Denuncio al mondo ed ai posteri con
i miei libri
tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le
mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non
essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o
di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio
diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli
editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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L’ITALIA ALLO SPECCHIO
IL DNA DEGLI ITALIANI
ANNO 2023
L’ACCOGLIENZA
SECONDA PARTE
L’ATTACCO
TREDICESIMO MESE
UN ANNO DI AGGRESSIONE
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2023, consequenziale a quello del 2022. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
L’ACCOGLIENZA
INDICE PRIMA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
GLI EUROPEI
Quei razzisti come gli italiani.
Quei razzisti come i greci.
Quei razzisti come gli austriaci.
Quei razzisti come i croati.
Quei razzisti come i kosovari.
Quei razzisti come gli spagnoli.
Quei razzisti come i francesi.
Quei razzisti come gli svizzeri.
Quei razzisti come i tedeschi.
Quei razzisti come gli olandesi.
Quei razzisti come i danesi.
Quei razzisti come i finlandesi.
Quei razzisti come gli svedesi.
Quei razzisti come i norvegesi.
Quei razzisti come gli inglesi.
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
GLI AFRO-ASIATICI
Quei razzisti come i zambiani.
Quei razzisti come i zimbabwesi.
Quei razzisti come i ghanesi.
Quei razzisti come i gabonesi.
Quei razzisti come i marocchini.
Quei razzisti come i tunisini.
Quei razzisti come gli egiziani.
Quei razzisti come i siriani.
Quei razzisti come i libanesi.
Quei razzisti come i giordani.
Quei razzisti come gli israeliani.
Quei razzisti come i turchi.
Quei razzisti come gli iraniani.
Quei razzisti come gli yemeniti.
Quei razzisti come gli afghani.
Quei razzisti come i pakistani.
Quei razzisti come gli indiani.
Quei razzisti come i thailandesi.
Quei razzisti come gli indonesiani.
Quei razzisti come i birmani.
Quei razzisti come i bielorussi.
Quei razzisti come i russi.
Quei razzisti come i kazaki.
Quei razzisti come i nord coreani.
Quei razzisti come i cinesi.
Quei razzisti come i giapponesi.
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
GLI OCEAN-AMERICANI
Quei razzisti come gli statunitensi.
Quei razzisti come i salvadoregni.
Quei razzisti come i messicani.
Quei razzisti come i cubani.
Quei razzisti come i colombiani.
Quei razzisti come i brasiliani.
Quei razzisti come i boliviani.
Quei razzisti come i peruviani.
Quei razzisti come i canadesi.
Quei razzisti come i neozelandesi.
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. UNDICESIMO MESE
INDICE SECONDA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. DODICESIMO MESE
INDICE SECONDA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. TREDICESIMO MESE. UN ANNO DI AGGRESSIONE
INDICE SECONDA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. QUATTORDICESIMO MESE
INDICE SECONDA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. QUINDICESIMO MESE
INDICE SECONDA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. SEDICESIMO MESE
INDICE TERZA PARTE
SOLITI PROFUGHI E FOIBE. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il Giorno del Ricordo.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI. (Ho scritto un saggio dedicato)
I Migranti.
I Rimpatri.
Gli affari dei Buonisti.
Quelli che…porti aperti.
Quelli che…porti chiusi.
Cosa succede in Libia.
Cosa succede in Africa.
Gli ostaggi liberati a spese nostre.
Il Caso dei Marò & C.
Sommario
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda. Un Anno di Aggressione. L’Attacco: Tredicesimo mese
Guerra Ucraina - Russia, le news del 24 febbraio.
Guerra Ucraina - Russia, le news del 25 febbraio.
Guerra Ucraina - Russia, le news del 26 febbraio.
Guerra Ucraina - Russia, le news del 27 febbraio.
Guerra Ucraina - Russia, le news del 28 febbraio.
Guerra Ucraina - Russia, le news dell'1 marzo.
Guerra Ucraina - Russia, le news del 2 marzo.
Guerra Ucraina - Russia, le news del 3 marzo.
Guerra Ucraina - Russia, le news del 4 marzo.
Guerra Ucraina - Russia, le news del 5 marzo.
Guerra Ucraina - Russia, le news del 6 marzo.
Guerra Ucraina - Russia, le news del 7 marzo.
Guerra Ucraina - Russia, le news dell’8 marzo.
Guerra Ucraina - Russia, le news del 9 marzo.
Guerra Ucraina - Russia, le news del 10 marzo.
Guerra Ucraina - Russia, le news dell’11 marzo.
Guerra Ucraina - Russia, le news del 12 marzo.
Guerra Ucraina - Russia, le news del 13 marzo.
Guerra Ucraina - Russia, le news del 14 marzo.
Guerra Ucraina - Russia, le news del 15 marzo.
Guerra Ucraina - Russia, le news del 16 marzo.
Guerra Ucraina - Russia, le news del 17 marzo.
Putin da arrestare. Criminale di Guerra.
Guerra Ucraina - Russia, le news del 18 marzo.
Guerra Ucraina - Russia, le news del 19 marzo.
Guerra Ucraina - Russia, le news del 20 marzo.
Guerra Ucraina - Russia, le news del 21 marzo.
Guerra Ucraina - Russia, le news del 22 marzo.
Guerra Ucraina - Russia, le news del 23 marzo.
La pace di Xi sul tavolo di Putin.
ANNO 2023
L’ACCOGLIENZA
SECONDA PARTE
L’ATTACCO
TREDICESIMO MESE
UN ANNO DI AGGRESSIONE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Antonio Giangrande: La guerra ed i contemporanei.
Noi, ieri, abbiamo studiato la storia. Oggi la viviamo.
Per questo non bisogna guardare gli eventi bellici periodici con gli occhi di piccoli menti, ma annotare gli eventi per poterli raccontare in modo imparziale ai posteri.
Di personaggi come Putin è subissata la storia e solo loro sono ricordati.
La malvagia ambizione è insita negli esseri normali e di questo bisogna prenderne atto.
Antonio Giangrande: Solo gli imbecilli non cambiano idea.
Questo è il mio post di un anno fa.
Antonio Giangrande: ho scritto il libro work in progress sulla guerra Ucraina-Russia
Il pericolo del pensiero unico omologato e conformato.
La vittima, dico vittima, ha sempre ragione?
Cosa noi proviamo, guardando un film, nel vedere un criminale omicida braccato dalla polizia che si para dietro una vittima indifesa, usandola come scudo umano, e minacciata con un'arma a mo di ritorsione? Credo che molti di noi provino odio profondo.
E che dire di chi fa crollare i ponti prima che la gente possa fuggire dalle città?
Come considerare i carri armati ucraini nascosti tra i palazzi delle loro città? E come considerare i resistenti tra i civili?
Non la resa in una lotta impari, ma si pretende l'aiuto diretto delle nazioni occidentali, nonostante si preveda il loro coinvolgimento in una guerra totale con la morte di gente estranea al conflitto in corso. Quella gente sono i nostri figli o noi stessi.
Non la resa, ma la pretesa accoglienza di profughi ucraini, negata, però da loro stessi, ad afgani, siriani, ecc. ecc.
Quando qualcuno al mare, nonostante l'avviso che è pericoloso fare il bagno, chiede aiuto perchè sta affogando, tu altruista ti tuffi senza analizzare le conseguenze. Quando ti trovi al suo cospetto, la reazione dell'affogando è salvarsi a tutti i costi, aggrappandosi a te, tanto da attentare alla tua sicurezza pur di stare a galla.
I media palesemente anti Putin che per propaganda ci inondano di immagini di bambini profughi e ripetutamente ci raccontano di bambini morti e che inneggiano alla resistenza degli occupati, ci vogliono far entrare in una guerra fratricida e nazionalista non nostra?
Più che filo ucraino sono filo italiano, senza dimenticare, però, che, nelle guerre, solo per la povera gente tutto si perde e nulla si guadagna.
Oggi dopo un anno penso che Putin dica bene: Non è una guerra.
Nella guerra, come in una rissa, ci sono due bulli che combattono, magari per motivi futili.
Bambini morti di qua, bambini morti di là.
In Ucraina vi è solo la vile aggressione di bulli (Putin e tutti i russi che lo appoggiano).
Quindi di vile aggressione si tratta. Appunto: "Operazione speciale".
E vedere solo bambini ucraini morire e nessun bambino russo, esclude ogni giustificazione.
A questo punto i russi e i pacifondai filoputiniani taccino. Questo è il momento, per i contemporanei, di sostenere l'evoluzione della specie umana nella giusta direzione, impedendo, per i vili ed egoistici interessi personali, l'involuzione.
Le culture nel mondo sono diverse, non migliori. Ma la violenza sul più debole va fermata a tutti i costi e con tutti i mezzi. Noi siamo niente rispetto all'evoluzione della nostra specie: dei nostri figli...
Come cambia la prospettiva.
I russi aggrediscono l’Ucraina con crimini contro l’umanità. Il Regno Unito appoggia l’Ucraina e gli ucraini filo-occidentali si chiamano resistenti.
I tedeschi aggrediscono l’Italia con crimini contro l’umanità. Il Regno Unito appoggia l’Italia e gli italiani comunisti si chiamano partigiani.
I piemontesi Savoia con a capo Vittorio Emanuele II aggrediscono il Regno delle Due Sicilie di Francesco II. Il Regno Unito appoggia i piemontesi ed i meridionali resistenti dalla storiografia saranno chiamati: Briganti.
Un secolo di minacce. Per l’Europa dell’Est la cortina di ferro non è mai caduta, si è soltanto spostata. Micol Flammini su Linkiesta il 14 marzo 2023.
L’invasione russa dell’Ucraina ricalca il copione di quella nazista della Polonia, ma gli alleati hanno imparato gli errori di allora e non hanno abbandonato il Paese aggredito. Per Varsavia (e in futuro Kyjiv) l’ingresso nella Nato e nell’Ue è la rassicurazione di non essere mai più soli di fronte alle mire russe
Da qualsiasi parte si guardi la storia dell’Europa, la Polonia è sempre presente, ed è stata costantemente un centro di sofferenza e di indomabile resistenza. […] Per capire la guerra di Vladimir Putin contro l’Ucraina, è il caso di guardare con attenzione a quello che è accaduto in Polonia nel 1939: è un copione con altri personaggi, ma che si ripete, e se l’attacco congiunto di Hitler e Stalin contro Varsavia ricorda quello, iniziato il 24 febbraio 2022, di Mosca contro Kiev è perché le cose in comune non sono poche.
La campagna di Hitler contro la Polonia era iniziata rivendicando la protezione dei cittadini tedeschi rimasti, dopo la Prima guerra mondiale, sotto le autorità polacche, soprattutto di quanti vivevano a Danzica, città libera ma sotto la giurisdizione del ministero degli Esteri di Varsavia.
L’invasione del paese fu preceduta da una delle prime operazioni false flag della storia, un’espressione (falsa bandiera) che indica atti di sabotaggio e macchinazioni per far ricadere su altri la responsabilità del casus belli, divenuta molto nota proprio con la guerra della Russia all’Ucraina, quando si pensava che Mosca stesse cercando di creare un pretesto per invadere Kiev.
I nazisti studiarono a lungo l’operazione false flag da mettere in atto per attaccare la Polonia. Alcuni tedeschi vestiti con uniformi polacche assaltarono la stazione radio di Gleiwitz allora in Germania, oggi Gliwice in Polonia, uccisero alcune guardie di frontiera e dai microfoni dell’impianto diffusero un messaggio alle minoranze polacche, incitandole a prendere le armi contro i tedeschi. Il giorno dopo, 1° settembre, il più potente e moderno esercito dell’Europa dell’epoca entrò in Polonia, con il proposito di portare a termine una guerra lampo.
In due giorni distrusse l’aviazione polacca, e l’esercito di Varsavia che si era ammassato alla frontiera reagì con il suo fiore all’occhiello: la cavalleria. Questo episodio di grande eroismo, pur venato di mitologia, aiuta a capire quanto i polacchi fossero determinati a rischiare il tutto per tutto pur di salvaguardare l’indipendenza appena conquistata. Se poi si siano lanciati con la cavalleria contro i mezzi corazzati nazisti perché effettivamente fossero convinti di avere qualche chance o perché, pur di non perdere la libertà, erano pronti a farsi massacrare, questo non si saprà mai. Fatto sta che questo episodio rimane tra i più memorabili della guerra.
La Polonia inoltre era aggredita da tutti i lati: mentre i tedeschi divoravano l’ovest del paese, annettendo e occupando, i sovietici avevano iniziato la loro avanzata da est adducendo come pretesto la protezione delle minoranze ucraine e bielorusse maltrattate dal governo polacco allo sbando.
Quando Putin ha attaccato l’Ucraina, ha usato una motivazione simile: salvare le minoranze russe, vittime delle violenze del governo di Kiev. I polacchi di allora, però, erano stati abbandonati dai propri alleati, che non avevano ascoltato le richieste di aiuto di Varsavia e avevano sottovalutato la pericolosità e la determinazione del regime nazista. Un errore che non è stato commesso nei confronti degli ucraini. […]
La Polonia è sempre stata certa di essere la frontiera dell’Europa, dell’atlantismo e anche della cristianità, e il fatto che la storia entri anche nelle campagne elettorali, sia materia di dibattito e l’attuale partito al governo, il PiS, la manipoli contro gli avversari indica quanto per i polacchi sia importante.
L’ingresso prima nella NATO e poi nell’Unione europea ha rappresentato per Varsavia la rassicurazione che non sarebbe più stata sola di fronte alla minaccia russa e di essere entrata a far parte del mondo al di là della cortina di ferro, che per i paesi dell’Est europeo non è mai caduta, si è soltanto spostata.
Da “La cortina di vetro” di Micol Flammini, 228 pagine, 14,50 euro.
Dagospia il 13 marzo 2023. Estratto da “La Cortina di Vetro”, di Micòl Flammini (ed. Mondadori - Strade Blu), in libreria da martedì 14 marzo 2023
Se l'Unione europea si dissolvesse oggi sotto i colpi delle ossessioni centrifughe e delle rivendicazioni nazionalistiche, ne uscirebbero ventisette Stati che dovrebbero reinventare il loro sistema monetario, gli accordi commerciali, i rapporti alle frontiere e che dovrebbero anche gestire le spinte centrifughe interne di movimenti indipendentisti, piccoli terremoti nazionali capaci di far scoppiare dissapori, recriminazioni e persino conflitti.
[...]
Il nome completo dell'Unione Sovietica era Unione delle repubbliche socialiste sovietiche, e la sua composizione era complessa.
C'erano quindici repubbliche principali che godevano di un loro grado di autogestione accordato dal potere centrale e si identificavano come Repubbliche socialiste sovietiche: Lituania, Lettonia, Estonia, Bielorussia, Ucraina, Russia, Moldavia, Georgia, Armenia, Azerbaigian, Kazakistan, Kirghizistan, Uzbekistan, Tagikistan e Turkmenistan.
Al loro interno si distinguevano le repubbliche socialiste sovietiche autonome e le oblast' autonome, suddivisioni amministrative, sottorepubbliche, che, contrariamente alle repubbliche socialiste sovietiche, non avevano il diritto di uscire dall'URSS e non avevano un partito comunista locale.
[...] quando l'Unione Sovietica cadde, [...] ottennero l'indipendenza soltanto le quindici repubbliche socialiste sovietiche, aprendo la strada ad anni di rivendicazioni e conflitti.
Nel ridisegnare i confini nazionali, non si era tenuto conto delle specificità delle oblast' e delle repubbliche autonome, che erano meno grandi delle nazioni principali, ma conservavano un ricco patrimonio di specificità culturali, linguistiche e anche religiose [...].
Queste terre miste, e sovente di confine, erano disposte a sentirsi sovietiche, ma consideravano inaccettabile essere risucchiate da altre identità statali.
La fine dell'URSS aveva dissolto i legami, ricordato le diversità e aperto a una stagione di conflitti in cui spesso la nostalgia per i tempi andati, per il mondo perduto, ha creato l'illusione che fosse meglio essere russi che georgiani, o armeni, o moldavi.
Sono nati frammenti di Russia, aspiranti nazioni che si considerano legate a Mosca e che hanno spesso offerto al Cremlino il pretesto per rosicchiare parti di territorio altrui e far sentire che la sua dominazione non è mai finita.
Se si scava nella storia, c'è sempre un peccato originale e l'inizio dei conflitti di oggi [...] risale a un periodo costruito in fretta e chiuso di corsa, senza guardarsi troppo indietro.
Quando l'URSS è collassata, in tanti speravano che le linee interne a quel gigantesco territorio, che viste da Mosca sembravano squarci, ferite per infierire sul sogno sovietico ormai sepolto, sarebbero state tracciate tenendo conto delle diversità territoriali.
Non si ebbe il tempo, né in alcuni casi la voglia di considerare dei distinguo e si ritenne più comodo e veloce ridisegnare lo spazio postsovietico seguendo le linee di confine delle repubbliche socialiste sovietiche, che conservavano un sistema di istituzioni parastatali dalle quali sarebbe stato più semplice ripartire.
[…] Era come se nel corpo in ricostituzione dell'Unione Sovietica fossero rimaste qua e là schegge di Russia, pronte a dichiarare guerra pur di determinare o un ritorno al passato o una nuova divisione territoriale.
E il Cremlino ha sempre accolto con favore l'opportunità di poter tornare su un territorio che non ha mai smesso di considerare suo e di approfittare di conflitti che gli hanno sempre permesso di insidiare la nuova unità dei suoi vecchi alleati.
Il tempo immobile della Transnistria
Le prime avvisaglie di questi conflitti si ebbero nel 1991 ai confini dell'Europa, in quella che era stata la Repubblica socialista sovietica moldava e che, come altre, aveva approfittato del colpo di Stato contro Michail Gorbacëv per dichiarare l'indipendenza. Le fu accordata con dei confini che non tutti i cittadini condivisero, ma che corrispondevano pedissequamente a quelli stabiliti all'ingresso del paese nell'Unione Sovietica.
La Moldavia si trovava sui territori che Molotov e Ribbentrop si erano divisi e su cui poi si consumò la rottura tra Mosca e Berlino. Era considerata una terra di confine, posta tra la Romania e l'Ucraina, la sua parte più orientale aveva fatto parte della Repubblica socialista dell'Ucraina con il nome di Repubblica socialista autonoma moldava, quella più occidentale era stata annessa alla Romania per volere dello stesso Parlamento moldavo e fu in seguito occupata da Stalin, poi di nuovo dalla Romania alleata dei nazisti.
Infine, al termine della seconda guerra mondiale, tornò a far parte dell'Unione Sovietica, che ne ridisegnò i confini, decretò la nascita della Repubblica socialista sovietica moldava e assegnò alla nuova regione anche una parte della Repubblica socialista autonoma di Moldavia, che fino ai primi anni Quaranta era stata legata all'Ucraina, e che poi tormenterà la storia del paese con il nome di Transnistria.
Per tutta la sua permanenza nell'URSS, il paese si ritrovò con due anime e altrettante lingue, ma quella più a est, la Transnistria, che aveva come città principale Tiraspol, non sentiva la necessità di aprire un conflitto con i vicini dell'Ovest, con i quali condivideva l'appartenenza alla Repubblica socialista di Moldavia. Dopotutto, quello che contava era essere sovietici.
In Transnistria si sapeva che ogni decisione arrivava da Mosca, inclusi i nomi dei segretari del Partito comunista locale impegnato in una politica di intensa russificazione: Leonid Breznev, ucraino di origine, fece pratica in Moldavia per anni prima di diventare il leader del Partito comunista dell'Unione Sovietica. Le due parti della repubblica erano molto diverse anche dal punto di vista economico: a est erano state concentrate le industrie, che invogliarono altri cittadini sovietici a trasferirvisi, mentre l'ovest era rimasto agricolo e completamente dipendente dall'est per le forniture di energia.
Nel 1987 si fece largo sulla scena politica della Moldavia un comunista fervente e sovietico modello, finito in Transnistria per lavoro. Igor' Smirnov era figlio di un politico e di una giornalista, suo padre era stato arrestato per corruzione e liberato dopo la morte di Stalin, ma neppure la detenzione in Siberia aveva fiaccato la sua fede nel partito, né quella della sua famiglia.
Igor' era cresciuto tra la Russia e l'Ucraina, aveva collaborato alla costruzione della centrale idroelettrica di Nova Kachovka, nella regione ucraina di Cherson e, alla fine degli anni Ottanta venne mandato a lavorare in Transnistria, proprio mentre la Moldavia cercava di tagliare i rapporti con l'Unione Sovietica e la lingua russa, e di unirsi alla vicina Romania. Un sovietico entusiasta come Smirnov non soltanto non poteva accettare, ma non poteva neppure capire come si potessero desiderare dei cambiamenti tanto radicali, delle fughe così brusche dall'URSS.
Non era un politico e dunque si impegnò nell'organizzazione di scioperi che coinvolsero alcune industrie della parte transnistriana per più di un mese, ma che non sortirono alcun effetto. Decise allora di tentare la strada politica per far sopravvivere quel mondo che per lui era anche un'intensa storia di famiglia tracciata dal padre. Smirnov partecipò allora alle elezioni moldave, ma la determinazione della parte occidentale della repubblica era forte, le spinte nazionaliste anche e la furia indipendentista era pronta a farsi violenta.
Così, incapace di influenzare la politica della nazione che stava per nascere, decise di organizzare nel 1990 un referendum sulla secessione dalla Moldavia e di proclamare la nascita della nuova Repubblica socialista sovietica moldava di Pridnestrovie.
L'Unione Sovietica reggeva ancora, ma si sentivano le scosse, le spinte indipendentiste, e Smirnov cercò il riconoscimento di Mosca. Non si aspettava che il referendum sarebbe stato invece biasimato, e il Cremlino non soltanto non riconobbe la neonata repubblica, ma Gorbacëv, convinto che le cose potessero risolversi in altro modo e che l'Unione Sovietica potesse ancora salvarsi, non interpretò il gesto come una manifestazione di lealtà estrema, ma come un pericoloso sgarbo tra popoli fratelli.
In realtà non c'era nulla da recuperare e l'anno dopo, nei giorni del golpe contro il segretario del Partito comunista dell'URSS, la Moldavia si proclamò Stato indipendente con capitale Chisinau. La parte occidentale del paese voleva liberarsi al più presto di ogni retaggio sovietico, tuttavia sapeva che la Transnistria rimaneva il fulcro prezioso dell'economia nazionale e lasciarla andare era impossibile; quindi, quando dichiarò la nascita della nuova nazione, lo fece prendendo in considerazione i confini di tutta la vecchia Repubblica socialista sovietica, sicché la Transnistria dichiarò a sua volta l'indipendenza dalla Moldavia.
Il primo conflitto postsovietico alle porte dell'Europa scoppiò dopo che la richiesta di Chisinäu di ritirare la XIV Armata di Mosca di stanza in Transnistria non ottenne alcun risultato. La Moldavia prese ad armare un proprio esercito con l'aiuto della Romania, ma si trovò a combattere contro truppe meglio armate e più organizzate, costituite dagli abitanti della Transnistria e da volontari russi e ucraini, forti anche del sostegno della XIV Armata.
Gli scontri iniziarono il 1° marzo 1992, durarono fino a luglio e si risolsero con un accordo di cessate il fuoco firmato da Boris El'cin, che era diventato presidente della Federazione russa, e dal presidente moldavo Mircea Snegur. Venne decisa la creazione di una forza di peacekeeping per il mantenimento del cessate il fuoco e la gestione fu affidata a Mosca.
La presenza della XIV Armata venne ridotta a 1500 uomini e a tutti gli effetti la Transnistria si considera ancora uno Stato a sé con capitale a Tiraspol, indissolubilmente legato alla Russia. Tiraspol e Chisinãu di fatto sono ancora in guerra e la Transnistria è un parco giochi della nostalgia, scollegato da tutto, anche da Mosca.
Difficile trovare altrove un senso tanto vivo di appartenenza a un mondo che non c'è più, un panorama di edifici brutalisti e statue sovietiche lasciati a farsi consumare dal tempo, non per incuria ma per mancanza di mezzi di manutenzione: sebbene la regione fosse più industrializzata della parte occidentale della Moldavia e sia ancora fonte di energia per tutta la repubblica, ha rapporti commerciali soltanto con la Russia e il suo vivere isolata dal resto del mondo non ne aiuta lo sviluppo economico.
È un non-Stato che utilizza il rublo, ha carri armati dell'Armata Rossa disseminati con orgoglio sul proprio territorio, mantiene nella bandiera la falce e il martello, e vanta nella sua capitale una Casa dei soviet ben tenuta e una statua di Lenin fiera e impettita: qui l'Unione Sovietica esiste ancora. Mosca ha sviluppato un rapporto speciale con la striscia di terra incastonata tra Ucraina e Moldavia, dove ci sono ancora le truppe russe e soprattutto il grande deposito di Cobasna, che contiene circa 20.000 tonnellate di armi della XIV Armata.
Le contraddizioni in questa regione della nostalgia sono molte: neppure Mosca riconosce la Transnistria, ma ha rapporti con le sue istituzioni. Il deposito e i soldati russi si trovano ufficialmente sul territorio moldavo, che tuttavia chiede lo smantellamento del primo e il ritiro dei secondi e percepisce l'enclave separatista come una minaccia alla sua esistenza, soprattutto dallo scoppio della guerra della Russia contro l'Ucraina.
La Transnistria è stata per Mosca la prima delle schegge rimaste incastrate nel territorio postsovietico ed è proprio da Tiraspol che il Cremlino ha imparato a utilizzare e fomentare le spinte separatiste per influenzare la politica di paesi che non ha mai smesso di considerare suoi. Tra questi Stati, la Moldavia è il più fragile.
Assieme all'Ucraina ha ottenuto lo status di paese candidato all'Unione europea, rimane dipendente da Mosca a livello energetico, ha un conflitto non risolto sul suo territorio, una politica traballante costantemente esposta alle ingerenze della Russia, ed è talmente vicina all'Ucraina e talmente interconnessa da essere il paese confinante che più subisce gli effetti della guerra: spesso si ritrova al buio insieme a Kiev a causa dei bombardamenti russi contro la rete elettrica ucraina, che rifornisce anche la Moldavia, proprio come quando c'era l'URSS.
Antonio Giangrande: L’OCCIDENTE MOLLICCIO E DEPRAVATO.
Il mondo è diviso in due parti. I cattivi ed i buoni.
Dipende da quale parte lo si guardi. Ogni parte si arroga il diritto di stare dalla parte giusta.
Noi occidentali, sotto giogo culturale, politico ed economico statunitense, giudichiamo tutti gli altri come regimi religiosi fondamentalisti, ovvero regimi autoritari e dispotici.
Gli altri ci considerano pericolosi perché portatori di pseudo democrazie, governate dalla dittatura delle minoranze, e infette dalle tre C: Capitalismo; Caos, Criminalità.
A ciò si aggiunge l’ateismo dilagante e, cosa fondamentale, il culto del singolo individuo e della sua personalità, o della frammentazione dei singoli Stati servi della loro politica economica.
In mano a legioni di imbecilli, diceva Umberto Eco, guidate dal gradimento di un clik.
Noi vediamo la pagliuzza negli occhi altrui, ignorando la trave nei nostri occhi.
Da noi i casi di censura sono sempre più frequenti. A definirne la pericolosità è la natura ideologica, quasi religiosa, attraversata da una spinta revisionista della propria storia e delle proprie origini. Dunque è la censura a essere figlia del politicamente corretto e non l’inverso. La retorica del politicamente corretto divide la realtà, la storia, gli individui tra bene e male, tra luce e oscurità, e queste opposizioni pretendono adesioni unanimi, omologazione, conformismo. Queste radicalizzazioni non concepiscono alcun relativismo, anzi, presentano evidenze che non possono essere negate. Ideologizzazione e sessualizzazione dell’insegnamento ai minori, fin dalle elementari, sono due problemi enormi. Tendono ad ostentare ed imporre le posizioni di infime minoranze, fino a farle sembrare maggioritarie.
Agli occhi delle altre culture sembriamo essere governati dal femminismo e dagli LGBTI.
La “cancel culture”, la “woke revolution” e poi sempre il “politically correct” sono termini inglesi che stanno entrando prepotentemente nel lessico italiano.
Secondo la maggior parte degli opinionisti di sinistra non esiste nulla di tutto ciò: sono solo paranoie.
Sono invece tre aspetti di una rivoluzione culturale in corso.
La definizione la traiamo da un articolo di Stefano Magni su Inside Over.
La “woke revolution” prende il nome dallo slang afro-americano. Woke vuol dire letteralmente “in allerta”.
Nelle università più costose anglosassoni sono gli studenti (molto spesso bianchi) e gli intellettuali che sentono il dovere di restare “in allerta” per scovare ogni traccia di razzismo nel discorso pubblico. Un gesto, una parola, un tono di voce, possono sembrare innocui, ma, secondo gli woke, sono minacce velate o segni di un razzismo residuo.
Il politically correct è il codice che definisce ciò che per un woke è corretto o scorretto. E il razzismo contro cui lottano non è solo quello contro i neri, ma anche contro tutti coloro che sono visti come gli oppressi di ieri e di oggi: omosessuali, donne, difetto estetico (obesità, nanismo, handicap) immigrati, membri di minoranze etniche e religiose, transgender, animali (difesi da umani, in questo caso). Ma le categorie si estendono di continuo e in modi e tempi difficilmente prevedibili, secondo le mode del momento.
La cancel culture è il modo in cui gli woke esercitano la giustizia. Ed è un eufemismo per definire la nuova forma di linciaggio online: il colpevole viene bandito, dopo una campagna di odio in rete, nelle università e in pubblica piazza, dopo il boicottaggio, il ritiro di ogni invito e infine anche il licenziamento. Se l’ingiustizia è un simbolo, come una statua, si chiede la sua rimozione. Se è un film, si chiede la sua cancellazione. Se è un testo, non deve essere più venduto. E così di seguito, fino al reset del passato.
Secondo Bari Weiss, il mostro woke è cresciuto per mancanza di coraggio di chi avrebbe dovuto opporsi: è un atteggiamento infantile a cui gli adulti, i responsabili, gli insegnanti, non hanno mai risposto con un “no”. Ma nessuno, neppure Bari Weiss o Greg Lukianoff, riesce a individuare la radice di questa rivoluzione culturale.
Se tutto ciò vi ricorda il marxismo leninismo applicato in Urss e in Cina, ma anche nei movimenti più violenti del nostro Sessantotto, forse avete ragione. La nuova sinistra non è molto distante dalla vecchia logica della lotta di classe. E se il fenomeno è cresciuto è perché negli Usa, che non sono mai stati comunisti, il marxismo è sempre più di moda nelle università, spesso filtrato attraverso lo studio di Gramsci, il filosofo italiano più influente nella cultura americana da vent’anni a questa parte.
In conclusione bisogna dire che il mondo è contro di noi occidentali perché ai loro occhi ci siamo comunistizzati, ossia siamo molli, effeminati e depravati. E questo stile di vita non vogliono che infetti il loro modo d'essere.
Naturalmente, nessuno dei due mondi scende a compromessi.
Entrambi tendono all'ostentazione ed all'imposizione dei loro difetti.
Gli scontri tra Oriente e Occidente. Ernst Jünger e il "nodo" dell'incontro-scontro tra Oriente e Occidente. La sfida archetipica segna tutta la storia della civiltà: sempre in bilico, mai risolta. Marino Freschi su Il Giornale l’11 Gennaio 2023
Erano passati quattordici anni, non molti, eppure era tutta un'altra storia. Nel 1939 usciva Sulle scogliere di marmo il romanzo simbolico di Ernst Jünger, uno dei racconti più intensi della letteratura del primo Novecento, un puro capolavoro. Nel 1953 lo scrittore pubblica un saggio inquietante e nel medesimo tempo un classico: Il nodo di Gordio, che suscitò una vivace discussione intellettuale. In mezzo c'erano state la guerra, la catastrofe tedesca, la vergogna tedesca, la sconfitta di tutta l'Europa, con i russi a Berlino, pronti ad avanzare ancora: la bandiera rossa sventolava sprezzante sulle rovine del Reichstag «millenario». A pochi metri il bunker sotterraneo con il corpo carbonizzato del Führer. Ernst Jünger era stato coinvolto nell'attentato fallito a Hitler del 20 luglio del 1944. Il suo nome venne depennato dalla lista dei condannati a morte dallo stesso Führer. Lo scrittore dovette immediatamente abbandonare Parigi, sparire in un villaggio tedesco. Con l'arrivo degli alleati fu sottoposto alle aspre pratiche di denazificazione, consistenti per lui nel divieto di pubblicare, che venne ritirato nel 1953. Nello stesso anno usciva un saggio sorprendentemente affine di A. Toynbeee: The world and the West; si era pronti a riaprire una grande discussione sulle rovine dell'Occidente.
La Germania di Jünger era un campo di macerie materiali e ancor più morali e spirituale, il figlio morto in combattimento sulle Alpi Apuane, vittima forse di fuoco amico in quanto dissidente del regime. Malgrado tanto dolore, il saggio Il nodo di Gordio è perfetto come un bassorilievo greco di travolgente bellezza stilistica e densità intellettuale: si avverte già dall'incipit la mano dell'artista e del pensatore. «Oriente e Occidente: negli avvenimenti mondiali questo incontro non è soltanto di primaria importanza, ma rivendica un'importanza tutta particolare. Fornisce il filo conduttore della storia, l'inclinazione dell'asse rispetto all'orbita solare. Balenando sin dagli albori, i suoi motivi si dipanano fino ai nostri giorni. Con tensione sempre rinnovata i popoli salgono sull'antico palcoscenico e recitano l'antico copione. Il nostro sguardo si fissa soprattutto sul fulgore delle armi che domina la scena».
La visione è nitida e riconosce gli antichi attori: i Sarmati, i Persiani, i Tartari, le masse enormi dei popoli dell'Asia, e dall'altro parte i valorosi spartani, greci, romani, crociati e templari: Oriente e Occidente. A leggere oggi quelle pagine di settant'anni fa il pensiero riconosce le tracce visibili della storia negli attacchi notturni dei nuovi Sarmati sugli operosi villaggi della Vodolia, della Galizia fino alle «rive del Dnipro, Muro di Berlino che spezza l'Ucraina» (titolo del quotidiano La Repubblica), mentre Massimo Cacciari apre il primo numero dell'anno de La Stampa con un articolo in sorprendente consonanza con l'intuizione storico-mitica di Jünger: «L'Occidente che non riesce a sciogliere i nodi di Gordio», ma con una curvatura irenica che non è certo la prospettiva di Jünger, la cui forte impressione mitica fa riapparire gli archetipi dello scontro epocale tra due civiltà, tra due antropologie, tra due etnologie. Riaffiora, in Jünger, la grande tradizione culturale tedesca, quella che con Nietzsche aveva fondato l'antinomia cultural-spirituale tra apollineo e dionisiaco che con Thomas Mann e Oswald Spengler si era precisata nel contrasto fondante tra Kultur e Zivilisation, tra spirito e democrazia. Le radici intellettuali di Jünger risalivano al monumentale Matriarcato di J. J. Bachhofen del 1861 in cui il regno, oscuro delle madri è contrapposto al dorico, apollineo sorgere degli Dei luminosi dell'Olimpo, già intuito dai Veda. Il sigillo oriente-occidente era stato affrontato, dalla prospettiva tradizionale, da Réne Guénon nel 1924 in un saggio d'immensa risonanza. In realtà il contrasto era apparente: l'Occidente evocato dal pensatore tradizionalista francese era privo del fulgore olimpio scolpito da Jünger nel suo saggio, cui rispose nel 1955 Carl Schmitt, replica che a appare in appendice a Il nodo di Gordio jüngeriano. Oggi il libro è ripubblicato da Adelphi insieme a un utilissimo aggiornamento sull'intera discussione a cura di Giovanni Gurisatti (che ha anche tradotto con Alessandro Stavru i saggi dei due maestri tedeschi).
Con Il nodo di Gordio Jünger torna alla classica grandezza stilistica delle Scogliere di marmo: nel saggio il mondo confuso barbarico, oscuro, «asiatico» del Forestaro - il principe del caos del romanzo - incarna il polo dell'Oriente, quello di una umanità senza la luce della coscienza, a cui la civiltà d'Occidente è pervenuta con immensi sforzi, ché la storia nulla regala: «Per dimostrare che lo spirito libero domina il mondo si paga il prezzo più alto. Questa è la prova che dev'essere superata nel sacrificio. Con essa bisogna mostrare che il libero governo è superiore ai dispotismi, che i liberi combattenti pesano più delle masse e che le loro armi sono meglio congegnate e di più lunga gittata. Si arriva così ai momenti di svolta, nei quali gli spiriti si gettano nella mischia. Eserciti immensi vengono affrontati, incalzati nelle valli, nelle sacche, nelle gole, ricacciati nei mari o negli stretti. I superstiti fuggono, i loro capi si danno la morte in foreste e deserti». Lo scontro diventa epocale, tra i valori della luce e le forze ctonie dell'oscurità, tra la cultura della forma contro l'amorfo. Il sacrificio di Leonida segna non solo un evento bellico, ma un'illuminazione, l'epifania di un nuovo splendore della coscienza: in questo contesto la lotta si sublima in un evento grandioso, epocale: «Adoperata in questo modo la spada è spirituale; è lo strumento di una decisione libera e risolutiva».
A leggere oggi questo saggio insieme con la risposta di Schmitt - si viene travolti dalla lucente bellezza di ogni classica memoria, ma anche dalla sua travolgente attualità. Pare ma è così! - che l'Occidente sia chiamato a difendere, ancora una volta, la sua identità storica, la sua libertà, sulle mugghianti rive del Dnipro nella reiterazione dell'epocale scontro tra civiltà. Tutto è ancora in bilico, nulla è ancora perduto se l'Occidente saprà elevare al sole i propri vessilli di libertà, ritrovare i valori della propria cultura, e tagliare con decisione l'eterno nodo di Gordio: nell'intramontabile mito «compare un principio spirituale in grado di disporre in modo nuovo e più pregnante del tempo e dello spazio».
"Il Nodo di Gordio", Junger e Schmitt raccontano il rapporto tra Occidente e Oriente. Jünger e Schmitt scrivono un saggio attuale sul rapporto tra Occidente e Oriente, fermandosi più volte sulla sfida tra "democrazia" e "autoritarismo" evocata dal presidente Usa Joe Biden. "Per la storiografia occidentale l'atto di arbitrio è inconciliabile con la dignità del monarca". Roberto Vivaldelli su Il Giornale il 28 Febbraio 2023
Tabella dei contenuti
Lo storico Franco Cardini racconta Il Nodo di Gordio
Il rapporto tra Occidente e Oriente
Il Nodo di Gordio, proprio come il nodo che stringeva il giogo al timone del carro consacrato da Gordio a Zeus nel suo tempio, e che Alessandro Magno nel 334 a. C. troncò con un colpo netto di spada, ottenendo così il dominio dell’Asia e del mondo, così come predicava un'antica profezia. Ma Il Nodo di Gordio è anche un'opera monumentale di Ernst Jünger, pubblicata per la prima volta nel 1953, dopo la Seconda guerra mondiale e in piena Guerra Fredda, a cui due anni dopo replicava con uno scritto altrettanto intenso l'amico Carl Schmitt. È un'opera che riflette sulla natura del rapporto-scontro fra Oriente e Occidente.
"Questo incontro", scrive Ernst Jünger in apertura del suo Nodo di Gordio, non soltanto occupa una posizione di primo piano fra gli avvenimenti mondiali, ma "rivendica di per sé un’importanza capitale. Fornisce il filo conduttore della Storia". Un incontro, tuttavia, che nella storia si è spesso trasformato in scontro: "Con tensione sempre rinnovata i popoli salgono sull’antico palcoscenico e recitano l’antico copione. Il nostro sguardo si fissa soprattutto sul fulgore delle armi che domina la scena".
Lo storico Franco Cardini racconta Il Nodo di Gordio
"Il Nodo di Gordio" è stato recentemente ripubblicato dalla Piccola Biblioteca Adelphi con gli scritti originali di Jünger e Schmitt, in un'edizione curata da Giovanni Gurisatti. Saggio fondamentale che è stato raccontato e sviscerato nei suoi punti focali - in occasione di una serata svoltasi lo scorso 28 gennaio al Teatro di Pergine Valsugana (Tn) e organizzata dall'omonimo think-tank - dallo storico Franco Cardini. "La spada è un elemento risolutivo, anche nel suo uso militare. Si usa la spada per stabilire chi vince e chi perde. La spada di Artù dall'incudine, dalla pietra, o dall'albero in cui è infitta, secondo le varianti della leggenda arturiana, è uno strumento che indica il modo in cui l'ordine mondiale sarà ristabilito. Chi estrae la spada è un eletto a ristabilire l'ordine in uno stato di disordine. Il Nodo di Gordio è esattamente la stessa cosa. È un nodo fra due apici di una corda che serve ad aggogiare due bui o due tori ad un aratro, ma il nodo è così intricato che non si può sciogliere".
Alessandro, ha spiegato, "fa una scelta: risolve, non sciogliendo il nodo con pazienza, ma con un taglio netto della spada, ottenendo un risultato, ma a un prezzo. Perché una sezione della corda viene rovinata da questo gesto". Così si ritrova, ha continuato Cardini durante la serata organizzata dal think-tank Il Nodo di Gordio, "sospeso tra l'Oriente e l'Occidente, fra l'Europa e l'Asia". Alessandro, ha sottolineato lo storico incalzato da Daniele Lazzeri e Andrea Marcigliano, "non è considerato un greco dai greci. È considerato un greco dai persiani, e risolve il problema del loro rapporto con un taglio netto e dando avvio a un sistema di governo nuovo".
Il rapporto tra Occidente e Oriente
L'attualità dei due saggi di Jünger e Schmitt sul rapporto fra Occidente e Oriente, sulla sfida tra "democrazia" e "autoritarismo" più volte evocata - con una buona dose di retorica - dal presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, è impressionante. Per la storiografia occidentale, scrive Jünger, l'atto di arbitrio è "inconciliabile con la dignità del monarca", e getta come un'ombra sul carattere di quei pochi cui viene attribuito il titolo di "grande". E ancora: il filosofo tedesco sottolinea come in Oriente l'atto di arbitrio "non pregiudica la grandezza di un principe", ma ne è piuttosto la conferma.
In Oriente è del "tutto nella norma che durante un banchetto Alessandro uccida Clito", che gli aveva salvato la vita. La sentenza del principe "ha valore sia che derivi da una ponderata riflessione", sia che provenga da una vampata di collera. Nel pensiero occidentale e nella relativa storiografia l'atto di arbitrio, soprattutto quando si manifesta in modo brutale, osserva Jünger, "viene considerato una macchia". Anche quando mira al bene, alla giustizia, "come nella lotta contro il drago, getta un'ombra sull'impresa".
A tal proposito, scrive Carl Schmitt commentando l'opera dell'amico, quando si parla di "Nodo di Gordio" ci si immagina perlopiù un groviglio confuso. Il gesto di Alessandro Magno sarebbe stato quello di sciogliere il groviglio, e in modo semplice - pericolosamente semplice - decisionistico: "con un colpo di spada". Ma il libro di Jünger, come spiega bene Schmitt, non rappresenta una condanna del mondo orientale e un'esaltazione occidentalistica: "In realtà -osserva -il libro di Jünger non fa che parlare di polarità e transizione. La sua conclusione non è un aut-aut, ma un et-et, un incontro reciproco, un bussare alla porta, uno scambio e un equilibrio, un ritorno nell'eterno nel tempo e un accenno alle recondite risposte che spettano all'Oriente". Perché senza aver letto questo libro fondamentale, difficilmente si può comprendere il complesso rapporto tra Oriente e Occidente. Scritto 70 anni fa, questo saggio si presenta oggi come un classico: senza tempo.
Putin contro l'Europa. Una guerra cominciata tanti anni fa. Paolo Guzzanti su Panorama il 20 Febbraio 2023
Ecco cosa scriveva nel 2007 sui rapporti, già allora tesi, con il capo del Cremlino
Da Panorama del 13 settembre 2007 La guerra fredda è tornata. Tutto è cominciato il 23 novembre dello scorso anno quando l'Atomic weapons establishment, il laboratorio militare nucleare di Aldermaston nel Berkshire, certificò che un cittadino britannico, Edwin Redwald Carter, era stato colpito e ucciso su suolo britannico dal primo attacco nucleare della storia lanciato da una potenza straniera. L'arma era un isotopo radioattivo, il polonio 210, introdotto violando la sovranità del Regno Unito. L'identità originale di mister Carter è quella dell'ex esule e colonnello russo Alexander Valterovich Litvinenko, colpito in una stanza d'albergo a Londra e morto tre ore prima che l'Awe scoprisse che la causa del decesso era una minuscola bomba atomica che può essere prodotta soltanto da laboratori militari per usi militari. La guerra fredda è cominciata nel momento in cui il presidente della Federazione Russa Vladimir Putin ha risposto all'insistente richiesta di estradizione della Procura della Corona britannica per il cittadino russo (ed ex ufficiale del Kgb) Andrei Lugovoy accusato di aver assassinato Litvinenko, facendo alzare in volo i bombardieri Tupolev con testate nucleari che non volavano dal 1992. Poco prima aveva fatto mettere sotto il tiro dei suoi missili alcune città europee e aveva avuto uno scontro aspro con il primo ministro Tony Blair pochi giorni prima che questi lasciasse il suo ufficio: Blair, che aveva sempre parlato di Putin come di un «caro e insostituibile amico», era stato sferzante. Il segretario di Stato americano Condoleezza Rice l'aveva seguito portandosi dietro il presidente francese Nicolas Sarkozy e il Portogallo. Il nuovo primo ministro britannico Gordon Brown non ha esitato a far levare i caccia per contrastare i bombardieri russi. Tutto ciò accade oggi, nel 2007. Vladimir Bukovsky, il celebre esule russo che fu liberato dopo uno scambio con il segretario comunista cileno Luis Corvalan, ha commentato dicendo: «Due sciocchezze sono state credute in Occidente: che la guerra fredda fosse finita e che l'Occidente l'avesse vinta».
Le bugie di Putin prima della guerra nella docu-serie Bbc. Il Corriere della Sera il 22 febbraio 2023.
Per chi non vuole parlare a vanvera dell’invasione russa dell’Ucraina (e scandalizzarsi per le parole che Zelensky ha rivolto a nostri uomini politici), consiglio vivamente di seguire Putin contro l’Occidente, la docu-serie che la Bbc ha dedicato ai tragici eventi dell’«operazione militare speciale» (History Channel, 411 di Sky).
Putin è uno spietato dittatore, un mentitore seriale, ma molti leader occidentali, da Hillary Clinton a Donald Trump, da Emmanuel Macron ad Angela Merkel hanno faticato a capire (o non hanno voluto capire) cosa stesse succedendo. A partire dal ruolo ambiguo di Viktor Yanukovich, ex presidente dell’Ucraina, il documentario in tre puntate di Norma Percy ricostruisce sia i colpi di mano di Putin sia i retroscena delle tattiche fallimentari dell’Occidente. Tra rivelazioni, aneddoti, scene raccapriccianti, filmati d’archivio e lunghe interviste, la serie tratteggia lo scenario del conflitto. Nel primo episodio, per esempio, si ricorda l’invasione russa del 2014 in Crimea e nella regione orientale del Donbass. Quando decine di soldati russi vennero catturati sul territorio, con cartellini identificativi e ordini ufficiali, Putin raccontò che i soldati erano in vacanza o che si erano smarriti lungo il confine.
L’Occidente restò in silenzio. Grandi assenti la Merkel e Obama. Cameron e Hollande appaiono distanti e incapaci di trattare. Barroso racconta di aver ascoltato a bocca aperta Putin che gli diceva che l’Ucraina era una creazione della Cia e della Commissione europea. Quando Putin sta per scatenare l’invasione e Boris Johnson tenta di dissuaderlo, la risposta dello zar russo è: «Boris, non voglio farti del male, ma con un missile ci vorrebbe solo un minuto». Non è un’inchiesta a senso unico: secondo uno stile giornalistico che noi non sempre pratichiamo (o «niputini» di Santoro o Report), ogni affermazione è documentata, ogni descrizione ha un riscontro.
Il monito (inascoltato) di Bush a Obama: "Occhio alla Russia". Francesca Salvatore il 23 Febbraio 2023 su Inside Over.
Quando alla Casa Bianca un inquilino si appresta a lasciare, per fare posto ad un altro democraticamente eletto, il vecchio padrone di casa è solito lasciargli dei memo. Una sorta di guide for dummies nella quale dispensare consigli sebbene non si tratti di documenti di alto rango. Tuttavia, questi appunti del presidente uscente sono ritenuti abbastanza sensibili da venire secretati in attesa di essere, a tempo debito, declassificati.
Quattordici anni fa toccava a George W. Bush Jr. lasciare i suoi appunti al successore Barack H. Obama: l’11 settembre, l’Iraq, l’Afghanistan, tutto era già accaduto. In quaranta note riservate del Consiglio di sicurezza nazionale, Bush segnava il passaggio fra due amministrazioni molto differenti ma comunque legate a doppio filo alla war on terror. Per la prima volta, quei promemoria sono stati ora declassificati, offrendo una vista su come il mondo appariva agli occhi di Bush dopo otto anni durissimi.
I memo di Bush per Obama
Una serie di frasi lapidarie che suonano quasi profetiche: "L’India è un amico. Il Pakistan no. Non fidarti della Corea del Nord o dell’Iran, ma parlare è comunque meglio che non farlo. Attenzione alla Russia; brama il territorio della sua vicina Ucraina. Fai attenzione a non essere intrappolato da guerre terrestri intrattabili in Medio Oriente e Asia centrale. E oh sì, la costruzione della nazione è decisamente più difficile di quanto sembri.". A rileggerlo oggi, quel monito risuona sinistro.
Nel gennaio 2009, dopo l’insediamento, con le truppe statunitensi ancora in combattimento in due guerre, Osama bin Laden ancora latitante, una crisi finanziaria in atto e varie altre minacce alla sicurezza americana incombenti, per Obama si profilava un inizio di mandato difficile. Iraq e Afghanistan riempiono, infatti, righe e righe di queste memorie, ma nonostante ciò Bush raccontava al successore quanto all’epoca la politica estera americana sperasse ancora in relazioni costruttive con Russia e Cina. Il promemoria sulla Cina sollecitava un ampio impegno personale tra i leader, attribuendo alle interazioni di Bush con le sue controparti cinesi la creazione di "una riserva di buona volontà" tra le due potenze. Il promemoria sulla Russia concludeva, invece, che la "strategia della diplomazia personale" di Bush aveva avuto un successo iniziale, ma riconoscendo che i legami si erano inaspriti, soprattutto dopo l’invasione russa della Georgia nel 2008.
Si trattava, dunque, di un promemoria sulle future ambizioni espansionistiche di Mosca. Bush, nei suoi appunti, dichiarava, ancora: "I tentativi della Russia di sfidare l’integrità territoriale dell’Ucraina, in particolare in Crimea, che è per il 59% etnicamente russa e ospita la flotta del Mar Nero della Marina russa, deve essere impedita". Il memo aggiungeva che "la Russia sfrutterà la dipendenza dell’Europa dall’energia russa" e utilizzerà mezzi politici "per creare cunei tra gli Stati Uniti e l’Europa". Ipse dixit.
Obama e Mosca: dal "reset" al blitz in Crimea
Se c’è un’immagine che più di altre racconta la postura americana nei confronti di Mosca in questa fase è quella di Obama e Dmitry Medvedev che discutono davanti a due cheesbruger in quel del Ray’s Hell Burger ad Arlington nel 2010. Nei primi mesi del suo primo mandato, Obama aveva promosso un reset con Mosca destinato a sanare le acredini legate al caso Georgia, con l’obiettivo di assicurarsi l’aiuto di Mosca su questioni chiave per Washington. Questo produsse dei primi successi: il New Start, ormai ridotto in cenere, e una maggiore cooperazione su Iran e Afghanistan.
I progressi rallentarono nel 2011 sul dossier Libia, e nel 2012, il ritorno di Vladimir Putin alla presidenza russa fece presagire un rapporto meno cooperativo, ma sottostimando le ambizioni della Difesa russa. Gli anni delle elezioni, in genere, non hanno mai generato tempi favorevoli per i progressi nelle relazioni Usa-Russia. Nella primavera del 2012, la campagna per le elezioni presidenziali negli Stati Uniti era in pieno svolgimento. Toccò a Mitt Romney fare la Cassandra: il governatore, che si era assicurato i voti necessari per la nomina repubblicana, citò la Russia come la minaccia geopolitica numero uno per il
Stati Uniti. Obama criticò duramente il commento ma saltò a piè pari la Russia nella sua campagna elettorale e la questione del controllo degli armamenti venne trattata come un tabù. In agosto la Russia aderì al WTO e i funzionari russi riconobbero pubblicamente il sostegno di Washington come la chiave per realizzare l’adesione dopo tanti anni di attesa. Il dossier siriano, unitamente alla chiusura di Mosca sulle attività dell’Usaid in Russia, diedero il la ad un nuovo allontanamento tra le due superpotenze.
