Susini (storico e scrittore) e Fulvia Alidori (scrittrice ed ex membro del Comitato nazionale dell’Anpi). Si tratta, come spiegato sulla copertina, di “una favola che racconta la lotta al fascismo”, ed è dedicata ai bambini “dai sette anni in su”. Per iniziare a spiegare anche ai più piccoli chi era Benito Mussolini, cosa ha fatto e chi lo ha combattuto.

Il libro, ovviamente, è breve, con tante illustrazioni e scritto in maniera molto semplice. “A Belpaese”, si legge, “viveva Crapa Pelata, un tipo misterioso con un pessimo carattere: non sopportava nessuno e molti dicevano che avesse il cuore di legno. Era scorbutico, voleva sempre avere ragione e, quando qualcuno lo contraddiceva, metteva la testa tra le mani, diventava rosso come un peperone e cominciava a gridare e a battere i piedi perla rabbia”. Ovviamente, visto il suo caratterino, “Crapa Pelata non aveva amici”.

Era “sempre vestito di nero” e “trascorreva le sue giornate litigando con chiunque incontrasse”. Nonostante ciò, il signor Pelata riuscì a diventare leader assoluto di Belpaese, e impose dieci rigidissime leggi: 1- ogni abitante deve vestire solo di nero.

2- le case devono essere dipinte tutte di nero.

3- si può parlare solo quando vuole Crapa Pelata.

4- solo Crapa Pelata può dare il permesso di uscire dalla propria città.

5- gli abitanti devono essere come Crapa Pelata.

6 - quando il sole cala, tutti devono andare a dormire.

7 - si possono leggere solo i libri “giusti”, cioè quelli con la copertina nera.

8 - sono vietate le lingue straniere.

9 - le donne curano la casa e i bambini, gli uomini lavorano.

10 - Crapa Pelata ha sempre ragione.

A queste dieci, poi, se ne aggiunse una undicesima: “il popolo della stella deve stare separato dagli abitanti di Belpaese”. Leggi razziali, insomma... Per farla breve, a un certo punto un bambino trovò un baule pieno di fazzoletti colorati e cominciò a indossarli, imitato dai suoi amici: “1, 10, 100, 1000 bambini indossarono i fazzoletti, e in un battibaleno nacque la Banda dei mille colori che, come tutte le bande, si scelse una missione: convincere gli abitanti di Belpaese a ricominciare a parlare, a giocare, a vestirsi coi colori, insomma... a ricominciare a essere liberi”.

Questi baby partigiani “si trovavano in montagna e si sentivano come fratelli e sorelle”. Alla fine, come previsto, la Banda dei mille colori riesce a mettere in fuga Crapa Pelata e a liberare il Regno di Belpaese... Solo una favola? No, assolutamente. E in fondo al libro è scritto in maniera chiara: “Quella di Belpaese è una storia vera. Belpaese e Crapa Pelata sono esistiti davvero: il regno era l’Italia, mentre lui era un signore che portava il nome di Benito Mussolini e fu un dittatore”.

Viene da chiedersi, a questo punto, se ha senso raccontare in questo modo la storia del fascismo a dei bambini di sette anni. Se ha senso mischiare in questo modo favola e realtà. Se è possibile diventare antifascisti in seconda elementare. Senza contare il rischio che questa operazione si riveli un boomerang. Sì, perché Crapa Pelata, con quella testa tonda e lucida, con quelle sopracciglia aggrottate e quel ghigno beffardo, sembra un po’ il cugino cattivo di Charlie Brown. E qualcuno potrebbe perfino trovarlo simpatico... 

Estratto dell’articolo di Gianna Fregonara per il “Corriere della Sera” giovedì 19 ottobre 2023
[...] il concorso per dirigenti scolastici che si svolgerà nel giro di qualche mese prevede espressamente all’articolo 10 della bozza del bando inviata ai sindacati che, «considerate le percentuali di rappresentatività di genere in ciascuna regione, viene garantito l’equilibrio di genere applicando nelle regioni Abruzzo, Calabria, Campania, Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Lazio, Liguria, Lombardia, Marche, Piemonte, Puglia, Sicilia, Toscana, Umbria e Veneto, in cui il differenziale tra i generi è superiore al 30 per cento, il titolo di preferenza in favore del genere maschile in quanto meno rappresentato».
Tradotto dal burocratese, in tutta Italia tranne che in Sardegna, dove la percentuale è 61 a 39 per le donne, e in Valle d’Aosta e Molise, dove non ci sono posti disponibili per questa tornata di assunzioni, in caso di parità in graduatoria, sarà data priorità al candidato rispetto alla sua collega.
È l’effetto del decreto del giugno scorso che introduce le norme per il riequilibrio di genere nella pubblica amministrazione: se negli altri settori ci sono le quota rosa o, come si legge nelle nuove norme, un criterio di discriminazione positiva per evitare o compensare «svantaggi nelle carriere al genere meno rappresentato», a scuola le quote diventano blu.

Che gli insegnanti in Italia siano per la maggioranza donne è una realtà che affonda le sue radici addirittura nel XIX secolo, subito dopo l’unità d’Italia: oggi la percentuale è ancora in leggero aumento, poiché è passata negli ultimi dieci anni dall’80 all’83 per cento. Alle elementari le maestre sono il 95 per cento. Ma per quanto riguarda i presidi per lungo tempo, fino agli anni 2000, c’erano due uomini ogni tre posti. Sono stati gli ultimi concorsi — tre anni fa sono stati messi a bando quasi tremila posti su ottomila scuole — a far pendere il piatto della bilancia verso le donne. Questa volta in palio ci sono 587 posti.
[...]Visto il numero di posti e lo scorrimento delle graduatorie che costituisce la coda di ogni concorso, i casi in cui le quote rischiano di escludere una candidata a favore del suo collega saranno molto pochi. Ma il principio è sancito e sarà ribadito anche nel prossimo concorso per gli insegnanti il cui bando è in arrivo.

Maturità, l'esame compie 100 anni: tutti i cambiamenti nel corso di un secolo. Era il 1923 quando il ministro Giovanni Gentile introdusse l'esame di maturità. Come è cambiato in un secolo? Chiara Nava il 22 Giugno 2023 su Notizie.it

Nel 1923 il ministro Giovanni Gentile decise di introdurre l’esame di maturità per tutti gli studenti dei licei italiani. Sono passati 100 anni e l’esame è ancora presente. Scopriamo come è cambiato nel corso del tempo.

Maturità, l’esame compie 100 anni: come è cambiato in un secolo

Nel 1923 il ministro Giovanni Gentile ha introdotto l’esame di maturità per tutti gli studenti dei licei italiani. Quest’anno l’esame compie ben 100 anni, con tanti cambiamenti nel corso di questo secolo. Nel 1923 Giovanni Gentile ha pensato ad una formula rigida per mettere alla prova gli studenti, ovvero quattro prove scritte e una prova orale per coprire il programma degli ultimi tre anni, con una commissione composta da membri esterni, spesso docenti universitari. Nel 1937 l’esame ha subito la prima trasformazione, basandosi solo sul programma dell’ultimo anno. L’allora ministro dell’Istruzione, Giuseppe Bottai, ha modificato anche la commissione, che è diventata interna ad eccezione del presidente e vicepresidente. Durante la guerra è stato poi ridotto ad uno scrutinio di fine anno. Nel 1951 il ministro Guido Gonella ha ripristinato la maturità di Gentile, con quattro prove scritte e una orale, con una commissione formata da interni ed esterni e un esame basato sul programma dei due anni precedenti.

Nel 1969 il ministro Fiorentino Sullo ha cambiato l’esame, che è diventato il più longevo, con una durata di circa 30 anni. L’impianto prevede una commissione prevalentemente esterna, con la presenza di un solo membro interno, e gli studenti sono stati messi alla prova con due prove scritte e due materie all’esame orale. Inoltre, è stato introdotto il sistema in sessantesimi e per avere il diploma era necessario raggiungere almeno 36/60. Nel 1999 il ministro Luigi Berlinguer ha introdotto alcune novità, come il credito scolastico, ovvero il fatto che il voto finale è determinato dalla media scolastica degli ultimi tre anni. Ha introdotto quattro tipologie di tracce nella prova di italiano, ovvero analisi del testo, saggio breve, tema di ordine generale e tema storico, introducendo anche la terza prova, composta da domande sui programmi di tutte le materie. L’esame orale riguardava le materie dell’ultimo anno e la tesina multidisciplinare, davanti ad una commissione mista, con tre membri interni e tre esterni. Per la prima volta la valutazione è passata in centesimi.

Tra il 2000 e il 2006 sono arrivati altri cambiamenti. Il ministro Letizia Moratti ha cambiato le commissioni, lasciando solo il presidente come membro esterno, il numero dei crediti attribuibili e ha introdotto la lode e il “giudizio di ammissione”. Nel 2017 la ministra Valeria Fedeli ha cancellato la terza prova e la tesina all’orale. Il valore del credito scolastico è passato dai 25 ai 40 punti e sono cambiati i criteri di ammissione. Per accedere all’esame era necessario avere la sufficienza in tutte le materie. Diventano requisiti di ammissione anche l’ex alternanza scuola lavoro e il superamento delle prove Invalsi. Gli scritti erano due. Nella prima prova il saggio breve ha lasciato il posto ad un saggio argomentativi mentre le tracce del tema di attualità e di analisi del testo sono state sdoppiate. La seconda prova è diventata multidisciplinare e affrontava due materie di indirizzo.

Il Covid ha ulteriormente modificato l’esame che, durante l’emergenza sanitaria, ha visto le prove scritte sostituite da un maxi orale per ben due anni, giudicato da una commissione di membri interni, tranne il presidente. Il resto del voto è stato dato dai crediti scolastici. Quest’anno l’esame festeggia 100 anni con un ritorno alla normalità.

Maturità 2023, prima prova: «Poche tracce attuali. E che provocazione la lettera all’ex Ministro». Comincia l’esame di Stato che torna alla formula pre-Covid. «La traccia di storia? Un modo con cui il Governo cerca di ripulire dalle ambiguità termini come “patria" e “nazione”». Il commento dello scrittore Marco Balzano, che è anche docente di lettere. Chiara Sgreccia su L'Espresso il 21 Giugno 2023

Alle 8.30 è arrivata la chiave che ha aperto il plico telematico della prima prova scritta, quella di italiano, dell’esame di maturità 2023. Che così ha preso il via, coinvolgendo 536 mila studenti della generazione 2004/2005, 14mila commissioni, 27.895 classi. Quest'anno l'esame torna al modello pre-covid, con due scritti - 3 in alcuni casi - e un orale, in quasi tutta Italia. Fanno eccezione solo i Comuni colpiti dall’alluvione dove un’ordinanza del ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, ha annullato gli scritti e prevede il sostenimento di un’unica prova orale.

«Per me le uniche tracce realmente piantate nel presente sono quelle su "Intervista con la Storia” di Oriana Fallaci, l’articolo di Marco Belpoliti “L’elogio dell’attesa nell’era di Whatsapp” e il brano tratto da “Dieci cose che ho imparato”di Piero Angela. Le altre sono tracce che affrontano temi e proposte che a scuola non si fanno. Alberto Moravia non è mai uscito alla maturità. La poesia di Salvatore Quasimodo non è solo tra le meno conosciute ma neppure tra le più riuscite. La traccia su “L’idea di nazione” di Federico Chabod, è quella più politicizzata di tutti. Mi sembra un modo con cui il Governo cerca di ripulire da tutte le ambiguità termini come “patria" e “nazione” basandosi sul testo di uno storico che prende come dei riferimenti ottocenteschi, Giuseppe Mazzini in primis. È una traccia che butta addosso agli studenti tematiche per cui la scuola non li prepara».

Cosi Marco Balzano, scrittore, poeta e italianista ma anche insegnante di lettere in un liceo di Milano, commenta la prima prova scritta dell’esame di maturità 2023.

Per il sindacato studentesco Rete degli studenti medi, che anche questa mattina ha protestato davanti alle scuole dal Lazio per sottolineare gli effetti dell’esame di Stato sulla salute mentale, la scelta del brano tratto dal romanzo di esordio di Alberto Moravia, “Gli indifferenti” è un segnale di incoerenza da parte del Governo e del Ministro: «Perché hanno fatto di tutto per sminuire la partecipazione degli studenti alle decisioni che riguardano gli ambienti scolastici che noi viviamo tutti i giorni. Anche la lettera all’ex ministro dell’istruzione ci sembra una provocazione», commenta il sindacato studentesco. È stata scritta nel 2021 dal mondo accademico e culturale italiano per evidenziare come l’esame di maturità dovesse essere una verifica seria e impegnativa, una porta di ingresso per l’età adulta anche da affrontare con un po’ di ansia al fine di uscire con soddisfazione: un invito a reintrodurre la prova scritta in presenza.

Per Balzano hanno ragione gli studenti: «Non mi è piaciuto che si sia tirato in ballo l’ex ministro dell’Istruzione in una lettera che si rivolge alle intenzioni, non a fatti reali: sull’idea di togliere lo scritto che non è mai stato tolto. In un periodo particolare come quello della pandemia. Oltretutto scritta da un gruppo di intellettuali, neanche da studenti. E nonostante io sia d’accordo con il mantenere le prove scritte durante l’esame di Stato, trovo contestabile che la serietà della scuola, con tutti i problemi che ha, si manifesti solo attraverso il tentativo di mantenere attuale il vecchio impianto. Per cambiare la scuola partirei da tavoli di confronto in cui anche gli studenti abbiano la possibilità di descrivere l’ambiente che vogliono e vorrebbero costruire».

«Ho trovato la traccia di Piero Angela molto interessante, radicata nell’oggi. Ma complessa. Credo che saranno in grado di affrontala al meglio solo quegli studenti che hanno avuto la fortuna di discutere in classe di temi simili magari con più di un docente. Altrimenti è difficile avere una visione d’insieme su argomenti così ampi. Probabilmente se fosse toccato a me fare l’esame di Stato quest’anno l’avrei scelta. O il brano tratto da “Dieci cose che ho imparato”, oppure la traccia su Oriana Fallaci: utili per fare una riflessione sul mondo che cambia, i diversi scenari. Il fatto che siamo in evoluzione constante per natura, sia a livello individuale, sia sociale e politico. Per questo parlare di concetti stabili come l’identità è poco rappresentativo», conclude lo scrittore. 

No, le tracce non erano «di destra» (e questa non è la prima maturità sovranista). Storia di Aldo Cazzullo su Corriere della Sera il 21 Giugno 2023 

I temi della maturità — non si dice più tema, ma noi così siamo abituati — non sono poi così male. Non è vero che sia la prima maturità sovranista. O comunque non dobbiamo confondere con Fratelli d’Italia, o riaprire la discussione su quanto ci fosse di conformismo di regime negli Indifferenti di Moravia. La citazione di Chabod, anzi, rende giustizia a Giuseppe Mazzini, frettolosamente indicato anche da esponenti politici e culturali dell’attuale maggioranza come padre della triade «Dio, patria e famiglia». Mazzini era certo un patriota, ma includerlo nel campo conservatore è una forzatura e non perché ci sia qualcosa di male nell’essere conservatore, anzi al contrario, perché quel campo è già così nutrito che non occorre costringervi spiriti che sentivano diversamente. E in ogni caso l’idea di nazione, nel pensiero di Chabod, non può essere separata dalla libertà e dall’umanità; e questo la rende incompatibile con i totalitarismi. Gli studenti hanno già abbastanza pressioni; non carichiamoli anche di quelle politiche. Tanto la traccia sulla storia non la fa mai nessuno, e quasi tutti avranno scelto il tema — pure quello niente male — sull’ attesa al tempo di whatsapp.

L'immaturità della sinistra sugli scritti della maturità. Andrea Soglio Panorama 21 Giugno 2023 Fallaci, idea di Nazione ed altro. La sinistra attacca il governo sulle tracce del tema mostrando tutte le tensioni di questo periodo

L’esame di maturità, de sempre, crea stati di tensione decisamente sopra le righe. Che capiti agli studenti, presentatisi stamane sui banchi armati del vocabolario, è assolutamente normale. Che lo facciano i politici, di sinistra, è quantomeno paradossale. Dalle 8.30, infatti quando sono stati diffusi i testi della prima prova scritta è partito, immediato il tam-tam, indignato, poi deciso, infine accusatorio nei confronti del Ministro dell’Istruzione e del Governo: «le tracce sono di destra». Come hanno osato infatti presentare come scrittrice quella pericolosa «fascista» di Oriana Fallaci?. Come hanno potuto riproporre il pericolosissimo e di mussolina memoria concetto di «idea di Nazione»? Come hanno potuto mettere un chiaro attacco politico all’ex Ministro Bianchi con la lettera aperta con cui il mondo accademico e culturale invitava l’allora titolare del dicastero a reintrodurre nel 2021 dopo lo stop per la pandemia le prove scritte alla maturità? Come hanno potuto? Un dramma doppio dato che la sinistra da sempre fa della supremazia culturale il proprio cavallo (zoppo) di battaglia. E così, vedere infangato proprio il luogo sacro dello studio, nel sacro giorno della prima prova della maturità è blasfemo… Così, per evitare ulteriori reazioni scomposte e pericolose consigliamo al Ministro Valditara le tracce per il prossimo anno: Da Ghandi a Fabio Fazio, il candidato racconti l’evoluzione storica della resistenza passiva e pacifista nel mondo. Gli sviluppi commerciali, economici e sociali del nuovo lavoro che sta spopolando nel mondo: l’armocromista. Storia della Pravda, simbolo massimo di trasparenza giornalistica. La carne sintetica è il futuro. Il candidati spieghi pregi ambientali e nutrizionali spiegando che solo la salamella della Festa dell’Unità sia superiore in tutto questo. Ci perdonino l’ironia, che speriamo sia stata colta da subito. Quello che resta è lo stupore per tanta rabbia scomposta, e per discorsi senza davvero ne capo, ne coda. Ai ragazzi facciamo un enorme “in bocca al lupo”. Alla sinistra, a chi oggi si è indignato non ci resta che dire che hanno dato, oggi l’ennesima dimostrazione di immaturità.

Don Milani, la lezione che non passa: un impegno duro e faticoso ma tenace e costante. Giorgio Merlo su Il Riformista il 27 maggio 2023

Ci sono persone che non possono essere dimenticate perché attraverso e grazie al loro “magistero” sono riuscite non solo a condizionare il loro tempo ma, soprattutto, a lasciare un segno indelebile per le future generazioni. Tra queste persone c’è indubbiamente don Lorenzo Milani, l’indimenticabile prete di Barbiana. E lo ricordiamo proprio quest’anno, a cento anni dalla sua nascita, avvenuta il 27 maggio del 1923.

Quando si parla di don Lorenzo il pensiero corre velocemente ad alcuni momenti, o parole, o libri che hanno caratterizzato la vita terrena di questo straordinario ed irripetibile sacerdote che ha avuto una vita troppo breve anche se carica di significati e di messaggi che conservano ancora oggi una marcata attualità e modernità.

Una vita che è stata riscattata e restituita a tutti, come era necessario, proprio da Papa Francesco nel suo pellegrinaggio a Barbiana nel 2017. Una visita importante e decisiva dopo le sofferenze patite da don Lorenzo durante la sua breve vita per le continue incomprensioni con la gerarchia ecclesiastica del tempo e con quasi tutti i “potenti”. Eppure don Lorenzo aveva solo una grande missione: come dice Rosy Bindi, Presidente del Comitato Nazionale per il Centenario della nascita di don Milani, “comprende presto che per servire i poveri deve rompere il muro di ignoranza che li emargina dalla vita civile e religiosa”. E quindi un impegno duro e faticoso, ma tenace e costante, per capire l’importanza della parola, sia quella della Chiesa con la Bibbia e il Vangelo e sia quella più laica dei contratti di lavoro e delle dinamiche della società di quel tempo. Perché la differenza tra i ricchi e i poveri era, per don Lorenzo, anche riconducibile alla conoscenza e all’uso delle parole.

Un messaggio, il suo, che non può essere ritmato e ridotto a quelle parole e a quei concetti che sono giustamente diventati storici perché restano contemporanei e tagliano orizzontalmente le generazioni. “Dall’obbedienza non è più una virtù” all’altrettanto celebre e famoso “non bocciare”; “dall’I care” contrapposto al “me ne frego” di marca fascista al famoso “ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne insieme è la politica, sortirne da soli è l’avarizia”. Ed è proprio in quel “mi importa” che si racchiude la sua concezione e la sua stessa “mission” nella società. Dalla formazione dei giovani e delle persone alla conoscenza dei problemi della società in cui si è inseriti alla difesa dei poveri e degli ultimi. Una scelta politica e culturale, quindi, dettata da una profonda convinzione religiosa ed etica.

Certo, don Lorenzo sapeva chi doveva difendere. E difendeva quelle persone, quei ceti sociali, quegli uomini, quei giovani e quelle donne attraverso il diritto di sciopero, denunciando il lavoro minorile e quello a cottimo. E, al contempo, diceva parole forti e senza appello sulla guerra, la non violenza e la pace con la difesa, soprattutto, dell’ormai famosa “obiezione di coscienza” al servizio militante che gli costò anche un processo per “apologia di reato”.

Elementi, comunque sia, che ci riportano anche e soprattutto alla sua tenace difesa dei valori costituzionali e alla permanente attualità di quella Carta. Don Lorenzo muore a soli 44 anni il 26 giugno del 1967 – dopo lunghe sofferenze anche a causa del suo sostanziale “esilio” – pochi giorni dopo la pubblicazione di “Lettere a una professoressa” che resta, forse, uno dei suoi capolavori e che riassume emblematicamente il suo servizio ai poveri, agli ultimi e a tutti coloro che erano senza voce.

Sono trascorsi 56 anni dalla sua morte ma il magistero, la voce e l’esempio di don Lorenzo Milani continuano ad interrogarci.

Su più fonti e su più versanti. E la presenza del Capo dello Stato sabato 27 maggio a Barbiana con il Presidente della Conferenza Episcopale Italiana sono anche la conferma, e una grande opportunità, per riascoltare il prezioso e fecondo messaggio di don Lorenzo Milani.

Nasceva 100 anni fa. Don Milani diede il via al ‘68, punto di riferimento per i giovani e la sinistra. Piero Sansonetti su L'Unità il 27 Maggio 2023

Il Sessantotto è stato un fenomeno internazionale. È partito dagli Stati Uniti e ha travolto l’Europa intera, non solo l’Europa occidentale. In Italia però il Sessantotto ha avuto una vita tutta sua. E a differenza del Sessantotto francese, e quello tedesco, e quello americano – che sono stati i più importanti – non è durato solo qualche mese ma almeno un decennio. Il Sessantotto è stato il più importante fenomeno di ribellione di una generazione ai modelli di società che le erano imposti. E fu una ribellione che provocò cambiamenti giganteschi, nei rapporti civili, nell’economia, nella vita quotidiana, nelle relazioni tra femmine e maschi e in quelle tra genitori e figli, nei pensieri e nei comportamenti dentro le Chiese, e poi nelle leggi, nella lotta tra le classi, nei rapporti di lavoro, nel fordismo, negli equilibri di forza tra borghesia e classe operaia. Io dico che in Italia questo grande sommovimento muove i primi passi proprio dalla scuola di Barbiana. Cioè da don Milani e dalle sue analisi fortissimamente lucide sul tema delle ingiustizie sociali.

Naturalmente negli anni successivi il movimento prese strade diverse. In una sua parte larghissimamente maggioritaria fu egemonizzato e guidato dal marxismo, in alcune fasi e in alcuni settori anche dal marxismo dogmatico e stalinista. Ma il punto di partenza fu la denuncia di don Milani. Il quale toccò tre questioni essenziali: la scuola, il militarismo (e cioè la rappresentazione più schematica e rozza del potere) e la disuguaglianza sociale. Il libro Lettera a una professoressa, che è del 1967, fu una cannonata che abbatté le prime barriere del conformismo. Metteva in discussione quello che mai nessuno aveva messo in discussione: la struttura dell’insegnamento e la relazione strettissima che esiste tra insegnamento e questione di classe. Questo non era un punto di forza del marxismo. Era un’idea che toccava due questioni fondamentali. La prima era l’insofferenza degli studenti nati dopo la fine della guerra per una scuola autoritaria e burocratica. La seconda era il superamento dell’angolo buio che c’è nella teoria della lotta di classe, dovuto all’economicismo della sinistra capace di partire, nelle sue battaglie, solo dai problemi del lavoro.

Don Milani fa un passo indietro, e apre a una visione molto più moderna del conflitto: la ricerca dell’uguaglianza e della lotta alle disuguaglianze a partire dall’infanzia, dalla formazione e dalla trasmissione della cultura e del sapere. Davvero fu una rivoluzione. Una rivoluzione che a guardarla ora fa anche paura. Milani prese il concetto di merito e lo fece a pezzetti. Non era contrario al merito, Milani, per partito preso, ma solo perché aveva chiarissimo il concetto secondo il quale il merito non esiste, è solo un punto di arrivo di un sistema di privilegi.

Vedete, oggi l’operazione culturale che sta compiendo la destra è lo smantellamento di quel pensiero. La reintroduzione di idee antichissime e in netto contrasto con lo sviluppo di una società che punta all’equità. La reintroduzione del merito, della selezione, del premio, del valore della diseguaglianza.

Non dovete credere che la sinistra si appoggiò a Milani e alla sua rivoluzione. No, no: la guardò di sghimbescio, con aria infastidita. Perché faceva saltare i suoi schemi, le sue radici, le sue sicurezze. Don Milani tutto era fuorché un marxista. E probabilmente non avrebbe approvato nulla del decennio del Sessantotto (che non poté vivere, perché morì prima che cominciasse); è il Sessantotto che non sarebbe potuto iniziare senza don Milani. O magari sarebbe iniziato comunque, ma si sarebbe ridotto ai termini di una vecchia battaglia politica. Sarebbe finito subito. Non sarebbe riuscito a conquistare quelle larghissime masse cattoliche che ne furono parte integrante. Non avrebbe stravolto la storia d’Italia. Capisco che può sembrare che io dica una cosa sciocca. Però penso che personaggi molto importanti in quegli anni, come Mario Capanna, Adriano Sofri, Franco Russo, Scalzone, Piperno, Negri, ebbero un gran peso in quel movimento. Ma il vero iniziatore fu quel sacerdote scontroso e geniale che lavorava in una scuoletta sull’Appennino. Piero Sansonetti

La scuola per il meglio. Per favore, rileggete la lettera alla professoressa di Don Milani. Irene Manzi su L'Unità il 27 Maggio 2023

Ricordare don Milani, nel senso etimologico di riportarlo al cuore, non è un dovere ma un piacere e una necessità. La sua visione educativa e pedagogica, sviluppata con una prassi che diventa teoria e con una scrittura che applica l’intelligenza collettiva, ci richiama al senso profondo della funzione della scuola, dell’insegnamento, dell’incontro tra le generazioni per un passaggio di sapere e non di sole funzioni o nozioni. La cura per ogni singolo ragazzo, per i suoi bisogni e per le sue difficoltà, non un luogo del giudicare e del valutare ma dove tendere una mano per far fiorire da ciascuno il meglio che può portare alla comunità.

La cura delle parole che sono potere, come più volte da lui ricordato, ci porta a riflettere oggi sul senso della parola merito. Dare a ciascuno secondo il suo bisogno, perché “nulla è più sbagliato che far parti uguali tra diseguali” e permettere ad ogni talento di emergere nella sua differenza, nella sua specificità. Senza standard da raggiungere. Senza un elenco di buoni e di cattivi. Il contrario della declinazione di merito portato, inutilmente e dannosamente, a bandiera nel nome di un ministero che, proprio in linea con don Milani, potrebbe chiamarsi delle Politiche Educative.

Quali strategie possiamo mettere in capo oggi, in questo tempo, per colmare una povertà, culturale ed educativa oltre che materiale? E come superare il legame ancora scandalosamente antidemocratico tra ricchezza e opportunità, tra origini familiari e possibilità per il proprio futuro, tra condizioni economiche e disponibilità culturali ed educative? Rileggere la “Lettera ad una professoressa” oggi significa prendere coscienza della strada che dobbiamo ancora percorrere nella direzione del sapere, della funzione democratica della conoscenza. E per questo la nostra scuola è, al di là del meritorio impegno di molti, un luogo che non ha il riconoscimento sociale ed economico che merita per essere realmente la leva della lotta alla disuguaglianza. Lo è stata, certo, in alcuni casi, ma in maniera troppo disuguale rispetto alle diverse aree del Paese, troppo dipendente dalle singole volontà e non da un sentire comune che metta la Scuola, come la Salute, ai primi posti per investimenti economici e politici.

Nonostante i tentativi di riforma, nonostante i risultati di tanti esempi riusciti di autonomia e di comunità educanti.

Don Milani è per noi, come Partito Democratico, un riferimento insostituibile. Un pungolo per alimentare la nostra idea di emancipazione attraverso la conoscenza e di cultura diffusa come strumento di potere dei molti, condizione della democrazia. Il suo prendersi cura, I Care, “mi interesso” contrario al “me ne frego” e la sua demolizione del concetto di obbedienza come virtù, a cui contrapporre la responsabilità di ognuno e di ciascuno, sono pilastri di un pensiero radicalmente democratico a cui vogliamo aspirare.

Il suo metodo inclusivo e creativo di educatore e di scrittore e il suo calore, la sua passione e il suo entusiasmo ci sono da sprone – in un momento di crisi profonda della democrazia – per provare a rilanciarla proprio dal pilastro fondamentale ed incompiuto del diritto alla conoscenza, del sapere come strumento indispensabile di tutte e di tutti. Irene Manzi, Responsabile scuola del Partito Democratico

Lettera di Don Milani ai cappellani militari: “Virtù non è dire ‘Patria’, virtù è disobbedire”. Don Lorenzo Milani su L'Unità il 27 Maggio 2023

L’11 febbraio 1965 un gruppo di cappellani militari toscani in congedo votò in assemblea un documento nel quale dichiaravano, tra l’altro, di considerare “Un insulto alla Patria e ai suoi Caduti la cosiddetta “obiezione di coscienza” che, estranea al comandamento cristiano dell’amore, è espressione di viltà”. A quel documento, pubblicato sul quotidiano La Nazione, don Lorenzo Milani rispose con una lunga lettera della quale pubblichiamo qui ampi stralci.

Da tempo avrei voluto invitare uno di voi a parlare ai miei ragazzi della vostra vita. Una vita che i ragazzi e io non capiamo. Avremmo però voluto fare uno sforzo per capire e soprattutto domandarvi come avete affrontato alcuni problemi pratici della vita militare.

Non ho fatto in tempo a organizzare questo incontro tra voi e la mia scuola. Io l’avrei voluto privato, ma ora che avete rotto il silenzio voi, e su un giornale, non posso fare a meno di farvi quelle stesse domande pubblicamente.

Per favore, rileggete la lettera alla professoressa di Don Milani

PRIMO, perché avete insultato dei cittadini che noi e molti altri ammiriamo. E nessuno, ch’io sappia, vi aveva chiamati in causa. A meno di pensare che il solo esempio di quella loro eroica coerenza cristiana bruci dentro di voi una qualche vostra incertezza interiore.

SECONDO perché avete usato, con estrema leggerezza e senza chiarirne la portata, vocaboli che sono più grandi di voi. (…) Paroloni sentimentali o volgari insulti agli obiettori o a me non sono argomenti. Se avete argomenti sarò ben lieto di darvene atto e di ricredermi se nella fretta di scrivere mi fossero sfuggite cose non giuste.

Non discuterò qui l’idea di Patria in sé. Non mi piacciono queste divisioni. Se voi però avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri.

E se voi avete il diritto, senza essere richiamati dalla Curia, di insegnare che italiani e stranieri possono lecitamente anzi eroicamente squartarsi a vicenda, allora io reclamo il diritto di dire che anche i poveri possono e debbono combattere i ricchi. E almeno nella scelta dei mezzi sono migliore di voi: le armi che voi approvate sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, far orfani e vedove. Le uniche armi che approvo io sono nobili e incruente: lo sciopero e il voto.

Abbiamo dunque idee molto diverse. Posso rispettare le vostre se le giustificherete alla luce del Vangelo o della Costituzione. Ma rispettate anche voi le idee degli altri. Soprattutto se son uomini che per le loro idee pagano di persona.

Certo ammetterete che la parola Patria è stata usata male molte volte. Spesso essa non è che una scusa per credersi dispensati dal pensare, dallo studiare la storia, dallo scegliere, quando occorra, tra la Patria e valori ben più alti di lei. Non voglio in questa lettera riferirmi al Vangelo.

È troppo facile dimostrare che Gesù era contrario alla violenza e che per sé non accettò nemmeno la legittima difesa.

Mi riferirò piuttosto alla Costituzione. Articolo 11 «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli…». Articolo 52 «La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino». Misuriamo con questo metro le guerre cui è stato chiamato il popolo italiano in un secolo di storia. Se vedremo che la storia del nostro esercito è tutta intessuta di offese alle Patrie degli altri dovrete chiarirci se in quei casi i soldati dovevano obbedire o obiettare quel che dettava la loro coscienza. E poi dovrete spiegarci chi difese più la Patria e l’onore della Patria: quelli che obiettarono o quelli che obbedendo resero odiosa la nostra Patria a tutto il mondo civile? Basta coi discorsi altisonanti e generici.

Scendete nel pratico. Diteci esattamente cosa avete insegnato ai soldati. L’obbedienza a ogni costo? E se l’ordine era il bombardamento dei civili, un’azione di rappresaglia su un villaggio inerme, l’esecuzione sommaria dei partigiani, l’uso delle armi atomiche, batteriologiche, chimiche, la tortura, l’esecuzione d’ostaggi, i processi sommari per semplici sospetti, le decimazioni (scegliere a sorte qualche soldato della Patria e fucilarlo per incutere terrore negli altri soldati della Patria), una guerra di evidente aggressione, l’ordine d’un ufficiale ribelle al popolo sovrano, la repressione di manifestazioni popolari? Eppure queste cose e molte altre sono il pane quotidiano di ogni guerra. Quando ve ne sono capitate davanti agli occhi o avete mentito o avete taciuto. O volete farci credere che avete volta volta detto la verità in faccia ai vostri «superiori» sfidando la prigione o la morte? Se siete ancora vivi e graduati è segno che non avete mai obiettato a nulla. Del resto ce ne avete dato la prova mostrando nel vostro comunicato di non avere la più elementare nozione del concetto di obiezione di coscienza.

Non potete non pronunciarvi sulla storia di ieri se volete essere, come dovete essere, le guide morali dei nostri soldati. Oltre a tutto la Patria, cioè noi, vi paghiamo o vi abbiamo pagato anche per questo. E se manteniamo a caro prezzo (1000 miliardi l’anno) l’esercito, è solo perché difenda colla Patria gli alti valori che questo concetto contiene: la sovranità popolare, la libertà, la giustizia. E allora (esperienza della storia alla mano) urgeva più che educaste i nostri soldati all’obiezione che all’obbedienza. L’obiezione in questi 100 anni di storia l’han conosciuta troppo poco. L’obbedienza, per disgrazia loro e del mondo, l’han conosciuta anche troppo. Scorriamo insieme la storia. Volta volta ci direte da che parte era la Patria, da che parte bisognava sparare, quando occorreva obbedire e quando occorreva obiettare. 1860. Un esercito di napoletani, imbottiti dell’idea di Patria, tentò di buttare a mare un pugno di briganti che assaliva la sua Patria. Fra quei briganti c’erano diversi ufficiali napoletani disertori della loro Patria. Per l’appunto furono i briganti a vincere. Ora ognuno di loro ha in qualche piazza d’Italia un monumento come eroe della Patria.