L’amministrazione Obama sembrò arrendersi difronte alle secche in cui navigava questo rapporto nel corso del 2013, fino a toccare il minimo storico del 2014, con l’annessione russa della Crimea e l’inizio del caos in Donbass. Un precedente inquietante per il diritto internazionale e per la tenuta democratica dell’Europa, forse sottovalutato, ritenendo che la pretesa sulla Crimea e sul Donbass fossero limitate a quell’area e che non nascondessero l’intento di arrivare a Kiev. Al di là delle dovute rappresaglie diplomatiche e delle sanzioni, Washington optò per una strategia trina, cercando di sostenere l’Ucraina, rassicurando gli alleati della Nato e conducendo una revisione della propria politica estera
Gli errori di Obama
"Leading from behind" era stato uno dei refrain di Obama. Una politica molto ripiegata sul programma domestico e grandi progetti come la riforma sanitaria o i diritti civili, tanto da far pensare ad una probabile rinuncia al ruolo di poliziotto del mondo. Questo apre un interrogativo ulteriore: glissare sul 2014 fu errore di valutazione o fu, scientemente, una strategia di disimpegno? Era chiaro già da allora che l’Europa avrebbe pagato il prezzo più alto se Putin non si fosse fermato alla Crimea. Del resto, l’amministrazione Obama chiudeva i suoi otto anni con i compiti a casa tutto sommato ben fatti: una fittissima agenda interna, due guerre portate a termine, la cattura di Bin Laden, la tempesta della crisi affrontata. Lo spiegò bene Michael Cohen della Century foundation nel bel mezzo della crisi in Crimea: "Quel che c’è di sbagliato in queste analisi è il focus delle critiche. Il cuore del problema non è tanto come Obama deve rispondere ai russi ma perché".
Nella teoria tutto fila, nella pratica un po’ meno. Quasi dieci anni dopo, un presidente americano, tra l’altro ex vicepresidente dello stesso Obama, è fra le macerie di Kiev. Al di là dell’iconografia e degli usi privati del gesto, è il segno più tangibile di un’America che è continuamente tentata dall’isolazionismo, ma che alla fine isolazionista non può e non riesce ad essere. Alla luce di questo, seppur la scelta di Obama fu isolazionista, fu comunque poco lungimirante: nel 2014 le bizze putiniane era già chiare. E in un mondo dominato dall’effetto farfalla era presumibile che una crisi nel granaio d’Europa avrebbe avuto conseguenze economiche, energetiche, geopolitiche spaventose, oltre che umanitarie. E per quanto Washington potesse desiderare di ripiegarsi su se stessa, era già chiaro che quelle conseguenze avrebbero colpito anche gli Stati Uniti. Fu una strategia, non un errore di valutazione, ma una strategia molto, molto miope. FRANCESCA SALVATORE
Lorenzo Cremonesi, diario dalla guerra ucraina. In coda tra i carri armati, quel primo viaggio da Leopoli a Kiev. Lorenzo Cremonesi su Il Corriere della Sera il 22 Febbraio 2023.
Pubblichiamo alcuni estratti dal libro di Lorenzo Cremonesi «Guerra infinita» che a un anno dall’invasione sarà disponibile gratis per abbonati nell’app Corriere Online nella sezione ebook
Di seguito alcuni estratti dal libro di Lorenzo Cremonesi «Guerra infinita» (Solferino, 2022) che sarà disponibile gratis per gli abbonati del Corriere della Sera nell’app Corriere Online nella sezione ebook. Su Corriere.it e nell’app Digital Edition nella sezione «Guide e ebook» fino al primo maggio.
Leopoli, 25 febbraio
Nella notte ho camminato per quattro ore con lo zaino in spalla e la sacca del computer a tracolla per superare le decine di migliaia di profughi che intasavano la strada che da Leopoli porta verso Medyka. Sapevo che stavano cominciando a scappare, ma non pensavo fossero già così numerosi. Bastano pochi minuti tra la folla per immergersi nell’atmosfera dell’emergenza: è gente che fugge, tutti sono stanchi, spaventati, nelle borse lo stretto necessario. Sono quasi tutti donne e bambini: le autorità ucraine impongono che gli uomini tra i diciotto e i sessant’anni restino a combattere. Mi vengono in mente gli scritti di Simone Weil, che nel 1940 osservava sgomenta i parigini in fuga di fronte all’avanzata della Wehrmacht e descriveva in pagine cariche di compassione quanto velocemente un essere umano possa trasformarsi in un relitto alla deriva. Solo poche ore fa questa gente stava tranquilla nelle proprie case, dava per scontato il cibo nel frigorifero, il calorifero tiepido, la luce elettrica, l’acqua corrente; ora è già una schiera di profughi indifesi, alla mercé del caso, affamati, sporchi, tremanti di freddo; le mamme non sanno dove lavare i figli, dalle poche toilette nelle baracche della frontiera, ormai impraticabili, esce un olezzo insopportabile.
Leopoli, 27 febbraio
Provo a prendere il treno per Kiev, ma nella stazione di Leopoli il caos regna sovrano. Gli orari sui tabelloni sono sbagliati, i ritardi sono di giornate intere, nevica fitto e il traffico è rallentato, sotto le pensiline migliaia di disperati intirizziti. Mentre cerco di capire quando potrò partire ricevo un messaggio da Fatima, una poliziotta afghana incontrata lo scorso settembre all’aeroporto di Herat. Mi chiede aiuto, vorrebbe emigrare in Italia con i due figli piccoli, il marito è morto anni fa. Il suo messaggio mi conduce a tracciare un confronto tra queste due crisi. Gli afghani non sono stati capaci di difendersi: il loro fallimento è anche quello dei nostri programmi di addestramento delle loro truppe e adesso stanno collettivamente pagando il prezzo terribile della sconfitta militare contro i talebani. Al contrario, gli ucraini si stanno difendendo con un coraggio e una determinazione che lasciano sorpresi; la loro resistenza sta già creando un nuovo senso identitario nazionale, sarà complicato assoggettarli. Incontro i loro volontari ai centri di reclutamento in città. «Voglio uccidere i nemici che hanno invaso il nostro Paese: devono morire, questi ladri della nostra terra. Non cerco rifugi o aiuti umanitari, dateci piuttosto fucili, missili e munizioni. Lo so che il mio discorso sembra lontano anni luce se ascoltato da Roma o Milano. Ma io credo che in alcuni casi valga la pena di combattere e magari rischiare di morire, ma soprattutto di uccidere per la libertà e la democrazia» mi dice uno di loro, Roman Babiy, che è poco meno che trentenne e per dieci anni ha studiato a Salerno. Mi incanta la sua determinazione, specie per il fatto che Roman è uno di noi. Non ha mai fatto il servizio militare, non ha mai imbracciato un fucile, non c’è in lui nulla che richiami i fanatici jihadisti siriani o la violenza tribale delle milizie libiche. Lui e i suoi amici pianificavano di venire a sciare in Italia, parlano inglese perfettamente, sono connessi col mondo, sono europei. Eppure, sono pronti a battersi. Gli ucraini stanno già elaborando il mito dei caduti, c’è una disposizione alla morte in battaglia che noi non ricordiamo.
Kiev, 28 febbraio
Alla fine, sono arrivato in auto nella capitale. Mi ci ha portato per duecentocinquanta euro Maga Nahsibzade, musulmano trentaduenne del Nagorno Karabach. Ci viene con la sua giovane fidanzata, chiaramente non sa nulla di ciò che ci aspetta sulla strada e io meno di lui. Partendo alle 10 di mattina da Leopoli — troppo tardi, ma lo scopriremo a nostre spese — sostiene che in sei ore percorreremo i seicento chilometri per Kiev: ce ne vorranno più del doppio. All’inizio il viaggio scorre bene, brilla il sole nell’aria limpida, soltanto i posti di blocco ci rallentano un poco, troviamo benzina e persino alimentari ben forniti alle stazioni di servizio. Ma a circa cento chilometri dall’arrivo la situazione si complica. «I russi stanno attaccando per chiudere l’assedio su Kiev, sparano sull’autostrada, dovete prendere le vie secondarie» ci spiegano i soldati. Sul lato della careggiata sono ben visibili alcune auto colpite dai cecchini russi. Si sta facendo sera e noi dobbiamo seguire una lunga serie di straducole secondarie che toccano piccoli villaggi agricoli, fattorie isolate, attraversano campi coltivati e macchie di bosco. Ogni pochi minuti i volontari armati controllano i documenti ai posti di blocco, puntano i fucili, appaiono nervosi. Alle 7 di sera siamo nel centro della battaglia. Poche decine di metri sopra le nostre teste vedo sfrecciare i colpi traccianti, i globi arancioni di tre forti esplosioni illuminano la campagna a meno di mezzo chilometro dalla nostra auto. Vorrei fermarmi per la notte al riparo di una casa isolata. Maga invece insiste per proseguire, la sua fidanzata piange spaventata, lui vorrebbe arrivare al più presto da alcuni amici che abitano vicino a piazza Maidan. «Evita di stare vicino ai mezzi militari: potrebbero venire attaccati dai droni russi» mi limito a consigliare. Ma poco dopo siamo irrimediabilmente imbottigliati nel mezzo di un lungo convoglio di carri armati. È una situazione assurdamente pericolosa, restiamo fermi almeno un’ora, le carreggiate bloccate da un groviglio di bus, mezzi militari con camion al seguito stipati di munizioni e benzina, auto private cariche di civili spaventati, ma anche giovani volontari accorsi per difendere il fronte della capitale e che saranno la nostra fortuna: la città infatti è paralizzata dal coprifuoco, ma loro hanno il permesso di entrare e noi li seguiamo, come fossimo parte della colonna, sino al centro.
Kiev, 5 marzo
Vedo continuamente monumenti e memorie della «Grande guerra patriottica» contro il nazismo. Nella zona delle officine della Antonov è esposto un T-34, il carro armato diventato il simbolo della vittoria sovietica contro gli eserciti di Hitler. In queste pianure otto decadi fa vennero combattute gigantesche battaglie tra mezzi corazzati. Persino all’entrata del villaggio di Irpin, dove i russi cercano di sfondare per raggiungere rapidamente le arterie a quattro corsie che conducono nel centro a Maidan, si trova un monumento con i nomi dei caduti locali nei ranghi dell’Armata Rossa. Proprio qui di fronte, una mattina fredda e umida, ci muoiono una mamma con i due figli. Nella gabbietta dei cagnolini, rimasta sul selciato con gli animali morti, avevano nascosto il denaro e i gioielli di famiglia. Alla stazione ferroviaria, che da Kiev smista le ondate di profughi in fuga verso occidente, ritrovo le memorie dei libri che sin da ragazzino ho letto sulla Seconda guerra mondiale nell’Est europeo, dove i treni erano onnipresenti. Locomotive avvolte nel vapore che corrono nella notte tagliando i campi innevati, vagoni carichi di vite precarie: i treni portavano i soldati al fronte ed evacuavano i feriti, sui treni partivano i deportati per i campi di concentramento, solo i treni garantivano una certa libertà di movimento. In una delle stazioni del metrò, cento metri sottoterra, incontro Raissa Stephana, che ha ben oltre ottant’anni e non nasconde la nostalgia di quando era chiamata «la più bella artista di Kiev», cantava e recitava nei teatri d’opera di tutta l’Urss e si esibì anche al Bolshoi: «Ma adesso sono diventati criminali, mi sento tradita dai russi che ci sparano contro. Ma forse non è colpa loro, Putin li ha come stregati, li ha ubriacati di guerra!» dice mostrando una sua foto in scena, risalente alla metà degli anni Sessanta.
Kiev, 24 marzo
È trascorso un mese dall’inizio della guerra e non so come finirà. Ma è certo che questa prima fase l’hanno vinta gli ucraini. Sono riusciti a bloccare l’offensiva russa, a ora soltanto la città di Kherson è caduta e anche qui la popolazione rimasta scende in strada a protestare. Persino Mariupol, la città martire dove tutti parlavano russo e che Putin considerava sua ancora prima di sparare il primo colpo, continua a resistere. Queste ultime note sono scritte di fretta, la cronaca della guerra cambia di ora in ora. Sospetto che i movimenti nazionalisti ucraini alzeranno la testa, l’eroismo della resistenza alimenterà i loro miti e potrebbero limitare lo spazio di compromesso nei negoziati con Putin. C’è tra loro chi adesso vorrebbe sfruttare il momento propizio per liberare la Crimea e l’intero Donbass. Putin con le spalle al muro però potrebbe ricorrere alle armi non convenzionali e trasformare l’intero conflitto in un braccio di ferro con la Nato. Si ripete una vecchia storia, le guerre spesso generano altri conflitti, chi le comincia s’illude di chiuderle presto, ma è una chimera pericolosa. Tra poco partirò per Kharkiv per cercare di vedere come l’hanno ridotta quattro settimane di bombardamenti. Ancora troverò macerie, molte più che non a Kiev: case sventrate, immondizia, rottami di auto, testimonianze di esistenze spezzate. Al contrario delle popolazioni di molte aree del Medio Oriente, ho scoperto che pochi ucraini si sono attrezzati con i generatori per fare fronte all’emergenza. Forse dovranno pensarci, alla lunga, ma intanto bivaccano nel freddo delle rovine: quando li vedo uscire dalle zone bombardate indossano strati di vestiti sporchi, raccontano di essere rimasti intere giornate nel buio delle cantine e dei rifugi di fortuna dopo che le batterie delle lampade si erano esaurite.
Kharkiv, 1° aprile
Sopravvissuti e profughi che si cercano, famiglie divise, bambini e anziani rimasti soli: giungono notizie drammatiche dai luoghi attorno a Kiev appena abbandonati dai russi. Ancora si parla di violenze sessuali compiute dai soldati invasori, fosse comuni, civili assassinati senza alcun motivo, girano immagini di corpi abbandonati per la strada. Ci sono aree urbane devastate con scene molto simili allo scempio di Mariupol. I russi minimizzano e puntano il dito contro le «falsità» della propaganda di Kiev. Gli ucraini accusano direttamente Putin di crimini di guerra. Sui social compaiono appelli di persone che fanno nomi, vogliono sapere dei loro cari, lanciano richieste di aiuti sulla rete per trovarli. A me ricordano un poco il racconto di mia nonna sulle origini del «Bollettino della Comunità ebraica di Milano», fondato nel 1945 sostanzialmente per raccogliere le liste di nomi degli scampati dall’Olocausto che arrivavano in Italia da tutta Europa e cercavano di capire se i loro familiari fossero ancora vivi, e come trovarli. Nei conflitti ci sono sempre profughi che si cercano.
Ucraina, un anno di guerra: il video tributo di Zelensky. Dal blitz fallito alla perdita di Kherson: 12 mesi di errori di Putin di Lorenzo Cremonesi, inviato a Kiev, su il Corriere della Sera il 24 febbraio 2023
Quella che doveva essere un’operazione di pochi giorni si trasforma in un disastro già nelle prime ore della guerra. Gli ucraini resistono, contrattaccano e oggi hanno riconquistato molti territori. Ora la sfida decisiva è nel Donbass.
La sconfitta dell’esercito russo si consuma subito, già il 24 febbraio 2022, nelle primissime ore della guerra. Attacca a sorpresa, ha dalla sua il vantaggio di poter dettare la tempistica e il luogo dove colpire, ma incredibilmente fallisce. E quando gli storici nel futuro racconteranno dell’inizio dell’invasione dell’Ucraina non potranno che caratterizzare la battaglia di Hostomel come il momento cruciale in cui Vladimir Putin e il suo stato maggiore si lasciano sfuggire la supremazia dell’iniziativa, costretti da quel momento a riadattare continuamente i piani le strategie a quelli dei comandi di Kiev. Compiono il primo passo, ma poi sono obbligati a rincorrere. Volevano tutto e subito, ma si erano clamorosamente sbagliati sulla volontà di resistenza ucraina, sull’atteggiamento occidentale, sulle loro armi vetuste e sul loro esercito alla prova dei fatti inadeguato. Gli ucraini si rivelano maestri nelle nuove tecnologie, nell’utilizzo agile dei droni, nel monitoraggio delle comunicazioni nemiche, le loro piccole formazioni veloci agiscono in modo autonomo e disorientano le molto più numerose e lente unità russe.Mariupol, soldati russi nascosti dietro un mezzo militare per non essere colpiti dalla resistenza ucraina
Il sacrificio umano
Si stimano già 350 mila morti
Quello stesso Putin, che sino a pochi giorni prima del 24 febbraio minimizzava parlando di «esercitazioni» di una piccola parte delle sue truppe lungo i confini meridionali sino alla Bielorussia e accusava gli americani di essere «guerrafondai» perché dall’inizio dell’autunno precedente denunciavano che la Russia stava preparando una vera guerra in grande stile, si ritrova a dover combattere con modalità che non aveva seriamente previsto. Così oggi, un anno dopo, le sue truppe stanno dissanguandosi nella cittadina di Bakhmut — un obbiettivo secondario, minuscolo rispetto alle aspirazioni iniziali, dove gli ucraini hanno già comunque costruito altre due linee di difesa fuori dalla zona urbana in caso di ritirata — e dichiareranno vittoria ai quattro venti se dovessero prenderla con la speranza di occupare poi tutto il Donbass, pur sapendo che il conflitto resta del tutto aperto. Difficile prevedere cosa avverrà nel 2023, si stimano a circa 200.000 le perdite militari russe, tra morti feriti e dispersi sino ad ora. Quelle ucraine sarebbero circa la metà, cui si sommano circa 50.000 civili. Certamente gli aiuti militari occidentali saranno fondamentali per aiutare un Paese di circa 40 milioni di abitanti contro un nemico che ne conta quasi 4 volte di più, possiede un territorio immenso ed ormai si dimostra disposto ad impiegare tutte le sue risorse pur di prevalere.
I calcoli sbagliati
Alle 8 è disfatta russa all’aeroporto
Il giudizio è in ogni caso netto: il 2022 rivela al mondo la pochezza delle capacità militari russe, espone gli errori grossolani della loro intelligence, incluso quello imperdonabile della sottovalutazione dell’avversario, e invece mostra il pericolo e l’aggressività delle aspirazioni imperiali di Putin e del suo entourage, che ricorrono persino alla minaccia atomica pur di tentare di rilanciare quell’immagine aurea di superpotenza che vorrebbe nostalgicamente riesumare i defunti fasti dell’Unione Sovietica trionfante contro l’esercito tedesco nel 1945.
Alle 5,30 inizia l’invasione, due ore e mezza dopo una trentina di elicotteri Mi-8s arrivano nel cielo dell’aeroporto di Hostomel, a nord di Kiev, una quarantina di chilometri da Maidan e dai palazzi presidenziali. Gli ucraini li stanno attendendo ed è un massacro. Ce lo mostreranno un mese dopo, ridotto a un gigantesco campo di ferraglia annerita dal fumo e sommerso dai rottami di velivoli mischiati agli scheletri dei blindati. Tra loro anche i resti dei giganteschi Antonov, i cargo più grandi del mondo. «Li aspettavamo. L’intelligence americana ci aveva avvisato, poi siamo stati noi armati di missili terra aria statunitensi Javelin e britannici Nlaw ad annientare i paracadutisti russi. Il peggio per loro è stato quando siamo riusciti ad abbattere tre Iliuscin-76 con a bordo il meglio delle teste di cuoio, circa 600. In un pugno di minuti Putin si è visto annientare il fior fiore del suo corpo d’invasione», raccontava quei giorni un colonnello dell’antiaerea.
Cambio di strategia
Da blitz a guerra patriottica
Doveva essere un blitz velocissimo mirato a uccidere o catturare Volodymir Zelensky e i suoi fedelissimi entro due o tre giorni, quindi occupare i gangli vitali dello Stato nella capitale e infine prendere il Paese intero. Da quel momento sarà però una cosa del tutto diversa: uno sforzo bellico di logoramento prolungato che contempla l’impegno dell’intera comunità nazionale, anche se per mesi a Mosca si continua a ribadire la formula farsa dell’«operazione speciale». L’imbroglio sarà evidente a dicembre, quando il ricorso da parte di Putin alla retorica della «grande guerra patriottica» serve per mascherare lo stravolgimento delle dinamiche e degli obbiettivi del combattimento: si è passati dal Blitzkrieg per «affrancare gli ucraini dal tallone dei nazifascisti» alla mobilitazione generale contro «l’aggressione della Nato».
Nelle prossime settimane potrebbero venire reclutati circa 2 milioni di russi, oltre dieci volte il numero dei soldati mobilitati un anno fa. Già a ottobre il sistematico bombardamento russo contro le infrastrutture civili, le centrali elettriche, le stazioni di pompaggio del sistema idrico mirava a fiaccare la volontà di resistenza della popolazione. Quegli stessi ucraini che prima dovevano essere «liberati dai fratelli russi» vanno adesso collettivamente puniti, fatti soffrire in massa. Magie della propaganda negli Stati totalitari: nella narrativa di Mosca gli aggressori diventano aggrediti, l’attacco preventivo come difesa. Si comprende così quanto anche gli sviluppi più recenti siano la conseguenza diretta di quel «piano B» messo in piedi dal Cremlino dopo i primi insuccessi sul campo e che però non era stato davvero seriamente preparato. Un gigantesco convoglio composto da migliaia di mezzi di ogni tipo con a bordo oltre 60.000 soldati entra in Ucraina dalla Bielorussia a fine febbraio, occupa e supera la centrale nucleare di Chernobyl e mira direttamente sulla capitale. Kiev si trincera, in città s’impone il coprifuoco notturno nel terrore delle cellule di filorussi che si dice siano pronti a compiere attentati e assassini mirati per creare il caos. Il governo distribuisce fucili e munizioni, ovunque vengono costruite trincee e barricate, sui balconi s’impilano le bottiglie molotov.Un soldato ucraino della 14a Brigata meccanizzata Roman il Grande attende la prossima missione di fuoco, è il luglio 2022 nel distretto di Donetsk, Ucraina (Foto Scott Olson/Getty Images)
Resistenza e reazione
Kiev si difende, orrore a Bucha
Ma a questo punto avviene l’inaspettato: mentre tutti i maggiori esperti e commentatori internazionali danno per scontata la vittoria russa entro breve, gli ucraini resistono e contrattaccano. «Non voglio un taxi per scappare, resto qui, combatto e muoio se necessario, piuttosto dateci armi», replica Zelensky a Joe Biden, il quale vorrebbe mandare un commando in elicottero per portarlo in salvo all’estero. Poi la propaganda Usa e di Kiev inizia a parlare di «difficoltà» russe. Ovviamente noi giornalisti non vi crediamo: com’è possibile che i russi non ce la facciano?
Eppure, sono i racconti delle decine di migliaia di sfollati da Hostomel, Bucha, Irpin e dagli altri centri urbani invasi in fuga verso Kiev che nella loro spontanea immediatezza aiutano a far comprendere. Che fanno i soldati russi quando entrano nelle vostre case? Chiediamo. «Si fiondano in cucina, aprono il frigorifero, svaligiano le dispense e mangiano o rubano. Sono affamati, le loro razioni K sono scadute. Poi prendono vestiti e coperte, indossano ancora le uniformi estive, non resistono ai meno quindici delle notti invernali. Li abbiamo visti fermare le auto diesel nelle strade per pompare il carburante dai serbatoi, i loro tank sono a secco», rispondono. Si delinea così il quadro di un esercito che non era affatto pronto ad affrontare ciò che incontra. Dopo la prima sorpresa, la resistenza ucraina entra in azione. Tra i russi è il panico. Avevano spiegato loro che sarebbero stati accolti «con pane e sale», come recita l’antica formula di benvenuto contadina locale, ma adesso dalle case gli sparano contro, cresce la resistenza partigiana. A metà marzo reagiscono: a Bucha si consuma l’orrore con torture, fucilazioni, spari contro chiunque giunga a tiro. Più tardi, troveremo centinaia di auto crivellate dai proiettili cariche di bagagli, vestiti, giocattoli e con i sedili imbrattati di sangue.
Mire su Odessa, Mariupol capitola
A inizio aprile i russi abbandonano la regione di Kiev. La prima fase della guerra — quella decisiva dove Putin voleva tutto per poi andare a minacciare la Moldavia annettendosi la Transnistria filorussa e rilanciare il peso di Mosca sulle regioni europee perse dopo il crollo del Muro di Berlino — può considerarsi terminata. Gli ucraini hanno combattuto praticamente da soli, garantiti dal lavoro capillare e massiccio dei loro volontari, forti dell’esperienza maturata sin dai tempi dell’invasione russa nel 2014 della Crimea e della nascita delle cosiddette repubbliche autonome di Lugansk e Donetsk nel Donbass. Anche allora i soldati di Mosca combattevano in prima linea e furono elementi determinanti per garantire il successo delle milizie locali filorusse: dalla battaglia per il capoluogo del Donetsk a quella per Debaltsevo, nove anni fa senza gli effettivi russi il neonato esercito ucraino avrebbe senza dubbio prevalso.
Intanto, però, i comandi del Cremlino hanno attaccato su più fronti. Nel nord-est minacciano Kharkiv, prendono Izium, occupano tutto il sud sino a Kherson, a ovest del fiume Dnipro, sfiorano il capoluogo di Zaporizhzhia dopo essersi impadroniti della stazione nucleare. Putin vuole a tutti i costi Odessa per impedire l’accesso ucraino al Mar Nero e strangolare l’export del grano, oltreché mettere in ginocchio l’economia nemica. La capitolazione di Mariupol il 20 maggio, con la resa dei suoi 2.500 difensori incluso il meglio del battaglione volontario Azov, segna uno dei punti più difficili per l’Ucraina. Kiev si difende imputando ai soldati russi crimini orrendi: violenze sessuali a ripetizione, bambini torturati in massa, deportazioni forzate. Ma non serve esagerare, se non a indebolire le accuse ucraine, gli orrori russi sono già abbastanza gravi. A fine mese Zelensky decide di licenziare Lyudmila Denisova, la responsabile della commissione parlamentare incaricata di documentare le violazioni dei diritti umani, che mente ed enfatizza i dati, trasformando le atrocità nemiche in vana propaganda.
Il contrattacco
Le armi Nato fanno la differenza
La situazione cambia ancora tra giugno e luglio, quando l’arrivo delle armi occidentali (assieme alle truppe ucraine addestrate al loro utilizzo), specie i lanciarazzi americani Himars, i droni e le artiglierie in dotazione tra i Paesi Nato, aiuta a fare fronte contro le migliaia di cannoni e Katiusce che a questo punto Mosca sta impiegando ovunque in modo massiccio. Anche lo spazio aereo resta conteso: Mosca spara i missili, ma la sua aviazione evita di volare nei cieli avversari. Poche decine di armi Nato mutano le sorti dello scontro, la superiorità tecnologica occidentale è palese.
Le difficoltà di Mosca si evidenziano dalla frequenza con cui Putin sostituisce i generali al comando delle operazioni: tre capi di Stato maggiore si avvicendano in meno di un anno, l’intera catena di comando ne risente e ciò favorisce la crescita d’importanza della Wagner, la compagnia di contractor privati che oggi è forte particolarmente nella zona di Bakhmut. Il suo proprietario, l’oligarca Yevgeny Prigozhin, può aspirare ad un ruolo di maggior influenza militare e politica al Cremlino. La censura sulla stampa russa zittisce gli oppositori alla guerra, però fatica a far tacere le voci dei «falchi», che non nascondono il crescente malcontento nell’esercito specie contro i metodi brutali utilizzati dalla Wagner per reclutare i corpi d’assalto tra i criminali comuni nelle prigioni. Tra luglio e agosto guadagnano punti occupando Severodonetsk e Lysychansk.
L’Ucraina si riprende Kherson
Per gli ucraini i risultati arrivano invece tra settembre e novembre. L’abile capo di Stato maggiore, Valerii Zaluzhniyi, aveva fatto credere di volere cercare di riprendere il mammellone di Kherson nel sud, ma ai primi di settembre lancia le sue truppe nell’est, verso Izium e il Donbass settentrionale. I russi sono colti di sorpresa e abbandonano il territorio lasciando sul campo immense scorte di armi e munizioni. Quindi è davvero la volta di Kherson, che viene liberata l’11 novembre sino al Dnipro. Se inizialmente i russi erano riusciti a impadronirsi di circa il 30 per cento del territorio ucraino, a fine anno sono scesi sotto il 20. Ma la guerra continua. La Russia sta preparando una nuova offensiva in vista della primavera.
Ci sarà l’escalation del conflitto? Andrea Marinelli e Guido Olimpio su il Corriere della Sera il 24 febbraio 2023
Dodici mesi dopo siamo daccapo alla casella uno. Mosca minaccia di usare il suo arsenale non convenzionale per sbloccare lo stallo, Kiev conta sui nuovi carri armati e aerei dell’Occidente. Ma nel coordinare l’assistenza è cruciale il fattore tempo
L’Ucraina non è crollata «in due settimane», come in molti avevano predetto attribuendo agli invasori capacità che non avevano. Un anno dopo sta ancora combattendo: ha tenuto ed è riuscita a riprendersi città e territori. Con coraggio, determinazione e capacità, uniti al formidabile aiuto occidentale. Sono componenti inscindibili: puoi avere tutte le armi del mondo, ma devi saperle usare. La resistenza lo ha fatto, lasciando però sul terreno molti soldati e tanti civili ghermiti nelle loro case da raid brutali, indiscriminati quanto deliberati.
I russi si sono illusi, convinti di andare a caccia di una preda facile e dimessa, accecati dalla loro presunzione, rallentati da difetti storici negli apparati. Hanno pagato un prezzo spaventoso: in termini di perdite hanno avuto il loro Vietnam — in vent’anni gli americani ebbero 58 mila morti e oltre 300 mila feriti — nell’arco di appena dodici mesi. Non esistono numeri esatti, ma sarebbero 100 mila tra morti e feriti, persino il doppio secondo stime inverificabili. Il comune denominatore è il massacro, reso ancora più grave da tattiche dispendiose, quasi suicide, da primo conflitto mondiale. Il sacrificio di mercenari e regolari non ha indotto Vladimir Putin a fermare la macchina. Non può farlo e non vuole farlo, anzi è pronto a rilanciare per arrivare alla conquista completa delle quattro province annesse tramite «referendum»: Donetsk, Kherson, Luhansk e Zaporizhzhia.
Un anno dopo siamo di nuovo alla casella uno. Gli occupanti riusciranno a raggiungere le mete indicate dal Cremlino? Kiev potrà incassare un’altra spallata e cercare di ripartire alla riconquista? Zelensky non ha mai smesso di rammentare che la Crimea deve tornare sotto la bandiera nazionale, a patto di disporre dei mezzi necessari. Ma, insieme allo scenario convenzionale fatto di corazzati, cannoni, blindati, bombardamenti persino trincee, c’è quello nucleare. Mosca — è la tesi — potrebbe affidarsi al suo arsenale non convenzionale per spezzare uno stallo e costringere l’avversario a piegarsi alle sue condizioni. Magari facendo detonare un’atomica tattica in mare, in una zona deserta oppure contro un target specifico. Scenari considerati da esperti con valutazioni diverse. In guerra non si può mai escludere nulla: il segretario dell’Onu Antonio Guterres ha di recente espresso tutto il suo allarme.
Al tempo stesso è chiaro che la propaganda russa allude a questa ipotesi per tre ragioni: dimostrare di essere pronta a tutto; rinforzare l’idea all’interno di una sfida all’Armageddon, dove la posta non è Odessa o Mariupol ma l’essenza stessa della nazione; spaventare ancora di più quella parte di opinione pubblica europea che ritiene sia pericoloso o inutile appoggiare la lotta degli ucraini. Questa visione pessimista è respinta da chi ritiene sia troppo rischioso anche per il neo-zar affidarsi alla Bomba, piccola o grande. Intraprenderebbe un sentiero sconosciuto, pieno di incognite, con possibili risposte.
Emorragia arrestata
L’analisi di un domani che speriamo non accada è connessa agli sviluppi più vicini sul terreno. In autunno-inverno gli occupanti sono riusciti a stabilizzare i fronti, arrestando l’emorragia dopo le sconfitte a Kharkiv e Kherson. Il generale Surovikin, poi scivolato nel ruolo di vice, ha costruito linee di difesa, ha arretrato truppe e ha realizzato un dispositivo di contenimento grazie anche alla mobilitazione. Lo Stato Maggiore ha a disposizione un contingente di 220-250 mila militari in Ucraina, più altri 150 mila nelle basi in Russia. Sono tanti e sufficienti per la difesa, ha notato l’esperto Michael Kofman: almeno fino alla prima settimana di febbraio, infatti, l’esercito di Zelensky ha perso l’iniziativa e non aveva più la supremazia numerica. Sono però pochi per spinte massicce e coordinate, non è detto che una nuova chiamata di reclute possa bastare.
Restano poi gli interrogativi sulla qualità. Sono infinite le storie sul materiale scadente, i mezzi non adeguati tirati fuori da caserme lontane, il trattamento brutale dei plotoni, gli ex detenuti della Wagner trasformati in carne da macello e morti a migliaia.
I racconti rispecchiano una parte della realtà, risentono della propaganda e possono portare a sottovalutare gli aggiustamenti adottati dai generali. Nessuno nega l’esistenza di problemi nella logistica russa ma forse non sono sempre così disastrosi e sono stati corretti aggiornando tattiche, spostando più lontano depositi di munizioni e snodi in modo che non siano esposti agli Himars. La produzione bellica tiene il passo, trova rimedi e mette a disposizione degli occupanti altri mezzi. Le munizioni sono consumate a ritmi incredibili ma ne arrivano di nuove, anche dagli alleati. Evidente è il supporto dell’Iran con i droni Shahed, meno chiaro quello della Corea del Nord, segreto quello della Cina.
Non solo i morti
La prova di quale sia l’analisi giusta l’avremo solo attraverso i fatti. Vale per gli aggressori come per i «difensori», impegnati in una lotta dispendiosa. Si calcolano le vittime, ma non va dimenticato l’impatto su quanti sono chiusi in camminamenti e bunker mentre attorno cadono centinaia di proiettili, potenti o meno, in grado di limitare i movimenti basilari, come rifornirsi d’acqua. Ci sono i tiri dei pezzi da 155 millimetri, le salve dei razzi termobarici e le raffiche dei Terminator russi, gli strike precisi degli Himars americani, i colpi dei mortai, i «mille tagli» inflitti da piccoli droni civili riconvertiti all’uso bellico che sganciano ordigni ridotti ma letali, versione rustica rispetto ai droni-kamikaze che uccidono, con le telecamere a filmare fino al momento dell’impatto. La morte in diretta..
Gli arsenali sono in espansione. I paesi Nato hanno promesso a Zelensky alcune centinaia di carri armati Abrams statunitensi, Amx francesi, Challenger 2 britannici, Leopard 1 e 2 tedeschi forniti insieme a partner europei, i blindati Marder, Bradley e Stryker. Sono solo alcuni dei mezzi che gonfiano la Babele degli equipaggiamenti, con le conseguenti difficoltà di gestione e training: ci vorranno mesi per vederli tutti sul campo, ma sono importanti perché gli ucraini sanno di poter rimpiazzare le perdite con nuovi mezzi. Magari arriveranno i razzi con un raggio d’azione da 300 chilometri, per ora sono state garantite le bombe che raggiungono un target a 150 chilometri.
È il braccio che deve incalzare gli occupanti in profondità. Le fabbriche vanno a pieno ritmo, doppio e triplo turno per alimentare la filiera e creare scorte, una mobilitazione senza precedenti. Gli alleati stanno addestrando migliaia di ucraini, dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna, con la partecipazione di canadesi, australiani, baltici. Da Mosca replicano mettendo «taglie» sui corazzati, annunciando l’invio di robot anti-tank, ipotizzando il battesimo di fuoco per il carro Armata T14, tanto decantato ma rallentato da guai tecnici. In estate potrebbe esserci un nuovo grande duello di tank: per essere efficaci vanno usati in modo integrato con altre componenti delle forze armate, ed è ciò che gli ucraini stanno imparando con i corsi all’Ovest.
Assumere impegni ora
Adesso, accompagnato da tante cautele, c’è un nuovo passo, con la probabile fornitura di caccia a Kiev: si ipotizzano F16 europei/americani, Mirage 2000C francesi, Typhoon britannici. Se gli alleati hanno rallentato su questo dossier è perché c’è sempre il timore dell’escalation, con reazioni ancora più devastanti del Cremlino. Ma dall’altra parte — ribadiscono gli strateghi — serve assumere degli impegni ora perché Putin gioca sul fattore tempo, su una possibile stanchezza occidentale, sul logoramento progressivo del nemico al fronte e nelle aree urbane con le infrastrutture devastate. L’Occidente, sorprendendo anche il neo-zar, ha risposto con grande generosità, tuttavia ha faticato a coordinare l’assistenza all’Ucraina per evitare doppioni, ridurre la dispersione di risorse (manutenzione, pezzi di ricambio, riparazioni, modelli), creare una filiera che non solo eviti la sconfitta degli aggrediti, ma che dia loro anche i mezzi per prevalere.
In prima linea. Lorenzo Cremonesi su il Corriere della Sera il 24 febbraio 2023
Ore 5,30 del 24 febbraio
L’«operazione speciale» è subito un fallimento. Poi stragi e propaganda. E l’Ucraina ribalta le sorti
Per mesi, prima dell’invasione, la Russia ha ammassato truppe e mezzi lungo i confini dell’Ucraina, smentendo tuttavia di voler attaccare il Paese. Nonostante gli avvertimenti americani, Putin ha sempre sostenuto che si trattasse di esercitazioni
24-2-2022All’alba del 24 febbraio le truppe russe hanno attaccato l’Ucraina via terra, mare e cielo
I soldati inviati dal Cremlino hanno varcato i confini nelle aree di Chernihiv, a nord, vicino alla frontiera con la Bielorussia, di Kharkiv, a est, e di Lugansk, nel Donbass. Le truppe di Mosca sono anche sbarcate da sud via mare a Odessa e Mariupol. Esplosioni sono state registrate nella capitale Kiev e in numerose altre città, da Kharkiv a Mariupol
Al terzo giorno di guerra, nonostante si pensasse a un’operazione lampo, le truppe russe non sono ancora riuscite a prendere il controllo delle principali città ucraine: a Kiev e in molte altre città piovono missili, si combatte a Kharkiv e Mariupol, ma l’avanzata dei soldati di Putin è stata rallentata dagli ucraini e, soprattutto, da problemi logistici
Si tenta una trattativa tra le parti, prima in Bielorussia e poi in Turchia, ma non si raggiunge nessun accordo. Il 9 marzo una bomba russa colpisce l’ospedale pediatrico di Mariupol
24-4-2022All’inizio del mese, mentre gli Usa danno l’ok ai primi invii di armi, vengono scoperti i massacri di civili a Bucha e in altre città vicine. Il 14 aprile l’incrociatore Moskva viene affondato nel mar Nero
24-6-2022Il fronte più caldo da settimane è quello del Donbass: per giorni si combatte sulle sponde del Siverskyi Donets, nel Lugansk. Severo-donetsk e Lysychansk cadono in mano russa
24-9-2022Inizia la controffensiva ucraina a Est e a Sud: viene riconquistata Kharkiv e buona parte del Lugansk. Si svolgono referendum in quattro regioni occupate, dopo la mobilitazione decisa da Putin. Il 27 settembre esplodono i tubi del gasdotto Nord Stream, nel mar Baltico
24-12-2022Il 21 dicembre, dopo 300 giorni di guerra, il presidente ucraino Zelensky esce per la prima volta dal Paese e compie un viaggio lampo a Washington per chiedere più sostegno, ovvero più armi
Le mafie hanno approfittato della guerra? Marta Serafini su il Corriere della Sera il 24 febbraio 2023
Droga, esseri umani, affari: viaggio nelle nuove rotte della criminalità dopo il 24 febbraio 2022
«Metti le mani bene in vista sul cofano». E’ il 24 agosto 2022, mancano due giorni alla festa dell’indipendenza ucraina, quando sulla Khreshchatyk, la strada principale di Kiev, viene arrestato “Yurk”, famoso narcotrafficante ucraino. E’ a bordo della sua Porsche blu. Appresso, nascosti in un doppio fondo dell’auto, ha 20 chili di cocaina. «Abbiamo dato un altro giro di vite. Almeno che la guerra serva a qualcosa, lo cercavamo da tempo». Sorride il sergente Roda della pattuglia di polizia che ha effettuato l’arresto mentre stringe le manette intorno ai polsi del sospettato. Prima del 24 febbraio, l’Ucraina era uno dei più grandi centri di passaggio dell’eroina afgana delle droghe sintetiche e della marijuana. E non solo. Soprattutto da Kiev e Odessa passava anche il contrabbando di armi verso l’Europa. «Ma ora tutto sta cambiando», spiega Roda prima di far salire in auto il sospettato.
Seduto in un bar del centro, Oleksiy Bobrovnikov, giornalista investigativo ucraino ordina un altro espresso. Prima di incontrarci abbiamo parlato su una chat protetta. Dopo che ha realizzato un’inchiesta sul traffico di droga tra Russia e l’Est dell’Ucraina ha dovuto lasciare il Paese per 5 anni e una sua fonte è stata uccisa. «Con l’invasione russa è come se un terremoto avesse colpito la criminalità organizzata: rotte, attività, rapporti con la Russia, in poche settimane c’è stata una rivoluzione», sostiene. Prende fiato. «Come si dice in Ucraina, tutte le strade portano a Kiev, non a Roma. Se stai seguendo la pista del denaro e le rotte del contrabbando dall’ovest e dal sud dell’Ucraina, è nella capitale che finirai» Come spesso succede, è nella capitale che confluiscono i soldi dei traffici illeciti. È qui che si trovano i politici, la polizia, i servizi segreti e i centri militari. Ognuno di questi centri controlla la propria quota di torta di contrabbando. «Ad esempio, le esportazioni sono solitamente controllate dalla comunità dell’intelligence, ovvero la Sbu (l’intelligence interna, ndr) e il Gur (l’intelligence militare, ndr). Questi includono droghe, legname e armi», spiega ancora. Ora grazie al coprifuoco, introdotto dopo il 24 febbraio, quasi ogni notte gli spacciatori vengono arrestati con ingenti quantità di droga, in particolare droghe sintetiche. Il loro valore varia da mille fino a due milioni di euro. «Ma questo non significa che non ci siano nuovi giocatori, semplicemente è in atto un ricambio».Con l’invasione russa è come se un terremoto avesse colpito la criminalità organizzata: rotte, attività, rapporti con la Russia, in poche settimane c’è stata una rivoluzione
Secondo le agenzie governative europee e mondiali, come EMMCDA e UNODC, è troppo presto per stabilire l’impatto che la guerra sta avendo sul traffico di droga. Ma i segnali in realtà ci sono. «Da quando è iniziata la guerra a Kiev non si trovano più facilmente marijuana o droghe leggere», spiega Boris, seduto in un bar della capitale. Boris è uno studente e vive con i suoi amici alla periferia della città e sa bene come i prezzi degli stupefacenti possano variare. Per capire meglio cosa sta succedendo bisogna andare nella capitale per eccellenza della malavita ucraina, Odessa. Porto più grande dell’Ucraina e del Mar Nero, inevitabile che la città sia stata Regina anche del contrabbando di droga, merci, armi, persone. E’ infatti via acqua che fino al 2021 – secondo quanto conferma UNODC – transitava parte dell’eroina in arrivo dall’Afghanistan e diretta a Ovest.
«Odessa era uno spin off della rotta balcanica», si legge nell’ultimo report dell’agenzia. A causa però del blocco del Mar Nero provocato dalla Russia all’inizio della guerra, il suo ruolo come principale hub del traffico di droga e di armi in Europa è notevolmente diminuito. «Le rotte sono state modificate e potrebbero essere passate alla Moldova e alla Romania», conferma un agente dell’antidroga della città che chiede di restare anonimo. «Tuttavia, con le rotte commerciali del grano ora riaperte, Odessa cercherà sicuramente di tornare al suo status di Regina dei traffici». Troppa posta in gioco in termini di denaro per l’Ucraina. Ma anche per la Turchia da sempre snodo centrale del commercio di eroina afghana. «Se Ankara è infatti una dei più accesi e convinti sostenitori del ripristino del commercio attraverso i porti ucraini del Mar Nero, il grano probabilmente non è l’unico bene che è interessato a trasportare, vendere e acquistare», spiega ancora l’agente.«Odessa era uno spin off della rotta balcanica»
Ad aver guadagnato terreno nel campo dei traffici in seguito all’invasione russa è sicuramente Leopoli. Capitale dell’Ovest, da qui transita la maggior parte degli aiuti umanitari e militari. Sono già numerosi i casi di furto e rivendita di giubbotti antiproiettile e beni a duplice uso - come i droni. Da Leopoli, queste merci viaggiano nell’est e nel sud del Paese, di solito attraverso Kiev. Tra le persone coinvolte, il “re del contrabbando” Ilya Pavlyuk - un uomo d’affari considerato il leader di un gruppo separato di 15-20 deputati del partito presidenziale “Servant of the People” nella Verkhovna Rada, la camera alta del Parlamento ucraina. Un gruppo che vota spesso nell’interesse del più grande oligarca ucraino Rinat Akhmetov, proprietario tra gli altri della principale compagnia elettrica del Paese e presidente dello Shaktar Donetsk, una delle più importanti squadre di calcio ucraine.
Ma l’affare più grande di Leopoli, al momento, è il traffico di esseri umani, compresi uomini in fuga nel tentativo di evitare il servizio militare. Si stima che per uscire sia dal confine con la Polonia che con la Moldavia in media i trafficanti richiedano tra i 5.000 e gli 8 mila euro. Cifre che però sono aumentate da quando la polizia ucraina ha arrestato in giugno un gruppo di uomini che gestiva questa rete di smuggling. Le organizzazioni internazionali, comprese le Nazioni Unite, avvertono anche di una nuova minaccia per le donne e i bambini che lasciano l’Ucraina a rischio di diventare vittime della tratta sessuale in Europa in Medio Oriente. «Ma ancora non ci sono informazioni specifiche sulla partecipazione della criminalità organizzata in Ucraina a questo ulteriore traffico», si legge ancora nei report. Un altro capitolo che presto purtroppo verrà scritto.
Armi: il vero ruolo dell’Italia. Francesco Verderami su il Corriere della Sera il 24 febbraio 2023
A ogni decreto del governo, parte un carico: un pezzo resta top secret. «Facciamo più di quanto appare», dicono i ministri Guerini e Crosetto
È stato calcolato che le forniture militari valgono oltre un miliardo.
E c’è una parte molto preziosa per gli ucraini: il sostegno al sistema satellitare che dà informazioni sui movimenti delle truppe russe
A ogni decreto, per sei volte, un generale segue il carico che parte da Pisa.
Può essere chiamato il Postino. È il capo della logistica.
Ha esperienza in Kosovo, Bosnia, Afghanistan.
Il suo nome è Francesco Paolo Figliuolo: era il commissario del Covid
Da un anno il Postino svolge il suo lavoro senza mai andare nei luoghi di consegna, anche se quei luoghi li conosce alla perfezione. Segue il tragitto del materiale dall’aeroporto militare di Pisa fino alla base Nato in Polonia. Da lì alla frontiera con l’Ucraina. E ancora oltre il confine, nelle zone di guerra convenute per gli scambi. Finché la missione non è completata.
Dal Comando operativo del Vertice Interforze, il Postino ha suonato finora sei volte agli uomini di Volodymyr Zelensky per dotarli delle armi necessarie a contrastare l’invasore russo. Non prima di aver completato il rito che compie da vent’anni: l’esame delle dotazioni, le prove per verificare il loro funzionamento, il carico nelle stive dei B737 Cargo. Ha già operato così in Bosnia, in Kosovo, in Afghanistan. Non è un mestiere facile: a volte ci sono momenti critici che restano «top secret». È il lavoro del generale Francesco Paolo Figliuolo, responsabile per la Logistica, alle dirette dipendenze del Capo di Stato maggiore della Difesa.
Dal giorno in cui Vladimir Putin invase l’Ucraina e Mario Draghi disse in Parlamento che «l’Italia non può voltarsi dall’altra parte», i viaggi verso Kiev si sono susseguiti senza sosta, assecondando per quanto possibile le richieste di chi combatte per la libertà. E non solo per la propria Patria. Così il Postino — su mandato del premier — si è incaricato di consegnare agli ucraini il materiale più disparato: dalle stufe da campo che non rilasciano fumo, all’equipaggiamento per attacchi chimici batteriologici e nucleari; dai giubbotti anti-proiettile ai generatori di energia; dalle tende da campo ai pasti in scatola. Viene garantita anche l’assistenza sanitaria, con una centrale da remoto del soccorso sanitario che s’impegna al trasporto dei feriti per tutte le discipline di emergenza medica: al momento sono quasi 200 i posti letto occupati negli ospedali italiani da «bisognosi di cure».
E poi c’è il resto della posta, che è coperto dal «segreto di Stato»: munizioni di vario calibro, mitragliatrici pesanti, mezzi da trasporto e da combattimento, fino ai sistemi d’arma più sofisticati- È stato calcolato che in dodici mesi le forniture militari offerte a Kiev hanno superato il valore del miliardo di euro. È vero che l’impegno di Washington e Londra è stato di gran lunga maggiore, ma c’è un motivo se Zelensky è grato per lo sforzo di Roma. «Perché facciamo più di quanto appare», hanno spiegato in più occasioni Lorenzo Guerini e Guido Crosetto, che si sono succeduti al ministero della Difesa.
L’occhio dall’alto
Dall’inizio del conflitto l’Italia offre alle Forze armate ucraine un contributo tanto importante quanto discreto sul campo da combattimento. Un sistema satellitare che agisce da una base nel Lazio combina informazioni aeree e di intelligence, fornendo elementi sulla dislocazione delle truppe russe e sui movimenti dei loro mezzi. E dopo un esame dei dati, trasmette le coordinate utili a Kiev per neutralizzarli. Ogni giorno, ad ogni ora, lo Stato maggiore di Zelensky elabora o modifica i piani militari grazie allo sguardo vigile che anche l’Italia mette a sua disposizione.
«Facciamo e faremo ciò che è giusto per il popolo ucraino», ha sottolineato Giorgia Meloni dal giorno in cui è entrata a palazzo Chigi. La linea di continuità tra l’esecutivo delle larghe intese e il governo di centro-destra è insomma assicurata. E lo sforzo che l’Italia sta compiendo è valso il rispetto degli alleati occidentali. Sul suolo nazionale giungono i reparti scelti di Kiev per i corsi di addestramento, così come accade negli altri Paesi della Nato. Ognuno mette a disposizione un «catalogo», come programmi di specializzazione. Gli ucraini scorrono la lista e scelgono i corsi in base ai sistemi d’arma che dovranno poi adoperare: sono strumenti sofisticati e non basta apprenderne il funzionamento, è necessario acquisire dimestichezza e rapidità nell’uso. Gli istruttori italiani fanno la loro parte e l’insegnamento è molto apprezzato. Ecco cosa vuol dire che Roma «fa più di quanto appare».
Il Postino intanto smista il materiale. Ad ogni decreto del governo spedisce munizioni di vario calibro, mitragliatrici leggere Mg, mortai da 120 millimetri, mezzi da trasporto e da combattimento, missili terra-aria. L’Esercito sta dando fondo al suo arsenale: ha donato vecchi blindati Lince ma anche moderni obici semoventi Mlrs e Pzh2000, esemplari di FH-70 da 155 millimetri, batterie di Aspide e di Astrid, lanciarazzi Milan, Stinger portatili per la contraerea, elicotteri da trasporto. Da ultimo, in sinergia con la Francia, ha disposto l’invio del sistema di difesa Samp-T dotato di una ventina di missili. L’Ucraina ne ha bisogno per difendersi dagli attacchi di Putin, soprattutto per proteggere le città e i target civili — dagli ospedali alle centrali elettriche — che non vengono risparmiati dal regime sanguinario di Mosca.
Un sistema satellitare che agisce da una base nel Lazio combina informazioni aeree e di intelligence
Dopo un esame dei dati, trasmette le coordinate utili a Kiev per neutralizzare le truppe russe
Ogni giorno, ad ogni ora, lo Stato maggiore di Zelensky elabora o modifica i piani militari grazie ai dati che l’Italia mette a sua disposizione
Strategia di logoramento
La nuova offensiva a Est dimostra — secondo autorevoli fonti della Difesa — che «il fattore tempo non spaventa i russi», anzi che «questa è la vera sfida portata all’Occidente: loro vogliono capire quanto siamo disposti a resistere a fianco dell’Ucraina in un conflitto di attrito». È una guerra di logoramento, che mette alla prova i Paesi europei alleati di Kiev e stravolge le loro teorie militari. Nessuno prevedeva di ripiombare nel Novecento e tutti avevano aggiornato i loro modelli per rispondere a crisi brevi e circoscritte, con piccoli reparti scelti e altamente tecnologicizzati. Lo scenario odierno, il ritorno alle battaglie di trincea, impone di rivedere i piani a fronte di risorse limitate.Un esemplare del sistema missilistico di difesa Samp-T
Le scorte sono ridotte e il governo italiano — al pari degli altri nel Vecchio Continente — cerca una soluzione rapida, per evitare il rischio di non avere più armi da consegnare agli ucraini, siccome una «riserva» va sempre mantenuta per difendere il suolo nazionale. L’Aeronautica e la Marina militare dispongono di velivoli e navi all’avanguardia, al contrario delle dotazioni dell’Esercito, praticamente privo di carri armati. È una questione che è stata affrontata ai più alti livelli dello Stato maggiore, ce n’è traccia nelle riunioni del Consiglio supremo di Difesa. E anche in quelle dell’Unione Europea.
Appena iniziata l’invasione dell’Ucraina, Bruxelles aveva preso ad utilizzare il fondo Epf, lo strumento finanziario con cui vengono compensati i Paesi che forniscono armi a Kiev: dopo un anno il fondo, dotato di sette miliardi fuori bilancio, è quasi a secco e andrà rifinanziato. L’all-in di Putin nasce dalla convinzione che prima o poi l’Occidente desisterà. L’invio dei tank a Zelensky da parte degli americani e dei tedeschi fa capire che non sarà così«E l’Italia continuerà a fianco degli alleati», assicura Crosetto. Raccontano che al dicastero della Difesa giungano con cadenza regolare richieste di assistenza da parte degli ucraini, «a volte per aumentare le dotazioni e a volte per cambiare la scelta gli armamenti». Ogni volta il ministro dispone e il Postino si attiva.
Va così da quel tragico 24 febbraio del 2022, e andrà così a lungo visto che «al momento non c’è nessun indicatore di pace». Lo si capisce anche dalle attività di aereo-policy delle pattuglie italiane, impegnate nelle zone di confine Nato in prossimità con l’Ucraina. In questo periodo si sono accentuati gli «scramble», cioè le intercettazioni a difesa dello spazio aereo di velivoli russi, che mirano così a saggiare i tempi di reazione delle squadriglie dell’Alleanza Atlantica: fianco a fianco, con le ali a pochi metri di distanza l’una dall’altra, sono divisi da una linea immaginaria che segna il limite tra una postura aggressiva e un ingaggio vero e proprio. Con tutto quello che potrebbe provocare uno sconfinamento. Sono storie quotidiane descritte nei report riservati a disposizione solo dei comandi militari. Sono la prova di un conflitto senza immagini ma non per questo meno drammatico dei bombardamenti trasmessi in diretta tv. È la faccia nascosta della guerra in cui l’Italia è coinvolta anche se non formalmente. Ma gli aiuti all’Ucraina decisi con il sostegno del Parlamento testimoniano quale sia la realtà delle cose e quanto sia alta la posta. In gioco ci sono la democrazia e la libertà: valori inalienabili. È in nome di questi valori che il governo ha appena firmato il sesto decreto. Nemmeno il tempo di avvisare il Postino, che è squillato di nuovo il telefono del ministro della Difesa. Da Kiev hanno chiesto di approntare un altro decreto...Il ministro della Difesa Guido Crosetto a un vertice Nato a Bruxelles il 14 febbraio (Afp)
(ANSA il 24 marzo 2023) - L'Onu ha accusato le forze ucraine e quelle russe di aver eseguito decine di esecuzioni sommarie di prigionieri di guerra durante l'invasione russa dell'Ucraina.
"Siamo profondamente preoccupati per l'esecuzione sommaria di 25 prigionieri di guerra russi e di persone fuori combattimento" e per quella di "15 prigionieri di guerra ucraini", ha affermato Matilda Bogner, capo della missione di monitoraggio dei diritti umani.
Secondo Bogner, l'Onu ha documentato queste esecuzioni di russi da parte delle forze armate ucraine, "spesso" effettuate "immediatamente dopo la cattura sul campo di battaglia".
Il presidente russo Putin può essere processato per il conflitto in Ucraina? Marilisa Palumbo su il Corriere della Sera il 21 febbraio 2023
Cresce il consenso internazionale per un tribunale speciale che giudichi il crimine di aggressione da parte del presidente russo. Philippe Sands, il giurista che un anno fa lanciò l’idea, spiega come potrebbe essere messa in piedi questa corte ad hoc
«A quasi un anno di distanza, la domanda non è più se ci sarà un tribunale speciale per il crimine di aggressione commesso da Putin. La questione è solo come sarà». Il 28 febbraio 2022 Philippe Sands, professore di diritto internazionale all’University College di Londra, scrisse un intervento sul Financial Times per promuovere l’idea che alle indagini sui crimini di guerra della Corte penale internazionale si affiancasse un organo ad hoc per giudicare l’atto di aggressione, definito dalla carta dell’Onu come «l’invasione o l’attacco da parte delle Forze armate di uno Stato sul territorio di un altro Stato, o qualsiasi occupazione militare»: il «crimine internazionale supremo», quello dal quale scaturiscono tutti gli altri. E anche quello più semplice da attribuire a chi le guerre le decide, in questo caso Putin, che invece sarebbe più difficile da processare per crimini di guerra: bisognerebbe in quel caso provare che il singolo soldato o l’unità che ha commesso le atrocità — pensiamo a Bucha — ne abbia ricevuto l’ordine direttamente dal Cremlino.
I grandi aderiscono
Ad aprile, quando il Corriere lo intervistò, Sands raccontò dei primi passi di una campagna che non immaginava sarebbe arrivata così lontano. I primi a contattarlo furono l’ex premier britannico Gordon Brown e il ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba. «Con Brown — racconta oggi Sands — formammo una mini coalizione, dai Baltici alla Polonia. Ma ci serviva che si esponesse un Paese più grande. Lo ha fatto la Francia. Poi la Germania, poi il Regno Unito, ora anche gli Usa».
La prudenza italiana
A inizio febbraio, durante una conferenza stampa congiunta con Zelensky, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha annunciato la creazione all’Aia di un centro internazionale per le indagini sul crimine di aggressione in Ucraina, che raccoglierà prove per un potenziale futuro processo. L’Olanda si è detta pronta a ospitare il nuovo tribunale. Quanto all’Italia, il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha detto di recente che Roma «non è contraria alla proposta di un tribunale ad hoc, ma comunque c’è già l’Aia. Vedremo quello che accadrà».
Le resistenze
La Corte penale internazionale (Cpi), subito coinvolta nell’indagine sui crimini di guerra in Ucraina, non può però perseguire l’atto di aggressione, a meno che non vi sia deferita dal Consiglio di sicurezza, bloccato dal veto russo. E l’emendamento di Kampala, che nel 2010 aggiunse il crimine di aggressione al Trattato di Roma istitutivo della Corte, è stato ratificato solo da 44 dei 123 Paesi dello Statuto. Nonostante questo Karim Khan, attuale procuratore della Corte, è stato duro sulla creazione di un tribunale ad hoc, sostenendo che delegittimerebbe la Cpi e le sottrarrebbe risorse.
Il doppio standard
Anche Emma Bonino, che fu tra le protagoniste della stesura del Trattato e della campagna forsennata per la ratifica – «Ci dicevano che era impossibile, che non ce l’avremmo mai fatta», ricorda – si innervosisce a sentire parlare di un tribunale ad hoc, e non solo per ragioni personali. «Modifichiamo piuttosto lo statuto della Corte penale internazionale», dice, e solleva un’obiezione condivisa da molti: «Allora lo sforzo fu quello di stabilire una corte che non avesse una venatura ultra politica perché decisa dal Consiglio di sicurezza, ora perché tornare indietro?». Il timore è insomma quello di un tribunale troppo «eurocentrico», con gli Stati Uniti che la appoggiano mentre non hanno mai ratificato la Corte penale internazionale.
Putin e la guerra esistenziale dalla quale dipende il destino dell’intera Russia: il significato del discorso dello zar
«Condivido questa preoccupazione – ammette Sands – ma serve anche realismo, la consapevolezza di non avere sostegno da parte del “Sud globale”, dall’Africa, dall’Asia, dal Sud America. E allora cosa si fa? Nulla? Sono sempre dell’idea che il meglio sia nemico del bene, ma non è che non veda l’elefante nella stanza». Quell’elefante si chiama Iraq, la cui invasione da parte della coalizione guidata dagli Usa, senza l’avallo delle Nazioni Unite, si avvicina al ventennale. «Quella in Iraq è stata una guerra palesemente illegale. E capisco che irriti i miei amici in Africa e Sudamerica il doppio standard di Gran Bretagna e Stati Uniti che fanno dichiarazioni sull’illegalità di altre guerre. Quindi Emma ha ragione, ma non c’è via di uscita, questa è la situazione che abbiamo davanti».
I valori di Norimberga
Ma quali sono le opzioni concrete sul tavolo per la costruzione di un tribunale ad hoc? «La prima è un tribunale internazionale a tutti gli effetti, creato con un trattato tra l’Ucraina e le Nazioni Unite o l’Ucraina e l’Unione Europea, da un lato, e dall’altro, quello che viene chiamato un tribunale ibrido o tribunale internazionalizzato, creato cioè attraverso l’internazionalizzazione del sistema giuridico ucraino. La seconda è l’opzione più semplice, ma la mia preferenza va a un vero tribunale internazionale». Un accordo con il consiglio di sicurezza dell’Onu è impossibile a causa del veto russo, allora, spiega Sands, «si può provare passando attraverso l’assemblea generale, ma anche lì non è detto che ci sia il sostegno necessario». L’accordo solo con l’Unione europea (secondo il modello del Kosovo), o con un gruppo di Stati individuali, faciliterebbe il percorso ma aumenterebbe i problemi di legittimità del tribunale. «Anche solo una iniziativa europea però — fa notare Sands — sarebbe un modo per segnalare il sostegno ai valori del 1945 e di Norimberga: non c’è più stato un tribunale per il crimine di aggressione da allora». Anche quella fu una corte dei vincitori, ma grazie alla qualità del suo lavoro contribuì alla costituzione di un meccanismo per la responsabilità penale internazionale.
La domanda è semmai come si può, senza un regime change a Mosca, processare Putin. «La common law del diritto britannico (e anche la Corte penale internazionale, ndr) non prevede processi in absentia, al contrario di molti ordinamenti in Europa, e io personalmente sarei sfavorevole», dice Sands, che però non ritiene questo un motivo per arrendersi: «Queste cose richiedono tempo. Quando il tribunale per la Jugoslavia fu creato nessuno pensava che avrebbero messo le mani su Milosevic, ma alla fine successe, e quando i leader dell’Europa occupata si riunirono a Londra nel gennaio 1942 nessuno pensava che i nazisti sarebbero davvero stati portati alla sbarra». Sands si riferisce alla dichiarazione di Saint James, alla quale lavorò anche Hersch Lauterpacht, giurista di Leopoli la cui storia (assieme a quella del conterraneo Raphael Lemkin) il professore racconta nel suo La strada verso Est (Guanda).
Il nodo dell’immunità
C’è poi un altro nodo, quello dell’immunità dei capi di Stato. «Quando si parla dei cosiddetti crimini internazionali, i crimini di guerra, contro l’umanità, genocidio, non c’è immunità per i capi di Stato, per l’aggressione non è chiaro. Ma c’è una norma di diritto internazionale consuetudinario secondo la quale questa immunità non esiste», spiega una fonte che ha lavorato dentro diverse corte internazionali.
L’incriminazione
Una cosa è certa: intanto la sola incriminazione costituirebbe un duro colpo per lo zar e il suo cerchio magico. Nel giro di meno di un anno, ha scritto Gordon Brown i pubblici ministeri di questo tribunale «potrebbero procedere a incriminazioni in contumacia. Ciò garantirebbe la fine della capacità dei funzionari russi di viaggiare all’estero senza temere l’arresto, riducendo probabilmente la cerchia di sicofanti di Putin. Potrebbe anche creare un incentivo per i consiglieri più stretti di Putin ad abbandonarlo».
Violenze, che cosa sappiamo degli stupri? Giusi Fasano su il Corriere della Sera il 13 febbraio 2023
Con il passare dei mesi, nei luoghi liberati dall’occupazione dell’armata russa si moltiplicano le testimonianze. E il commissario per i diritti umani del parlamento ucraino denuncia abusi su bambini rapiti per video pedofili
Dalla chat via whatsapp si capisce che è un bambino piccolo. «Viene da un orfanotrofio dell’Ucraina e non ha parenti», scrive uno degli interlocutori. «Hanno ordinato una serie di video con lui», aggiunge. L’età è sconosciuta ma ci sono indizi in alcuni messaggi: dovrebbe «cominciare la scuola fra poco», oppure: «Non è il primo, stiamo coinvolgendo dei piccoli per questo tipo di lavori».
«Questo tipo di lavori», cioè abusi sessuali secondo Dmytro Lubinets, difensore civico e commissario per i diritti umani del parlamento ucraino.
È stato lui a rendere pubblici nei giorni scorsi questi dettagli, estratti da una conversazione - via whatsapp, appunto - fra due russi. Non ha voluto rivelare come l’ha ottenuta ma si è rivolto alla polizia e alla procura perché prendessero «misure appropriate per trovare e punire i colpevoli». E ha scritto un post per dire di aver appreso «dai canali di Telegram che i russi rapiscono bambini ucraini per realizzare video di sesso con loro». Di più. Ha parlato di prezzi spiegando che per quei video c’è chi «arriva ad offrire 250 mila rubli», più di 3200 euro. Impossibile descrivere quel che ha provato, dice. E conclude: «La Federazione Russa rapisce, uccide, deporta e violenta insidiosamente i nostri bambini. Com’è possibile nel mondo di oggi?!».
Tutto questo (che si spera sia argomento d’inchiesta) è soltanto il più recente dei capitoli scritti sul tema della violenza sessuale nell’Ucraina in guerra. Ma di stupri - e più precisamente di stupri come arma di guerra - si è cominciato a parlare già un mese dopo l’inizio del conflitto. A fine marzo, con la ritirata russa dalla regione di Kiev e dopo il massacro di Bucha, le associazioni umanitarie hanno cominciato a raccogliere testimonianze su quel che i soldati russi si erano lasciati alle spalle. Testimonianze rare, perché è già difficile a prescindere da tutto, ma se sei in guerra e sei sopravvissuta a uno stupro è molto più probabile che il primo desiderio sia fuggire dalle bombe e da tutto il resto piuttosto che correre a denunciare quel che ti hanno fatto.
La narrazione di una violenza, a te stessa e agli altri, ha bisogno del suo tempo. E infatti con il passare dei mesi sempre più donne hanno deciso di uscire dal silenzio; hanno descritto non soldati ma bande di violentatori, assalti sessuali e violenze assortite, spesso di fronte ai mariti poi uccisi o ai bambini.
I dati ufficiali più recenti disponibili sul binomio guerra- violenza sessuale vengono dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani: a inizio dicembre del 2022 aveva documentato 86 casi di abusi sessuali di vario genere, in grandissima parte commesse da uomini dell’armata russa. Sempre a fine 2022 le forze dell’ordine ucraine avevano elementi sufficienti per indagare su altri 43 casi.
Numeri parziali, che riguardano soltanto le storie arrivate all’apertura formale di un fascicolo. Le segnalazioni sarebbero però molte di più e le vittime - secondo la Commissione d’inchiesta internazionale indipendente sull’Ucraina - hanno fra 4 agli 80 anni.
Dieci mesi dopo l’inizio del conflitto il procuratore generale di Kiev, Andriy Kostin, ha parlato di un «drastico aumento» degli stupri come arma di guerra e ne ha fatto cenno di recente anche la stessa first lady, Olena Zelenska: serve una «risposta globale» contro questi crimini, ha detto. Il mondo dovrebbe raccogliere il suo appello, in nome delle donne e dei bambini che portano addosso le ferite, visibili e non, di una violenza.
Putin può cadere? E la Russia può sgretolarsi? Paolo Valentino su il Corriere della Sera il 24 febbraio 2023
La possibilità di una storica sconfitta per il Cremlino, lascia aperti molti scenari, anche quello dello sgretolamento della nazione. Giocano a sfavore la mancanza di un’alternativa allo zar e le tensioni con le etnie che stanno dando «carne da cannone» al conflitto
Nel lanciare un anno fa la sua sciagurata «Operazione Speciale» contro l’Ucraina, Vladimir Putin ha sostanzialmente commesso tre cruciali errori di valutazione: si è illuso sulla forza militare della Russia, ha sottovalutato la determinazione e la capacità di resistenza del popolo ucraino, non ha previsto l’unità e la tenuta dell’Occidente nel sostenere Kiev e imporre sanzioni contundenti contro Mosca.
Dodici mesi dopo, nessuno degli obiettivi che lo Zar si era prefissato è stato raggiunto. Anzi, dopo i primi successi, pagati a caro prezzo in termini di vite umane e risorse militari, la Russia ha subito perdite devastanti, è stata costretta a ritirarsi da buona parte del territorio guadagnato nei primi mesi di guerra e si è vista costretta in una guerra di logoramento, il cui esito rimane aperto perfino a una sconfitta definitiva.
Il potere dello Zar appare ancora saldo. Putin ha rafforzato la verticale del potere, completato la trasformazione totalitaria e neostalinista del sistema russo, intensificato la repressione, chiuso il Paese al mondo esterno come ai tempi dell’Urss e avviato la riconversione verso un’economia di guerra autarchica, dove l’intera società è subordinata ai bisogni del complesso militare. Di più, la distribuzione del potere all’interno del Cremlino è tale da escludere alcuna alternativa valida a Putin. Priva di una linea di successione o di un delfino designato, concepita in modo da incoraggiare il conflitto tra le diverse cricche, è stato lui stesso a volerla così, nel segno di una logica imperiale in tutto e per tutto tranne che nel titolo formale.
Eppure, il destino di Putin non è scritto nel marmo. L’incerto finale della partita ucraina, con la possibilità di una storica sconfitta per il Cremlino, lascia infatti aperti molti scenari, alcuni dei quali considerati estremi ma non per questo impossibili o relegabili nel novero delle pure speculazioni. Non solo. Perché il futuro personale dello Zar si intreccia in modo indissolubile a quello della Russia in quanto Stato, che lui ha costruito a propria immagine. Domandarsi quindi se Putin possa cadere e se la Federazione Russa sia a rischio di collasso, non è soltanto un esercizio intellettuale o arbitrario.La Russia frammentata metterebbe a rischio la sicurezza globale per le armi nucleari sparse in tutto il territorio
A renderlo plausibile è in primo luogo la Storia, che non si ripete, ma spesso fa rima. E quella della Russia è costellata di sconfitte in guerra che hanno condotto a un’implosione del regime: successe nel 1598 al Regno di Moscovia dopo la sconfitta contro la Svezia nella Prima Guerra del Nord. Successe di nuovo nel 1917 quando il tracollo delle forze russe nella I Guerra Mondiale innescò la Rivoluzione bolscevica, la guerra civile e la fine del secolare impero zarista. E più di recente, successe nel 1991, con il collasso dell’Unione Sovietica seguito alla sconfitta nella Guerra Fredda. E se poi non vogliamo limitarci soltanto alla Russia, è utile ricordare che nel 1918, altri tre grandi imperi — Ottomano, Austro-Ungarico e Reich guglielmino tedesco — non sopravvissero alla sconfitta militare.
Ma nel caso della Russia, a renderne dubbia la sopravvivenza nel caso di una sconfitta in Ucraina ci sono altre due buone ragioni. La prima è la stessa che oggi rende saldo il potere di Putin, cioè la mancanza di alternative: se Putin uscisse di scena, in seguito a una congiura di palazzo o magari con un colpo a sorpresa sotto la sua regia alla vigilia delle elezioni del 2024 cercando di guidare la propria successione, è infatti più probabile che si scateni una feroce lotta di potere tra gli ultranazionalisti che vogliono continuare lo sforzo di guerra e distruggere l’attuale gerarchia e la fazione autoritaria, disposta a finire la guerra pur di salvare il regime e i propri privilegi. Come sempre nelle vicende russe, un fattore importante in questa equazione è l’incerta salute dello Zar, che ne mina il culto della personalità e l’immagine macho, ormai un lontano ricordo. Un Putin indebolito dalla malattia potrebbe essere costretto a cedere lo scettro.
La seconda ragione sono le tensioni etniche, che la guerra in Ucraina ha esacerbato. Sono state finora le minoranze povere cecene, daghestane, ingusce e così via a pagare il più alto tributo di sangue delle perdite militari di Mosca. Anche la mobilitazione di 300 mila nuovi coscritti è stata fatta lungo linee etniche, per tenere il più possibile fuori i giovani di Mosca e San Pietroburgo dove la guerra deve rimanere un fenomeno astratto e lontano. Detto altrimenti, le etnie non russe sono state usate come carne da cannone. E questo ha fatto crescere in periferia risentimento e rabbia verso il centro, creando un potenziale esplosivo di rivolte ed eventuali secessioni.
Lo scenario di un collasso innescato dalle tensioni etniche evoca quello che portò alla dissoluzione dell’Unione Sovietica, quando furono le proclamazioni d’indipendenza delle varie Repubbliche (i Baltici, l’Ucraina, la Bielorussia, l’Asia centrale sovietica) a mostrare nudo il potere moscovita e condannare Gorbaciov all’impotenza. In questo caso, il centro di gravità potrebbe essere il Caucaso del Nord. In Cecenia, il sanguinario Ramzan Khadyrov potrebbe approfittare dell’uscita di scena di Putin, che finora ha sostenuto, per rilanciare la battaglia per una totale indipendenza da Mosca, dopo quelle represse nel sangue del 1994-96 e del 1999-2009. Intanto è già in piena fibrillazione il Daghestan, dove le manifestazioni contro la campagna di mobilitazione del Cremlino hanno prodotto scontri violenti con la polizia. Altri candidati potenziali alla secessione sono Tatarstan, Inguscezia e Bashkortostan, che potrebbero cercare di avvicinarsi a Turchia e Kazakhstan. Nell’estremo oriente della Federazione, potrebbero seguire Sakhalin, Primorskiy , Khabarovsk, Kamchatka e Jacuzia, grandi depositi di petrolio, gas naturale, diamanti e oro.
Nelle attuali condizioni, una sconfitta in Ucraina potrebbe fare da detonatore. Non è scontato naturalmente. Un osservatore autorevole come l’ex premier svedese Carl Bildt ritiene improbabile lo scenario di una dissoluzione ed è convinto che «le élite russe stiano già discretamente sondando le possibilità offerte dal dopo-Putin». Per Bildt il collasso della Russia non è negli obiettivi dell’Occidente, che tuttavia dovrebbe lavorare e cercare modi «per creare condizioni e incentivi che facciano emergere e prevalere forze più democratiche».
Ma se così non fosse? Se invece l’implosione della Federazione russa prendesse rapidamente il volo, in che modo avverrebbe? Sarebbe relativamente pacifica, come successe nel caso dell’Unione Sovietica? Ovvero sarebbe destabilizzante e violenta, compreso il rischio di una guerra civile?
Henry Kissinger è convinto di questa seconda ipotesi: «La dissoluzione della Russia o la distruzione della sua capacità di fare politica strategica ne trasformerebbe il territorio, che si estende per 11 fusi orari, in uno spazio contestato», dice l’ex segretario di Stato americano. Gruppi russi potrebbero dar vita a una lotta violenta e senza esclusione di colpi, mentre potenze esterne potrebbero usare la forza per raggiungere i propri obiettivi: «Tutti questi pericoli — continua Kissinger — sarebbero amplificati dalla presenza di migliaia di armi nucleari». Ecco perché il vecchio statista, profeta della Realpolitik, consiglia all’Occidente come migliore linea d’azione di «non rendere impotente la Russia attraverso la guerra» e invece di «includerla in un processo di pace», i cui dettagli e la cui applicabilità al momento rimangono però ancora nebulosi. Ancor più pessimista è la storica Marlene Laruelle, direttrice dell’Istituto per gli studi europei, eurasiatici e russi della George Washington University, secondo la quale un collasso della Russia «produrrebbe diverse guerre civili, con piccoli staterelli in guerra fra di loro per i confini e le risorse economiche» e un centro moscovita che «reagirebbe con violenza a ogni secessione».
Anche senza scenari così estremi, una Russia frammentata metterebbe però a rischio la sicurezza regionale e globale. Poiché, a differenza di quanto avvenne nel 1991 con l’Urss, quando tre dei quattro nuovi Stati che possedevano armi nucleari (Bielorussia, Kazakhstan e in modo più riluttante Ucraina) accettarono di cederle alla Russia e metterle in sicurezza grazie all’aiuto degli americani, oggi anche una secessione localizzata creerebbe una o più entità statali pronte a rivendicare il diritto di tenersi le armi nucleari presenti sul loro territorio.
L’ipotesi più realistica e verosimile è comunque la sopravvivenza del regime. Con o senza Putin, probabilmente sarà ancora una Russia autoritaria, repressiva, militarizzata e chiusa verso l’esterno. Il corollario è che, quando arriverà, la fine della guerra in Ucraina assomiglierebbe tanto a quella della Guerra di Corea: un armistizio senza pace, con l’Ucraina che grazie agli aiuti per la ricostruzione potrebbe seguire lo stesso percorso della Corea del Sud, integrandosi nella comunità occidentale via l’adesione all’Ue e alla Nato. Mentre la Russia diventerebbe una gigantesca Corea del Nord, armi nucleari, economia decrepita e pochi amici nel mondo, di fatto un protettorato cinese. Ma anche in questo scenario, il Cremlino dovrebbe misurarsi con problemi drammatici ed eccezionali: il ritorno a casa delle truppe, le tensioni etniche, la ricostruzione economica in condizioni di autarchia e di introiti ridotti dalle esportazioni di materie prime, non ultima l’ennesima umiliazione agli occhi del mondo. Ci vorranno decenni, ammesso che ci riesca, perché la Russia appaia di nuovo un Paese quasi normale. Nel frattempo, la sua stessa esistenza rimarrà ancora precaria.
Biden promosso sul campo? Massimo Gaggi su il Corriere della Sera il 24 febbraio 2023
Il confronto con Putin e la difesa dell’Ucraina sono il suo chiodo fisso sin dall’annessione della Crimea nel 2014. Ora il presidente Usa dimostra di saper tenere la barra dritta nel sostegno militare ed economico, nel rapporto con l’Europa, nel contrastare i trumpiani
Un impegno quotidiano, continuo. Decisioni angosciose da prendere cercando di astrarsi dalle feroci battaglie della politica interna Usa. Rischi da calcolare e ricalcolare di continuo. E, di continuo, anche sfilacciature dell’Alleanza atlantica da ricucire. Questo è stato, per Joe Biden, un anno di guerra combattuta nel cuore dell’Europa ma con un sostegno politico, militare ed economico ricaduto in gran parte sulle spalle degli Stati Uniti. I conservatori della Heritage Foundation che lo accusano di aver fatto troppo, pur riconoscendo che l’Ucraina va aiutata almeno militarmente, sostengono che è ora di frenare perché al contribuente americano il conflitto ucraino sta costando quasi cento miliardi di dollari divisi, in parti quasi uguali, tra forniture di armi e aiuti economici.
Per il presidente Usa, quello con Putin è uno scontro micidiale, con conseguenze potenzialmente devastanti che vanno ben oltre i confini ucraini, ma è anche una sfida che esalta le doti politiche di un leader che, nella sua carriera cinquantennale, ha sempre messo le relazioni internazionali in cima alla sua agenda. E proprio il confronto con Putin e la difesa dell’indipendenza dell’Ucraina sono stati il suo chiodo fisso, almeno dal 2014. Quando Mosca decise l’annessione della Crimea e lanciò l’offensiva nel Donbass, Biden chiese a Barack Obama, del quale allora era il vice, di far «pagare cara ai russi col sangue e col denaro» quell’invasione.
Quando salvò il salvabile
L’allora presidente scelse di non intervenire in modo muscolare e mandò Biden a Kiev per salvare il salvabile: riorganizzare il governo ucraino e ripulirlo dalla corruzione dilagante. Costretto a essere l’interprete di una strategia prudente, da allora Biden divenne, comunque, il paladino dell’Ucraina dove, racconta nelle sue memorie, è stato otto volte «per cercare di impedire a Putin di divorare l’intero Paese». A Kiev, oltre a un governo inefficiente e corrotto, trovò anche un esercito con appena 8mila soldati pronti a combattere. Cominciò allora — non alla vigilia dell’invasione del 24 febbraio 2022 — la sua battaglia per la difesa di un Paese che considerava essenziale per contenere le ambizioni imperiali del dittatore del Cremlino. Una battaglia per la libertà e la democrazia che, costringendolo a entrare nei meandri della politica ucraina, lo ha poi esposto agli attacchi politici di Trump, soprattutto per via degli affari che suo figlio Hunter ha gestito in quel Paese.
Il film del conflitto è, ormai, nella nostra memoria: l’intelligence americana che intercetta con largo anticipo i preparativi russi dell’invasione, la scelta di Biden di violare l’abituale segretezza dello spionaggio per mostrare a tutti quello che sta avvenendo e ammonire Putin. Poi l’attacco e i servizi segreti che, dopo l’iniziale successo, sbagliano le previsioni: i russi non riescono ad arrivare a Kiev e Zelensky non fugge per creare un governo in esilio. L’Ucraina resiste e contrattacca, grazie al sostegno militare degli Usa e della Nato che Biden mobilita subito.
L’esercito ucraino resiste ed evita l’accerchiamento, nonostante la sua inferiorità numerica e di armamenti, anche grazie ad anni di riorganizzazione, rinnovamento tecnologico e addestramento condotto con l’aiuto Usa. Poi inizia l’invio di un flusso crescente di armi: prima i razzi anticarro coi quali piccole pattuglie distruggono i tank russi. Insieme a 850 lanciatori dei Javelin e a 1500 razzi Tow, arrivano 1600 Stinger, usati anche per abbattere elicotteri e droni. Poi, quando l’offensiva viene bloccata e inizia una guerra di logoramento, di trincea, arrivano i pezzi di artiglieria pesante: gli Howitzer da 155 mm e gli Himars coi loro proiettili «intelligenti».
Un processo complicato, laborioso, nel quale Biden deve mostrare polso fermo con gli alleati, sollecitando quelli troppo prudenti e frenando chi, come la Polonia, vorrebbe interventi più muscolari che rischiano di scatenare una reazione sproporzionata della Russia: pur sempre una potenza nucleare con un arsenale sterminato. È un gioco di equilibri complesso nel quale Biden cerca di spingere Putin a ritirarsi dall’Ucraina, non solo con le armi ma anche con sanzioni economiche stringenti che dovrebbero mettere alle corde l’economia russa. Al tempo stesso, è chiamato a sostenere gli alleati europei, alle prese anche loro con grossi problemi economici, prima per la moltiplicazione del prezzo del gas, poi per l’interruzione delle forniture di quello russo.
Tutto molto faticoso anche qui: con la tecnologia del fracking gli Usa hanno raggiunto l’indipendenza energetica e potrebbero esportare molto gas, ma le promesse fatte a suo tempo da Obama agli alleati sono rimaste tali. Una cosa sono gli interessi geopolitici, altra cosa i vincoli di mercato: estrarre, liquefare, trasportare per nave e rigassificare costa molto e nessuno ha pensato di agevolare questi processi fino a quando non è partito l’attacco russo. Con Putin convinto di poter ricattare l’Europa chiudendo i rubinetti dei suoi gasdotti.
Mesi di negoziati difficili, momenti di crisi tra gli alleati, ma Biden tiene duro e alza il tono dello scontro col Cremlino a livelli che lasciano attoniti molti: a marzo, un mese dopo l’inizio dell’invasione, va a Bruxelles, sede dell’Unione europea e della Nato, e in Polonia, per mostrare con la sua presenza fisica l’impegno a sostenere fino in fondo l’Ucraina. E in un discorso arriva a dire che Putin non può più restare alla guida della Russia. Fa scalpore, anche perché gli Usa affermano di non puntare a un regime change.Stretta di mano tra Biden e il presidente cinese Xi Jinping durante l’incontro a margine del vertice del G20 di Bali, il 14 novembre 2022 (Foto SAUL LOEB / AFP)
Biden ha esagerato, trascinato dalla sua veemenza. Ma non fa marcia indietro: sa che con Putin il problema non è quello di moderare i toni ma, semmai, di non superare certe linee rosse sul campo di battaglia. Per questo evita di fornire a Zelensky missili a lungo raggio e aerei da caccia coi quali potrebbe portare i suoi attacchi in profondità nel territorio russo. Ma con Putin va giù duro: lo definisce un killer e torna a raccontare che in un incontro faccia a faccia di molti anni prima disse al presidente russo: «Ti guardo negli occhi e penso che non hai un’anima». Biden sostiene che il leader del Cremlino rispose: «Vedo che ci capiamo». I due si capiscono davvero: sono tutti e due figli della Guerra Fredda.
Mese dopo mese, lo scontro è diventato guerra di logoramento con Mosca che, dopo sconfitte e umiliazioni, ha riorganizzato le sue forze e prepara nuovi attacchi, mentre i dati del Pil russo indicano che le sanzioni sono state meno efficaci del previsto: molti Paesi continuano a commerciare col gigante euroasiatico mentre la Cina, se non ha dato armi a Putin, gli ha comunque fornito tecnologie civili e a uso militare molto avanzate.
A questa maggiore complessità del quadro internazionale si aggiungono le difficoltà interne di Biden. Storicamente, i repubblicani Usa hanno perseguito il contenimento della Russia ancor più dei democratici. Ma con Donald Trump, ammiratore di Putin quando era alla Casa Bianca, molte cose sono cambiate. A dicembre Biden ha fatto inserire un maxipacchetto di aiuti all’Ucraina da 46 miliardi di dollari nell’ultimo provvedimento omnibus della legislatura a maggioranza democratica: temeva che la Camera a guida repubblicana che si è insediata a gennaio freni sul sostegno a Zelensky. E i trumpiani, in effetti, hanno già cominciato a proporre di rivedere la materia, chiedendo agli europei di fare di più.
Qualche settimana fa un quotidiano svizzero ha scritto che il capo della Cia, William Burns, avrebbe fatto di recente un viaggio segreto a Mosca per sondare la disponibilità del Cremlino a una fine delle ostilità in cambio della cessione alla Russia di un quinto del territorio ucraino. Tutto smentito seccamente, tanto dal governo di Washington quanto dai russi. Ma la rapidità con la quale questa voce si è diffusa dà l’idea dello stallo di ogni ricerca di soluzioni diplomatiche, mentre Mosca prepara la controffensiva, con Putin convinto che il fattore tempo sia dalla sua parte: le democrazie europee alla lunga faranno fatica ad assorbire le difficoltà economiche e il malumore popolare per i problemi creati da un conflitto scoppiato nel mezzo del Vecchio continente.
L’arma dell’esperienza
In queste acque tempestose Biden cerca di tenere la barra dritta: da un lato continua a dare un sostegno militare tarato sull’evoluzione del conflitto, anche a costo di mettere a tacere il Pentagono, contrario all’invio dei tank M1 Abrams, quando si rende conto che questo è l’unico modo per convincere il cancelliere tedesco, Olaf Scholz, a inviare in Ucraina i suoi Leopard 2. Dall’altro, il vecchio leader democratico cerca di proiettare anche fuori dall’America quell’immagine di adult in the room che, in politica interna, gli serve per marcare la distanza tra la sua competenza e prudenza e il movimentismo della destra radicale: un presidente «stagionato» ma che conosce bene i suoi avversari e sa come tenere testa a un Putin comunque in grande difficoltà da quando è fallita la strategia della guerra-lampo e un Xi Jinping che ha gestito in modo disastroso la pandemia e ora deve affrontare il malessere di cittadini che, infuriati per i lunghi e ferrei lockdown, stanno scoprendo con costernazione che l’era della crescita economica continua forse è finita.
Zelensky è ancora un eroe senza macchia? Francesco Battistini su il Corriere della Sera il 24 febbraio 2023
Prima della guerra era precipitato nei sondaggi del suo Paese, oggi è un imperatore del popolo col 94% dei consensi. Ma l’ostinazione contro qualsiasi compromesso e l’attivismo mediatico creano ora anche imbarazzi nel mondo che lo sostiene
Etiopia, qualche mese fa. Scava che ti scava, il paleontologo americano William Ausich trova finalmente il fossile marino che cercava da una vita: una rarissima stella piumata del Giurassico Superiore, un invertebrato di 150 milioni d’anni fa. Lo raccoglie, lo pulisce, lo fotografa, lo studia. E alla fine annuncia al mondo: si chiamerà Ausichicrinites Zelensky. Come il presidente ucraino. Perché questa specie di stella marina, spuntata nel deserto del Tigrai, è famosa per la sua capacità di perdere un braccio e di rigenerarlo dal nulla. E perché Zelensky, spiega, è proprio così: ostinato nel riprendersi le terre perdute, col «coraggio di difendere un’Ucraina libera».
A Star is Born. Da «Ballando con le Stelle» a stella fissa nel De Bello Ucraino. Da Servitore del Popolo a eroe pop. Presidente venuto dal cabaret, protagonista della tragedia. Quando Vladimir Putin l’invase, sicuro d’eliminarlo, il sesto capo dell’Ucraina indipendente era ormai precipitato nei sondaggi e aveva contro due terzi degli elettori: deludente nella lotta alla corruzione e nei negoziati sul Donbass, inconcludente nelle promesse di legalizzare la cannabis e la prostituzione e l’aborto gratuito e il gioco d’azzardo, costretto a rimpastare i ministri, snobbato dai media, sporcato dal Trump dell’Ukrainagate, persino diffamato per via di qualche vizio privato… «Sei un incapace irresponsabile», l’attaccava l’oppositore Petro Poroshenko. «Suona il pianoforte, ché ti vien meglio», lo irrideva l’ex premier Yulia Tymoshenko. Poi, ecco quella notte. Che notte: «Ricordo d’essermi svegliata con rumori strani all’esterno — racconta la moglie Olena — e ho visto che Volodymyr non era accanto a me. Sono andata nell’altra stanza ed era già vestito, senza cravatta. L’ultima volta che l’ho visto in abiti civili. Gli ho chiesto: che succede? E lui: è iniziata».
Un anno di guerra dopo, Volodymyr Oleksandrovyc Zelensky detto «Ze» è un imperatore del popolo al 94 per cento dei consensi. «Un leader spirituale», l’esalta il fidato consigliere Oleksandr Kornienko. «Uno dei più grandi leader mondiali», lo decanta il fedelissimo Andrij Ermak. «È diventato un soldato e siamo tutti con lui», ha cambiato idea Poroshenko. «Siamo un solo popolo e un solo cuore», gli promette adesso la Tymoshenko. Pure all’estero, non solo a Sanremo, è tutt’un grazie dei fiori e un festival degli onori: il premio John Kennedy per il coraggio, la Pergamena della libertà a Filadelfia, la medaglia d’oro Ronald Reagan a Washington, la spilla Churchill a Londra, la targa dell’Ordine del Leon Bianco a Praga, la coccarda dell’Ordine di Viestur a Riga, la catena dell’Ordine di Vytautas il Grande a Vilnius, il cordone dell’Ordine dell’Aquila Bianca a Varsavia, l’onorificenza Dubcek per la speranza a Bratislava… A una conferenza stampa, una giornalista si commuove e gli chiede d’abbracciarlo. In ogni Parlamento sfodera la sua retorica prêt-à-porter — che si parli del Muro al Bundestag, della Shoah alla Knesset, di Pearl Harbor al Congresso, di Churchill a Westminster — e scatena ovazioni minimo di tre minuti. Lui, che è figlio d’un ingegnere cibernetico, ha inventato la guerra online: le centraliniste di Kiev messe a chiamare le mamme russe («lo sa che suo figlio è qui al fronte?»), i video per i red carpet di Cannes e di Venezia, l’infowar su TikTok che rende inutili la Cnn e tutte le Amanpour del mondo. Hashtag la victoria siempre. Col suo autentico kit di magliette militari, i suoi confidenziali selfie dal bunker, la sua (insta)grammatica social, Zelensky ha mummificato di colpo le roboanti parate, le algide posture, gli slogan ingessati di Putin. Secondo Time e il Financial Times, è lui l’uomo dell’anno. Per il Times of Israel, ha in poppa il vento trionfale dell’Elohìm biblico. Per The Hill, è un eroe globale. E se Deutsche Welle lo proclama «praticamente un santo», Der Spiegel lo chiama «eroe in divenire». «La più grande guida dei nostri tempi», dice lo scacchista russo Garri Kasparov. Lo scrittore Jonathan Safran Foer ne esalta «l’irraggiungibile lealtà», l’attore Sean Penn «il coraggio, la dignità, l’amore che emana», Erri De Luca lo paragona al Leonida delle Termopili che oscurò il re dei Persiani… Ze vanta innumerevoli tentativi d’imitazione, segno che piace; una dozzina di tentativi d’omicidio, segno che fa paura; milioni di meme, segno che divide.Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky con “lo spirito dell’Ucraina” nominato persona dell’anno di Time per il 2022 (Foto ANSA/TIME)
Heroyam Slava! È vera gloria, naturalmente. Da comico che recitava nei panni d’un finto presidente, a presidente un po’ per caso che impersona un presidente vero: «Uso ciò che lo spettatore ama in un attore, questo sentimento di umanità. È molto facile da fare, perché io rimango me stesso». Salvator Mundi, si racconta uno e trino: è nato attore con la vocazione per entrare in tv, è cresciuto politico con la fissa d’entrare nella Nato, è resuscitato comandante con l’obbligo d’entrare nella Terza guerra mondiale. La mutazione definitiva, alla boa dei 45 anni: il primo Ze ancora vagiva nei suoi studi di Kvartal 95 declamando che «la politica è uguale al cattivo cinema, i politici recitano troppo e io li osservo come può osservarli un produttore televisivo»; il secondo Ze cresceva viaggiando tra Bruxelles e Washington e avvertendo che «se non possiamo stare nella Nato, non chiedeteci d’essere neutrali»; il terzo Ze, quello divinizzato d’oggi, è rinato il 24 Febbraio con la storica risposta agli americani che gli proponevano la fuga da Kiev («ho bisogno d’armi, non d’un passaggio»).
Un tempo doppiava la vocina dell’orsetto Paddington, ora si ritrova a far la voce grossa con l’Orso russo. È il piccolo Chaplin che si fa beffa del Grande Dittatore. Che abbraccia il mappamondo, sogna un’Europa aperta all’EUkraine e una Mosca sigillata per sempre. Su questa russofobia peserà il fatto che da bambino sia vissuto per un po’ nella Mongolia iper-comunista. Conterà che i suoi amici oligarchi, qualcuno anche un po’ corrotto, gli abbiano fatto assaggiare le delizie del mercato occidentale. C’entrerà che pure lui tenga qualche conto off-shore alle Virgin Islands e belle proprietà fra la Georgia e la Versilia. O magari dipenderà tutto da dov’è nato: la ferrosa e cosacca Kryvyj Rih bombardata ogni settimana da Putin, la culla dell’anarchismo contadino di Nestor Machno e del machnovismo rivoluzionario che già sfidava Lenin e i bolscevichi. «Gli ucraini non sono una minaccia per la Russia — spiega lo storico Timothy Snyder —, ma la loro democrazia, sì. Zelensky è giovane, democratico, coraggioso, ebreo, russofono. Non solo smentisce la propaganda di Putin, che vuole i russofoni e gli ebrei perseguitati in Ucraina: mostra come potrebbe essere un nuovo presidente, se in Russia ci fossero libere elezioni». Da attore, Ze non ha mai smesso di recitare in russo. Da presidente, non ha mai smesso di parlare ai russi. E di tutti i video, forse il più duro ed efficace l’ha messo su Telegram lo scorso settembre, 200esimo giorno di guerra, nel mezzo della controffensiva e della battaglia per sbloccare il grano a Odessa: «Pensate ancora che siamo “un unico popolo”? — ha guardato fisso in camera —. Allora non capite proprio nulla. Davvero non capite chi siamo? Che cosa difendiamo? Di che cosa si tratta, per noi? Leggetelo sulle mie labbra. Senza gas o senza di voi? Senza di voi. Senza luce o senza di voi? Senza di voi. Senz’acqua o senza di voi? Senza di voi. Senza cibo o senza di voi? Senza di voi. Perché per noi il freddo, la fame, il buio e la sete non sono tanto terribili e mortali quanto la vostra “amicizia e fratellanza”. Ma la Storia rimetterà tutto al suo posto. Avremo gas, luce, acqua e cibo. E tutto questo, lo otterremo senza di voi».
Li ha fregati tutti, Ze. L’eroe senza macchia — l’hanno capito presto Biden e Draghi, i cinesi e Kissinger — aveva pure il suo bel caratterino. Un giullare che piano piano s’era fatto re, armato fino ai denti, e noi senza troppa fantasia a definirlo ancora il Beppe Grillo di Kiev. O-ne-stà, o-ne-stà? Macché: altolà, chi va là! Un grillo poco parlante, va detto: quando il pericolo s’ammassava ai confini e Joe Biden gli mostrava la luna dell’invasione imminente, sleepy Zelensky guardava solo il dito e temeva soprattutto «l’allarmismo che fa fuggire gli investitori stranieri». Un grillo fin troppo loquace per i pacifisti, che oramai non ce la fanno più a sentirlo esigere armi e soltanto armi; per Papa Francesco, gl’indiani o i sudamericani del Mercosur che vorrebbero allunare su una tregua qualsiasi, ma vengono regolarmente additati come disfattisti: caro mondo libero, ma quale pace, «il tango si balla in due», datemi casomai più Himars e più Gripen, altri F-16 e nuovi Leopard, perché adesso tocca a noi e poi toccherà a voi, perché stiamo difendendo la civiltà di tutti, si vis petroleum para bellum… Diranno gli storici se sia stato il bavaglio troppo stretto che ha messo alle tv filorusse, ad aizzare l’Orso Putin. O la de-russificazione troppo severa che ha imposto al Paese, accelerandola un anno prima dell’invasione. E saranno i futuri mesi di guerra, i prossimi anni di legge marziale a mostrarci quanta democrazia possano ancora permettersi l’Ucraina e il populista Volodymyr, mentre vengono azzannati con tanta ferocia. «Nella vita ho fatto di tutto per farvi ridere», aveva promesso quattro anni fa insediandosi a Palazzo Marinskij, «ora farò di tutto perché non piangiate». Non ci è riuscito. Di lacrime s’è riempito il Dnepr, ma non è colpa sua.Il Presidente ucraino Volodymyr Zelensky durante una conferenza stampa congiunta con il Segretario Generale delle Nazioni Unite dopo i colloqui a Kiev il 28 aprile 2022 (Foto Sergei SUPINSKY /AFP)
«Come le more selvatiche»: in Ucraina, tra dolore e resistenza. testo e foto di Paolo Giordano su il Corriere della Sera il 24 febbraio 2023
Il viaggio di Paolo Giordano nei luoghi del dolore e della resistenza ucraina. In uno scenario di devastazioni emergono, attraverso una serie di incontri, la consapevolezza e la determinazione di un popolo nel cacciare l’invasore russo. Il titolo di questo racconto è tratto dai versi di un soldato - poeta: conserva la speranza di libertà nei momenti più bui
Il viaggio inizia dalla fine: dalla chiesa di san Pietro e Paolo, a Leopoli, dove ogni mattina vengono celebrati i funerali dei militari ucraini. Ieri erano tre, oggi due: Bogdan, di quarant’anni, e Ivan, di quarantaquattro. Mentre aspettiamo i feretri al fondo della scalinata, la neve caduta nella notte gocciola dai cornicioni. Da un anno la morte dei soldati sfila nella città più lontana dal fronte, impregnandone la vita quotidiana. I numeri delle perdite fra le forze ucraine sono secretati, ma considerando che Leopoli è solo una delle decine di città dove la morte arriva a getto continuo, è facile estrapolare che parliamo di decine, più probabilmente centinaia di soldati morti ogni giorno. Ciascuna morte contribuisce a solidificare un senso di appartenenza che prima del 24 febbraio 2022 era ancora in lenta formazione. Una nazione si costruisce esattamente così, sulla massa invisibile dei propri martiri.
La consuetudine è ormai tale che tutti, militari e civili, sanno come comportarsi: fuori dalla chiesa, dentro e poi di nuovo fuori, nella piazza del municipio dove viene suonata «Taps». Dalla piazza, una fila di autobus raggiunge infine il cimitero Lychavik. Mentre si svolgono le sepolture, Kateryna e io ci allontaniamo un po’. Camminiamo fra le lapidi del Campo di Marte. Leggo le date di nascita: anni ottanta e novanta per la maggior parte, ma si arriva fino al 2003. Nascoste sotto una corona di fiori, sulla lapide di un soldato ventenne, ci sono una bottiglia di whisky e una di coca cola.
Ho conosciuto Kateryna prima di tutto questo, a un festival di scrittori, ma nell’ultimo anno lei è diventata qualcosa di diverso: una scrittrice attivista, una scrittrice esperta di droni da combattimento e shrapnel. E per me, più specificamente, una scrittrice fixer.
A Natale ha chiesto ai suoi due figli grandi di esprimere un desiderio. Le hanno risposto: Il desiderio è ovvio. Con un po’ di timore Kateryna si è spinta oltre: Ma è che l’Ucraina vinca o anche che i russi muoiano? Entrambi, hanno detto loro freddamente. Mi è dispiaciuto sentirlo, confessa adesso, ma almeno sono stati sinceri. Quanto al più piccolo, che fa ancora la scuola materna, un giorno l’ha trovato che litigava con un compagno sul fatto che il muro di lego che avevano costruito fosse più utile per tenere lontani i russi o i bielorussi. In questo momento i bielorussi preoccupano perfino più della nuova mobilitazione in Russia. Se si aprisse quel fronte l’esercito ucraino sarebbe costretto a disperdere le energie, gli scontri arriverebbero vicino a qui, e ancora una volta addosso a Kiev.Il cimitero Lychavik a Leopoli (Foto P. Giordano)In questo momento i bielorussi preoccupano perfino più della nuova mobilitazione in Russia. Se si aprisse quel fronte gli scontri arriverebbero ancora addosso a Kiev
Per il momento, però, dalla Bielorussia si limitano a decollare i cacciabombardieri. Sorvolano il territorio ucraino, minacciando quel tanto che basta, poi tornano indietro. Solo ieri è successo quattro volte: per quattro volte le sirene hanno riempito lugubri l’aria di Leopoli. La maggior parte delle persone, inclusi noi, ha continuato a comportarsi come se non. Ma, attraverso la recinzione di una scuola, ho visto un gruppo di bambini con sindrome di Down entrare composti, uno dopo l’altro, in cantina. Una di loro rifiutava di muoversi, se ne stava attaccata al muro con le orecchie coperte, paralizzata.
Al cimitero Kateryna si china a pulire una fotografia dalle gocce. Lui è Doc, dice, stasera Artur te ne parlerà di certo. Infatti. Ecco quello che Artur – che in questi giorni si trova a Leopoli del tutto casualmente, perché a inizio gennaio si è congelato l’alluce del piede in trincea – mi racconterà:
All’inizio dell’anno scorso, a ventun anni, Artur studiava giornalismo ed era appena stato assunto nell’ufficio stampa di una casa editrice, dopo mesi di stage sottopagati. Nel tempo restante scriveva poesie, con intenzioni serie. La notte dell’invasione su larga scala, il 24 febbraio, non riusciva a prendere sonno. Ha pregato a lungo. Durante il giorno aveva fatto volontariato in una parrocchia, ma pregando ha capito che il volontariato non sarebbe stato sufficiente per lui. Così, all’alba del 25, senza alcuna esperienza militare, si è messo in coda per arruolarsi nelle Forze di Difesa Territoriali. A marzo si addestrava con altri neofiti come lui, usando dei fucili finti, di legno; ad agosto era in Donetsk a scavare trincee, e a ottobre ha perso il suo primo commilitone: Doc.Vita a Kharkiv che dopo ogni attacco cerca di ripristinare velocemente la normalità. Artur accusa i sintomi di un trauma: dolore alla testa, nausea, tinnito. Ma il dottore, Doc, è appena morto, insieme ad altri due.
Bisogna immaginare un campo rettangolare, vuoto e piatto, profondo circa un chilometro. Lungo tutto il perimetro ci sono delle «posadka», strisce sottili di foresta, tre filari di alberi o poco più. Artur e Cola occupano una buca a un’estremità del campo. Hanno l’ordine di minare il lato adiacente per rallentare l’avanzata dei russi che sono trincerati dalla parte opposta, ma sono bloccati dai colpi di un carro armato che spara ferocemente sulla loro posizione, senza sosta. Per via delle vibrazioni fortissime Artur accusa i sintomi di un trauma: dolore alla testa, nausea, tinnito. Perciò, quando finalmente il carro armato cambia linea di tiro, Artur e Cola ne approfittano per spostarsi nella trincea centrale.
Trovano il comandante impegnato a stabilizzare dei feriti. Artur sta sempre peggio, gli urla che ha bisogno del dottore, di Doc, urla perché è praticamente assordato. Ma Doc è appena morto, insieme ad altri due. Aveva cinquantadue anni e per loro, quasi tutti ventenni, era una figura paterna.
Il carro armato adesso spara al centro, di nuovo su di loro. Finalmente arriva una squadra dal villaggio, ma sono solo in due. Artur e Cola, alla fine, portano via Doc da soli. Quando l’abbiamo sollevato, mi dice, ho sentito il peso dell’amore che aveva per noi, l’ho sentito fisicamente. Poi aggiunge: Era pieno di schegge.
Nei primi otto mesi di guerra Artur non aveva scritto un solo verso, sembrava non esserci più spazio per cose del genere nella sua vita. Ma quella sera, con la testa rintronata dai colpi di carro armato e il morale al minimo, ha buttato giù una poesia intera, che inizia così: «Prima del confine / salva questo Amore / che cresce dappertutto / come le more selvatiche».
L’ultimo giorno a Leopoli, Kateryna e io facciamo scorte. In un negozio di attrezzatura da montagna compriamo decine di pasti liofilizzati: chili con carne, cous cous con pollo, zuppa di funghi, borsch. Questi vanno benissimo, mi spiega, perché l’acqua calda può essere versata direttamente nella confezione, in trincea è molto più pratico. Diciamo sempre «trincee», ma l’immagine non è così precisa: si tratta nella maggior parte dei casi di buche circolari scavate nella terra.A Kramatorsk davanti a una finestra in frantumi (Foto P. Giordano)Quindi cosa ne pensi, mi chiede Kateryna? Non ne penso niente, rispondo. Un po’ è davvero così
Raggiungiamo Sashko, suo marito, che ha già caricato la macchina con il resto degli aiuti per i soldati: sacchi a pelo, calze termiche, un generatore di corrente che da solo occupa metà bagagliaio; giubbotti antiproiettili ed elmetti per noi. Faremo una sola tappa intermedia, per dormire, dalle parti di Vinnitsa, prima di raggiungere Dnipro domani.