A 100 anni di distanza la storia si ripete: l’Europa è alle porte. La Costituzione è pronta a riceverla: «L’Italia consente alle limitazioni di sovranità necessarie…». I nostri figli rideranno del vostro concetto di Patria, così come tutti ridiamo della Patria Borbonica. I nostri nipoti rideranno dell’Europa. Le divise dei soldati e dei cappellani militari le vedranno solo nei musei. La guerra seguente 1866 fu un’altra aggressione. Anzi c’era stato un accordo con il popolo più attaccabrighe e guerrafondaio del mondo per aggredire l’Austria insieme. Furono aggressioni certo le guerre (1867-1870) contro i Romani i quali non amavano molto la loro secolare Patria, tant’è vero che non la difesero. Ma non amavano molto neanche la loro nuova Patria che li stava aggredendo, tant’è vero che non insorsero per facilitarle la vittoria. Il Gregorovius spiega nel suo diario: «L’insurrezione annunciata per oggi, è stata rinviata a causa della pioggia». Nel 1898 il Re «Buono» onorò della Gran Croce Militare il generale Bava Beccaris per i suoi meriti in una guerra che è bene ricordare.

L’avversario era una folla di mendicanti che aspettavano la minestra davanti a un convento a Milano. Il Generale li prese a colpi di cannone e di mortaio solo perché i ricchi (allora come oggi) esigevano il privilegio di non pagare tasse. Volevano sostituire la tassa sulla polenta con qualcosa di peggio per i poveri e di meglio per loro. Ebbero quel che volevano. I morti furono 80, i feriti innumerevoli. Fra i soldati non ci fu né un ferito né un obiettore. Finito il servizio militare tornarono a casa a mangiar polenta. Poca perché era rincarata. Eppure gli ufficiali seguitarono a farli gridare «Savoia» anche quando li portarono a aggredire due volte (1896 e 1935) un popolo pacifico e lontano che certo non minacciava i confini della nostra Patria. Era l’unico popolo nero che non fosse ancora appestato dalla peste del colonialismo europeo.

Quando si battono bianchi e neri siete coi bianchi? Non vi basta di imporci la Patria Italia? Volete imporci anche la Patria Razza Bianca? Siete di quei preti che leggono la Nazione? Stateci attenti perché quel giornale considera la vita d’un bianco più che quella di 100 neri. Avete visto come ha messo in risalto l’uccisione di 60 bianchi nel Congo, dimenticando di descrivere la contemporanea immane strage di neri e di cercarne i mandanti qui in Europa? Idem per la guerra di Libia. Poi siamo al ‘14. L’Italia aggredì l’Austria con cui questa volta era alleata. Battisti era un Patriota o un disertore? È un piccolo particolare che va chiarito se volete parlare di Patria. Avete detto ai vostri ragazzi che quella guerra si poteva evitare? Che Giolitti aveva la certezza di poter ottenere gratis quello che poi fu ottenuto con 600.000 morti? Che la stragrande maggioranza della Camera era con lui (450 su 508)? Era dunque la Patria che chiamava alle armi? E se anche chiamava, non chiamava forse a una «inutile strage»? (l’espressione non è d’un vile obiettore di coscienza ma d’un Papa canonizzato).

Era nel ‘22 che bisognava difendere la Patria aggredita. Ma l’esercito non la difese. Stette a aspettare gli ordini che non vennero. Se i suoi preti l’avessero educato a guidarsi con la Coscienza invece che con l’Obbedienza «cieca, pronta, assoluta» quanti mali sarebbero stati evitati alla Patria e al mondo (50.000.000 di morti). Così la Patria andò in mano a un pugno di criminali che violò ogni legge umana e divina e riempiendosi la bocca della parola Patria, condusse la Patria allo sfacelo. In quei tragici anni quei sacerdoti che non avevano in mente e sulla bocca che la parola sacra «Patria», quelli che di quella parola non avevano mai voluto approfondire il significato, quelli che parlavano come parlate voi, fecero un male immenso proprio alla Patria (e, sia detto incidentalmente, disonorarono anche la Chiesa). Nel ‘36 50.000 soldati italiani si trovarono imbarcati verso una nuova infame aggressione: Avevano avuto la cartolina di precetto per andar «volontari» a aggredire l’infelice popolo spagnolo. Erano corsi in aiuto d’un generale traditore della sua Patria, ribelle al suo legittimo governo e al popolo suo sovrano. Coll’aiuto italiano e al prezzo d’un milione e mezzo di morti riuscì a ottenere quello che volevano i ricchi: blocco dei salari e non dei prezzi, abolizione dello sciopero, del sindacato, dei partiti, d’ogni libertà civile e religiosa. Ancor oggi, in sfida al resto del mondo, quel generale ribelle imprigiona, tortura, uccide (anzi garrota) chiunque sia reo d’aver difeso allora la Patria o di tentare di salvarla oggi.

Senza l’obbedienza dei «volontari» italiani tutto questo non sarebbe successo. Se in quei tristi giorni non ci fossero stati degli italiani anche dall’altra parte, non potremmo alzar gli occhi davanti a uno spagnolo. Per l’appunto questi ultimi erano italiani ribelli e esuli dalla loro Patria. Gente che aveva obiettato. Avete detto ai vostri soldati cosa devono fare se gli capita un generale tipo Franco? Gli avete detto che agli ufficiali disobbedienti al popolo loro sovrano non si deve obbedire? Poi dal ‘39 in là fu una frana: i soldati italiani aggredirono una dopo l’altra altre sei Patrie che non avevano certo attentato alla loro (Albania, Francia, Grecia, Egitto, Jugoslavia, Russia). Era una guerra che aveva per l’Italia due fronti. L’uno contro il sistema democratico. L’altro contro il sistema socialista. Erano e sono per ora i due sistemi politici più nobili che l’umanità si sia data. L’uno rappresenta il più alto tentativo dell’umanità di dare, anche su questa terra, libertà e dignità umana ai poveri. L’altro il più alto tentativo dell’umanità di dare, anche su questa terra, giustizia e eguaglianza ai poveri.

Non vi affannate a rispondere accusando l’uno o l’altro sistema dei loro vistosi difetti e errori. Sappiamo che son cose umane. Dite piuttosto cosa c’era di qua dal fronte. Senza dubbio il peggior sistema politico che oppressori senza scrupoli abbiano mai potuto escogitare. Negazione d’ogni valore morale, di ogni libertà se non per i ricchi e per i malvagi. Negazione d’ogni giustizia e d’ogni religione. Propaganda dell’odio e sterminio d’innocenti. Fra gli altri lo sterminio degli ebrei (la Patria del Signore dispersa nel mondo e sofferente). Che c’entrava la Patria con tutto questo? e che significato possono più avere le Patrie in guerra da che l’ultima guerra è stata un confronto di ideologie e non di patrie? Ma in questi cento anni di storia italiana c’è stata anche una guerra «giusta» (se guerra giusta esiste). L’unica che non fosse offesa delle altrui Patrie, ma difesa della nostra: la guerra partigiana. Da un lato c’erano dei civili, dall’altra dei militari. Da un lato soldati che avevano obbedito, dall’altra soldati che avevano obiettato. Quali dei due contendenti erano, secondo voi, i «ribelli», quali i «regolari»? È una nozione che urge chiarire quando si parla di Patria. Nel Congo p. es. quali sono i «ribelli»? Poi per grazia di Dio la nostra Patria perse l’ingiusta guerra che aveva scatenato.

Le Patrie aggredite dalla nostra Patria riuscirono a ricacciare i nostri soldati. Certo dobbiamo rispettarli. Erano infelici contadini o operai trasformati in aggressori dall’obbedienza militare. Quell’obbedienza militare che voi cappellani esaltate senza nemmeno un «distinguo» che vi riallacci alla parola di San Pietro: «Si deve obbedire agli uomini o a Dio?». E intanto ingiuriate alcuni pochi coraggiosi che son finiti in carcere per fare come ha fatto San Pietro.

In molti paesi civili (in questo più civili del nostro) la legge li onora permettendo loro di servir la Patria in altra maniera. Chiedono di sacrificarsi per la Patria più degli altri, non meno. Non è colpa loro se in Italia non hanno altra scelta che di servirla oziando in prigione. Del resto anche in Italia c’è una legge che riconosce un’obiezione di coscienza. È proprio quel Concordato che voi volevate celebrare. Il suo terzo articolo consacra la fondamentale obiezione di coscienza dei Vescovi e dei Preti. In quanto agli altri obiettori, la Chiesa non si è ancora pronunziata né contro di loro né contro di voi. La sentenza umana che li ha condannati dice solo che hanno disobbedito alla legge degli uomini, non che son vili. Chi vi autorizza a rincarare la dose? E poi a chiamarli vili non vi viene in mente che non s’è mai sentito dire che la viltà sia patrimonio di pochi, l’eroismo patrimonio dei più? Aspettate a insultarli. Domani forse scoprirete che sono dei profeti. Certo il luogo dei profeti è la prigione, ma non è bello star dalla parte di chi ce li tiene. Se ci dite che avete scelto la missione di cappellani per assistere feriti e moribondi, possiamo rispettare la vostra idea.

Perfino Gandhi da giovane l’ha fatto. Più maturo condannò duramente questo suo errore giovanile. Avete letto la sua vita? Ma se ci dite che il rifiuto di difendere se stesso e i suoi secondo l’esempio e il comandamento del Signore è «estraneo al comandamento cristiano dell’amore» allora non sapete di che Spirito siete! che lingua parlate? Come potremo intendervi se usate le parole senza pesarle? Se non volete onorare la sofferenza degli obiettori, almeno tacete! Auspichiamo dunque tutto il contrario di quel che voi auspicate: Auspichiamo che abbia termine finalmente ogni discriminazione e ogni divisione di Patria di fronte ai soldati di tutti i fronti e di tutte le divise che morendo si son sacrificati per i sacri ideali di Giustizia, Libertà, Verità.

Rispettiamo la sofferenza e la morte, ma davanti ai giovani che ci guardano non facciamo pericolose confusioni fra il bene e il male, fra la verità e l’errore, fra la morte di un aggressore e quella della sua vittima. Se volete diciamo: preghiamo per quegli infelici che, avvelenati senza loro colpa da una propaganda d’odio, si son sacrificati per il solo malinteso ideale di Patria calpestando senza avvedersene ogni altro nobile ideale umano. Don Lorenzo Milani - 27 Maggio 2023

Altro che scuola del merito: la rivoluzione di don Milani è una guida nei nostri giorni scomposti. L’istruzione pensata per i ceti popolari. La lotta alle ingiustizie. Il libro “Lettera a una professoressa”. L’ostilità della Chiesa nei suoi confronti. A cento anni dalla nascita, la visionaria lezione del priore di Barbiana. Stefania Rossini su L'Espresso il 26 maggio 2023.

Ci sono persone delle quali è obbligatorio tornare spesso ad occuparsi nel sospetto che le nuove generazioni ne abbiano un’idea vaga o distorta. Tra queste un posto d’onore è occupato da Don Lorenzo Milani, dalla sua Scuola di Barbiana e da un libro straordinario, quella “Lettera a una professoressa” che nel lontano 1967 ha costretto la scuola italiana a riflettere sulle sue mancanze e, piaccia o no, ha nutrito la ribellione verso l’istruzione classista che di lì a poco avrebbe animato la contestazione studentesca.

Quando in questi mesi abbiamo sentito invocare il merito come pilastro di una scuola che deve mandare avanti “i migliori”, quando il merito è stato aggiunto persino nella dicitura del nuovo ministero dell’Istruzione, ignorando volutamente che l’abbandono scolastico in Italia è tra i più alti d’Europa, forse a qualcuno sarà tornata in mente una delle frasi più celebri di quel prezioso libretto: «Non c’è ingiustizia più grande che fare parti uguali tra disuguali».

Erano altri tempi, è vero, sono passati 56 anni da quando Don Milani contrapponeva la formazione scolastica dei figli di operai e contadini a quella dei figli dei padroni, eppure mai come adesso, con le disuguaglianze crescenti e con una popolazione scolastica composta per quasi il 30 per cento da figli di immigrati, l’insegnamento di quel grande prete visionario dovrebbe far da guida ai nostri giorni scomposti.

Se in qualche misura questo potrà avvenire, sarà grazie al centenario della sua nascita che i cattolici di sinistra si preparano a celebrare con molte iniziative a partire proprio da Barbiana, che non è un paese e nemmeno un villaggio, ma una piccola e isolata parrocchia di montagna, con poche case sparse nel bosco e nei campi circostanti.

Don Milani vi arrivò nell’autunno del 1954, ufficialmente trasferito, ma di fatto esiliato per non aver rispettato le direttive vaticane di votare e far votare Democrazia Cristiana alle elezioni politiche del 1953. In quel luogo senza strade, acqua, luce e scuola, il giovane parroco cominciò proprio dalla scuola, dove raccolse i figli dei contadini e dei pastori che erano andati poco o per niente alle elementari e alle medie o ne erano stati cacciati, restando privi di qualsiasi strumento per costruirsi una vita migliore di quella dei genitori.

Fu una scuola dura, a tempo pieno in senso stretto, mattina e pomeriggio compresa la domenica, senza spazi di riposo e senza ricreazione. Il lavoro era collettivo, ogni giorno si leggeva da cima a fondo un quotidiano e si scriveva insieme un commento agli episodi di attualità. Ogni settimana arrivava un politico, un sindacalista, uno scrittore che parlava ai ragazzi e i primi a porre domande dovevano essere quelli più indietro negli studi.

In questo modo don Milani accompagnava i suoi alunni alla conoscenza e al dominio delle parole, e quindi alla possibilità di emanciparsi perché «se il padrone conosce 1000 parole e tu ne conosci solo 100 sei destinato ad essere sempre servo». Quando erano pronti, i ragazzi, tutti fra i 12 e 16 anni, sostenevano gli esami nella scuola pubblica e proprio la bocciatura ritenuta ingiusta di due di loro stimolò la “lettera” indirizzata alla professoressa che li aveva respinti. Se le riflessioni acute, le accuse anche violente, l’anelito alla giustizia sociale e la voglia di riscatto intriso di religiosità che vi si leggono siano state suggerite, o addirittura scritte, dallo stesso don Milani (come è stato spesso insinuato) è questione non essenziale, visto il rapporto di simbiosi tra maestro e alunni che regnava a Barbiana. Quello che si sa è che la stesura del libro fu ultimata al suo capezzale con i ragazzi che gli portavano i brani da discutere mentre lui si spogliava anche della firma per «non morire signore», come riteneva capitasse agli autori di libri.

Signore però Lorenzo Milani lo era per estrazione ed educazione. La famiglia, ricca, colta e cosmopolita, mescolava diverse entità etniche e religiose europee. Il nonno paterno era un archeologo di fama, il padre un professore universitario, mentre la madre, ebrea di origine boema, era cugina di Edoardo Weiss, pioniere della psicoanalisi italiana, e allieva di James Joyce che frequentava la casa e le insegnava l’inglese. Cresciuto in questo ambiente, il giovane Lorenzo dà presto segnali di ribellione: a quindici anni chiede, tra lo stupore della famiglia, di ricevere la prima comunione, dopo il liceo si rifiuta di andare all’università e studia pittura a Brera conducendo una vita bohémien, a vent’anni si converte inaspettatamente al cattolicesimo ed entra in seminario.

A differenza di quanto si può pensare, Don Milani restò però obbediente alla Chiesa e non ne mise mai in discussione i precetti, ma furono le gerarchie ecclesiastiche a non capirlo e a non amarlo. Nel 1958 il suo libro “Esperienze pastorali” che conteneva proposte di radicale cambiamento della Chiesa, fu ritirato dal commercio per disposizione del Sant’Uffizio. Non si diede per vinto e le sue battaglie pubbliche contenevano sempre un messaggio di rinnovamento, come la lettera aperta indirizzata a un gruppo di cappellani militari che avevano definito l’obiezione di coscienza estranea al comandamento cristiano dell’amore. La lettera fu incriminata e don Lorenzo rinviato a giudizio per apologia di reato. Ma aveva fatto in tempo a far sapere ai giovani «che essi sono tutti sovrani, per cui l’obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni».

Intanto piaceva a intellettuali di mezzo mondo, laici e spesso atei, come Erich Fromm e Pier Paolo Pasolini, che scoprivano in lui un aspetto affascinante del sacerdozio. A proposito di “Lettera a una professoressa”, Pasolini scriveva: «Mi son trovato immerso in uno dei più bei libri che io abbia letto in questi ultimi anni: un libro straordinario, anche per ragioni letterarie».

Il priore di Barbiana morì a 44 anni nel 1967 per un linfoma che lo straziava da anni lasciando questo messaggi ai suoi alunni e al mondo: «Cari ragazzi, ho voluto più bene a voi che a Dio. Ma ho speranza che lui non stia attento a queste sottigliezze e abbia scritto tutto al suo conto».

Il Bestiario, l'Ateigna. L’Ateigna è un essere mitologico che si indigna per una preghiera fatta recitare nella classe del figlio nel periodo di Natale, ottenendo la sospensione della pericolosa maestra per 20 giorni. Giovanni Zola il 13 Aprile 2023 su Il Giornale.

L’Ateigna è un animale leggendario che accetta qualsiasi ideologia e rifiuta la propria religione.

L’Ateigna è un essere mitologico che si indigna per una preghiera fatta recitare nella classe del figlio nel periodo di Natale ottenendo la sospensione della pericolosa maestra per 20 giorni. Effettivamente gli ispettori scolastici hanno rilevato fatti gravissimi commessi dalla maestra di Oristano. Si tratta di un resoconto molto crudo, sconsigliato ad un pubblico sensibile: “Reiterate preghiere e canti religiosi nelle ore disciplinari”. Orribile! La gravità è tale che ben si comprende perché un’altra maestra, quella di Castelvetrano, con presunti legami con il boss mafioso Matteo Messina Denaro, pluriassassino e mandante dell’omicidio del ragazzino di quindici anni sciolto nell’acido, sia stata sospesa solo per 10 giorni. La metà della pericolosa terrorista religiosa.

L’indignazione dell’Ateigna è sostenuta da giornalisti sensibili al mondo dell’educazione che scrivono: "Non solo – io penso – hanno fatto bene a farle un provvedimento disciplinare ma quell’insegnante andava licenziata perché ha manipolato le menti di innocenti bambini, li ha obbligati a fare un atto contro la loro volontà (a quell’età nessun bambino si oppone alla maestra); ha abusato della sua libertà d’insegnamento per imporre la propria ideologia cristiana cattolica".

E finalmente arriviamo al punto: la manipolazione delle menti dei bambini contro la loro volontà abusando dell’insegnamento per imporre la propria ideologia. Mentre l’Ateigna si straccia le vesti per una preghiera detta in classe, non si accorge – o si accorge ma non capisce - che in tutte le scuole di genere e grado italiane vengono proposti progetti ispirati alle teorie gender e omosessualiste delle associazioni LGBT. Tali progetti promuovono l’equiparazione di un orientamento sessuale e di ogni tipo di “famiglia”, la prevalenza dell’”identità di genere” sul sesso biologico, la decostruzione di ogni comportamento tipicamente maschile o femminile insinuando che si tratterebbe di arbitrarie impostazioni culturali e la sessualizzazione precoce dei giovani e dei bambini.

Due pesi due misure. Nel primo caso un trattamento punitivo da parte della scuola nei confronti di una maestra religiosa. Nel secondo, la prassi quotidiana di associazioni e dirigenti scolastici che si sostituiscono alle famiglie a scapito della libertà educativa dei genitori. Insomma meglio un figlio sessualmente confuso che un figlio credente, meglio un’educazione che insinua il dubbio sull’identità sessuale dei giovanissimi, con tutte le gravissime conseguenze psicologiche del caso, che la certezza della bontà di una fede sana.

Estratto del'articolo di lastampa.it il 7 aprile 2023.

Pochi giorni prima di Natale aveva recitato un Ave Maria con i suoi piccoli allievi, creando tutti assieme un piccolo rosario di perline, ma per questa iniziativa è stata allontanata per 20 giorni da scuola. L’iniziativa della maestra non è stata proprio gradita: oltre alla sospensione, le sarà ridotto lo stipendio.

 Marisa Francescangeli, maestra nella scuola primaria di San Vero Milis, è senza parole. «Sto vivendo un incubo – ha confessato -. Tutto mi sarei aspettata ma non un provvedimento simile. Mi mancano i miei bambini, mi manca il mio lavoro. Non ho fatto nulla di male».

«[…] per me normalità, non mi sembrava di avere fatto nulla di grave». Ma due mamme si sono lamentate dell’accaduto con il preside […]

Estratto dell’articolo di Alberto Pinna per il “Corriere della Sera” l’8 aprile 2023.

Credente? Praticante? Devota? Integralista? Con l’«Ave Maria» e il «Padre Nostro» fatti recitare ai bambini della terza elementare di una scuola di San Vero Milis, nell’Oristanese (e la sospensione per 20 giorni con decurtazione dello stipendio), la maestra Marisa ha fatto scoppiare un caso: «Non volevo […] però è un segno che mi ha dato Gesù. Quello che è accaduto è un’ingiustizia grave ed è bene che venga alla luce. Mi sento messa in croce».

 Marisa Francescangeli — 58 anni, due figli gemelli di 36, una vita nella scuola dove insegna storia, geografia e musica, mai un richiamo — afferma con orgoglio la sua fede: «Sono devota alla Madonna, è lei che intercede...». Ma premette di avere chiara la «separazione fra Stato laico e religione […]

Però, insegnando a bambini di 8 anni...

«Tutti gli alunni delle mie classi sono cattolici, non c’è nessun musulmano. Non pensavo di avere mancato di rispetto né ferito coscienze o sensibilità».

 Due mamme non hanno gradito la preghiera in classe.

«È andata così. Insegno in quella terza. Il 22 dicembre un collega si è assentato e ho dovuto sostituirlo per un’ora. Poco prima con i bambini della quarta avevamo costruito un braccialetto, un piccolo rosario con le perline. […]». «[…] Prima di uscire abbiamo recitato il “Pater” e l’“Ave Maria”. Con il braccialetto non penso di aver fatto niente di demoniaco».

E le due mamme?

«Rientrata dalle vacanze il dirigente scolastico mi ha riferito delle proteste: “Dovrà scusarsi”. Ho risposto che se erano dispiaciute, mi sarei scusata. E l’ho fatto».

 La sospensione è arrivata ugualmente.

«Mi è arrivata tre mesi dopo. Credo di non averla meritata e ora sono sommersa da solidarietà, anche delle altre mamme delle mie classi». 

Il ministro Salvini dice che punirla è stata una follia.

«È una sanzione esagerata, sproporzionata a quanto accaduto. Lo dicono tutti...». 

[…] È vero che lei ha segnato la fronte dei bambini con olio benedetto?

«No. Ho portato l’olio da Medjugorje, l’ho dato ai bambini e loro se lo sono messi l’un l’altro, come in un gioco».

 Dicono che lei il 22 dicembre ha benedetto gli alunni.

«Nessuna benedizione. Dopo il “Pater” e l’”Ave”, li ho salutati con un “Che Dio vi benedica!”: è un saluto cristiano a chi si vuol bene».

 L’accusano di sostenere nelle sue lezioni che terremoti ed eruzioni dei vulcani sono un castigo di Dio per la malvagità degli uomini.

«Non è assolutamente vero! Quante fake sui social!».

 Le attribuiscono anche posizioni polemiche contro la sessualità «liquida».

«Non ce l’ho con gli omosessuali. Ce ne sono fra amici e parenti. Ognuno è libero di fare le sue scelte». […]

Maestra sospesa per l'Ave Maria e applausi al preside del Ramadan. Christian Campigli Il Tempo l’08 aprile 2023

Un costante senso di inferiorità. Verso chi ha tradizioni diverse dalle nostre. E deve essere sostenuto in ogni modo. Anche a costo di dover annientare i nostri usi, i nostri costumi. Ciò che, da sempre, viene considerato normale, ovvio, consuetudinale. L’antitetico atteggiamento del mondo progressista su due episodi che hanno come protagonisti la scuola e il suo rapporto con la religione sono l'ennesimo esempio di quanto il politicamente corretto sia il nuovo mantra dei nipotini di Carlo Marx. E la reciprocità sia, al contrario, un concetto indispensabile se si parla di immigrati. Obsoleto se si vuol applicare agli italiani. Mercoledì la Sardegna è stata teatro di un episodio che, non fosse drammatico, sarebbe ridicolo.

Una docente è stata sospesa per venti giorni dall'insegnamento per aver fatto realizzare agli alunni un piccolo rosario con dieci perline a forma di braccialetto e di aver recitato insieme ai piccoli due preghiere: un’Ave Maria e un Padre Nostro. Protagonista dell'episodio, Marisa Francescangeli, 58 anni, maestra che insegna nella scuola primaria di San Vero Milis, in provincia di Oristano, dove segue tre diverse classi, una quarta e due terze. Il fatto è avvenuto proprio in una di queste terze l'ultimo giorno di scuola prima delle festività natalizie del 2022.

Un curriculum di prestigio, macchiato ora da un provvedimento del dirigente scolastico e dell’ufficio scolastico provinciale, dopo che due genitori si erano lamentati con la scuola per il braccialetto-rosario e le preghiere recitate in classe prima di Natale: venti giorni di stop dal 27 marzo sino al 15 aprile e una riduzione dello stipendio. Una vicenda che finirà di fronte ad un’aula di tribunale. I legali di Marisa Francescangeli stanno predisponendo il ricorso. «Riteniamo non congruo il procedimento disciplinare avviato dall’Usp di Oristano – ha affermato l’avvocato Elisabetta Mameli - E per questo, contestiamo l’azione disciplinare, che è molto articolata, ma racchiude i fatti limitatamente alle preghiere e al rosario».

Il ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, è stato chiamato a occuparsi del caso, sollecitato dal presidente della commissione Affari sociali e Salute della Camera, Ugo Cappellacci e dal deputato di FdI, Francesco Mura. «Siamo alla follia. Buona Santa Pasqua a questa maestra, un abbraccio ai suoi bambini», ha ricordato ieri il leader della Lega, Matteo Salvini. Una rigidità estrema, incomprensibile. Ben distante dall’atteggiamento di plauso avuto dai tromboni di sinistra al preside di un istituto superiore di Firenze. Che aveva concesso una stanza, all’interno della scuola, per consentire agli studenti musulmani di pregare durante il Ramadan.

«Siamo di fronte ad un tipico esempio della doppia morale della sinistra – hanno ricordato il capogruppo in Consiglio regionale toscano per Fratelli d’Italia, Francesco Torselli e il capogruppo a Palazzo Vecchio di Fdi, Alessandro Draghi – Tra i due episodi c’è una differenza evidente. Il preside è diventato un eroe moderno. L’insegnante una retrograda, da allontanare. È questa la società che vorrebbero imporci: aperta sì, ma solo al politicamente corretto». 

Culto della fragilità. La scuola senza voti e l’abolizione del riscatto sociale. Assia Neumann Dayan su L’Inkiesta l’8 Aprile 2023

Il liceo di Mestre che decide di fare un quadrimestre «con giudizi meno impietosi» delle solite valutazioni è lo specchio di una società che vuole togliere ai bambini la possibilità di diventare adulti

È notizia di un paio di giorni fa che in un liceo di Mestre si è deciso di non dare più i voti agli studenti. Non è il primo, non sarà l’ultimo, il duca e il suo dominio montessoriano conquisteranno il mondo, dichiariamo la resa.

L’ Ansa scrive: «Troppe crisi d’ansia tra gli studenti dopo le interrogazioni o i compiti, troppi pianti dopo una chiamata alla lavagna da parte dell’insegnante finita magari con un impreparato. Così il liceo classico-scientifico Giordano Bruno di Mestre (Venezia) decide di sperimentare un quadrimestre di lezioni senza voti, sostituendoli con giudizi meno impietosi».

La prima cosa che mi viene in mente è: ma quelli bravi? Quelli bravi potrebbero pensare che essere bravi non serva a niente, potrebbero quindi decidere di smettere di esserlo e darsi, che ne so, alla microcriminalità o al teatro, o alla trap. Che gli adulti assecondino il culto della fragilità non mi stupisce perché si chiama «proiezione», e soprattutto non mi stupisce dopo aver visto gente che da mesi ancora parla di istruzione e merito, arrivando alla conclusione che il merito non esiste, ma a questo punto possiamo anche dirlo dell’istruzione.

Secondo quanto riportato dai giornali, ci sono alunni che non studiano e piangono se prendono un brutto voto: piuttosto che dirgli di studiare, che pare essere una nuova forma di violenza, si tolgono direttamente i voti. Nessuno vuole far male a nessuno, stiamo seriamente prendendo in considerazione l’ipotesi che sbattere il mignolo contro uno spigolo diventi malattia terminale.

La seconda cosa che mi viene in mente è: stiamo togliendo la possibilità agli adolescenti di diventare adulti, perché stiamo abolendo quello che ha reso il cinema il cinema e la letteratura la letteratura e i bambini degli adulti: il riscatto.

Il riscatto ha molto a che fare col merito: nessuno più sembra saper dire «adesso gliela faccio vedere io», nessuno sembra più interessato alla cosa. Abbiamo medicalizzato a tal punto il quotidiano che pensiamo che il disturbo d’ansia possa essere risolto dai presidi. La verità è che da quando abbiamo trasferito l’intero vocabolario medico, il DSM e i Freud che ci possiamo permettere nella vita di tutti i giorni, abbiamo reso accettabile farci le autodiagnosi, parlare di ansia, depressione, patologie varie senza nessuna cognizione di causa inventandoci l’attivismo.

Vi do una notizia: togliere i voti non fa sparire l’ansia. L’ansia è funzionale alla sopravvivenza, pensare di eliminarla forse si qualifica pure come tentata strage.

La terza cosa che mi viene in mente: quanto è diventato facile finire in cronaca? Ogni santo giorno che stiamo su questa terra a leggere i pezzi gratuiti dei quotidiani c’è un insegnante che non dà i compiti, ma invita gli studenti ad andare nella natura ad abbracciare gli alberi, un preside che si dà fuoco per le carriere alias, una mamma che urla che i compiti sono una violenza, un abuso, un reato.

Non avendo uno star system, lo star system è stato rimpiazzato dai nostri eroi quotidiani con il loro quarto d’ora di celebrità.

La quarta cosa che ho pensato è questa: ho detto a mio figlio di anni sei e mezzo che c’era una scuola che non dava i voti. Mi ha risposto: «Meno male, così non succede niente». Quindi ho pensato – oltre a: genio, maestro, luminare, insegnami la vita, Nobel – che questa cosa non riguarda la scuola, riguarda la casa.

Prendi un brutto voto e ti viene da piangere e l’ansia e la depressione perché lo devi dire a mamma e papà, e sai che potrebbe finire male, non troppo male, ma male. Ci siamo inventati che la scuola italiana sia competitiva, performativa, agonistica, ma forse più che la scuola lo è il nostro salotto.

È sempre stato così, è giusto che sia così, altrimenti togliamo la possibilità ai genitori di fare gli adulti; e infatti eccoci qua, in un posto dove hanno sovvertito la fisica rendendola sentimentale, dove a ogni azione corrisponde una reazione uguale, ma non contraria.

I possibili voti sulla pagella di mio figlio che frequenta la prima elementare sono: avanzato, intermedio, base, in via di acquisizione. I voti fanno riferimento alle competenze, non al bambino, e ci mancherebbe solo che qualcuno dicesse al mio bambino che è una persona «base». Forse bisognerebbe solo dire: hai preso un brutto voto, ma non sei un brutto voto a meno che tu non voglia esserlo.

La quinta cosa che ho pensato è che la fotografia di Maria Montessori a breve sostituirà quella di Sergio Mattarella. Perché il bambino è il maestro sì, però nessuno si è posto il problema se fosse buono o cattivo.

Coltissimi puccettoni. La mistica delle materie umanistiche e l’inevitabile sconfitta della sinistra. La destra vince le elezioni perché non rincorre solo i temi cari ai perdigiorno di Twitter. Ah, ricordatevi che il liceo classico non esiste.. Guia Soncini su L’Inkiesta il 5 Aprile 2023

Elenco non esaustivo degli illusi, degli ingenui, dei puri di cuore che prego di chiudere subito questo articolo e aprire invece Tinder o altri passatempi che non demoliscano le convinzioni nelle quali pascolano sentendosi rassicurati. Dico davvero: se appartenete a una delle seguenti categorie, smettete di leggere subito.

Quelli che si sentono colti perché, invece di dire «fatte le debite proporzioni», dicono «si parva licet». Quelli che pagano con la carta di credito perché non riescono a calcolare, con una banconota da cinquanta euro, quanto resto spetti loro se quel che hanno preso costa trentacinque; però si percepiscono più istruiti della tizia in tv che ha appena sbagliato a pronunciare «sine die».

Quelli che non hanno mai studiato Shakespeare ma ti assicurano con un certo piglio che l’italiano sì è una lingua ricca, mica quei barbari che non hanno neanche il Colosseo. Quelli che ti spiegano che nulla eguaglia l’aver dovuto tradurre dal greco, poi quando un personaggio di “Succession” telefona a un altro per dirgli che il patriarca sta moseying in redazione ti chiedono se per piacere puoi mettere i sottotitoli in una qualsiasi lingua per imparare la quale non tocchi memorizzare una trentina di verbi che sono tutti sfumature di «camminare».

Quelli che non si sono mai chiesto quale fosse il contesto in cui i genitori dicevano loro che il classico apre la mente, e non sono pronti a sentirsi svelare che quel contesto non era esattamente quello d’un cenacolo intellettuale, ma quello della provincia analfabeta del dopoguerra, in cui dire «sic transit gloria mundi» faceva di te il cervellone del paese.

Eccetera. La lista di equivoci relativi al liceo classico, in un paese determinato a percepirsi colto, è infinita. E non siamo mica soli. A gennaio ho assistito attonita al sommo scandalo inglese, in confronto al quale quello della Meloni che loda gli istituti professionali è nulla.

Il primo ministro inglese aveva osato dire che era necessario i puccettoni inglesi studiassero matematica fino a diciott’anni. Il ripristino del servizio di leva avrebbe generato reazioni meno scomposte. «Che coglione. Vuole un esercito di robot che siano buoni solo a inserire dati. E i ragazzi cui non piace la matematica? A me la matematica fa schifo, e non mi è mai servita», ha detto in un video girato con toni che sarebbero stati sensati per scelte politiche meno condivisibili Simon Pegg, attore di “Mission: Impossible” e probabilmente incapace di calcolare il resto quando va a comprare le sigarette.

È stato allora che mi è venuto il primo dubbio che, tra le moltissime ragioni per cui nessuna sinistra vincerà mai più le elezioni avendo lasciato tutta la sensatezza alla destra e avendo deciso di dedicarsi a rincorrere temi di cui interessa solo ai perdigiorno dei social, c’è anche la mistica delle materie umanistiche.