Perché proprio Dnipro? Perché il 15 gennaio un missile Kh-22 ha centrato un palazzo residenziale. Il bilancio al momento è di 46 morti, 75 feriti e una trentina di dispersi: la strage di civili più rilevante dell’ultimo periodo. Ho l’impressione che, dopo un anno, i luoghi in cui si sono svolti i passaggi cruciali della guerra si siano incollati fra loro, confondendosi, cancellandosi parzialmente l’un l’altro. Venendo qui sentivo la necessità di distendere questa geografia rappresa.
Ma adesso che ci sono, davanti al condominio bombardato, ai mucchi di cemento e mobili, alle cucine e le camere da letto tagliate a metà, la mia intenzione mi appare astratta. Quindi cosa ne pensi, mi chiede Kateryna? Vuole accertarsi che io comprenda la gravità di quello che ho davanti e per la prima volta il suo incalzare m’infastidisce. Non ne penso niente, rispondo. Un po’ è davvero così. Il palazzo non rimanda a nulla se non al proprio sfacelo, all’inutilità deprimente della propria distruzione. Dopo averlo fotografato da più angolazioni, mi chiedo che cosa aggiunga contemplarlo da vicino a quello che sapevo già (e invece no, ma lo capirò solo più avanti, verso la fine del viaggio: vedere gli edifici e le case in rovina, vederli uno dopo l’altro in una processione tristissima, richiamare di ognuno la dinamica dell’attacco, i morti e i feriti, è un esercizio necessario, una forma di assorbimento diversa, cutanea, della guerra).
Ci rimettiamo in macchina. Altre quattro ore di strada. Parliamo dell’eventualità che Putin muoia o che venga ucciso, di come per noi questo significherebbe la fine immediata della guerra e di come per loro, per gli ucraini, la nostra sia una fantasia ridicola: la guerra in corso è un processo storico più grande di Putin, andrebbe avanti anche senza di lui.Il Donbass produce da solo il numero inconoscibile di cadaveri che ogni giono vengono distribuiti nel paese o che spesso rimangono lì, nei campi
Dalla nebbia si stagliano le sagome scure dei primi «terykon», i cumuli di terra scura estratta dalle miniere. Alcuni solo molto alti, come colline, e striati così di neve non sono privi di una loro tetra bellezza. Segnalano che ormai siamo entrati nella regione di Donetsk, in Donbass, come preferiamo dire noi, sebbene non sia del tutto appropriato. Qui è dove la guerra non è mai cessata, da nove anni. Qui è dove il fronte è tornato dopo la ritirata dei russi dall’area di Kiev, concedendoci l’illusione che la fase attuale della guerra sia più «normale», più sopportabile. Non è così. Il Donbass produce da solo il numero inconoscibile di cadaveri che ogni giorno vengono distribuiti nel paese, o che spesso rimangono lì, nei campi. Qui è dove le ambiguità culturali e linguistiche sono difficilissime da comprendere ed è proprio qui, infatti, che vengono generate le interpretazioni più scivolose, velatamente apologetiche dell’aggressione russa.
Per ricostruire gli ultimi dieci anni dei territori occupati (o forse per evitare di farlo) scelgo di affidarmi a una vicenda singola. Una piccola storia di diaspora famigliare, per nulla rara da queste parti, che potrebbe intitolarsi: «Tre donne di Lugansk».
La protagonista, Nastya, è nata in Russia, suo padre era nell’esercito lì, ha combattuto in Cecenia ed è morto in circostanze mai chiarite, nel 2000, quando lei aveva sei anni. Dopo la sua morte la madre di Nastya, una giornalista, ha deciso di portare lei e la figlia maggiore Katya in Ucraina, a Lugansk, dove vivevano i nonni. Nastya e Katya sono cresciute in Donbass, frequentando una scuola in cui s’imparava anche l’ucraino e partecipando insieme, da adolescenti, a qualche blanda manifestazione pro Ucraina, tutto sommato tollerata dai separatisti. Nella primavera di quell’anno madre e figlie sono andate a Kiev per festeggiare il ventesimo compleanno di Nastya, ma da quella gita è tornata a Lugansk solo la madre, perché nel frattempo c’erano stati i fatti di Maidan e la tensione nel paese era altissima.
Luglio 2014: tutto accelera all’improvviso. Lugansk viene occupata. La madre di Nastya smette di lavorare, tanto è inutile, nei territori non ci sono più le condizioni minime per fare giornalismo, e in effetti nemmeno le condizioni minime per sopravvivere: manca l’elettricità e non ci sono generatori, per di più in un’estate caldissima. Ma lei non può andarsene a causa dei genitori. Le telefonate verso l’Ucraina sono pericolose, così scrive alle figlie degli sms stringati, di notte, solo per comunicare che è viva.
Nastya e Katya, nel frattempo, si sono spostate ancora più a ovest, a Leopoli. Hanno pochi soldi, sono disorientate, ma non è il caso di lamentarsi: a Lugansk va molto peggio. Finalmente il marito di Katya trova lavoro, in Crimea. Ed è lì, in Crimea, che Nastya li ha visti per l’ultima volta, nel 2016, dopo un viaggio complicatissimo.La statua oltraggiata e crivellata di colpi del poeta Taras Shevchenko (Foto P. Giordano)E così Nastya è a Leopoli, dove ormai parla solo ucraino, la sorella Katya in Argentina, a sostenere la guerra di Putin, la madre in mezzo, nella regione di Lugansk occupata e contesa.
A questo punto del racconto Nastya scoppia a piangere. Suppongo che sia perché non ha più potuto incontrare la sorella, ma aspetto che sia lei a dirmelo. Quando si è calmata un po’, pur senza smettere il pianto, prosegue:
Dalla Crimea, Katya e il marito si sono di nuovo trasferiti, a San Pietroburgo stavolta, per via di un’offerta migliore. E lo scorso novembre, dopo che Putin ha ordinato la mobilitazione, sono scappati da San Pietroburgo in Argentina. Ma lei e la sorella non si sono più parlate comunque, nemmeno ora che potevano. L’ultimo messaggio di Katya risale al febbraio scorso e dice più o meno così: «Non preoccuparti Nastya, l’Ucraina verrà divisa a metà, questa è una guerra fra la Russia e l’Occidente, voi avete solo la sfortuna di trovarvi in mezzo». Voi. Voi ucraini. Qualcosa le è successo, dice Nastya, negli anni in Crimea e a San Pietroburgo.
E così, la situazione attuale è la seguente: Nastya a Leopoli, dove ormai parla solo ucraino, la sorella maggiore Katya in Argentina a sostenere la guerra di Putin, la madre in mezzo, nella regione di Lugansk occupata e contesa. Quasi una rappresentazione grafica del conflitto. Eppure, il 24 febbraio scorso, Nastya si è sentita più fortunata di altri, perché era preparata: aveva già vissuto un risveglio simile, aveva già perso la sua vita una volta, la sua vita di Lugansk.
Passiamo la notte nei pressi di Dmytrivka, nella fattoria di Victoria e Bogdan. «Fattoria» dà forse l’idea di qualcosa di più sontuoso di com’è, ma Victoria e Bogdan possiedono quaranta ettari dove coltivano di tutto, in particolare frumento e mais. Li hanno raccolti e venduti anche l’estate scorsa, quando molti agricoltori erano costretti dai russi a lasciar marcire i raccolti, o a vederli bruciare.La mattina del 24 febbraio, quando un’amica le ha detto dell’invasione, Victoria si è rifiutata di crederci. Poi si è trovata a implorare la mucca di non partorire prima che la guerra fosse finita
Victoria ha preparato per noi dei «varenyky», la versione ucraina dei ravioli. Ce li offre insieme a una vodka casalinga, il cui colore rossiccio viene dalla macerazione dei gherigli di noci. All’inizio dell’anno scorso Victoria e Bogdan avevano comprato la seconda mucca, incinta, ed erano al settimo cielo. Tanto che la mattina del 24 febbraio, quando un’amica le ha detto dell’invasione, Victoria si è rifiutata di crederci. Poi si è trovata a implorare la mucca di non partorire prima che la guerra fosse finita. Ma c’è voluto più del previsto.
Quando sono arrivati i primi soldati ucraini, Victoria li ha aspettati lungo la strada con i suoi «varenyky». Erano tutti giovani, dice, tutti belli. Da quel giorno non ha più smesso, anzi ha trasformato quel gesto emotivo dell’inizio in un’attività strutturata, che coinvolge donne del paese di tutte le età. Preparano fino a mille «varenyky» al giorno, li congelano e quando passa un convoglio si fanno trovare all’ora stabilita lungo la strada, con le razioni pronte per i soldati.
Assistono come possono anche i feriti in ospedale, ne arrivano in abbondanza. Non è sempre facile. Il giorno del bombardamento di Sviatohirsk, Victoria era accanto a una donna ferita, si stava preoccupando di procurarle dei vestiti, quando è entrato il figlio adolescente, illeso e in preda all’esaltazione: un amico al telefono gli aveva appena detto che, finalmente, al paese i russi avrebbero ammazzato tutti quei «khokhly», un termine dispregiativo fra i più comuni che i russi riservano agli ucraini. Victoria era scioccata ma è rimasta imperturbabile.
A un certo punto della cena riceve una telefonata, discute a lungo, e quando le chiedo di riassumere a proposito di cosa mi mostra la foto di un attrezzo di plastica: serve ad agganciare le granate ai droni. C’è una trattativa in corso: una fornitura di «varenyky» in cambio di quei pezzi di plastica, che qualcuno in città potrebbe produrre con una stampante 3D.
A letto la vicinanza del fronte mi procura una tensione del tutto particolare. La notte precedente Kramatorsk è stata bombardata, ne hanno parlato anche i media internazionali, ma è stata bombardata a lungo anche Pokrovsk, molto più piccola e di cui non ha parlato nessuno. Mi trovo a pensare a come la casa di Victoria e Bogdan potrebbe essere rasa al suolo in un istante dai missili che piovono di continuo sulla regione.
Il sonno dura comunque poco. Ripartiamo appena c’è luce. A Kramatorsk è difficile trovare una finestra che non sia sigillata. Il bombardamento della stazione, il 22 aprile, ha ucciso sessanta civili e ne ha feriti più di un centinaio. Due giorni fa, invece, un Iskander ha colpito un complesso residenziale con un esito meno eclatante, quattro morti e otto feriti. A differenza del Kh-200 che ha sventrato il palazzo di Dnipro, gli Iskander sono missili di precisione, i russi devono aver inserito male le coordinate. Nel condominio di fronte a quello distrutto, una ragazza è in piedi su un davanzale. Stacca le tende dalla finestra in frantumi, poi raccoglie i detriti con una piccola scopa di saggina. Quando si accorge che la fotografo mi fa ciao, mestamente, con la mano.Una chiesa crivellata di colpi a Irpin (Foto P. Giordano)
Consegniamo il generatore di corrente ad Andryi, un operatore di droni, poi ci lasciamo alle spalle anche Kramatorsk. Sashko ci avvisa che da qui in avanti è meglio tenere le cinture slacciate. I checkpoint s’intensificano, a fine giornata ne avremo attraversati almeno una ventina.
Arriviamo nei pressi di Chasiv Yar. La cittadina successiva sulla mappa è Bakhmut, da settimane l’epicentro della guerra. Nel momento in cui scrivo non è ancora caduta ma è quasi accerchiata, ormai sembra questione di giorni. Ancora dopo c’è Soledar, già presa dai russi. Da quella direzione mi sembra emanare un’energia oscura, ma so che è solo suggestione. I colpi di artiglieria, in compenso, sono autentici e continui. La neve delle ultime ore assorbe tutti i suoni tranne quelli. Si susseguono a un ritmo regolare, per nulla frenetico, quasi sonnolento invece, come se dovessero durare all’infinito.
Roman si trova qui per questo, per l’artiglieria. Mi porta a visitare il «suo» lanciarazzi mimetizzato tra i rami. Un modello vecchio, di fabbricazione sovietica, scomodo e anche poco protetto, ma si vede che Roman si è affezionato. D’altra parte, nelle prime tre settimane di invasione ha vissuto nell’abitacolo, giorno e notte, insieme ad altri due. Dormivano appiccicati sull’unico sedile. Il problema è che le munizioni per quel tipo di lanciarazzi scarseggiano. Stanno aspettando quelli nuovi che gli alleati hanno promesso, ma chissà quando arriveranno. Aiutandosi con i gesti delle mani, Roman mi spiega che nell’intervallo temporale che va fra la promessa dei mezzi militari e il loro arrivo lì, lui e gli altri come lui muoiono in quantità. Morire, aggiunge con un sorriso, è comunque meglio di essere fatto prigioniero. Il trattamento riservato dai russi agli artiglieri è noto, perché il novanta percento delle loro perdite è causa loro.
Ha fatto preparare un pranzo per noi nel cortile accanto. Per lo meno adesso non dormono più nel lanciarazzi. Occupano case di fortuna, spostandosi all’incirca ogni due settimane per evitare che la posizione venga individuata precisamente. Mangiamo in piedi, mentre Roman mi racconta del lavoro come insegnante che faceva prima del 24 febbraio, e dei foreign fighter che sono stati lì per un periodo: avevano fatto sia l’Afghanistan che l’Iraq, ma hanno detto che il peggio l’hanno visto in Donbass.
Scattiamo delle foto insieme e quando stiamo per andarcene capisco che Roman vorrebbe trattenerci. Dopo undici mesi di questa vita, interrotti solo da quattro giorni di licenza, ha voglia di un’interazione umana diversa. Ma noi abbiamo appuntamento con un soldato di fanteria, a Sloviansk. Fanteria? dice lui. Quelli della fanteria li riconosci dallo sguardo.
Capisco cosa voleva dire appena stringo la mano a Taras. Ha quarant’anni, la mia età, ed esattamente quello sguardo. Prima del 24 febbraio Taras lavorava in una compagnia internazionale, viaggiava, infatti parla inglese. Nel 2012 era stato trasferito a Mosca. Il livello di propaganda antiucraina incontrata lì lo aveva sconvolto, ed era prima della guerra in Donbass, prima della rivoluzione di Maidan, prima di tutto. La tv parlava in continuazione dei nazisti ucraini, al punto che dopo un po’ aveva iniziato ad avere dei dubbi perfino lui. Quando in metropolitana si rivolgeva in ucraino ai suoi bambini, l’insofferenza dei russi era evidente. Stavano già preparando questa guerra, mi dice ora. Mi dice: Non è una questione di russi buoni o cattivi, è che la loro mente è stata avvelenata troppo a lungo.La pulizia delle strade di Kharkiv dopo un bombardamento (Foto P. Giordano)Nel 2012 Taras era stato trasferito a Mosca. Il livello di propaganda antiucraina incontrata lì lo aveva sconvolto. La tv parlava in continuazione dei nazisti ucraini. Quando in metropolitana si rivolgeva in ucraino ai suoi bambini, l’insofferenza dei russi era evidente. Stavano già preparando questa guerra, mi dice ora.
Taras non aveva alcuna attrazione per le armi o l’esercito. Aveva schivato il servizio militare e con tre figli minorenni avrebbe potuto continuare a farlo anche dopo l’invasione su larga scala. Invece la mattina del 24 febbraio era in fila per arruolarsi. Da allora è stato sempre al fronte. Ha ucciso e visto morire i suoi più di quanto una mente solida possa reggere, ed è ancora abbastanza cosciente per riconoscerlo.
Mi racconta di prima mano quello che tutti abbiamo appreso con un po’ di incredulità dai media: delle ondate di soldati russi mandati avanti a farsi trucidare, solo per guadagnare una posizione. Un costo umano al metro lineare che ha precedenti solo nelle battaglie più sanguinarie della storia. Sono stanco di ucciderli, dice Taras con voce spenta. Mi sento almeno dieci anni in più di quando sono partito.
Due giorni fa hanno perso molti dei loro. Non hanno potuto recuperare i corpi perché i russi hanno minato l’area e i cadaveri stessi. Enuncia tutto questo senza traccia di esaltazione bellica o rabbia, solo con grande stanchezza e con un senso cupo di inevitabilità.Ecco un uomo che faceva le sue cose normali nella sua vita normale, e che da un anno vede morire e uccide e dorme dentro buche di fango e ormai ha accettato per intero anche la propria morte. Quando finiamo di parlare non so come congedarmi da lui, non so cosa dire. Ma lui non si aspetta nulla da me. Con il passare dei giorni sarà il suo sguardo terminale a ingombrarmi la mente più di ogni altra immagine incamerata qui.
Lungo la strada per Izyum è tutto distrutto. Carcasse di auto e carri armati bruciati, case senza il tetto, muri crivellati. Ogni centinaio di metri un cartello indica la presenza di mine e di tanto in tanto compare una Z nera disegnata con lo spray, a sfregio. Chilometri e chilometri così. Dopo un po’ che sfila, il paesaggio di devastazione risulta monotono. Mi rifugio nel telefono, la connessione funziona a tratti. Su Telegram vengono lanciate campagne di raccolta fondi per l’acquisto di droni. Su Twitter è in tendenza l’hashtag #Wagner.
Il primo aprile 2022 Izyum è stata occupata ufficialmente dai russi, dopo un mese di battaglia fra le sponde del fiume. Le notizie da quel segmento decisivo di fronte erano poche, frammentarie e paurose. Ma dopo l’occupazione russa era piombato sulla cittadina un buio assoluto, durato per tutta l’estate, fino alla controffensiva di settembre. Yurii è stato fra i primi soldati ucraini a entrare nella Izyum liberata: mi ha detto di aver trovato così tante armi e munizioni abbandonate dai russi da dover scegliere quali prendere e quali lasciare.
Superiamo la parte ancora incredibilmente abitata. Imbocchiamo una strada laterale coperta di neve e parcheggiamo l’auto ai margini di un bosco. Frequentare i boschi è vietato, nonostante la neve intonsa sia così invitante, ma Kateryna mi garantisce che questo è sminato.
Le fosse comuni di Izyum hanno fatto meno scalpore di quelle di Bucha, ma solo perché sono arrivate dopo. Proprio come a Bucha, anche qui sono stati i superstiti a indicare la zona delle fosse, l’unica dove i russi permettevano di sotterrare i cadaveri, alla svelta, avvolti al massimo in una coperta. Ne sono stati riesumati centinaia. Li hanno portati via per identificarli, perciò quello che troviamo adesso nel bosco di pini è una distesa di buche rettangolari vuote, squarci scuri nella neve a perdita d’occhio, ognuno con all’interno una croce di legno numerata. È sera, la luce è appena sufficiente a scattare qualche foto, ma nessuna che renda l’idea dell’estensione del cimitero. Tornati in macchina scrivo solo: «Controllare se a Izyum si sta davvero diffondendo la tubercolosi». I miei appunti si fanno sempre più scarni, stanno sparendo del tutto i commenti. Ormai mi limito a segnare le informazioni nude.
Arrivare a Kharkiv, dopo, sembra impossibile. Troviamo la strada sbarrata all’improvviso, senza un avvertimento, ne prendiamo una laterale e la percorriamo fino a quando capiamo dalla neve e dai detriti che non è affatto una buona idea. Impieghiamo un quarto d’ora solo per fare inversione, perché entrambi i lati potrebbero essere minati.
Sto per avere una crisi di nervi. Ci troviamo intrappolati fra tre checkpoint che ci rimandano uno all’altro, finché riusciamo a trovare la deviazione. Quando entriamo a Kharkiv, circa due ore dopo, non manca molto al coprifuoco. La città è al buio, tanto per cambiare. I monoliti sovietici sfilano uno dopo l’altro, neri, ne intuisco comunque la maestosità. Kharkiv aveva quasi un milione e mezzo di abitanti prima del 24 febbraio, ma si stima che nelle prime settimane l’abbiano lasciata in circa ottocentomila. Qualcuno sarà tornato nel frattempo, ma non abbastanza perché la città non appaia vuota.
Per un soffio riusciamo a comprare del cibo da asporto e recuperiamo le chiavi di un appartamento. Tanya, che ha trovato questa sistemazione per noi, ci raccomanda di non farci spaventare troppo dalle sirene, sono molto forti e potrebbero partire da un momento all’altro: le nove di sera e le quattro del mattino sono gli orari prediletti dai russi per bombardare.
Come aveva previsto, la sirena suona due volte nel corso della notte, ma io vengo a saperlo solo al mattino perché ho abbondato con i sonniferi. Le esplosioni in città alle otto e mezzo, invece, le sento benissimo: due, ravvicinate tra loro e vicine a qui. Un suono che vibra sulle basse frequenze, non solo dello spettro acustico, ma anche – mi viene da pensare lì per lì – dell’anima.
Sashko e io finiamo di preparare il caffè istantaneo, poi ci mettiamo in corridoio con Kateryna, ad aspettare. Sembra il punto più sicuro della casa. Proprio quando serviva, la sirena non è partita. Ecco un altro inconveniente del trovarsi così vicino al confine: spesso le bombe arrivano prima dell’allarme. Sulla mappa delle allerte la regione di Kharkiv è rossa, ma in pochi minuti si accende tutto l’est dell’Ucraina. Per ingannare il tempo scorro le mail: il «New York Times» ha deciso di interrompere la newsletter sulla guerra, perché è già andata più avanti di ogni previsione, e soprattutto non se ne intravede la fine. È arrivato, insomma, il momento di trattarla come qualcosa di normale. E così, noi abbiamo quasi esaurito le scorte di attenzione, l’Ucraina sta esaurendo le munizioni per i lanciarazzi, ma la Russia non ha esaurito le riserve di missili da lanciare e gli uomini da inviare al fronte, né la volontà di farlo.Ecco una differenza sostanziale, dalla quale non dovremmo mai prescindere: l’Ucraina appartiene a quella parte di mondo che vuole mostrarsi, dall’inizio ripete venite a vedere, venite a Mariupol, venite a Bakhmut, venite a Kherson, venite a Bucha. I regimi illiberali, come la Russia, devono mantenere il proprio segreto al di sopra di tutto e di chiunque
I Kh-200 hanno colpito un’università e l’edificio residenziale alle sue spalle. Quando arriviamo sul posto le attività di ripristino sono già in corso. Personale specializzato e civili portano via macerie, spazzano, trasportano pentoloni di zuppa. L’università si trova in una zona centrale, ricca della città: a un isolato, per dire, c’è un negozio di Bang & Olufsen. Per fortuna è domenica, e il bilancio finale sarà di solo cinque feriti. Fra le persone che affollano la scena, intanto, non colgo neppure una manifestazione di rabbia o scoramento, solo un’operosità fuori dal comune, tanto che dopo un po’ mi sento d’intralcio.
Ci rimettiamo in macchina. Fuori città passiamo accanto a un lago ghiacciato, punteggiato di figure che pattinano, giocano, pescano, ma io diffido di quello scorcio rapidissimo di idillio invernale, come se fosse stata la mia immaginazione a fabbricarlo.
A Kiev, nella stanza d’albergo funzionale, accogliente e pulita, mi precipitano addosso le settantadue ore precedenti. Mi precipita addosso, soprattutto, la gratitudine delle persone che ho incontrato, la gratitudine di Roman e Taras e degli altri militari al fronte per il solo fatto che io fossi arrivato lì: un paradosso. Ecco una differenza sostanziale, dalla quale non dovremmo mai prescindere: l’Ucraina appartiene a quella parte di mondo che vuole mostrarsi, dall’inizio ripete venite a vedere, venite a Mariupol, venite a Bakhmut, venite a Kherson, venite a Bucha. I regimi illiberali, come la Russia, devono mantenere il proprio segreto al di sopra di tutto e di chiunque.
La mattina seguente Tanya ci scrive che sulla strada bombardata di Kharkiv è già stato steso l’asfalto nuovo. Decido di restare aggrappato al suo messaggio, alla possibilità di riparazione che trasmette. La ricostruzione in Ucraina sta avvenendo davvero, in modo sparso e disomogeneo, ma sta avvenendo. Il ristorante dove pranziamo, «Otamansha», appare intatto, sebbene i russi avessero portato via tutto: computer, stoviglie, pentole, mobili, televisori, le scorte di cibo, perfino il sale. Ora la guerra non sembra nemmeno passata.
Il ponte saltato di Irpin, da cui a marzo è avvenuta un’evacuazione disperata, è ancora nello stesso stato, ma una compagnia turca ne sta completando uno nuovo accanto. L’intenzione è di ripristinare al più presto il collegamento, lasciando il ponte distrutto come memoriale. Non tutti sono d’accordo, non tutti vogliono avere davanti agli occhi, per sempre, l’inverno del 2022. Tutta l’area a ovest di Kiev si trova su questo crinale fra la conservazione dell’orrore e il ripristino accelerato, qualcosa rischia di andare perduto nel processo, qualcosa andrà di certo perduto. Ma i fabbricati nuovi sono anche una prefigurazione di come potrebbero tornare a essere, prima o poi, i villaggi a est che ho attraversato ieri.
Nonostante gli sforzi, la collezione di palazzi semidistrutti, carbonizzati, è interminabile, mi dà la nausea. Borodyanka ha il primato di devastazione. Nel primo complesso residenziale bombardato, che si erge nei suoi nove piani come un dente marcio e per qualche ragione sembra già un manufatto antichissimo, i russi hanno impedito di soccorrere i superstiti. Chi c’era, dice di averli sentiti chiamare da sotto le macerie per giorni.
La furia dei russi è evidente, abnorme, irrazionale: hanno distrutto anche per il puro gusto di farlo, sparando dai carri armati, incendiando. E tuttavia, nel loro procedere esisteva anche un’intenzione lucida. La si percepisce nell’accanimento specifico contro la casa della cultura di Irpin, con la sua facciata celeste e i fregi e le colonne istoriate – almeno un tempo. Ora il tetto è in pezzi, il palcoscenico denudato, ci sono buchi di proiettili ovunque. Gli ucraini inseguono da mesi il riconoscimento dell’invasione russa come genocidio, si tratta di un riconoscimento difficile da ottenere a livello internazionale, ma è indubbio, venendo qui, che i russi hanno un intento specifico di cancellazione della loro cultura. Altrimenti perché sparare in testa alla statua del poeta Taras Shevchenko? Perché, se non come simbolo dell’esecuzione sommaria di tutta la cultura ucraina? Esiste un nome specifico per questo tipo di crimine?
La categoria dell’oppressione coloniale non ci va a genio per interpretare la storia dell’Ucraina, né tantomeno questa guerra, perché ci mette automaticamente in una posizione morale più scomoda, eppure, con ogni probabilità, è proprio quella da usare.
Anche la sera che lascio Kiev non c’è corrente. Il viaggio sul treno notturno fino a Przemysl, la prima cittadina polacca, dura nove ore, ma ci fanno restare a bordo per altre tre. Un intoppo di frontiera forse. Io fantastico che possa trattarsi del mio vicino, che avrà vent’anni e con la legge marziale non potrebbe varcare il confine. Ha mostrato alle militari di frontiera un plico di documenti bollati. Loro vanno avanti e indietro, forse poco persuase, senza che lui mostri segni di insofferenza.
In men che non si dica sono a Cracovia. Ho davanti molte ore vuote prima del volo. Kateryna mi chiede come va il viaggio proprio mentre sto cercando di negoziare con il senso di colpa per l’essermene andato – un senso di colpa che so riconoscere come infondato e che tuttavia persiste. Le rispondo che è tutto okay. Silenzio i gruppi Telegram degli allarmi aerei, ma senza cancellarli. È ancora mattina, cerco un posto per la colazione. Il compito mi distoglie dal pensiero dei luoghi e delle persone. Mi concedo tutto il tempo di indugiare. Ne ho quanto voglio, di tempo, qui: qui dove il tempo ancora esiste, qui dove tutto è ancora libero.
Come le more selvatiche di Paolo Giordano
Ucraina, un anno di guerra
Progetto di Barbara Stefanelli
A cura di Alessandro Cannavò, Mario Garofalo, Mara Gergolet
Progetto grafico Giovanni Angeli
Hanno collaborato: Francesca Basso, Francesco Battistini, Lorenzo Cremonesi, Andrea Ducci, Giusi Fasano, Samuele Finetti, Federico Fubini, Massimo Gaggi, Marco Imarisio, Andrea Marinelli, Viviana Mazza, Maria Serena Natale, Andrea Nicastro, Guido Olimpio, Marilisa Palumbo, Greta Privitera, Federico Rampini, Simone Sabattini, Giuseppe Sarcina, Marta Serafini, Barbara Stefanelli, Paolo Valentino, Francesco Verderami, Edoardo Vigna, Paolo Valentino
E con un racconto di Paolo Giordano
Sviluppo: Fabio Mascheroni, Stefano D'Angelo, Infografici Corsera, Grafici Online
Cura delle immagini: Antonella Gesualdo, Michele Lovison, Giovanni Angeli
Milano, febbraio 2023
Stasera Italia, Federico Rampini sull’economia italiana: basta piagnistei. Libero Quotidiano il 10 marzo 2023
La guerra tra Russia e Ucraina ha avuto forti ripercussioni sull'economia europea. Ma non così forti come, spesso, ci raccontiamo. Se n'è parlato nel corso della puntata di Stasera Italia in onda il 10 marzo su Rete4. In collegamento c'era Federico Rampini che ha sottolineato le performance positive della nostra economia nel 2022.
"Il vizio italiano del piagnisteo è una cosa insopportabile - ha detto Federico Rampini a Barbara Palombelli - Sembra che la guerra la stiamo facendo noi. Non c'è stata nemmeno una mini recessione. Nel 2022, l'anno in cui le sanzioni economiche dovevano rovinare l'economia italiana, ha visto un boom con un +20% del Made in Italy nel mondo. Anche perché basta fare un po' di conti di aritmetica, l'economia russa è microscopica. vale 1/14 dell'economia degli Stati Uniti e non è neanche tra le prime dieci al mondo. Quindi ci voleva davvero tanta immaginazione per pensare che perdere il mercato russo sarebbe stata una catastrofe per noi".
Estratto dell’articolo di Federico Rampini per corriere.it il 23 Febbraio 2023.
Perché tante previsioni sulla guerra in Ucraina si sono rivelate clamorosamente errate negli ultimi dodici mesi? Ripercorrere le «profezie mai avverate» è utile, in questo tragico anniversario dell’invasione. […] Provo a elencare, per capitoli, le principali smentite che la realtà ha inflitto ai nostri pregiudizi.
1) Vittoria facile e veloce per Putin.
Questa era l’opinione più diffusa un anno fa. Era una delle ragioni per cui molti leader occidentali erano pronti a concedere di tutto e di più alla Russia: a cominciare da una neutralità ucraina che la consegnava al destino di Stato-satellite di Mosca. Da che cosa nasceva questa previsione, spazzata via dalla resistenza ucraina?
Da una sopravvalutazione delle forze armate russe, legata ad alcuni exploit (Cecenia, Georgia, Siria) studiati poco e male. Da una sottovalutazione del nazionalismo ucraino: in molti hanno creduto alla propaganda di Putin secondo cui l’Ucraina non fu mai stata una vera nazione bensì soltanto una costola della Russia. E quindi avrebbe dovuto accogliere a braccia aperte l’armata di Putin, almeno in alcune regioni. […]
2) Apocalisse energetica.
Un anno fa, e per mesi dopo l’inizio dell’invasione, molti descrivevano un’Europa sull’orlo di una terrificante penuria energetica, condannata a un inverno di gelo e stenti. I rialzi delle tariffe energetiche ci sono stati, hanno picchiato duro sui bilanci di famiglie e imprese, ma quella crisi è stata più breve e assai meno tragica del previsto.
L’inverno abbastanza mite è stato un fattore, ma non il più importante. I paesi europei hanno dimostrato flessibilità nel diversificare le proprie fonti, andando a cercare energia altrove. Il sistema delle imprese ha reagito accelerando i risparmi energetici e l’innovazione. Le fasce sociali più deboli sono state aiutate grazie ai bilanci pubblici. Perché tante previsioni allarmiste e catastrofiste? Perché tendiamo a sottovalutare la ricchezza dei nostri stessi paesi. […]
3) Apocalisse alimentare.
Idem come sopra. A un certo punto del 2022 sembrava che ci fosse la carestia alle porte dell’Italia. Il solito riflesso apocalittico – e forse filorusso – descriveva la produzione di cereali russi come indispensabile a tal punto, che il mondo intero stava scivolando verso la fame. Ma la Russia non aveva interesse a cessare le sue vendite di cereali. E nella misura in cui queste si sono ridotte perché la guerra ha ostacolato la logistica, il mondo annovera tante altre superpotenze agricole in grado di compensare (tra i maggiori produttori figurano Stati Uniti, Canada, Argentina, Brasile, Australia, perfino la sorprendente India).
[…]
4) Le sanzioni costringeranno la Russia a sedersi al tavolo di negoziato.
È dai tempi di Mussolini in Etiopia che le sanzioni internazionali falliscono. L’Italia fascista non cambiò politica estera perché era sottoposta a un regime sanzionatorio. Lo stesso dicasi per Cuba, Corea del Nord, Iran. Tutti questi paesi hanno trovato anche dei sistemi per aggirare almeno in parte l’embargo, figurarsi se la Russia non si era preparata per fare lo stesso. […] Peraltro il regime di sanzioni contro la Russia oggi vede schierato tutto l’Occidente insieme con alleati importanti come Giappone, Corea del Sud. Ma gran parte del mondo, inclusa una potenza filo-occidentale come l’India, il Golfo Persico, l’Africa e l’America latina, non partecipa al nostro regime di sanzioni. […]
5) La guerra finirà con la mediazione cinese.
Xi Jinping sta con Putin a tutti gli effetti. Lo aiuta in modo sostanziale aumentando i propri rapporti commerciali, da cui lucra anche vantaggi: compra gas e petrolio a prezzi scontati. La Cina vende anche tecnologie “duali” che i russi usano sul terreno militare: droni e semiconduttori.
Secondo gli Stati Uniti Xi starebbe valutando la possibilità di fornire apertamente armi vere e proprie, pur di risparmiare una umiliante sconfitta all’alleato Putin. La Cina nel lungo termine colonizzerà la Russia. Anche se questa guerra le ha procurato delusioni e costi, vede la sua utilità in termini di “distrazione” dell’America dall’Estremo Oriente.
6) Putin userà l’arma nucleare.
L’ha minacciata più volte, ma è una minaccia credibile? Fra le contro-indicazioni, gli esperti americani indicano il fatto che le armi nucleari tattiche usate in un campo di battaglia dove le forze sono ravvicinate, possono seminare morte e distruzione anche tra i soldati russi. Alla mercè dei venti, la radioattività può ritornare sul territorio russo. […]
7) Putin sta per sparire: golpe o malattia terminale.
Altra profezia che circola periodicamente, e altrettanto regolarmente viene dimenticata. Lo abbiamo visto tutti godersi un bagno di folla nel mega-comizio di due giorni fa a Mosca. Non sembrava un uomo malato, né assediato dagli oppositori. Gli unici attacchi visibili contro di lui all’interno della Russia, vengono da falchi della destra nazionalista come il capo della Divisione Wagner.
Il fatto che lui li tolleri lascia aperta una supposizione: che sia lui stesso a voler far credere all’Occidente che una sua caduta sarebbe seguita da un regime ancora più aggressivo. In ogni caso dietro questa profezia (morte o golpe) c’è anche la convinzione, o la speranza, che Putin sia l’unico vero problema. […]
Ucraina, un anno di guerra vista dal Donbass. L’Espresso il 23 febbraio 2023.
Il mondo non è più lo stesso da quando i carri armati russi hanno oltrepassato il confine ucraino. La guerra in Europa è tornata, così come le antiche rivalità che per decenni hanno governato le relazioni internazionali dalla fine del II conflitto mondiale alla caduta del Muro di Berlino. Sono tornate le trincee, i campi minati e le sirene antiaeree a scandire le ore dei civili che hanno scelto di non lasciare le proprie case. Quelle stesse case che da mesi sono vuote, ridotte (nel migliore dei casi) a poco più di un magazzino dove avventurarsi per recuperare qualcosa da portare negli scantinati dove si è costretti a vivere. Al buio, senza né riscaldamenti né acqua corrente, i boati dell’artiglieria in entrata e in uscita scandiscono le ore e riportano la vita quotidiana a una condizione di mera sopravvivenza. Intanto al fronte decine di migliaia di soldati sono morti. La terra di Mariupol, Kherson, Kharkiv e ora Bakhmut si è trasformata in un cimitero a cielo aperto dove i due eserciti si sono massacrati per mesi. Il tutto in nome delle mire espansionistiche del governo di Vladimir Putin che continua ad accusare l’Occidente di voler annichilire la Russia mentre minaccia di usare il suo arsenale atomico. Sul campo lo stato maggiore russo prepara una nuova massiccia offensiva per tentare di spezzare la resistenza delle forze armate ucraine e conquistare almeno tutto il territorio del Donetsk. Ma le forze armate ucraine continuano a resistere, sperano in nuove forniture di armi da parte degli alleati e, dicono i generali, si preparano alla controffensiva. A un anno dal 24 febbraio 2022, la pace resta un miraggio. (di Sabato Angeri)
Ucraina, un anno di guerra: dall’invasione al rischio di conflitto nucleare. Il Tempo il 23 febbraio 2023
È passato un anno dal lancio dell'operazione militare speciale con cui il presidente russo Vladimir Putin annunciava di voler "smilitarizzare e denazificare" l’Ucraina. Un obiettivo che il Cremlino intendeva raggiungere in poco tempo e che, invece, si è trasformato in una lunga guerra di posizione.
Dodici mesi che hanno sconvolto gli equilibri della geopolitica mondiale e causato centinaia di migliaia di morti, militari e civili. L'Ucraina ha avuto fin da subito l'appoggio della Nato e dell'Occidente, trainato dal presidente americano Joe Biden, che alla vigilia del 24 febbraio si è recato in visita a sorpresa a Kiev per ribadire il sostegno al presidente ucraino Volodymyr Zelensky. Proprio il leader di Kiev, fino a un anno fa noto principalmente per il suo passato da attore comico prima di scendere in politica, è diventato 'l'uomo dell'anno' e simbolo della resistenza. La guerra ha nuovamente scavato un solco fra la Russia e l'Occidente, riecheggiando i tempi della Guerra fredda e le minacce sull'uso delle armi nucleari, mentre la prospettiva di un tavolo negoziale sembra ancora lontana. Di seguito le principali tappe di un anno di conflitto.
FEBBRAIO
LA RUSSIA INVADE L'UCRAINA - Il 24 febbraio del 2022, prima dell'alba, il presidente russo Vladimir Putin annuncia di aver deciso di lanciare una “operazione militare speciale” con l’obiettivo di “smilitarizzare e denazificare l’Ucraina” in risposta a una richiesta di assistenza dalle autorità delle autoproclamate repubbliche di Donetsk e Luhansk, minacciando i Paesi che fossero intervenuti di “conseguenze mai viste prima”. Due ore dopo le truppe russe entrano nel territorio ucraino e raid aerei e missilistici colpiscono tutto il Paese, inclusa la capitale Kiev. Gli attacchi missilistici balistici e da crociera nelle prime 24 ore del conflitto sono 160 e 75 le incursioni aeree. Il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, risponde promulgando la legge marziale, interrompendo i rapporti diplomatici con la Russia e annunciando la mobilitazione generale. I russi puntano ad accerchiare la capitale Kiev, ma la loro avanzata viene rallentata dalla strenua resistenza delle forze armate ucraine.
MARZO
IL PATRIARCA RUSSO KIRILL AL FIANCO DI PUTIN – Il 6 marzo il patriarca della Chiesa ortodossa russa Kirill si schiera la fianco di Vladimir Putin giudicando l’appoggio all’invasione come un “test di fedeltà al Signore”.
BOMBARDATO TEATRO DI MARIUPOL USATO COME RIFUGIO - Il 16 marzo un attacco aereo russo colpisce il teatro di Mariupol, che era usato come rifugio. Secondo un'indagine condotta da Associated Press, sono circa 600 le persone rimaste uccise, e non 300 come si riteneva in un primo momento.
"Qualcuno peggiore di Putin?". Ipotesi smembramento Russia, cosa sa Mikhelidze
ZELENSKY INTERVIENE AL PARLAMENTO ITALIANO – Il 22 marzo il presidente ucraino Volodymyr Zelensky interviene al Parlamento italiano. 'Genova come Mariupol. L’Italia congeli i beni dei russi e chiuda porti”, il suo appello.
MUORE SUL CAMPO DI BATTAGLIA ITALIANO EDY ONGARO – Il 30 marzo muore nel Donbass il combattente italiano Edy Ongaro. Originario del Veneto, combatteva a fianco delle forze filorusse con il nome di battaglia di ‘Bozambo’. Aveva 46 anni.
APRILE
UCRAINA RIPRENDE REGIONE KIEV E SCOPRE GLI ORRORI DI BUCHA - Man mano che i russi si ritirano dalla regione di Kiev, emergono gli orrori. Ne diventa simbolo Bucha, sobborgo di Kiev, le cui immagini scatenano indignazione internazionale e appelli a indagini per crimini di guerra.
AFFONDA NEL MAR NERO INCROCIATORE MOSKVA – L’incrociatore Moskva, uno dei fiori dell’occhiello della marina russa, affonda nel Mar Nero. I militari ucraini rivendicano l’atto dicendo che la nave è stata colpita con missili da crociera antinave, mentre Mosca parla semplicemente di un incendio.
MAGGIO
PARATA PER GIORNO DELLA VITTORIA A MOSCA – Il 9 maggio, in occasione della parata per la vittoria dell’Unione Sovietica sulla Germania nazista, il presidente russo Vladimir Putin tiene un lungo discorso sulla Piazza Rossa. “Combattete per la sicurezza della patria, combattete per la nostra gente nel Donbass”, dice ai soldati, e attacca l’Occidente che “preparava l’invasione” e la Nato che “non ci ha ascoltati sulle garanzie di sicurezza”.
INFURIA LA BATTAGLIA NEL DONBASS, TRUPPE RUSSE AVANZANO – Battaglie sempre più cruenti nel Donbass. La città ‘martire’ diventa Severodonetsk, presa d’assalto dai russi e poi occupata nel mese successivo. Le truppe di Mosca prendono anche il controllo di Lyman e Lysychansk.
GIUGNO
DRAGHI-SCHOLZ-MACRON A KIEV – Il 16 giugno l’allora presidente del Consiglio italiano Mario Draghi, il presidente francese Emmanuel Macron e il cancelliere tedesco Olaf Scholz si recano in Ucraina. I tre leader, che viaggiano insieme in treno nella notte, portano un messaggio unitario nel condannare l'invasione dell'Ucraina, nel sanzionare la Russia e nell'aiutare Kiev. Prima della capitale, i tre si recano in visita a Irpin.
CONSIGLIO UE CONCEDE A UCRAINA STATUS CANDIDATO – Il 23 giugno il Consiglio Ue accoglie la proposta della Commissione di concedere lo status di paese candidato all'Ucraina.
Fabbri rivela il vero piano di Putin: resa dell'Occidente o terrore nucleare
LUGLIO
ACCORDO SUL GRANO - Il 22 luglio a Istanbul viene firmato un accordo sul grano che impegna Ucraina e Russia, per consentire alle navi di grano di lasciare i porti ucraini del Mar Nero. La firma dell'intesa, raggiunta con la mediazione dell'Onu, avviene alla presenza del presidente turco Recep Tayyip Erdogan e del segretario generale delle Nazioni unite Antonio Guterres.
AGOSTO
UCCISA IN ATTENTATO DARYA DUGINA, FIGLIA DELL'IDEOLOGO DI PUTIN – Il 20 agosto Darya Dugina, figlia di Alexander Dugin, filosofo di estrema destra molto vicino a Vladimir Putin, rimane uccisa in un attentato.
La 29enne giornalista e analista politica è vittima dell'esplosione della Toyota Land Cruiser della quale era alla guida. Si ritiene che il padre fosse il bersaglio dell’attacco, sarebbe infatti dovuto tornare nella capitale russa a bordo della Toyota guidata dalla figlia, ma all'ultimo momento aveva deciso di cambiare vettura.
L’AIEA VISITA LA CENTRALE NUCLEARE DI ZAPORIZHZIA - Il 31 agosto, a seguito dell'intensificarsi degli scontri per il controllo dell'area, una spedizione internazionale dell'Aiea guidata dal presidente dell'agenzia Rafael Grossi raggiunge la centrale nucleare di Zaporizhzhia con lo scopo di valutarne le condizioni e prevenire incidenti. Un gruppo di tecnici resta alla centrale come presidio.
SETTEMBRE
UCRAINI LANCIANO CONTROFFENSIVA NELLA REGIONE DI KHARKIV – Il 7 settembre le truppe ucraine lanciano una controffensiva a sorpresa nella regione di Kharkiv riprendendo il controllo, fra le altre, delle città di Izyum e Kupiansk, importanti siti logistici delle forze armate russe. A fine mese i soldati di Kiev liberano anche Lyman nel Donbass, conquistata dai russi nel corso della primavera.
UCCISO ITALIANO GIORGIO GALLI, COMBATTEVA CON FORZE UCRAINE – Il 20 settembre viene ufficializzata la morte del secondo italiano nel corso del conflitto fra Russia e Ucraina. Si tratta del 27enne italo-olandese Giorgio Galli, combatteva con la Legione internazionale di difesa dell’Ucraina.
PUTIN ANNUNCIA MOBILTAZIONE PARZIALE – Il 21 settembre il presidente russo Vladimir Putin annuncia la mobilitazione parziale. Lo stesso giorno il ministro della Difesa, Serghei Shoigu, ordina il richiamo alle armi di 300mila riservisti.
SABOTAGGIO GASDOTTO NORD STREAM - Il 27 settembre vengono scoperte tre falle sottomarine nelle condotte Nord Stream e Nord Stream 2.
L'ipotesi prevalente che inizia a farsi strada è che si sia trattato di un atto deliberato, finalizzato al sabotaggio. Inizialmente, Germania, Danimarca e Svezia mettono le basi per un'investigazione congiunta, che però non si materializza a causa del rifiuto svedese.
Le autorità giudiziarie svedesi confermano ufficialmente che il danno subito dai gasdotti Nord Stream e Nord Stream 2 sia stato dovuto a un atto di 'grave sabotaggio causato da una grande quantità di tritolo, quantificabile in centinaia di chili”.
PUTIN ANNETTE 4 REGIONI UCRAINE - Il 30 settembre il presidente russo Vladimir Putin, in una cerimonia al Cremlino, firma l'annessione unilaterale delle regioni ucraine di Donetsk, Lugansk, Kherson e Zaporizhzhia, a seguito di 'referendum' sull'adesione alla Russia orchestrati da Mosca nelle regioni stesse. Dopo i “referendum farsa” e “l'annessione illegale”, l'Ue adotta un nuovo pacchetto di sanzioni.
OTTOBRE
ATTACCO A PONTE KERCH IN CRIMEA - L'8 ottobre un'esplosione avviene sul ponte di Kerch in Crimea, il più lungo d'Europa e rotta chiave per le forniture delle forze russe in Ucraina, provocando il crollo in mare di parte di una sezione e il danneggiamento della linea ferroviaria.
MUORE FOREIGN FIGHTER ITALIANO ELIA PUTZOLU – La terza vittima italiana nel conflitto fra Russia e Ucraina è Elia Putzolu. Il 28enne viveva da tempo in Russia, a Rostov, e si era arruolato con le milizie filorusse del Donbass.
NOVEMBRE
MISSILE CADE IN TERRITORIO POLONIA, 2 MORTI - Il 15 novembre un missile colpisce il territorio della Polonia nel villaggio di Przewodow, vicino al confine con l'Ucraina, causando la morte di due persone. L'incidente avviene durante un attacco alle città ucraine e agli impianti energetici da parte della Russia. Si tratta del primo incidente del genere all'interno del territorio della Nato. Il mondo intero trema per qualche ora, poi, dopo le prime valutazioni, viene appurato che si trattava di un missile di difesa aerea delle forze ucraine lanciato per difendersi da quelli russi.
IL G20 DI BALI CONDANNA GUERRA IN UCRAINA NONOSTANTE DIVISIONI.
ZELENSKY PROPONE PIANO DI PACE – A Bali, in Indonesia, si tiene il G20. Nella dichiarazione finale la “maggior parte” dei membri condanna con forza la guerra in Ucraina, nonostante la vicinana di diversi Paesi a Mosca, sottolineando come il conflitto stia causando immense sofferenze umane e aggravando le fragilità esistenti nell'economia globale. In occasione del vertice il presidente ucraino Volodymyr Zelensky interviene da remoto proponendo un piano di pace in dieci punti.
DICEMBRE
RUSSIA LIBERA LA STAR DEL BASKET USA GRINER IN CAMBIO DEL RILASCIO DEL 'MERCANTE DI MORTE' VIKTOR BOUT – L’8 dicembre Russia e Usa effettuano uno scambio di prigionieri di alto livello: la cestista statunitense Brittney Griner in cambio del trafficante d'armi russo Viktor Bout.
Griner era stata arrestata all'aeroporto di Mosca pochi giorni prima dell'invasione russa dell'Ucraina, dopo essere stata fermata con l'accusa di detenzione di cartucce per sigarette elettroniche contenenti cannabis. Bout invece è uno dei più noti ‘mercanti di morte’ internazionali. A lui è ispirato il film di Hollywood 'Lord of war' con Nicolas Cage.
ZELENSKY ALLA CASA BIANCA DA BIDEN – Il 21 dicembre visita a sorpresa di Volodymyr Zelensky a Washington. Mantenuto segreto fino all'ultimo, il viaggio del presidente ucraino, il primo fuori dal Paese dall'inizio della guerra, ottiene un importante risultato: la conferma del sostegno americano alla resistenza ucraina, con l'annuncio di un nuovo pacchetto di aiuti militari da 1,8 miliardi di dollari, comprendente anche la prima batteria di missili Patriot.
GENNAIO
MISSILE RUSSO COLPISCE PALAZZO A DNIPRO, 45 MORTI – Il 14 gennaio un missile russo colpisce un palazzo nel centro di Dnipro. Il bilancio è di 45 morti, fra cui sei bambini, il più piccolo di 11 mesi.
MUORE IN ELICOTTERO MINISTRO INTERNO KIEV – Il 18 gennaio muore il ministro degli Interni ucraino Denys Monastyrskyi. L’uomo era a bordo di un elicottero che si schianta vicino a un asilo a Brovary, nella regione di Kiev. La destinazione finale del viaggio era la zona più calda del conflitto. Tra le vittime anche il suo vice Yevhen Yenin e il segretario di Stato del ministero degli Affari interni. Il bilancio complessivo dell’incidente è di 18 morti, fra loro anche tre bambini.
USA E GERMANIA UFFICIALIZZANO INVIO A KIEV DI CARRI ARMATI ABRAMS E LEOPARD – Il 25 gennaio il presidente americano, Joe Biden, ufficializza l’invio a Kiev di 31 carri armati Abrams.
Contestualmente, dopo aver a lungo tentennato, il cancelliere Olaf Scholz fa altrettanto per 14 tank tedeschi Leopard.
SIGNIFICATIVO RIMPASTO NEL GOVERNO UCRAINO E FRA I GOVERNATORI REGIONALI – Su indicazione del presidente Zelensky avviene un significativo rimpasto nel governo ucraino, in seguito ad accuse di corruzione verso alcuni funzionari. Saltano, fra gli altri, quattro viceministri, cinque governatori regionali e il vice capo della segreteria del presidente, Kyrylo Tymoshenko.
FEBBRAIO
L’ASSEDIO DI BAKHMUT – Sede di feroci combattimenti da mesi, la città di Bakhmut, nel Donbass, è il nuovo epicentro del conflitto fra forze russe, con i mercenari della compagnia Wagner, e ucraine. Si combatte casa per casa per questo centro, snodo cruciale per le linee di rifornimento da una parte e dall’altra.
ACCORDO ITALIA-FRANCIA PER INVIO SISTEMA DIFESA AEREA SAMP-T ALL’UCRAINA – Roma e Parigi annunciano l’accordo per l’invio del sistema di difesa aerea italo-francese Samp-T all’Ucraina.
URSULA VON DER LEYEN E DELEGAZIONE COMMISSIONE UE A KIEV – La presidente della Commissione Ue, Ursula Von der Leyen, e una delegazione di commissari, fra cui anche l’italiano Paolo Gentiloni, si reca in visita a Kiev. “L’Ue sostiene l’Ucraina più fermamente che mai”, dichiara Von der Leyen.
ZELENSKY A LONDRA, PARIGI E BRUXELLES – L’8 febbraio, a sorpresa, il presidente ucraino Volodymyr Zelensky va in visita a Londra, dove incontra re Carlo e il premier Rishi Sunak. Poi pronuncia un discorso davanti al parlamento dove chiede l’invio di aerei da combattimento per difendere la libertà dell’Ucraina. Successivamente Zelensky viene invitato a Parigi per un incontro con Emmanuel Macron e il cancelliere tedesco Olaf Scholz, che scatena l’irritazione italiana. Il 9 febbraio il leader di Kiev arriva a Bruxelles per partecipare al Consiglio europeo e a una seduta straordinaria della plenaria del Parlamento europeo. “La pace sarà possibile solo quando vinceremo”, dichiara.
A MONACO DI BAVIERA LA CONFERENZA SULLA SICUREZZA, CINA PREANNUNCIA UN PIANO DI PACE – Alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco di Baviera la Cina afferma che la guerra in Ucraina “deve finire” e che presto Pechino proporrà una sua iniziativa per superare la crisi. Gli Usa accusano la Russia di crimini di guerra.