Ovviamente c’è anche l’elemento della morte del contesto: cosa deve dire, la Meloni in visita a Vinitaly, fiera del vino che per carità sarà un prodotto culturale ma forse se hai fatto l’agrario hai due nozioni in più su come vendemmiare – cosa deve dire? «L’istituto agrario è frequentato da scarti della società che, visto che l’ascensore sociale non funziona, non hanno avuto accesso al sogno d’ogni bambino, che come sappiamo è l’aoristo»?

Ma, soprattutto, c’è il pavlovismo di chi corre sui social a dire vergogna, siete proprio fascisti, volete un elettorato di camerieri, volete mandarli all’alberghiero perché così, senza la vera cultura, non si emanciperanno. Sentendosi emancipati loro. Loro che si mettono il voto dell’esame di maturità fatto trent’anni prima nei curriculum, tanto è il niente che hanno combinato successivamente. Loro che non chiederebbero mai «ma per poi fare cosa» al figlio che s’iscrive a filosofia, e se poi la società non accorre a offrire posti di lavoro al loro coltissimo puccettone che aveva 8 in traduzione di Sofocle e adesso ha persino preso 29 in ermeneutica, beh, vuole dire che è una società sbagliata, che è una società che opprime i talenti, e soprattutto, diciamocelo, una società fascista.

Naturalmente nessuna delle due parti, quella che invoca il recupero di reputazione sociale degli istituti professionali, e quella convinta che esista un diritto costituzionale a frequentare il liceo classico, dice cose sensate.

Io, a Vinitaly, avrei chiesto innanzitutto quando sia cominciato il crollo della qualità dell’insegnamento negli alberghieri, e come mai a Milano sia impossibile trovare, anche nei ristoranti più costosi e rinomati, un cameriere che ti versi il vino senza sgocciolarlo sulla tovaglia.

C’entrano i ben noti fatti di Massa Lubrense? Dobbiamo invocare a testimoniare Mario Draghi? Concita De Gregorio? Chi, ditemelo, sono disposta a coinvolgere chiunque, è un problema che va risolto, altro che baloccarci col latino, il greco, la filosofia, la storia.

Ma poi: siamo il paese di Angelo Guglielmi e Umberto Eco, è una vita che usciamo dalle facoltà umanistiche ripetendo che non è il cosa ma il come, e ancora pensiamo che un umanista ottuso sia meglio d’un elettrauto sapiente? E, soprattutto: trovare lavoro fa poi così schifo? È così terribile che quel che studi da ragazzino – cioè: quando sei carta assorbente e qualunque cosa ti mettano davanti la impari con facilità e ti resta nei neuroni tutta la vita – un domani ti torni utile per comprarti balocchi e, volendo, corsi di greco antico nel tempo libero?

Parafrasando un certo Woody Allen (che è americano e quindi non ha fatto il classico: mi perdonerete la citazione di matrice inferiore a un qualsivoglia Catullo, che d’altra parte si esprimeva in un secolo senza partite iva), non solo il liceo classico non esiste, ma provate a trovare un idraulico il sabato.

Licei «contro» istituti tecnici, il punto di vista barese: «Non una questione politica, scelte di vita». «C’è sempre stato un certo pregiudizio verso gli istituti professionali, più che verso i tecnici, non tanto per l’offerta formativa quanto soprattutto per la loro utenza». REDAZIONE PRIMO PIANO su La Gazzetta deal Mezzogiorno il 4 Aprile 2023

Irma D’Ambrosio è stata dirigente scolastico del liceo artistico De Nittis dal 2009 sino allo scorso anno. Ha avuto una lunga esperienza in numerosi licei della provincia di Bari.

Secondo lei è vero che – come dice il ministro del turismo Daniela Santanché - i tecnici sono stati «distrutti» dai governi di sinistra?

«Onestamente non ne farei una questione politica. C’è sempre stato un certo pregiudizio verso gli istituti professionali, più che verso i tecnici, non tanto per l’offerta formativa quanto soprattutto per la loro utenza. Le famiglie hanno spesso ritenuto di poter garantire ai propri figli un ambiente scolastico più sicuro nei licei. Negli ultimi anni però le cose sono notevolmente cambiate. Soprattutto per quel che riguarda gli istituti tecnici che rispondono in maniera più efficace alle competenze, soprattutto tecnologiche, della nuova generazione».

Quindi nessun condizionamento politico…

«Gli investimenti indirizzati alla scuola sono gli stessi per tutti. Ogni scuola, che sia un liceo o un istituto professionale o tecnico, gestisce questi fondi in maniera autonoma studiando un’offerta formativa che sia adeguata alla propria vocazione. La maggior parte delle scuole superiori, negli ultimi anni ha proposto agli studenti progetti indirizzati a rafforzare competenze tecnologiche e linguistiche. Lo hanno fatto anche i licei. Mi viene in mente a Bari il “Marconi” che ha creato un liceo scientifico con indirizzo tecnologico, sacrificando lo studio del latino. Un indirizzo che sta riscuotendo un ottimo successo. Ma penso anche al “Panetti” e a tanti altri tecnici che stanno lavorando bene».

E i licei?

«I licei hanno le loro peculiarità. È chiaro che chi decide di iscriversi allo scientifico, al classico o al linguistico non avrà la fortuna di trovare lavoro subito dopo il diploma È altrettanto vero, però, che sarà più pronto ad affrontare gli studi universitari. Parliamo di scelte di vita differenti che dipendono dalla voglia che uno studente ha, di proseguire gli studi o di entrare, subito dopo il diploma, nel mondo del lavoro».

Ascoltando le parole del Ministro teme che la tradizione dei licei possa essere messa in discussione?

«Assolutamente no. I licei continueranno a formare i futuri universitari. Gli istituti professionali e i tecnici, gli studenti al mondo del lavoro. Lo stiamo già facendo da anni, ottimizzando i mezzi che abbiamo. E credetemi, nel mondo della scuola tutti lavorano verso un’unica direzione: dare gli strumenti migliori ai nostri ragazzi. Tecnici o liceali che siano».

Scuole superiori: da Bologna inizia una nuova ondata di occupazioni. Salvatore Toscano su L'Indipendente il 2 Aprile 2023

A Bologna la protesta nelle scuole superiori si allarga e i collettivi occupano. All’IPSAS Aldrovandi Rubbiani, occupato una decina di giorni fa, si sono aggiunti i licei Minghetti, Sabin e Copernico. Diverse iniziative di autogestione e affini sono poi in programma all’IIS Aldini Valeriani e nei licei Laura Bassi, Righi e Galvani. L’interruzione delle lezioni ha come obiettivo il “voler denunciare un modello di istruzione che ci distrugge e che ci fa percepire la scuola come una vera e propria gabbia”, scrivono i collettivi. Lo strappo non è totale con i presidi e gli insegnanti, vista la mediazione previa e l’auspicio di una collaborazione successiva al periodo di occupazione. «Prenderemo atto del loro disagio» ha dichiarato la preside del liceo Copernico Fernanda Vaccari, aggiungendo che «molto già facciamo, ad esempio abbiamo aumentato le ore dello psicologo».

Il fortissimo disagio psicologico che si avverte tra le mura scolastiche” è l’oggetto della mobilitazione che sta interessando centinaia di studenti a Bologna. Le occupazioni non vogliono rappresentare uno strappo totale ma un punto di ripartenza comune a studenti, professori e dirigenti. «Siamo convinti che le motivazioni possano essere condivise, almeno in buona parte, anche da voi docenti. Per questo auspichiamo che ciò possa creare al di là di fisiologiche differenze di vedute un senso di collaborazione e solidarietà con gli studenti occupanti», scrive il collettivo del liceo Copernico, aggiungendo che qualsiasi attività estemporanea extra programmi, come l’organizzazione di «momenti di confronto sui temi che più ci stanno a cuore», sarà ben accetta.

L’importanza della salute mentale all’interno delle scuole è entrata di prepotenza all’interno del dibattito pubblico. La discussione parte dal basso  e non incontra una risposta adeguata da parte delle istituzioni centrali, che lo scorso ottobre hanno lanciato un messaggio chiaro istituendo il ministero dell’”Istruzione e del Merito”. Non crescita o conoscenza ma merito. Un termine chiaro, che pone in rilievo la corsa individualistica al conseguimento di un titolo piuttosto che la valorizzazione del percorso. Una corsa che spesso genera frustrazione e malessere, piantando un seme pericoloso: l’idea del fallimento totale come conseguenza della perdita di terreno nei confronti dello spietato sistema dell’istruzione dell’eccellenza. [di Salvatore Toscano]

Viva il vecchio voto a numero, anche se è... «1 meno meno». Le ultime riforme? «Zero spaccato». Un tempo si dava pure quello. MICHELE MIRABELLA su La Gazzetta del Mezzogiorno il 5 Marzo 2023.

Ho avuto un 1 meno meno. Non era un malore, era un voto. Uno dei vecchi, cari voti che si meritavano a scuola. È capitato ad una versione di Greco. Proprio non mi ci ero raccapezzato e ricordo che m’era venuta a noia perché non capivo un granché e sapevo perfettamente che ciò che andavo scrivendo, giusto per scongiurare l’horror vacui del foglio bianco, erano pure congetture e fantasiose ipotesi che non avevano niente a che fare con la pagina del Simposio che ci era stata inflitta in quella classe di liceo classico che radunava molti renitenti al Platonismo, me compreso.

Sbagliavo, adesso lo so, ma ero abilitato a farlo in forza del diritto ancora adolescenziale alle scapestrataggini. Decisi, allora, di ricorrere al manuale delle traduzioni belle e pronte. Solo che, nella fretta confusi la pagina di Platone con uno scritto che col Simposio non aveva niente a che fare. E la copiai integralmente. Voto: 1 meno meno.

Come i miei compagni di classe che non vado a cercare su Facebook, ma che preferisco ospitare beatamente nell’album dei ricordi, sanno bene ancora oggi, il Simposio è il dialogo platonico che si occupa della conoscenza dell’amore.

Ricordando quel terribile «1 meno meno», commemoro anche un contrappasso erogato, dalla professoressa giovane e bella di cui era invaghita tutta la classe, al mio inciampo di conoscenza sulla pagina di un’opera sulla conoscenza dell’amore, appunto. Mi emendai da quel votaccio optando di fare il voto di non meritarne più.

Voto disatteso, naturalmente: avrei dovuto fare un voto alla Madonna, stante la mia ritrosia a diventare grecista. Tuttavia riuscii a familiarizzare con i classici, amati, peraltro, a digerire i verbi dell’ottava classe e l’inestricabile lessicografia greca. E, finalmente, lessi il Simposio.

Oggi mi darei un voto risicato, un sei meno. Il «meno meno» è umiliante. Sia se frustra la stentata sufficienza, sia se aggrava una catastrofe sotto il tre. In tanti discettammo, ragazzacci ribelli, intorno al sadismo della somministrazione numerica dei giudizi che oggi ritroviamo come metodo restaurato e riabolito, poi riscoperto e, ancora, disprezzato e cancellato dai ministri che si sono avvicendati a guastare la scuola con pervicacia. Eppure, di tutte le scelte riformatrici, io approvai il tentativo della Ministra Gelmini di riabilitare il voto numerico: restauro che sarebbe, a parer mio, da approvare con un bel sette e mezzo. Ma che vogliono dire quelle paroline ipocrite come «distinto» o «buono» o «mediocre». O che sarà mai un compito «distinto».

Distinto è un signore a modo, distinta è una signora di buone maniere e condotta imperturbata dalle tentazioni della mondanità, ove non sia un modulo per un versamento bancario. Distinti sono i saluti del codice delle buone creanze. Non può essere un comportamento scolastico e «men che meno» la traduzione del Simposio. E quell’«insufficiente» o «buono» non esprimono compitamente la valutazione del pedagogo per la prestazione dell’alunno e sono generiche e insoddisfacenti. E aggiungo che non danno gusto.

Vuoi mettere la gioia di squadernare un bell’otto rotondo graffito sul foglio di protocollo con la matita rossa a petto di un «molto distinto» vergato pudicamente? E poi? Vogliamo considerare le numerose possibilità consentite dai numeri. Ancorché sia ristretta la scelta da uno a dieci, dobbiamo considerare le variabili erogate da miracolosi segni da posporre alle cifre. Ricordo il meno, il «meno meno», balbettante reprimenda un po’ umiliante e, addirittura, il «meno meno meno» di qualche insegnante sadico, sottile d’ingegno e implacabile, ma ricordo, con nostalgia, la finezza didattica del «più». Il «più» era un’incoraggiante crocetta posta dopo un voto debilitante, una spintarella a far meglio, generalmente affibbiata con tenerezza a quelli che, pur non essendo particolarmente dotati, cocciutamente si sforzavano, si «applicavano». Io, appartenente alla schiera di quelli che, pur essendo intelligenti, non si applicavano affatto, anzi, erano sfaticati, ero insignito di molti meno o del mezzo al voto inferiore rispetto a quello che avevo meritato. E sì, perché il terribile mezzo voto poteva aumentare la sentenza in bene o aggravarla in male. Ai volenterosi si aggiungeva per premio, a me, generalmente, si toglieva per castigo.

Il cinque e mezzo faceva male. Era puro sadismo, come era ferocia vendicativa rimandare ad ottobre col cinque in una sola materia. Se ne parlava al bar, intorno al calcio balilla, per settimane. Sui quadri il nome era macchiato di rosso dalla scritta: «ripara in» e seguiva la materia. L’untore, il segretario, scriveva con le anellate la formula che rispettava, comunque, il voto, il mitico voto che, adesso, ritorni! Non parlerò male, come meriterebbero, di tutte le recenti pasticcione riforme della scuola, che hanno l’aggravante di pretendere che ci si arrenda all’invasione informatica ed elettronico-«telefoninica». Chi si ostina ad arruffarle non può sperare di avere, alle elezioni, il mio voto: per correttezza, mi asterrò dalle critiche per almeno un trimestre. Poi, però, dovrà aspettarsi un «uno meno meno». Come la mia presunta traduzione del Simposio. Le ultime riforme potrebbero aver uno «zero spaccato». Si dava anche quello.

Comunismo? Nessun problema a parlarne malissimo. Risponde Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 6 Marzo 2023

Caro Aldo, in occasione della guerra nella ex Jugoslavia mi colpì il fatto che la violenza e la volontà di sopraffazione perpetrata dal governo di Milosevic i media italiani si affrettarono a catalogarla come espressione del «nazionalismo serbo», senza mai fare riferimento alle radici comuniste di quel regime. Ora, a dieci mesi dalla aggressione russa in Ucraina, vedo ripetersi la stessa situazione: perché nessuno ha il coraggio di dire che si tratta dell’aggressione di un regime che conserva il comunismo nel proprio Dna? Si condanna il fascismo, si ripete che bisogna stare in guardia dai rigurgiti di quel passato. Non vedo però lo stesso slancio nel dire che se la pace e il benessere globale sono in questo momento in grave pericolo la colpa è delle guerre scatenate o minacciate dalle dittature comuniste di Russia, Corea del Nord e Cina. Marco Di Piazza

Caro Marco, Non leggerei la guerra in corso come uno scontro tra comunisti russi e anticomunisti ucraini. Vladimir Putin viene definito ora comunista, ora fascista. In realtà non è né l’uno né l’altro; è un nazionalista russo, che aggredendo l’Ucraina ha commesso sia un crimine, sia un errore. Quanto al regime cinese, si dice comunista, ma pratica in realtà una forma di liberismo ipercapitalista, accompagnato dalla privazione della libertà, dei diritti civili, della democrazia. Ciò detto, non ho nessun problema a concordare con lei sul fatto che il comunismo sia stato un’immane tragedia, costata la vita a milioni di persone. Il comunismo non è stato uguale dappertutto, ad esempio in Bulgaria ha assunto forme molto diverse da quelle che aveva in Cambogia; ma ovunque ha preso il potere con la violenza e l’ha mantenuto con polizia politica, carcere, campi di prigionia, eliminazione fisica degli oppositori. Ovunque il bilancio del comunismo è fallimentare, dal punto di vista politico, morale, economico. Dai regimi comunisti non è nato «l’uomo nuovo»; anzi, i Paesi a lungo governati dai comunisti, compresa la Russia, hanno sovente espresso leader e partiti animati da xenofobia e nazionalismo estremo, talvolta degenerato nella guerra. In Italia i comunisti non sono mai andati al potere, e per fortuna. Noi abbiamo conosciuto un’altra e diversa forma di totalitarismo, il fascismo, che abbiamo inventato ed esportato in mezzo mondo. I comunisti italiani hanno combattuto il fascismo e hanno scritto con i cattolici e i liberali la Costituzione repubblicana. Però l’egemonia comunista sulla sinistra italiana l’ha tenuta a lungo lontana dal governo, e a lungo è stata una delle cause (sia pure sempre meno importante) dell’evidente diffidenza che la maggioranza degli elettori nutre nei suoi confronti.

La doppia morale delle piazza. Due piazze, due misure. Probabilmente alla borsa valori della morale "radical" una città nel caos, due poliziotti menati, 5 anarchici fermati e 140 identificati, vetrine spaccate valgono molto meno di una rissa. Francesco Maria Del Vigo il 6 Marzo 2023 su Il Giornale.

Due piazze, due misure. Probabilmente alla borsa valori della morale «radical» una città nel caos, due poliziotti menati, 5 anarchici fermati e 140 identificati, vetrine spaccate, auto danneggiate, bastoni e bombe carta valgono molto meno di una rissa scatenata fuori da un liceo fiorentino da alcuni giovani militanti di destra. Altrimenti non si spiega l'imbarazzante silenzio della sinistra e della stampa progressista sugli scontri di sabato a Torino. Se il casino lo fanno gli anarchici dalle parti del Pd non si scompongono troppo e non lanciano accorati appelli per la tenuta democratica del Paese oppure, come ha fatto Elly Schlein, si prendono 24 ore di riflessione per condannare un evento dall'evidente gravità. Perché gli anarchici non vanno di moda, non sono abbastanza à la page. Bisogna, invece, agitare sempre il fantasma di un Ventennio che non c'è, che sopravvive solo nelle campagne elettorali della sinistra e nella testa di chi dell'antifascismo in assenza di fascismo ne ha fatto una redditizia professione.

Sabato però il sistema è andato plasticamente in corto circuito, svelando tutta la sua ipocrisia. Mentre a Firenze Pd, M5s e Cgil manifestavano contro il ritorno delle camicie nere immaginarie, gli anarchici reali mettevano a ferro e fuoco il centro di Torino per difendere Alfredo Cospito e chiedere l'abolizione del 41 bis e quindi, in ultima analisi, facendo un favore anche a tutti i mafiosi che sono sottoposti a questo regime carcerario.

Le immagini della guerriglia sono impressionanti, eppure nessuno si è sconvolto. Poche righe sui giornali, poco spazio in televisione e pochissime reazioni dalla «società civile», evidentemente abituata a tollerare queste inciviltà. Perché la violenza politica, se non è di destra, non fa notizia, non spaventa. Ed è questo il grande pericolo che la sinistra finge di ignorare, davanti al quale preferisce voltare la testa.

Non ci sono solo gli anarchici di Torino, ci sono anche gli antagonisti, il popolo dei centri sociali e quegli estremisti (sempre di matrice anarchica) che non vedono l'ora di mettere a testa in giù la Meloni e Valditara, come hanno fatto, sempre sabato, a Milano su uno striscione fuori dal liceo Carducci. E, di questo, è responsabile anche quel mondo che contribuisce ogni giorno, metodicamente, a creare un surreale e antistorico clima da «guerra civile» permanente. A forza di evocare il fantasma dell'estremismo, alla fine si manifesta davvero. Dall'estrema sinistra, però.

La politica a scuola porta alla stupidità di piazza. Marcello Bramati su Panorama il 7 Marzo 2023

La manifestazione milanese di sabato ha dato ancora una volta prova che la protesta di piazza risponde con violenza alla violenza. E di generazione in generazione, anziché costruire, non si fa che affondare

L'immagine del Ministro dell'Istruzione, Valditara a testa in giù a due passi da piazzale Loreto. Mancava solo questa, ma immancabilmente qualcuno ha pensato bene di esporre dal liceo Carducci di Milano l’immagine capovolta del ministro, rievocando la fine di Benito Mussolini, appeso in una stazione di benzina a poche centinaia di metri dal liceo teatro del fattaccio. E così la violenza dei fatti di Firenze della scorsa settimana fuori dal liceo Michelangiolo ha indignato, ha dato spazio a risposte e reazioni ufficiali, ha fatto scrivere e discutere, ha chiamato alla piazza e la piazza ha chiuso il cerchio rispondendo con toni ugualmente violenti. Si è consumata un’altra occasione per costruire, preferendo esasperare di giorno in giorno, ingaggiando una gara a chi la sparasse più grossa, più feroce, più aggressiva. Da un piazza non ci si può aspettare una riflessione pacata o un elemento di innovazione, perché la piazza di per sé si riunisce per lanciare un grido indignato, forte, compatto, una protesta che possa unire centinaia e magari migliaia di persone dopo un avvenimento considerato scandaloso. E’ sempre stato così, contro una guerra, contro una tassa, contro un governo, contro una politica. Dappertutto. Perché però va sempre a finire che si esageri? Sulle proteste di piazza serve un ragionamento complesso che superi fazioni, semplificazioni e riduzionismi, per cui è necessario premettere che l’episodio di copertina non riguarda l’intera protesta, che la manifestazione ha certamente ospitato anche migliaia di persone disposte anche a prendere le distanze da immagini di violenza, che si possa criticare o meno il ministro Valditara o la preside Savino ed essere comunque inorriditi da questa escalation di toni e di modi. Dalla piazza non si pretende l’elemento costruttivo, dunque, ma da chi scende in piazza ci si possono aspettare almeno alcuni elementi di buon senso. Innanzitutto, evitare gli stereotipi. Protestare come si faceva cinquant’anni fa, riproponendo i soliti cliché e modalità stanche di generazioni ormai in pensione non può più funzionare. E la rincorsa all’immagine più scioccante non può funzionare, non aiuta la causa e non è difficile capirlo. In secondo luogo, bando a ogni tipo di violenza. Chi manifesta in piazza dovrebbe ormai sapere che basta una sbavatura per segnare una protesta con un’immagine che la contraddistinguerà per sempre, eppure inevitabilmente arrivano lo slogan da censurare e l’immagine del ministro appeso di turno. Chi scende in piazza per denunciare la violenza di un gesto, di una presa di posizione, di un modus operandi non può peraltro rispondere con la stessa moneta nascondendosi dietro un ruolo sociale differente dal bersaglio delle critiche, il ministro dell’istruzione in questo caso. La piazza ha i muscoli, così come li ha l’uomo di potere, in altri modi. Niente di nuovo, infatti lo ha scritto Alessandro Manzoni duecento anni fa nei Promessi Sposi, quando narrò le dinamiche della folla denunciando il pericolo di violenza e irrazionalità che sovrastano la volontà del singolo e portano ad azioni terribili e a istinti che, in branco, si manifestano. Renzo nei capitoli ambientati a Milano del romanzo è sconvolto dall’uomo che, nel mezzo della protesta, porta con sé l’occorrente per inchiodare alla porta il vicario di provvigione, il politico contro cui ci si sta scagliando. Sempre Renzo, un semplice “montanaro” - come lo definisce Manzoni, con la sua genuinità capisce che se la folla chiede pane e distrugge i forni, il pane non si potrà certo infornare nei pozzi. Infine, quel che più conta, la piazza non può esaurirsi con la manifestazione dello sdegno in attesa di una nuova adunata. Chi scende in piazza, dal giorno dopo dovrebbe mettersi al lavoro, valutando alternative a ciò che ha ritenuto intollerabile tanto da dedicare mezza giornata per contestare. Come? Leggendo, convocando assemblee, dialogando, soprattutto studiando. Le manifestazioni ambientaliste di questi anni sono state adunate oceaniche, ma la spinta propulsiva si è smorzata nel momento in cui il fierone del corteo ha preso il sopravvento sul tema culturale, forte, e su quello politico, ugualmente robusto. Le persone in marcia dovrebbero passarsi libri, a centinaia, dovrebbero darsi appuntamento in università per chiedere lezioni aperte di geografia e di scienze ambientali, dovrebbero commentare insieme i testi di studiosi come John McNeill che passa in rassegna con chiarezza, complessità e lucidità la storia dell’ambiente del XX secolo, dovrebbero chiedere a gran voce riflessioni politiche che tenessero conto delle sintesi scientifiche su queste tematiche. Eppure non c’è la percezione che tra un “Friday for Future” e l’altro tutto questo accada. Analogamente, quando si protesta per la scuola, il giorno successivo servirebbe che tutti invocassero stati generali per ripensarla daccapo, a cento anni dalla sua riforma gentiliana che ancora oggi le dà la sua forma ingessata e pensata per il primo quarto del secolo scorso. Bisognerebbe invitare chi può provare a farsene carico di mettercisi, convocando assemblee in parchi, teatri, riunioni online. Ancora una volta, leggendo e studiando, ascoltando e proponendo, studiando ancora. Gesù parlava con i dottori del tempio a dodici anni e teneva loro testa. Le attuali generazioni più giovani leggono e studiano per tenere testa alla generazione che li fa arrabbiare, o si limitano a passare da una protesta all’altra e da un corteo al prossimo?

Estratto dell’articolo di Gian Antonio Stella per il “Corriere della Sera” il 13 marzo 2023.

«Il Signor Maestro ci ha spiegato che gli italiani, siccome sono i più richiamati dalla Santa Provvidenza, hanno tredici comandamenti. I primi dieci della tavola di Mosè e poi c’è Credere, Obbedire, Combattere». C’è poi da stupirsi se tanti bambini degli anni Trenta, […] era al servizio del fascismo, si buttarono a capofitto dalla parte del Duce nella repubblica di Salò?

 No, risponde lo storico Gianni Oliva nel libro Il purgatorio dei vinti (Mondadori), dove spiega come parte di quella generazione finì nella sciagurata avventura repubblichina al fianco dei nazisti autori delle peggiori stragi e nefandezze della Seconda guerra mondiale. Fino a venir rinchiusi in campi di prigionia come quello di Coltano […]

Una storia poco nota e ricostruita attraverso le vicende politiche e umane di giovani prigionieri allora ignoti, come ovvio dato che molti avevano vent’anni o addirittura quindici o quattordici, ragazzini intrappolati dalla retorica mussoliniana […] al punto di cercar «la bella morte» […] Al netto delle memorie di qualche nostalgico, scrive Oliva, «Coltano appare soprattutto lo specchio dello smarrimento ideologico e morale lasciato dal 1943-45: molti dei prigionieri sono ragazzi del 1925-26, adolescenti o poco più infiammati dall’educazione littoria, avviliti dal “tradimento” dell’armistizio, indignati con il re e con Badoglio […]».

[…] si chiede lo storico, «dove sta la differenza tra il partigiano e il milite di Salò rinchiuso a Coltano? Tra il garibaldino, il badogliano, l’azionista e quello che si è arruolato tra i paracadutisti della Repubblica sociale, come Dario Fo? O è andato volontario nei bersaglieri di Mussolini, come Raimondo Vianello? È ancora Calvino a rispondere: la differenza è la storia. “C’è che noi, nella storia, siamo dalla parte del riscatto, loro dall’altra. Da noi, niente va perduto, nessun gesto, nessuno sparo, pur uguale al loro, m’intendi? uguale al loro, va perduto, tutto servirà se non a liberare noi a liberare i nostri figli, a costruire un’umanità senza più rabbia, serena, in cui si possa non essere cattivi”.

Ed ecco tante storie di tanti ragazzi. Da Walter Chiari a Giorgio Albertazzi, da Ugo Tognazzi a Mauro De Mauro, da Marcello Mastroianni a Enrico Maria Salerno, da Gorni Kramer a Carlo Mazzantini fino appunto a Raimondo Vianello, che oltre quarant’anni dopo, nel 1998, spiegherà in un’intervista alla rivista «Lo Stato» di Marcello Veneziani come e perché fece quella scelta chiudendo con una battuta: «Non rinnego né Salò né Sanremo».

[…] Nell’immaginario collettivo i repubblichini rappresentavano «il male assoluto». Su cui scaricare le responsabilità anche di quanti nel Ventennio si erano spellati le mani per Mussolini. Ed è proprio su questo punto che Il purgatorio dei vinti, citando Rosario Romeo («La Resistenza, opera di una minoranza, è stata usata dalla maggioranza degli italiani per sentirsi esonerati dal dovere di fare fino in fondo i conti con il proprio passato») batte e ribatte: «Quando mai i manuali e i docenti ci hanno insegnato che l’Italia ha perso la guerra? Per tutti noi, cresciuti nella cultura dell’Italia repubblicana, la fine del secondo conflitto mondiale è il 25 aprile, l’insurrezione partigiana nelle città del Nord, i giorni radiosi della Liberazione. La “vulgata” antifascista ha preso l’unica esperienza del 1940-45 che ci metteva dalla parte giusta della storia, la Resistenza, e l’ha trasformata nella foglia di fico dietro cui nascondere colpe, corresponsabilità, vergogne».

[…] Il senso, traduce Oliva, è che «vi è stato un ventennio di dittatura fascista che ha dominato gli italiani con la forza della coercizione e ha tenuto il Paese legato insieme con il filo di ferro della repressione e della paura, e vi è una nuova Italia che, prima con l’antifascismo clandestino, poi con la cobelligeranza e la Resistenza partigiana, ha concluso la guerra nel fronte dei vincitori» […] Per dirla con Benedetto Croce, il fascismo fu solo «una parentesi». Ma fu davvero così? Risponde lo storico torinese: «Si tratta di una rielaborazione storicamente impropria che dimentica le folle di giovani in delirio il 10 giugno 1940 quando il Duce annuncia da Palazzo Venezia l’entrata in guerra contro la Francia e la Gran Bretagna […]».

Senza fare i conti col passato: «La criminalizzazione di Salò serve soprattutto ad assolvere tutti coloro che sono stati fascisti sino al 25 luglio e che negli anni del regime hanno costruito carriere, ricevuto onori, lucrato fortune più o meno illecite». Una scelta che peserà, e Dio sa quanto, sulla storia a venire...

Per l’Anpi commemorare quel ragazzo massacrato nel 1975 nell’istituto Molinari di Milano è un’iniziativa «deviante». Daniele Zaccaria Il Dubbio il 13 marzo 2023

Secondo l’Anpi commemorare Sergio Ramelli nell’istituto tecnico che aveva frequentato è un’iniziativa «deviante» che confonde i nostri giovani, «un episodio estrapolato da una situazione storica che va contestualizzata». Un linguaggio orrendo e involuto per dire che, in sostanza, quel ragazzo massacrato in modo barbaro davanti il portone di casa non merita un ricordo pubblico perché era un militante di estrema destra, un iscritto al Fronte della gioventù, insomma un “fascista”.

Di certo a non sapere chi fosse Ramelli era il gruppetto di giovani che ha ha contestato la cerimonia in presenza della sottosegretaria all'Istruzione Paola Frassinetti, inscenando un piccolo presidio davanti all'Itis Molinari di Milano assieme agli esponenti della Rete Milano Antifascista Antirazzista Meticcia e Solidale, e dei sindacati di base Adl Cobas e Usb. «Lo diciamo senza censure, Ramelli era un picchiatore fascista!», ringhiano gli studenti. E con loro anche alcuni professori dell’istituto, una cosa questa che fa davvero impressione. Perché se l’ignoranza di un liceale è fisiologica e tollerabile, quella del suo insegnante diventa imperdonabile.

Lo sanno i docenti barricaderi del Molinari che Ramelli quando venne assassinato aveva l’età dei loro figli? Gli stessi per i quali si tormentano ogni giorno a causa di un’unghia scheggiata, una linea di febbre o magari perché si sono annoiati al corso di nuoto.

Sergio Ramelli fu ucciso il 13 marzo del 1975 alle 12.50 mentre rientrava a casa dalla scuola. Frequentava l’ultimo anno di un istituto privato perché al Molinari non poteva più starci, i collettivi antifascisti lo avevano puntato e picchiato a più riprese, una volta anche davanti al padre accorso a chiedere spiegazioni ai dirigenti scolastici: «Sergio è motivo di turbamento per tutti», fu il raggelante commento della preside prima che gli suggerisse di cambiare scuola.

Il commando era composto da militanti del servizio d’ordine di Avanguardia operaia. Lo avevano pedinato per diversi giorni, volevano conoscere orari e abitudini per essere sicuri di non fallire, di dargli la lezione che meritava. A sferrare i colpi sono Marco Costa e Giuseppe Ferrari Bravo (verranno condannati per omicidio preterintenzionale) e lo fanno con violenza inaudita, volteggiando la famigerata Hazet 36 la chiave inglese marchio di fabbrica della caccia ai “neri” e dell’antifascismo militante negli anni di piombo.

«Si stava coprendo il capo, io gli tiro giù le mani e lo colpisco , lui è stordito e si mette a correre, si trova il motorino tra i piedi e inciampa, cado con lui e lo colpisco un’altra volta, non so dove, al corpo, alle gambe», ha raccontato Costa durante il processo. Meno nitidi i ricordi di Ferrari Bravo: «Fu così breve che ebbi la sensazione di non aver portato a termine il mio compito». E invece lo avevano portato a termine: Ramelli è sdraiato a terra in una pozza di sangue, sul marciapiede ci sono alcuni frammenti di materia cerebrale. È in coma e muore 17 giorni dopo in un letto di ospedale.

Sergio Ramelli non proveniva da una famiglia fascista, i genitori votavano democrazia cristiana e non si interessavano di politica. Si iscrive al Fronte della gioventù a 16 anni per anticonformismo, al Molinari come in quasi tutte le scuole dell’epoca gli studenti di sinistra erano infatti la stragrande maggioranza. Inizialmente i camerati lo scambiano per una “zecca” perché aveva i capelli lunghi e non proprio l’aria dell’estremista attaccabrighe. Timido e taciturno non è mai stato un picchiatore uno che amava lo scontro fisico, ma neanche il fervore ideologico, «apprezzava Adriano Celentano ed era tifoso dell’Inter ma senza fanatismo», racconta la madre Anita a Luca Telese in Cuori Neri. Il fatto che sia stato identificato come un minaccioso squadrista fa parte di un vero e proprio processo di psicosi collettiva alimentata dal furore politico di quei tempi balordi.

Tutto inizia con un tema di italiano in cui Ramelli critica le Brigate Rosse definite un pericolo per la democrazia e un’organizzazione manovrata dall’alto. Quel compito in classe finisce non sa come nelle mani di un leaderino studentesco che appende i fogli protocollo in bacheca accanto a una scritta: “Ecco il tema di un fascista”. Così comincia la persecuzione di Ramelli e la catena di eventi che porterà al suo omicidio. Un giorno alcuni esponenti dei collettivi entrano nella sua classe e lo trascinano qualche minuto per i corridoi per sottoporlo a una breve gogna tra gli applausi dei compagni e l’indifferenza dei professori. Un’altra volta lo bloccano per le scale e lo pestano fino a fargli perdere i sensi. Le cose precipitano in un’escalation irrefrenabile che Ramelli accetta stoicamente, non chiedendo mai aiuto a nessuno, neanche ai suoi camerati, e finché gli è stato possibile, nascondendo tutto alla famiglia. Una morte annunciata quella del ragazzino milanese con lo sfregio finale dei commenti sarcastici dei suoi vecchi professori e il licenziamento di Anita Ramelli dalla tipografia in cui lavorava perché «madre di un fascista».