JOE BIDEN A SORPRESA A KIEV - Il 20 febbraio Joe Biden si reca a sorpresa a Kiev, in una visita storica e senza precedenti. 'Un anno dopo l'Ucraina resiste, la democrazia resiste', le parole pronunciate dal presidente americano a fianco di Volodymyr Zelensky. Biden attacca poi frontalmente Vladimir Putin, che 'pensava di poterci sconfiggere, ma sta fallendo'. Il presidente Usa annuncia un altro mezzo miliardo di dollari di nuovi aiuti a Kiev.
PUTIN PARLA AD ASSEMBLEA RUSSA E ANNUNCIA SOSPENSIONE TRATTATO START - A 24 ore dalla visita di Joe Biden a Kiev, il presidente russo Vladimir Putin prende la parola davanti all'Assemblea federale e annuncia la sospensione della partecipazione della Russia al trattato Start per la riduzione degli arsenali nucleari. Il leader del Cremlino continua ad attaccare l'Occidente e l'Ucraina, considerati i 'veri responsabili' della guerra in corso, e conferma la 'prosecuzione dell'operazione militare speciale'. Biden interviene da Varsavia rimarcando il sostegno Usa e occidentale a Kiev.
GIORGIA MELONI IN VISITA A KIEV - Il 21 febbraio Giorgia Meloni arriva in visita a Kiev per ribadire 'il pieno sostegno dell'Italia di fronte all'aggressione russa', l'Italia 'non intende tentennare e non lo farà'. Meloni annuncia inoltre di voler lavorare a una conferenza sulla ricostruzione da tenersi in aprile. Nel corso della conferenza stampa congiunta, il presidente ucraino Volodymyr Zelensky attacca Silvio Berlusconi per averlo criticato: 'Credo che la sua casa non sia mai stata bombardata dai missili e non gli siano mai arrivati i carri armati in giardino'.
La guerra in Ucraina e l’occasione mancata dell’autonomia strategica europea. Marco Carnelos il 24 Febbraio 2023 su Inside Over.
Questo articolo è la traduzione italiana di un articolo apparso sul ventesimo numero del magazine inglese di Inside Over, “The Perfect Storm”, dedicato alle conseguenze di un anno di guerra in Ucraina. Il magazine intero è leggibile a questo link, l’articolo in inglese è invece disponibile qui.
L’invasione russa dell’Ucraina il 24 febbraio 2022 verrà ricordata tra gli eventi cardine del XXI secolo.
Ad oggi non vi è un aspetto delle relazioni internazionali o dell’economia globale che non sia stato toccato da questo conflitto e dalle reazioni che ha provocato. Appena tre decenni dopo la caduta del muro di Berlino, si prospetta una Guerra Fredda 2.0, con un riallineamento geopolitico globale che avrà impatto su commercio, filiere e reti finanziarie in tutto il mondo.
Il celebre antropologo e storico francese Emmanuel Todd sostiene addirittura che sia cominciata la Terza Guerra Mondiale, aggiungendo che le leadership coinvolte mostrano una preoccupante “vertigine nichilista”.
A Mosca il conflitto viene percepito come una questione esistenziale per la Russia; tuttavia, vi sono segnali che potrebbe trattarsi di una questione esistenziale anche per le democrazie occidentali. Il Segretario Generale della NATO ha persino affermato che il vero rischio non sia un’escalation, ma una vittoria della Russia.
Chiunque sarà a prevalere otterrà un ruolo maggiore nel dettare le regole del futuro ordine mondiale, e in particolare se quest’ultimo continuerà ad essere sotto l’esclusiva leadership statunitense o se si sposterà verso un vero e proprio sistema multipolare.
In seguito a questo conflitto, nulla potrà più essere come prima; ma per le relazioni transatlantiche, l’invasione russa dell’Ucraina è stata una vera panacea.
Nel 2019, l’allora Presidente degli Stati Uniti Donald Trump aveva minacciato di ritirare gli Stati Uniti dalla NATO se i suoi altri membri non avessero incrementato la propria spesa militare. Fece seguito il Presidente francese Emmanuel Macron, il quale sostenne che “Stiamo assistendo alla morte cerebrale della NATO” e che “L’alleato degli Stati Uniti sta voltando le spalle a questioni strategiche”.
Nell’estate del 2021 poi, Stati Uniti e NATO si ritirarono rovinosamente dall’Afghanistan. L’umiliante fuga da Kabul suscitò seri dubbi sull’Alleanza e fomentò forti tensioni a livello transatlantico.
Oggi la situazione è cambiata radicalmente, e per questo dovremmo tutti ringraziare la decisione sconsiderata di Vladimir Putin. Se si dovesse pensare ad un modo per celebrare la rinascita delle relazioni transatlantiche, non ci sarebbe niente di meglio di un busto del leader russo collocato in maniera provocatoria all’interno del salone del Consiglio del Nord Atlantico a Bruxelles, con sotto la scritta “L’uomo che ha salvato l’Alleanza Atlantica”.
Oggi la NATO e l’Unione Europea stanno fronteggiando la Russia in Ucraina in maniera coesa, fornendo enorme sostegno economico e militare, e anche attraverso le sanzioni più dure mai imposte alla Russia. Quest’ultime includono l’interruzione di tutte le forniture di petrolio e gas in Europa, il congelamento di circa 350 miliardi di dollari in fondi russi depositati presso banche occidentali, ed il significativo aumento della spesa militare dei Paesi europei, con la Germania che ha annunciato un aumento senza precedenti di 100 miliardi di euro. Se l’espansione orientale della NATO verso l’Ucraina si è momentaneamente arrestata, quella verso nord sembra proseguire senza intoppi, con gli imminenti ingressi da parte della Finlandia e, se la Turchia acconsentirà, della Svezia.
La coraggiosa visita del Presidente Biden a Kiev il 20 febbraio è stata il momento più iconico di questa sequenza di successi.
Non si dovrebbe sorvolare su come la guerra abbia suscitato reazioni che vanno ben oltre il continente europeo e l’alleanza transatlantica.
Lo scorso maggio, l’Alleanza Atlantica lanciò il suo nuovo Strategic Concept dichiarando che “La Federazione Russa è la minaccia più significativa e diretta alla sicurezza degli Alleati, alla pace e alla stabilità dell’area euro-atlantica… [e alle] regole dell’ordine internazionale”.
Anche la Cina è stata inclusa nel Concept per la prima volta, rimarcando come “[le sue] ambizioni
dichiarate e politiche coercitive sfidano i nostri interessi, la nostra sicurezza ed i nostri valori. […] Tentano di sovvertire le regole dell’ordine internazionale. […] Il rafforzamento della collaborazione strategica tra la Repubblica Popolare Cinese e la Federazione Russa […] mira ad erodere l’ordine internazionale”.
Un’evoluzione politica radicale: se la Russia era il principale fornitore energetico dell’Europa, la Cina è ancora il più grande partner commerciale dell’Unione Europea, nonché degli Stati Uniti.
Da allora, sia la NATO che l’Unione Europea hanno adottato non solo la posizione degli Stati Uniti verso la Russia, ma anche le loro crescenti preoccupazioni nei confronti della Cina. È tutto costruito sulla narrativa dell’Amministrazione Biden che ha incorniciato l’attuale momento geopolitico come il punto di flesso per un epico confronto tra regimi democratici ed autocratici.
Per fronteggiare le autocrazie di Russia e Cina, la rinnovata collaborazione transatlantica è anche pronta a digerire una maggiore e pericolosa coordinazione tra Mosca e Pechino, come non accadeva dal culmine della Guerra Fredda negli anni ’50 e ’60. Sembra che la NATO e l’Unione Europea stiano abbandonando la globalizzazione per come l’abbiamo conosciuta negli ultimi trent’anni. Le filiere tradizionali compresa quella energetica stanno cambiando o venendo riconsiderate, le rotte commerciali reindirizzate, ed espressioni come near-shoring, re-shoring e de-coupling vengono ora utilizzate di frequente nel gergo economico e commerciale.
Sebbene sia l’esito che il costo finale di questo cambiamento geopolitico siano ancora incerti, non c’è dubbio sul fatto che l’Europa abbia già pagato il prezzo più caro.
La diversificazione di forniture energetiche da quella russa sta presentando conti salati per i consumatori europei e per la competitività delle loro economie. Le sanzioni ai danni della Russia, insieme a quelle che incombono sulla Cina, rischiano di mettere tutte le filiere sotto forte pressione e di interrompere una relazione commerciale sinora così tanto proficua. In mezzo alle conseguenze involontarie di questo cambiamento politico rientrano anche l’aumento dell’inflazione e quello dei tassi di interesse, che potrebbero entrambi cambiare radicalmente gli schemi economici degli ultimi quattro decenni.
Il Chip Act, adottato dall’Amministrazione Biden lo scorso ottobre per fermare la vendita di semiconduttori alla Cina, potrebbe suscitare una considerevole guerra tecnologica, che in qualche modo potrebbe a sua volta rallentare l’attuale corso della Quarta Rivoluzione Industriale, senza menzionare le crescenti tensioni con Taiwan.
Il cosiddetto IRA (Inflation Reduction Act), recentemente adottato da Washington per spronare la transizione ecologica, sta creando forti tensioni commerciali con l’Unione Europea.
Sfortunatamente, nonostante tutte le previsioni occidentali, le sanzioni non hanno ancora messo la Russia in ginocchio. Secondo il Fondo Monetario Internazionale, nel 2024 si prevede addirittura una crescita dell’economia russa del 2,1%, maggiore rispetto a quella di Germania e Regno Unito.
Inoltre, le sanzioni contro Mosca sono state adottate solo dalle democrazie occidentali e da pochi altri Paesi asiatici che la pensano allo stesso modo.
Al consolidamento dell’alleanza transatlantica non è dunque corrisposto un consolidamento della leadership mondiale da parte del cosiddetto Global West. La convinzione di vecchia data delle democrazie occidentali che il mondo ruoti intorno ad esse è stata messa in discussione, ed un mondo diverso sta prendendo forma. Sebbene in maniera indistinta, è il cosiddetto Global Rest a sembrare in ascesa, sviluppando una propria coscienza geopolitica. Un crescente numero di economie emergenti si stanno estraniando da narrative, visioni e politiche occidentali, nonché dai sistemi finanziari globali strettamente legati all’Occidente; la de-globalizzazione è imminente, e anche la de-dollarizzazione.
Una lunga lista di Paesi — soprattutto tradizionalmente alleati al Global West — non sta più mostrando lo stesso affetto per quell’ordine mondiale a matrice statunitense che dal 1945 ha determinato le politiche globali. Algeria, Argentina, Egitto, Indonesia, Nigeria, Arabia Saudita, Turchia ed Emirati Arabi Uniti, giusto per citarne alcuni, percepiscono tale ordine come fazioso, talvolta ipocrita, e spesso caratterizzato da due pesi e due misure, con regole che sembrano formalmente valide per tutti tranne che per una cerchia ristretta di Paesi occidentali. Queste economie emergenti si stanno mettendo in fila per entrare a far parte del Global Rest, dei BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica), il vero alter ego globale del G7.
Non c’è dubbio che la Russia sia stata efficacemente isolata dal Global West, e nemmeno che l’alleanza transatlantica si sia vigorosamente rafforzata; tuttavia, ci sono anche sconfortanti segnali di come il Global West appaia sempre più isolato dal Global Rest. Per prevalere sulle autocrazie occorre conquistare i cuore e le menti di tutto il mondo, non solo degli elettori in Occidente.
Malgrado la meritata condanna e punizione della Russia, il conflitto avrebbe potuto essere sfruttato meglio dall’Unione Europea come una chance unica per dare contenuto alla propria autonomia strategica ampiamente sostenuta, spingendo di più per delle soluzioni negoziate mantenendo al tempo stesso il supporto all’Ucraina.
L’Unione Europea ha invece optato per essere il junior partner degli Stati Uniti ed un’istituzione di traino nell’area di Polonia e Baltico. È sconcertante quanto persino il Regno Unito, che ha recentemente abbandonato l’Unione Europea, a Bruxelles sembri godere rispetto a prima di un’influenza politica maggiore.
Le relazioni transatlantiche si sono rafforzate con discreto successo; un risultato fondamentale, considerata l’incertezza del futuro che si prospetta.
Forse si sarebbero potute rafforzare in una maniera migliore.
Se il prezzo che l’Europa ha pagato ne varrà la pena lo scopriremo soltanto negli anni a venire.
Dossier: Un anno di guerra in Ucraina. Mauro Indelicato il 20 Febbraio 2023 su Inside Over.
Tutte le fasi della guerra in Ucraina
INDICE DOSSIER
Tutte le fasi della guerra in Ucraina
Cosa succede a est? La guerra nel Donbass
Dall'occupazione alla riconquista: cosa succede a Kherson
Linee rosse e ipotesi di riconquista. La Crimea al centro della guerra
Ecco dove si decide la guerra in Ucraina
Il populismo di guerra di Zelensky
Com'è cambiata la corte di Putin dall'inizio della guerra
Corruzione, purghe e dimissioni: le lotte per il potere in Ucraina
Il volto della guerra: cosa ci ha insegnato
La guerra dei droni nei cieli dell'Ucraina
Missili, tank e jet: così la guerra è diventata un banco di prova per le armi
Eserciti di Russia e Ucraina a confronto: cosa ha insegnato la guerra
L'industria bellica globale dopo la guerra in Ucraina
Le spie anglosassoni al servizio di Kiev
Tutti gli errori e i problemi dell'esercito russo nella guerra in Ucraina
Dalla maskirovka all'impegno del Wagner: un anno di strategie russe in Ucraina
Un anno di guerra in Ucraina: ecco cosa non abbiamo capito
Sabotaggi dietro le linee nemiche. Così Kiev colpisce la Russia
La guerra in Ucraina e la nuova logica dei blocchi
La guerra in Ucraina: rischi e opportunità per la Cina
Turchia, Israele e Vaticano: a che punto è la mediazione tra Russia e Ucraina
La guerra e lo smarrimento Ue: così la Nato si è “ripresa” l’Europa
La guerra in Ucraina e la partita italiana nella Nato
Un anno di guerra: chi ha davvero aiutato l'Ucraina in Italia
Le armi dell'Italia a Kiev: cosa abbiamo inviato
La partita energetica a un anno dallo scoppio della guerra in Ucraina
Con l’Ucraina ma divisa sugli armamenti a Kiev: il paradosso della sinistra in Italia
La guerra in Ucraina inizia il 24 febbraio 2022. Le operazioni militari vengono avviate dalla Russia subito dopo un discorso, trasmesso alla Tv di Stato poco prima dell’alba, pronunciato dal presidente russo Vladimir Putin. È il secondo importante discorso tenuto in quei giorni. Il primo, trasmesso la sera del 21 febbraio, viene visto come vero preambolo del conflitto per via della comunicazione della scelta di riconoscere le due repubbliche separatiste filorusse di Donetsk e Lugansk.
Il discorso del 21 febbraio 2022
Le due entità cioè sorte nel 2014, a seguito dell’arrivo a Kiev di un governo filo occidentale dopo la rivolta di Euromaidan. I separatisti controllano porzioni della regione nota con il nome di Donbass, lì dove la maggior parte della popolazione viene segnalata come russofona. I disordini del 2014 sono parzialmente frenati dagli accordi di Minsk, siglati tra il 2014 e il 2015. Con quel documento, Mosca e Kiev si impegnano nel far rispettare il cessate il fuoco e a lavorare per la creazione di un’Ucraina federale, dove il Donbass è destinato ad avere maggiore autonomia. Con il riconoscimento delle due repubbliche, la Russia rompe la linea tracciata dagli accordi di Minsk. E tre giorni dopo, rispondendo a formali richieste di aiuto da parte di Donetsk e Lugansk, inizia l’operazione militare contro l’Ucraina.
Ore 5:51 del 24 febbraio: Mosca annuncia l’avvio dell’operazione militare
Il 23 febbraio, nel cuore della tarda serata, arriva la richiesta ufficiale, da parte delle repubbliche di Donetsk e Lugansk, di aiuto alla Russia. I due governi riconosciuti dal Cremlino, in stato di emergenza già dal 17 febbraio, dichiarano di temere un attacco ucraino. Si inizia a capire a livello internazionale che il conto alla rovescia prima dell’attacco russo è prossimo allo zero.
Sono le ore 3:51 del 24 febbraio in Italia, le 5:51 a Mosca, quando Vladimir Putin ricompare in tv. Lo scenario è lo stesso del discorso del 21 febbraio, per molti la televisione russa sta solo trasmettendo un altro stralcio del video registrato pochi giorni prima. Uno stralcio però destinato a cambiare la storia. Putin infatti annuncia ufficialmente di aver iniziato un’operazione militare in Ucraina, volta a preservare la sicurezza della popolazione russofona del Donbass.
Il discorso del 24 febbraio
Ma negli obiettivi si spinge anche oltre: il presidente russo parla anche di demilitarizzazione e soprattutto “denazificazione” dell’Ucraina. Ammonendo l’occidente di non intromettersi, pena “una risposta ancora mai vista nella storia”. Mentre Putin è in onda, a Kiev si sentono le prime esplosioni. La città non comprende subito di essere in guerra: fino alla prima mattinata del 24 febbraio il traffico è ancora intenso, gli uffici sono aperti. Il suono delle sirene antiaeree riporta tutti alla realtà. Il conflitto è appena iniziato.
Le prime operazioni via terra
Le prime immagini che arrivano dall’Ucraina mostrano soprattutto dei bombardamenti. Vengono attuati a Kiev, a Kharkiv, a Odessa, a Mariupol, persino a Leopoli, principale città della parte occidentale del Paese, lontana geograficamente e non solo dal Donbass. Video ufficiali russi, ma anche video amatoriali ucraini mostrano le esplosioni e le deflagrazioni provocate dai raid. Anche i giornalisti presenti in Ucraina annotano i continui allarmi aerei e la presenza di mezzi russi sui cieli del Paese.
Ma dopo le prime luci dell’alba si capisce subito che l’operazione russa non è solo aerea. Il ministero della Difesa ucraino denuncia l’ingresso di truppe russe dal confine con la Bielorussia, dalle frontiere orientali e dalla Crimea. Un attacco a tutto tondo quindi da nord, da est e da sud. Si parla anche di un possibile sbarco anfibio a Odessa e Mariupol, ma la notizia viene smentita.
Le forze russe ai confini dell’Ucraina prima dell’attacco (Gennaio 2022)
La prima vera operazione militare segnalata è quella di Gostomel, lì dove sorge il principale aeroporto a nord di Kiev. I russi inviano qui paracadutisti, l’obiettivo sembra essere quello di conquistare subito lo scalo e farne una base per i soldati entrati dalla Bielorussia e proiettati verso la capitale ucraina. A metà mattinata l’aeroporto viene dato per conquistato dalle forze di Mosca. In realtà ne nasce una cruenta battaglia dall’esito incerto: per giorni le due parti rivendicano il controllo della zona. Ad ogni modo, i russi sembrano sorpresi dalla reazione ucraina a Gostomel. Ai parà russi non riesce infatti l’effetto sorpresa, mesi dopo viene rivelato da alcun fonti di intelligence che gli Usa, a conoscenza dei piani di Mosca, avvisano il governo ucraino dell’operazione attorno lo scalo.
Contestualmente, a poco più di 100 km di distanza verso nord, i russi entrati dalla Bielorussia marciano verso Kiev. Nella serata del 24 febbraio viene conquistata l’ex centrale nucleare di Chernobyl, aprendo così la strada verso l’area a nord della capitale ucraina.
Da est invece i russi premono subito su Kharkiv. La seconda città del Paese ha al suo interno un’importante presenza di popolazione russofona. Mosca spera di fare leva su questo per avere dalla propria parte i cittadini. I soldati inviati dal Cremlino non puntano solo su Kharkiv, ma anche sulle ampie zone di campagna dell’oblast di Lugansk, considerato dall’omonima repubblica separatista come parte integrante del proprio territorio.
L’altra direttrice di attacco segnalata il 24 febbraio è quella meridionale. Le truppe di Mosca entrano dalla Crimea, penisola annessa nel 2014 subito dopo la rivolta di Piazza Maidan. Si dirigono verso nord conquistando subito Nova Kakhova e spingendo a est verso Melitopol e Mariupol e a ovest verso Kherson. Qui l’avanzata russa è più lineare e importante che altrove. Il 3 marzo la bandiera russa sventola già su Kherson, primo capoluogo di regione conquistato dalle forze di Putin.
L’assedio di Kiev e i tentativi di prendere Kharkiv
Anche se il fronte più importante, sotto il profilo politico, sembra quello del Donbass, in realtà i russi provano da subito ad arrivare nella capitale ucraina. L’obiettivo, mai ammesso ufficialmente dal Cremlino, è mozzare la testa allo Stato ucraino. E quindi mettere i piedi a Kiev e porre fine all’esperienza politica del governo guidato dal presidente ucraino Volodymyr Zelensky. Quest’ultimo, a partire dal 24 febbraio, si presenta costantemente in video su Telegram e sui social con una maglietta che ricorda l’uniforme militare. Zelensky chiarisce di non voler lasciare Kiev e di continuare a guidare il governo e le istituzioni ucraine assieme ai suoi fedelissimi.
La capitale viene bersagliata dai raid, soprattutto in periferia. Via terra, avanzano le truppe entrate dalla Bielorussia e dal nord, tramite le regioni di Sumy e Chernihiv. I militari di Mosca provano una manovra a tenaglia: dal lato nord occidentale si prova ad avanzare dal quadrante di Gostomel, Bucha e Irpin, mentre dal lato nord orientale l’obiettivo è avanzare da Sumy e prendere Brovary.
Nel primo caso, i russi non riescono a raggiungere il centro di Irpin, ultima località prima dei confini amministrativi della città di Kiev. Nel secondo, le truppe inviate da Putin hanno difficoltà nella gestione delle retrovie per via del mancato pieno controllo del territorio, caratterizzato da foreste che appaiono terreno fertile per le imboscate ucraine. È in questo settore che i russi subiscono le prime importanti perdite della guerra.
Occorre poi considerare anche la reazione popolare. Nonostante una popolarità calante per Zelensky prima del conflitto, l’attacco russo determina l’appoggio incondizionato della popolazione all’esercito e alle istituzioni ucraine. A Kiev vengono organizzate barricate in attesa dell’arrivo dei russi, il parlamento autorizza l’applicazione della legge marziale con conseguente inizio della mobilitazione. In molti si arruolano e vengono creati anche gruppi di difesa territoriale.
Emblematica la situazione a Kharkiv. La presenza di una grande comunità russofona non coincide con l’appoggio della popolazione all’operazione militare russa. Il 27 febbraio le truppe di Mosca sono alle porte della seconda città ucraina, ma vengono respinte dopo una feroce battaglia in periferia. Nessuno tra i cittadini dà manforte ai soldati del Cremlino, non c’è alcun appoggio popolare verso le truppe avversarie. Kharkiv rimane in mano a Kiev e viene costantemente bombardata anche in centro. Circostanza che amplifica il sostegno dei cittadini ai soldati ucraini. E che crea forse per la prima volta una forte identificazione della città con la causa ucraina.
Le truppe russe avanzano però a sud di Kharkiv. Tra febbraio e aprile vengono prese alcune località strategiche, considerate come via di accesso al Donbass. Tra queste figurano Kupyansk, Izyum e Lyman.
Mappa di Alberto Bellotto
30 marzo: Mosca annuncia il ritiro dall’area di Kiev
Dopo un mese di guerra, la situazione sul campo vede le truppe russe avanzare soprattutto a sud. La presa di Kherson e dell’area compresa tra la Crimea e il fiume Dnepr, permette a Mosca di dilagare verso Melitopol e Berdiansk. In questo modo l’intera costa del Mar d’Azov è in mano russa e i soldati iniziano ad assediare Mariupol. Ossia uno dei principali obiettivi militari e politici, essendo la città inclusa all’interno dell’oblast di Donetsk e rivendicata dai separatisti.
A Kiev invece i russi vanno incontro a un pesante stallo. Le vie di comunicazione tra il confine ucraino e l’area della capitale sono di difficile controllo: saltano i rifornimenti, vengono uccisi diversi importanti generali, oltre che a numerosi soldati. Molti di questi, come ricostruito inseguito con il ritrovamento dei documenti, sono giovanissimi.
Nel frattempo, anche con la mediazione della Turchia, si apre un canale di dialogo. Il 30 marzo due delegazioni russe e ucraine si incontrano a Istanbul, alla presenza del presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Proprio quel giorno Mosca annuncia un riposizionamento dei soldati. Alle proprie truppe viene dato l’ordine di lasciare l’area a nord di Kiev, comprese le proprie postazioni nelle regioni di Chernihiv e Sumy. Se il Cremlino parla di riposizionamento, l’Ucraina invece usa il termine ritiro e parla di prima vittoria contro il nemico.
Tra la fine di marzo e i primi giorni di aprile, i soldati russi rientrano nelle postazioni in Bielorussia e in territorio russo. Gostomel, Bucha, Irpin, Brovary, Borodyanka, Chernobyl, vengono evacuate e ritornano nel pieno possesso delle forze ucraine. Kiev denuncia massacri e fosse comuni, soprattutto nella località di Bucha. Zelensky accusa la Russia, alcune inchieste giornalistiche curate anche dal New York Times parlano di uccisioni contro civili effettuate da alcuni battaglioni provenienti dall’oriente russo. Mosca smentisce e parla di mera propaganda ucraina.
La città di Kiev intanto ad aprile riesce a tornare lentamente alla normalità. Molte barricate vengono tolte, molti cittadini rientrano a casa ed escono dai rifugi di fortuna. La presenza della guerra però è resa palese dai continui allarmi aerei che scuotono la metropoli.
Gli occhi si spostano su Mariupol
Nel secondo mese di guerra tutte le attenzioni sono su Mariupol. La città costituisce il principale porto ucraino sul Mar d’Azov ed è uno degli obiettivi principali della campagna avviata dai russi. Già nel 2014 il suo territorio è passato di mano più volte tra Kiev e i separatisti, fino alla definitiva riconquista da parte ucraina. Anche per questo Mosca punta molto sulla presa della città.
Mariupol risulta circondata già dai primi giorni del conflitto e questo grazie alla rapida avanzata delle truppe russe sul fronte meridionale. Inoltre, separatisti e regolari russi riescono tra febbraio e marzo ad avanzare da est stringendo i soldati ucraini in una morsa. Tra le forze di Kiev, figurano i combattenti del Battaglione Azov. Si tratta di uno dei gruppi nazionalisti più noti nel Paese, attivo già dal 2014 e formato da movimenti che spesso non hanno nascosto simboli neonazisti. Mosca, così come anche alcune organizzazioni internazionali, accusano il gruppo di azioni criminali compiute a danno dei separatisti nel 2014.
Il Battaglione ha sede proprio a Mariupol e anche se dal 24 febbraio i comandanti iniziano a inviare propri membri in altre regioni dell’Ucraina, è in questa città che Azov mantiene il più solido radicamento territoriale. L’impressione quindi è che all’interno della città ci si prepari a una cruenta resa dei conti.
La Russia, oltre ai propri soldati regolari e ai separatisti, schiera a Mariupol anche i combattenti ceceni inviati dal presidente ceceno Ramzan Kadyrov. Presenti anche a Kiev, dopo l'abbandono delle aree attorno alla capitale i ceceni vengono dirottati sulle sponde del Mar d'Azov. La loro esperienza nei combattimenti urbani da subito appare decisiva.
La vera battaglia ha inizio il 18 marzo, quando i russi conquistano l'aeroporto. Ma già da prima Mariupol capisce di essere destinata al ruolo di vera martire del conflitto. I bombardamenti sono infatti incessanti e il 12 marzo un raid colpisce il teatro dell'opera, uno dei simboli della città e in quel momento rifugio per tante famiglie scappate da casa. La situazione umanitarie scivola velocemente verso il collasso. Manca l'acqua, manca la luce, il cibo arriva a singhiozzo. Si prova a far evacuare i civili, ma i corridoi umanitari concordati tra Kiev e Mosca spesso falliscono con accuse reciproche da entrambe le parti.
È in questo terribile contesto che dalla seconda metà di marzo e fino all'intero mese di aprile va avanti la battaglia urbana. I russi avanzano quartiere per quartiere e isolato per i solato. I ceceni conquistano ogni singolo palazzo delle zone nevralgiche, a volte anche entrando negli edifici con grandi scale di legno. Tanto è vero che viene coniato il termine di “battaglia medievale” di Mariupol.
La svolta arriva il 21 aprile. Quel giorno Putin e il ministro della Difesa, Sergej Shoigu, si incontrano al Cremlino con il titolare del dicastero che annuncia al presidente la conquista della città. Manca però soltanto una zona: è quella delle acciaierie Azovstal. Di proprietà dell'oligarca ucraino Rinat Akhmetov, l'impianto prima della guerra era il più grande nel suo genere in Europa. Al suo interno si trincerano gli ultimi combattenti del Battaglione Azov decisi a non arrendersi. Putin dispone l'accerchiamento dell'acciaieria e la sospensione dei combattimenti. Una situazione destinata ad andare avanti per un mese.
Dopo molteplici trattative, mediate dalle Nazioni Unite e soprattutto dalla Turchia, si decide per l'evacuazione dei membri di Azov all'interno dell'acciaieria. Le loro condizioni sono al limite, molti sono feriti e ustionati, senza cure e senza cibo da giorni. Mosca parla di resa, Kiev di azione volta a limitare i danni. Il 22 maggio l'evacuazione viene completata: i combattenti ucraini vengono portati nel territorio di Donetsk in attesa di processi o di scambi di prigionieri. Mariupol viene considerata definitivamente conquistata dai russi.
Dalla conquista di Mariupol alla presa di Severodonetsk e Lysychansk
La presa della città sul Mar d'Azov è un punto importante per Mosca. Il prezzo pagato è però salato: sono morti migliaia di combattenti, la città è in rovina e soltanto il 10% degli edifici è agibile. Ad ogni modo, nei piani del Cremlino c'è adesso l'avanzata in altre parti del Donbass. A partire dalla città di Severodonetsk e della “gemella” vicina Lysychansk.
Severodonetsk, in particolare, rappresenta l'obiettivo politico più importante. Con la caduta di gran parte dell'oblast di Lugansk in mano ai separatisti nel 2014, è qui che Kiev ha spostato il capoluogo regionale. È quindi una delle città più strategiche del Donbass in mano all'Ucraina.
L'avanzata verso Severodonetsk ha luogo tra fine febbraio e aprile. I 30 km che separano la città dalla linea di contatto con i separatisti vengono lentamente conquistati dai russi, i quali avanzano sia da Lugansk che dai propri confini. A fine aprile viene conquistata la città di Rubizne, vera porta di accesso verso Severodonetsk. La caduta di questa località, segna l'inizio della prima fase di assedio del capoluogo provvisorio dell'oblast di Lugansk.
Tuttavia con le proprie truppe ancora impegnate a Mariupol, Mosca decide di rinviare l'assalto finale. A dare manforte ai soldati del Cremlino, ci sono sia i separatisti che ancora una volta anche i ceceni. Così come vengono segnalati mercenari della Wagner, l'agenzia di contractors di Evgenij Prigozin. Per gli ucraini, oltre ai soldati regolari, ci sono membri del Battaglione Donbass e alcuni combattenti stranieri.
Nove giorni dopo la definitiva caduta di Mariupol, inizia la battaglia urbana per la presa di Severodonetsk. Ad annunciarlo è lo stesso governatore ucraino di Lugansk, Sergy Hayday. I combattimenti vanno avanti per l'intero mese di giugno, ma già entro la prima decade si intuisce che la battaglia volge nettamente a favore dei russi. Oltre che per Severodonetsk, si combatte anche per la vicina Lysychansk, strategica in quanto situata su una collina da cui si può avere il controllo del fuoco delle zone limitrofe.
Il 20 giugno i russi annunciano la presa del centro di Severodonetsk, alcuni combattenti ucraini sono rifugiati e assediati all'interno dello stabilimento chimico Azot. Da Kiev il 24 giugno arriva l'ordine agli ultimi soldati ucraini rimasti di indietreggiare ed evitare ulteriori perdite. Severodonetsk cade quindi definitivamente nelle mani di Mosca, sorte toccata il 2 luglio successivo a Lysychasnk.
Lo stallo estivo
A quel punto Mosca sembra nelle possibilità di attaccare gli ultimi due grandi obiettivi del Donbass: Kramatorsk e Slovjansk. Si tratta delle ultime due grandi città della regione in mano a Kiev. L'avanzata da Izyum e Lyman da nord e da Severodonetsk da est, pone i russi nella possibilità di oltrepassare il fiume Siversky Donetsk e proiettarsi verso le due località.
Tuttavia l'avanzata russa si arresta. Le forze russe e filorusse sembrano voler in questa fase consolidare le proprie conquiste a est e rinforzare le proprie linee di rifornimento. Si parla più volte di una possibile offensiva su Odessa, città pesantemente bombardata già da febbraio ma mai raggiunta né via mare e né via terra. L'offensiva di Mosca si arresta infatti poco più a ovest di Kherson e non riesce a sfondare a Mykolaiv.
Anzi, gli ucraini più volte durante l'estate parlano di un possibile contrattacco in questo settore. Il governo di Kiev più volte annuncia di essere pronto a passare da un'azione meramente offensiva a una offensiva. I raid su Kherson e l'arrivo di truppe nella zona sembrano confermare questa intenzione. Per tutta l'estate tuttavia non avvengono importanti cambiamenti sul fronte.
Il primo vero contrattacco ucraino
Con l'arrivo di settembre tuttavia, Kiev prova una manovra a sorpresa nell'est del Paese e non a Kherson. Le informazioni ricevute dai servizi segreti occidentali, così come gli aiuti militari di molti Paesi della Nato, permettono all'Ucraina di pianificare un'azione nell'area a sud di Kharkiv. Tra il 7 e l'8 settembre i militari ucraini si muovono in direzione di Balakleya, prendendo il centro della cittadina. Da qui poi, i soldati si spingono sempre più verso est riconquistando Kupiansk e costringendo i russi a ripiegare a est del fiume Oskil.
Il contrattacco ha successo: Kiev è a conoscenza delle scarne difese russe nell'area e l'effetto sorpresa riesce pienamente nel suo intento. Gli ucraini avanzano così anche verso Izyum e Lyman, città riconquistate nel giro di pochi giorni. Contestualmente, le truppe di Kiev si muovono anche attorno Kharkiv, allontanando definitivamente i russi dalla seconda città del Paese. In 5 giorni, gli ucraini riprendono l'intero oblast di Kharkiv e allontano i russi da Slovjansk e Kramatorsk. Per Mosca una disfatta che costringe, da qui a poche settimane, il presidente Putin ad annunciare una mobilitazione parziale.
Gli ucraini riprendono Kherson
I piani per l'attacco su Kherson non vengono però accantonati. Sfruttando l'inerzia del momento e l'inferiorità numerica dei russi nella regione, il 4 ottobre i soldati di Kiev sfondano il fronte a nord del capoluogo e, in particolare, nella parte a ovest del Dnepr. I russi preparano una lenta e ordinata ritirata, con gli ucraini che avanzano verso Kherson per tutto il mese di ottobre.
Non si hanno grandi combattimenti in questo settore, proprio perché Mosca opta per un ritiro sapendo di non poter difendere a lungo il capoluogo dell'oblast. Una provincia, è bene ricordare, da alcune settimane considerata dalla Russia annessa al proprio territorio assieme a quelle di Zaporizhzhia, Donetsk e Lugansk. Il 12 novembre, le truppe ucraine entrano così nel centro di Kherson, riprendendo ufficialmente la città.
I bombardamenti russi sulle centrali elettriche
La risposta russa alla controffensiva ucraina arriva con dei massicci bombardamenti su tutto il Paese. Il principale dei quali è del 10 ottobre, quando tutte le province dell'Ucraina sono bersagliate da un continuo lancio di missili che va avanti per diverse ore. La stessa Kiev viene colpita con dei raid più intensi della prima parte di guerra. Il bombardamento in questione appare come una risposta al sabotaggio che l'8 ottobre porta al parziale danneggiamento del viadotto sullo stretto di Kerch, ossia la principale infrastruttura di collegamento tra la Crimea e la Russia continentale.
I danni sono ingenti, soprattutto perché a essere prese di mira sono le centrali elettriche. Si calcola che più della metà delle infrastrutture energetiche ucraine risulta seriamente o parzialmente danneggiata. Nei giorni seguenti vanno avanti altri bombardamenti, sempre contro le centrali elettriche. Il governo di Kiev viene quindi costretto a razionare la distribuzione di energia elettrica e a ricorre a frequenti blackout. Per diverse settimane, nella capitale e nelle città principali l'energia viene erogata solo per due o tre ore al giorno.
L'Ucraina affronta così l'inverno al buio e con pochi riscaldamenti. La strategia dei raid contro le centrali si attenua solo con l'avvento del nuovo anno. I tecnici ucraini provano a riparare quanto possibile, ma la logistica civile risulta al momento ben lontana da livelli normali.
La battaglia di Bakhmut
Nel 2023 per il momento l'unico fronte dove si combatte in modo intenso è quello di Bakhmut, nell'est del Paese. La città dell'oblast di Donetsk non è lontana da Kramatorsk. Una sua conquista permetterebbe di avanzare nel cuore dell'ultima parte del Donbass rimasta in mano a Kiev.
Per provare a smuovere la situazione, i russi hanno premuto sull'acceleratore nel quadrante di Soledar, cittadina conquistata a metà gennaio. Qui a entrare in azione sono soprattutto i contractors della Wagnar. La battaglia è ancora in corso e sta causando un numero elevato di vittime. Un inferno capace di travolgere tanto gli ucraini quanto i russi. MAURO INDELICATO
Cosa succede a est? La guerra nel Donbass. Paolo Mauri il 20 Febbraio 2023 su Inside Over.
L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia cominciata il 24 febbraio 2022 che ha aperto il conflitto ancora in atto ha visto tra i vari obiettivi delle operazioni terrestri una regione di confine che da tempo è percorsa da instabilità e scontri armati: il Donbass.
In quella regione orientale dell’Ucraina il conflitto non è cominciato la notte di quel giorno di febbraio, bensì nell’ormai lontano 2014. Un conflitto che ha provocato, secondo le stime dell’Onu, quasi 15 mila morti su entrambi i fronti e che è stato determinato dal fallito tentativo di effettuare un “colpo di mano” sul modello di quello avvenuto in Crimea più o meno nello stesso arco temporale di quell’anno.
Le manovre di Mosca prima della guerra
Se infatti la tattica russa per annettere alla Federazione la penisola crimeana – sede di un’importante base navale della Flotta del Mar Nero – impiegando gli strumenti dell’Hybrid Warfare è stata un pieno successo, così non è avvenuto per il Donbass (nella fattispecie nelle regioni di Donetsk e Luhansk) per via della rapida reazione dell’esercito ucraino, che non si è fatto cogliere alla sprovvista come accaduto in Crimea.
I moti popolari filorussi, eterodiretti da Mosca, hanno fornito il pretesto ai separatisti armati sostenuti dalla Russia per occupare gli edifici del governo ucraino in tutto il Donbass, dichiarando la nascita delle Repubbliche popolari di Donetsk e Luhansk (Dpr e Lpr) e innescando quindi la reazione delle forze governative ucraine. La Russia ha sostenuto segretamente i separatisti con truppe e armi pesanti, ammettendo solo in seguito di aver inviato “consiglieri militari”.
Dopo un anno di combattimenti, il conflitto si è trasformato in una guerra di trincea diventando a tutti gli effetti uno dei tanti “conflitti congelati” dell’intorno russo nonostante i tentativi di pacificazione tramite mediazione internazionale (gli accordi di Minsk I e II).
Il Donbass dopo il 24 febbraio 2022
Questo breve riassunto di 8 anni di combattimenti nel Donbass serve per individuare il leitmotiv delle operazioni belliche russe in quella regione da febbraio del 2022: un lento, sanguinoso, avanzamento spesso dagli esiti alterni, determinato proprio dal fatto che in quell’area si combatte dal 2014, quindi i due belligeranti – soprattutto gli ucraini – hanno avuto anni per trincerarsi in modo efficace.
È risultata infatti evidente la tattica dell’esercito di Kiev per resistere all’avanzata russa: una difesa in profondità che ha sfruttato la conoscenza del terreno, la sua stessa morfologia, l’impiego di tattiche di guerriglia (tanto che si è potuto parlare nei primi mesi di guerra di conflitto “semi-simmetrico”) rese efficaci soprattutto dalla fornitura di armamenti occidentali, come gli Atgm (Anti Tank Guided Missiles).
Più in generale, questi fattori sono validi per spiegare la capacità di resistenza ucraina in tutti i fronti del conflitto, senza dimenticare la possibilità per gli ucraini di avvalersi delle informazioni dell’intelligence occidentale (soprattutto statunitense e britannica), che ha rappresentato forse la chiave dell’efficacia del contrasto all’invasione russa.
Le 3 fasi del conflitto
A un anno dall’inizio del conflitto, è possibile individuare 3 macrofasi delle operazioni belliche: la prima, da febbraio sino ad agosto, in cui l’iniziativa è stata saldamente nelle mani russe nonostante il ritiro dalle regioni di Kiev e Chernihiv; la seconda, durata da agosto sino a fine settembre, in cui abbiamo assistito all’esito positivo di due controffensive ucraine, una su Kharkiv (ma che probabilmente è stata il felice e inatteso esito di un’ampia manovra di alleggerimento), e una su Kherson; infine la terza, da ottobre sino a oggi, in cui si è stabilita fondamentalmente una guerra di posizione caratterizzata però da piccole avanzate russe lungo quasi tutto il fronte.
La rotta russa nella regione di Kharkiv ha interessato marginalmente anche il Donbass settentrionale, coi russi che si sono ritirati su linee più sicure e meglio difendibili a nord di Lyman. Proprio questa parte del fronte è quella che nel momento in cui scriviamo vede i combattimenti più cruenti, con gli ucraini che sono solo stati capaci, nelle prime settimane di gennaio, di effettuare un attacco di alleggerimento verso Kreminna, ma che non ha portato alla liberazione della cittadina.
Questa zona è stata al centro di aspri combattimenti nel corso dei mesi passati, soprattutto nella prima macrofase del conflitto: gli attacchi principali russi, benché non condotti in forze, si erano concentrati nell’area di Izyum, Rubizhe, Popasna e Lyman dove le truppe russe avevano conquistato Kreminna. Proprio Lyman e Izyum formano la base di un triangolo, che ha il vertice a Kramatorsk, che risulta essenziale per sigillare il Donbass, che comunque è stato conquistato per la maggior parte con l’oblast di Luhansk occupato al 97% dopo che è stato eliminato il “saliente di Severodonetsk”.
Sulla strada per Kramatorsk c’è la città di Sloviansk, la cui difesa è quindi strategica, e prima di essa troviamo proprio Lyman, che recentemente risulta essere proprio uno degli obiettivi dell’avanzata russa. Se ci spostiamo leggermente verso sud, i combattimenti, dopo la caduta di Soledar, si sono concentrati sulla più grande Bakhmut (o Artemovsk), che però, come già detto, non ha un importante peso strategico nel quadro del conflitto in Donbass in quanto le linee vitali linee di comunicazione nord-sud ucraine possono passare per Kramatorsk anche qualora la città dovesse cadere in mani russe.
Una guerra lenta ma d’attrito
Nell’area della città di Donetsk il fronte è rimasto sostanzialmente invariato lungo tutto il corso della guerra: qui infatti gli ucraini risultano essere trincerati meglio e, in questa fase del conflitto, la morfologia del terreno e la scarsa copertura boschiva permettono all’artiglieria a razzo di Kiev (dotata di moderne armi occidentali come gli M-270 e soprattutto gli M-142), di colpire efficacemente le truppe e i mezzi russi. In ogni caso anche in questa parte del fronte, in particolare a sud di Donetsk, nell’area della cittadina di Vuhledar, i russi stanno lentamente avanzando probabilmente per cercare di ammorbidire le difese ucraine nel capoluogo dell’oblast‘.
In linea generale, come già detto, tutto il fronte è in lento movimento coi russi che guadagnano terreno non senza dispendio di risorse, ma in un confronto di attrito, in questo momento, sono gli ucraini a trovarsi più in difficoltà non potendo ancora contare su rifornimenti di armi pesanti come i carri armati.
Vale la pena ricordare che il ritiro russo da Kherson su linee stabilite lungo la sponda orientale del fiume Dnepr ha permesso a Mosca di alleggerire la pressione sulle sue forze, in modo da poterle ricostituire con le riserve recentemente mobilitate, e avere una barriera naturale difficilmente attraversabile senza perdite ingenti da parte degli ucraini.
Da tenere sotto osservazione è anche il settore del fronte da Zaporizhzhia a Donetsk, dove si stanno sviluppando piccoli attacchi simultanei russi: questa parte del meridione ucraino è infatti vitale per la Russia, in quanto attraverso di essa passano le linee di comunicazione e rifornimento verso la Crimea. PAOLO MAURI
Dall’occupazione alla riconquista: cosa succede a Kherson. Federico Giuliani il 20 Febbraio 2023 su Inside Over.
L’11 novembre 2022 l’esercito di Kiev è rientrato a Kherson per la prima volta dall’inizio della cosiddetta operazione militare speciale russa. Da quando, cioè, l’intero, omonimo, oblast’ meridionale ucraino era finito sotto il controllo di Mosca.
Le forze del Cremlino avevano appena proclamato la città, situata nel sud dell’Ucraina, capitale amministrativa della regione, facendo seguito all’annessione unilaterale di Zaporizhzhia, Lugansk, Donetsk e Kherson. Dopo un’occupazione andata avanti otto mesi, la Federazione russa ha invece annunciato di aver completato il ritiro da Kherson dei suoi uomini.
Il centro urbano, che prima dello scoppio della guerra contava poco meno di 300 mila abitanti, ha continuato a esser colpito da ingenti quantità di bombe e missili (80, ad esempio, nelle 24 ore intercorse tra il 2 e il 3 gennaio 2023).
La decisione russa di ritirarsi in posizioni difensive sulla riva sinistra del fiume Dnipro è stata guidata da una solida logica militare, visto che il controllo della città poteva essere mantenuto solo a fronte di un carissimo prezzo da pagare in termini di truppe e materiale bellico. Se da un punto di vista operativo, dunque, il ritiro dovrebbe aver aiutato i russi a stabilizzare le loro posizioni difensive durante l’inverno, strategicamente parlando ha avuto la stessa valenza di una sconfitta.
Ovviamente l’allontanamento del Cremlino da Kherson non è figlio del caso o della fortuna. Dall’estate, infatti, gli ucraini hanno alzato la pressione, lanciando addirittura una controffensiva alla fine di agosto. Gli uomini di Volodymyr Zelensky sapevano di non essere in grado di prendere d’assalto la città, eppure gli attacchi sferrati sui ponti, sul Dnipro, hanno limitato considerevolmente le capacità nemiche di rifornire le loro truppe con attrezzature pesanti. Allo stesso tempo, il fiume ha protetto le forze di Kiev dalla replica militare russa.
In definitiva, questa favorevole geometria del campo di battaglia ha consentito all’Ucraina di creare una zona d’azione all’interno della quale la sua artiglieria riusciva ad infliggere pesanti perdite alle unità più motivate e competenti della Russia.
La ritirata russa è un’enorme battuta d’arresto per il sogno di Mosca di impadronirsi del porto di Odessa e isolare l’Ucraina dal Mar Nero.
Dalla conquista russa alla riconquista ucraina
Kherson è stata conquistata poco dopo lo scoppio della guerra, avvenuto il 24 febbraio 2022. È stata l’unica capitale provinciale ucraina a cadere sotto il controllo di Mosca. Unità dell’esercito, con supporto aereo, sono entrate nella regione dal territorio della Crimea e, quasi senza resistenza, sono avanzate di 100 chilometri a nord e nord-ovest.
Nella notte tra il 28 febbraio e il 1 marzo, i russi hanno circondato la città, oltre ad aver occupato i villaggi circostanti e l’aeroporto di Cornobaivka. Il 3 marzo hanno fatto il loro ingresso in città incontrando poca resistenza. Il 4 marzo Kherson è passata sotto il controllo russo. Ci sarebbe rimasta, come detto, fino al novembre 2022.
Procedendo con ordine, il Cremlino ha annesso unilateralmente l’intero oblast di Kherson e altre tre regioni alla fine di settembre, dichiarando che sarebbero rimaste russe per sempre. Le cose non sono fin qui però andate secondo i piani di Putin. L’esercito ucraino, equipaggiato con artiglieria e razzi occidentali, ha infatti trascorso mesi a martellare le posizioni nemiche e demolire ponti sull’ampio fiume Dnipro, rendendo sempre più difficile per i russi rifornire i militari sulla sponda occidentale del fiume.
Il ritiro russo da Kherson è arrivato dopo un’altra fuga, molto più precipitosa, riguardante la regione di Kharkiv, avvenuta due mesi prima.
Il futuro di Kherson
La perdita di Kherson ha di fatto lasciato la Russia con pochi guadagni territoriali dall’offensiva del 24 febbraio. Per l’Ucraina la liberazione della città meridionale è una vittoria importante. Ha permesso a Kiev di concentrare le sue forze nel nord-est e ha dimostrato agli alleati occidentali che combattere astutamente può portare alla liberazione del territorio, senza la necessità di assaltare deliberatamente ogni città occupata dai russi.
Allo stesso tempo, il ritiro della Russia pone l’Ucraina di fronte ad alcune sfide. Come ha sottolineato il Guardian, la Russia ora ha un fronte più ristretto da difendere, mentre l’Ucraina non ha più l’opportunità di uccidere un gran numero di nemici dotati di una capacità limitata di contrattaccare. Anche se combattere attraverso le nuove linee di difesa russe rischia di esaurire le unità ucraine, per Zelensky è fondamentale che le truppe russe non abbiano la possibilità di riprendersi durante l’inverno.
La riconquista ucraina di Kherson è inoltre fondamentale per almeno tre ragioni. Dal punto di vista strategico, Kiev intende fare leva sulla presunta fragilità del controllo russo sulle aree occupate da Mosca. Dopo di che, l’Ucraina intende rimettere in discussione il controllo della Russia sulla Crimea e blindare la sponda occidentale del Dnper. Così da recuperare energie in vista di possibili, nuove offensive.
Nel frattempo l’esercito russo si è ritirato attraverso il citato fiume Dnper, prendendo di mira Kherson con i suoi cannoni pesanti. Per oltre due mesi, il Cremlino ha bombardato la città con l’artiglieria. L’amministrazione locale ha spiegato che più di 1.700 razzi sono stati lanciati contro Kherson negli ultimi due mesi, causando 74 morti e 207 feriti. Sono stati colpiti appartamenti, case, scuole, ospedali ed edifici governativi. Un chiaro segnale di come il pericolo non è ancora passato. FEDERICO GIULIANI
Linee rosse e ipotesi di riconquista. La Crimea al centro della guerra. Lorenzo Vita il 20 Febbraio 2023 su Inside Over.
La Crimea è uno dei grandi epicentri della guerra in Ucraina. Perché se è vero che l’invasione russa è iniziata ufficialmente il 24 febbraio 2022 con l’annuncio della “operazione militare speciale” di Vladimir Putin, è altrettanto vero che sarebbe impossibile parlare di un conflitto iniziato esclusivamente lo scorso anno. La guerra in Ucraina dell’ultimo anno si può infatti descrivere come la più drammatica espressione di un conflitto che fino a più di un anno fa era ritenuto di “bassa intensità” e che aveva avuto, come questa volta, due grandi teatri: il Donbass e la Crimea. Con quest’ultima a essere stata annessa alla Russia da un referendum non riconosciuto dalla comunità internazionale ma ritenuto valido da Mosca. Stesso metodo utilizzato nei territori occupati dopo febbraio 2022.
Proprio per questo motivo, e naturalmente per la sua ben nota importanza strategica, la Crimea viene considerata una sorta di ipotetico spartiacque della guerra. Il presidente russo Vladimir Putin la ritiene forse la principale linea rossa: dal momento che quel territorio è annesso da otto anni, quello è considerato ormai parte integrante della Federazione Russa e non può essere messo in discussione. Da parte ucraina, invece, il presidente Volodymyr Zelensky ha fatto più volte capire che la penisola sul Mar Nero non può considerarsi definitivamente persa, ma anzi è messa in cima alla lista delle possibili controffensive di Kiev.
La posizione dell’Occidente sulla Crimea
Sul punto, i recenti dibattiti in sede occidentale, tra i sostenitori della causa ucraina, confermano che la Crimea, nonostante lo stallo sul fronte ucraino, non è passata affatto in secondo piano. Dagli Stati Uniti, sono arrivate indiscrezioni che certificano un grosso dibattito in seno alla Casa Bianca, al Pentagono e al dipartimento di Stato sulla possibilità ma anche sulla opportunità di dare il via libera a un attacco ucraino alla Crimea. A un certo punto, Washington sembrava essersi convinta sulla possibilità che Kiev iniziasse le operazioni per riprendersi la penisola, in particolare tagliando i collegamenti con il Donbass.
Alcuni analisti hanno tirato il freno a mano, ricordando il rischio di andare a colpire un territorio che per il Cremlino è inviolabile con conseguente pericolo di una escalation dai contorni oscuri. Altri ritengono invece che l’ingresso delle truppe ucraine nella penisola di Sebastopoli sarebbe il vero “big bang” del conflitto, un momento decisivo e rivoluzionario per le sorti della cosiddetta operazione militare speciale.
Poi, negli ultimi giorni, è apparso un articolo di Politico in cui si sottolinea che fonti della Difesa degli Stati Uniti ritengono che l’esercito ucraino non sia in grado di riconquistare la Crimea, almeno in questa fase della guerra. Il punto di vista del Pentagono sarebbe arrivato durante un’audizione riservata della commissione Servizi armati della Camera dei rappresentanti Usa. Non c’è modo di conoscere le basi di queste affermazioni, tuttavia Politico ha scritto che all’incontro avrebbero preso parte Laura Cooper, vice assistente segretaria alla Difesa per Russia, Ucraina ed Eurasia, e il tenente generale Douglas Sims, direttore delle operazioni dello Stato maggiore congiunto Usa.
Il botta e risposta tra Mosca e Kiev
In attesa degli sviluppi sul campo di battaglia, le due parti in conflitto continuano intanto a parlare della penisola e del suo destino. Il vicepresidente del Consiglio di sicurezza russo, ed ex presidente della Federazione, Dmitry Medvedev, ha come al solito utilizzato i suoi toni più incendiari per ribadire quanto espresso già da tempo da Mosca. “La Crimea è Russia. Attaccare la Crimea significa attaccare la Russia e un’escalation del conflitto” ha scritto l’ex delfino di Putin, dicendo che in caso di attacco sono “inevitabili ritorsioni con armi di qualsiasi tipo”.
A rispondere a Medvedev è stato il consigliere presidenziale ucraino, Mykhailo Podolyak, che con un messaggio molto netto ha scritto su Twitter: “Il diritto internazionale parla chiaro. L’Ucraina può liberare i suoi territori utilizzando qualsiasi mezzo. La Crimea è Ucraina”.
Il Cremlino ha parlato attraverso il portavoce Dmitry Peskov, che parlando del proseguimento della guerra per garantire la “sicurezza del Donbass”, ha fatto riferimento a quella della Crimea come qualcosa di “garantito”. Ribadendo quindi l’idea che per Mosca quella penisola sia ormai qualcosa di irrinunciabile.
Il nodo dell’offensiva contro la penisola
La possibilità di una nuova offensiva verso la Crimea da parte delle forze ucraine è in ogni caso reale. Se infatti le forze russe hanno cercato di rafforzare le posizioni nell’area di Kherson per blindare la penisola, è altrettanto vero che la convinzione di Zelensky e degli apparati ucraini si unisce all’invio di nuove armi e mezzi dall’Occidente a supporto di Kiev. Il nuovo pacchetto di armi Usa da 2,2 miliardi di dollari prevede anche bombe GLSDB che possono viaggiare fino a 150 chilometri, quindi potenzialmente in grado di colpire almeno il nord della Crimea.
Inoltre, da tempo la penisola è oggetto di attacchi e sabotaggi che hanno confermato le capacità dell’intelligence ucraina e delle forze speciali di penetrare oltre le linee nemiche proprio nel cuore del territorio occupato dalla Russia. Per mesi, tutto il territorio ha assistito a esplosioni, incendi, raid più o meno rivendicati, con incendi e attacchi che hanno raggiunto anche Sebastopoli. Intorno al porto della Flotta russa del Mar Nero è stato anche trovato un misterioso (e tecnologicamente avanzato) drone dalla forma di un barchino che sembrava il preludio a un possibile attacco su vasta scala dalla costa ucraina. E l’intelligence britannica, a metà gennaio, ha segnalato che diverse unità della Marina di Mosca si erano spostate da Sebastopoli verso Novorossiysk probabilmente per timore di un’operazione di Kiev.
Dall’altro lato, la Russia sembra propendere per il rafforzamento della presenza militare nella penisola e soprattutto per un rafforzamento di quello che appare come uno dei principali obiettivi strategici della guerra: la realizzazione del corridoio terrestre che unisca la Crimea alle regioni del Donbass. Molti osservatori, ma anche i servizi ucraini, sostengono che Mosca voglia blindare quei territori attraverso una nuova avanzata che, pur non essendo in grande stile, possa comunque rafforzare l’idea di un Mar d’Azov completamente in mano russa. In questo senso, le testimonianze di migliaia di nuovi soldati arrivati nella provincia di Mariupol confermerebbero la volontà di Serghei Shoigu e Valerij Gerasimov di aumentare la presenza e l’area dei territori conquistati. Mentre i più recenti attacchi a Kherson sembrerebbero certificare il desiderio russo di allontanare il più possibile l’ipotesi di una controffensiva ucraina attraverso il fiume Dnipro. LORENZO VITA
Ecco dove si decide la guerra in Ucraina. Paolo Mauri il 20 Febbraio 2023 su Inside Over.
A un anno dall’inizio del conflitto in Ucraina, Kiev ha perso circa il 20% del proprio territorio nazionale a seguito dell’invasione russa cominciata il 24 febbraio 2022.
Guardando la mappa del fronte, possiamo osservare notevoli variazioni rispetto ai primi mesi di guerra: l’esercito russo dapprima si è ritirato spontaneamente dalla regione di Kiev e Chernihiv in quanto il fallito tentativo di decapitazione del governo Zelensky ha consigliato di ridimensionare l’area delle operazioni di guerra in modo da razionalizzare le – esigue – truppe impiegate; inoltre la controffensiva ucraina dell’estate scorsa ha portato alla liberazione della regione intorno a Kharkiv e a Kherson, e negli ultimi mesi l’evidenza ha dimostrato che quei settori sono rimasti più o meno inattivi, eccezion fatta per azioni di sistemi d’artiglieria o attività di bombardamento missilistico.
Come è cambiato il fronte
Il fronte ora è più corto, e parte di esso è rappresentato da quella barriera naturale data dal fiume Dnepr, che difficilmente può essere oltrepassata senza la perdita di un cospicuo numero di uomini e mezzi, entrambi preziosi per Kiev soprattutto in questa fase del conflitto. Le azioni offensive russe, lente, difficoltose, ma più o meno costanti fatto salvo alcune controffensive di alleggerimento ucraine nel Donbass settentrionale, si sviluppano lungo l’intera linea del fronte che va da Zaporizhzhia sino all’oblast di Luhansk. Prima di ipotizzare dove, in questo smisurato terreno di battaglia, potrebbe decidersi la sorte del conflitto, è bene fare alcune puntualizzazioni di tipo politico.
La questione politica per Mosca
Il Cremlino è arrivato al punto di considerare l’esito della guerra in Ucraina vitale per i propri interessi: la sola decisione di intraprendere l’invasione, nonostante 8 anni di sanzioni internazionali scaturite dalla destabilizzazione del Donbass e dall’annessione della Crimea nel 2014, è indice dell’importanza dell’azione bellica attualmente in corso. Anche dal punto di vista della politica interna, la dirigenza russa si trova nella non felice condizione di dover riuscire a concludere il conflitto in modo “onorevole” per la Russia, pena il sovvertimento dell’attuale regime, in quanto l’andamento altalenante, e financo disastroso se pensiamo a quanto successo questa estate, delle operazioni militari ha risvegliato le frange nazionaliste della politica russa, che potrebbero venire catalizzate da figure scomode ma in questo momento utili per il Cremlino come il capo del Gruppo Wagner – Evgenij Prigozhin – o il leader ceceno Ramzan Kadyrov.
Il rischio è doppio: non solo per la tenuta del potere politico attualmente a capo della Russia, ma anche per la stessa unità della Federazione: un’eventuale sconfitta militare, con conseguente ridimensionamento della potenza dell’esercito russo (strumento principe della proiezione politica della Russia nel suo intorno), potrebbe facilmente solleticare più di una velleità indipendentista di alcune repubbliche, come la stessa (un tempo) turbolenta Cecenia. Da questo punto di vista anche il CSTO (Collective Security Treaty Organization), il trattato di sicurezza collettiva che lega a Mosca le ex repubbliche sovietiche ora Paesi sovrani, è stato messo in discussione da alcuni suoi membri: dall’Armenia, che, avendo richiesto l’intervento della Russia in concomitanza con la ripresa di scontri armati con l’Azerbaigian si è vista rispondere un secco “niet” per via dell’onere bellico in Ucraina, e dal Kazakistan, che ha espresso inizialmente l’intenzione di abbandonarlo salvo poi ritrattare. Una questione di sicurezza ma anche di immagine, interna ed esterna, per la Russia che non deve essere sottovalutata in analisi di tipo meccanicistico.
I nodi della Nato
Sul fronte opposto, più che l’Ucraina la quale, per ovvi motivi, vede in gioco la sua stessa esistenza come entità autonoma, è la Nato (e partner) ad avere in gioco più di una semplice vittoria sull’orso russo: in ballo c’è infatti la questione del rispetto del diritto internazionale, soprattutto perché legato a un Paese – la Russia – dotata di un arsenale nucleare importante.
Un esito infelice del conflitto, con la sconfitta ucraina determinata dal disimpegno occidentale, porterebbe con sé la possibilità di vedere ulteriori guerre (pensiamo allo scacchiere indo-pacifico) e soprattutto una corsa agli armamenti nucleari, visti come assicurazione per il non intervento della comunità internazionale.
Siamo davanti, quindi, a un rebus di difficile soluzione che potrebbe facilmente risolversi, secondo chi scrive, in uno dei tanti conflitti congelati della periferia russa stante la scarsa probabilità che Mosca decida di impiegare l’intera sua potenza militare (incluso il ricorso al nucleare tattico) per vincere la guerra.
Dove può essere deciso il conflitto
Dopo questa lunga premessa introduttiva cerchiamo di rispondere alla domanda che dà il titolo alla nostra trattazione: dove si deciderà il conflitto in Ucraina? Tralasciando il tavolo della diplomazia, che riteniamo ancora valido e capace di trovare una soluzione di pace secondo un meccanismo di “congelamento” dello status quo ante guerra (l’unico che potrebbe essere accettato da Mosca e fatto digerire a Kiev), proviamo a dare una risposta dal punto di vista strettamente militare.
Escludendo che la Russia possa mettere in atto una vasta operazione anfibia per aggirare il fronte lungo il fiume Dnepr e puntare su Odessa e sulla Transnistria – il potenziale navale da sbarco è fortemente menomato dalla perdita di alcune navi da guerra e dall’utilizzo dei fanti di marina in operazioni terrestri – e tralasciando anche la possibilità di una nuova invasione da nord, passando anche dalla Bielorussia (non si commette lo stesso errore due volte), restano solo tre opzioni sul tavolo: un nuovo attacco sulla direttrice Kharkiv/Dnepropetrovsk, uno sforzo per completare la conquista dell’intero Donbass, infine un’avanzata da sud verso nord nel settore che va da Zaporizhzhia a Donetsk per aumentare lo spessore di quella fascia costiera che collega la Crimea al territorio della Federazione.
1 – Attacco sulla direttrice Kharkiv/Dnepropetrovsk
La prima opzione è quella meno plausibile: il territorio non è dei migliori come hanno scoperto i russi durante i primi mesi di guerra, e gli ucraini potrebbero facilmente far affluire rinforzi dall’ovest del Paese. Un’azione simile, poi, richiederebbe una lunghissima preparazione e l’impiego di un potenziale bellico tale da richiedere una mobilitazione molto più vasta, senza considerare il rischio di lasciare sguarniti altri settori dalle forze corazzate necessarie per l’operazione, essendo queste non infinite.
2 – Conquista del Donbass
Restano le altre due possibilità, che potrebbero ugualmente valere la dichiarazione del termine del conflitto. La conquista dell’intero Donbass permetterebbe al Cremlino di avere un’importante leva sul fronte interno stante la campagna propagandistica degli ultimi 8 anni. Un Donbass “messo in sicurezza”, l’aver “salvato” la popolazione russofona dai “nazisti” ucraini, potrebbe essere sufficiente per gli scopi del Cremlino.
3 – L’avanzata nel settore tra Zaporizhzhia-Donetsk
In secondo piano, ma non così lontano dagli stessi schemi di ragionamento, c’è la conquista dell’intero oblast di Zaporizhzhia: come già detto, allargherebbe la fascia costiera occupata rendendo sicure le linee di comunicazione con la Crimea, e potenzialmente potrebbe portare anche al ritiro delle forze ucraine da parte dell’oblast di Donetsk.
Si tratta solo di ipotesi, che potrebbero verificarsi solo con un importante sforzo bellico complessivo da parte della Russia, che dovrebbe comprendere anche la conversione di parte della sua economia da una civile a una di guerra: in questo momento Mosca non ha le risorse per effettuare operazioni di ampio respiro, e forse non ne ha nemmeno l’intenzione in quanto il conflitto di attrito che si è stabilito le permette di erodere lentamente il potenziale bellico ucraino stante le difficoltà incontrate da Kiev a ottenere armamenti pesanti e a lungo raggio dagli alleati occidentali o anche solo il munizionamento per la propria artiglieria. PAOLO MAURI
Il populismo di guerra di Zelensky.
Gianluca Lo Nostro il 21 febbraio 2023 su Inside Over.
“Sai perché facciamo una vita da cani? Perché noi la nostra scelta la facciamo nelle cabine elettorali, capito? Ma non abbiamo tra chi scegliere! Se ci sono due merde, noi scegliamo solo la meno peggio, ed è così da 25 anni, cazzo. E vuoi sapere una cosa? Non cambierà neanche questa volta e sai perché? Perché tu, mio padre e io sceglieremo una di queste merde di nuovo. E diremo: sì, in effetti è una merda anche lui, ma forse un po’ meno”. Questo turpiloquio qualunquista è lo sfogo del professore di storia Vasilij Petrovyč Holoborodko, al secolo Volodymyr Zelensky, protagonista della prima puntata di Servitore del Popolo, la serie Tv più guardata in Ucraina nell’ultimo decennio.
Holoborodko, doppiato in lingua italiana da Luca Bizzarri, non sa che mentre discute con tono rassegnato della situazione politica nel Paese, uno studente lo sta riprendendo. Il filmato viene pubblicato in rete e viene visto da tutte le famiglie ucraine, mentre il professore resta all’oscuro dell’enorme notorietà raggiunta, salvo poi ignorarne le reali conseguenze. Nel giro di alcune settimane, quasi per scherzo e senza neanche candidarsi ufficialmente, viene proclamato vincitore delle elezioni presidenziali, diventando capo di Stato della seconda nazione più vasta d’Europa, dopo la Russia, e imbarcandosi in una folle avventura alla guida del suo Stato.
Una parabola incredibile per chiunque, eppure è quello che, con i dovuti distinguo, è successo a Volodymyr Zelensky. Colui che ha inventato quest’avvincente trama televisiva è stato eletto presidente dell’Ucraina il 21 aprile 2019, conquistando oltre 13 milioni di voti e la percentuale record del 73,22% in un impari battaglia contro l’uscente Petro Poroshenko. Se Holoborodko è un prodotto del guizzo comico di Zelensky, Zelensky è un Holoborodko più furbo e meno squattrinato che ce l’ha fatta dopo mille peripezie. E con cui, prima o dopo, bisognerà fare i conti.
Il comico imprenditore
Nato a Kryvyi Rih, Zelensky è cresciuto tra la Mongolia e l’Ucraina insieme alla famiglia. Di origine ebraica e bilingue (ma russofono), vanta una laurea in legge di cui davvero poco, se non quasi nulla, è stato scritto. Prima di intraprendere la carriera nel mondo dello spettacolo, prima di Kvartal 95 Club (la società di produzione cinematografica fondata nel 2003) e prima di Servitore del Popolo, il presidente ucraino si è specializzato in diritto costituzionale, studiando per diventare avvocato. Da questa passione giovanile, evidentemente mai sbocciata ma rivelatasi utile in futuro, deriva l’eccellente abilità oratoria di Zelensky.
Tuttavia, come mostrato pocanzi, sono gli anni del cabaret e della commedia a trascinarlo nell’arena politica. Perché oltre alla fama pregressa e alla spigliatezza c’è anche uno spirito imprenditoriale che si nasconde dietro la personalità della persona dell’anno secondo il Time Magazine. Un tratto, quello del self-made man nazionalpopolare, che ha permesso a Zelensky di penetrare nelle coscienze critiche di chi lo ha fatto entrare nelle stanze del potere a Kiev.
“Zelensky veniva dal mondo dell’imprenditoria e gli ucraini erano stanchi delle élite che non potevano offrire altro che corruzione e nepotismo, quindi cercavano qualcosa di nuovo“, racconta a InsideOver Iuliia Mendel, portavoce del Presidente fino al 2021. “Ha voluto introdurre la meritocrazia nella lentissima macchina del governo, ma le istituzioni ucraine non sono così solide come nel vostro Paese, quindi si è sforzato di renderle più flessibili. È stato il primo presidente a introdurre la concorrenza per le nomine politiche più importanti e una di queste era la mia carica di portavoce”.
Mendel racconta anche un aneddoto sulla sua assunzione, una novità assoluta per un Paese abituato a raccomandazioni e clientelismo. “Mise l’annuncio su Facebook e non ero sicura di candidarmi perché c’erano migliaia di persone in lizza. Tutti i presidenti precedenti sceglievano persone che già conoscevano senza trasparenza. Ho avuto un colloquio con lui e mi ha chiesto quale fosse la mia motivazione”, prosegue. “Che cos’è se non il sogno ucraino, quando ognuno può realizzare ciò che vuole? Zelensky ha fatto appello alle emozioni della gente, capisce la politica dal punto di vista delle emozioni e i suoi discorsi e video sono realistici perché cerca di capire la psicologia delle persone”.
Il nuovo populista che avanza
La vita politica di Zelensky si può suddividere in tre fasi comunicative. La prima, quella del debutto, è iniziata nel giorno di Capodanno del 2019, quando annunciò la sua discesa in campo. Fu una scelta maturata dopo mesi di riflessioni su sondaggi d’opinione che non facevano altro che ribadire la popolarità dell’allora comico. Secondo alcune rilevazioni effettuate nel 2018 dal Kiev International Institute for Sociology (Kiis), Zelensky aveva tassi di approvazione superiori a quelli dell’allora presidente ucraino. Ma il passaggio dalla satira politica alla politica autentica non è stato privo di ostacoli.
La campagna elettorale fu condotta solo online e nessun giornalista poteva sognarsi di intervistarlo. Lo scontro coi media era perlopiù alimentato dai finanziatori della campagna elettorale, i mitologici e onnipresenti oligarchi, e meno dal candidato, che credeva in una maggiore disintermediazione con gli elettori, evitando di passare dal filtro della stampa. Lui era un tutt’uno coi suoi sostenitori, che vivevano sul web, e sul web lui comunicava. I giornali narravano la sua ascesa, ma faticavano a comprenderlo. Chi sta leggendo questo articolo avrà in mente una sorta di Beppe Grillo slavo: non è un accostamento così avventato, a essere sinceri.
Ad ogni modo, la vecchia politica rappresentata dall’establishment lo attaccava con pretesti assurdi: Poroshenko e il suo team, responsabili in quegli anni di una controversa stretta sulle popolazioni di lingua russa, arrivarono a definire Zelensky un traditore filorusso che faceva il gioco di Putin. Ovviamente non funzionò, non solo perché Zelensky non era mai stato pro-Putin (preso di mira varie volte nei suoi spettacoli), ma perché la strategia comunicativa usata per diffamarlo venne facilmente smentita sui social.
Poroshenko invitò Zelensky a un dibattito prima del ballottaggio, ma il suo sfidante gli rispose ponendogli le seguenti condizioni: “Ti aspetto allo stadio Olimpico di Kiev. Il dibattito si terrà qui, di fronte al popolo ucraino. Tutti i canali potranno acquistare i diritti per trasmetterlo in diretta e tutti i giornalisti avranno diritto di essere presenti. Tutti i candidati dovranno sottoporsi a un controllo medico e dimostrare di non essere alcolizzati o drogati. Il Paese ha bisogno di un presidente in salute”.
Soprendentemente, Poroshenko accettò (“Stadio? E stadio sia”) e i due fecero persino il test antidroga, ma alla fine non si trovò un’intesa sulla data e il presidente uscente, in svantaggio nei sondaggi, si presentò al dibattito da solo davanti allo stadio Olimpico a pochi giorni dal voto. A nulla valse la buona volontà: il destino di Poroshenko era già segnato.
Zelensky il riformatore
Una volta presidente, l’outsider non più outsider ha dato in pasto ai suoi sostenitori altre perle di saggezza dal sapore genuinamente populista. Questa, estrapolata dal suo discorso inaugurale, riguarda l’affissione della sua foto negli uffici pubblici: “Io non la voglio la mia foto nei vostri uffici”, ha detto rivolgendosi ai funzionari e ai parlamentari presenti alla Verchovna Rada. “Il presidente non è un’icona, un idolo o un ritratto. Appendete la foto dei vostri figli invece e guardateli ogni volta che dovete prendere una decisione”, ha ammonito.
Sulla scia di quel dirompente successo, Zelensky ha sciolto il parlamento e ha stravinto le elezioni legislative, superando peraltro le sue modeste aspettative che lo vedevano fermarsi a un’ottantina di seggi. D’altronde, Servitore del Popolo, il nome del suo partito, era un soggetto politico giovanissimo e senza radicamento sul territorio. Nonostante questo, gli ucraini hanno consegnato al partito di Zelensky 259 seggi, un’inaudita maggioranza che ha comportato non pochi problemi al Presidente.
Ritrovare la pace in Donbass era uno degli obiettivi principali di Zelensky dal suo insediamento. La guerra con le truppe separatiste sostenute dal Cremlino aveva causato almeno 10 mila morti e per il nuovo capo di Stato la priorità era ritrovare la pace attraverso le miracolose vie della diplomazia, bilanciando l’esigenza di porre fine al conflitto con il sentimento nazionalista di chi gli chiedeva la difesa dell’integrità territoriale dell’Ucraina a tutti i costi. Ma la diplomazia così tanto miracolosa non è stata.
Tra il 2020 e il 2021 sono state denunciate migliaia e migliaia di violazioni del cessate il fuoco bilaterale previsto dagli Accordi di Minsk e in trincea non si è mai smesso veramente di combattere. Zelensky, comparso ogni anno sul fronte per dare manforte ai suoi soldati, ha pagato il mancato accordo con Putin promesso in campagna elettorale, perdendo le elezioni locali nel 2020. Lo smacco più doloroso è stata la sconfitta a Kryvyi Rih, sua città natale, dove il partito filorusso Piattaforma di Opposizione – Per la Vita (oggi messo al bando) si è preso l’amministrazione comunale.
Zelensky però è un uomo parecchio determinato e malgrado la mentalità aziendalistica che mette l’efficienza al primo posto è anche un inguaribile idealista. Il piano di un negoziato con il Cremlino non è mai stato abbandonato completamente e barcamenandosi tra problemi di natura interna e nuove, inaspettate alleanze (la Francia di Macron), il presidente ucraino ha voluto puntare sulla pace finché ha avuto senso farlo, perfino quando l’allarme dell’invasione lanciato dalla Cia è cominciato a circolare in Europa a fine 2021.
Come la guerra cambia un uomo
È con la guerra che lo Zelensky politico ha subito la sua più recente e notevole mutazione. E stavolta a cambiare non è stato soltanto il linguaggio o il carattere, ma l’aspetto fisico. La giacca e cravatta rimpiazzate dalla mimetica, le guance glabre e rasate ora coperte da una barba minuziosamente curata, il volto prima sollevato e solare che adesso ha lasciato spazio a una fronte corrucciata e tribolante, ma che sa comunque trasmettere empatia: sono i sintomi di un invecchiamento precoce. Questa piccola ma significativa rivoluzione ha avuto luogo nei giorni e nelle settimane successive all’invasione, dunque tra febbraio e marzo del 2022, mentre Zelensky dava ordini dal suo bunker inespugnabile a Kiev, lontano per mesi dalla sua famiglia e minacciato dagli assassini di Putin che lo cercavano nella capitale.
Qui il Presidente ha smesso di avere respiro nazionale. I suoi messaggi pubblicati sui suoi canali social sono stati letti e ascoltati da milioni di persone in tutto il mondo. Il suo account Twitter è passato nottetempo da 500 mila a un milione e mezzo di follower in 24 ore. Oggi è seguito da 7 milioni e 100 mila profili, a cui vanno aggiunti i quasi 17 milioni di Instagram e i 3 milioni di Facebook. Un leader globale di uno Stato in guerra, affermatosi sulla scena internazionale come player e interlocutore fondamentale per gli equilibri del pianeta, ogni giorno sulle prime pagine di tutti i giornali. Un capo che non comunica più soltanto con i suoi concittadini, ma sfrutta il piedistallo su cui è poggiato per mandare richieste pubbliche di aiuto agli altri Paesi, mettendo una pressione che rischia di risultare stucchevole nel lungo periodo, specie se l’inerzia del conflitto dovesse spostarsi in favore di Mosca.
C’è una domanda però che merita una risposta: come ha fatto un politico inesperto, dilettante e per certi versi inconcludente a guadagnarsi la fiducia di 40 milioni di persone mentre il suo Paese è sotto attacco da un’opprimente superpotenza nucleare? Secondo Iuliia Mendel, c’entra la decisione di restare a Kiev nei primi giorni della guerra.
“Quando è scoppiata la guerra, la gente si sentiva smarrita e si chiedeva: ‘Cosa devo fare se all’improvviso tutta la mia vita viene distrutta?’. I primi giorni furono i più importanti, quando andò dalla gente e disse: ‘Restiamo qui e combattiamo‘. Questa era in realtà l’identità degli ucraini”, osserva la giornalista. “Non ha detto ‘ci arrendiamo’ o ‘ci stiamo pensando’. Ha detto ‘stiamo combattendo'”. E perché gli ucraini gli hanno creduto? “Perché in quel momento ha fatto appello al cuore di ogni ucraino, perché questo è il nostro Paese, perché questa è la nostra casa”, conclude.
Zelensky in strada a Kiev insieme al primo ministro ucraino e i suoi consiglieri rassicura la popolazione 24 ore dopo l’invasione: “Tutti noi siamo qui per proteggere l’indipendenza del nostro Paese”
I suoi oppositori lo accusano di aver forzato l’Ucraina a entrare in questa insulsa guerra, di aver introdotto la legge marziale e di aver continuato con la repressione anti-russa voluta dai suoi predecessori, vietando tutti i partiti schierati con l’aggressore. Le suppliche ai partner occidentali, che secondo Zelensky dovrebbero incrementare le forniture militari per consentire a Kiev di sconfiggere la Russia sul campo, causerebbero inevitabilmente una guerra mondiale, si legge spesso. Ma forse la sua è soltanto retorica che genera velleità esternate in un plausibile delirio di onnipotenza. Chi, al suo posto, non chiederebbe più carri armati e cacciabombardieri all’America se avesse un assegno in bianco illimitato a disposizone? Ma soprattutto, siamo sicuri che al popolo ucraino non faccia piacere il sostegno a oltranza della comunità internazionale e che effettivamente Zelensky sia apprezzato in patria per questo?
Che si ami o che si odi, che si esalti o che si irrida, Volodymyr Zelensky sta segnando questa epoca e lo sta facendo in un lasso di tempo troppo corto per elaborare il vero valore e l’eredità storica della sua testimonianza. Dunque esprimere un giudizio netto, buono o cattivo, bianco o nero, potrebbe essere un esercizio mentale pericoloso. E intellettualmente disonesto. Un fatto è nondimeno innegabile. La sua figura rimarrà scolpita, nel bene o nel male, sulla pietra angolare della nazione ucraina che sta cercando di risorgere dopo questa traumatica guerra. GIANLUCA LO NOSTRO
Com’è cambiata la corte di Putin dall’inizio della guerra. Lorenzo Vita il 21 febbraio 2023 su Inside Over.
L’invasione dell’Ucraina è iniziata ufficialmente il 24 febbraio 2022 con un discorso del presidente russo Vladimir Putin. Da quel momento, la storia dell’Ucraina, della Russia e del mondo è cambiata forse definitivamente. Ma è cambiata inevitabilmente anche la vita all’interno del Cremlino, che, dopo l’inizio di quella che è stata chiamata “operazione militare speciale” (e non guerra), ha inevitabilmente modificato il modo di gestire il potere di Putin e la rete di personalità influenti e burocrati intorno alla figura del presidente.
La guerra è infatti diventata uno spartiacque per Mosca e per la stagione di potere del leader russo, e questo ha fatto sì che all’interno dello Stato sono state la conduzione del conflitto e la fedeltà o meno alla linea del presidente a fare la differenza anche nell’autorità del singolo individuo del “cerchio magico“ moscovita.
I primi segnali
Un primo clamoroso assaggio di questo nuovo corso del potere russo lo si è visto proprio nelle primissime fasi della guerra, anche poco prima che essa deflagrasse con l’invio delle truppe russe in territorio ucraino. L’episodio è quello del rimprovero pubblico da parte di Putin nei confronti di Sergei Naryshkin, capo dello Svr, l’intelligence esterna russa.
La scena, per certi versi drammatica, vedeva il vertice dei servizi esterni di Mosca balbettare di fronte all’incalzante voce del presidente che quasi lo derideva per parlare della futura annessione delle regioni occupate (cosa poi avvenuta) e sull’ancora possibile negoziato con l’Occidente.
Per molti osservatori, quell’immagine sarebbe stata la condanna all’oblio di Naryshkin, uno dei “fantasmi di Leningrado”, tra gli uomini più vicini a Putin. Non è nemmeno da sottovalutare il fatto che Putin, attraverso quella sconfessione coreografica, abbia in realtà salvato il suo vero delfino nell’intelligence per un eventuale ruolo da successore. In ogni caso fu il simbolo di un cambiamento in corso in tutti i palazzi del potere in Russia.
Il ruolo di Lavrov
In questo sommovimento interno alla Federazione va poi anche osservato il ruolo del ministro degli Esteri, Sergej Lavrov. Fino a poche settimane prima della guerra, il capo della diplomazia russa era considerato non soltanto la parte più razionale e diplomatica della leadership moscovita, ma per certi versi anche la voce più lucida per un dialogo con l’Occidente. La guerra ha enormemente scalfito l’operato di Lavrov, che non è apparso solo in balia delle scelte di Putin, ma anche provocatorio nelle sue affermazioni.
Molte delle sue mosse sono apparse inutili o del tutto scenografiche. Alcune affermazioni si sono rivelate invece del tutto contrarie a quello che sarebbe avvenuto successivamente. Infine, è stato costretto anche a modificare il suo tradizionale distacco per piegarsi a un meccanismo di accuse violente e propaganda.
Lavrov è rimasto alla guida degli Esteri, come tutti i ministri più influenti sono rimasti al loro posto, ma senza particolare entusiasmo. Il conflitto ha del resto condannato la sua figura al pari di quella del suo lavoro diplomatico, relegandolo al rango di esecutore diplomatico di una strategia che probabilmente non ha mai considerato utile.
Il “contrappeso” a Putin
La guerra ha poi modificato anche la percezione del ruolo dei due principali vertici della Difesa russa: il ministro Sergej Shoigu e il capo di Stato maggiore Valerij Gerasimov. I due uomini – nella lettura di molti media occidentali – sono spesso stati visti come una sorta di contrappeso alle scelte di Putin. L’immagine dei due uomini che osservavano con preoccupazione il presidente russo durante un incontro all’inizio della “operazione militare speciale” venne letta da molti come una sorta di distacco pessimistico tra i militari e il Cremlino.
Poi, a marzo, qualcuno iniziò anche a parlare di misteriosa scomparsa e di ipotesi di rimozioni: non apparendo più in immagini pubbliche, sia Shoigu che Gerasimov erano dati come spacciati, lontani dai radar perché avevano fallito nei piani bellici. Qualcuno addirittura parlava di un grave problema di salute o di possibili morti di entrambi.
Tra un susseguirsi di cambi nella gerarchia militare e soprattutto tra chi comandava le operazioni in Ucraina, la guerra è andata parallela al coinvolgimento diretto dei due vertici militari nel conflitto e nella propaganda putiniana. La loro scomparsa è stata spesso assimilata alle sconfitte, mentre ora, per esempio, con una Russia che appare in grado di infliggere di nuovo colpi all’Ucraina, Shoigu appare sempre più spesso, mentre Gerasimov, da gennaio, è addirittura al comando della “operazione militare speciale”.
Questo potrebbe essere visto come un nuovo tentativo di rafforzare le forze armate in una fase in cui apparivano enormemente indebolite le figure apicali, quasi a salvarne la faccia dopo mesi di rischio di defenestrazione.
Kadyrov e Prigozhin, mine vaganti
Un cambiamento che per il Cremlino serve soprattutto in un’ottica politica: valorizzare il ruolo dei capi delle forze armate russe aiuta infatti a frenare le ambizioni di due uomini che durante la guerra sono stati ritenuti fondamentali, e cioè il ceceno Ramzan Kadyrov e il capo della Wagner Yevgeny Prigozhin. I due capi militari, esterni alle forze regolari di Mosca, rappresentano da un lato i vertici di feroci milizie che hanno fornito a Putin le vittorie di cui aveva bisogno per confermare all’opinione pubblica il momentaneo successo dell’invasione.
Dall’altro lato, va anche considerato che un ceceno troppo esuberante e violento e un privato che gestisce una legione di mercenari più preparata dei reparti dell’esercito al fronte hanno influito in modo negativo sia sulla percezione delle forze armate della Federazione sia sulla capacità della Russia, e quindi di Putin, nel gestire un conflitto.
I due uomini, leader politici e in un certo senso anche carismatici, sono stati addirittura inseriti nella lista dei potenziali successori di Putin in caso di golpe dei cosiddetti “falchi”. E il rischio di uno strisciante golpe di boiardi o di rinascita dei secessionismi non ha certamente rafforzato la loro posizione nel cerchio magico di Putin dopo che invece per anni (e nel primo anno di guerra) sono apparsi tra i fedelissimi dello “zar”.
Intorno alla figura di Putin, si riconoscono poi una serie di personalità sempre meno fondamentali nelle logiche pubbliche del potere. La narrazione dei fedelissimi si è andata perdendo nel corso del conflitto lasciando in disparte personaggi che invece avevano un peso politico – più o meno pubblico – anche rilevante.
I falchi e l’intelligence dello zar
Abbiamo parlato del caso di Naryshkin, primo grande campanello d’allarme per la cerchia di potere del presidente. Ma all’interno di quel circuito misto di intelligence, oligarchia e amici di Putin, un altro ad avere assistito ad ascesa e declino all’interno del Cremlino è Nikolaj Patrushev, segretario del Consiglio di sicurezza, un uomo considerato tra i più vicini al leader e che addirittura dopo alcuni mesi dall’inizio dell’invasione era visto come il successore designato dallo stesso Putin alla guida della Russia. Il “falco” è apparso con alcune interviste, ma lavora di nuovo nell’ombra, forse anche lui punito per non avere dato le risposte attese dal capo di Stato.
Una sorte simile sembra essere toccata anche al direttore del Servizio federale di sicurezza (Fsb) Aleksandr Bortnikov. Da tempo di lui si sono perse le tracce. Continua il suo lavoro come vertice del potentissimo Fsb, ma mentre prima anche la stampa occidentale ne parlava come consigliere fidatissimo e potenziale leader in caso di regime change soft tra le mura del Cremlino, ora è quasi scomparso. E di recente, la Stampa ha anche parlato dell’ipotesi della sua sostituzione con Sergei Korolev, uno dei vice di Bortnikov. Secondo il quotidiano torinese, il fatto che Korolev sia in quarantena preventiva a Mosca potrebbe confermare un incontro con Putin nei prossimi giorni: cosa che alimenta l’ipotesi di un cambio della guardia nelle gerarchie dello Fsb. Questione che rappresenterebbe una vera e propria rivoluzione per un sistema, quello dei servizi, dove tutto è ancora fortemente ancorato alla figura di Putin e ai suoi fedelissimi del fu Kgb sovietico.
In tutto questo, una serie di altre personalità politiche hanno modificato la loro posizione all’interno della guerra. L’ex presidente Dimitri Medvedev, per esempio, ha assunto il ruolo di megafono delle forze più oltranziste e nazionaliste della Russia dopo essere stato ritenuto, nella sua breve stagione presidenziale, il delfino moderato di Putin. Anche lui, al pari di altri, ha visto nella guerra un’occasione di rivalsa pubblica, diventando a tutti gli effetti il leader carismatico dei falchi e di chi vuole colpire l’Ucraina e la Nato.
Con i suoi canali social, l’ex presidente alimenta una narrazione bellicista che serve soprattutto a rafforzarlo nei circoli di potere intransigenti e nell’opinione pubblica nazionalista. Ma anche in questo caso, la sua figura appare ben lontana da quello di consigliere fidato di Putin, apparendo semmai come un uomo interessato semplicemente a rafforzarsi in vista di un possibile mantenimento della leadership di Putin (o anche solo delle elezioni).
L’imbarazzo dei tecnici e la solitudine di Putin
Accanto a queste figure più “pubbliche”, esiste poi un insieme di personalità tecniche che appaiono sempre meno influenti nel cerchio magico di Putin. Da tempo il primo ministro Mikhail Mishustin ha aumentato la retorica antioccidentale, ma appare fondamentalmente lontano dal sistema dei fedelissimi, legandosi in realtà al blocco dei pragmatici. I ministri più tecnici del governo non sembrano allineati alle decisioni di Putin. Mentre la direttrice della banca centrale, Elvira Nabiullina, ha già fatto intendere di avere perplessità sul futuro della Russia e di volere trasparenza verso imprenditori, cittadini e mercati finanziari rispetto alle conseguenze delle sanzioni, della guerra e dell’isolamento internazionale.
In tutto questo meccanismo di allontanamenti e di prove di convivenza con questo nuovo sistema di potere di guerra, appare fondamentale quanto scritto di recente su Limes da Orietta Moscatelli, e cioè che “nella notte del Natale ortodosso al Cremlino è stato celebrato il funerale del ‘Putin collettivo'”. La scelta comunicativa del presidente di apparire da solo nella chiesa dell’Annunciazione con pochi monaci (e neanche con il patriarca Kirill) sembra confermare l’immagine di un leader volutamente solo, unico e senza altri corresponsabili o complici.
Il Consiglio di sicurezza della Federazione russa, una sorta di collegio dei più importanti uomini del potere russo, è ormai distante dal capo del Cremlino. E, come ricorda Limes, il fatto che la maggioranza dei russi sia ancora saldamente fiduciosa in Putin, non abbia negato sostegno alla guerra in Ucraina e appaia soprattutto desiderosa di non perdere, in qualche modo alimenta l’idea che l’uomo solo al comando sia ancora la scelta politica migliore per il capo dello Stato.
La guerra ha stravolto il sistema di potere. E in questo senso sarà essa, come appare ormai chiaro, a decidere le sorti del putinismo. E con esso di un cerchio magico che ha già cambiato pelle e in cui tutti i personaggi più influenti hanno paura di essere considerati troppo vicini o troppo lontani dal presidente, nell’incertezza del destino di Mosca. LORENZO VITA
Corruzione, purghe e dimissioni: le lotte per il potere in Ucraina. Andrea Muratore il 21 febbraio 2023 su Inside Over.
Il potere in Ucraina è stato radicalmente trasformato dalla guerra d’aggressione scatenata dalla Russia il 24 febbraio 2022. Volodymyr Zelensky, divenuto icona della resistenza di Kiev, ha beneficiato dell’effetto rally’ around the flag della popolazione e delle istituzioni. E ha radicalmente modificato il suo approccio al potere.
Prima del conflitto Zelensky e il suo partito, Servitore del Popolo, vivevano la classica situazione della formazione di rottura giunta al potere e costretta a scontrarsi col crollo di molte illusioni di trasformazione radicale della società. L’evento straordinario della guerra ha dato alla presidenza poteri pressoché illimitati nella gestione dei gruppi di influenza, dei rapporti tra lo Stato e gli apparati economici, nella conduzione del conflitto. A cui nel corso dei mesi sono però subentrati altri centri di potere a partire dall’intelligence militare, ghiandola pineale dello Stato e perno del rapporto securitario con l’Occidente, e delle forze armate.
Quel che è certo è che il percorso del potere ucraino verso il crescente accentramento delle funzioni attorno la presidenza non è stato, come si è visto, indolore. E la gestione della catena del comando e dei rapporti politici più strutturati è passata attraverso incidenti, scandali e rese dei conti.
Sono almeno tre gli eventi chiave del percorso di sviluppo del potere in Ucraina dallo scoppio della guerra in avanti. Il primo è legato alla ridefinizione del rapporto tra Zelensky e gli oligarchi di Kiev. Il secondo all’onda lunga dello scandalo corruzione che ha colpito diversi ministeri. Il terzo alle dimissioni di Oleksij Arestovych, consigliere strategico numero uno di Zelensky. A cui si aggiunge il tema del misterioso incidente d’elicottero di Brovary, a Kiev, del 18 gennaio che ha decapitato i vertici della sicurezza interna.
Come cambia il potere degli oligarchi con la guerra
Tenersi vicini gli amici e ancora più vicini i propri nemici. Questa la logica che Zelensky ha seguito nel contesto della gestione dei rapporti di potere tra Stato e oligarchi a partire dall’invasione.
A luglio Zelensky è arrivato a inserire il suo storico patron Igor Kolomoisky nella lista di dieci figure a cui è stato tolto ogni diritto di cittadinanza per presunte attività sovversive. Kolomoisky, editore delle Tv dai cui canali “Servitore del Popolo” divenne da serie Tv con Zelensky protagonista un partito con l’ex comico come leader, si trova ora in Israele.
Tra gli oligarchi invece è diventato sempre più potente Rinat Akhmetov, patron dello Shaktar Donetsk e storico avversario del presidente, che a novembre 2021 lo aveva addirittura accusato pubblicamente di trame golpiste. Akhmetov, magnate della metallurgia e patron dell’Azovstal di Mariupol, ha perso due terzi del suo patrimonio con la guerra, ma con circa 4,5 miliardi di dollari è ancora l’uomo più ricco del Paese e tra i 700 più facoltosi del pianeta. Ha finanziato attivamente la guerra di resistenza dell’Ucraina e le sue proprietà, assieme a quelle appartenenti all’ex primo ministro ucraino Arseniy Yatsenyuk, sono state sequestrate dai russi in Crimea.
Akhmetov ha negoziato il ritorno nell’alveo dei buoni rapporti col potere in cambio dell’uscita dal business dei media proprio per sottrarsi alla formale etichetta di “oligarca” prevista dalla legge contro gli oligopoli dalla dubbia legittimità democratica prevista dal governo di Kiev per accelerare la lotta alla corruzione e varata nel 2021. Mano libera al presidente sulla comunicazione e sostegno fermo a Zelensky, tregua con il potere sulle ambizioni politiche, difesa del business industriale e finanziario della sua System Capital Management (Scm): questa la terna di priorità su cui Akhmetov ha patteggiato il suo riconoscimento dell’autorità presidenziale, al contrario di quanto fatto da Kolomoisky. Zelensky ha così trasformato un suo strenuo oppositore in un fedele e indispensabile alleato.
Al contempo, l’ex presidente Petro Poroshenko, sconfitto da Zelensky nel 2019, appare rientrato a fianco dell’esecutivo dopo anni di braccio di ferro col suo successore. Ha lealmente sostenuto la difesa ucraina, si è prestato a consigliare Zelensky su come chiedere all’Occidente spingere sulle sanzioni alla Russia per colpire l’economia russa e si è rilanciato per un futuro imprenditoriale e politico. Sfuggendo alla mannaia anti-corruzione dell’esecutivo.
Lo tsunami corruzione
La corruzione si conferma un tarlo nel Paese. La Corte dei Conti Ue a fine 2021 scriveva che “in Ucraina la corruzione rimane presente ad ogni livello dello Stato” e rappresentava una minaccia al processo di adesione europea di Kiev. L’Unione europea, scriveva la Corte, “ha cercato di combattere il fenomeno nel Paese, convogliando fondi e interventi in svariati settori, dalla concorrenza al sistema giudiziario, ma il sostegno fornito e le misure attuate non hanno prodotto i risultati attesi”.
Zelensky è stato eletto anche con l’obiettivo di ripulire il Paese dalla corruzione, ma la guerra ha fatto venire alla luce i problemi endemici dei profittatori di guerra e dello sciacallaggio. Il 21 gennaio il viceministro per lo Sviluppo delle infrastrutture, Vasyl Lozynski, è stato arrestato e silurato dal governo nel quadro di un’inchiesta che lo ha visto indagato per presunte manipolazioni di bandi per l’acquisto di generatori elettrici per garantire la sicurezza di Kiev contro i raid russi invernali.
A cascata, il sottogoverno del Paese è stato falcidiato. Tra fine gennaio e inizio febbraio si sono dimessi o sono stati rimossi il vicecapo dell’Ufficio presidenziale, Kyrylo Tymoshenko, altri quattro viceministri (dalla Difesa, Vyacheslav Shapovalov, dalle politiche sociali Vitaliy Muzychenko, dallo Sviluppo delle Comunità, Ivan Lukerya e Vyacheslav Negoda), il procuratore generale in seconda Oleksiy Simonenko e i vicecapi del Servizio statale dei Trasporti Marittimi e Fluviali, Anatoliy Ivankevych e Viktor Vyshnyov.
Ora su questi fatti indaga la magistratura interna. Zelensky ha preso al balzo la palla per ripulire l’amministrazione centrale dell’annoso radicamento di sistemi di corruttele interne agli apparati. E a rischiare di cadere è stata anche la testa del ministro della Difesa Olekseij Reznikov, colpito dalle accuse di omessa vigilanza sulle mosse del suo vice per presunte manipolazioni al rialzo di commesse per le forniture dell’esercito e retrocesso all’Industria. Si è detto per diversi giorni che Reznikov avrebbe perso la guida della Difesa venendo sostituito da Kyrylo Budanov, già capo dell’intelligence militare. Ma a quanto sembra Zelensky avrebbe optato per non muovere troppe pedine.
La militarizzazione del potere
Budanov, giovane maggior generale, ha comunque in questa fase contribuito alla militarizzazione del potere di Kiev. Sempre più marziale e oltre la linea della gestione diplomatica del conflitto. La Difesa e l’intelligence sono ad oggi le centrali più importanti vicine alla presidenza, mentre il ministero degli Esteri è oggigiorno in declino. E Dmitry Kuleba, titolare del dicastero, subisce le intemperanze e le gaffe del “falco” suo vice, Andriy Melnyk.
A contribuire a questo processo anche la morte, nella caduta dell’elicottero a Kiev del 18 gennaio scorso, del ministro dell’Interno Denys Monastyrsky, del suo vice, Yevhen Yenin, e del segretario di Stato del ministero, Yurii Lubkovich. Al cui posto è stato chiamato Igor Klymenko, ex capo delle polizia e militare di carriera, “falco” antirusso come Budanov e Melnyk. La cui ascesa ha seguito di poco l’uscita dal governo del consigliere militare più ascoltato da Zelensky, Oleksij Arestovych, l’uomo che aveva previsto la guerra, “reo” di aver aperto all’ipotesi di una soluzione diplomatica del conflitto.
Le stelle polari? Zaluzhny e Podolyak
Chi invece è rimasto stabile nella sua posizione e intoccabile è il duo che guida la resistenza operativa di Kiev. Da un lato, il generale Valery Zaluzhny, comandante in capo delle Forze Armate. Uomo pragmatico e soldato tutto d’un pezzo. A cui si aggiunge lo stratega della guerra-ombra ucraina, Mykhalio Podolyak, tra i capo-consiglieri del presidente, regista della guerra asimmetrica condotta dalle spie ucraine contro Mosca e in sostegno all’Occidente. Punto di convergenza tra politica, diplomazia e intelligence, il cui ufficio è la camera di compensazione tra desideri di Zelensky, richieste occidentali e appunti degli apparati riguardo la gestione del conflitto.
Zelensky, Zaluzhny, Podolyak: questo il triumvirato di testa del potere ucraino. Un triangolo, più che un cerchio magico, attorno cui la sfera del potere di Kiev ruota vorticosamente.
Tra militarizzazione, purghe, tragedie e lotte tra clan di potere il conflitto è un acceleratore. E il sistema di potere di Zelensky si accorge del fatto che il suo equilibrio interno è ad oggi legato alla guerra stessa, mentre le prospettive per il post-conflitto appaiono ad oggi assai incerte. ANDREA MURATORE
Il volto della guerra: cosa ci ha insegnato. Paolo Mauri il 22 febbraio 2023 su Inside Over.
L’invasione russa dell’Ucraina cominciata il 24 febbraio 2022 ha riportato lo spettro della guerra in Europa dopo più di venticinque dal termine delle ostilità nei Balcani determinate dallo sfaldarsi della Jugoslavia. Quel conflitto aveva caratteristiche però diverse da quello attualmente in corso: era caratterizzato infatti da una forte componente indipendentista, e sebbene combattuto “convenzionalmente” (se pur con la presenza di milizie paramilitari volontarie) si può ascrivere nel campo dei conflitti etnici/religiosi.
Come il terrorismo ha cambiato gli eserciti
Una guerra di conquista in Europa non si vedeva dalla Seconda guerra mondiale, il cui termine ha portato la divisione del mondo in blocchi contrapposti e una frontiera impenetrabile in Europa che ha separato il continente sino al 1989: la Cortina di Ferro. Questa spartizione, in funzione degli accordi di Jalta, ha garantito una pace armata in Europa durata decenni – la Guerra Fredda – e il collasso dell’Unione Sovietica del 1991 ha determinato la nascita di un mondo unipolare che si credeva falsamente stabile.
La fine delle dinamiche di opposizione tra due sistemi diversi (capitalismo e socialismo), ha generato l’insorgenza del terrorismo internazionale di stampo religioso e consequenzialmente la necessità del suo contrasto attivo anche al di fuori dei confini nazionali dei Paesi vittima delle sue manifestazioni. Pertanto lo strumento militare è radicalmente cambiato nel corso del decennio 1990/2000, e gli eserciti (non solo occidentali) hanno sviluppato dottrine di counterterrorism e counterinsurgency che hanno portato con sé l’accantonamento del warfighting tradizionale, ovvero le operazioni belliche tra enti statuali.
Riduzione del personale, fine della coscrizione, ridimensionamento delle forze pesanti e di quelle aeree sono i principali effetti di questa conversione che ha portato con sé anche la rimodulazione del complesso militare industriale, non più chiamato a soddisfare ordini per centinaia o migliaia di mezzi ed equipaggiamenti destinati alle forze armate.
In particolare lo stato delle forze pesanti è emblematico di questo passaggio epocale: il numero di Mbt (Main Battle Tank) presenti negli eserciti europei è drasticamente diminuito in quanto era venuta a cessare la minaccia convenzionale data dall’URSS e dai Paesi del Patto di Varsavia.
Lo choc della guerra in Ucraina
Il conflitto in Ucraina, da questo punto di vista, è stato uno choc: improvvisamente la minaccia di un’invasione in grande stile, in Europa, si era fatta reale. Eppure segnali in questo senso c’erano già stati nel corso dei vent’anni precedenti: prima ancora del colpo di mano russo in Crimea e della destabilizzazione del Donbass nel 2014, la Federazione si era impegnata in una campagna militare contro la Georgia per ottenere il controllo dell’Ossezia del Sud nel 2008.
Una prima lezione che è stata appresa dalla guerra in corso è stata quindi la necessità di rimodulare le forze armate, in particolare quelle terrestri, al warfighting convenzionale e simmetrico, quindi dando importanza all’addestramento in tal senso, all’acquisizione di nuovi/ulteriori sistemi d’arma di tipo pesante per l’esercito (Mbt e artiglieria), al potenziamento dello strumento aereo, alla capacità di interdizione e attacco marittima, e al mantenimento di un’elevata prontezza operativa – il che richiede che tutte le unità siano alimentate al 100% con personale pronto a muovere.
Il sostegno militare dei Paesi della Nato e partner a Kiev, poi, ha mostrato sia le carenze delle scorte di munizioni ed altro equipaggiamento sia i limiti dell’industria bellica, che a fatica riesce a sostenere i ritmi imposti dalla guerra. Pertanto questo conflitto sta mutando le politiche industriali di alcuni Paesi occidentali, da troppo tempo abituati a una condizione di “pace” che erroneamente si pensava duratura, o comunque essere una condizione quasi perpetua in prossimità dei propri confini.
Il ritorno della competizione tra Stati
L’invasione russa dell’Ucraina ha infatti mostrato che il paradigma di riferimento nell’escalation dei rapporti tra Stati, ovvero il modello “competizione-crisi-conflitto”, sebbene sia obsoleto, è ancora possibile nonostante l’introduzione del concetto di “concorrente” che spiega a livello macro quanto sta accadendo in Europa e in altri scacchieri mondiali. I rapporti tra potenze globali (e relative alleanze) sono passati a uno stato di “competizione duratura” (continuum competition), ovvero di tensione internazionale permanente in cui diventa sempre più complesso tutelare i propri interessi, che può anche sfruttare attori minori, secondari o partner. Questa situazione è destinata a perdurare e acuirsi in futuro generando una ricorrente instabilità (pervasive instability) contraddistinta da fenomeni imprevedibili e dinamici, spesso con azioni condotte nella “zona grigia” (gray zone) e quindi al di sotto del livello di innesco di un conflitto aperto. I concetti di “competizione duratura” e “ricorrente instabilità” non sono del tutto nuovi: circolano negli ambienti della Difesa da tempo.
La guerra in Ucraina ha anche riproposto l’importanza dei sistemi unmanned non solo espressamente costruiti per le forze armate: piccoli droni facilmente reperibili in commercio sono stati usati per la ricognizione sul campo, per dirigere il tiro di artiglieria e anche come strumenti di attacco al suolo improvvisati montando artigianalmente piccole bombe di mortaio o Rpg (Rocket Propelled Grenade). Qualcosa che si era già visto nel teatro siriano ma che si pensava fosse limitato ai conflitti asimmetrici.