Una storia raccapricciante quella di Sergio Ramelli, che l’Anpi dovrebbe rispettare invece di infangare con le sue stucchevoli lezioncine, ma evidentemente per loro quel ragazzino massacrato a colpi di chiave inglese non merita neanche un fiore.

«La scuola è il presidio della Costituzione. Sull’antifascismo non può essere neutrale». Ai miei tempi, in classe si parlava dei meccanismi della Repubblica. Dei diritti e dei doveri dei cittadini. Anche quello era un modo di fare politica. Oggi all’insegnante si chiede di non sbilanciarsi sull’attualità. Ma i giovani vanno educati alla partecipazione. Viola Ardone su L’Espresso il 13 settembre 2023.

Quando andavo alla scuola elementare, la maestra ci faceva cantare Bella ciao prima che iniziassero le lezioni. Era un rito laico quotidiano, un modo per dirsi buongiorno e per ricordare da dove proveniva la scuola pubblica nella neonata Repubblica italiana. Non c’entrava la politica, anche se era una scelta politica.

La bandiera dell’antifascismo era come una sola larga coperta che abbracciava tutto l’arco costituzionale e non solo un partito. Alla scuola media la professoressa di Storia faceva accurate lezioni sui meccanismi della Repubblica, sugli organi e i poteri dello Stato, sui diritti e i doveri dei cittadini. Era politica anche quella, evidentemente, i ragazzini dovevano sapere che cos’era stata la dittatura e che cos’è la democrazia. Sapere distinguere, fare le differenze: anche questo è politica. La scuola era la capitale dell’antifascismo, piantonava la Costituzione.

Oggi da insegnante mi sembra che tutto questo dalla scuola sia quasi sparito. Lo studio della Storia e dell’Educazione civica ha un ruolo sempre più marginale nel monte ore e l’insegnante che porta l’attualità in classe viene guardato talvolta con sospetto.

Si pretende che il docente abbia un ruolo neutrale, che non abbia o almeno non manifesti un’idea sul presente sul passato e sul futuro. E se il numero dei votanti cala di tornata in tornata elettorale il motivo è anche da ricercare in questo “congelamento” della scuola rispetto alle tematiche dell’attualità, della contemporaneità, della politica in generale.

Le nuove generazioni vanno educate alla partecipazione, certamente non suggerendo loro per chi votare (come se poi loro facessero quello che diciamo noi!) ma spiegando che in quel congegno fragile e imperfetto che è la democrazia risiede l’unico antidoto al pensiero unico, alla censura, alla violenza. E che non bisogna mai aver paura di sostenere le proprie idee con le armi del dialogo e del confronto.

Una dirigente scolastica che commenta un gravissimo episodio di violenza e che citando Gramsci condanna il fascismo e l’indifferenza di quelli che non vi si oppongono con fermezza, è una persona che sta facendo “politica” nel senso più nobile del termine. Una preside che autorizza gli alunni a tenere un’assemblea di istituto per discutere di droghe leggere e legalizzazione e si vede arrivare la polizia a scuola a interrompere il dibattito, come è successo recentemente a Piazza Armerina, sta facendo “politica”, cioè sta insegnando a ragionare, a discutere e a confrontarsi. Un professore che il giorno dopo la tragedia di Cutro stigmatizza le parole del ministro dell’Interno che colpevolizza le vittime invece che spronare alla solidarietà sta facendo politica, perché il principio solidarista è uno dei principi cardini della Costituzione antifascista.

Sarà forse per questo che, il giorno dopo l’aggressione neofascista di Firenze, ho sentito il bisogno di condividere in classe con i miei alunni le parole della preside Savino e mi è tornata in mente la mia maestra di tanti anni fa che, nel suo completo beige e camicetta bianca, si alzava in piedi e insieme a noi intonava le parole di un vecchio canto che comincia così: «Una mattina, mi son svegliata…».

Se la scuola chiude ai «fascisti» ma apre a Cospito. Andrea Soglio su Panorama il 27 Febbraio 2023.

In un istituto di Roma parlerà il legale del detenuto al carcere duro in un convengo contro il 41 bis. E nessuno protesta, nessuno prova ad equilibrare la cosa. Eppure, basterebbe poco

Siamo reduci da una settimana che ha avuto al centro delle cronache e delle polemiche politiche il pestaggio (dai contorni tutti ancora da appurare vista la ridda di versioni esistenti) avvenuto tra studenti di destra contro altri di sinistra all'esterno di un Liceo di Firenze. Un fatto deprecabile che ha ottenuto le prime pagine dei giornali per la successiva circolare inviata agli studenti dalla Preside dell'Istituto che parlava di deriva e pericolo fascista nella scuola ed in Italia. Inutile dire che Annalisa Savino, la direttrice della scuola, è stata subito assunta a paladina di libertà, diritto, difesa del bene e del giusto e non solo dal mondo politico-giornalistico di sinistra. Al suo fianco infatti si è schierata ad esempio l'associazione nazionale presidi: «La lettera della preside del liceo di Firenze, Annalisa Savino, è un esempio di sensibilità civile e di pedagogia repubblicana» hanno scritto. Verrebbe da chiedere ad entrambi, alla novella paladina del bene e del giusto, ed ai vertici dell'associazione cosa ne pensano invece dell'iniziativa di un altro Istituto Superiore di Roma, il Mamiani dove è stato invitato a parlare l'avvocato di Alfredo Cospito, il leader anarchico in sciopero della fame da quasi quattro mesi per protestare contro il regime di carcere duro, il cosiddetto 41 bis, a cui è stato condannato come confermato pochi giorni fa dalla Cassazione. Per l'ennesima volta. Tutto nasce dall'iniziativa del Collettivo Autorganizzato Mamiani che ha dedicato a questo tema un'assemblea degli studenti, invitando appunto il legale di Cospito. Se pensate si tratti di un appuntamento «super partes» con il quale si vuole fare informazione chiara ed approfondita sul tema beh, sappiate che gli stessi componenti del Comitato hanno con orgoglio affermato che «Abbiamo aderito alle piazze in suo sostegno esprimendo fermamente la nostra opposizione alla sua detenzione forzata». Insomma, vista l'aria che tira l'assemblea si trasformerà più che in uno spazio di formazione e confronto in un assalto al 41 bis, per la gioia di Cospito, di qualche decina di boss mafiosi. Il Preside della scuola si è limitato a dare l'autorizzazione all'incontro, con il benestare alla lista degli ospiti. E con questo se ne sono lavati le mani. Resta il fatto che, ancora una volta, si lascia spazio aperto alla politica dentro quello che è il luogo sacro dell'educazione e della formazione. Resta in fatto che se una cosa del genere invece che in favore di un anarchico fosse stata organizzata a favore di un estremista di destra avremmo avuto i picchetti contrari (come accaduto alla Sapienza, lo ricordate) al grido di «Fuori i Fasci dalla scuola!». Che esista una disparità politica nel mondo della scuola è risaputo, da sempre. E forse non è più nemmeno un errore portare la politica DENTRO la scuola. Il problema è che non c'è equilibrio, c'è semper e solo una campana, tra l'altro sempre quella. Eppure sarebbe stato semplice riequilibrare il tutto. Sarebbe bastato che il Preside avesse imposto ai ragazzi del Comitato di invitare anche Roberto Adinolfi, l'ex dirigente di Ansaldo, gambizzato con lo stile delle Brigate Rosse proprio da Cospito. Per completezza di informazione e soprattutto di «formazione» dei ragazzi che, devono capire bene chi sia la vera vittima.

Estratto dell’articolo di Sara Bernacchia per “la Repubblica” il 6 marzo 2023.

Andrea Di Mario, preside del liceo classico Carducci di Milano, sceglie una circolare per condannare l’affissione davanti alla scuola dello striscione “Ma quale merito, la vostra è solo violenza” con la A simbolo di anarchia e accompagnato dai volti della premier Meloni e del ministro dell’Istruzione del Merito, Giuseppe Valditara, appesi a testa in giù.

 Lo definisce un gesto «brutale, brutto, violento, pesante», espressione di un linguaggio e di modi «per noi completamente inediti e preoccupanti e che rifiutiamo». E scrive a studenti e famiglie per ribadire che la scuola - l’istituto, tra l’altro, si trova a pochi metri da piazzale Loreto - continuerà «come sempre e sempre più a promuovere i valori della democrazia, della tolleranza e del pluralismo», scegliendo come strumento «il confronto» e rifiutando «la logica da curva violenta».

La circolare di Di Mario arriva sabato sera, idealmente per mettere il punto su una vicenda da cui anche gli studenti del Carducci si sono dissociati con forza e la cui responsabilità, secondo gli investigatori, sarebbe da attribuire a pochi soggetti isolati. A riaprirla, però, è il ministro Valditara, che pubblica su Twitter il testo e fa i «complimenti ad un preside coraggioso, consapevole del suo alto ruolo istituzionale».

Il paragone con il commento - di tutt’altro genere, però - riservato alla circolare con cui Annalisa Savino, preside del liceo Leonardo Da Vinci di Firenze, all’indomani del pestaggio fuori da un altro liceo fiorentino ha sollecitato i propri allievi a non essere indifferenti e ha avvicinato l’aggressione a quelle fatte agli albori del fascismo, è inevitabile così come la polemica. […]

Intanto, chiarita la posizione dell’istituto nella circolare, il preside del Carducci sceglie di non intervenire ulteriormente in un dibattito ormai solo politico. Del resto l’invito a non banalizzare parole e situazioni lo aveva già fatto nel testo: «Abbiamo ricevuto un danno, doloroso, rispetto a tutto quello che in questa scuola si sta facendo e non vogliamo che i nostri studenti siano vittima di un circuito, banale, che banalizza la stessa lettura della realtà».

Scontri a Firenze, il deputato Marco Furfaro pubblica la foto dei presunti colpevoli. Christian Campigli su il Tempo il 19 febbraio 2023

La violenza è l'antitesi della politica. La prima porta automaticamente all'estinzione della seconda. Un concetto basilare, ma che, evidentemente, a Firenze ancora non riesce a essere compreso da tutti. La scazzottata di fronte al liceo classico Michelangiolo, tra gruppi di sinistra e attivisti di destra, non può che essere giudicata per quello che è: un atto stupido, ingiustificabile, che deve essere fermamente condannato. Ma da entrambe le parti. Perché più passano le ore, più quella che la sinistra da salotto, che abita nelle ville in collina e d'estate si ritrova a Capalbio, aveva bollato come "l'ennesimo episodio di squadrismo fascista" si sta, piano piano, trasformando in una cruenta (e stupida) cavalleria rusticana tra adolescenti. Sia chiaro, nessuna giustificazione. Chi ha commesso dei reati, se ce ne sono, dovrà essere condannato. Ma da un giudice togato. Non da qualche prezzolato intellettuale progressista.

In queste ore convulse, durante le quali la sinistra ha manifestato la volontà chiara non di giungere alla verità ma di colpire Giorgia Meloni, Fratelli d'Italia e tutto l'universo conservatore, abbiamo assistito anche a un deputato pistoiese, Marco Furfaro, eletto nelle liste del Partito Democratico, che ha postato su Twitter una foto. Nella quale, senza nessun pixellaggio (ovvero quella tecnica con la quale si possono oscurare i volti delle persone presenti nell'istantanea), espone in bella mostra il viso dei presunti colpevoli. Presunti, appunto. Perché al momento non c'è nemmeno un avviso di garanzia. Invece il deputato, ignaro che alcuni di quei ragazzi sono minorenni, li espone al pubblico giudizio. E magari a qualche azione ritorsiva dei gruppi di estrema sinistra presenti nel capoluogo toscano. Insomma, un clamoroso autogol. Che ha spaventato, e non poco, i genitori di questi adolescenti. Che magari hanno sbagliato, magari hanno commesso anche uno o più reati ma che hanno il sacrosanto diritto di essere giudicati da un tribunale della Repubblica Italiana. E non da una giuria di tromboni progressisti. 

"Facciamo girare le loro foto...". Ora gli antifà schedano i ragazzi di destra. I compagni schedano i militanti di Azione studentesca: "Tutti devono riconoscerli". Matteo Carnieletto il 23 Febbraio 2023 su il Giornale.

"Vogliamo fare un applauso a quel compagno che si è buttato in mezzo a quei bastardi che stavano prendendo a pedate un altro ragazzo. Vogliamo anche rivendicare di aver fatto girare la foto di quegli stronzi. Quella foto gira non per servire una strategia repressiva ma perché la faccia di quei pezzi di merda deve essere conosciuta da tutti. Si devono riconoscere quando vanno a prendere il caffè. Quando vanno dall'ortolano. Quando vanno a fare la spesa. Quando vanno sulla tramvia. Perché quel peso se lo devono sentire addosso". A parlare è un "compagno" del centro popolare autogestito Firenze sud durante il corteo antifascista di ieri. Quello, dove per intenderci, i manifestanti hanno urlato minacce contro il presidente del Consiglio (Meloni fascista, sei la prima della lista) e slogan inneggianti a Josip Broz Tito e alle foibe. Gli stronzi in questione sono i ragazzi di Azione studentesca, coinvolti in una rissa di fronte al liceo Michelangiolo di Firenze il 18 febbraio scorso.

Su queste pagine, abbiamo già avuto modo di spiegare come la storia raccontata dai "giornaloni" di sinistra sia per lo meno parziale. Quello che colpisce, ora, è l'atteggiamento degli antifascisti fiorentini, le vittime di questa storia.

Negli ultimi mesi non solo si sono segnalati per violenza. Ora stanno facendo anche girare le foto dei ragazzi di destra affinché vengano riconosciuti. "Non per una strategia repressiva", sia chiaro. Non perché qualcuno li possa riconoscere e magari menare. Ma solo perché affinché possano portarsi addosso il peso di aver pestato altri ragazzi.

Ora: non vogliamo scomodare l'antico adagio latino "excusatio non petita, accusatio manifesta" (scusa non richiesta, accusa manifesta"). Ci basta solo ricordare una storia.

Sono i primi mesi del 1975 e un ragazzo di Milano, che a vederlo sembra un capellone, scrive un tema in cui condanna duramente le Brigate rosse. Il tema viene letto in classe dal professore, a voce alta. È l'inizio del processo. Il tema viene sottratto e affisso in corridoio. Tutti devono sapere cosa pensa quel capellone. Tutti, vedendolo, devono fargli sentire addosso il peso delle sue parole. Passano i giorni. Questo ragazzo dal viso pulito continua a fare quello che ha sempre fatto. Studia e fa politica.

Il 13 marzo, però, accade qualcosa di diverso. Il capellone parcheggia il motorino in una via non distante da casa. Comincia ad assaporare il rientro. La mamma, la famiglia pronta ad abbracciarlo e, forse, pronta a tirare un sospiro di sollievo vedendolo tornare a casa ancora una volta. Ma questi pensieri vengono interrotti.

Mentre sta camminando, infatti, quel ragazzo viene colpito con una violenza inenarrabile da diversi colpi di chiave inglese. Uno. Due. Tre. Contarli è un esercizio inutile. Ancora. Il ragazzo prova a difendersi ma non c'è più nulla da fare. Attorno a lui c'è solo un lago di sangue. I compagni di Avanguardia operaia vogliono portare a termine il compito. Qualcuno urla di piantarla. Che se continuano così lo ammazzano. Ma è troppo tardi. I capelli, una volta morbidi, di quel ragazzo sono ora imbrattati di sangue. Quel ragazzo non si sveglierà più. Passerà 47 giorni in coma prima di morire. Quel ragazzo era Sergio Ramelli. Quel ragazzo doveva portare addosso il peso di aver scritto quelle parole.

«ll fascismo è nato con i pestaggi nei marciapiedi, ignorati dagli indifferenti»: la lettera da applausi della preside. L’Espresso il 22 Febbraio 2023

Il documento della dirigente scolastica del liceo scientifico Da Vinci Annalisa Savino, che cita Gramsci, rivolto agli studenti dopo il pestaggio squadrista avvenuto nella città e diventato virale sui social

Cari studenti,

in merito a quanto accaduto lo scorso sabato davanti al liceo Michelangiolo di Firenze, al dibattito, alle reazioni e alle omesse reazioni, ritengo che ognuno di voi abbia già una sua opinione, riflettuta e immaginata da sé, considerato che l’episodio coinvolge vostri coetanei e si è svolto davanti a una scuola superiore, come lo è la vostra. Non vi tedio dunque, ma mi preme ricordarvi solo due cose.

Il fascismo in Italia non è nato con le grandi adunate da migliaia di persone. È nato ai bordi di un marciapiede qualunque, con la vittima di un pestaggio per motivi politici che è stata lasciata a sé stessa da passanti indifferenti. "Odio gli indifferenti" - diceva un grande italiano, Antonio Gramsci, che i fascisti chiusero in un carcere fino alla morte, impauriti come conigli dalla forza delle sue idee.

Siate consapevoli che è in momenti come questi che, nella storia, i totalitarismi hanno preso piede e fondato le loro fortune, rovinando quelle di intere generazioni. Nei periodi di incertezza, di sfiducia collettiva nelle istituzioni, di sguardo ripiegato dentro al proprio recinto, abbiamo tutti bisogno di avere fiducia nel futuro e di aprirci al mondo, condannando sempre la violenza e la prepotenza. Chi decanta il valore delle frontiere, chi onora il sangue degli avi in contrapposizione ai diversi, continuando ad alzare muri, va lasciato solo, chiamato col suo nome, combattuto con le idee e la cultura. Senza illudersi che questo disgustoso rigurgito passi da sé. Lo pensavano anche tanti italiani per bene 100 anni fa ma non è andata così.

Estratto da open.online il 23 Febbraio 2023.

Un professore che lavora al liceo Michelangiolo di Firenze racconta oggi a La Nazione la sua versione dell’agguato. E punta il dito contro i Collettivi di sinistra. Anche se non vuole che il giornalista faccia il suo nome. Perché la sua «è una scuola molto politicizzata».

 Così, secondo il testimone, si è accesa la miccia: «C’era questo volantinaggio dei ragazzi della destra. Sono usciti quelli dei Collettivi e hanno cominciato ad insultarli e strappare i volantini. Hanno tirato delle spinte e a quel punto quelli di Azione Studentesca hanno cominciato a picchiare. E sicuramente hanno esagerato».  […]

La dirigente del Leonardo da Vinci di Firenze. Chi è la Preside della lettera antifascista: Annalisa Savino, il pestaggio al liceo Michelangiolo, l’uscita del ministro Valditara. Redazione su Il Riformista il 23 Febbraio 2023

Per il ministro dell’Istruzione Valditara quella lettera contro il fascismo è stata “impropria”, gli è “dispiaciuto leggerla”. L’avevano letta tutti o quasi la lettera della Preside del Liceo Leonardo Da Vinci di Firenze, Annalisa Savino, ispirata e scaturita dall’aggressione che si era consumata sabato scorso davanti al liceo Michelangiolo dello stesso capoluogo toscano. Parole di condanna al fascismo, perché quei sei ragazzi – tre maggiorenni e tre minorenni – facevano parte di Azione Studentesca. Sei contro due. La Procura di Firenze sta indagando.

Cari studenti – aveva scritto la dirigente – in merito a quanto accaduto lo scorso sabato davanti al liceo Michelangiolo di Firenze, al dibattito, alle reazioni e alle omesse reazioni, ritengo che ognuno di voi abbia già una sua opinione, riflettuta e immaginata da sé, considerato che l’episodio coinvolge vostri coetanei e si è svolto davanti a una scuola superiore, come lo è la vostra. Non vi tedio dunque, ma mi preme ricordarvi solo due cose. Il fascismo in Italia non è nato con le grandi adunate da migliaia di persone. È nato ai bordi di un marciapiede qualunque, con la vittima di un pestaggio per motivi politici che è stata lasciata a sé stessa da passanti indifferenti. ‘Odio gli indifferenti’ – diceva un grande italiano, Antonio Gramsci, che i fascisti chiusero in un carcere fino alla morte, impauriti come conigli dalla forza delle sue idee” .

Savino è diventata Preside del Leonardo Da Vinci nel settembre del 2021. Laureata in Filosofia, aveva studiato al liceo scientifico e all’Università di Firenze prima di abilitarsi all’insegnamento. Ha insegnato alla scuola primaria e vinto il concorso da dirigente. Ha diretto l’IC di Gambassi Terme e per otto anni l’IC Ghiberti di Firenze. Alla Leonardo da Vinci arrivava dopo dieci anni di direzione ma alla sua prima volta in una secondaria di II grado.

Mi piacerebbe comunicare il fatto che per me è una grande comunità, non mi piace l’idea di una scuola azienda, ma di un istituto come grande comunità educante. La scuola statale pubblica offre varie opportunità di studio e di crescita e per questo è una scuola inclusiva di per sé. Ovviamente questo per me vale anche per un liceo che si presenta ed è considerato come una scuola selettiva. Nella mia idea il liceo non seleziona, bensì è una scuola che promuove l’impegno e la forza di chi ce la mette tutta e lo fa dopo aver garantito a ciascuno pari opportunità e condizioni per potersi impegnare”, raccontava in un’intervista a Leomagazine.

La lettera “messaggio sui fatti di via della Colonna” della dirigente era diventata virale ieri sui media nazionali. E proseguiva: “Siate consapevoli che è in momenti come questi che, nella storia, i totalitarismi hanno preso piede e fondato le loro fortune, rovinando quelle di intere generazioni. Nei periodi di incertezza, di sfiducia collettiva nelle istituzioni, di sguardo ripiegato dentro al proprio recinto, abbiamo tutti bisogno di avere fiducia nel futuro e di aprirci al mondo, condannando sempre la violenza e la prepotenza. Chi decanta il valore delle frontiere, chi onora il sangue degli avi in contrapposizione ai diversi, continuando ad alzare muri, va lasciato solo, chiamato col suo nome, combattuto con le idee e la cultura. Senza illudersi che questo disgustoso rigurgito passi da sé. Lo pensavano anche tanti italiani per bene 100 anni fa ma non è andata così”.

Parole che non colpevolizzavano – degli aggressori erano stati diffusi sui social perfino le foto a volto scoperto -, che non incitavano ad alcuni tipo di violenza, che condannavano la violenza squadrista e fascista come fa la Costituzione. “Come non avere preoccupazioni in questo momento storico globale per il futuro di tutti noi? Il mio voleva essere un messaggio agli studenti affinché non fossero indifferenti a quanto accaduto a Firenze davanti al Liceo Michelangiolo. La peggior cosa è pensare che questi episodi non contino niente e che tutto sempre evolva verso più rosei orizzonti. La violenza politica è un pericolo e va sempre stigmatizzata”, aveva commentato Savino in un’intervista a Il Corriere della Sera.

Non dello stesso avviso il ministro. “È una lettera del tutto impropria, mi è dispiaciuto leggerla, non compete ad una preside lanciare messaggi di questo tipo e il contenuto non ha nulla a che vedere con la realtà: in Italia non c’è alcuna deriva violenta e autoritaria, non c’è alcun pericolo fascista, difendere le frontiere non ha nulla a che vedere con il nazismo o con il nazismo. Sono iniziative strumentali che esprimono una politicizzazione che auspico che non abbia più posto nelle scuole; se l’atteggiamento dovesse persistere vedremo se sarà necessario prendere misure”, ha detto il ministro a Mattino 5.

Prima di oggi nessun membro del governo Meloni si era espresso sulle violenze al liceo Michelangiolo: nessuno fino a oggi, Valditara è stato il primo.

La tristezza di vedere una preside lanciare «l'allarme fascisti», che non c'è. Federico Novella su Panorama il 23 Febbraio 2023

Sta facendo discutere quanto accaduto in un liceo fiorentino giorni fa e da cui la sinistra ha rilanciato l'ennesima allerta fascisti, con la complicità della dirigente della scuola e della sua lettera agli studenti

C’è poco da fare. Ogni occasione è buona per suonare l’allarme fascismo. Da ultimo, il fattaccio certamente deprecabile avvenuto al liceo Michelangelo di Firenze, dove alcuni ragazzi del movimento di destra Azione Studentesca hanno preso a calci e pugni quelli di sinistra. Certe cose vanno condannate duramente, e i responsabili puniti senza sconti. Siamo d’accordo. Ma approfittare di questo fatto per lanciare appelli alla Resistenza contro il rigurgito fascista, questo no. Eppure i proclami partigiani sono subito partiti, dapprima con l’etichettatura spiccia del sindaco Nardella, che ha parlato di “atto squadristico”. E poi tramite una lettera-manifesto firmata da Annalisa Savino, la preside di un altro liceo fiorentino, il Da Vinci: “Il fascismo in Italia non è nato con le grandi adunate da migliaia di persone – scrive - È nato ai bordi di un marciapiede qualunque con la vittima di un pestaggio per motivi politici che è stata lasciata a sé stessa”. Non solo, la suddetta preside aggiunge una postilla politica significativa: “Chi decanta il valore delle frontiere va chiamato con il suo nome”. Un’equazione limpida, su carta intestata della scuola pubblica: difendere le frontiere uguale fascismo. Così è davvero troppo. Il Ministro Valditara stamattina ha scelto di intervenire, per condannare una lettera “impropria”: “Non compete a una preside lanciare messaggi di questo tipo: in Italia non c'è alcuna deriva violenta e autoritaria, non c'è alcun pericolo fascista, difendere le frontiere non ha nulla a che vedere con il nazismo. Sono iniziative strumentali che esprimono una politicizzazione che auspico che non abbia più posto nelle scuole”. Il ministro effettivamente centra il problema. Ciò che è accaduto in quel liceo è grave e va perseguito. Ma approfittare dell’accaduto per gridare al regime, al ritorno delle armate delle tenebre in camicia nera, significa strumentalizzare politicamente i ragazzi: tutti i ragazzi, gli aggressori e gli aggrediti. I quali diventano pedine manovrate a piacimento per fini squisitamente politici. La reazione scomposta dei dirigenti scolastici ci fa capire che in Italia restano ancora in piedi, granitiche, le casematte culturali di certa sinistra vetero-marxista. Le ultime ridotte intellettuali che passano da certi licei fino alle grandi kermesse come il Salone del Libro. Chi non si allinea è fascista in automatico. Un clima di semi-terrore ben rappresentato dalle parole di un testimone che insegna sempre al Liceo Michelangelo, il quale intervistato da “La Nazione” , racconta che ad accendere la miccia dello scontro sarebbero stati in realtà gli studenti dei collettivi di sinistra. Perché questo docente non è intervenuto? Per gli stessi motivi per cui oggi chiede di restare anonimo: “Questa è una scuola molto politicizzata, vorrei continuare a lavorarci senza problemi”. Insomma, chi accetta la vulgata antifascista è in regola: chi parla è perduto. Se questo è il senso critico coltivato nelle scuole, povere le nuove generazioni.

"Il fascismo è nato così...". La retorica che piace solo a sinistra. Marco Leardi il 22 Febbraio 2023 su il Giornale.

La missiva di una preside dopo la rissa al Michelangiolo di Firenze: "Fascismo nato ai bordi di un marciapiede". Nessun riferimento alle violenze antifasciste. E la sinistra plaude

"Ho voluto fornire spunti di riflessione ulteriori...". Le intenzioni erano sicuramente sincere. Peccato che la lettera scritta dalla preside di un liceo fiorentino dopo la rissa studentesca del 18 febbraio scorso abbia di fatto alimentato le divisioni. Nella pagina firmata da Annalisa Savino - dirigente scolastica dell'istituto "Leonardo Da Vinci" - ci abbiamo infatti ritrovato molta retorica e quale dimenticanza. La preside difatti ha evocato il fascismo e i totalitarismi senza menzionare nemmeno di striscio le provocazioni antifasciste che a Firenze avevano reso il clima tesissimo, contribuendo poi a far sfociare le agitazioni nel deprecapile episodio del Michelangiolo.

La lettera della preside

"Il fascismo in Italia non è nato con le grandi adunate da migliaia di persone. È nato ai bordi di un marciapiede qualunque, con la vittima di un pestaggio per motivi politici che è stata lasciata a se stessa da passanti indifferenti. 'Odio gli indifferenti', diceva un grande italiano, Antonio Gramsci, che i fascisti chiusero in carcere fino alla morte, impauriti come conigli dalla forza delle sue idee", ha scritto la dottoressa Savino nella missiva indirizzata gli studenti, alle loro famiglie e al personale scolastico. Argomentazioni che ci convincono poco e che riteniamo viziate da qualche azzardo nell'analisi. Innanzitutto evocare la nascita del fascismo a fronte di una brutta rissa per motivi politici ci pare un'esagerazione. Anche perché su quel marciapiede non c'erano solo gli studenti di destra ma anche i loro coetanei di sinistra. Ed entrambi, a quanto pare, avrebbero concorso all'epilogo violento.

Le provocazioni antifasciste e l'indifferenza

Nei giorni precedenti al pestaggio al liceo, peraltro, a Firenze si erano verificate minacciose provocazioni provenienti dagli ambienti antagonisti. Prima della rissa al Michelangiolo - secondo quanto ricostruito da una nostra fonte - i collettivi di Sum avevano persino organizzato una spedizione punitiva contro i ragazzi di Azione studentesca. Ma in quel caso tutto era avvenuto sotto una certa "indifferenza" (per richiamare Gramsci, giustappunto). Forse la preside del liceo "Da Vinci" non ne era informata.

"I totalitarismi in momenti come questi..."

Rivolgendosi ai destinatari della missiva, la dirigente scolastica ha poi aggiunto: "Siate consapevoli che è in momenti come questi che, nella storia, i totalitarismi hanno preso piede e fondato le loro fortune, rovinando quelle di intere generazioni. Nei periodi di incertezza, di sfiducia collettiva nelle istituzioni, di sguardo ripiegato dentro al proprio recinto, abbiamo tutti bisogno di avere fiducia nel futuro e di aprirci al mondo, condannando sempre la violenza e la prepotenza". Anche qui però ci permettiamo di dissentire. Scomodare i totalitarismi in riferimento all'attualità ci sembra infatti una forzatura.

Ancor più opinabile il successivo passaggio della lettera: "Chi decanta il valore delle frontiere, chi onora il sangue degli avi in contrapposizione ai diversi, continuando ad alzare muri, va lasciato solo, chiamato con il suo nome, combattuto con le idee e con la cultura. Senza illudersi che questo disgustoso rigurgito passi da sé. Lo pensavano anche tanti italiani per bene cento anni fa ma non è andata così". All'indomani di una scazzottata a sfondo politico, tuttavia, simili argomentazioni rischiano di accentuare ancor più certe divergenze. Non sarebbe stato più semplice ribadire - senza troppi giri di parole - che la violenza è da combattere sempre, comunque la si pensi in politica?

"Riflessione pacata", il plauso di Nardella

La lettera, come accennato, ha ottenuto plausi da sinistra. "Grazie alla Preside del liceo 'Leonardo Da Vinci' per questa riflessione chiara e pacata. Firenze sarà sempre antifascista", ha scritto sui social il sindaco di Firenze, Dario Nardella. E agli antifascisti violenti (quelli che inneggiano alle foibe e lanciano petardi contro la polizia) nessuno dice niente?

Basta scuola di parte. Anche oggi (e pure domani e anche dopodomani probabilmente) la sinistra ha il suo nemico del giorno. Francesco Maria Del Vigo su Il Giornale il 24 febbraio 2023.

Anche oggi (e pure domani e anche dopodomani probabilmente) la sinistra ha il suo nemico del giorno. Il bersaglio contro il quale scaricare il proprio arsenale di odio politico e, in alcuni casi, financo antropologico. Il cattivo del giorno che - ormai è anche pleonastico ripeterlo -, viene tacciato di non-sufficiente-antifascismo, filo fascismo, protofascimo, insomma mettete un po' il prefisso che vi pare purché si parli di fascismo, è Giuseppe Valditara, ministro dell'Istruzione e del Merito. Il quale ha sicuramente il merito di non bazzicare i luoghi comuni e di dire le cose fuori dai denti. Magari, a volte, anche un po' troppo. Ma non in questo caso. Facciamo un piccolo sunto dei fatti, con la premessa necessaria che si tratta di eventi di questi giorni e non degli anni Settanta. Il 18 febbraio, a Firenze, un gruppo di ragazzi di Azione studentesca aggredisce fuori dal liceo scientifico «Leonardo da Vinci» alcuni coetanei di sinistra. Un gesto criminale del quale si sta occupando l'autorità giudiziaria. Due giorni dopo - lunedì 20 -, la sinistra, gli antagonisti e i centri sociali scendono in piazza per chiedere la «liberazione dal fascismo e dal governo Meloni». C'entra come i cavoli a merenda con la rissa, ma facciamo finta di niente. Incidentalmente i sinceri difensori della democrazia inneggiano alle foibe, a Tito e minacciano di morte la premier («Meloni fascista, sei la prima della lista», originale eh?), ma facciamo finta di niente anche in questo caso. Non c'è molto da stupirsi: la sinistra ha occupato l'intera campagna elettorale gridando al ritorno delle camicie nere e alla fine qualcuno ha finito per crederci, come era ampiamente prevedibile. Ma la questione è un'altra: il clima è rovente, gli animi surriscaldati, le passioni politiche esasperate e cosa pensa di fare la preside del Michelangelo? Scrive una circolare infuocata nella quale, dopo aver giustamente condannato l'agguato, sottolinea come il fascismo sia nato così (da una rissa per strada? Analisi raffinatissima...) e richiama tutti all'allerta democratica. Come cercare di spegnere un incendio con un Canadair pieno di benzina. Un gesto politico, certamente non didattico. Al quale il ministro dell'Istruzione, ieri, ha risposto con decisione: «É una lettera del tutto impropria, non compete ad una preside lanciare messaggi di questo tipo. Vedremo se sarà necessario prendere misure».

Una frase sensata che ha scatenato un putiferio di polemiche. I presidi sono la rappresentazione dello Stato e delle Istituzioni nelle scuole. Sono il presidio di legalità più vicino ai giovani. Non devono fare i piromani, semmai i pompieri. Non devono trasformare le aule e i corridoi dei licei in terreno di scontro per una guerra civile finita più di settant'anni fa, ma soprattutto non devono strumentalizzare e aizzare i ragazzi per fini politici. Altrimenti si finisce per delegittimare la scuola stessa: operazione che la sinistra, dal 1968 a oggi, porta avanti con grande pervicacia. Anche a colpi di circolari politicizzate.

Quei "cattivi maestri" dei giovani e la visione distorta della politica. Quanto accaduto a Firenze non è altro che conseguenza dell’ideologia: per un’idea, infatti, non si ricorre alla violenza. La causa è sempre la stessa: vedere nell’altro non un avversario ma un nemico, un mezzo con il quale affermarsi, costi quel che costi. Suor Anna Monia Alfieri su Il Giornale il 23 febbraio 2023.

Quanto accaduto a Firenze non è che uno dei tanti episodi della dilagante violenza fra i giovani. È certamente triste e al contempo interessante constatare che sempre più spesso i fenomeni di violenza avvengono o in famiglia o tra i giovani. A questi poi occorre aggiungere la non meno inquietante violenza delle strade legata a certe manifestazioni ispirate alla politica, o meglio, perché la politica è cosa ben diversa, a una visione distorta della politica e delle sue rivendicazioni. Ulteriore prova che si tratta di fenomeni che sono conseguenza dell’ideologia: per un’idea, infatti, non si ricorre alla violenza. La causa è sempre la stessa: vedere nell’altro non un avversario ma un nemico, un mezzo con il quale affermarsi, costi quel che costi. Che il fenomeno violento avvenga tra le mura domestiche, nei bagni di una scuola o sulla pubblica piazza, poco importa: l’altro non è un mio simile, non conta nulla, io basto a me stesso.

Altro fattore che sicuramente contribuisce a innescare la violenza tra i nostri giovani è la solitudine cui ormai da almeno tre decenni li abbiamo abbandonati. Cosa fa un adolescente quando torna da scuola e non ha altra alternativa se non l’ozio del parchetto o i tentacoli dei social, con le idee che circolano e che i nuovi mezzi di comunicazione contribuiscono ad amplificare? Ecco i cattivi maestri! La loro categoria abbraccia i settori più disparati: la pubblicità, gli influencer, certi cantanti e personaggi dello spettacolo e, aggiungiamoci, certi nostri politici. Perché si tratta di maestri cattivi? Perché i messaggi che diffondono sono ispirati alla logica del guadagno, della popolarità, del fare cassa alle spalle di chi non ha gli strumenti per comprendere l’inganno. In altre parole, i cattivi maestri intercettano e sfruttano la fragilità di chi li segue. Pensiamo ai messaggi violenti lanciati in prima serata dal palco di Sanremo, dalla Tv pubblica. E’ ovvio, che se chi occupa determinati ruoli o gode di una certa visibilità mediatica si lascia andare a comportamenti violenti, i giovani si sentiranno legittimati a fare lo stesso.

Allora, occorre invertire la rotta e fare nuove proposte ai giovani, proposte credibili e in grado conquistarli, ampliando le occasioni di aggregazione sana e costruttiva. Al di là delle molteplici e belle proposte già esistenti e provenienti dalle diverse realtà educative o del volontariato, anche la scuola può e deve fare molto: al mattino si sta in classe e si apprende, al pomeriggio si ritorna a scuola e si studia assieme o si svolgono attività con uno sguardo sempre proiettato all’altro, al suo bene. Non è educativo che un ragazzo di 15 anni trascorra i suoi pomeriggi nella noia del parchetto o del centro commerciale, né che abbia come unico impegno la palestra intesa non ad un benessere psicofisico ma come esaltazione del proprio io. E poi, mi si consenta di dire anche questo: ricordo che, quando ero ragazza, i miei amici i cui genitori avevano un’attività in proprio (un negozio, un bar, una ditta) aiutavano i loro genitori. Il figlio del padrone veniva affidato all’operaio più esperto e imparava il mestiere. Ora, ovviamente nel massimo rispetto della normativa giuslavoristica e della sicurezza sui luoghi di lavoro, smettiamola di dire che, se un ragazzo di 15 anni segue il proprio papà sul furgone, si cade nel reato di sfruttamento del lavoro minorile!

Ancora un’ultima considerazione: quale esempio sta offrendo la politica ai nostri giovani? Il governo eletto dai cittadini è continuamente oggetto di polemiche e di ostruzionismo. Non voglio prendere le parti di nessuno ma occorre che tutti i partiti compiano un esame di coscienza e si pongano la domanda: perché la mia parte politica non ha ottenuto la maggioranza? Come posso adempiere al mio mandato di opposizione in modo serio e costruttivo, non per il bene della mia parte ma per il bene pubblico? Quando si compiono delle scelte, occorre poi assumerne le conseguenze. È inutile, pertanto, condannare la violenza o i diversi fenomeni che la cronaca ci fa conoscere e poi fomentare quella stessa violenza accusando l’altra parte politica. È necessaria una nuova e motivata coerenza, una nuova etica nella politica. Non solo non si finanziano illegalmente i partiti, ma si rispetta un codice di comportamento, pur nella legittima dialettica. Chissà che una scuola nuova, liberamente scelta dai genitori, una scuola aperta alle diverse realtà benefiche operanti sul territorio, unita ad una politica diversa siano le due premesse al cambiamento e alla fine della violenza giovanile.

Estratto da video.repubblica.it il 25 febbraio 2023

Un nuovo video circolato nelle chat degli studenti del liceo Michelangiolo di Firenze documenterebbe in maniera nitida quanto accaduto sabato scorso. Dalle immagini del breve filmato si vede con estrema chiarezza come i ragazzi dei collettivi di sinistra abbiano provato a difendersi dall'aggressione dei militanti di Azione studentesca rimanendo però accerchiati nel giro di pochi istanti. I due studenti che stavano facendo volantinaggio davanti al liceo tentano di reagire ma vengono colpiti ripetutamente dai loro aggressori e gettati a terra. Non una rissa quindi ma una vera e propria spedizione punitiva. La Digos ha sequestrato i telefoni dei ragazzi indagati per analizzare video, foto e chat. Lesioni e percosse le ipotesi di reato.

Liceo di Firenze, l’ex preside: “Io insultato e mai difeso”. Libero Quotidiano il 25 febbraio 2023

Continua a far discutere quanto successo davanti al liceo Michelangiolo di Firenze, con la rissa scoppiata sabato scorso tra alcuni attivisti di Azione Studentesca e i militanti dei Collettivi di sinistra. Adesso a prendere la parola è un ex preside di quell'istituto, Massimo Primerano, che ha confessato di essere stato minacciato perché di destra. Nonostante questo, però, nessuno lo avrebbe mai difeso e supportato. L'uomo ha commentato un post del sindaco di Firenze, Dario Nardella, nel quale il primo cittadino esalta la lettera della dirigente scolastica del liceo Leonardo da Vinci.

Negli anni in cui ero preside, dal 2005 al 2012, lei era vicesindaco. In quel periodo, le violenze erano tutte di matrice anarchica ed i cosiddetti collettivi di sinistra non disdegnavano affatto di usare mezzi verbalmente e fisicamente violenti in nome di un antifascismo usato come slogan ed un modo di agire che niente aveva da invidiare ai metodi fascisti", ha scritto l'ex preside. Che poi ha raccontato di come gli fu "danneggiato lo scooter, giunsero minacce pesanti alcune delle quali sono sempre visibili nella bacheca all’ingresso del Liceo". Stando al racconto dell'uomo, lo slogan contro di lui era "Primerano fascista".

 Il paradosso, ha sottolineato l'ex preside, è che all'epoca fu pure "candidato in una lista di sostegno al Pd. Ma guarda caso né lei né alcuno dei suoi colleghi mi sostenne. Anzi accadde di peggio: ricevevo telefonate di sostegno forte da esponenti politici che il giorno seguente non disdegnavano di fare sia in consiglio comunale che sui giornali dichiarazioni apertamente critiche sul mio operato". Marcando la distanza con la preside che ha scritto la lettera sul fascismo, Primerano ha spiegato: "Non feci lettere agli studenti e neppure le inviai ai giornali per il rispetto al ruolo istituzionale che avevo cucito addosso. Mi aspetterei da politici seri una condanna contro qualunque forma di violenza indipendentemente da chi la pratica e non in base a chi la pratica, senza fare il tifoso. Chiedo troppo?".

"Siete morti". L'agguato choc degli studenti di sinistra. Il video esclusivo. L'aggressione nel maggio 2022 agli studenti di Azione universitaria a Bologna. Ecco le fasi dell'agguato in un video esclusivo. Francesca Galici il 3 marzo 2023 su Il Giornale.

Da settimane, ormai, la sinistra cavalca le polemiche su quanto accaduto all'esterno del liceo Michelangiolo di Firenze. Violenza esecrabile, perché mai nessun atto violento può essere giustificato, ma la sensazione è che si stia sfruttando quell'evento a scopo politico come rimostranza contro il governo Meloni. Eppure, meno di un anno fa, qualcosa di simile è accaduto a Bologna, solo che le parti erano invertite: un gruppo di studenti di Azione Universitaria è stato sorpreso e aggredito alle spalle dai collettivi rossi.

La denuncia della violenza era stata fatta nell'immediato da parte delle vittime ma nessuno, a sinistra, si era mobilitato con la stessa foga o con la stessa veemenza con la quale si chiede oggi al centrodestra di dissociarsi, attribuendo alla politica nazionale la responsabilità dei fatti. Oggi che le indagini sono state chiuse e che ci sono otto studenti dei collettivi indagati, possiamo mostrare il video esclusivo di quell'aggressione, che mostra il modo con il quale è avvenuto l'assalto, che ha i contorni di un vero e proprio agguato.

"Tornate nelle fogne", "siete morti", "vi uccidiamo". Queste alcune delle frasi pronunciate dagli aggressori e riportate, nero su bianco, nell'avviso di conclusione delle indagini firmato dal pm Stefano Dambruoso. La procura contesta agli indagati non solo le lesioni aggravate ma anche la rapina: con "calci, spintoni, pugni e strattonamenti" si sarebbero infatti impossessati delle "bandiere e delle aste" degli studenti di Azione Studentesca.

"Ci hanno accerchiati, arrivavano da tutte le parti, saranno stati una ventina: è stato un agguato", così raccontava Dalila Ansalone, consigliere del quartiere Santo Stefano e consigliere di Azione universitaria all’Unibo, quanto avvenuto sotto i portici del teatro comunale. Non fu certo una passeggiata di salute quell'aggressione, visto che sia lei che Stefano Cavedagna, consigliere comunale di Bologna, ebbero una prognosi di 16 giorni, con lesioni di vario tipo tra le quali il trauma cranico. Se la violenza è violenza, perché da sinistra non si è usato lo stesso metro di valutazione per condannare ed esecrare quell'aggressione, che non ha nulla di meno rispetto a quanto accaduto a Firenze?

L'impressione, nonché la certezza, è che come al solito nel nostro Paese ci siano aggressioni giuste e aggressioni sbagliate. Nel video che abbiamo ricevuto è evidente che si sia trattata di un'azione punitiva, probabilmente premeditata, che aveva lo scopo di colpire gli "avversari" politici. Non sono erano segnalati precedenti di rilievo recenti tra le due fazioni, c'è stata semplicemente la volontà dei collettivi rossi di assalire gli iscritti ad Azione universitaria per la loro fede politica. Nulla di diverso rispetto a quanto accadeva negli anni Settanta ma ben distante da quanto accaduto a Firenze, invece, dove la rissa è nata dopo la provocazione dei collettivi ai quali gli studenti di destra, sbagliando, hanno reagito con violenza.

Prendere a pugni i ragazzi di destra non fa notizia: se lo meritano. Ecco il video del pestaggio dei militanti di FdI avvenuto a Bologna nel maggio 2022. Nessuno ne parla. Perché? di Giuseppe De Lorenzo su Nicola porro.it il 3 Marzo 2023

Non siamo mica sciocchi: non ci aspettavamo certo che, dopo la nostra esclusiva sul pestaggio di alcuni studenti di destra a Bologna, i grandi giornali ci venissero dietro. Per carità, ci siamo abituati: se a prendere le botte, vere e documentate, sono i giovani di Fratelli d’Italia nessuno fa un frizzo. Ne parlano i quotidiani locali per qualche giorno, poi tutto finisce nel dimenticatoio. Se invece di fronte a un liceo fiorentino scoppia una rissa, subito la stampa democratica fa scattare le trombette dell’antifascismo militante, sgorgano editoriali sulla difesa della Costituzione e contro lo squadrismo fascista. Lo ripetiamo: ci siamo abituati. Però è pure giusto mettere a nudo l’ipocrisia del sistema mediatico italiano, oltre che di quello intellettuale e giornalistico.

Di casi da raccontare ce ne sarebbero a bizzeffe, senza dimenticare i collettivi che alla Sapienza hanno impedito a Daniele Capezzone di parlare. Ma limitiamoci agli episodi simili: prendiamo i fatti di Bologna, che risalgono al maggio del 2022, e quelli più recenti di Firenze.

La sera del 19 maggio, una decina di giovani di Azione Universitaria è in via Zamboni a Bologna per controllare i risultati delle elezioni universitarie. Escono dal portone tranquilli, chiacchierano, tutto fila liscio come l’olio. Finché non vengono circondati e malmenati da una ventina di persone. A confermarlo c’è l’avviso di conclusione indagini contro 8 ragazzi, in cui si parla di “pugni, calci e spintoni”, di un trauma toracico, di lesioni guaribili in 16 giorni e minacce tipo “vi uccidiamo”, “tornate nelle fogne”, “siete morti”. Un vero e proprio agguato, certificato anche dai video delle telecamere di sorveglianza che circondano l’ingresso della Facoltà di Lettere bolognese. Si vedono distintamente i ragazzi di Azione Universitaria aggrediti alle spalle da un gruppo militanti di sinistra. Le immagini non lasciano spazio all’immaginazione: botte, pugni, spintoni. Violenze, insomma. Gravi tanto quanto quelle emerse dai filmati della rissa di fronte al Michelangiolo. Se non di più.

E arriviamo a Firenze. Ogni violenza è deprecabile e su questo sito lo abbiamo detto e ridetto: gli alunni di Azione Studentesca hanno fatto male a reagire con i pugni. Però va pure ridimensionato il contesto: secondo alcuni testimoni, infatti, a far scattare la miccia sarebbero stati gli studenti dei collettivi infastiditi da un banale volantinaggio degli avversari “di destra” di fronte alla loro scuola. Un professore, intervistato dalla Nazione, l’ha detto chiaro e tondo: “C’era questo volantinaggio dei ragazzi della destra. Sono usciti quelli dei collettivi e hanno cominciato ad insultarli e strappare i volantini. Hanno tirato delle spinte e a quel punto quelli di Azione Studentesca hanno cominciato a picchiare”. Una rissa, insomma, e non quel “pestaggio squadrista” cui i media si sono aggrappati per giorni basandosi su un’unica versione dei fatti.

Morale della favola. Domani a Firenze è prevista una grande manifestazione antifascista “in difesa della scuola e della Costituzione”. Il corteo protesterà “contro ogni forma di violenza” e per esprimere “solidarietà alla preside Savino”, quella della delirante lettera sul fascismo. Saranno presenti anche Elly Schlein e Giuseppe Conte, nella più classica delle farse. Ci permettiamo di dare un suggerimento: in piazza proiettate pure il video del pestaggio dei collettivi ai danni dei militanti FdI. Così magari anche Repubblica e gli altri giornali se ne accorgono e ne parlano un po’. Oppure ci volete dire che se sei di destra le botte te le meriti? Giuseppe De Lorenzo, 3 marzo 2023

Minacce e violenze dai collettivi rossi. E la sinistra tace. Pd e 5S attaccano il governo sulla rissa studentesca di Firenze. "Non dicono nulla...". Ma nelle stesse ore i progressisti tacciono sulle minacce dei collettivi di sinistra: un vizio non certo nuovo. Marco Leardi su Il Giornale il 24 febbraio 2023.

La sinistra s'è lanciata nella rissa, sperando forse di ammaccare il governo a suon di polemiche. Con il passare delle ore, la discussione sulla scazzottata studentesca di Firenze è stata infatti trascinata dai progressisti sul terreno dello scontro tra partiti. E meno male che le ideologie andavano tenute fuori dalla mischia. Dalle opposizioni si è alzato così un coro unanime di contestazioni al governo, reo - a giudizio di Pd e Cinque Stelle - di non aver condannato con fermezza l'aggressione "squadrista" del liceo Michelangiolo. Guai peraltro a mettere in dubbio quella narrazione e a spiegare che anche i collettivi rossi avevano contribuito ad accendere la miccia delle tensioni.

Pestaggio a Firenze, sinistra contro il governo

"Il governo non ha detto nulla sull'aggressione neofascista contro gli studenti di Firenze", ha tuonato deputato dem Nicola Zingaretti. Ed Elly Schlein è andata all'attacco del ministro Valditara. Ma il colmo è che tali recriminazioni provengono da un partito che troppo spesso non ha battuto ciglio di fronte alle aggressioni e alle minacce degli antagonisti.

Il silenzio progressista sui collettivi rossi

Nelle stesse ore in cui pretendevano un pronunciamento del governo, i progressisti tacevano sulle minacce al ministro dell'Istruzione provenienti dai collettivi studenteschi torinesi. "Valditara a testa in giù", aveva scritto sui social un giovane vicino ai centri sociali, ma l'esponente politico non aveva ricevuto alcun sostegno da sinistra (come da lui stesso testimoniato). A solidarizzare con il collega di governo era stato invece Matteo Salvini, che in tutta risposta si era beccato una minaccia dai collettivi rossi. "Sappia che a piazzale Loreto c'è ancora posto", gli avevano comunicato tramite i social. Ma al momento non si registrano diffuse condanne da sinistra, a eccezione di quella pronunciata dal sindaco di Torino, Stefano Lo Russo. Uno su mille ce la fa (a prendere le distanze senza indugi). Il silenzio piddino e pentastellato aveva anche accompagnato le minacce anti-Meloni al corteo di Firenze con cori offensivi sulle foibe.

Gli inni alle Br e la Meloni appesa

Ma pure in passato i progressisti si erano stranamente trattenuti dallo stigmatizzare alcune gesta dei collettivi studenteschi. A ottobre, ad esempio, gli antagonisti volevano impedire la realizzazione di un convegno di Azione Universitaria alla Sapienza di Roma e la sinistra, invece di redarguire questi ultimi, aveva polemizzato con il Viminale perché la polizia li aveva respinti. Analogamente, non si erano udite voci di condanna contro i giovani che inneggiavano alle Brigate Rosse durante un'assemblea sul caso Cospito nel medesimo ateneo romano. Eppure, cosa sarebbe costato? Nulla, visto che quelle idee sono fortunatamente estranee ai partiti della sinistra parlamentare. All'elenco dei recenti imbarazzi di sinistra aggiungiamo poi quello sul fantoccio della Meloni appeso a testa in giù a Bologna. Un gesto talmente grave da spingere il sindaco Pd Matteo Lepore a condannare l'accaduto. "Violenza inaccettabile", disse il primo cittadino.

Ma raramente da sinistra arrivano prese di posizione così esplicite, soprattutto quando a sgarrare sono i "bravi" ragazzi dei collettivi studenteschi o i loro amici militanti dei centri sociali. Per questo ora certe polemiche rivolte contro il governo sul caso del liceo Michelangiolo appaiono strumentali, se non addirittura ipocrite.

La guerra civile che non c’è. L’eterno ritorno dell’onda nera e la debolezza della retorica antifascista minoritaria. Alberto De Bernardi su Linkiesta il 10 Marzo 2023.

L’Italia è una democrazia solida, non un Paese fascista. Nei suoi anni democratici ha saputo costringere i peggiori estremisti a un processo di revisione del proprio bagaglio ideologico (nonostante ci sia ancora qualche nostalgico di troppo)

La deriva

Domenica scorsa Ezio Mauro ha scritto un ponderoso articolo per ricordarci che la storia d’Italia non è mai uscita dallo scontro fascismo/antifascismo: nelle ultime settimane hanno preso forma «due Paesi divaricati» dalla discriminante antifascista, perché Giorgia Meloni si rifiuta di fare «un gesto di chiarezza rispetto al mondo da cui proviene» mentre ordisce il disegno di «neutralizzare la memoria del fascismo» e di cancellare «l’antifascismo come cultura civile del Paese».

Mentre leggevo le parole di Mauro mi sono riecheggiate nella memoria le parole che il 2 giugno del 2018 pronunciò la allora presidente dell’Anpi: «C’è nel Paese – disse – una pericolosa deriva filonazifascista che ha caratteristiche di minoranza ma è dislocata in tante parti d’Italia». Da allora il ritorno dell’onda nera divenne la cifra interpretativa prevalente della situazione politica italiana, con una rincorsa a trasformare tutte le azioni del governo gialloverde di Giuseppe Conte e Matteo Salvini come calchi di tutti gli stereotipi del fascismo.

Con la vittoria della destra sovranista cinque anni dopo, l’onda nera in pochi mesi si è già trasformata nel ritorno della sempiterna «deriva fascista» che si sta impossessando dello spazio pubblico per distruggere l’antifascismo a segnalare purtroppo solo ed esclusivamente un tragico riflesso condizionato della sinistra: evocare l’eterno ritorno del fascismo quale unica chiave di lettura di ogni processo politico che riguardi la destra.

Era «ritorno del fascismo» il centrismo di Alcide De Gasperi e Mario Scelba, il Piano Solo e il «tintinnar di manette» all’epoca del centrosinistra, il «fanfascismo» nei primi anni settanta nella tragica epoca dell’antifascismo militante extraparlamentare, Bettino Craxi e la «grande riforma» nel decennio successivo, ovviamente Silvio Berlusconi e il suo prepotente ingresso sulla scena politica nel 1994, fino a Matteo Renzi, per il quale il termine «fascistoide» è stato utilizzato reiteratamente da alcuni esponenti della sua minoranza interna per definire l’estraneità del suo progetto politico alla tradizione della sinistra italiana.

Nonostante molti studi politologici e sociologici sull’estrema destra in Europa negli ultimi vent’anni abbiano messo in luce sia l’eterogeneità ideologica di quel campo di forze, sia la sua distanza da quel complesso di movimenti e di culture politiche definite con il termine di fascismo, in Italia queste cautele hanno fatto scarsa breccia nella riflessione pubblica; al contrario si è messa in movimento una rincorsa, promossa soprattutto dai militanti dell’estrema sinistra dai suoi intellettuali e dai giornalisti, a coniare neologismi che evocassero lo spettro di Mussolini per definire la nuova maggioranza governativa: oltre al classico nazifascismo prima citato, si è imposto il «fasciogrilloleghismo» fino alla caduta del governo Conte I – poi abbandonato quando Conte è stato arruolato dalla sinistra nell’antifascismo a sua insaputa – ora ritorna in auge sotto forma di «nuovo fascismo».

Questa tumultuosa rincorsa fa venire in mente una affermazione di George Orwell contenuta in suo articolo pubblicato nel 1946: «La parola fascismo ormai ha perso ogni significato e designa semplicemente qualcosa di indesiderabile».

Il ritorno dell’indesiderabile

In effetti «l’indesiderabile» che ritorna, secondo la vulgata a cui si rifà Mauro – è lo sforzo delle destre al potere non solo di interpretare le pulsioni illiberali e antipolitiche di una permanente maggioranza silenziosa che campeggiano nella coscienza pubblica, mai piegata definitivamente ai valori della costituzione democratica, e permanentemente disponibile verso l’antipolitica e verso soluzioni politiche illiberali il cui fondamento è la rimozione – potremmo dire, attiva – del passato fascista della nazione, con l’obiettivo di realizzare la «pacificazione» degli italiani, disancorando la Repubblica dall’antifascismo e dalla Resistenza.

Ma per fortuna – dice Mauro – che c’è l’antifascismo, tornato militante, che impedirà che questa operazione politico-ideologica promossa dal sommerso fascista della Repubblica, ora arrivato al governo, spacchi il Paese in nome di una revisione radicale della storia italiana del ventesimo secolo e del rifiuto del patriottismo costituzionale.

Ma sfugge a Mauro che la debolezza del patriottismo costituzionale non alligna solo a destra per l’irrisolto rapporto con le sue eredità neofasciste, ma purtroppo affonda le sue radici anche nelle culture politiche della sinistra che al grido di «ora e sempre resistenza» ha costruito una retorica politica nella quale la democrazia italiana appare sempre sull’orlo di un rinculo nella guerra civile mai conclusa del ’43-’45 e abbia bisogno di un costante “in più” etico-politico garantito rappresentato dall’antifascismo per reggere l’urto delle destre radicali e illiberali, come non accade nei Paesi che hanno una tradizione democratica più matura e compiuta.

Non c’è bisogno di nessun «in più» antifascista in Germania, in Francia o negli Stati Uniti per combattere l’onda montante del populismo nazionalista e xenofobo, perché basta il radicamento del «paradigma democratico» a mobilitare la partecipazione politica dei cittadini contro Donald Trump o Marine Le Pen o il partito Alternativa per la Germania.

Un «di più» metapolitico, dunque, che copre in Italia un «di meno» storico, quasi antropologico, relativo alla debolezza dell’insediamento della cultura democratica nei «costumi» degli italiani e la permanenza delle tradizionali «malattie» dello spirito pubblico che sono sempre le stesse da quelle denunciate un secolo fa da Piero Gobetti prima che la violenza fascista lo mettesse a tacere per sempre e che sintetizzano il “fascismo eterno” della storia italiana. Un «di più» che è nella disponibilità politica di una presunta “altra Italia” depositaria di tutte le virtù pubbliche, del patrimonio valoriale della costituzione ma permanentemente “inapplicata” e che deriva la sua forza di avere per sé “il senso della storia”.

Libertà o liberazione?

Spia di questa concezione politica è il commento di Mauro allo striscione che gli studenti di destra avevamo issato davanti alla scuola in risposta a quello degli studenti di sinistra: «La scuola non è antifascista, è libera».

Secondo Mauro i giovani del Blocco studentesco avevano contrapposto libertà a liberazione, a riprova dell’estraneità dei giovani di estrema destra alla “patria antifascista”. In realtà – al netto delle violenze inammissibili di Azione studentesca al Liceo Michelangelo di Firenze – dentro l’evocazione della libertà emerge un domanda di agibilità politica e di riconoscimento culturale da parte dei giovani di destra che l’antifascismo militante presente nelle scuole e nelle università ha sempre rifiutato, per un giudizio di indegnità morale di quei giovani.

Mauro non a caso non parla della manifestazione di Firenze dove come in tutte le manifestazioni antifasciste aleggia un «in piu» inaccettabile di violenza verbale contro il nemico – «uccidere un fascista non è reato» urlavano quegli studenti riprendendo uno slogan degli anni ’70, quando giovani fascisti e giovani antifascisti si ammazzavano davvero. Aggiungendo una novità: «Tito ce lo ha insegnato» che evoca un’ esaltazione delle foibe recuperata dai recessi più melmosi e orribili della tradizione comunista.

Esaltare le foibe come patrimonio dell’antifascismo non è casuale: è il risultato di una continua opera di delegittimazione degli sforzi che la cultura democratica – non quella fascista – sta compiendo da molti anni per accogliere le vittime e le loro memorie nella storia nazionale, screditando il “giorno del ricordo” dell’11 febbraio come opera di revisionismo di stato messo in atto dalle destre, occultando scientemente il ruolo che il comunismo jugoslavo ha avuto nei crimini contro gli italiani tra il ’43 e il ’47 e nell’esodo istriano.

Ma qual è la nostra patria

Senza saperlo e senza accorgersene per opera di cattivi maestri quei giovani antifascisti hanno riaperto una frattura profonda nella stessa idea di nazione, tra quella, mai pienamente sconfitta, dei cultori della “patria del socialismo” – il filoputinismo di tanta sinistra radicale affonda qui le sue radici – e la patria democratica, che ha attraversato prepotentemente la stessa Resistenza antifascista, contribuendo a indebolire l’identità nazionale e rendendo flebile proprio il patriottismo costituzionale perché privato di una “forza simbolica” espressione di una comune idea di nuova nazione nata dal crollo di quella del fascismo.

Tra Tito e la democrazia vi è un abisso, che riguarda anche la natura e la tavola dei valori dell’antifascismo: quello comunista di matrice totalitaria, che sovrapponeva la rivoluzione leninista alla lotta per la libertà dal fascismo, e quello democratico che puntava a rigenerare nella libertà e nel pluralismo delle idee e dei valori la storia nazionale dopo la tragedia della dittatura.

Evocare un dittatore che ha lasciato solo macerie nel suo paese come modello di antifascismo significa riprodurre quella frattura dell’idea di nazione, che ha impedito e continua ad impedire a una parte non piccola di italiani e italiane, che pur hanno ripudiato il fascismo, di riconoscersi pienamente nella nazione antifascista, per la presenza al suo interno di chi non aveva colpevolmente dismesso la sua adesione alla “patria” stalinista, vissuta e temuta come minaccia incombente del nuovo ordine repubblicano.

Nacque in questo iato e in queste aporie delle basi ideali della Repubblica il “filo nero” della narrazione “anti-antifascista” della guerra di liberazione e dell’Italia democratica che tanto peso ha avuto e ha tuttora nella coscienza collettiva del Paese, direttamente proporzionale alla debolezza dell’antifascismo che ancora oggi si ostina a non voler riconoscere le sue responsabilità nell’aver reso impossibile quella piena integrazione tra sé stesso e la nazione repubblicana.

Il mito della rivoluzione

Nella misura in cui il mito del comunismo aleggia nei cuori di giovani e vecchi antifascisti, e l’antifascismo si riduce a un altro nome dell’idea di rivoluzione, la Repubblica cessa di avere proprio nella Resistenza il suo inveramento e di non avere i partigiani tra i suoi padri, perché essi erano impegnati a lottare per un altro fine, non per la repubblica che c’è, non per la democrazia faticosamente conquistata: lottavano per i socialismo, per la «democrazia progressiva», per «il sol dell’avvenire» e si sentivano chiamati a disvelare la presenza del vecchio regime e a ipostatizzare lo scontro tra fascismo e antifascismo come cifra più autentica dello spazio politico repubblicano, che non poteva trovare soluzione nella democrazia ma soltanto nel superamento dello Stato borghese e del capitalismo.

In quest’ottica l’antifascismo aveva un solo futuro possibile, non come memoria collettiva e fondamento ideale dello Stato nuovo, ma come ideologia di un cambiamento rivoluzionario, proiettato alla ricerca di un “altrove” che stava, e continua purtroppo a stare, oltre la Repubblica.

Ma questo antifascismo non può che essere minoritario e «di sinistra» – non maggioritario e repubblicano, perché non si propone di chiudere quella tragica ferita identitaria, ma la riproduce all’infinito, di generazione in generazione, creando una sorta di comfort zone identitaria, assai simile, nel suo costrutto psicologico e culturale, a quella di chi si tiene in casa il ritratto di Mussolini, sfila ogni anno con il braccio teso davanti alla tomba del Duce a Predappio o gira la testa dall’altra parte se “i giovani (suoi)” menano le mani o puerilmente assaltano la Cgil, guidati da un ferro vecchio del sovversivismo neofascista degli anni settanta in cerca di visibilità.

Per uscirne bisogna fare uno sforzo di verità: non c’è nessun fascismo alle porte perché sconfitto dall’antifascismo in armi e dalla storia nel ’45, l’Italia è una salda repubblica democratica che ha saputo persino includere i suoi storici avversari – fascisti e comunisti – nelle sue istituzioni politiche, costringendoli a un processo di revisione profondo del proprio bagaglio ideologico, nonostante qualche nostalgico di troppo si aggiri in entrambi i campi, che li ha legittimati ad aspirare al governo del Paese. Di questo gli antifascisti dovrebbero andare fieri, perché è merito loro, invece che evocare Tito e le scintille rivoluzionarie del 1917.

Estratto dell’articolo di Massimo Recalcati per “La Stampa” il 7 marzo 2023.

Un grande filosofo come Gilles Deleuze riteneva che il presupposto di fondo della lotta antifascista avesse come prima e imprescindibile condizione la lotta contro il fascista che ognuno di noi porta dentro di sé.

 L’intolleranza per la differenza, la convinzione dogmatica di detenere una verità assoluta, la giustificazione politica della violenza, l’odio e lo scherno, l’approvazione della censura e l’interdizione della libertà di parola per chi diverge dalla nostra concezione del mondo, un complesso di superiorità inguaribile, la rappresentazione della Destra come culturalmente indegna, il sarcasmo verso la maggioranza quando il suo orientamento non coincide con i nostri desideri, la tendenza a convertire la critica in insulto, sono in se stesse tentazioni fasciste e autoritarie che hanno paradossalmente trovato diritto di cittadinanza anche nella cultura di gruppo dell’antifascismo.

Lo scrivo con amarezza rileggendo oggi l’antifascismo militante dei movimenti della fine degli anni Settanta ai quali partecipai con grande entusiasmo giovanile. I miei cattivi maestri di allora non si rendevamo conto che la militanza antifascista che esaltavamo non era, in realtà, altro che il rovesciamento speculare del mostro velenoso che intendevamo combattere. […] L’assioma ideologico escludeva ogni forma di dubbio: se il cuore dello Stato era un cuore fascista bisognava colpirlo senza indugi. […]

 Ma nel tempo di una democrazia ormai consolidata nel nostro paese da quasi ottant’anni possiamo provare a essere più intransigenti con il nostro fascismo interno? Possiamo provare a rigettare la tentazione autoritaria che attraversa ciascuno di noi e che spesso ha trovato proprio una certa cultura di sinistra cosiddetta antifascista il suo terreno di coltura?

[…] Esiste ancora oggi uno squadrismo culturale di sinistra che insistentemente ignora il fondamento laico, antidogmatico, plurale della democrazia e che manifesta una evidente allergia nei confronti delle sue leggi? Non è forse la stessa cultura di gruppo che finisce per colludere con le ragioni della guerra scatenata da Putin contro l’Ucraina nel nome di un ideale utopico della pace che ha il solo effetto di giustificare una brutale aggressione militare senza consentire al popolo che è stato offeso la sua legittima difesa? Non è forse la stessa cultura di gruppo che nel nome altrettanto utopico della libertà si opponeva alle misure di prudenza imposte dall’emergenza sanitaria paventando una virata totalitaria dello Stato democratico?

[…] L’aggressione organizzata, l’uso ideologico della violenza, i comportamenti vandalici, l’esibizione dei simboli dell’odio sono chiaramente estranei allo spirito della democrazia. Ai tempi dei movimenti del ’77 per definire questi comportamenti si usava la formula “organizzazione collettiva della forza”. È la stessa edulcorazione del linguaggio operata dal regime putiniano […] Accadeva alla fine degli anni Settanta nel nome dell’antifascismo. Fu per questa ragione che scelsi di abbandonare quei movimenti per avvicinarmi al Partito Radicale di Marco Pannella. […]

 Ora viviamo in un paese dove il fascismo […] non esiste più. Giorgia Meloni, democraticamente eletta dagli italiani, ha giurato sui principi della nostra Costituzione riconoscendoli pienamente. Certo, alcuni dei suoi ministri ci appaiono indegni […] Ma questo non ci dispensa dal difficile compito di provare a essere giusti con le ragioni dell’antifascismo. In uno Stato democratico non dovrebbe mai essere legittimato un uso antifascista della violenza […]

Il caso di Firenze. Chi è Giuseppe Valditara, il neocrociano fedele alla pedagogia di calci e pugni. Michele Prospero su Il Riformista il 26 Febbraio 2023

Uomo di vastissime letture, non a caso è il ministro dell’istruzione. C’è del metodo, e molta sottile metafisica, nelle sue esternazioni che fortunatamente, per il loro incredibile impatto costruttivo sulle menti della Nazione, diventano sempre più frequenti. Ha consultato anche stavolta i grandi classici prima di prendere penna e calamaio per annunciare la dura censura governativa contro la “politicizzata” dirigente scolastica fiorentina. Quali fonti filosofiche ispirano il luminare che Meloni ha voluto giustamente promuovere a prestigioso titolare del ministero di viale Trastevere?