Sono state fatte anche importanti valutazioni dello strumento aereo in considerazione dell’attività di soppressione/distruzione delle difese aeree nemiche effettuata dalla Vks (Vozdushno-Kosmicheskiye Sily), che hanno dimostrato – soprattutto per via della dottrina russa di impiego dell’aviazione – l’importanza del decentramento, l’efficacia dei sistemi standoff, e la necessità di limitare l’uso di moderni vettori di precisione per mantenere la capacità di deterrenza.
Ancora una volta è apparsa evidente la caratteristica “multidominio” di un conflitto, in quanto le operazioni militari vere e proprie sono state anticipate da attacchi cibernetici e da una pesante campagna di disinformazione (dominio informativo), senza dimenticare la centralità dello spazio come evidenziato dall’assistenza fornita all’Ucraina da partner occidentali civili e militari nei settori delle comunicazioni, navigazione e intelligence.
La fine dell’illusione unipolare
Passando a un’analisi politica, la guerra ha sancito la fine dell’illusione dell’unipolarismo. La Russia ha avviato il conflitto declinando in modo hard la contestazione delle regole del diritto internazionale (ritenute dal Cremlino plasmate dall’Occidente per proprio tornaconto) per i propri interessi strategici. La stessa visione è declinata in modo soft – per ora – dalla Cina che comunque osserva con vivo interesse quanto sta accadendo in Ucraina perché avrà riflessi nel suo futuro agire all’interno dello scacchiere del Pacifico Occidentale.
Da ultimo il conflitto ha evidenziato come i metodi sanzionatori in ambito commerciale ed economico sono solo parzialmente efficaci per erodere il potenziale bellico di una nazione che può contare su vaste risorse, e soprattutto se protratti per lungo tempo, permettono una rimodulazione del tessuto economico avversario e la ricerca di canali di approvvigionamento alternativi per i beni necessari colpiti da embargo; infine la stessa capacità di deterrenza delle sanzioni appare del tutto inefficace se si considera che la Russia non ha abbandonato l’idea di attaccare l’Ucraina nonostante la minaccia di ulteriori pesanti sanzioni dopo quelle elevate nel 2014.
Vogliamo però concludere questa trattazione, per una volta, con un aspetto umano: la guerra in Ucraina ci ha insegnato ancora una volta che, nonostante i missili ipersonici, i droni, l’intelligenza artificiale, la guerra elettronica e tutto quanto di più moderno e “asettico” possa essere schierato da un esercito, un conflitto è ancora un affare di uomini che combattono sul campo, e che l’uomo, oltre a essere la risorsa più preziosa per un esercito, è anche il fattore capace di generare le più efferate violenze anche senza l’uso di strumenti bellici avveniristici. PAOLO MAURI
La guerra dei droni nei cieli dell’Ucraina. Davide Bartoccini su Inside Over il 23 febbraio 2023.
La guerra moderna, quella che si sta combattendo sul fronte ucraino tra eserciti convenzionali che mettono in campo ogni strategia e tecnologia, dalla guerriglia alla guerra ibrida, dal vecchio fucile d’assalto sovietico Ak-47 ai nuovi droni da battaglia mai in impiegati su così vasta scala e da ambo le parti, ci ha mostrato, in questo ultimo sofferto e sanguinoso anno di guerra, come i conflitti e il loro svolgimento sul campo siano in procinto di mutare per sempre. Se un secolo fa gli uomini assistevano con stupore ai primi “duelli” del cielo tra pionieri dell’aviazione che si misuravano nelle prime manovre di combattimento, scambiandosi “bordate” di pallottole da pistole automatiche come fossero fregate di marina; nei cieli dell’Ucraina che lambiscono l’Europa posta sotto l’ombrello difensivo della Nato, dove ogni giorno centinaia di droni da ricognizione e d’attacco portano a termine la loro missione, abbiamo assistito – per la prima volta – ad un combattimento aereo tra Uav (unmanned aerial vehicle): gli aeromobile a pilotaggio remoto che fino ad ora non aveva mai trovato un pari avversario nell’aria.
Si è registrato pochi mesi fa, nell’ottobre del 2022, e non si può avere un dato certo su quale sia stato il primo – come non si è ancora accertato veramente quali sono stati i primi piloti a combattere da un aereo all’altro – ma è stato confermato da un video, seguito da molti altri simili, come i droni dell’eterogenea flotta pilotata in remoto dagli ucraini abbia speronato un drone russo provocandone lo schianto. Provocando l’immediata “emulazione” da parte degli avversari per quello che è un nuovo e inatteso capitolo della guerra aerea.
La nuova guerra dei droni
Mentre a terra i carri armati e le batterei di razzi martellano i trinceramenti dei soldati che patiscono il gelo dell’inverno in attesa delle offensive e controffensiva di primavera, nemmeno stessimo leggendo un passo del libro di Erich Maria Remarque, in cielo piccolo prodigi della tecnologia svolgono un ruolo fondamentale in un conflitto che fornirà a strateghi, analisti e storici, le basi per studiare la misura nella “guerra del futuro” che si sta combattendo davvero, sul campo.
Se nei conflitti contemporanei, i droni considerati come “nuova” piattaforma da battaglia (sebbene siano impiegato con successo già dalle guerre balcaniche, che video il battesimo dell’aria dei primi Predator, ndr) erano principalmente impiegati in teatri dove si combatteva una guerra asimmetrica, per individuare e solo insieme seguito eliminare con il loro carico di missili guidati – pensiamo ad Afghanistan e Siraq – nel conflitto tra si sta consumando tra Russia e Ucraina, per la prima volta entrambe le parti sono dotate di questo tipo di arma e dei sistemi anti-aerei/di disturbo per sventare rispettivamente la minaccia. Motivo per il quale siamo assistendo ad un affinamento della strategie per il loro impiego, o forse, considerando che abbiamo appena parlato di uno speronamento, di “futuristiche” quanto efficaci regressioni.
Appare chiaro come questo nuovo approccio possa cambiare del tutto le strategie per l’impiego operativo degli Uav che sono esposti ad una nuova minaccia e non possono più essere piattaforme costose, delicate e incapaci di difendersi autonomamente.
Attualmente l’impiego di droni da parte di Kiev, che ne affida l’utilizzo alle forze speciali, è comunque incentrato sull’osservazione del campo di battaglia. Piccole unità dotate di droni da ricognizione che hanno preso il nome di “Ochi” (Occhi, ndr), che raggiungono varie posizioni sul fronte e liberano i loro droni per seguire gli spostamenti dall’alto, ed individuare l’avversario per poi mandare le coordinate di postazioni di comando russe, batterie d’artiglierei e sistemi da guerra sofisticati che “meritino” l’impiego di munizionamento guidato fornito dagli Occidentali.
Accanto agli “aerei in miniatura” noti come i droni Punisher di progettazione ucraina – i preferiti dalle forze speciali ucraine poiché “incaricato” di recapitare piccole munizioni con un carico esplosivo di poco superiore ai 2 chilogrammi per un raggio d’azione di poco inferiore ai 50 chilometri – vengono impiegati prevalentemente droni di dimensioni ridotte, economici, del tipo para-commerciale (perché sicuramente vengono apportate più modifiche). Stiamo parlando di quadricotteri Matrice 300 o Mavic, entrambi prodotti in Cina ma acquistati su canali paralleli dal momento che ogni azienda produttrice cinese ha preso le distanze dalla guerra.
Piccoli “giocattoli della domenica” che come spiegato in dettaglio sul Washington Post, una volta in prima linea vengono commutati in armi da battaglia per la guerra moderna. Qualcosa di mai visto, solo teorizzato. Le forze speciali ucraine impiegano i Mavic con piccole “lattine di Coca-Cola” inzeppate di esplosivo e collegare ad un sistema di “sgancia” per farle cadere sui campi minati e aprire dei varchi, ma anche per colpire il nemico e sottoporlo ad una nuova sorta di “guerra psicologica”, dato che le lattine esplosive vengo impiegate anche sugli accampamenti russi, e ormai sentir ronzare un piccolo drone “della domenica” potrebbe equivalere a saltare in aria per una lattina carica di tritolo o simili.
Dall’altra parte del fronte, i russi si affidando all’Orlan-10, il principale drone da ricognizione dell’esercito di Putin che vanta anche capacità di guerra elettronica – che gli consente acciecare i droni avversari – ma ci ricorda una delle più grandi problematiche di Mosca: la carenza di componenti microelettroniche, essenziali per sistemi più avanzati che la Federazione Russa ha sempre acquistato all’estero, senza farne sufficiente incetta prima della rafforzamento delle sanzione che le impediscono di acquisirli. Secondo quanto riportato dalla stampa internazionale, il ministero della Difesa russo avrebbe riconosciuto ufficialmente questo suo deficit. Svelando il secondo grave “problema di approvvigionamento“ dopo quello dei sistemi di guida del munizionamento intelligente che già da mesi si è ipotizzato inizi a “scarseggiare” negli arsenali di Mosca, o almeno in quelli ai quali si è attinto fino ad ora per le operazioni militari in Ucraina. Secondo le fonti ucraine, sarebbero 580 Orlan-10 abbattuti durante quest’anno. Un numero enorme per un’arma di questo tipo.
I principali droni stranieri sul fronte ucraino
Bayraktar Tb2 di fabbricazione turca. Kiev ha acquistato i primi nel 2019, utilizzandoli principalmente come droni da ricognizione nel conflitto mai cessato con i separatisti filo-russi attivi sulla quella che era la linea di demarcazione nel Donbas. Nell’ottobre 2021 un TB2 ha effettuato il suo primo attacco da “drone armato”, il suo bersaglio era un obice nemico. I TB2 turchi, che hanno un costo unitario di cinque milioni di dollari possono essere considerati come piattaforma UAV più potente della flotta aerea di Kiev, essendo capati ci trasportare e sganciare sul bersaglio quattro missili a guida laser – MAML o anticarro UMTAS, entrambi prodotti dall’azienda turca Roktsan – nelle sortite che possono durare fino a 24 ore, tenendo un’altitudine oltre i 7.000 metri. Praticamente capacità analoghe ai Predator RQ-1 statunitensi. I Bayraktar hanno avuto un posto di rilievo nei conflitti in Libia e Siria, svolgendo un ruolo non meno decisivo nei combattimenti tra Azerbaigian e Armenia nel Nagorno-Karabakh. L’esercito di Kiev ha usato i TB2 per attaccare le basi e le navi russe sull’isola dei serpenti nel Mar Nero, da cui le forze di Mosca si sono ritirate abbandonando un presidio che si credeva perso per sempre.
Per parte sua la Russia – che pure ha sviluppato negli anni diversi programmi per l’ottenimento e dispiegamento di droni da battaglia – ha acquistato, e impiegato per bersagliare obiettivi di ogni tipo, sia militari che civili, centinaia di droni di fabbricazione iraniana Shahed-136. Droni kamikaze basati sul concetto di ala volante capaci di trasportare con un carico esplosivo di oltre trenta chilogrammi per un raggio d’azione di 2.500 chilometri.
Utilizzati, come opzione a basso costo che oltre a supplire la carenza di munizionamento di precisione russo, ha attirato i missili terra-aria come ucraini come gli S-300 e i Buk che erano preposti alla soppressione della minaccia aerea. Un genere di armamento che non manca nell’arsenale fornito alle truppe di Kiev, che hanno ricevuto le loitering-munition Switchblade gentilmente concesse dagli Stati Uniti.
Si tratta di un piccolo Uav killer lanciabile da un dispositivo portatile simile a un mortaio, con una tangenza di 15,000 piedi ed è stato impiegato con successo in Afghanistan contro quelli che gli americani classificano come “high value targets”, generalmente leader e personalità influenti delle organizzazioni terroristiche ma anche postazione trincerate come un nido di mitragliatrici.
Un duello tra droni
Entrambe le parti belligeranti continuano a impiegare droni secondo l’uso convenzionale che se ne è fatto fino ad ora: compiere voli di ricognizioni per acquisire informazioni e localizzare bersagli sui quali guidare il fuoco dell’artiglieria. L’uso dei droni kamikaze da parte dei russi, che hanno messo nel mirino la rete elettrica ucraina, è una nuova declinazione dell’impiego del drone, ma non essenzialmente una “novità” dato che i droni kamikaze o “suicide drone” sono stati sviluppati proprio per questo genere di azione. Ciò ha anche fatto luce sulla difficoltà d’intercettazione di questi piccoli oggetti volanti che non vengono individuati dai radar e in ogni caso richiederebbero l’impiego di costosi missili dei sistema di difesa aerea Patriot o Nasams, senza costringere l’avversario a sacrificare o mandare a vuoto un sistema d’arma altrettanto costoso. La guerra, come ben sappiamo, è fatta anche di economia.
I duelli tra droni, che come abbiamo detto incentrano le loro tattiche su manovre di speronamento, stanno già assistendo ad un affinamento della tecnica, vedendo gli attaccanti ucraini compiere dei “tuffi” sui droni russi piombandogli dall’alto e sfruttando il loro “punto cieco” e mirando, da una parte come dall’altra ai rotori dei quadricotteri che perdendo anche una singola lama di uno delle pale, perdono il controllo schiantandosi a terra, potrebbero però passare in secondo piano grazie a una nuova tecnologia che come le altre potrebbe mostrarci – sul campo – un’altro scenario delle guerra del futuro: i droni intercettori.
Proprio per ovviare alle letali incursioni dei droni kamikaze iraniani impiegati dai russi, Kiev sta pensando – con il supporto di quelli che ormai sono a tutti gli effetti i suoi “consiglieri” occidentali – all’impiego su vasta scala del sistema Marss. Fabbricato da una startup attiva nel settore della difesa con sede a Monaco, tale sistema si basa su una nuova tipologia di drone che utilizzando l’intelligenza artificiale identifica, traccia e attacca autonomamente i suoi obiettivi in aria.
Ma questa, come al solito è soltanto la punta dell’iceberg. Se fino a dieci anni fa – quando le tensioni tra Russia e Ucraina manifestavamo le avvisaglie di un conflitto che ancora oggi si combatte – il “drone” era considerato come un’arma pionieristica, maneggiata da pochi ed estremamente “solitaria” – i primi Uav infatti venivano mandati a combattere in territori distanti e ostili, contro gruppi di guerriglieri armati al massimo di Rpg, e mitragliatrici leggere incapaci di abbatterli – oggi chi ne sa più di noi ipotizza già “flotte di droni intercettori” a caccia di formazioni di “droni bombardieri” che potrebbero ricevere a loro volta la copertura di droni da combattimento posti a protezione. Insomma, lo stesso scenario delle battaglia aeree del passato, quelle della seconda guerra mondiale, con le stesse tattiche, ma con un piccolo non trascurabile dettaglio a fare la differenza: l’assenza dell’essere umano in quel vortice di manovre di combattimento che l’asso da caccia francese Pierre Clostermann chiamava ai suoi tempi “Le grand cirque“. DAVIDE BARTOCCINI
Missili, tank e jet: così la guerra è diventata un banco di prova per le armi
Paolo Mauri su Inside Over il 23 febbraio 2023.
Il conflitto iniziato il 24 febbraio 2022 con l’invasione russa dell’Ucraina, ha permesso di schierare nuovi sistemi d’arma e utilizzare nuovi concetti di impiego di armamenti e mezzi mai usati prima in un reale ambiente bellico.
L’Ucraina è quindi diventata un laboratorio per le armi come avviene per ogni conflitto, in ogni tempo, da parte di ogni Paese. Per l’esercito statunitense e per quello russo, ma anche per le forze armate degli altri alleati della Nato, il conflitto è un’incredibile fonte di dati sull’utilità dei propri sistemi.
La parte occidentale
Da parte occidentale, ad esempio, abbiamo visto in azione la loitering munition “Switchblade”, che nonostante sia uno degli ultimi ritrovati della tecnologia bellica, non ha trovato il favore delle truppe ucraine che hanno preferito affidarsi ad altri sistemi simili, anche di produzione locale.
Come non ricordare, poi, il sistema Mlrs (Multiple Launcher Rocket System) M-142 Himars, che sino a questo conflitto non si era mai confrontato con un avversario “di pari livello” rappresentato da un esercito regolare che utilizza tattiche di guerra convenzionali come quello russo, essendo stato impiegato solamente in Afghanistan precedentemente. Proprio gli Himars, quando sono arrivati in numero adeguato, hanno dimostrato tutto il loro effetto dirompente grazie alla loro gittata (circa 70 chilometri col munizionamento M30 ed M31) e alla loro precisione, data da un sistema di guida Gps/inerziale. Gli M-142 sono stati fondamentali per il buon esito delle controffensive ucraine della scorsa estate, ed il loro successo è dimostrato anche dai nuovi ordini che sono arrivati alla Lockheed-Martin e dalla decisione di aprire uno stabilimento produttivo in Europa. Gli osservatori statunitensi, poi, grazie all’impiego intensivo di questo Mlrs da parte degli ucraini, hanno potuto apprendere preziose lezioni sulle tempistiche di riparazione e di manutenzione degli Himars.
L’alta mobilità degli M-142 insieme alla velocità di lancio/ricarica, è servita anche a effettuare nuove valutazioni sulla classica artiglieria trainata: gli obici M-777, benché siano strumenti di ottimo livello, hanno dimostrato i loro limiti dati dall’usura della canna (più colpi si sparano più se ne consuma l’anima, soprattutto se rigata) e dalla scarsa mobilità, in quanto una batteria di questo tipo di artiglieria richiede tempo per essere messa “in linea” e per essere successivamente spostata. Qualcosa di già noto agli eserciti di tutto il mondo, ma che è emerso in modo molto evidente nella guerra in Ucraina, caratterizzata da un fuoco di controbatteria molto rapido ed efficace.
Restando tra gli obici, primo impiego in un conflitto simmetrico anche per il semovente francese Caesar e per il tedesco Pzh-2000, anch’essi utilizzati prima di questa guerra solo nella lunga campagna afghana. Debutto anche per i sistemi da difesa aerea land based Iris-T, forniti dalla Germania all’Ucraina, anche se al momento non sono stati resi noti dati riguardanti il loro impiego bellico, e sempre restando nel campo della missilistica, presto arriveranno i sistemi italo-francesi Samp-T e i razzi del sistema statunitense Glsdb.
Dal punto di vista tattico, l’esercito ucraino ha impiegato una nuova tattica di combattimento organizzando squadre/plotoni di fanteria armati di Atgm (Anti Tank Guided Missile) anche di fabbricazione occidentale come i Javelin o gli Nlaw, per contrastare le colonne corazzate e meccanizzate russe con tattiche di guerriglia, sfruttando soprattutto l’assenza della fanteria russa di supporto ai carri armati. Un errore costato caro all’esercito di Mosca. Medesima tattica usata anche utilizzando Manpads (Man Portable Air Defence System) come i missili spalleggiabili “Stinger”.
Soprattutto gli ucraini, prima dei russi, hanno introdotto un uso molto particolare dei droni di tipo commerciale, dimostrando anche una notevole capacità di adattamento/inventiva modificandoli, in alcuni casi, in modo da poter trasportare munizionamento o mitragliatrici. I piccoli quadricotteri sono stati usati per dirigere il tiro di artiglieria, oppure come strumenti di ricognizione sul campo, ma soprattutto sono stati usati come piccola artiglieria volante aggiungendo meccanismi auto-costruiti di sgancio di granate o bombe da mortaio di piccolo calibro. Non si tratta solo di una mossa frutto della disperazione: l’idea infatti è stata ripresa a livello industriale da alcuni costruttori di sistemi d’arma, come dimostrato dalla vietnamita RT Robotics.
La sperimentazione russa
Anche dal lato russo si è dato ampio spazio alla sperimentazione di nuovi sistemi d’arma, sebbene alcuni di essi già visti in altri teatri asimmetrici come quello siriano.
Risulta infatti che anche nei cieli ucraini si sia visto il caccia di quinta generazione Sukhoi Su-57, che, secondo i russi, avrebbe effettuato alcune missioni a fuoco. Sul terreno, ad aprile, si è visto l’Ugv (Unmanned Ground Vehicle) sminatore Uran-6 e il 3 febbraio sono comparse immagini che ritraggono il primo sistema da combattimento terrestre senza pilota “Marker” schierato nell’area di operazioni. L’ex direttore di Roscosmos, Dmitry Prigozin, ha affermato che il “Marker” verrà testato in combattimento armandolo con missili anticarro.
Primo impiego in combattimento anche per il Bmpt-72 “Terminator”, un veicolo corazzato di supporto per gli Mbt (Main Battle Tank) ma che può anche essere usato in appoggio alla fanteria come dimostrato dalle immagini giunteci dal fronte. Il Bmpt-72 è basato sullo chassis del carro T-72 e nella sua prima versione era armato con un singolo Atgm 2A42, quattro Atgm “Kornet” e una mitragliatrice Pktm da 7,62 millimetri come armamento secondario. Un ulteriore sviluppo ha visto la comparsa di una coppia di cannoni automatici da 30 millimetri, ed il “Kornet” è stato sostituito coi più moderni Atgm “Ataka-T”.
Tornado nei cieli, l’Ucav (Unmanned Combat Air Vehicle) “Orion” ha effettuato le sue prime missioni operative, sebbene, dopo alcune settimane di guerra, non risulti che sia stato più utilizzato ed è probabile che questi droni siano stati messi a terra per carenza di parti di ricambio, preferendo affidarsi a quelli di fabbricazione iraniana.
Il conflitto ha decretato la fine prematura della carriera di un’intera classe di unità navale in forza nella marina russa: le sei corvette (pattugliatori) della classe project 22160 sono state ritirate da compiti di prima linea a causa delle scarse prestazioni dimostrate nel conflitto, e la Vmf (Voenno-Morskoj Flot) ha deciso lo scorso giugno di rinunciare alla consegna del secondo lotto di sei unità.
Passando al campo della missilistica, i russi hanno utilizzato per la prima volta il vettore ipersonico Kh-47M2 “Kinzhal” e il sistema per missili balistici a corto raggio (Srbm) Iskander-M. Il “Kinzhal” è un missile balistico aviolanciato (viene agganciato a una versione speciale del MiG-31, la K) che risulta essere stato utilizzato diverse volte in questo conflitto, mentre il missile 9M723-1 dell’Iskander-M ha avuto un ruolo centrale insieme ai missili da crociera nel colpire obiettivi di elevata importanza o che necessitavano di una particolare precisione. Sembra inoltre che siano stati usati anche i vettori da crociera 9M729 lanciati dall’Iskander-K, prodotti in violazione del defunto Trattato Inf, ma attualmente non c’è certezza.
Per le loitering munitions russe, i Lancet e Kub, vale lo stesso discorso fatto per gli obici semoventi occidentali o per gli Himars: si tratta del loro primo impiego in un conflitto simmetrico, essendo già stati usati in Siria. Anche per i droni iraniani usati dall’esercito di Mosca, in particolare le loitering munitions Shahed-136 (ridesignate Geran-2 dai russi), i Mohajer-6, insieme ai Shahed-129 e 191 questo è il primo conflitto simmetrico, e l’Iran – con la Russia – potrà fare attente valutazioni della loro efficacia sul campo di battaglia oltre sfruttare l’occasione per piazzare eventuali ordini dall’estero. PAOLO MAURI
Eserciti di Russia e Ucraina a confronto: cosa ha insegnato la guerra. PAOLO MAURI su Inside Over il 23 febbraio 2023.
Nella notte del 24 febbraio del 2022 un intenso attacco missilistico ha dato inizio al conflitto in Ucraina. L’esercito russo ha invaso il Paese dopo che per mesi Mosca aveva accumulato truppe e mezzi lungo tutto il confine orientale e settentrionale ucraino, compreso quello con la Bielorussia.
L’invasione si è sviluppata lungo cinque direttrici principali (sei se consideriamo doppia quella su Kiev effettuata da nord-est e nord-ovest) con lo scopo di provocare il collasso dell’esercito ucraino e di arrivare rapidamente alla capitale per rovesciare il governo Zelensky ed instaurare un regime fantoccio.
La consistenza delle forze russe
La Russia ha impiegato, nella fase iniziale dell’invasione, complessivamente un numero compreso tra i 100 e i 120mila uomini (alcune fonti riportano 150mila) suddivisi principalmente in circa 120 Btg (Batallion Tactical Group), l’unità base di manovra dell’esercito russo composta da circa 700 uomini (per i reparti meccanizzati).
La mobilitazione russa ha riguardato anche l’aeronautica e la marina militare: le Vks (Vozdushno-Kosmicheskie Sily), le forze aerospaziali russe, disponevano in totale di 1434 velivoli da caccia e bombardieri di cui la componente da attacco al suolo è composta da 234 Sukhoi Su-24, 192 Su-25 e 125 Su-34 a cui si aggiungono 22 bombardieri Tupolev Tu-22M, 42 Tu-95 e 15 Tu-160. Sono stati impiegati anche un certo numero di Su-30SM per il lancio di missili da crociera. In totale, risulta che circa 350 velivoli siano stati usati nelle operazioni in Ucraina. La Vmf (Voenno-Morskoj Flot), la marina russa, ha utilizzato l’intera componente della Flotta del Mar Nero rinforzata con unità prelevate da altri distretti (navi da assalto anfibio della classe Ropucha, Ivan Gren e minori) fatte giungere nelle settimane antecedenti l’inizio dell’invasione per poter oltrepassare gli stretti del Bosforo e dei Dardanelli successivamente chiusi dalla Turchia al transito di unità navali belligeranti come da Trattato di Montreux.
Le fregate, le corvette e i sottomarini russi della classe Kilo presenti in quello specchio d’acqua sono stati impiegati (e lo sono tutt’ora) per il lancio di missili da crociera tipo Kalibr, mentre la nave ammiraglia della Flotta del Mar Nero, l’incrociatore della classe Slava “Moskva” aveva compiti di scoperta, protezione antinave/antiaerea e centro di comando, controllo e comunicazione (C3) sino al suo affondamento avvenuto lo scorso aprile.
L’esercito russo prima del conflitto aveva una forza totale di circa 280mila uomini a cui si aggiungevano 17mila elementi degli Spetsnaz suddivisi in sette brigate indipendenti, e 45mila truppe aviotrasportate divise in due divisioni aviotrasportate, due da assalto aereo e quattro brigate indipendenti da assalto aereo più un reggimento da ricognizione di Spetsnaz distaccato. La Russia disponeva di circa 2700 Mbt (Main Battle Tank) in servizio attivo (su più di 12mila totali) composti per la maggiore parte da T-72 (in varie versioni), T-80 e T-90. Da sottolineare che la Federazione mantiene ancora un’importante aliquota di personale coscritto (circa il 30% del totale).
Le operazioni terrestri sono cominciate quasi contemporaneamente alla campagna aerea e hanno puntato su Kiev partendo dalla Bielorussia, su Chernihiv/Kharkiv, sulla regione del Donbass ancora controllata dall’Ucraina, su Mariupol, su Kherson e Melitopol partendo dalla Crimea occupata nel 2014. Abbiamo la conferma del tentativo russo di effettuare un blitz sulla capitale ucraina per cercare di catturare/eliminare il governo Zelensky in quanto nelle prime ore del conflitto è stata tentata un’operazione elitrasportata sull’aeroporto di Gostomel (circa 30 Km a nord-ovest di Kiev) che avrebbe dovuto essere il preludio allo sbarco di forze aviotrasportate da usare per avanzare verso i palazzi governativi, insieme a un’altra presumibilmente sull’aeroporto di Vasylkiv, situato a sud-ovest della capitale.
Queste operazioni sono fallite per l’immediata reazione avversaria, in quanto gli ucraini sono stati preventivamente avvisati dall’intelligence occidentale (probabilmente statunitense e britannica).
Come hanno risposto le forze ucraine
L’esercito ucraino poteva contare, prima del conflitto, su circa 145/150mila uomini (incluse le forze aviotrasportate/paracadutisti) e su approssimativamente 50mila effettivi della Guardia Nazionale, a cui si aggiungevano 10mila della difesa civile, entrambi però alle dipendenze del ministero degli Interni di Kiev. Da non dimenticare i riservisti, stimati, nel novembre 2018, in 178mila unità. L’esercito rappresenta la fetta maggiore delle forze armate ucraine (12mila uomini facevano parte della marina e 40mila dell’aeronautica).
Con l’inizio del conflitto il governo ucraino ha stabilito la mobilitazione generale di tutta la popolazione maschile di età compresa tra i 18 e i 60 anni in successive ondate, ma l’addestramento procede a rilento. A luglio 2022 il governo di Kiev riferiva che erano circa 700mila le persone mobilitate per le forze armate, fino a 60mila per la Guardia di Frontiera, fino a 90mila per la Guardia Nazionale e fino a 100mile per le forze di polizia.
L’esercito ucraino, prima dell’invasione, aveva in totale 2590 Mbt di vario tipo (T-64, T-72, T-80 e T-84) di cui la maggior parte, 1790, erano vecchi T-64. Le condizioni generali dei carri armati ucraini riflettevano quelle dell’esercito ucraino: nonostante una grande industria della difesa e vaste scorte di armi, gran parte dell’equipaggiamento era obsoleto oppure non più aggiornato o comunque abbisognava di riparazioni significative. La marina ucraina è praticamente inesistente, fatta eccezione per una vecchia fregata di fabbricazione sovietica classe Krivak III, andata perduta nelle prime fasi del conflitto, è costituita da poche decine di unità sottili o piccole navi da sbarco che comunque hanno avuto un ruolo nella battaglia per l’Isola dei Serpenti. L’aeronautica ucraina disponeva, prima della guerra, di 43 Sukhoi Su-27, 27 MiG-29, 17 Su-25 e 12 Su-24M, insieme a una dozzina di Ucav (Unmanned Combat Air Vehicle) di fabbricazione turca Bayraktar TB2. Per quanto riguarda l’ala rotante Kiev poteva contare su solamente su 35 elicotteri da attacco Mil Mi-24 e su 65 multiruolo Mi-8. Difficile stabilire, invece, il numero degli elicotteri usati dai russi, ma sappiamo che sono stati usati Kamov Ka-52, Mil Mi-24/35,e Mi-28 da attacco insieme a Mi-8/17 da trasporto.
Errori e limiti dell’esercito russo
L’operazione militare russa ha fallito i suoi obiettivi originari perché, oltre a carenze strutturali (corruzione endemica, carenze logistiche, catena di comando macchinosa che lascia poco spazio all’improvvisazione sul campo di battaglia), c’è stata una sottovalutazione del potenziale bellico e del morale avversario, determinata principalmente da alcuni fattori.
Innanzitutto la propaganda russa, che ha dipinto il governo di Kiev come “nazista” e inviso alla popolazione e la narrazione dei “popoli fratelli”, è stata fallimentare sia sul fronte interno sia su quello esterno. Internamente, infatti, nei comandanti locali (e non solo a quanto sembra), c’è stata la convinzione di aver intrapreso una “guerra di liberazione” che avrebbe avuto il sostegno del popolo ucraino e di ampie fette delle sue forze armate.
Questo, come sappiamo, non è avvenuto e, al contrario, l’invasione ha coalizzato la popolazione ucraina intorno alla dirigenza politica nazionale con anche la minoranza russofona al di fuori dalle regioni occupate dai russi nel 2014 diventata ostile alle forze russe.
L’ampiezza del fronte e le numerose direttrici di avanzata molto distanti tra loro hanno disperso le esigue forze dell’esercito di Mosca che hanno dovuto affrontare anche enormi difficoltà logistiche date inoltre dall’esigua rete stradale in alcuni settori invasi. Non è infatti un caso che, dopo alcune settimane di attacchi infruttuosi verso la capitale e nella regione di Chernihiv, sia stato dato l’ordine dallo Stato Maggiore russo di ritirarsi.
La stessa tattica di impiego delle forze corazzate, probabilmente per via della carenza di personale, è stata erronea: i carri armati molto spesso sono stati fatti avanzare senza il supporto della fanteria (anche nei centri abitati, vere e proprie trappole per i tank), diventando facile bersaglio per le truppe avversarie armate di Atgm (Anti Tank Guided Missile) forniti in gran numero dall’Occidente e altri sistemi anticarro. Si calcola, infatti, che alla fine di gennaio l’esercito russo abbia perso 1579 Mbt confermati da fonti Osint (Open Source Intelligence). Cattiva intelligence, sottovalutazione dell’avversario, difficoltà logistiche e mala gestione del personale a disposizione sono quindi le cause principali del fallimento della “operazione militare speciale” di Mosca ed il motivo principale per cui, a un anno di distanza, l’Ucraina non è crollata sotto il peso dell’attacco russo.
Gli errori dell’Ucraina
Spostandoci sul lato ucraino, l’esercito, nonostante gli sforzi adottati dal 2014 al 2022 per adeguarlo agli standard occidentali anche tramite attività di addestramento, non è paragonabile come livello a quelli dei Paesi più moderni: la corruzione, infatti, è presente anche in Ucraina e soprattutto vengono utilizzati quasi esclusivamente armamenti obsoleti di fabbricazione sovietica/russa, i cui pezzi di ricambio hanno cominciato a scarseggiare quasi dalle prime battute del conflitto in quanto era impossibile accedere ai ricambi in Russia, e i mezzi rimasti negli ex Paesi del Patto di Varsavia ora passati nell’Alleanza Atlantica sono ormai pochi rispetto a due decenni fa, essendo stati sostituiti per la maggior parte da mezzi moderni di fabbricazione occidentale.
Dal punto di vista tattico, lo Stato Maggiore ucraino ha commesso qualche errore potenzialmente disastroso nel corso del conflitto. Se il decentramento di sistemi da difesa aerea e cacciabombardieri ha relativamente funzionato, l’esercito ucraino non ha distrutto i vitali ponti nel sud del Paese, trovandosi così con le formazioni corazzate e meccanizzate russe saldamente a ovest del fiume Dnepr dopo pochissimi giorni di guerra. Un secondo errore ucraino, imputabile però alla stessa natura dell’esercito che risente ancora dell’impronta sovietica, è stato lo scarso coordinamento (in numerosi casi del tutto assente) tra le unità nei primi mesi del conflitto, almeno sino ad agosto. I contrattacchi ucraini, infatti, sono stati isolati, spesso ad opera di formazioni ridotte e mal gestite, e se in alcuni settori sono stati efficaci ricacciando indietro i russi, lo si deve più alla scarsa reazione nemica che all’effettiva capacità dei comandanti, che anche qui sono apparsi isolati gli uni dagli altri.
Scarso coordinamento che, nella prima settimana di guerra, ha colpito anche le unità della difesa aerea le quali, benché decentrate, spesso sono rimaste inattive (anche per via del primo colpo russo alle infrastrutture C3) costringendo l’aeronautica ucraina a intervenire subendo perdite.
Siamo in una situazione in cui la Russia non ha vinto la guerra ma l’Ucraina non l’ha persa: attualmente si prospetta uno scenario in cui il conflitto, diventato una guerra d’attrito, assorbirà sempre più risorse senza che nessuno dei due belligeranti possa ottenere i propri obiettivi strategici (per Kiev è la liberazione dei territori occupati, Crimea e Donbass compresi), pertanto è facilmente destinato a diventare uno dei tanti “conflitti congelati” dell’intorno russo. PAOLO MAURI
L’industria bellica globale dopo la guerra in Ucraina. LORENZO VITA su Inside Over il 23 febbraio 2023.
Quando si parla di armi e mezzi al fronte, i due temi principali di cui si discute sono il ruolo che questi strumenti possono avere nel conflitto e il loro peso dal punto di vista della diplomazia. Ma nella guerra in Ucraina, la quantità e la qualità delle armi richieste e usate da Kiev e quelle fabbricate e utilizzate da Mosca sono tali da far sì che vi sia un altro elemento da tenere in considerazione: e cioè l’impatto che questo conflitto ha avuto e può avere sull’industria bellica.
Dal punto di vista economico, è chiaro che l’aumento della domanda di armi per l’invasione russa ha innescato un meccanismo di guadagno da parte delle aziende produttrici. Questo è un tema che risulta connaturato al fatto che vi sia stato un picco nella domanda di armi, mezzi e munizioni. Ma la guerra in Ucraina, per l’industria della difesa, è soprattutto una sfida: si è trattato infatti di reagire non solo all’aumento degli ordini, ma anche a come gestire il rispetto delle consegne dei vari clienti, a come rimpiazzare negli arsenali occidentali le armi o i mezzi inviati a Kiev e soprattutto di come controllare l’intera catena logistica già messo sotto pressione per altri ostacoli globali.
Se infatti da anni si assiste, a livello globale, a un aumento della produzione di armi e soprattutto a un riarmo che indica che diversi Paesi stanno aumentando la propria capacità militare e modernizzando le proprie forze, il conflitto russo-ucraino arriva dopo un periodo pandemico in cui la catena di approvvigionamento di materie prime e prodotti lavorati o semilavorati si è spesso inceppata, o comunque rallentata. Questo quindi ha comportato due condizioni di partenza già difficoltose: problemi nel rifornimento dei materiali (in particolare di materie prime e semiconduttori) e una quantità di ordini già avviati e che dovevano essere necessariamente rispettati.
La duplice sfida dell’industria bellica
La guerra ha comportato poi non solo un’impennata della domanda, ma ha anche costretto molto spesso a rimodulare l’offerta dell’industria bellica a seconda delle rinnovate esigenze del mercato delle armi. Lo spiega la Repubblica in un’interessante analisi. “Nel 2021 la richiesta era concentrata su sistemi hi-tech: aerei da combattimento, elicotteri, fregate, sottomarini” scrive Floriana Bulfon, “la guerra in Ucraina ha cambiato le priorità: si cercano cannoni, droni, mezzi corazzati e soprattutto munizioni”. Questo cambiamento nella richiesta da parte dei Paesi implica una duplice sfida.
Da un lato c’è un problema di un’industria che si è ritrovata sotto pressione in modo repentino e spesso senza adeguate coperture di materie prime e di manodopera. Inoltre, c’è anche un problema legato al fatto che non tutti i Paesi che hanno le capacità industriali per produrre armi sono ora in grado di produrre quanto richiesto. E questo proprio perché il mercato, finora, ha avuto un altro tipo di domanda. L’Europa appare in ritardo in diversi segmenti fondamentale delle varie difese. Altri Paesi si sono attrezzati in tempo riuscendo a colmare solo in parte le richieste del mercato, con un cambiamento fondamentale anche nella stessa geografia delle partnership e dei flussi finanziari.
Se questo era lo stato all’inizio del flusso di armi verso l’Ucraina, il sostegno reso ancora più evidente attraverso l’ok alla cessione di tank, sistemi lanciamissili, antiaerei e mezzi è possibile che provochi un nuovo cambio di passo già quest’anno. Perché non c’è solo necessità di rifornire Kiev, ma, come detto, anche di colmare il vuoto lasciato (o che sarà lasciato) negli arsenali occidentali. I Paesi occidentali, infatti, hanno già fatto capire di dovere necessariamente evitare di rimanere indeboliti dalla vendita di tank e missili, e, in attesa di capire se mai si sbloccherà la partita degli F-16, intanto molti hanno già fatto comprendere di volere rimpiazzare armi e mezzi inviati in Ucraina con elementi nuovi e tecnologicamente avanzati. Quindi che devono essere prodotti.
Le ripercussioni della guerra in Ucraina
Su questo punto, la guerra in Ucraina può innescare altri processi da tenere in considerazione. Il primo riguarda il livello prettamente legato alla produzione. L’interruzione dei rapporti economici con la Russia e le sanzioni per chi opera con essa costituiscono ostacoli quasi insormontabili al flusso di materie prime provenienti dal territorio di Mosca. Questione cui si aggiunge anche il dato dell’aumento esponenziale di produzione di armi e mezzi militari da parte della Russia per far fronte alle esigenze dell’invasione, e che potrebbe quindi comportare un’ulteriore diminuzione della quantità disponibile nel mercato.
Lo spiega un rapporto del Sipri, che sottolinea (citato da Deutsche Welle), come questo “potrebbe ostacolare gli sforzi in corso negli Stati Uniti e in Europa per rafforzare le proprie forze armate e ricostituire le scorte dopo aver inviato miliardi di dollari di munizioni e altre attrezzature in Ucraina”. Naturalmente è una situazione che vale anche per il Cremlino, che ora deve fare i conti con il blocco da parte dell’Occidente, con aziende internazionali preoccupate dalle sanzioni occidentali e soprattutto con il rischio che molte materie prime e molti elementi fondamentali per la produzione siano destinati ad altri clienti.
Oltre a questo, la produzione aumentata per l’inizio della guerra ha già fatto capire i gravi problemi legati alla catena logistica nella produzione delle armi, con la conseguenza che accorciarla porterà inevitabilmente a un costo in termini economici e di distribuzione della manodopera. Il Financial Times, in un’inchiesta sull’effetto della guerra per l’industria bellica americana, oltre a descrivere il boom di introiti legato alle vendite, segnala un dato su cui vale la pena riflettere: quello della rete di imprese piccole, medie e grandi che collaborano nell’assemblaggio di una sola arma. L’esempio citato dal quotidiano finanziario è quello di Himars, Gmlrs e Javelin: i primi due assemblati in 141 diverse città degli Stati Uniti, mentre i Javelin addirittura realizzati in 16 stati diversi.
Il secondo processo che potrebbe innescarsi con il conflitto ucraino è invece legato alle modifiche delle esigenze di tutti i Paesi, non solo occidentali, per il prossimo futuro. Il confronto diretto tra sistemi e armi del blocco Nato e quelli prodotti dall’industria russa rappresenta, infatti, un enorme test in grado di poter dare indicazioni molto precise sull’efficacia di certi elementi. L’industria bellica non deve pertanto solo rispondere alla domanda di ora, ma anche rimodularsi in base alle esigenze future, dal momento che la guerra in Ucraina, oltre a sconvolgere il panorama politico, può certamente influire sul modo in cui sono valutate l’importanza di certe commesse e la loro utilità. Inoltre, la natura del conflitto e le reazioni innescate a livello politico possono anche far perdere appeal a certi sistemi o alcuni prodotti di determinate industrie belliche, rischiando quindi di far deviare alcuni investimenti su altri fronti in base alla natura degli scenari che vengono realizzati da strateghi militari e politici. LORENZO VITA
Le spie anglosassoni al servizio di Kiev. ANDREA MURATORE su Inside Over il 23 febbraio 2023.
I servizi segreti occidentali hanno sostenuto attivamente la resistenza ucraina all’invasione russa intensificando dal 24 febbraio 2022 l’appoggio già attivo prima dell’aggressione di Mosca.
Tra i Paesi più coinvolti in questa partita, Stati Uniti e Regno Unito sono apparsi in prima fila nel garantire un consistente appoggio alla resistenza di Kiev. Gli occhi e le orecchie dell’intelligence anglosassone hanno permesso all’Ucraina di ottenere informazioni privilegiate, conseguire successi e rafforzare la sua posizione difensiva. L’altra faccia della medaglia di questa vicenda è stata la progressiva dipendenza dell’Ucraina dalle informazioni privilegiate dell’Occidente. Un processo graduale, a cui ha partecipato anche l’Italia, che ha visto Londra e Washington diventare le centrali di elaborazione del pensiero strategico ucraino.
Ukusa e Five Eyes, cuore del sostegno all’Ucraina
Intelligence su fonti aperte (Osint), sostegno alla diplomazia, trasferimenti protetti di armamenti, osservazioni satellitari, controspionaggio in Ucraina e nei Paesi Nato, attività di tutela dai cyberattacchi: il coinvolgimento dei servizi d’informazione e sicurezza dell’Anglosfera è stato a 360 gradi.
Il nucleo stretto del sostegno d’intelligence a Kiev è stata l’alleanza Ukusa espansa all’Australia oltre a Londra e Washington. Canberra ha contribuito a fornire siti e infrastrutture per espandere la rete strategica alle spie di Londra e Washington, prima fra tutte quella di Pine Gap da cui la Cia, la Nsa, il Mi6 britannico e l’australiano Defence Signals Directorate (Dsd) hanno seguito per mesi la mobilitazione russa nell’Ovest del Paese prima e gli spostamenti in Ucraina poi.
Attorno al terzetto, si sono posizionati Canada e Nuova Zelanda, che con i tre Paesi costituiscono la rete spionistica dei Five Eyes. E in parallelo una serie di intelligence amiche e di sostegno: Israele, Polonia, Germania, Italia e Paesi baltici. Con le quali il coordinamento è stato costante per garantire ai servizi segreti e alle forze armate di Kiev sostegno costante.
Moore e Burns, i diplomatici che guidano la guerra delle spie
Al centro di tutto, due uomini: William Burns e Robert Moore. Due diplomatici diventati “zar” delle rispettive intelligence. Due uomini dall’elevata cultura strategica trovatisi a essere comandanti in guerre-ombra senza essere bellicisti, al servizio di governi che hanno oscillato al loro interno tra spinta anti-russa e reticenze (Usa) o sono stati sconvolti da cambi ai vertici (Usa).
Burns, direttore della Cia, e Moore, direttore dell’MI6, hanno coordinato le strategie e soprattutto i ritmi e i tempi della guerra-ombra. Parte più efficace di una guerra per procura ove ai più alti livelli, con l’impegno di armi pesanti occidentali contro la Russia, l’escalation è dietro l’angolo. E sostanziatasi anche per mezzo del sostegno al controspionaggio che sta portando alla scoperta di spie russe ovunque, dall’Estonia alla Germania.
Come ha operato l’intelligence
L’intelligence anglosassone ha avuto anche i suoi fedelissimi per i flussi di informazioni e i dettagli operativi. In Ucraina la catena del contatto con Volodymyr Zelensky è stata costruita passando per Kyrylo Budanov e col consigliere presidenziale Mykhalio Podolyak. Il sostegno operativo si è sostanziato in almeno tre direttrici.
La prima è quella della divulgazione massiccia tramite fonti aperte delle mosse russe, dalla manovra per creare confusione informativa nel cerchio magico di Vladimir Putin al massiccio passaggio di informazioni alla stampa. Il New York Times in America e il Times nel Regno Unito sono diventate centrali informative che hanno passato in continuazione le veline dei servizi segreti. In un contesto di coordinamento totale che dice molto sulla gestione degli arcana imperii in era di “guerra senza limiti”.
Le seconda dimensione è quella del sostegno diretto alle operazioni ucraine. La sorprendente manovra con cui i russi sono stati inchiodati a Gostomel nelle prime ore del conflitto, frenando l’operazione aviotrasportata per prendere Kiev, è stata favorita dalle informazioni di intelligence Usa e britanniche. La Cia ha sostenuto Kiev con le informazioni necessarie a colpire l’incrociatore russo Moskva e ad affondarlo a maggio. E il coordinamento tra spie occidentali, informazioni satellitari e fonti aperte ha favorito i continui bombardamenti ucraini su centrali operative russe che hanno causato una moria di alti ufficiali. Ma la svolta più importante si è avuta ai tempi della controffensiva autunnale nell’Est dell’Ucraina. Di particolare valore le operazioni di signal intelligence che hanno consentito l’intercettazione di flussi dati provenienti da e verso i comandi militari di unità e armate russe per indicare i punti focali delle offensive ucraine. Una vera e propria “intelligence in tempo reale” a sostegno delle forze di Volodymyr Zelensky.
Ultima, ma non meno importante questione, è quella della postura diplomatica. Le spie e gli ambasciatori alla loro guida hanno giocato un ruolo decisivo nella diplomazia atlantica favorendo sia le strategie a tutto campo della Nato per mantenere la coesione interna sia gli abboccamenti con terze parti come la Turchia per organizzare tregue diplomatiche, tenere aperti ponti negoziali e evitare il precipitare della situazione. Dall’ombra gli 007 anglosassoni non cercano la guerra a ogni costo. Piuttosto, vogliono governarne le conseguenze più imprevedibili. Sostenendo l’Ucraina evitando salti nel vuoto all’Occidente. Per mantenere la presa su un conflitto che possono governare solo finché non arriverà alle estreme conseguenze. Che non convengono a nessuno, nemmeno alle spie dell’Anglosfera, chiamate a combattere con la loro intelligenza prima ancora che con le loro strategie. E messe alla prova con buoni successi nella tempesta d’Ucraina. ANDREA MURATORE
Tutti gli errori e i problemi dell’esercito russo nella guerra in Ucraina PAOLO MAURI su Inside Over il 23 febbraio 2023.
L’invasione russa dell’Ucraina cominciata nella notte del 24 febbraio 2022, avrebbe dovuto portare, secondo i piani del Cremlino, alla rapida caduta di Zelensky, alla demilitarizzazione del Paese e all’allontanamento di Kiev dall’orbita occidentale, determinando una sorta di neutralità forzata dal sapore di un controllo da parte di Mosca.
La “operazione militare speciale”, così è stato chiamato il conflitto dalla propaganda governativa russa, ha dimostrato diverse lacune strutturali nelle forze armate russe, e palesato alcuni grossolani errori tattici che hanno contribuito a determinare il fallimento del raggiungimento degli obiettivi originariamente prefissati dallo Stato maggiore russo.
Gli errori di valutazione
Mosca ha sottovalutato la capacità di reazione e resistenza dell’esercito ucraino perché la sua intelligence è stata scarsamente efficace nel valutare sia il potenziale bellico di Kiev, sia la volontà di combattere e di opporsi all’invasione del popolo e delle forze armate ucraine. Testimonianze di fonti russe giunteci nel corso della guerra dimostrano che i comandi russi si aspettavano di trovarsi davanti a una popolazione amichevole e che l’esercito ucraino si sfaldasse sin dalla prime fasi delle operazioni, in quanto si riteneva, erroneamente, che il governo Zelensky fosse inviso alla maggior parte del popolo ucraino. Avrebbe quindi dovuto essere una guerra di liberazione, secondo Mosca, ma come abbiamo visto così non è stato se non per alcune regioni del Donbass, più per motivazioni determinate da un conflitto che perdura dal 2014 che per reale parteggiamento per la causa russa. Da notare, a tal proposito, che anche le popolazioni russofone degli oblast’ occupati durante l’invasione dello scorso febbraio, si sono dimostrate ostili alle forze di Mosca una volta finite sotto il fuoco russo.
Un altro errore di valutazione commesso da Mosca è stato l’aver sottovalutato l’aiuto occidentale, che si è palesato non solo attraverso l’invio di armamenti, munizioni e aiuti economici, ma anche con la condivisione di preziosi dati di intelligence raccolti principalmente da Stati Uniti, Regno Uniti e alcuni altri Paesi dell’Alleanza Atlantica. Difatti è stato possibile neutralizzare il tentato blitz russo sull’aeroporto di Hostomel, situato a circa 30 chilometri a nord-ovest della capitale ucraina, effettuato nelle prime ore del conflitto, grazie alle informazioni raccolte e condivise in tempo reale dall’intelligence statunitense e britannica.
Cattiva intelligence, per i russi, ha significato anche non poter eliminare completamente la minaccia della difesa aerea ucraina: l’attività di soppressione/distruzione delle difese aeree (Sead/Dead) effettuata nei primi giorni della campagna, sebbene abbia portato all’eliminazione di un centinaio di sistemi avversari, non ha completamente disarticolato l’architettura difensiva ucraina, che in buona parte era stata decentrata nei giorni e nelle ore immediatamente precedenti l’inizio del conflitto. Questo fattore, insieme alla stessa dottrina russa di impiego dello strumento aereo, ha comportato l’impossibilità per le forze aerospaziali russe (le Vks – Vozdushno-Kosmicheskie Sily) di ottenere la superiorità aerea se non localmente e per un limitato arco temporale. La Russia, difatti, non postula il dominio dei cieli come lo intendiamo in Occidente, ma si limita a usare lo strumento aereo in funzione delle operazioni terrestri, quindi a supporto delle direttrici di avanzata delle forze meccanizzate/corazzate. Da notare che anche l’attività di interdizione deputata ai missili (siano essi da crociera o balistici) non ha colpito pesantemente le infrastrutture strategiche ucraine (porti, aeroporti, snodi ferroviari, reti elettriche e di comunicazione), forse perché Mosca era convinta di poter conquistare rapidamente il Paese con un regime change, quindi senza spargere troppa distruzione.
Le scelte sbagliate sul campo
Passando alle operazioni terrestri, un grossolano errore, ma ancora una volta ascrivibile all’erronea valutazione sulla rapida caduta del governo di Kiev, è stato quello di invadere l’Ucraina da troppe direttrici con un numero di uomini e mezzi non sufficiente: si contavano infatti sei linee di avanzata principali (cinque se consideriamo doppia quella sulla capitale) molto distanti tra di loro e utilizzanti circa tra i 140 e i 200mila uomini (di cui buona parte tenuta a guardia dei confini). Questa tattica ha avuto il risultato di disperdere le esigue forze su un territorio molto vasto, lasciando “le punte di lancia” russe in balia di loro stesse, non avendo forze di copertura ai fianchi.
Un altro errore fatale, anch’esso dovuto alla scarsità di personale impiegato, è stato quello di far avanzare le colonne corazzate e meccanizzate senza un adeguato numero di fanteria di supporto. In questo modo i fondamentali Mbt (Main Battle Tank) sono stati facile preda delle truppe ucraine organizzate in piccoli gruppi di fuoco (dell’ordine di grandezza plotone o compagnia) utilizzanti tattiche di guerriglia e impieganti i micidiali Atgm (Anti Tank Guided Weapon) forniti in buona parte dagli alleati occidentali (Javelin, Nlaw e altri).
A tal proposito, alle unità russe, organizzate in Btg (Batallion Tactical Group), nei primi mesi del conflitto è mancata una capacità di Counter-Uas (Unmanned Air System) leggera che potesse essere efficace contro i piccoli droni di derivazione commerciale utilizzati dagli ucraini per attività di ricognizione, controllo di fuoco d’artiglieria e come loitering munitions improvvisate.