Non c’è dubbio, le sue parole, mai scontate, nascondono un pensiero forte. Nell’affondo inevitabile contro la professoressa Annalisa Savino, il creativo ministro del merito ha sicuramente raccolto e fatto proprio l’insegnamento racchiuso in un’antica pagina di Benedetto Croce. Il grande filosofo, anch’egli con un’esperienza al ministero, benediceva le aggressioni contro gli uomini e le donne delle sinistre che si agitavano con le loro “vuote” idee d’eguaglianza e di socialismo. Avevano ragione, scandiva in “Etica e Politica”, quanti associati in squadre nere prendevano “a scappellotti i creduli in quelle formule insulse e coloro che le vanno ripetendo a uso dei gonzi”.

Non preoccupavano, il cantore della “religione della libertà”, i pestaggi dei fascisti, da lui esaltati anzi in un’occasione come “uomini di vivo senso storico e politico divenuti appassionati partigiani della forza”. La loro violenza politica sugli avversari racchiudeva sì una veemenza “grossolanamente intesa”, ma non si poteva certo pretendere una sottigliezza eccessiva nei modi d’agire che ispiravano un energico e scanzonato movimento politico di rigenerazione nazionale. Gli squadristi comunque, a loro merito, si prendevano la briga di dare degli “scappellotti” ai sostenitori delle “formule insulse” della democrazia. Per questo al loro capo, pure lui un “popolano impetuoso e anche violento”, tributò un applauso scrosciante al Teatro San Carlo.

Giovanni Gentile non credeva di esagerare dipingendo questo Croce, così attratto dalla pedagogia muscolare dei calci e pugni, come “uno schietto fascista senza camicia nera”. Sulle orme del “filosofo dei distinti”, il ministro della verità avrà sentito forte il richiamo etico-politico del filosofo abruzzese, cantore della bella violenza somministrata romanamente contro i “gonzi” come una immancabile pratica educatrice. Alla preside, che si permette senza ritegno di citare Gramsci, e quindi di fare politica, il ministro dalle vaste vedute raccomanda di cimentarsi con la superiorità morale di alcune pagine di Croce. Quelle sì che erano un esempio fulgido di etica pubblica, soprattutto quando ritenevano del tutto salutari, nel loro risvolto “pratico o praticistico”, i movimenti rudi, dal futurismo al fascismo, perché quando agivano per strada menando da par loro andavano celebrati dal momento che “la eventuale pioggia di pugni, in certi casi, è utilmente e opportunamente somministrata”.

Davanti al liceo politicizzato di Firenze, come potevano non materializzarsi quelle esemplari spedizioni pedagogiche dei novelli “partigiani della forza”? Come fa la dirigente scolastica a insorgere, per giunta in bella prosa, per qualche baldo ceffone e a non cogliere tutta la carica liberatrice sprigionata dalla neo-littoriale giovanile pratica persuasiva della “pioggia di pugni”? Si aggiorni sui nuovi metodi didattici in voga nell’età del merito, lasci stare il teorico sardo che odiava gli indifferenti e apprenda i rudimenti della filosofia crociana dello scappellotto. Non possiede proprio i più elementari fondamenti del pensiero, questa professoressa che non conosce il magistero di Croce sui risvolti culturali dei pugni in faccia e la butta in politica scandalizzandosi per la violenza educatrice dispensata sui marciapiedi dagli intrepidi nuovi patrioti.

Mentre Giorgia, la madre, cristiana, patriota, si prende una pausa dalla politica e si fionda in macchina diretta al ristorante di Anzio (fa più notizia con lo Chef e le vongole che a Kiev con i capi di Stato ai quali promette aerei tra colpi di tosse e risate fuori ordinanza), non spendendo neppure una parola dinanzi alle botte distribuite dai toschi degni apprendisti di uno statista alla Donzelli, questa preside ha l’ardire di entrare dritta in politica e prendere le difese di quattro studentucoli, di novelli “gonzi” da rieducare con l’infallibile medicina crociana della pedata e del cazzotto. È proprio a digiuno della pedagogia manesca che a Trastevere non dispiace affatto blandire in nome dell’endiadi pensiero e azione.

Il ministro neo-crociano, colpito da siffatta ignoranza circa i grandi passaggi della cultura nazionale, sta meditando su quale sanzione comminare a una dirigente scolastica che resiste alle forme educative del tempo nuovo. Fuori la politica dalla scuola, ordina inebriato dal richiamo fiorentino ai valori sempiterni della forza e della vitalità. E dentro il liceo entrino presto quei sei audaci pugilatori cresciuti in gagliarda arte politica nelle sedi gigliate di Fratelli d’Italia.

Chi altri infatti, se non questo moderno esemplare di agile somministratore di violenza di piazza per scacciare la politica dalle aule, è degno di essere chiamato in cattedra per chiara fama? Ministro, cacci in fretta l’obsoleta preside e assuma i sei camerati, non servono concorsi, bastano come metro del loro “merito” le pure immagini, prive per una volta di ogni opacità semantica. Hanno i titoli e soprattutto il tirocinio pragmatico necessari per insegnare, crocianamente s’intende, la filosofia dello scappellotto. Michele Prospero

Scuola, il ministro Valditara nega di essere fascista: "Lo dimostrano i miei libri e miei atti". Il ministro dell'Istruzione Valditara, in una intervista, si è dichiarato non fascista: "Mio unico provvedimento contro docente che negava la shoah". Valentina Mericio su Notizie.it il 4 Marzo 2023

Il ministro dell’Istruzione e del merito Valditara ha difeso le sue posizioni proprio nelle ore in cui Firenze si preparava ad accogliere la manifestazione antifascista. In una intervista rilasciata al Quotidiano Nazionale, il ministro ha ricordato che il padre non era fascista e che anzi il padre era un partigiano delle Brigate Garibaldi: “A casa ho ancora il suo fazzoletto rosso”, ha spiegato.

Scuola, il ministro Valditara si difende: “Non ho bisogno di dare prove del mio antifascismo”

Nel corso dell’intervista Valditara ha rilanciato evidenziando quanto sia importante manifestare in modo democratico e confrontarsi: “Ben venga qualunque manifestazione che dia voce alle idee e alimenti un dibattito democratico. Per parte mia raccolgo e rilancio l’invito del sindaco Nardella per un confronto con lui sui temi dell’antifascismo, di tutti i razzismi, della democrazia e della libertà di opinione: organizziamolo presto. Un confronto che deve essere franco, onesto e sereno”.

In merito ai fatti dei giorni scorsi avvenuti al liceo Michelangelo, il ministro ha sottolineato che nei confronti della dirigente scolastica non verranno presi provvedimenti: “L’unica indagine disciplinare che ho chiesto è stata nei confronti di un docente accusato di aver fatto affermazioni che negavano l’Olocausto. Aggiungi al riguardo che non è compatibile con il pubblico impiego chi neghi la Shoah. Rimettiamo al centro il dialogo e l’ascolto pluralista. Si approfitti di questa occasione per sollevare un dibattito serio nel Paese”.

 Profondo rosso. Augusto Minzolini il 4 Marzo 2023 su Il Giornale.

Oggi a Firenze ci sarà il battesimo del nuovo progetto politico della sinistra.

Oggi a Firenze ci sarà il battesimo del nuovo progetto politico della sinistra. Pd, Verdi e post comunisti, grillini, Landini e una spruzzatina di «radical chic» alla Oliviero Toscani, tutti insieme appassionatamente per una manifestazione anti-fascista. Un salto indietro nel tempo di decenni e decenni. Ma, soprattutto, una regressione della sinistra italiana, che per sposarsi con i 5 Stelle ha ritirato fuori dalla soffitta il vecchio armamentario di un tempo.

Ora, tutto è legittimo e rispettabile, ma parlare di fascismo nel 2023 fa un po' impressione. Soprattutto è un argomento che la sinistra tira in ballo ogni volta che è in crisi di idee per criminalizzare l'avversario. Un'arma spuntata che ha come unica conseguenza quella di radicalizzare gli animi e riproporre lo scontro ideologico. Il che potrà pure apparire assurdo, ma è proprio l'obiettivo di Elly Schlein: radicalizzare lo scontro per ridare un'anima al Pd.

Il nuovo vestito del partito è il profondo rosso, proprio per evitare che qualcosa possa nascere o vivere alla sua sinistra. In fondo è una vecchia regola comunista, riletta e riveduta in chiave movimentista. Se cinquanta anni fa il problema del Pci era non farsi scavalcare dai gruppuscoli dei vari Lucio Magri o Mario Capanna, ora la Schlein punta a dire qualcosa più di sinistra - per citare Nanni Moretti - di Giuseppe Conte. Anzi , lo insegue sulle sue tematiche. Siamo, quindi, in un vortice che vede la nuova segretaria del Pd chiedere le dimissioni del ministro dell'Interno e aderire alla manifestazione grillina di solidarietà verso la preside che ha lanciato l'allarme anti-fascista a Firenze.

È evidente che in uno schema del genere la proposta economica del Pd ricalcherà quella dell'anima più massimalista della Cgil: un fisco proiettato verso ogni tipo di patrimoniale e un ambientalismo ideologico. La politica estera, invece, asseconderà il pacifismo disarmato dei grillini. Come pure sulla giustizia sarà cancellata anche l'ombra del garantismo per non dispiacere a Conte e a Travaglio e non prestare il fianco alle loro critiche.

Su questa linea, come è avvenuto in passato, i veri nemici del Pd diventeranno i riformisti, cioè quelli dentro al partito (le loro speranze ecumeniche si trasformeranno sempre più in contraddizioni insuperabili) e l'area di centro che guarda a sinistra. Un'area che per un Pd protagonista di un processo di polarizzazione della politica italiana, va delegittimata. In fondo i massimalisti da sempre individuano nei riformisti i loro avversari giurati. Basta pensare alla faida tra socialisti e comunisti in questo Paese (la vicenda di Bettino Craxi è esemplare).

Polarizzare significa, infatti, obbligare gli altri a schierarsi, a stare di qua o di là. Ed è naturale che l'«antifascismo» sia uno degli argomenti, magari il più comodo in presenza di un governo caratterizzato a destra, con cui scavare un solco. Una patina coniugabile con tutto: con la violenza nelle piazze, con l'immigrazione, con i diritti civili e chi più ne ha più ne metta.

No alla violenza fascista”, censura su quella comunista: Repubblica ormai sembra la Pravda. Lucio Meo il 4 Marzo 2023 su Il Secolo d’Italia.

Grande spazio, questa mattina, sui giornali di sinistra, alla manifestazione anti fascista che si svolgerà nel pomeriggio a Firenze a seguito della rissa di qualche giorno fa all’esterno di un liceo fiorentino, tra ragazzi di opposte fazioni. Nulla, o quasi, invece, sulle indagini a carico degli studenti dei Collettivi a carico degli esponenti di Azione studentesca, con otto giovani “compagni” indagati dalla Procura di Bologna anche grazie a un video che riprende le scene di violenza. “Repubblica”, in particolare, saluta il debutto della Schlein a Firenze con una paginata di giubilo, senza dedicare neanche un rigo ai fatti di Bologna. “No alla violenza fascista”, scrive “Repubblica”, ma su quella comunista non c’è spazio neanche per una breve. Magari due righe per dire che a Bologna, menare un ragazzo di destra, non è vero che non è reato…

Repubblica” allarmata per la violenza fascista, ma solo per quella…

La manifestazione antifascista quella che attraverserà le strade del centro storico oggi pomeriggio. Un corteo che riunirà non solo fiorentini, ma anche studenti, genitori, insegnanti e lavoratori da altre regioni: Lombardia, Piemonte, Lazio, Emilia. E poi numerosi volti della politica, con i capi di partito: dalla nuova segretaria nazionale del Pd, Elly Schlein a Giuseppe Conte leader dell Movimento 5 Stelle….”, scrive “Repubblica” .

 Bologna, otto indagati per il pestaggio ai danni degli studenti di destra. Ma nessuno si è mai indignato... (video)

Eppure ieri tutte le agenzie hanno dato la notizia di otto giovani sono indagati dalla Procura di Bologna per un’aggressione, avvenuta il 19 maggio 2022 ai danni di un gruppo di studenti di Azione Universitaria. Le accuse contestate sono di lesioni personali aggravate e rapina.

Le minacce agli studenti fascisti

In particolare, come si legge nel capo di imputazione, contenuto nell’avviso di conclusione delle indagini, gli indagati “in concorso tra loro e con altri non tutti meglio identificati con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, rivolgendo minacce con frasi del tipo “tornate nelle fogne”, “siete morti”, “vi uccidiamo”, “ve ne dovete andare”, nonché per mezzo di violenza consistita in calci, spintoni, pugni e strattonamenti al fine di trame un ingiusto profitto si impossessavano delle bandiere e delle aste per bandiere detenute dagli esponenti del movimento studentesco ‘Azione Universitaria’. Uno degli aggressori in particolare si scagliava con violenza da tergo contro uno dei membri del movimento, sfilandogli così la bandiera che lo stesso portava alle spalle”. Cosine così, secondarie per “Repubblica” nazionale, nel giorno del “no alla violenza fascista…”.

In corteo bandiere e slogan violenti: "Uccidere i fascisti non è reato". Federico Bini il 5 Marzo 2023 su Il Giornale.

Altro che difesa della scuola e della Costituzione, solo attacco all'esecutivo di centrodestra. Nel mirino i ministri Piantedosi e Valditara. E qua e là anche manifesti di solidarietà a Cospito e contro il 41 bis.

Firenze. Doveva essere una manifestazione a difesa di scuola e Costituzione, quella organizzata ieri da Cgil, Cisl e Uil, dopo i fatti del Liceo Classico Michelangiolo. Invece si è trasformata, come era facile intuire, in un evento strettamente politico e contro il governo Meloni. Gianfranco Pagliarulo, presidente Anpi, attacca: «Meloni, lei piange per le leggi razziali ma non condanna il fascismo!». E qualcuno grida: «Il maresciallo Tito ce l'ha insegnato uccidere un fascista non è un reato».

In piazza si respira un ritorno al passato più che al futuro, riproponendo una sinistra che vuole mettere insieme forze moderate con frange più estremiste e radicali. Slogan «boicottare Israele e Palestina libera», bandiere jugoslave, anarchiche, palestinesi, tante falci e martello, cartelloni con scritto «sono antifascista ma soprattutto comunista», «Valditara e Piantedosi. Dimissioni». Ma forte è anche il sentimento anti-Nato. Spiccano manifesti contro l'imperialismo, il militarismo e le guerre umanitarie, colpevoli di «rapinare risorse e fonti di energia». Il corteo giunge in Santa Croce sulle note di Bella Ciao, e lentamente iniziano ad arrivare prima gli esponenti di primo piano dei partiti e poi i leader. Bonelli, Fratoianni, Serracchiani, Boldrini, Fiano, Verini, Provenzano, quindi la neosegretaria Schlein e Giuseppe Conte. Al momento della foto tra Landini, Conte e Giani, un organizzatore della Cgil si lascia andare ad una battuta: «Sta nascendo il Conte ter» e a fine comizio, sotto il palco un altro sindacalista, soddisfatto dell'esito, strizzando l'occhio al compagno (alcuni si chiamano ancora compagni) esclama: «Bene. Possiamo dire che l'operazione politica è stata compiuta». E se anche i rappresentanti del Pd non lo ammettono chiaramente, da Giani alla Boldrini, parlano di «piazza democratica», è probabile che da qui possa iniziare il percorso per la nascita di un nuovo fronte progressista. Dal palco uno dei ragazzi chiamati a intervenire si lascia andare - si spera a causa della foga del momento ad un «c'è Cospito in carcere e i fascisti liberi». In diversi intervistati, antifascisti lombardi e liguri, c'è solidarietà verso l'anarchico rinchiuso al 41-bis. Qualcuno parla addirittura di «persecuzione politica». Applauditissima e super protetta dagli uomini delle forze dell'ordine la neosegretaria del Pd. Gli elettori democratici apprezzano una svolta più a sinistra, sconfessano Matteo Renzi, «non l'abbiamo mai votato!», e Carlo Calenda. Ma sono comunque i tanti ragazzi dei collettivi e non, che davanti ai vertici dei partiti chiariscono: «Non vengano pure qui a fare passerelle. Dal comune alla regione al governo nazionale hanno partecipato alla distruzione del paese». Come vedrebbe questa alleanza tra Pd e M5s - chiedo ad un passante con la bandiera della Cisl messa in modo un po' garibaldino? «Io sono un cattolico di sinistra. Mi rappresentava Fioroni che però è uscito spero non sia solo un accordo elettorale». Ma dal reddito di cittadinanza, «non sono favorevole», all'invio di armi a Kiev non è in linea con la politica contiana. Insomma, molte sono le contraddizioni nella rossa piazza fiorentina. Anzi, richiamando Mao, «grande è la confusione» nella galassia progressista. Schlein e Conte in fondo al palco parlottano amichevolmente, poi si girano e salutano insieme. L'antifascismo e la lotta al governo Meloni, li unisce, almeno nei discorsi. All'uscita, un gruppo di giovani regala dei giornalini marxisti per la rivoluzione: «L'inganno della transizione capitalista».

Il surreale antifascismo del nuovo millennio. Se non avessimo visto l'altro ieri con i nostri occhi qui a Firenze la cosiddetta manifestazione antifascista degli studenti del liceo Michelangiolo, avremmo pensato a una rievocazione cinematografica del tempo che fu. Paolo Armaroli il 23 Febbraio 2023 su il Giornale.

Se non avessimo visto l'altro ieri con i nostri occhi qui a Firenze la cosiddetta manifestazione antifascista degli studenti del liceo Michelangiolo dopo gli scontri tra giovani di destra e di sinistra, avremmo pensato a una rievocazione cinematografica del tempo che fu. E allora diciamo una buona volta le cose come stanno dal punto di vista storico e costituzionale. Morto il fascismo per indisposizione del dittatore, ben presto anche l'antifascismo storico quello vero al quale ci inchiniamo e non quello da barzelletta che si è visto in seguito non ha più ragion d'essere.

Tirando le cuoia, l'antifascismo verace partorisce due creature. Da una parte si afferma la democrazia liberale di Alcide De Gasperi e dei suoi alleati. Ed ecco la scissione di Palazzo Barberini del gennaio 1947, quando Giuseppe Saragat rompe con Pietro Nenni perché opta per una scelta di civiltà, e il trionfo del 18 aprile 1948 del leader democristiano, che conferma una scelta di campo irreversibile. E dall'altra i Nenni e i Togliatti, allora uniti dal patto di unità d'azione, che si schierano a favore di Peppone Stalin, uno spietato dittatore come pochi altri. Nell'immediato dopoguerra nostalgici del fascismo, monarchici e comunisti si contavano a milioni. Mentre adesso sono quasi scomparsi del tutto. Comunisti compresi, da quando Achille Occhetto, meglio tardi che mai, pensò bene di disfarsi di un partito considerato sempre più imbarazzante. La pretesa di resuscitare adesso il monolite antifascista è semplicemente surreale, visto e considerato che non è più un monolite dagli anni dell'immediato dopoguerra. Tutti dobbiamo invece osservare la Costituzione. Una Carta che si fonda soprattutto su due articoli: l'articolo 3 e l'articolo 21, entrambi caratterizzanti un ordinamento liberaldemocratico. Il primo sancisce il principio di eguaglianza davanti alla legge senza discriminazione alcuna. Il secondo riconosce a tutti il diritto di libera manifestazione del pensiero. Ora, sarà anche vero che la nostra è la Costituzione più bella del mondo. E se lo dice Benigni, che pure non è un costituzionalista, possiamo crederci. Resta il fatto che è una illustre sconosciuta. Ne abbiamo avuto la riprova proprio in questi giorni. Alcuni studenti dei Collettivi di sinistra del liceo classico Michelangiolo di Firenze, con in mano un cestino dell'immondizia, hanno invitato alcuni giovani di destra a deporvi i loro volantini considerati robaccia e a togliere il disturbo sui due piedi perché udite, udite non ne condividono il contenuto. E nel corso della manifestazione dell'altro ieri hanno chiarito si fa per dire il loro pensiero: «Se arrivano davanti alle scuole, troveranno chi li scaccia». Urge un corso accelerato di educazione civica. Che aspettano i professori a farsi parte diligente?

La vergognosa risposta di Fratelli d’Italia alla lettera della preside: «Parli dei morti del comunismo e delle foibe». Mauro Munafò su L’Espresso il 23 febbraio 2023.

Il messaggio della dirigente scolastica del liceo Da Vinci sui pericoli del restare indifferenti di fronte alle azioni fasciste scatena le reazioni del partito di governo. Che ripetono il solito ritornello benaltrista. Mentre il ministro Valditara minaccia azioni contro la preside: «Lettera ridicola»

«E allora le foibe?» recitava il tormentone di Caterina Guzzanti nel suo personaggio di Vichi, attivista di Casapound che, quando le si chiedeva conto dei mali del fascismo, cambiava subito discorso. Sono passati più di dieci anni da quelle imitazioni, ma il ritornello della Destra resta lo stesso: si verificano aggressioni di matrice squadrista, ma guai a chiamarle per nome. Perché, se lo fai, allora devi anche ricordare quanto male ha fatto il comunismo.

Ed è esattamente quanto successo in questi giorni. Dopo l’aggressione ai danni di alcuni studenti minorenni da parte di sei persone legate alla sigla di Destra Azione Universitaria (movimento giovanile del partito di Giorgia Meloni) davanti a un liceo di Firenze, le formazioni governative avevano fatto finta di nulla (il ministro Salvini aveva trovato il tempo di parlare dei cani in Turchia, ma non di quanto accaduto).

Ieri la lettera della dirigente Annalisa Savino del liceo Da Vinci di Firenze, in cui ricorda il pericolo del fascismo quando gli indifferenti non reagiscono, ha però smosso le coscienze anche a Destra. Fronte da cui si sono mossi in fretta non tanto per condannare le azioni squadriste, quanto per attaccare Savino e le sue parole.

Alfredo Antoniozzi, vice capogruppo di Fratelli d'Italia alla Camera, ha subito attaccato: «Alla preside raccomandiamo alcune integrazioni: i novanta milioni di morti generati nel mondo dal comunismo, le foibe, le sanguinarie repressioni di Praga e Budapest, l'attualità di una Cina in cui non esistono i diritti civili». Stesse parole usate da Francesco Giubilei, ideologo della nuova Destra e consulente del ministro alla Cultura, che su Twitter ha attaccato: «Surreali le circolari dei presidi dei licei fiorentini che fanno politica paventando il ritorno del fascismo dopo quanto accaduto al Liceo Michelangiolo. Domani ci aspettiamo una circolare sul pericolo del comunismo dopo il corteo dei collettivi in cui si è inneggiato alle foibe».

Ancora più duro l’intervento del ministro dell’Istruzione Valditara che, a Mattino 5, attacca la preside autrice della lettera e minaccia di intraprendere iniziative contro di lei: «È una lettera del tutto impropria, mi è dispiaciuto leggerla, non compete a una preside lanciare messaggi di questo tipo e il contenuto non ha nulla a che vedere con la realtà: in Italia non c'è alcuna deriva violenta e autoritaria, non c'è alcun pericolo fascista, difendere le frontiere non ha nulla a che vedere con il nazismo. Sono iniziative strumentali che esprimono una politicizzazione che auspico che non abbia più posto nelle scuole; se l'atteggiamento dovesse persistere vedremo se sarà necessario prendere misure. Di queste lettere non so che farmene, sono lettere ridicole, pensare che ci sia un rischio fascista è ridicolo».

Il delirio antifascista di Montanari getta benzina sul fuoco: vuole “aprire la testa” agli studenti. Federica Argento il 4 Marzo 2023 su Il Secolo d’Italia.

Lo sproloquio antifascista di Tomaso Montanari dal palco di Firenze è la raffigurazione plastica dell’odio e dell’intolleranza. La sinistra condanna la violenza nelle scuole in maniera selettiva: quando a picchiare sono i rossi nessuno lo deve sapere. Vedi i fatti di Bologna. In presenza, nello stesso giorno, di striscioni con Meloni e Valditara a testa in giù davanti al liceo Carducci di Milano la parola d’ordine è tacere.  Nessuno da sinistra ha preso le distanze. Tantomeno Montanari. Invece il problema oggi per il rettore dell’Univeristà di Siena e per quanti lo hanno applaudito al corteo fiorentino è il fascismo.

Secondo lui, che ha anche le traveggole,  “oggi nella politica, nei media, c’è una grande zona grigia di complicità con i fascisti. Ci dicono: questo governo non c’entra nulla con il fascismo e io dico: se il ministro della Scuola intimidisce una preside perché ha parlato di antifascismo allora dov’è che siamo? Fascista è chi il fascista fa”. Il rettore dell’Università per stranieri di Siena getta benzina sul fuoco dal palco di Firenze.

Le sue parole sono pericolose. Praticamente dice che la scuola deve fare politica e instillare un antifascismo in assenza di fascismo. Parole grottesche. Per Montanari la scuola non ha fatto abbastanza nell’opera di indottrinamento e di emarginazione di chi non ha un orientamento di sinistra. “E’ la stessa democrazia ad essere a rischio tra astensionismo di massa e ritorno del fascismo – prosegue nel suo delirio- . Perché non si è lavorato a produrre una massa cosciente. Eppure è a questo che serve la scuola: non a selezionare una classe dirigente ma a formare una massa cosciente, parole di don Milani”. Gli studenti per lui devono essere manipolati fino a diventare “massa cosciente”. Dove pensa di stare, nell’ex Urss?

Vogliamo davvero essere antifascisti? – esplode- . Riportiamo la scuola alla sua funzione costituzionale. Permettiamo che abbia una sua coscienza civile per non tradire anche noi i nostri ragazzi. Perché se accanto ai calci dei fascisti si prendono anche la scuola del ‘merito’ e dell’alternanza scuola-lavoro allora davvero non c’è speranza”. Il riferimento al “merito” è una chiara istigazione in quel contesto di piazza: ragazzi, il ministro Valditara, al quale ha dato poco prima del “fascista”, è il nemico. Dirà qualcosa dei democraticissimi studenti che hanno messo il ministro a testa in giù sullo striscione? Sono “massa” sufficientemente “cosciente”?

Come vuole “aprire la testa” agli studenti

Ad istigare all’odio oggi c’era Montanari e a chi l’ ha applaudito acriticamente.  Il peggio viene alla fine, quando l’ultras Montanari ha usato parole tristemente evocative. “Nessuno di voi, ragazzi, pensi che la testa dei fascisti si apra a forza di colpi con la chiave inglese”. Pensava di usare parole di pacificazione, ma non lo sono affatto.  “Ai fascisti la testa gli si apre con scuola giusta”. Qualche cattivo maestro dovrà farsi un esame di coscienza.

La surreale marcia di Conte e Schlein contro i fascisti (immaginari) Andrea Indini il 4 Marzo 2023 su Il Giornale.

Il corteo antifascista di Firenze raccatta tutta la sinistra: dall'Anpi alla Cgil, dai 5S ai dem. Impugnano la Costituzione contro una deriva dittatoriale ma chiudono gli occhi davanti alla minaccia anarchica

Ebbene sì: nel 2023 siamo ancora qui a parlare di fascismo. Impossibile farne a meno. Perché il corteo di Firenze - o meglio la surreale "passeggiata antifascista" indetta da Cgil, Cisl e Uil "in difesa della scuola e della Costituzione" - è diventato tutt'a un tratto il collante del sinistrume nostrano, grillini compresi. Accanto ai centri sociali, ai collettivi studenteschi, alle prezzemoline sigle dell'onnipresente associazionismo rosso (Anpi, Acli, Cobas e l'immancabile Anpi), si sono accodati - rullo di tamburi - la neo segretaria nazionale del Pd Elly Schlein e il leader M5S Giuseppe Conte. Tutti a fingere che l'Italia corra un gravissimo rischio: l'instaurazione di una nuova dittatura fascista.

A sentir sproloquiare gente come il segretario della Cgil Toscana, Rossano Rossi (omen nomen), qualcuno tra quelli che oggi hanno marciato a Firenze contro il "disgustoso rigurgito" dello squadrismo nero sembrerebbe credere davvero a questo imperituro allarmismo che àncora la sinistra in crisi di ideali (ma non di ideologia) ai fantasmi di settant'anni fa. "Il fascismo oggi prende il volto delle organizzazioni di estrema destra che picchiano giovani di sinistra davanti alle scuole e assaltano le sedi sindacali", ha sentenziato Rossi. E poi ancora: "Dobbiamo essere partigiani e non indifferenti: Firenze e la Toscana oggi sono il centro dell'Italia democratica e antifascista". Partigiani, appunto. Come all'inizio degli anni Quaranta del secolo scorso. E come oggi, nel nuovo millennio. Tutto muta, tranne loro. Partigiani sempre. Bella ciao e tutto il resto: i pugni chiusi, le bandiere rosse con la falce e il martello, gli slogan. Sempre i soliti, come quello intercettato dal Foglio: "Uccidere un fascista non è un reato". E poi il tiro al ministro, Giuseppe Valditara in primis. E anche i due Matteo, Salvini e Piantedosi. Ma soprattutto lei: Giorgia Meloni. Tutti fascisti, tutti da defenestrare da Palazzo Chigi e dai loro ministeri. Esattamente come li hanno dipinti gli studenti del liceo classico "Carducci" di Milano: premier e ministro dell'Istruzione a testa in giù. Ecco l'"Italia democratica e antifascista", ecco la crème de la crème dei collettivi studenteschi. Stessa risma dei centri sociali che a Bologna hanno preso a bastonate i ragazzi di Azione Universitaria. O dei violenti che alla Sapienza hanno tolto a Daniele Capezzone il diritto a parlare.

A questa combriccola di manifestanti va dato atto che, di generazione in generazione, perseverano con assurda tenacia nella solita, strampalata narrazione. Decine di anni a brandire la Costituzione contro un'immaginaria deriva autoritaria che non si è mai verificata. Ma che importa? "Siamo in piazza per difendere i principi costituzionali", sentenzia Conte. Eppure il governo è stato eletto democraticamente, dovrebbe saperlo, lui che a Palazzo Chigi è stato paracadutato senza nemmeno passare dal voto e quando ci è passato ha perso. Pure la Schlein sembra ignorare il mandato popolare conferito al centrodestra. "Il Pd è ovunque si difende Costituzione", dice. E poi col più classico dei no pasarán: "Quei metodi violenti non passeranno, quei metodi squadristi non passeranno, troveranno questo cordone di solidarietà umana a difesa della scuola come presidio di cultura antifascista". Un cordone di solidarietà umana che, quando a odiare, pestare e minacciare sono i centri sociali, i collettivi studenteschi o gli anarchici, si volta opportunamente dall'altra parte.

Quella surreale marcia fuori tempo. Dopo la marcia su Roma, ecco cent'anni dopo la surreale la marcia su Firenze. Paolo Armaroli il 5 Marzo 2023 su Il Giornale.

Dopo la marcia su Roma, ecco cent'anni dopo la surreale la marcia su Firenze. Aveva ragione il vecchio Marx, Carlo non Groucho: «La Storia si manifesta una prima volta in tragedia e una seconda volta in farsa». Ieri hanno marciato sul capoluogo toscano i soliti noti: Landini, l'Anpi e compagnia cantante. Gente che ancora non ha digerito che Giorgia Meloni si sia legittimamente insediata a Palazzo Chigi senza sfigurare affatto. Come hanno riconosciuto Letta e Bonaccini, per questo lapidati dai sanculotti delle zone a traffico limitato delle grandi città. Né poteva mancare noblesse oblige la partecipazione straordinaria di Conte, un estremista per prudenza, e della Schlein. I promessi sposi. I Renzo e Lucia dei giorni nostri. Ma, come nelle comiche finali, presto potrebbero prendersi a torte in faccia per via della «roba»: i voti degli elettori.

Che ci sono venuti a fare? Ma è chiaro: per sfogare in corteo la loro rabbia. Novelli Don Chisciotte, hanno voluto ancora una volta combattere fuori tempo massimo contro i mulini a vento di un fascismo immaginario. Roba da matti. Hanno voluto esprimere la loro solidarietà alla preside Savino, sulla cui famosa lettera il ministro Valditara si è permesso di esprimere perplessità non sulle sue opinioni ma sui suoi errori. Perché Gramsci non è morto in carcere. Come ha scritto spensieratamente la preside, abilitata pare all'insegnamento di storia e filosofia. No, Gramsci era da un pezzo in libertà condizionata. Perché la ricostruzione della nascita, e della rinascita, del fascismo da parte della preside è stata ad usum delphini. Perché la sua condanna delle frontiere è assurda. Difatti, oltre a delimitare un territorio, racchiudono un'identità nazionale. Siamo entrati in Europa in quanto italiani. E ne siamo orgogliosi.

Elly ha esordito dicendo che farà vedere i sorci verdi a Giorgia. Sai che paura, ha lasciato intendere la presidente del Consiglio. Lei si aspetta dal Pd un'opposizione durissima. Fuori e dentro il Parlamento. Ma l'opposizione va saputa fare. E la fresca numero uno del Pd ha cominciato con il piede sbagliato. Una manifestazione riesce non per il numero dei partecipanti, un'infinitesima parte della popolazione. Ma se squaderna una buona causa davanti al tribunale dell'opinione pubblica. E invece anche qui a Firenze ieri si è manifestato non «per» ma «contro». Il colmo della mistificazione è poi osannare a parole la Costituzione, quella che Benigni e i suoi cari definiscono la più bella del mondo, e nei fatti proteggere gli studenti che se la mettono sotto i piedi quando pretendono di vietare la libera manifestazione di pensiero come all'università di Roma, a Firenze, a Bologna e altrove a chi non la pensa come loro.

Si può ingannare una persona per tutta la vita, tutti per una volta, ma non si possono ingannare tutti per sempre. Parola di Abramo Lincoln. Ma lo sanno i manifestanti fiorentini di ieri? Lo sanno i promessi sposi?

Unico collante ideologico la mobilitazione totale contro il pericolo fascista (che però non esiste). Rispolverato il vecchio ritornello lo tirano in ballo come pretesto. Francesco Giubilei il 4 Marzo 2023 su Il Giornale.

Quasi ogni giorno, dalla campagna elettorale di questa estate a oggi, la sinistra ha rispolverato un suo grande classico: l'antifascismo come strumento politico. Una tendenza destinata a durare per tutto il periodo in cui il centrodestra governerà e che utilizza ogni occasione per tirare in ballo il «pericolo fascista». Lo si è visto con quanto avvenuto al Liceo Michelangiolo di Firenze e con le successive polemiche dopo la lettera della preside del Liceo Da Vinci di Firenze Annalisa Savino e le parole del ministro Valditara culminate con la manifestazione antifascista andata in scena ieri a Firenze in cui, guarda caso, era presente anche la Savino. Già a settembre, pochi giorni prima delle elezioni, Enrico Letta aveva dichiarato: «La moderata Meloni annuncia che cambieranno la Costituzione da soli. Gli italiani domenica, con il loro voto, diranno a questa destra che la Costituzione nata dalla Resistenza e dall'antifascismo non si tocca». Non è andata proprio così. Il suo compagno Nicola Fratoianni era stato ancor più esplicito: «Meloni dice che non è fascista. Ma per governare l'Italia bisogna fare un passo in più, bisogna definirsi antifascista». Una frase significativa che testimonia come non sia sufficiente dirsi non fascisti ma occorra definirsi «antifascisti» come se si trattasse di un'ideologia a cui aderire. Le parole di Fratoianni spiegano che, qualunque cosa dica la destra su questi temi, non basta mai, serve sempre un passo in più fino a dar vita alla famosa destra che piace alla sinistra. Perciò ieri a Firenze la «cosa rossa» è scesa «in piazza per ribadire l'antifascismo come valore fondante» in una manifestazione che, già dagli intenti, è nata contro qualcuno o qualcosa, in questo caso Valditara e il governo. Una grande chiamata a raccolta dalla Schlein a Conte, da Landini all'Anpi. Nelle ultime settimane è stato un profluvio di dichiarazioni e, con la «piazza antifascista» di Firenze (a quando una «piazza anticomunista» (?), si è toccato il punto più alto. Se la Schlein ha parlato di una «risposta allo squadrismo» e di una «scuola come presidio antifascista», il suo collega Giuseppe Provenzano del Pd ha affermato: «I valori dell'antifascismo dovrebbero unire tutte le forze politiche. Oggi è il momento dell'unità di popolo». Tomaso Montanari, rettore dell'Università per stranieri di Siena, ha invece utilizzato toni radicali: «Ci dicono questo governo non c'entra nulla con il fascismo e io dico se il ministro della Scuola intimidisce una preside perché ha parlato di antifascismo allora dov'è che siamo? Fascista è chi il fascista fa». Secondo Rossano Rossi, segretario della Cgil Toscana: «Dobbiamo essere partigiani e non indifferenti: Firenze e la Toscana oggi sono il centro dell'Italia democratica e antifascista». Se per i fatti del Liceo Michelangiolo non si sono sprecate le parole, si registra un silenzio assordante per condannare l'aggressione avvenuta qualche mese fa a Bologna da parte dei collettivi ai danni di alcuni studenti di destra di cui sono state da poco diffuse le immagini. Così come sono mancate frasi di solidarietà al ministro Valditara per le minacce ricevute o prese di distanza dai collettivi quando impedivano di svolgere convegni nelle università pubbliche. Sarebbe davvero paradossale se ancora oggi passasse il messaggio che la violenza è sbagliata ma ci sono alcune violenze più sbagliate di altre a seconda di chi le compie.

La battaglia di libertà: dalla strage di Cutro a Cospito. Il fascismo è processare ingiustamente Berlusconi e tenere Eva Kaili in carcere tra torture e ricatti. Piero Sansonetti su Il Riformista il 4 Marzo 2023

Oggi si svolge a Firenze una manifestazione antifascista. È stata convocata per protestare contro l’aggressione subita dagli studenti del liceo Michelangelo da parte di una pattuglia di estrema destra, e contro il silenzio del governo di centrodestra su questo episodio. È giusto protestare. Anche se il liceo Michelangelo non credo sia il cuore del problema-Italia.

Io resto dell’idea che se vogliamo fare delle battaglie antifasciste serie, dobbiamo occuparci del fascismo moderno. Che poi ognuno può chiamarlo come vuole ma è un fenomeno reazionario vero, non solo italiano, che rischia di rimandare indietro di molti anni il livello alto di civiltà che l’Europa aveva conquistato in questi anni. Per me l’antifascismo non è un’etichetta. Una bandiera. Un richiamo alla tradizione e all’eroismo dei partigiani. Non è la canzone Bella Ciao o Fischia il vento. Non è un rito. È più radicalmente – molto più radicalmente – una battaglia per la libertà, contro la repressione, contro il giustizialismo, l’ultralegalitarismo, la xenofobia, il razzismo, il nazionalismo, l’autoritarismo. Per me antifascismo vuol dire opporsi ai respingimenti dei profughi, difendere l’articolo 10 della Costituzione, protestare per la detenzione (in assenza di reati) di Dell’Utri o di Contrada e per il carcere duro illegalmente inflitto ad Alfredo Cospito.

È difendere la comandante Carola Rakete, e anche Berlusconi processato ingiustamente, è trovare casa e lavoro ai migranti, denunciare la follia della violazione dell’articolo 11 della Costituzione e del coinvolgimento dell’Italia nella guerra in Ucraina, ed è anche indignarsi per i fenomeni di Torquemadismo in corso in Belgio ai danni di alcuni parlamentari europei. Mi riferisco in particolare alla situazione della deputata europea di nazionalità greca Eva Kaili, che è stata catturata e messa in cella tre mesi fa con l’accusa di essersi fatta corrompere dal governo del Qatar, o forse da quello del Marocco, ma contro la quale, a quanto sembra, non si trovano le prove. La Procura belga ha deciso di usare il carcere come mezzo di indagine. Come si faceva fino al 700.

Lo ha già fatto con il compagno della Kaili, Francesco Giorgi, e con Antonio Panzeri. Loro hanno accettato il gioco, pare, hanno confessato, hanno lanciato qualche accusa contro un paio di parlamentari, seppure senza offrire riscontri, hanno detto quello che i magistrati volevano che dicessero, e in cambio hanno ottenuto uno la liberazione, l’altro un formidabile sconto di pena e la scarcerazione di moglie e figlia. Eva Kaili invece non ha accettato di confessare, si dichiara innocente e fa infuriare gli inquirenti. Che l’hanno arrestata illegalmente, perché lei era protetta dall’immunità parlamentare – inventandosi una inesistente flagranza di reato – l’hanno anche torturata, tenendola 48 ore al gelo e senz’acqua (dopo avergli sequestrato anche il cappotto) in una cella di isolamento con le luci sparate per non farla dormire, e le hanno fatto capire che o parla o resta al gabbio.

Ieri il giudice ha respinto una sua richiesta di liberazione e ha decretato che starà in cella almeno altri due mesi. Cioè che per ora è stata condannata a cinque mesi di prigione senza processo. Poi, se non parla, altri mesi. Sebbene non esistano le condizioni per la carcerazione preventiva (non può scappare, non può reiterare, non può inquinare le prove) e sebbene la Kaili sia madre di una bambinetta di due anni che non vedrà la mamma per almeno cinque mesi (nemmeno nel giorno del suo secondo compleanno), che sono i mesi più importanti della vita di un bambino per i rapporti con la mamma. Chiamatelo medioevo, chiamatelo fascismo, se per fascismo intendete il modello più noto dei regimi autoritari europei, chiamatela pura sopraffazione dello Stato. Di certo è una violazione pazzesca del diritto e una sfida alla politica e alla democrazia. La politica però non reagisce. Si inchina a Torquemada. La stampa non ha neanche bisogno di inchinarsi perché è già prona.

Mi piacerebbe se la manifestazione di Firenze si occupasse anche di questo. E si schierasse a difesa della deputata greca. E poi, soprattutto, mi piacerebbe se si occupasse di Cutro e protestasse per la politica della non-accoglienza (che certo però non può essere addossata solo al governo attuale) che sei giorni fa ha provocato una vera e propria strage di profughi. Avvenimento che a me pare, per la sua gravità, schiacci tutte le altre polemiche. È impossibile spiegarsi come mai i ministri che avevano la responsabilità dei salvataggi non siano stati ancora allontanati. Elly Schlein ha chiesto l’altro giorno le loro dimissioni. Ha fatto benissimo. È un ottimo esordio. Mi auguro che non demorda. Sennò l’antifascismo diventa pura cerimonia.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Schlein e Conte, il corteo antifascista è una farsa. I leader di Pd e 5Stelle saranno presenti alla manifestazione del 4 marzo a Firenze. Max Del Papa su Nicola Porro il 2 Marzo 2023.

Compagna, il popolo non copre le bollette. Dategli dell’antifascismo. La lunga marcia verso la fusione dei fissati, dei fanatici, sinistra social comunista mezza piddina e mezza grillina, passa per Cospito e il liceo Michelangiolo, per la professoressa Savino che teme la risacca diciannovista, per il sabato antifà. È qui che si incontreranno gli stati generali di due leader di laboratorio, Elly e Beppi, e la vedremo, ah se la vedremo, chi è più sovversivista, movimentista, massimalista. Perché non c’è dubbio che nella Firenze delle ombre rosse, delle cosche rosse i casini scoppieranno e grandi casini: le minacce, garantite, alla Meloni nel garantismo carrierista dei soliti, le foto bruciate, le devastazioni democratiche, la guerriglia proustiana, i pupazzi impiccati per i piedi, il vaneggiare a pugno chiuso degli spiaggiati da centro sociale.

Nella Firenze dell’eterna ebollizione più o meno armata, del misterioso comitato esecutivo delle Bierre che non si è mai localizzato ma dove comandava il terrorista prof. Senzani, implicato coi Servizi italiani e gradito ospite di quelli americani. Roba che i vecchioni del Pd sanno benissimo come la sa il prof. Prodi delle sedute spiritiche fantasma per indirizzare a Gradoli (la via non il paese, cazzo!), a vana ricerca dei carcerieri di Moro. Prodi, amico, collega e sodale del padre della ragazza Schlein in seno al centro di potere il Mulino. Chi invece non sa niente di queste convergenze parallele è la generazione S, come Schlein, come Sardine. Quella che in nome dell’amore ti fa fuori senza complimenti. Cinica, ecco una continuità ittica col comunismo degli squali e dei piranha, al punto da usare un naufragio con un centinaio di morti per attribuirlo al governo e un regime di relativo isolamento su un balordo non innocuo per attribuirlo al governo.

Benzina sul fuoco da chi cerca l’incendio della prateria e lo cerca nella Firenze dei furori da centro sociale, sostenuta dalla stampa irresponsabile. Oggi come allora la provocazione miserabile fino alla messa in conto del morto da addebitare al regime fascista. Tanto fascista che finora si è preoccupato di andar d’accordo con gli ineffabili poteri forti, ineffabili ma non indicibili visto che i nomi li conoscono tutti: il Colle, la finanza totale della quale il massimo rappresentante Draghi dice “Noi decidiamo tutto o almeno ci proviamo, voi subite comunque”, la Unione Europea comitato d’affari della grande industria, i finanzieri eversivi come i Gates e i Soros che sostengono i manga di nome Elly o Greta, i burattinai perversi tipo Schwab, l’informazione unica che da questi è pagata e può farti scoppiare tra i piedi un ordigno mediatico in qualsiasi momento.

La verità è che il governo si muove sulle uova, i Piantedosi, i Valditara sono disastrosi nella comunicazione temendo conseguenze che, si mettessero l’anima in pace, arriveranno comunque. C’è un ordine costituito che non è modificabile, che può essere solo arginato come per la demenziale transizione all’auto elettrica e questo Giorgia Meloni lo sa e cerca di barcamenarsi. E c’è una effervescenza antagonista per le allodole, che lavora per il regime vero, un regime sovranazionale e finanziario. Per cui diventa fondamentale la recita dei sovversivi d’ordine che a Firenze vanno da comparse più o meno consapevoli di una rappresentazione di potere per il potere. O, per farla facile: ci va bene che in questa fase siate voi al comando purché sia chiaro che è un comando nominale, di facciata, che possiamo farvi fuori come e quando vogliamo. Poi magari si sbagliano anche loro, ma il senso del sabato (anti) fascista fiorentino è questo ed è palese.

La grande farsa della contrapposizione tra donne di vertice, la post fascista e la neocomunista, sta nella attribuzione alla premier di condizionamenti atlantici contro i quali si opporrebbe la pacifista e antagonista segretaria piddina che è una carica oggi patetica. Che Meloni abbia coltivato sponde atlantiste è chiaro e non è un delitto, ma ad uscire dalle fabbriche americane degli influencer politici, a sponsorizzare le tematiche del neorevisionismo pubblicitario americano, gender, clima, isteria antifà, ad avere un passaporto americano, connessioni con l’egemonia politica e culturale americana, è il nuovo capo del partito grillino democratico. Ma, siccome vale tutto, può benissimo valere che una adunata d’ordine venga partecipata dai leader d’ordine, del nuovo ordine, globalista, finanziario, in veste filosovversivista, sotto l’egida dell’antifascismo militante in sostegno a un insurrezionalista anarcoide bombarolo. Max Del Papa, 2 marzo 2023

Il corteo "anti-violenza" inneggia alle foibe e a Tito. A Firenze 2.000 in piazza insultano il governo. Ma quando i pestaggi sono rossi, silenzio totale. Francesco Giubilei il 23 Febbraio 2023 su il Giornale.

Dopo i fatti avvenuti nei giorni scorsi al Liceo Michelangiolo, i collettivi studenteschi, le sigle della sinistra e le associazioni antifasciste, sono scese in piazza lunedì nel tardo pomeriggio a Firenze in una manifestazione che si è trasformata in una sfilata degli orrori. Il corteo, nato per protestare «contro l'aggressione subita da due giovani davanti al Liceo Michelangiolo» (anche se in un nuovo video si sostiene sia avvenuta «non un'aggressione ma una rissa»), si è aperto con lo striscione «Liberiamoci dal fascismo e dal governo Meloni».

Si potrebbe già obiettare sul collegamento tra quanto avvenuto fuori dal liceo fiorentino e il governo ma è nulla rispetto allo spettacolo andato in scena per le strade del capoluogo toscano. I manifestanti, circa duemila, si sono radunati a Campo di Marte per poi dirigersi verso via Frusa, sede di Azione Studentesca (il movimento a cui appartengono i militanti coinvolti nei fatti del Liceo Michelangiolo).

Nel tragitto sono stati intonati cori contro la polizia e i giornalisti e, mentre circolava un volantino di solidarietà all'anarchico Alfredo Cospito e contro il 41Bis, si è alzato un coro di minacce al presidente del Consiglio: «Meloni fascista, sei la prima della lista». Non paghi, alcuni dei presenti hanno inneggiato alle foibe gridando «Viva le foibe» a cui è seguita la canzoncina «il compagno Tito ce l'ha insegnato...» per poi concludere con «fascista di merda, ti lascio morto in terra».

A fare da contorno le bandiere dell'Urss e della Jugoslavia comunista di Tito, un contesto da cui di certo non può arrivare nessuna lezione di democrazia. E, non a caso, il corteo è culminato con un lancio di bottiglie contro gli agenti di polizia schierati in assetto antisommossa. Eppure, nonostante il tenore dell'iniziativa, non è arrivata una parola di condanna da parte di politici e opinionisti di sinistra che nei giorni scorsi hanno accusato il governo di non prendere le distanze da Azione Studentesca.

Lo stesso silenzio che si registra ogni volta che i collettivi occupano le università e impediscono con l'uso della forza lo svolgimento di eventi o conferenze su temi o con ospiti a loro non graditi. D'altra parte, quando gli aggressori sono di estrema sinistra, nessuno dice niente. A maggio, a Bologna, alcuni esponenti di Fdi e Azione universitaria sono stati assaliti da militanti dei centri sociali. Quel giorno - la vicenda è raccontata nel portale di Nicola Porro - intervennero le forze dell'ordina. La procura di Bologna ha chiuso le indagini chiedendo il rinvio a giudizio per otto aggressori di sinistra. Di questo fatto non si è parlato né sono state organizzate manifestazioni.

Due pesi, due misure. I presidi degli istituti fiorentini condannano quanto accaduto al Michelangiolo e, dopo i dirigenti scolastici dell'Istituto Salvemini Duca d'Aosta e del Liceo Pascoli, anche la preside del liceo Leonardo Da Vinci è intervenuta affermando che: «Il fascismo in Italia non è nato con le grandi adunate da migliaia di persone. È nato ai bordi di un marciapiede qualunque». Mentre la Procura ha aperto un fascicolo nei confronti di sei ragazzi coinvolti nelle violenze del Liceo Michelangiolo, l'auspicio è che i dirigenti scolastici fiorentini prendano allo stesso modo le distanze da quanto andato in scena per le strade di Firenze perché le minacce, la violenza e inneggiare a regimi totalitari o a dittatori, deve sempre essere condannato da qualsiasi parte arrivi.

Inneggiano alle foibe e a Tito: ecco cosa rischiano ora i compagni. Durante il corteo di ieri a Firenze cori per inneggiare a Tito e alle foibe. L'Unione degli istriani: "Pronti a querelare". Matteo Carnieletto il 22 Febbraio 2023 su il Giornale.

La risposta è arrivata dall'Unione degli istriani. Secca. Chiara. Definitiva. Dopo aver visto i video in cui gli antifascisti fiorentini inneggiano a Josip Broz Tito e alle foibe, l'associazione di esuli di Trieste si è detta pronta a querelarli.

L'annuncio è stato dato in un comunicato in cui l'Unione, dopo aver ripercorso le offese degli antifà, afferma: "Non postiamo il video, non volendo pubblicizzare quello che comunque gira già dappertutto sui social: di bandiere rosse, ed addirittura jugoslave, con quella lurida stella vermiglia, ne abbiamo viste abbastanza, dal 1954 in avanti e ben prima, quando eravamo ancora a casa nostra, in Istria. Stavolta però l'Unione degli Istriani non intende stare a guardare. Il presidente Massimiliano Lacota in una nota diramata poco fa ha fatto sapere, a chiare lettere, che il limite è stato oltrepassato".

E, per rendere ancora più chiara l'idea, Lacota ha annunciato: "Denunciamo una volta per tutte questi delinquenti del linguaggio che si permettono di infangare la nostra memoria, che è quella dei Martiri delle Foibe. È giunto il momento di che si assumano le loro responsabilità davanti alla legge per queste manifestazioni di intolleranza, che non possono più rimanere impunite".

Una dura presa di posizione è venuta anche da Giampaolo Giannelli, coordinatore toscano Unione degli Istriani, che in una nota ha affermato: "A seguito degli avvenimenti accaduti all'esterno del liceo Michelangelo, gli studenti dei collettivi di sinistra hanno organizzato una manifestazione antifascista. Peccato che la manifestazione, oltre a momenti di tensione culminati nel lancio di petardi contro la polizia, abbia visto sventolare le bandiere della ex Jugoslavia di Tito, il massacratore di migliaia di italiani. Peccato, soprattutto, che si siano ascoltati cori vergognosi inneggianti a Tito ed alle foibe, tutti documentati da video che circolano in rete. Ci aspettiamo da parte della politica, tutta - aggiunge -, una ferma condanna dell'accaduto, che costituisce una grave offesa ai nostri martiri ed alle famiglie che hanno affrontato il dramma dell'esodo per sfuggire alla ferocia dei partigiani comunisti titini".

Nessun agguato, hanno iniziato i collettivi rossi”: la testimonianza di un prof del liceo di Firenze. Penelope Corrado su Il Secolo d’Italia il 23 Febbraio 2023.

Un professore che insegna al liceo Michelangiolo di Firenze racconta oggi a La Nazione di avere assistito personalmente agli scontri e che non c’è stato un agguato, ma una rissa. Inoltre, secondo la testimonianza di questo insegnante la storia è andata esattamente al contrario di come è stata narrata finora sui giornali e dagli studenti di sinistra. A scatenare la violenza sono stati, infatti, secondo questo docente, i Collettivi di sinistra.

L’agguato di Firenze? Lo hanno fatto i collettivi ai ragazzi di destra

Al giornalista de La Nazione Stefano Brogioni, che vorrebbe riportare il suo nome, il professore chiede di ometterlo, per evitare “comprensibili” ritorsioni. Perché la sua «è una scuola molto politicizzata». «Lavoro da molti anni al Michelangiolo ma non voglio che esca il mio nome. Sabato mattina stavo entrando a scuola e ho visto quello che è successo». Docenti costretti a mantenere l’anonimato, il che la dice tutta sul vero clima di terrore e di intimidazione che regna in certi ambienti. Altro che “pericolo fascista”.

Il prof testimone: “Hanno iniziato i Collettivi, poi c’è stata la reazione”

Ecco infatti, secondo questo testimone oculare, come sono andate davvero le cose: «C’era questo volantinaggio dei ragazzi della destra. Sono usciti quelli dei Collettivi e hanno cominciato ad insultarli e strappare i volantini. Hanno tirato delle spinte e a quel punto quelli di Azione Studentesca hanno cominciato a picchiare. E sicuramente hanno esagerato». Il professore dice di non essere intervenuto per gli stessi motivi per cui vuole l’anonimato: «Sto bene in questa scuola e vorrei continuare a lavorarci senza problemi».

Intanto la Digos lavora sul precedente del Pascoli: non ci sono immagini dell’accaduto. Per il Michelangiolo la procura indaga per violenza privata a carico di 6 persone segnalate dalla polizia.

Altro che vittime: ecco tutte le provocazioni degli antifascisti. Dalla sede di Casaggì imbrattata alle targhe, che commemorano i martiri delle foibe, distrutte. Ecco le violenze (nascoste) della sinistra fiorentina. Matteo Carnieletto il 22 Febbraio 2023 su il Giornale.

Tutto era partito come un raid. Un raid fascista, ovviamente. Era stata la grancassa mediatica di sinistra a puntare il dito contro Azione studentesca per i fatti del 18 febbraio scorso quando, davanti al liceo Michelangiolo di Firenze, si era registrata una rissa che aveva visto opporsi studenti di destra e di sinistra. Un frame e un video, sapientemente tagliato, erano stati usati per dimostrare che, alla fine, quelli di Casaggì avevano aggredito gli antifascisti, accanendosi su di loro. In realtà, alcuni video diffusi successivamente dimostrano il contrario. Ovvero che quella del liceo Michelangiolo altro non è che una rissa. Stupida e violenta come tutte le risse. Ma non un raid punitivo.

Se si uniscono i fatti precedenti e successivi a quel 18 di febbraio, però, si scopre una realtà diversa. Una realtà dove la sinistra è più provocatrice che vittima. Partiamo dallo scorso agosto, quando la sede di Casaggì/Azione studentesca di Firenze viene imbrattata con parole minatorie. La scritta "Fratelli d'Italia" viene sporcata con dello spray nero e la firma antifà. Poi la parola "servi", con una celtica impiccata. E una serie di complimenti come "fate cagare, servi bastardi, Firenze vi odia, merde, infami, gli unici stranieri sono qui, fasci infami". E infine la minaccia: "fascistello okkio".

Passano i mesi e la tensione tra le opposte fazioni resta alta. Il caso Cospito non fa altro che peggiorare le cose. Anarchici e antifà alzano la testa e, in più di una occasione, imbrattano i muri di Firenze. Ma non solo. A fine gennaio, al direttore del Tirreno, Luciano Tancredi, arriva una busta contenente un proiettile.

È febbraio, però, il mese caldo. Ignoti distruggono la lapide che commemora i morti delle foibe. Qualche giorno dopo, questa viene sostituita ma viene subito imbrattata con la scritta "vendetta".

Arriviamo così al 9 febbraio scorso. Quel giorno, davanti al Pascoli, alcuni ragazzi di destra vengono aggrediti da giovani incappucciati e armati di cinghie. "Nessuno è intervenuto. Nessuno ha fatto niente. Poi si sono diretti verso gli altri ragazzi ed è iniziata una vera e propria aggressione premeditata dei ragazzi del collettivo", ci ha raccontato ieri una fonte legata alla sinistra fiorentina. E poi il 18 febbraio, giorno del presunto raid fascista che si è poi rivelato essere una "semplice" rissa. "Ogni collettivo sceglie le modalità con cui affrontare questo tipo di volantinaggi", ci aveva detto ieri una fonte vicina ai collettivi. Che aveva poi specificato: "C'è chi cerca il dialogo e chi invece non dice una parola e inizia a fare a botte. Quelli del Michelangelo hanno scelto una via di mezzo".

Ieri, infine, un corteo organizzato dagli antifà fiorentini, arrivato di fronte alla sede di Casaggì. Le immagini, ma soprattutto gli slogan urlati, parlano chiaro. Oltre a quelli contro il presidente del Consiglio - "Meloni fascista, sei il primo della lista" - anche veri e propri cori di minacce: "Le sedi fasciste si chiudono col fuoco, ma coi fascisti dentro se no è troppo poco", "viva le foibe", "il compagno Tito ce l'ha insegnato, ogni fascista va infoibato", "fascista di merda, ti lascio morto in terra", "fascisti carogne, tornate nelle fogne".

Difficile pensare che coloro che hanno scandito questi slogan possano considerarsi vittime.

"Militanti FdI pestati a calci e pugni": indagati 8 di sinistra. Ma nessuno ne parla. Chiuse le indagini per i militanti di estrema sinistra che aggredirono alcuni esponenti di Azione Universitaria. Tutti zitti (a differenza di Firenze). Matteo Milanesi su Nicola Porro il 22 Febbraio 2023.

È la grande malattia dell’estrema sinistra, quella della formula "uccidere un fascista non è reato", degli anni di Piombo mai tramontati, delle città sfasciate durante i loro cortei (rigorosamente non autorizzati). In nome della resistenza e della democrazia, si cerca di ribaltare il principio entrando nel campo del paradosso: attraverso la violenza, i comunisti vogliono eliminare – per alcune frange non solo politicamente, ma anche fisicamente – tutte quelle forze politiche che si pongono in contrasto con le idee della sinistra radicale, rigorosamente comuniste. Insomma, in nome della libertà, della pace e del 25 aprile, si danno vita a veri e propri atti di teppismo contro l’avversario di turno.

Il motto è sempre lo stesso: "I fascisti non possono avere spazio in questo Paese". Poco importa se, vent’anni fa, la parola "fascista" era associata a Silvio Berlusconi, come titolò una celebre apertura de L’Unità: "Berlusconi come Mussolini". O ancora, poco importa se "fascista" era pure Matteo Salvini, quando la Lega toccava punte del 30 per cento. Ed infine, poco importa se "fascista" è Giorgia Meloni, Presidente del Consiglio in carica e a capo di un partito che domina lo scenario politico italiano. Insomma, come ricordava il giornalista Daniele Capezzone: "Fascista è qualsiasi partito non di sinistra che raggiunge almeno il 15 per cento". È fascista pure quest’ultimo, nonostante il suo passato politico da radicale con radici libertarie, visto che i collettivi dell’Università La Sapienza non gli permisero di tenere una conferenza con alcuni esponenti di Fratelli d’Italia.

L’obiettivo, quindi, non è quello di combattere l’avversario politico con la forza delle idee, ma quello di squalificarlo, escluderlo, cacciarlo dalle piazze dove legittimamente esercita diritti inalienabili della nostra Costituzione. Esatto, la stessa Carta del ’48, così tanto sventolata dalla sinistra, alla ricerca di un continuo "pericolo fascista" (poi puntualmente inesistente).

I fatti di Bologna

Un caso plastico di questa rappresentazione lo abbiamo avuto a Bologna, quando lo scorso maggio alcuni esponenti di Fratelli d’Italia e Azione Universitaria (il movimento giovanile di FdI che agisce all’interno degli atenei) sono stati assaliti da alcuni facinorosi dei centri sociali, tutti nati tra il 1988 ed il 2001 (di cui il più grande recidivo). Il fatto risale allo scorso maggio, ma sembra essere passato letteralmente in sordina, riservandolo solo a qualche articolo di cronaca locale del bolognese. Eppure, in questo caso, si può letteralmente parlare di un’aggressione premeditata. Come raccontato ai tempi dall’allora capogruppo di Fratelli d’Italia in Emilia Romagna, e oggi senatore, Marco Lisei: "Una decina di ragazzi e ragazze di Azione Universitaria si trovavano tranquillamente insieme in via Zamboni alla Facoltà di Lettere per vedere i risultati delle elezioni universitarie. Usciti dalla Facoltà di Lettere, in prossimità di Piazza Verdi, venivano circondati da una ventina di persone e malmenati". Un agguato che rese necessario l’intervento del 118 e dei carabinieri.

Due pesi, due misure

Il caso è stato oggetto di un’indagine portata avanti dalla Procura di Bologna, terminata a metà settembre – come nicolaporro.it può rivelare in esclusiva – con la richiesta di rinvio a giudizio di tutti gli otto aggressori di estrema sinistra. Oltre alle minacce, con frasi quali "vi uccidiamo", "tornate nelle fogne", "siete morti", si sono susseguiti "calci, spintoni, pugni, strattonamenti" che hanno comportato lesioni personali, trauma cranico e toracico agli esponenti di Azione Universitaria. Eppure, sui media mainstream, il nulla più assoluto, nessuno (o quasi) articolo di condanna contro l’attacco premeditato, nessun tipo di solidarietà offerta agli aggrediti.

Un trattamento ben diverso rispetto a quello di Firenze, dove da giorni è diventato caso nazionale il video in cui alcuni giovanissimi (nati tra il 2002 ed il 2007) tirano calci e pugni a due esponenti dei collettivi di sinistra davanti al Liceo Michelangelo. Subito si è allarmata l’opinione pubblica rispolverando il vecchio "pericolo fascismo", parlando di azione premeditata a danno dei giovanissimi di sinistra. Eppure, come ricostruito dalla Digos, pare non si sia trattata di un’aggressione, ma di una rissa per motivi politici, sfociata durante un volantinaggio di Azione Studentesca (il gruppo giovanile di Fratelli d’Italia).

Da una parte, però, sul caso di Firenze si è aperta una vera e propria questione nazionale, che ha posto al centro anche il premier Giorgia Meloni, colpevole – secondo gli intellettuali antifa – di non aver condannato le violenze con una dichiarazione pubblica, e quindi di avallare implicitamente questi atti "squadristi". Dall’altra, invece, sui fatti di Bologna i giornali di sinistra non hanno sprecato neanche una riga, nonostante si trattasse di un’azione da far invidia pure i facinorosi comunisti degli anni di Piombo.

"Calci, pugni, spintoni"

La Procura della Repubblica di Bologna descrive i fatti in modo agghiacciante: "In concorso tra loro e con altri non tutti ancora identificati, e al fine di conseguire il profitto del delitto (sottrarre bandiere e aste di bandiera detenute dal movimento Azione Universitaria), cagionavano a C.S. lesioni personali giudicate guaribili in giorni 16, sferrando a più riprese calci, pugni e spintoni. Così come nello stesso contesto dell’aggressione a S.A., che riportava un trauma toracico giudicato guaribile in giorni 6″. E ancora, l’aggressione avveniva in una chiara sproporzione numerica, in cui un militante di Fratelli d’Italia veniva "percosso e aggredito con pugni e calci da quattro soggetti".

Insomma, azioni da forze squadriste dei momenti più bui degli anni ’70, come ricordato ancora dal senatore Lisei: "Da quando ho iniziato a fare politica, ho solo subito e ho visto subire a tanti ragazzi di tutto. Sputi, insulti, banchetti ribaltati, spinte, oggetti lanciati, aggressioni. Galeazzo Bignami è stato più volte menato, io sono stato aggredito, molti nostri giovani idem. L’ultimo caso 7 mesi fa, alcuni ragazzi e ragazze di Azione Universitaria uscivano tranquillamente dall’università, gli aspettava un gruppo di circa 20 persone, organizzati per fare un vero e proprio agguato, calci, pugni, spinte e diverse denunce. Avete mai letto qualcosa a livello nazionale?".

Un fatto mascherato per una ragione molto semplice: l’unica colpa dei ragazzi di Azione Universitaria era quella di essere di destra, responsabilità non perdonata neanche dal giornalismo progressista. D’altro canto, si sa, "uccidere un fascista non è reato". Ora, aggredire violentemente chi non è di sinistra non è reato. E in nome di questo folle parametro, tutto diventa giustificabile. Sia politicamente, che giornalisticamente.

Matteo Milanesi, 22 febbraio 2023

Estratto dell’articolo di Filippo Fiorini per lastampa.it il 23 Febbraio 2023.

Ci sono volute 24 ore perché un'esponente di livello del governo Meloni prendesse posizione, con distinguo, sul pestaggio subito sabato da due studenti del liceo Michelangiolo di Firenze da parte di almeno 6 giovani militanti di destra, ma ne sono bastate 20 perché lo stesso esecutivo condannasse la lettera che la preside di un altro istituto cittadino ha rivolto ai suoi alunni, per metterli in guardia dai pericoli sociali della militanza praticata con le botte.

Prima, il capogruppo alla Camera di Fratelli d'Italia, Tommaso Foti, per il quale «gli episodi di violenza politica sono sempre da condannare, al netto di quella che sarà la dinamica da accertare», poi il ministro dell'Istruzione, Giuseppe Valditara, che poco fa a Mattino Cinque ha definito «impropria» la lettera aperta scritta dalla preside Annalisa Savino e ha detto di essersi sentito «dispiaciuto», dopo averla letta, nonché di valutare provvedimenti contro la dirigente scolastica. Nella stessa intervista, Valditara ha anche chiesto solidarietà bipartisan per una minaccia di morte rivoltagli sui social.

«Non compete ad una preside lanciare messaggi di questo tipo e il contenuto non ha nulla a che vedere con la realtà», ha spiegato Valditara, che oltre ad essere titolare dell'Istruzione è un noto giurista ed esponente della Lega di Salvini. «In Italia non c'è alcuna deriva violenta e autoritaria, non c'è alcun pericolo fascista, difendere le frontiere non ha nulla a che vedere con il nazismo e con il fascismo», ha proseguito il ministro, intervistato da Francesco Vecchi, conduttore del mattutino di Mediaset.

 Il passaggio più contestato, di una lettera che in rete ha incassato la stima di molti, è l'ultimo paragrafo. «Il Fascismo in Italia non è nato con le grandi adunate di migliaia di persone. È nato ai bordi di un marciapiede qualunque, con la vittima di un pestaggio per motivi politici che è stata lasciata a se stessa da passanti indifferenti», scriveva Savino in uno dei passaggi iniziali e più citati, proseguendo più avanti poi con: «Chi decanta il valore delle frontiere, chi onora il sangue degli avi in contrapposizione ai diversi, continuando ad alzare muri, va lasciato solo, chiamato con il suo nome, combattuto con le idee e con la cultura, senza illudersi che questo disgustoso rigurgito passi da se».

[…] «Sono iniziative strumentali che esprimono una politicizzazione che auspico non abbia più posto nelle scuole», ha risposto il ministro, «se l'atteggiamento dovesse persistere, vedremo se sarà necessario prendere misure». […]

Giorgia Meloni e il pressing antifascista su Palazzo Chigi. Iuri Maria Prado su Libero Quotidiano il 22 febbraio 2023

Non si tratta soltanto della somma rottura di palle per l’ennesimo strillo “antifa” sulla notizia di un’aggressione addebitata, in ipotesi anche fondatamente, a giovani di destra: che è una cosa pessima e da sanzionare, quando accertata, ma che davvero non può essere messa a riprova, come invece si fa, dell’emergenza nera a far tempo dal 25 settembre dell’anno scorso, vale a dire da quando il Paese è stato sottratto alle cure democratiche dell’antifascismo curricolare. E non si tratta nemmeno di indugiare sulla penosa militanza politico-giornalistica che denuncia lo squadrismo o invece lo trascura secondo che a menare le mani e a devastare le cose sia il teppistello di destra anziché quello, statisticamente molto più attivo, imbandierato di rosso e d’arcobaleno. Si tratta piuttosto della ridicola pretesa che Palazzo Chigi sia una specie di “dichiarificio”, con Giorgia Meloni e i componenti del governo e la maggioranza parlamentare chiamati con urgenza indifferibile “a prendere le distanze” dai fatti dell’altro giorno a Firenze.

BELLA CIAO”

A parte il fatto che non risulta che analoga pretesa sia stata mai rivolta a un presidente del Consiglio di sinistra nei casi, davvero non proprio rarissimi, di violenze commesse da picchiatori e sfasciavetrine comunisti, pacifisti, ecologisti, abbruciatori di bandiere statunitensi e israeliane e via delinquendo, c’è che al governo compete semmai di tutelare l’ordine pubblico e di proteggere i cittadini (non quelli di sinistra: tutti) dalla violenza: ma il fatto è che questo compito non c’entra proprio nulla con le proclamazioni di antifascismo da protocollo, come invece reclama qualche stupidotto che in buona sostanza imputa al presidente del Consiglio di non aver opposto ai fatti di Firenze una requisitoria resistenziale sulle note di “Bella Ciao”.

 La cosa che piacerebbe a questi avventizi del sistema democratico, refrattari anche alla sola idea che al governo non stia chi ripete le tiritere da 25 aprile, è che l’azione politica di una maggioranza di destra si esaurisca e si consumi nel dar prova simbolica e ciarliera di antifascismo militante, in buona sostanza ammettere che la propria presenza al potere ha irresponsabilmente affidato il Paese alla violenza delle squadracce. E dunque emendarsi da questa colpa civile e costituzionale dichiarando che il fascismo è lì in agguato, tra i ninnoli dell’abitazione del presidente del Senato e nelle strade di Firenze lungo le quali imperversano i manipoli neri.

 TUTELA DEMOCRATICA

Non occorrerebbe avere simpatie né verso il presidente del Consiglio né verso la maggioranza che lo sostiene per reagire con l’irritazione dovuta a questa insopportabile pretesa di tutela democratica: che proviene da una schiatta assai disponibile allo sbrego autoritario e di legalità, pure violento, se solo si attiva democraticamente tra i propri ranghi e ai danni degli avversari. 

Scuole pessime e famiglie assenti con i giovani uniche vittime. Marcello Bramati su Panorama il 17 Gennaio 2023.

I recenti violenti episodi di cronaca riaprono il dibattito sul rapporto tra l’istituzione scolastica e i genitori, tra chi dice che non è più come una volta e chi vorrebbe i genitori fuori dalle scuole. Eppure istruzione e famiglia hanno obiettivi in comune e ruoli ben definiti che vanno svolti con impegno e riscoperti con fiducia

I genitori sono sempre meno disposti ad accogliere un giudizio, anche professionale, sui figli, e la scuola risulta l’ambiente più probante, perché giunge sempre a una valutazione sintetica e, inevitabilmente, a una promozione, a un rinvio, a una bocciatura. E così capita sempre più spesso che ci siano ricorsi su ricorsi per una decisione sgradita, liti accese a colloquio, toni inopportuni in riunione, mail di fuoco a ogni ora di ogni giorno. Recentemente è salita alla ribalta delle cronache il caso di una docente colpita in aula da proiettili di una pistola ad aria compressa durante la lezione, con tanto di denuncia, sospensione, reclamo dei genitori e revoca della sospensione. La scuola è arrivata a questo punto, ospitando incomprensioni quotidiane, un nervosismo crescente da parte di tutti, episodi di insubordinazione e mancanza di rispetto, battaglie a colpi di carte bollate, fino a incresciosi casi di cronaca nera. Si tratta di un clima avvelenato che non ha un solo responsabile, che non fa bene alla scuola, che non migliora le cose e anzi esaspera anche chi è ben disposto, ma soprattutto chi non sa da che parte girarsi e sceglie la strada dell’aggressività per difendere e per difendersi. Docenti, genitori e figli. Tutti loro ogni giorno fanno la scuola. Gli uni parlano con gli altri degli altri ancora, in un circolo costante che dà forma all’ambiente scolastico in cui ognuno di noi è immerso. Il ruolo dei docenti dovrebbe essere chiaro, sono loro i professionisti della scuola e lavorano mentre fanno lezione, gestiscono un intervallo, preparano un’uscita didattica, riprendono un comportamento, ne lodano un altro, valutano, promuovono, sospendono, bocciano. Altrettanto chiara è la parte che spetta agli studenti, che sono al centro dell’azione scolastica come protagonisti dell’apprendimento, e sono coloro per cui la scuola esiste. Poi ci sono i genitori, generalmente registi della crescita, dell’istruzione e dell’educazione dei loro figli da sempre e per tutta l’età scolastica, o per gran parte di essa. Pare strano che ruoli così chiari generino conflitti e incomprensioni forti come quelle di questi anni, anche perché tutte le persone coinvolte dovrebbero remare nella stessa direzione. Eppure, se oggi c’è chi invoca che i genitori siano lasciati fuori dalle scuole e se i genitori stessi non si fidano di ciò che avviene in classe, qualcosa è saltato.

In primo luogo, si parla sempre meno. I ricevimenti dei genitori non dovrebbero essere momenti di appesantimento, invece risultano un appuntamento delicato e temuto dai docenti che dovrebbero sintetizzare le impressioni sui singoli studenti avendo la serenità di essere accolti con la fiducia che spetta a un’azione educativa comune. Invece, quando da una parte si fa strada il sarcasmo di alcuni giudizi taglienti, dall’altra si fanno le pulci al mezzo voto e alla parola riferita a casa che talvolta trova riscontro, altre volte no, nella realtà delle cose. Le riunioni di classe poi spesso sono brevi e presentano adempimenti formali e moduli da completare, senza lasciare spazio alla riflessione educativa e culturale, al bilancio argomentato di cosa stia andando bene e cosa invece no, con motivazioni e spunti per migliorare. La scuola, senza questo dialogo, smette di essere un luogo virtuoso di crescita e di pieno sviluppo della persona, e quando viene meno il dialogo costruttivo succede che prevalgano prima il silenzio e i pregiudizi, poi il diverbio, infine lo scontro. Poi c’è il tema centrale che riguarda l’educazione familiare, sempre più spesso demandata perché richiede impegno, sacrificio, tempo, rinuncia. Fin da piccoli, i bambini sono avvertiti come un fardello in una cena tra amici, in un discorso tra adulti o per qualche ora di relax nel fine settimana, per cui al ristorante finiscono con il telefono in mano, a casa pure, in auto pure. La delega educativa è poi assegnata anche alla scuola, in toto, dai modi di fare allo svolgimento dei compiti, alle responsabilità, dalle elementari in avanti. Male che vada, sarà colpa della scuola. Gli smartphone e la televisione però non giudicano, mentre la scuola lo fa ed è lì che il banco salta. Delegare è più comodo ed esserci costa fatica, certo, ma è un investimento per il futuro, e un senso di colpa in meno quando qualcuno dirà che un figlio non ascolta, non è interessato, non riesce. Ben vengano i genitori a scuola, altro che esclusione, perché il loro ruolo educativo è utile per gli studenti e indispensabile per le generazioni impegnate sui banchi.

Ben vengano a patto però che ci siano la pazienza e il coraggio di ascoltare i docenti che per senso di realtà e con risolutezza si trovano a dover spendere parole anche dure sul metodo di lavoro, sul delicatissimo tema dei limiti cognitivi, sull’atteggiamento magari totalmente fuori luogo tenuto in aula e a scuola. E che se trovano ostilità, ricorsi e querele ad attenderli, forse la prossima volta saranno un po’ più ipocriti e diranno una verità in meno, per il quieto vivere e con buona pace della scuola italiana in fin di vita.

Per siracusanews.it il 9 gennaio 2023.

Elin Mattsson è una madre finlandese di 4 figli, di 15, 14, 6 e 3 anni. Lei è una pittrice di 42 anni, suo marito ha 46 anni ed è un Information Technology Manager che lavora da remoto.

 Attratti dalla Sicilia, lo scorso agosto la famiglia Mattsson decide di trasferirsi a Siracusa e di iscrivere i figli a scuola. Ma il sistema scolastico italiano è totalmente diverso da quello vissuto finora dai 6 finlandesi, così dopo appena due mesi di vita siciliana e di lezioni in classe, a ottobre i Mattson vanno via.

 Lasciano l’Italia ma non senza scrivere una lettera aperta – tradotta e inviataci da Roberta De Stefani – con cui illustra i motivi per i quali non può vivere in Italia e non vuole che i figli studino nella nostra scuola. Preferendo la Spagna.

 Ecco la lettera integrale:

 “Mamma urlano e picchiano sul tavolo” dice il mio bambino di 6 anni. “Sì, è pazzesco che usino il fischietto e urlino” dice il quattordicenne, “e conosco l’inglese meglio dell’insegnante di inglese stesso!”. Siamo una famiglia finlandese che si è trasferita a Siracusa, solo perché potevamo (lavori digitali). Volevamo sperimentare il vostro clima e la vostra cultura fantastici, ma purtroppo il nostro soggiorno non è andato come previsto.

Abbiamo già vissuto sia in Spagna sia nel Regno Unito e abbiamo (ingenuamente?) pensato che il sistema scolastico sarebbe stato simile in tutto il Mediterraneo, ma ragazzi, ci sbagliavamo. I nostri due ragazzi, uno di 6 anni e l’altro di 14, sono andati a scuola qui a Siracusa ma ci sono voluti appena un paio di mesi per renderci conto che non ne valeva la pena.

 Il sistema scolastico è così povero. I miei dubbi sono iniziati dal primo giorno che ho messo piede a scuola per l’iscrizione: il rumore delle classi era così forte che mi chiesi come diavolo fosse possibile concentrarsi con quel frastuono. Quel giorno ho anche dato un’occhiata di sfuggita ad un’aula in cui un bambino di circa 7 anni stava svolgendo un esercizio di fronte ad un insegnante arrabbiato che sprezzante, guardava dall’alto in basso non solo il bambino alla lavagna ma tutti alunni. Era scioccante.

La giornata scolastica si trascorre sulla stessa sedia dalla mattina fino a quando non si ritorna a casa. Cosa? “Non esistono pause dov’è permesso muoversi?” Chiedo. “Solo piccole pause nella stessa classe.” È stata la risposta che ho ricevuto. Questo sarebbe uno dei fattori principali per avere un cambiamento nelle classi: l’importanza dell’aria fresca e delle pause! Se solo il governo ne capisse i benefici!

 In Finlandia, gli studenti hanno una pausa di 15 minuti tra una lezione e l’altra, e lasciano l’aula per giocare insieme nel giardino/patio. Uno o due insegnanti li tengono d’occhio mentre sono fuori. La Finlandia si rende conto dei benefici di bambini che si muovono, giocano, urlano e corrono liberamente all’aperto per liberarsi delle energie in eccesso e prendere aria fresca, così da ottenere migliori risultati a scuola.

Come farebbero altrimenti a concentrarsi? Questo non era il caso qui e non c’è da stupirsi che non riuscissero a concentrarsi in classe. Quali bambini sono in grado di star seduti sulla stessa sedia tutto il giorno, senza muoversi o prendere aria fresca, mi chiedo? Le pause all’aperto sono un must!

 Ho anche un bambino di 3 anni e ho potuto vedere anche l’attività dell’asilo. Ero preoccupata quando ho visto il giardino (patio) dell’asilo. Niente con cui giocare? Dov’erano tutte le cose da scalare? Niente? Voglio dire, ho visto attrezzature per far giocare i bambini nei parchi cittadini, quindi sicuramente sanno come ottenerle. I bambini non dovrebbero giocare anche all’asilo? No, un giardino vuoto intorno al perimetro dell’edificio. Non andava bene….

I bambini dell’asilo sono seduti per lo più dentro, ancora attorno a un tavolo a fare piccole cose solo con le mani? Davvero? Completamente da pazzi. Fare esperienze all’aperto è essenziale per ogni persona che apprende. L’insegnamento all’asilo dovrebbe venire dal gioco. Gioco libero! I bambini dovrebbero essere bambini il più a lungo possibile, se lo fai, otterrai buoni risultati a scuola.

 Cercare di costringerli a imparare cose diverse troppo presto può essere fatale. Il cervello dev’essere sufficientemente sviluppato prima di iniziare l’insegnamento. Negli asili finlandesi i bambini escono fuori ogni mattina tra le 9 e le 11, possono giocare liberamente (hanno macchinine, oggetti per arrampicarsi, scatole con la sabbia dove giocare, tutti i tipi di giocattoli simili a quelli che si trovano qui nei parchi).

Una volta arrivata l’ora del pranzo si entra dentro. Successivamente, si svolgono attività all’interno e poi di nuovo gioco all’aperto nel pomeriggio dalle 13 alle 16 (vestiti a seconda del tempo). Ma torniamo di nuovo a scuola. Qual è la pedagogia degli insegnanti? La studiano nella loro formazione? I metodi che ho sperimentato non erano niente del genere (urlare a squarciagola probabilmente non funziona così bene, vero?) ma posso capire il livello di energia dei bambini quando non hanno tempo per liberarsene fisicamente (come nelle pause). Lasciateli giocare fuori! Lasciate che prendano l’aria di cui hanno tanto bisogno!

Un altro problema che ho notato: com’è possibile pensare che possano essere funzionali gli innumerevoli adulti che corrono a scuola ogni mattina e ogni pomeriggio? Il caos totale del traffico (e l’ambiente qui?) è pratico per le famiglie? In Finlandia i bambini (7-12 anni) vanno a scuola da soli; usano la bicicletta o vanno a piedi e se abitano a più di 5 km dalla scuola possono andare con il taxi/bus della scuola. Pranzano a scuola, poi tornano a casa da soli quando la giornata scolastica è finita. Volendo, il bambino può andare in un altro posto (come un club pomeridiano) fino a quando i genitori non lasciano il lavoro.

Alcune domande per il consiglio scolastico/governo. Perché non tutti i bambini dovrebbero avere le migliori premesse per l’apprendimento? Perché non vi rendete conto dei benefici dell’aria fresca? Gioca e impara! Realizza i vantaggi delle pause all’aperto e trasforma i cortili della scuola in luoghi divertenti in cui giocare. Evitate di riempirli come salsiccia (ovvero troppo apprendimento per cervelli non sviluppati). Perché non offrite il pranzo a scuola? (Questo forse è l’unico pasto nutrizionale per alcune famiglie). Perché non vi rendete conto dei benefici dei bambini che vanno da soli a scuola e a casa? Sono sicuro che potreste farlo in diversi modi, in modo che il traffico si abitui ai pedoni.

In Spagna avevano bambini più grandi che stavano agli incroci con luci al neon e fermavano il traffico la mattina e il pomeriggio quando i più piccoli attraversavano. In Finlandia insegni ai tuoi figli come comportarsi nel traffico in modo che possano andare da soli. Ciao, ciao Siracusa e hola Espana”.

Niccolò Dainelli per leggo.it il 10 gennaio 2023.

La famiglia Mattsson si era innamorata della Sicilia e aveva deciso di trasferirsi sull'isola. Dalla Finlandia alla Sicilia per cambiare vita, ma dopo soli due mesi è giunto il dietrofront. È la storia di una famiglia finlandese che, innamorata dell'isola del Sud Italia ha deciso di trasferirsi a Siracusa. Ma dopo soli due mesi hanno deciso di fuggire in Spagna. Il motivo? La delusione avuta dal sistema scolastico italiano. E adesso arriva la replica del sindaco di Siracusa, Francesco Italia, deciso a difendere la sua città e il suo Paese.

 «I professori fanno miracoli»

Il primo cittadino di Siracusa ha voluto spezzare una lancia nei confronti dei professori italiani. In una lunga intervista rilasciata a Il Corriere della Sera, dichiara: «Nel sistema in cui sono inseriti, i professori, a Siracusa come nel resto d’Italia, fanno miracoli con stipendi ridicoli e i governi dovrebbero investire molto di più nella scuola, offrendo il tempo pieno nella scuola primaria, e potenziando la formazione continua di docenti e personale.

 Ma direi che non serve certo questa lettera a valutare le differenze tra il sistema scolastico finlandese e quello italiano, posto che il primo è riconosciuto come uno dei migliori al mondo». Francesco Italia non vuole entrare nel merito delle questioni legate ai rapporti specifici degli insegnanti con la famiglia Mattsson, che con i suoi 4 figli aveva deciso di stabilirsi in Sicilia perché attratta dalle sue terre e dalle sue bellezze. Ma non ha resistito nel replicare alla lettera della mamma, la pittrice Elin Mattsson, in cui spiega le ragioni della loro fuga.

 Scuola come fondamento

La lettera pubblicata dalla donna è subito stata ripresa da tutte le testate giornalistiche italiane e sui social network è partito un acceso dibattito, rendendo la notizia virale. Così, Francesco Italia ha voluto rispondere alla famiglia evidenziando l'enorme divario tra il sistema scolastico finlandese e quello italiano. Secondo il primo cittadino di Siracusa, il modello finlandese è riconosciuto come uno dei migliori al mondo, con un grande pregio: avere una minore varianza negli alunni delle classi e presentando livelli di preparazione più omogenei tra gli studenti.

 Un modello che rispecchia le caratteristiche demografiche, sociali e culturali di quel Paese e che in Italia, sempre secondo il sindaco, non sarebbe replicabile. «Non sono un esperto di politiche scolastiche - prosegue il primo cittadino -, tuttavia ho sempre considerato la scuola fondamento della Repubblica, perché è lì che si forma il cittadino. È a scuola che si scoprono i propri talenti e si fa esperienza per la prima volta, dello Stato e della società civile».

 La differenza con la Lombardia

Sui social in molti hanno evidenziato che se la famiglia si fosse trasferita in Lombardia, avrebbe trovato una scuola diversa. E Francesco Italia ammette che sia innegabile che alcune differenze ci siano, soprattutto nell'offerta degli asili nido. «Quando sono stato eletto sindaco nel 2018, dei sette asili comunali non ce ne era uno agibile o fruibile. È stata dura per le famiglie e certamente per l’amministrazione comunale. Oggi, grazie a fondi regionali e comunali, gli asili comunali sono un fiore all’occhiello della nostra città e sono rimasti attivi senza interruzione per tutti i mesi del 2022».

 L'augurio ai Mattsson

E, nonostante il dispiacere per la fuga della famiglia in Spagna, il sindaco di Siracusa ha voluto lanciare un augurio a quel nucleo familiare finito sotto i riflettori mediatici. «L'impatto culturale ed emotivo di un trasferimento all’estero è sempre notevole. Auguro a questa famiglia di essere felice e di trovare un posto in cui sentirsi a casa».

Luca Signorelli per corrieredelmezziogiorno.corriere.it l’11 gennaio 2023.

«Se c’è qualcosa che non va non tengo la bocca chiusa. Sono contenta che le mie parole abbiano aperto un dibattito e spero che il sistema scolastico italiano migliori. Quella scuola era talmente brutta che non potevo più vedere i miei figli lì». Elin Mattsson, la pittrice finlandese scappata con la sua famiglia da Siracusa, dove aveva deciso di vivere per poi cambiare idea rapidamente, torna a parlare a distanza di qualche giorno. Lo fa sui social, rispondendo così alle centinaia e centinaia di commenti ricevuti sulla sua bacheca Facebook.

 Mentre resta in silenzio la preside dell’istituto Paolo Orsi di Siracusa, scuola interessata dalle lamentele della mamma finlandese, lei torna a ribadire le sue ragioni, quelle che l’hanno spinta fare di nuovo i bagagli e a spostare la sua famiglia, marito e quattro figli, in Spagna, dove già in passato aveva vissuto ricavandone una buona impressione. Una storia che è diventata un caso, sollevando diverse reazioni, come quella del sindaco di Siracusa, che ha difeso gli asili della sua città.

La mamma finlandese spiega ora come fosse convinta che il sistema scolastico in Europa potesse essere uguale dappertutto, non rinnega la scelta di essersi trasferita ma ammette di aver avuto la «sfortuna di scegliere una scuola in una brutta posizione, senza accesso a campi sportivi» e di chiarisce di aver scritto la lettera «con l’intento di aprire gli occhi e aiutare i bambini».

 Precisa poi che la sua recriminazione non ha nulla a che vedere con l’Italia e con la Sicilia: «Non abbiamo problemi ad adeguarci alla cultura e sicuramente avremmo imparato anche l’italiano, bella lingua – scrive sui social - ma nessuno a scuola dovrebbe sentirsi urlare contro e una scuola senza pause e aria fresca rende l’apprendimento più difficile per i ragazzi. I bambini dovrebbero essere bambini e imparare giocando». Elin, come la sua famiglia, ama la Sicilia, «ma la scuola era talmente brutta che non potevo più vedere i miei figli lì – sottolinea - Mi dispiaceva per il piccolo di 3 anni che doveva sedersi intorno a un tavolo, immobile e senza poter giocare all’aperto, come avrebbe dovuto.

Era molto simile alla Finlandia di una volta. Ma ora è il 2023. Tutti dovremmo sapere che i bambini imparano giocando! Quindi sono solo soddisfatta se posso contribuire a una discussione che porti a standard migliori per i bambini». Per poi chiosare: «Bisogna sempre sperimentare cose diverse per avere una prospettiva. Viviamo solo una volta e vogliamo veramente provare culture diverse. I siciliani sono persone molto calde e gentili, non è colpa loro se il sistema scolastico è così».

Sul punto, sempre sui social, è arrivata la replica di un’insegnante siracusana, Mariella Lentini, che ha postato una lunga lettera indirizzata proprio alla pittrice finlandese, nella quale la ringrazia per aver stimolato questo dibattito, «dal momento che di scuola si parla sempre troppo poco, se non durante la campagna elettorale, per poi tornare a tacerne».

La prof siciliana, che ci racconta di insegnare all’istituto Verga, scuola “di frontiera”, concorda sul fatto che «la scuola italiana vada riformata, che le linee guida vadano aggiornate, che le strutture fatiscenti debbano essere ammodernate, che il tempo pieno, specie al sud, vada potenziato e registro anche io poca formazione di una parte del corpo docente».

 Ma poi aggiunge: «Credo però che il modello Finlandia vada bene per la Finlandia, che in due mesi é molto difficile comprendere cosa vuol dire vivere in una città agli ultimi posti della classifica per benessere di vita e che i nostri popoli siano molto differenti per numeri, trasporti, welfare, criminalità, modalità di concepire la famiglia e i rapporti. Per questo mi permetto di aggiungere che, provare ad applicare il proprio mondo a quello di un Paese ospitante sia un modo poco intelligente di viaggiare».

Educazione lappone. La mamma finlandese, la scuola italiana e le pretese irrealistiche sull’istruzione dei figli. Assia Neumann Dayan su L’Inkiesta il 12 Gennaio 2023.

La signora Elin Mattsson che ha tolto il suo pargolo da un istituto scolastico di Siracusa ha le stesse pretese della mamma di Calvairate. Entrambe non sopportano l’idea che i ragazzini non vivano in una dimensione steineriana della realtà

Stamattina mio figlio, prima elementare, è andato a scuola tenendo in mano una busta del supermercato contenente: flaconi di sapone liquido, rotoloni di carta asciugatutto, carta igienica. Sono sicura che in Finlandia non si portano la carta igienica da casa, d’altra parte sono il paese più felice al mondo. Una famiglia finlandese di “nomadi digitali” se n’è andata da Siracusa lanciando gravi accuse alla scuola italiana: i bambini stanno seduti tutto il tempo, mio figlio sa meglio l’inglese dell’insegnante di inglese, però per carità si mangia bene da voi.

La mamma, Elin Mattsson, fa la pittrice, dipinge cavalli e onde che vende a 500 euro cadauno, ha un blog, ci sono 4 bambini, un cane che apre le porte da solo, il papà è un manager che lavora da casa e che ogni tanto va in trasferita. Sul blog lei scrive molto, lo tiene come diario. È rimasta traumatizzata da una serie di cose, prima di tutto che gli italiani usino l’automobile: ma perché gli italiani non vanno in giro in bicicletta, come fanno a vivere in seconda fila, forse in Finlandia usano le renne. Poi voleva ammazzarsi perché nella chat di classe tutti ringraziavano per qualcosa. Sull’orlo di uno stress post traumatico che, per carità, comprendo, silenziava la chat.

Il momento però più bello del blog è l’invettiva contro questa fissa tutta italiana verso l’abbandono di minore: com’è possibile che non mandino a casa da soli i ragazzini di 14 anni? Se tutti vanno a prendere i figli sapete quante automobili ci sono fuori da scuola? Com’è possibile che il bambino all’asilo debba andarlo a prendere io e non il quattordicenne? Ma come fa la gente che lavora? Se non lo sai tu che sei pittrice nomade digitale veramente non saprei.

Nella lettera pubblicata dai giornali, Elin Mattsson si lamenta del rumore nelle classi – è risaputo che i bambini ad alto potenziale non sopportino i rumori, è forse un caso? – e racconta che un giorno aveva visto un bambino sui 7 anni che «stava svolgendo un esercizio di fronte a un insegnante arrabbiato che sprezzante, guardava dall’alto in basso non solo il bambino alla lavagna ma tutti alunni. Era scioccante». Ah, anche psicologa.

Ora, possiamo anche far finta di niente e che sulla montagna del sapone ci sia un bellissimo clima, ma: non sono forse queste le stesse identiche, tali, quali, uguali, lamentele che sentiamo ogni santissimo giorno che abbiamo da passare nel sistema scolastico? La verità è questa: la mamma finlandese ha le stesse pretese della mamma di Calvairate. Non sopportano l’idea che i ragazzini non vivano in una dimensione steineriana della realtà: l’asilo nel bosco, la natura, l’aria aperta, la ginnastica. Fanno i debiti per mandare i figli alla materna bilingue internazionale con 5 stelle sul Tripadvisor della Cerchia dei Bastioni, applicando tutta la mitomania di cui sono capaci nel mettersi in casa la teoria del one person, one language: uno dei due genitori parla al bambino solo in una lingua, ma se sei nato e cresciuto a Calvairate cosa vuoi che io ti dica.

Se la famiglia di Elin Mattsson fosse venuta a Milano non sarebbe cambiato nulla. In Italia le classi sono piene di alunni che non parlano una parola di italiano, a volte sono famiglie che vivono una condizione di disagio economico, eppure nessuna mamma rimane traumatizzata, nessuna silenzia la chat, nessuna pensa che urlare sia un problema e sapete perché? Perché a chiamarli traumi sono rimasti solo i ricchi.

La settimana scorsa su Twitter una professoressa ha pubblicato il tema di un alunno. Parlava di uno gnomo con un’ascia, era scritto con pessima calligrafia, la professoressa diceva che l’aveva pubblicato perché a lei piace condividere. Ora, fosse stato mio figlio ero già al telefono con il CSM, l’Onu, la Nato, il Moige, Libs of Tik Tok, Giulia Bongiorno: non è che se uno ha undici anni non abbia diritto a sentirsi tutelato da chi è pagato dalle mie tasse per farlo.

Tutti a compiacersi con l’idea che il lavoro di insegnante sia una missione, quando in realtà può essere un ripiego e con questo noi genitori ci dobbiamo fare i conti. La professoressa avrebbe voluto fare la guida turistica nella vita e non si fa problemi a dirlo, e questo è tutto quello che so del parlare del proprio lavoro sui social. Non conosco nessuna persona con figli che parli bene della scuola italiana, nessuna, mai. Ma non conosco nemmeno nessuno che sente la necessità trasferirsi in Finlandia.

Articolo 3. Storia di Alessandro D’Avenia su Il Corriere della Sera il 29 gennaio 2023.

Nelle ultime settimane parte della nostra emotiva attenzione mediatica è stata catturata da una mamma finlandese in fuga dalla scuola italiana, da una bidella pendolare tra Milano e Napoli, da una professoressa bersaglio di pallini, da alunne che assumono tranquillanti prima di una prova... La scuola buca l’opinione pubblica quando la notizia (spesso manipolata) acchiappa il clic. Risultato? Tanti riflettori, poca riflessione, nessun riflesso. Ho quindi raccolto stralci di quattro lettere ricevute di recente che invece mostrano un ordinario senza riflettori ma bisognoso più che mai d’azione. 1. Docente precaria: «Insegno alle superiori, anzi no: dove mi lanciano atterro! Quest’anno ho avuto un contratto per cattedra accantonata (posti non assegnati stabilmente per conflitti burocratici e coperti da supplenti provvisori ndr), ma due settimane fa sono rimasta a casa. Speriamo che l’ennesima attesa duri poco. Poi altro istituto, classi, colleghi... E ciò che ho seminato nel frattempo? La continuità didattica? Nel cestino, in onore all’algoritmo ministeriale (metodo per assegnare le cattedre ndr). Ma che ne sarà di G. che dopo ore di lezione mezzo addormentato decide di scrivermi che si sente strano perché pensa di non essere in grado di provare emozioni? Forse a G. non serve una certificazione o una nota disciplinare che reciti che “l’alunno dorme in classe”. Forse G. pensa di non essere in grado di provare emozioni perché nessuno gli ha mai spiegato che cosa siano». « Forse pensa — continua la lettera — di essere disfunzionale emotivamente perché, anche se trova una docente che lo guarda negli occhi, poi questa risulta improvvisamente interscambiabile con un altro (s)oggetto e sparisce senza poter spiegare perché. È per questo che G. non trova interesse in niente o è colpa sua? Io speriamo che me la cavo, ma soprattutto, speriamo che G. trovi altri sguardi». 2. Una madre: «Sono rappresentante genitori di una classe di superiori. Vorrei metterla a conoscenza di quanto successo nella scuola di mio figlio e in molte altre in questo periodo: un improvviso e immediato cambio di professore. Inutile dire lo sconcerto dei ragazzi e dei genitori: programma avviato e consolidato, relazione interrotta di colpo per norme burocratiche assurde e impietose. Forse non tutti nelle alte sfere ricordano che la scuola inizia a settembre e che i ragazzi sono puntuali nel presentarsi. Loro. Perché i professori, non per colpa loro, arrivano quando li chiamano. Si buttano via tre mesi di scuola, come se i professori fossero pedine e i ragazzi numeri». 3. Un professore: «A maggio ho superato la prova scritta del concorso ordinario. Dopo sono passati cinque mesi prima di sostenere l’orale: bruciati in mezz’ora! Milleottocento secondi (elaborare una lezione su un argomento pescato a caso, ndr) sono bastati per giudicarmi inadatto a un lavoro che faccio da quattro anni. Eppure la mattina seguente ero a scuola a fare proprio quel lavoro per cui ero stato dichiarato inidoneo poche ore prima. Speravo di non aver più bisogno di aiuto economico dai miei e invece è crollato tutto, come la speranza di un futuro meno precario! Ho pur sempre il mio lavoro che durerà (l’ennesima volta) fino al termine delle attività didattiche, ma forse questa volta terminerà davvero, perché è dura trascorrere i mesi estivi fermo, sperando che a settembre un computer mi convochi da qualche parte e per un periodo incerto». 4. Una coppia con figlia: «iscritta al primo anno di superiori in un istituto pubblico ai vertici delle graduatorie delle scuole. Alla riunione di classe i professori ci dicono che vogliono selezionare il più possibile. Chi non ce la fa sarà fuori entro l’anno: è fisiologico. Sono medico e questo fisiologico lo trovo alquanto patologico: la scuola è un filtro? Passano solo le menti fini e gli altri sono scarto? Al colloquio, a causa di due voti insufficienti, dopo solo un mese di scuola, nostra figlia viene descritta così da una insegnante: “immatura, superficiale, un disastro... e chissà come va nelle altre materie”. Proviamo a dire che ha ottenuto buoni risultati, ma nulla. È una ragazza profonda e dotata di intelligenza emotiva, ha scelto questo percorso perché vuole dedicarsi alla psicologia. Alle elementari e alle medie era amata dagli insegnanti, vicina ai compagni in difficoltà, ha risolto conflitti e portato pace. Chi è questa ragazza “immatura e superficiale”? Dopo un mese il contenitore (i voti) è già confuso con il contenuto (mia figlia). È così che un’insegnante accende amore e interesse per la sua materia? O forse l’ansia di selezionare per rimanere in alto nel ranking dei licei annebbia la mente? Siamo lontani dalla scuola che scopre i talenti, fa crescere le menti, accompagna la capacità critica. La scuola oggi è questione di fortuna, se ti capitano insegnanti così puoi iniziare anche a odiare te stesso». Che cosa mostrano queste lettere? Che l’ecosistema necessario alla fioritura di ciascuno grazie a relazioni autentiche e stabili nel tempo, non funziona se è affidato a meccanismi digitali ciechi, burocrazia inefficiente e a persone che quelle relazioni non possono o non riescono a curarle. Spero che queste testimonianze (ne ricevo quotidianamente) possano servire al ministro e ai dirigenti sindacali per una improcrastinabile riforma dell’ambito da cui dipende la qualità della scuola: formazione, reclutamento, verifica e valorizzazione delle capacità educative e didattiche dei docenti (non è carisma, empatia o fortuna, ma professionalità), altrimenti quella dell’articolo 3 della Costituzione è solo retorica: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Senza una scuola di qualità per tutti e affidata a Maestri messi in condizione di esserlo davvero non ci può essere pieno sviluppo della persona umana né quindi reale partecipazione alla vita. E questo è compito della Repubblica.

Sugli stipendi dei docenti troppi tabù (e grida inutili). Storia di Luciano Fontana su Il Corriere della Sera il 29 gennaio 2023.

Caro direttore, in base a quanto ipotizzato dal ministro della Pubblica istruzione Valditara, un insegnante che lascia il Sud per lavorare al Nord non solo dovrebbe avere uno stipendio adeguato al costo della vita, ma dovrà avere uno stipendio maggiore rispetto al collega che ha casa sul posto e non è costretto a pagare l’affitto. Lo ha previsto? Cordialmente, Carmelo Occhino

Caro signor Occhino, La questione degli stipendi degli insegnanti, e la possibilità che possano essere differenti nelle diverse aree del Paese, ha scatenato pesanti polemiche in questi ultimi giorni. Si è parlato di ritorno alle «gabbie salariali» e di attentato all’uguaglianza di tutti i lavoratori. Vorrei rispondere alle sue domande cercando di mettere alcuni punti fermi e di ragionare su alcune cose di buon senso. Intanto non credo che possa essere rimessa in discussione la validità dei contratti nazionali su tutto il territorio: questo vale per gli insegnanti come per qualsiasi altro lavoratore. Credo però che dietro i ragionamenti del ministro ci siano alcune questioni molto serie da affrontare. Perché restare fermi, considerando un tabù ogni discussione, questo sì che produce diseguaglianza. Il Corriere ha pubblicato un’intervista a un giovane docente emigrato dalla Calabria a Milano che ci ha raccontato la sua vita: 1.500 euro di stipendio, metà speso per un appartamento condiviso con un’altra persona, il resto per affrontare tutte le necessità di una vita ai limiti della soglia di povertà. Far finta di niente non è possibile, qualche risposta va certamente trovata. Il Nord e il Sud d’Italia hanno un costo della vita molto diverso (le statistiche ci dicono del 16- 17 per cento in più al Settentrione). Ma questo non è tutto. Ci sono poi le differenze enormi tra una metropoli come Milano e le aree rurali. Qualcuno ha provato a dare uno sguardo ai prezzi delle case nel capoluogo lombardo? Una classe dirigente politica e sindacale seria dovrebbe porsi questo problema e trovare i modi giusti per affrontarlo, senza evocare attentati alla Costituzione e ai diritti dei lavoratori. È la situazione attuale a determinare un vero attacco ai diritti. Se resta tutto così inutile poi lamentarsi del fatto che al Nord nessuno vuole fare più l’insegnante e al Sud invece i numeri sono sovrabbondanti.