Se questi sono stati i principali errori tattici commessi dai russi, come detto esistono anche carenze strutturali nell’esercito di Mosca che hanno avuto un pesante effetto sulle operazioni belliche.
Il punto debole di Mosca: la logistica
Innanzitutto la capacità logistica russa ha dimostrato tutta la sua macchinosità e inefficienza: il sistema di approvvigionamento russo si base su grossi centri di smistamento collegati alla rete ferroviaria da cui partono camion pesanti che devono per forza utilizzare una rete stradale efficiente. L’Ucraina, in vasti settori del fronte, non ha né una rete ferroviaria adatta, né una stradale diffusa, pertanto i camion si sono a volte trovati in pericolosi “ingorghi” e anche impossibilitati a raggiungere i centri logistici più avanzati, in quanto lontani da strade percorribili.
Non va nemmeno dimenticato che la capacità logistica russa è fortemente menomata dalla corruzione, che nel Paese è endemica e diffusa a tutti i livelli delle forze armate: pertanto abbiamo assistito a mezzi che restavano senza benzina, con le ruote sgonfie, oppure molto più semplicemente fermi per problemi meccanici.
Lo stesso organigramma dell’esercito ha influito sull’esito dei combattimenti: sebbene la Russia, nel 2008, abbia lanciato una riforma delle forze armate (voluta da Anatoly Serdyukov), essa è rimasta incompiuta e ora l’esercito russo si trova composto da unità livello battaglione insieme a quelle di livello divisione, mancando, in numerosi casi, di unità intermedie (le brigate), che sono fondamentali per il coordinamento sul campo di battaglia. Inoltre, è rimasto l’impianto gerarchico di stile sovietico, che lascia poco spazio di manovra ai comandanti sul campo, per cui ogni variazione sui piani di battaglia originari in base alle nuove informazioni raccolte durante le operazioni viene attuata con molte ore di ritardo (in alcuni casi sino a 24) per seguire la scala gerarchica.
Il personale e l’equipaggiamento
Un altro fattore limitante e derivante sempre dalla mancata riforma delle forze armate, è la presenza di una buona fetta di personale di leva nelle unità combattenti (circa il 30% degli effettivi). Si tratta di soldati ufficialmente non impiegabili in guerre all’estero secondo la legislazione vigente in Russia, e soprattutto molto meno addestrati e motivati rispetto ai professionisti.
Sempre dal punto di vista strutturale, ma determinato da cause contingenti, tra i problemi delle forze armate russe troviamo la carenza di equipaggiamento da alta tecnologia. L’embargo a cui è sottoposta la Russia sin dal 2014 ha bloccato la possibilità di accedere liberamente ai microchip di fabbricazione occidentale che andavano a equipaggiare i sistemi di navigazione (e altri) dei velivoli o dei missili da crociera e balistici russi. La produzione locale, come abbiamo visto, non è ancora in grado di poter rimpiazzare i chip costruiti in Occidente (sia per mancanza di adeguati finanziamenti, sia per gap tecnologico) e pertanto Mosca ha dovuto usare con parsimonia il proprio munizionamento di precisione affidandosi per lo più a quello non guidato a caduta libera. Dal punto di vista missilistico, proprio per evitare di consumare le scorte di vettori ad alta precisione e quindi non intaccare la capacità di deterrenza missilistica nei confronti dell’Alleanza Atlantica, Mosca ha dovuto ricorrere ai sistemi obsoleti (come il Kh-22 o AS-4 “Kitchen” in codice Nato) oppure non nati per l’attacco al suolo (i missili del sistema di difesa aerea S-300).
Da ultimo, passando al settore navale il conflitto ha evidenziato come alcune unità della Flotta russa (anche non obsolete) siano di fatto inadatte ad ambienti contestati (nemmeno altamente) come la piccola “bolla” A2/Ad stabilita dagli ucraini nell’area di Odessa utilizzando sistemi missilistici (Neptun ma più probabilmente gli Harpoon), Ucav (Unmanned Combat Air Vehicle) come i Bayraktar TB2 e unità sottili veloci. L’affondamento dell’incrociatore Moskva, la fine di ogni tentativo di rioccupare l’isola dei Serpenti ma soprattutto lo spostamento delle operazioni navali più a est col trasferimento degli assetti più preziosi (i sottomarini classe Kilo) da Sebastopoli a Novorossiysk è lì a dimostrarlo. PAOLO MAURI
Dalla maskirovka all’impegno del Wagner: un anno di strategie russe in Ucraina EMMANUEL KARAGIANNIS su Inside Over il 23 febbraio 2023.
Dopo un anno di guerra è possibile valutare la strategia militare della Russia in Ucraina. Il Cremlino aveva inizialmente messo in pratica l’arte dell’inganno (maskirovka) a livello strategico, sostenendo che non avrebbe attaccato l’Ucraina, con gli ufficiali russi che per diversi mesi hanno respinto con fervore i report delle agenzie di intelligence occidentali che presagivano apertamente un’invasione. Dal punto di vista operativo, l’invasione è cominciata con un’avanzata delle truppe motorizzate che hanno attaccato allo stesso tempo da tre direzioni: nord, est e sud.
L’aeronautica militare russa ha distrutto infrastrutture chiave (quali centrali elettriche) per gettare il Paese nel caos. In aggiunta, la flotta del Mar Nero ha bloccato i porti ucraini per interrompere qualsiasi rifornimento da Paesi terzi. A livello tattico, le forze speciali russe hanno cercato di creare teste di ponte impadronendosi di aeroporti e compiendo atti di sabotaggio all’interno delle città. Di fatto, il Cremlino aveva lanciato una guerra lampo contro l’Ucraina.
Il rischio della guerra urbana in Ucraina
La forte resistenza degli ucraini ha colto il Cremlino di sorpresa. Mosca aveva sottovalutato la dottrina militare ucraina, che prevede la mobilitazione di massa della popolazione nell’eventualità di un’invasione straniera. La leadership ucraina ha inizialmente spostato la guerra nei pressi delle aree popolate, dove chi difende gode di un vantaggio tattico. All’interno dell’ambiente urbano, piccoli gruppi possono tendere imboscate con facilità e colpire i bersagli avversari con missili anticarro. La guerriglia urbana è infatti l’incubo di ogni esercito tradizionale, e dal lato ucraino ci si ricordava benissimo quanto Mosca fosse ancora perseguitata dalla “sindrome di Grozny”, con la prima guerra in Cecenia (1994-1996) che si concluse con un’umiliante sconfitta per l’esercito russo, dopo che piccoli gruppi di combattenti determinati avevano distrutto intere colonne di carri armati russi entrati nel centro e nelle periferie della capitale cecena.
Eppure ci si aspettava che le forze russe sovrastassero le postazioni ucraine in meno di una settimana. L’esercito marchiato dalla guerra di Putin godeva di superiorità numerica e tecnologica. In seguito alla guerra in Georgia del 2008, le riforme militari del Ministro alla Difesa Anatoly Serdyukov cambiarono la struttura dell’esercito russo. La creazione del gruppo tattico di battaglione (in inglese BTG) serviva ad aumentare la potenza di fuoco e velocità delle forze armate russe: ciascun BTG dispone infatti di un battaglione di fanteria motorizzata con carro armato ed elementi di artiglieria, per un totale di 600-800 ufficiali e uomini. Tuttavia, lo svantaggio principale dei BTG è il numero relativamente scarso di truppe di fanteria leggera (attorno ai 200 uomini), che li rende vulnerabili alle imboscate, e durante i primi tre mesi di questa invasione, i BTG russi sono diventati un bersaglio facile per i combattenti ucraini.
Il test per l’esercito russo
Apparentemente, le forze armate russe non erano preparate ad un’invasione su così larga scala. A causa di una scarsa pianificazione militare, l’esercito di Putin ha fallito nel condurre operazioni di armi combinate, il che non avrebbe dovuto destare stupore: nella guerra contro la Georgia del 2008 la performance dell’esercito russo, il cui coinvolgimento fu limitato in termini di tempo e spazio, venne definita dagli esperti come piuttosto carente; sei anni dopo, l’annessione della Crimea ebbe luogo con operazioni ibride e senza spargimenti di sangue; nella guerra civile siriana, per supportare il regime di Assad il Cremlino fece principalmente leva su aeronautica, forze speciali e mercenari. In altre parole, questa è la prima volta dall’invasione dell’Afghanistan nel 1979 che l’esercito russo è chiamato a sottomettere un grande Paese con una popolazione ostile. Andrebbe notato come vi fosse stata un’insurrezione nell’Ucraina occidentale dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale che durò dieci anni.
Nella primavera ed estate 2022, i militari russi hanno utilizzato fuoco di artiglieria indiretto e missili balistici per sconfiggere gli ucraini. Questa non è stata la prima volta nel corso della storia recente in cui Mosca ha fatto ricorso a tali tattiche: durante la seconda guerra cecena (2000-2002) il Cremlino bombardò Grozny a tappeto, senza alcun riguardo per il diritto internazionale dei conflitti armati; la leadership russa ha scelto di intraprendere la stessa tipologia di guerra d’assedio anche in alcune parti dell’Ucraina.
Dopo tre mesi di assedio, le forze russe sono riuscite ad impadronirsi della città di Mariupol nella regione di Azov. Tuttavia, gli invasori non sono riusciti a conquistare Kiev e Kharkiv, le due città più grandi del Paese. Secondo il Prof. Louis DiMarco, due sono i fattori che potrebbero giocare un ruolo decisivo nell’attacco ai centri urbani: la dimensione della popolazione e quella del territorio. Più grandi sono, più forze occorrono per occupare una città. Il professore americano ha messo in dubbio la regola del 3:1 in favore di chi attacca e sostiene una proporzione di 6:1 per lanciare un attacco in aree urbane.
Il ruolo delle forze mercenarie
Una sorpresa, forse, è stato l’outsourcing delle operazioni militari russe a mercenari. A partire dall’estate 2022, un numero sconosciuto di mercenari russi e stranieri è entrato a far parte regolarmente dell’esercito russo, combattendo quello ucraino nel Donbass. La parziale “privatizzazione” della guerra è un’innovazione di per sé: durante il periodo zarista, l’esercito veniva posto sotto stretta sorveglianza, in quanto gli ufficiali erano gli unici a poter sfidare il regime; in era sovietica, il ruolo del commissario politico era di esercitare il controllo politico sulle forze armate con presenza a livello sia strategico che operazionale. L’utilizzo di forze militari private, come il famigerato Gruppo Wagner, si contrappone alla cultura militare russa che mette al primo posto il controllo politico dell’esercito. Tuttavia, la mobilitazione di massa non sarebbe né opportuna né fattibile in un Paese di ceto medio come la Russia. L’impiego di mercenari consente a Mosca di nascondere le perdite di guerra all’opinione pubblica russa che non appoggia del tutto la guerra in Ucraina, ed il Gruppo Wagner funge da piccolo esercito in grado di fornire supporto operativo e tecnico al momento del bisogno.
Mappa di Alberto Bellotto
La guerra è entrata in una nuova fase dal settembre 2022: la controffensiva ucraina ha avuto successo nella riconquista di territori nell’est e sud del Paese; ciononostante, le forze russe sono riuscite a fermare l’offensiva ucraina prima di Natale. Al momento, sul confine orientale aleggia una fase di stallo e di guerra di trincea. Il Cremlino ha mobilitato risorse umane e materiali per una nuova offensiva nel Donbass in primavera, e l’Europa e gli Stati Uniti devono fare tutto il necessario per fermarla prima che abbia inizio. EMMANUEL KARAGIANNIS
Che cos’è il Gruppo Wagner. Lorenzo Vita su Inside Over il 27 Febbraio 2023
Uomini pronti a tutto, addestrati alla guerra, quasi sempre ex militari dell’esercito russo che, dietro lauto compenso, offrono i propri servigi al Paese attraverso un’impresa privata. Sono questi i componenti del Gruppo Wagner. Dalla Siria all’Africa fino alla prima linea del fronte russo in Ucraina, la compagnia di mercenari ha assunto negli anni un ruolo di primo piano nelle operazioni occulte e pubbliche della Russia nel mondo, diventando talmente importante da essere considerato una sorta di apparato all’interno dello Stato russo. Fino a puntare a un ruolo politico e sfidare anche le gerarchie delle forze armate di Mosca
La nascita del Gruppo Wagner
Il Gruppo Wagner nasce almeno ufficialmente nel 2014 per mano di Dmitriy Valeryevich Utkin, ex colonnello delle forze speciali russe nato nel 1970 in Ucraina e di Evgheny Prigozhin, lo “chef di Putin”, nato a San Pietroburgo (allora Leningrado) nel 1961.
Da tempo sotto la scure delle sanzioni del Dipartimento del Tesoro americano, Utkin è un uomo misterioso, di cui si sa pochissimo. L’unica certezza è che viene considerato da più parti come un uomo legato a doppio filo con il presidente Vladimir Putin al punto che Utkin ha anche partecipato al ricevimento offerto dallo stesso capo del Cremlino ai reduci della guerra in Siria. Il Consiglio dell’Unione europea lo definiva, nel 2021, come il fondatore della Wagner e “responsabile del coordinamento e della pianificazione delle operazioni per lo schieramento dei mercenari del Wagner Group in vari paesi”. Di qui l’accusa sull’essere artefice di numerose violazioni di diritti umani nei teatri dove è stata impiegata negli anni la compagnia privata, dalla Siria ai Paesi dell’Africa fino all’Ucraina.
Ma Putin non è il solo uomo a cui sarebbe legato l’ex colonnello degli Spetsnaz. Ce n’è un altro, in particolare, che è considerato il fulcro dell’enorme quantità di denaro e potere che ha assunto nel tempo il gruppo Wagner, ed è appunto Prigozhin. L’uomo, uno dei più ricchi di Russia. è a capo di decine di società inserite nell’ambito del catering e dei ristoranti stellati. Il suo nome è apparso anche nel filone di indagini del Russiagate. Secondo le accuse dei federali americani, l’impero di Prigozhin sarebbe stata la base delle interferenze russe nelle elezioni del 2016 con cui Donald Trump ha battuto Hillary Clinton.
Per molti anni, la fondazione del gruppo è rimasta un mistero. Non solo la Federazione Russa ha sempre negato di fatto un coinvolgimento nelle mosse della compagnia di sicurezza, ma addirittura lo stesso Prigozhin aveva sempre smentito un suo ruolo nell’origine del gruppo. Le cose sono cambiate con l’invasione dell’Ucraina nel 2022, quando la Wagner, dopo anni di accuse e di indagini, è diventata talmente centrale nelle logiche operative di Mosca che lo stesso “chef” ne ha compreso il potenziale politico oltre che militare.
Ecco allora che a settembre del 2022, il concittadino di Putin svela per la prima volta le carte: è lui la mente dietro Wagner. E attraverso i suoi canali racconta i dettagli sulla nascita del gruppo. “Ho pulito io stesso le vecchie armi, ho sistemato io stesso i giubbotti antiproiettile e ho trovato specialisti che potevano aiutarmi. Da quel momento, il 1 maggio 2014, è nato un gruppo di patrioti, che in seguito è stato chiamato il battaglione Wagner”, ha detto Prigozhin. E con quelle frasi ha confermato quanto prima veniva solo sussurrato in Russia o reso evidente dalle inchieste giornalistiche. La nascita viene quindi fatta risalire a una data precisa a quelle operazioni russe in Ucraina orientale durante quella che poi sarebbe diventata la guerra del Donbass. Un supporto alle unità filorusse, ma anche una sorta di legione straniera nelle mani di Putin per evitare di essere considerato “boots on the ground” nel delicato e complesso fronte europeo.
Il nome del gruppo Wagner
A creare una vera e propria mitologia della Wagner non è solo il mistero sulla nascita, ora certificata dalla dichiarazione di Prigozhin, ma anche quella sull’origine del nome. Un’inchiesta di Foreign Policy del 2021 spiegava come di questo gruppo non solo non si potesse accertare davvero nemmeno l’esistenza, ma che sull’origine del nome, che di certo tutto è meno che russo nonostante l’ideologia nazionalista nei suoi ranghi, vi fossero solo dei sospetti.
Secondo molti analisti, Wagner deriverebbe dal nome di battaglia di Utkin ai tempi del Gru. Non sappiamo però quale motivo abbia scelto il nome del noto compositore tedesco spesso associato alla visione distorta che ne fece il nazismo. Secondo alcuni potrebbe trattarsi proprio di un tributo di Utkin a questa vicinanza ideale di Adolf Hitler con il musica wagneriana, cosa che si unirebbe all’ideologia che animerebbe proprio l’ex agente di servizi russi, vicina alle teorie neonaziste. Sul punto va però detto che non esistono conferme ufficiali: lo stesso Prigozhin non ha fatto riferimento all’uomo del Gru quando ha parlato della fondazione della Wagner, quasi a escludere un ruolo nella nascita della compagnia di mercenari.
Dov'è impiegato il Gruppo Wagner
La storia di Utkin aiuta in ogni caso a capire il ruolo di questo esercito di contractors che, negli anni, è diventato uno strumento fondamentale della politica di Putin in molte crisi in cui non poteva far intervenire le forze armate russe.
Dopo aver abbandonato le forze speciali, il leader di Wagner ha lavorato per la società di sicurezza Moran. Quest’impresa è un po’ il nucleo da cui è partita l’idea di Wagner. Fondata da veterani delle forze armate di Mosca per contrastare la pirateria, i suoi vertici sono stati poi coinvolti in un’altra operazione: la nascita dei “Corpi Slavi”. Quest’altra organizzazione, registrata inizialmente a Hong Kong, ha avuto un ruolo fondamentale in quanto probabilmente primo embrione dell’esperienza Wagner. Infatti, la società apparve nel 2013 con annunci con cui si reclutavano uomini per la Siria in supporto delle operazioni del governo di Damasco.
In quello stesso periodo inizia a circolare il nome del Gruppo Wagner. Le prime notizie parlano di un impiego dei contractors in Donbass, a sostegno della causa separatista. Poi, nel 2015, iniziano ad arrivare le prima informazioni sull’impiego di questo gruppo in Siria, nodo della politica russa in Medio Oriente. Dal dicembre del 2015, la società inizia a contare i suoi primi morti: i media riportano l’uccisione di una decina di civili russi a Latakia durante gli scontri con i gruppi armati ribelli. Civili che in realtà sarebbero appunto contractors impiegati al fronte ma che ufficialmente non risultano in alcun modo militari.
I numeri del loro impiego in Siria sono difficili da reperire attraverso fonti ufficiali. I media parlano di circa 5mila uomini inviati nel tempo in tutto il territorio siriano. Molto spesso come gregari delle forze di Assad, diventando in pratica il contatto fisico fra le forze armate russe e quelle di Damasco. Di loro si parla come i veri artefici della riconquista di Palmira contro i terroristi dell’Isis.
Altre volte, i loro impiego è stato quello di una vera e propria polizia militare che ha sostituito le truppe regolari. Si tornò a parlare di loro in Siria dopo il bombardamento Usa a Deir Ezzor in cui si ritiene siano morti molti di questi uomini. E i reporter della Reuters individuarono in particolare a Rostov sul Don uno dei principali punti di partenza e di arrivo del traffico di contractors.
I contractors in Africa
Non ci sono però solo Siria e Donbass al centro delle loro operazioni. Il terreno di caccia più importante della società di Prigozhin, che ha potuto così sfruttare la sua compagnia anche per proteggere gli affari del proprio impero economico, è diventata nel tempo soprattutto l’Africa.
L’operazione più importante e risalente nel tempo per la Wagner in Africa è stata certamente quella che in Repubblica centrafricana. Nel 2018, la Russia inviò il primo contingente di “consiglieri militari” nel Paese per sostenere il governo nella guerra contro i ribelli. Tra gli obiettivi della missione vi era però anche la protezione dei beni di Prigozhin, che aveva già investito nel territorio soprattutto per l’estrazione mineraria.
Il ministero della Difesa russo non ha mai negato la loro presenza, ne ha solo ridotto il numero o al limite non confermato mai che fosse impiegato nel dettaglio quella compagnia privata. A marzo, il portavoce del ministero degli esteri russo Artyom Kozhin, dichiarò che “su richiesta del presidente della Repubblica Centrafricana, la Russia ha deciso di fornire al paese aiuti militari gratuiti”, e tutto con il pieno consenso del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, avvertito dell’operato di Mosca. Il ministero della Difesa russo consegnò in quel caso armi e munizioni alle forze armate della Repubblica centrafricana e inviò cinque militari e 170 istruttori civili per addestrare i militari locali. Istruttori civili, ossia contractors, confermati anche dalla portavoce Maria Zakharova mentre parlava della morte dei tre giornalisti russi uccisi in Repubblica centrafricana. Un primo elemento che certificò l’utilizzo della Wagner da parte del Cremlino.
Successivamente, fu il turno del Sudan, dove anche in questo caso i contractors di Prigozhin arrivarono parallelamente agli interessi dello “chef” di Putin nel Paese e alle nuove direttrici della politica estera di Mosca. Come racconta Formiche, “Wagner ha iniziato a operare in Sudan nel 2017, fornendo addestramento militare a forze speciali e di intelligence e al gruppo paramilitare noto come Rapid Support Forces”. Quest’ultime, guidate dal generale Mohammed Hamdan Dagalo, hanno ottimi rapporti con le monarchie del Golfo e rappresentano la spina dorsale delle forze di Khartoum post-colpo di Stato. Anche in questo caso, numerose inchieste hanno mostrato i profondi legami tra Prigozhin, i suoi mercenari, gli interessi nell’oro e le forze armate locali, al punto che anche l’Unione europea ha di recente sanzionato una controllata della Wagner che opera in Sudan dopo che la Cnn ne ha scoperto la rete di interessi.
Particolare importanza ha poi avuto il ruolo della Wagner in Libia, il grande “buco nero” del Mediterraneo centrale. Nel 2020, il comando Usa per l’Africa (Africom) ha pubblicato un report in cui si affermava di avere prove crescenti dell’impiego della compagnia di contractors in Cirenaica per sostenere gli interessi del Cremlino. In quell’occasione, Africom segnalò anche il supporto di Mosca alle operazioni della società di Prigozhin con forniture di mezzi e armi, segno di un interesse russo per la Libia che aveva in Khalifa Haftar il principale intermediario in loco. Le Nazioni Unite parlavano di circa un migliaio di uomini della compagnia utilizzati su diversi fronti della guerra libica.
A conferma del problema rappresentato dalla Wagner in Libia, il direttore della Cia, William Burns, è volato a gennaio del 2023 a Tripoli per ribadire l’interesse di Washington riguardo la presenza russa nel Paese e nell’area nordafricana. Il vertice con il primo ministro Abdul Hamid Dbeibeh è servito a confermare la linea Usa sulla road-map per le elezioni e la pacificazione: ma il fatto che ad andare nella capitale sia stato il direttore dell’agenzia di intelligence sottolinea che la preoccupazione principale riguarda la sicurezza dell’area e le possibili infiltrazioni di avversari degli Stati Uniti.
Più di recente, è il Mali a essere al centro dell’interesse russo in Africa, in particolare in Sahel, e quindi anche della Wagner. Da quando il governo locale ha preteso che le truppe francesi si ritirassero dal Paese, a sostituire le unità di Parigi sono stati proprio i mercenari russi. Gli uomini dello “chef” sono già sotto la lente delle Nazioni Unite e degli Stati occidentali, preoccupati dall’instabilità della regione africana ma anche dalle accuse di crimini commessi dai combattenti al soldo di Prigozhin. E con un cambiamento per certi versi radicale della politica di Mosca, è stato lo stesso ministro degli Esteri, Sergei Lavrov, a confermare la presenza di quelle forze irregolari dicendo che le autorità di transizione del Mali si erano “rivolti ad una società militare privata russa perché la Francia vuole ridurre significativamente il suo contingente militare schierato nel paese”.
La Wagner in Ucraina
Con l’invasione di febbraio 2022, il ruolo della Wagner è cambiato in modo sostanziale, rivoluzionando non solo la sua percezione pubblica, ma anche il ruolo politico di Prigozhin e il rapporto con le forze armate.
Dall’inizio dell’invasione, i mercenari del gruppo si sono sempre più palesati nelle maggiori battaglie del fronte dell’Ucraina orientale, con il loro impiego in diverse battaglie del Donbass tra cui spiccano quelle di Popasna, Svitlodarsk, Sievierodonetsk e Lysychansk e più di recente nei “tritacarne” di Bakhmut e Soledar (dove Prigozhin ha voluto a ogni costo conquistare l’enorme miniera di sale). Insieme al loro utilizzo al fronte sono cresciute le accuse di crimine di guerra commessi dagli uomini di Prigozhin. Molti hanno accusato la compagnia Wagner di avere avuto un ruolo fondamentale nei fatti di Bucha, mentre nello stesso tempo sono aumentati i video che mostravano esecuzioni da parte dei combattenti. Una di queste, la più nota, è quella dell’ex combattente Evgenij Nužin, giustiziato a colpi di mazza sulla testa per avere tradito la compagnia e avere scelto di vivere in Ucraina.
Nel frattempo, i numeri degli uomini usati dalla Wagner in Ucraina sono aumentati non solo attraverso il reclutamento di uomini di altri Paesi, ma soprattutto attraverso la concessione della libertà a tutti i detenuti delle carceri russe che sceglievano di arruolarsi nel gruppo di Prigozhin. L’amnistia in cambio di sei mesi di guerra al fronte è stata una delle armi più importanti nelle mani della compagnia privata per ingrossare le file dilaniate dalle varie battaglie. Reclute che in ogni caso non hanno rappresentato un vero rinforzo, dal momento che la maggior parte di essi è totalmente priva di addestramento e fondamentalmente inadatta a essere irregimentata in una compagnia strutturata in larga parte attraverso i modelli delle forze armate russe. A conferma di questo, secondo gli Stati Uniti soltanto nella battaglia di Bakhmut sarebbero morti circa mille contractors di cui la maggior parte ex detenuti. Sulla stessa linea l’intelligence britannica.
L’impiego così massiccio – e a volte essenziale – della Wagner in Ucraina orientale ha però reso possibile a Prigozhin non solo uscire allo scoperto, ma anche aumentare le sue richieste nei confronti di Mosca. Putin, che per anni ha sfruttato i servizi della compagnia di sicurezza senza rendere mai pubblico questo impiego, si è trovato quindi a gestire una situazione inusuale, e cioè la presenza di un uomo ricco, potente, fondamentale nelle “operazione militare speciale” ma sempre più percepito come una minaccia dalla stessa Difesa russa. Le offese rilanciate attraverso i canali Telegram della Wagner contro il ministro Sergei Shoigu e il capo di Stato maggiore Valerij Gerasimov sono state seguite anche dalle accuse di incapacità verso i ranghi dell’esercito e di tradimento per negare le munizioni ai contractors lasciandoli morire al fronte.
Questa guerra intestina ha spesso provocato imbarazzo al Cremlino ma anche una certa preoccupazione, dal momento che molti sottolineano che il potere mediatico e militare ottenuto dallo “chef” di Putin durante il primo anno di invasione ha fato ipotizzare un suo possibile ruolo politico di primo piano. Qualcuno ha anche sostenuto che il capo della Wagner potesse tentare la scalata a Mosca sfruttando l’eventuale crollo del sistema putiniano. LORENZO VITA
Un anno di guerra in Ucraina: ecco cosa non abbiamo capito. ALDO GIANNULI su Inside Over il 23 febbraio 2023.
Siamo al primo anniversario della guerra in Ucraina, e sembra che l’opinione pubblica (tanto occidentale quanto dell’est) dia segni assuefazione, ma ancora non pare che abbia capito l’importanza del fatto. È strano, veniamo da un trentennio nel quale si è fatto abbondante uso ed abuso del termine “epocale”, speso anche per cose di rilievo modesto, ed ora, che ci troviamo davvero a una svolta che cambierà il mondo, l’aggettivo è scomparso dai media.
Ci limitiamo ad aspettare che la guerra si concluda per riprendere a fare quello che facevamo prima. Ad esempio, i tedeschi sperano di riprendere a fare affari con la Russia, i russi pensano che quello che conta è la quantità di terreno strappato all’Ucraina e gli ucraini pensano che dopo sarà inevitabile il loro ingresso nella Nato. La Nato pensa che sarà restaurata la gerarchia mondiale con in testa gli Usa, che a loro volta pensano che la globalizzazione a trazione americana riprenderà.
Ma la globalizzazione ci sarà ancora? Sì, ma come? È poco probabile che avrà le stesse modalità di prima. E dell’Onu che ce ne facciamo? Può continuare così o, dopo la guerra, saremo costretti a prendere atto che, così come è, possiamo anche farne a meno? O proveremo a rifondarla? E della crisi finanziaria (sempre in agguato), che ne sarà? Pandemia e guerra, paradossalmente, l’hanno procrastinata, grazie alla alluvione di liquidità che esse hanno comportato ma che non può durare all’infinito e sarà seguita da una perturbazione senza precedenti. E il dollaro sarà sempre moneta mondiale?
Potremmo proseguire con gli intrecci di queste dinamiche con il mutamento climatico, con le alterazioni demografiche, ecc. A ogni svolta dobbiamo aspettarci che si accendano nuovi conflitti anche armati. Alla guerra seguirà un dopoguerra non meno conflittuale ed anzi più drammatico.
Verso il crollo dell’ordine mondiale
Quello che dobbiamo capire e a cui dobbiamo prepararci è che questa guerra sta facendo crollare l’Ordine Mondiale che c’era (ed era giù in crisi almeno dal 2008) ma non ne produrrà un altro, che verrà dopo un lungo periodo di crisi e scontri sanguinosi. Il primo bacino che esploderà è già pronto: l’Africa, dove si profila un conflitto generalizzato a livello continentale, con dietro, la Cina, gli Usa, la Francia, forse India e Giappone, quanto alla Russia dipende da come uscirà dalla guerra.
Altrettanto ragionevole è attendersi una nuova rivoluzione di intelligence; tanto i russi quanto gli americani in questa guerra hanno fallito completamente per la raccolta informativa e l’analisi facendo previsioni totalmente sbagliate. E sappiamo per esperienza che ogni mutamento nel mondo dell’intelligence comporta le sue sperimentazioni che raramente sono indolori per gli altri. Per esempio, mettiamo nel conto la probabilità di una forte destabilizzazione monetaria.
Tutte cose non inevitabili se si avrà la saggezza di pensare a un nuovo ordine più cooperativo e un po’ meno competitivo, con camere di compensazione, organismi internazionali di mediazione più efficaci di quelli esistenti. Ma a tutto questo si oppone una visione basata sul primato imperiale nel quale contano solo gli equilibri di forza e la capacità di un soggetto di imporre la sua volontà agli altri. Non che si possa sognare un ordine mondiale non competitivo e nel quale non contino gli equilibri di forza, questo ci sarà sempre. Il problema è che questa situazione considera esclusivi questi elementi e cancella ogni possibile mediazione e cooperazione. Decisamente, dopo la guerra, verrà il dopoguerra. Che sarà peggiore. ALDO GIANNULI
Sabotaggi dietro le linee nemiche. Così Kiev colpisce la Russia. LORENZO VITA su Inside Over il 23 febbraio 2023.
La guerra in Ucraina, oltre a combattersi sulla prima linea del fronte, si combatte anche dietro le linee nemiche. Questo vale in particolare per Kiev, che dall’inizio dell’invasione ha progressivamente aumentato la propria capacità di penetrare in territorio russo e nei territori occupati da Mosca per colpire in profondità gli avversari.
Questa capacità delle forze ucraine è andata generalmente aumentando con l’avanzare del conflitto e quindi con il miglioramento della capacità di reazione da parte di Kiev. Lo dimostrano il miglioramento delle capacità tecnologiche, la letalità degli attacchi, ma anche l’aumento dell’importanza degli obiettivi russi così come la loro lontananza dal fronte. Un complesso meccanismo di attacchi e sabotaggi che si è sempre più spostato dal campo di battaglia per riuscire a infliggere colpi all’interno del territorio russo e in grado non solo di incidere sull’esercito, ma anche a scalfire quella sicurezza manifestata da Mosca sin dall’inizio dell’invasione.
Scalfire la sicurezza di Mosca
L’idea di Vladimir Putin, dall’inizio della cosiddetta “operazione militare speciale”, è stata infatti sempre quella di mantenere la Federazione Russa in una sorta di bolla protettiva. Il conflitto doveva rimanere circoscritto all’Ucraina, mentre il Paese dello “zar” doveva rimanere sostanzialmente inattaccabile, dando così l’immagine di una fortezza in grado di proteggere la popolazione durante tutta la guerra.
La conferma di questo processo di ampliamento della capacità di attacco in profondità da parte di Kiev è data quindi non soltanto dall’evidente ampliamento della portata delle armi date all’esercito ucraino, ma anche dalla scelta dei “target” prescelti dall’intelligence ucraina (con l’ausilio o meno della Nato e in particolare di Regno Unito e Stati Uniti).
La Crimea sotto tiro
I primi esempi di questa nuova campagna ucraina si sono osservati in estate con le esplosioni in Crimea. Le colonne di fumo apparse nel sito militare di Novofedorovka hanno evidenziato, come poi confermato dal ministero della Difesa russo, le esplosioni di un “deposito di munizioni”. Per Kiev e per l’intelligence britannica si trattava di aerei, e non di semplici depositi. A essere stati distrutti, infatti, sarebbero stati Su-24MR, tre Su-30SM e probabilmente almeno un Il-76. Per molti analisti, l’attacco era probabilmente dovuto a un sabotaggio di forze speciali ucraine dietro le linee russe, dal momento che non sembrava verosimile un bombardamento aereo o con armi che ancora non facevano parte degli arsenali ucraini. Ma in tanti hanno ipotizzato l’utilizzo di droni in grado di perforare le difese aeree russe.
Successivamente, altre misteriosi esplosioni (misteriose perché mai rivendicate né definite nelle modalità) hanno coinvolto un deposito di armi a Maiske, a nord della Crimea, e si è parlato anche di un sabotaggio nella base di Hvardiiske, non lontano da Sinferopoli. Su tutti questi casi, Kiev non ha mai dato una risposta alle domande su un possibile coinvolgimento di forze speciali o sabotatori, ma molte fonti anonime hanno riferito anche ai più importanti media americani che si trattava di azioni messe in atto dalle unità ucraine o di “partigiani“. E in quello stesso periodo, anche Sebastopoli, la grande base della Flotta del Mar Nero, è stata presa di mira diventando il bersaglio di quella che tutti si attendono come possibile grande controffensiva ucraina nella penisola.
Un altro esempio è stato l’incendio del ponte di Kerch, simbolo dell’annessione della Crimea alla Russia e dell’unione definitiva della penisola del Mar Nero alla nuova madrepatria. All’alba dell’8 ottobre 2022, un’esplosione ha causato il crollo di due campate del ponte uccidendo quattro persone e andando a colpire un’infrastruttura fondamentale per il rifornimento della Crimea. L’episodio, avvenuto il giorno del 70esimo compleanno di Putin, non è stato rivendicato ufficialmente dall’Ucraina. La stessa Russia, specialmente all’inizio, aveva parlato di incidente e non di sabotaggio. Kiev ha tuttavia dato immediata visibilità all’esplosione esultando per quanto accaduto. Infine, le inchieste di diversi giornali hanno parlato in maniera sempre più netta di un camion bomba (il New York Times ha poi riferito della regia dei servizi segreti ucraini), mentre Mosca ha poi annunciato l’arresto di alcune persone, tra cui cittadini ucraini, come artefici del sabotaggio.
La campagna segreta
A novembre, invece, diverse fonti parlavano di un attacco condotto da alcuni sabotatori ucraini presso la base aerea di Veretye, nella regione occidentale russa di Pskov. In base alle informazioni dei media, l’attacco avrebbe messo fuori uso almeno due elicotteri da combattimento KA52 Alligator. In quell’occasione, Kiev non rivendicò ufficialmente l’attacco, anche se i media ucraini riportarono le dichiarazioni della Direzione dell’intelligence della Difesa che sostanzialmente certificavano l’avvenuto sabotaggio.
A dicembre, altre esplosioni, questa volta all’interno dei confini russi riconosciuti dalla comunità internazionale. In pochi giorni, a essere colpiti sono stati gli aeroporti militari di Dyagilevo, nella regione di Ryazan e quello di Engels, nella regione di Saratov. Circa una settimana dopo quegli attacchi, era stato segnalato poi un ulteriore attacco, questa volta nel distretto di Kursk, tramite un drone. E alcune fonti ucraine avevano parlato di un raid, sempre con un velivolo senza pilota, contro un sito industriale nell’oblast di Bryansk. Sempre al New York Times, un funzionario ucraino aveva detto che “almeno uno dei due attacchi – quelli di Dyagilevo e Engels ndr – è stato completato con l’ausilio di forze speciali che si trovavano in prossimità dell’aerodromo e che hanno guidato i droni verso il bersaglio”.
Un’informazione che aveva confermato non solo la capacità ucraina di manovrare i droni centinaia di chilometri dentro il territorio russo, ma anche, se non soprattutto, di sapere muovere le proprie unità speciali nel cuore della Federazione. Tre settimane dopo, sempre la base di Engels era stata oggetto di un attacco con un drone in cui rimasero uccisi tre soldati russi. E sempre in quel periodo, come scriveva Adnkronos, i servizi di sicurezza russi dello Fsb hanno annunciato di avere “liquidato” un “gruppo di sabotatori” che il 25 dicembre cercavano di entrare nella regione di Bryansk.
Dopo questa lunga scia di esplosioni, a intervenire è stato poi Vadym Skibitsky, vice capo dell’intelligence militare ucraina, che ha di fatto ribadito la regia di Kiev sulle esplosioni e rilanciato sul piano di colpire in profondità la Russia. “Se possiamo raggiungere Engels, possiamo raggiungere anche il Cremlino“, ha detto Skibitsky, sottolineando come sia lecito pensare di colpire i campi d’addestramento e le basi in territorio russo poiché “presto o tardi, da queste caserme, andranno al fronte ad attaccare i nostri villaggi e le nostre città”.
Un avvertimento che serve soprattutto da un punto di vista politico: colpire la Russia significa scalfire quel senso di inattaccabilità con cui Putin ha voluto colpire l’intero Paese. Sentirsi vulnerabili è un problema enorme per il presidente russo, il quale però potrebbe anche essere rafforzato dalla possibilità che Kiev decida di colpire in modo più netto sul territorio dell’avversario. Certificare il senso d’assedio accusando l’Ucraina di volere colpire la Russia è un elemento tipico della narrazione putiniana, specialmente ora che vuole far vedere all’opinione pubblica di essere ancora saldamente alla guida del Cremlino. LORENZO VITA
“Dai russi una manovra a tenaglia”. Ma è ancora un mistero su dove arriverà Putin. FAUSTO BILOSLAVO su Inside Over il 23 febbraio 2023.
Buongiorno, Fausto. Dove ti trovi?
Sono nel Donbass, in zona di guerra, a pochi chilometri dal fronte, proprio nell’area di Luhansk dove le truppe russe stanno attaccando.
Proprio questa notte è iniziata l’operazione militare della Russia. Abbiamo visto code di civili che da Kiev stanno lasciando il Paese. I russi dicono che i bombardamenti sono mirati e che hanno colpito solamente basi militari e luoghi strategici. E’ davvero così?
Quello che posso mostrarvi è la lunga coda di automobili in attesa di fare benzina. Danno solo 20 litri di benzina. Anche questi ucraini vogliono scappare dal Donbass e dalle zone di guerra. Il problema è anche il carburante.
Ti trovi molto vicino alla linea del fronte…
Siamo a una decina di chilometri dal fronte e, fino a poco fa, si sentiva sia l’artiglieria da destra e da sinistra. Suppongo fosse l’artiglieria ucraina che cercava di fermare l’avanzata russa. Credo però che sarà una missione impossibile, anche perché dalle informazioni che ho i russi stanno cercando di avanzare a tenaglia e, probabilmente, non si fermeranno al Donbass. Carri armati russi sono stati avvistati alle porte di Karkiv, a tre ore di macchina da qui, e che è la più grande città ucraina nel nord est del Paese, a 39 chilometri dal confine con la Russia, un milione e 400mila abitanti. Anche lì temo stia scoppiando il panico.
Gli ucraini temono operazioni su larga scala oppure credono che Putin a un certo punto si fermerà?
Sono tutti sorpresi da questo attacco che sembra essere su larga scala. Si pensava al Donbass, al porto strategico di Mariupol, sul fronte sud del Donbass, il porto sul mare d’Azov che è strategico per gli ucraini. Sono scattati anche i primi bombardamenti su Mariupol sulle batterie anti missilistiche e anti aerei. Non si capisce se c’è una colonna russa che sta scendendo dalla Bielorussia verso Kiev. L’unica certezza è che già lunedì, quando Putin aveva riconosciuto le repubbliche separatiste, le unità di artiglieria dell’esercito ucraino avevano ricevuto l’ordine di muovere a nord di Kiev, più o meno nella zona di Chernobyl, proprio perché temevano un attacco russo anche da quella direttrice. L’importante ora è capire, soprattutto dove mi trovo in questo momento, quale sarà la manovra a tenaglia delle forze corazzate russe. Questa notte, proprio a fianco del nostro albergo, sentivo i carri armati ucraini che venivano trasportati in prima linea durante tutta la notte. Evidentemente, gli ucraini avevano informazioni di intelligence e hanno cercato di fare una barriera attorno a questa città. Anche gli operatori dell’Osce, che ho incontrato poco fa, temevano anche loro di rimanere tagliati fuori dalla manovra a tenaglia russa. FAUSTO BILOSLAVO
La guerra in Ucraina e la nuova logica dei blocchi. Emanuel Pietrobon il 25 Febbraio 2023 su Inside Over.
Guerre, disastri e pandemie: acceleratori di tendenze. Non creano e neanche distruggono nulla: provocano catalisi, accompagnano nella fossa ciò che era morente, fanno germogliare ciò che era quiescente. Sprigionano forze sino all’istante precedente della loro comparsa trattenute dai katéchon dell’epoca.
Il terzo decennio del XXI secolo è profeticamente iniziato con una pandemia e una guerra, due degli eschaton più potenti e trasfiguranti, con la seconda che ha amplificato l’impatto globale della prima, la quale, a sua volta, aveva accelerato dei fenomeni in moto da tempo. Riglobalizzazione. Redistribuzione e dispersione del potere mondiale. Ricompartimentazione del sistema internazionale in blocchi.
La guerra in Ucraina e la pandemia di COVID19, in estrema sintesi, hanno liberato quelle forze rivoluzionarie e destabilizzanti, a lungo e duramente trattenute sotto la soglia della pericolosità dai katéchon dalla superpotenza solitaria, gli Stati Uniti, che invocano il superamento del Momento unipolare e, dunque, la fine della bellicosa Pax americana. E la ristrutturazione della geografia di poli e poteri a livello internazionale comporterà inevitabilmente il ritorno all’età dei blocchi.
Il mondo in blocchi, di nuovo
Il sistema internazionale si trova in una situazione che mescola elementi del dopo-Bismarck, cioè il collasso progressivo delle architetture multilaterali e concertative, e del dopo-Hitler, ovvero la trasformazione di una guerra mondiale in frammenti in una guerra mondiale fredda. È una situazione che rende il presente molto simile, ma non interamente uguale, al passato.
Oggi è un insieme di ieri accaduti tra il 1884 e il 1939, un déjà-vu. L’amicizia senza confini sino-russa in chiave antiamericana è l’attualizzazione eterodossa dell’Intesa amichevole franco-britannica in funzione antitedesca. L’AUKUS e i vari patti tra la sorelle dell’anglosfera sono gli equivalenti contemporanei del Grande riavvicinamento. Il Sogno cinese di Xi Jinping è il remake giallo della Weltpolitik di Guglielmo II. La Russia è l’insofferente erede di un vinto umiliato da una sconfitta totale, della quale vorrebbe riscrivere una parte dei termini, che a tratti ricorda il revisionismo dell’asse Roma-Berlino.
Oggi è un insieme di ieri accaduti tra il 1946 e il 1954, durante l’ottennato di transizione che ha traghettato il mondo verso la Guerra fredda tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Guerre per procura, colpi di stato e insorgenze a spianare la strada al grande scontro egemonico. Patti, alleanze, progetti di integrazione economica e infrastrutturale, conferenze internazionali a preludiare alla partizione del mondo in tre sottomondi, popolarmente noti come blocchi.
Le funzioni dei blocchi
Blocchi. Le guerre interstatali non avrebbero modo di investire l’intero sistema internazionale se non esistessero dei blocchi, cioè delle alleanze di mutuo soccorso e dei sistemi-mondo strutturati, traversanti i continenti e le ideologie.
La funzione dei blocchi, in ogni epoca, è sempre la stessa: essere scudo e lancia dell’egemone che li comanda. Essi sono stati la ragione, ma non l’origine, delle tre guerre mondiali del Novecento – due calde e una fredda.
Oggi, su impulso della pandemia di COVID19 e della guerra in Ucraina, la litosfera sta nuovamente sperimentando una frammentazione in placche. I due eschaton hanno aggravato straordinariamente la competizione tra grandi potenze, come emblematizzato dall’accelerazione di fenomeni pre-esistenti come il friend-shoring e il disaccoppiamento sinoamericano, dando una spinta determinante alla regressione globale all’epoca dei blocchi. Che sono tre, per la precisione, ovvero il redivivo Occidente, il rinato Movimento dei non allineati e l’emergente coalizione antiegemonica sino-russo-iraniana.
Occidente, un gigante dai piedi d’argilla
Gli Stati Uniti possono vantare il controllo su di un blocco omogeneo, l’Occidente, che si caratterizza per l’alto grado di coesione politica, le familiarità culturali, lo sviluppo economico, la superiorità tecnologica e una sistematizzazione militare senza pari nel mondo – dalla NATO agli accordi bilaterali di mutua difesa e cooperazione militare.
L’Occidente è un blocco multilivello, transcontinentale, baricentrato tra America settentrionale ed Europa occidentale, ma esteso fino a Tokyo e Buenos Aires, la cui unità interna è garantita e consolidata dalla condivisione di catene del valore, mode, tendenze, cultura pop, social network, nonché dalla presenza di suballeanze di natura variegata. L’Occidente è un blocco politico, militare, economico, ma è anche una forma mentis, uno stile di vita. Identità e consumo.
All’apparenza impenetrabile, perché fondato su valori non negoziabili, l’Occidente è un blocco afflitto da limiti e debolezze, che il blocco sino-russo in divenire ha aggredito a cadenza crescente a partire dagli anni Dieci, la cui coesione politica è superficiale. Inimicizie e rivalità ne minacciano l’integrità, in primis la guerra sotterranea tra Washington e Berlino, e attori autocentrati, come Budapest e Ankara, si prestano, quando nel loro interesse, al gioco dell’asse Mosca-Pechino.
Riunione del G7 il 16 novembre 2022. (Foto: ANSA/Filippo Attili – Uff stampa Palazzo Chig)
Il blocco che non vuole esserlo
Il cosmo del Movimento dei non allineati, oggi come ieri, sarà il principale campo di battaglia dei due blocchi, che proveranno a corteggiare, a destabilizzare, o a satellizzare, periferie, paesi geostrategici e mercati-chiave per il destino della nuova guerra fredda.
Il blocco dei neutrali ha storicamente rivestito la funzione di mercato acquisti dei blocchi in guerra. Ché il non allineato altro non è, in molti casi, che un allineato nell’attesa della giusta offerta. Fu strappando alle grinfie del non allineamento socialisteggiante paesi come l’Indonesia che gli Stati Uniti poterono vincere la competizione con l’Unione Sovietica.
La multivettorialità delle piccole e medie potenze del Sud globale alla ricerca di maggiore autonomia dai vecchi padroni può essere considerata il non allineamento 2.0. Arabia Saudita, Azerbaigian, Egitto, India, Kazakistan, Serbia; lunga è la lista dei giocatori che provano a dribblare il dilemma dell’allineamento scegliendo di non scegliere: dialogo con tutti, alleanza con nessuno.
Alcuni soccomberanno alle pressioni degli scomodi vicini, taluni percorreranno la rischiosa via dell’allineamento con sponsor remoti e altri ancora potrebbero tentare la strada innovativa di un nuovo blocco, autocentrato e identitario, a fare da contraltare ai tre dominanti – da non sottovalutare il potenziale del panturchismo, simbolizzato dal Consiglio Turco, del latinoamericanismo e di panarabismi in miniatura.
Il grande ritorno del Movimento dei non allineati
L’erede del Secondo mondo
Russia, Repubblica Popolare Cinese e Iran, i tre principali sfidanti degli Stati Uniti (e del loro blocco), non hanno nulla di simile all’Occidente. Hanno delle sfere di influenza, punti di partenza per la costruzione di blocchi, e dei progetti di integrazione e coordinamento aperti quando al loro estero vicino e quando ad altre forze interessate al superamento del Momento unipolare a guida occidentale.
L’epigono eterodosso del Secondo mondo è rappresentato dall’insieme dei satelliti e degli organismi dell’asse Mosca-Pechino, cui potrebbe aggiungersi la propaggine iraniana. A differenza del Secondo mondo di guerrafreddesca memoria, però, trattasi di un blocco a doppia regia, internamente disunito, scarsamente vertebrato, culturalmente diviso e privo di un cianoacrilato identitario.
Il presidente cinese Xi Jinping e il presidente russo Vladimir Putin durante un vertice diplomatico del 15 September 2022. (Foto: EPA/ALEXANDR DEMYANCHUK/SPUTNIK/KREMLIN)
L’esacerbazione della competizione tra grandi potenze e il rafforzamento del contenimento duale hanno facilitato la caduta di diffidenze di fondo e ostilità ancestrali tra Russia e Cina, spronandole ad amalgamare Unione Economica Eurasiatica e Belt and Road Initiative, a rivitalizzare e ad espandere il formato BRICS – forse destinato a diventare l’antitesi del G7 –, a dare manforte all’Iran – aspirante aiuto regista a lungo bistrattato, rivelatosi leale, però, al momento del bisogno – e ad investire maggiormente nell’internazionalizzazione della loro causa in comune: la riforma strutturale del sistema internazionale.
La guerra fredda 2.0 e i destini del mondo
Conservatorismo sociale – lotta all’universalismo occidentale –, antiamericanismo – dedollarizzazione –, e revisionismo politico – ricerca della transizione multipolare – sono i motivi conduttori del germogliante e confuso Blocco sino-russo-iraniano, che la crescente assertività del sempreverde Primo mondo sta incoraggiando a farsi reincarnazione pantocratrice del defunto Secondo mondo.
L’incubo della geopolitica anglosassone di una grande alleanza tra le potenze egemoni dell’Eurasia in funzione anti-atlantista sta lentamente facendosi realtà. L’antiamericanismo è il collante che ha unito le differenze di Mosca, Pechino e Teheran, e che un giorno potrebbe essere il casus foederis di un blocco formale, antagonistico all’Occidente, volente e in grado di combattere come un tutt’uno indistinto la battaglia per la transizione multipolare.
Potrebbe mancare un minuto alla mezzanotte. L’Iran ha contezza del profondo significato degli accordi di Abramo, sorti sulle ceneri dell’abortita NATO araba. L’AUKUS, la radicalizzazione della questione taiwanese e il progressivo spostamento a Oriente del focus geostrategico dell’Alleanza Atlantica stanno incoraggiando Pechino a premere l’acceleratore sull’evasione dalla catena di isole. La Russia ha detto definitivamente addio alla stagione dei compromessi a perdere invadendo l’Ucraina.
Potrebbe mancare un minuto alla mezzanotte. La mezzanotte del ritorno ufficiale all’età dei blocchi formali e formalmente contrapposti, in guerra mondiale fredda, iniziata nel 1955 con la conferenza di Bandung e con la nascita del Patto di Varsavia. Nell’attesa del rintocco, che il Primo mondo proverà a ritardare e/o ad impedire, nel mondo è ancora il 1954. EMANUEL PIETROBON
La guerra in Ucraina: rischi e opportunità per la Cina. Federico Giuliani il 25 Febbraio 2023 su Inside Over.
Nell’”amicizia senza limiti” siglata da Vladimir Putin e Xi Jinping ci sono numerose zone d’ombra che devono essere chiarite per capire il reale peso della partnership sino-russa. Innanzitutto, a differenza di quanto non si possa pensare, quella tra Russia e Cina non è affatto un’alleanza né intende in alcun modo avvicinarvisi.
La prova più evidente sta nel fatto che la Cina ha scelto di non seguire la Russia nella guerra in Ucraina. Non solo: a Pechino più di un alto funzionario è rimasto sorpreso, se non in certi casi contrariato, per la piega presa dagli eventi sul fronte, per le minacce nucleari, per la distruzione totale di un Paese, l’Ucraina appunto, che nei piani cinesi avrebbe dovuto far parte della Belt and Road Initiative (BRI). Ma anche per tutte le conseguenze indirette dell’escalation ancora in atto, in primis una maggiore assertività della Nato nell’Indo-Pacifico.
Certo, al governo cinese non può che far piacere osservare da lontano, a debita distanza di sicurezza, il rivale statunitense impantanato nel nodo ucraino e impegnato a rifornire di armamenti Volodymyr Zelensky. Anche perché, banalmente, più armi e attenzioni americane sono dirette verso l’Europa orientale e meno spazio di manovra ha Washington per ragionare sull’Asia.
Allo stesso tempo, tuttavia, l’aggressività di Putin rischia di creare una spaccatura insanabile tra il blocco occidentale e quello formato da Mosca e dai governi non allineati o in posizione ambigua. La Cina, a differenza della Russia, non ha infatti intenzione di ritrovarsi chiusa in un angolo, demonizzata o peggio esclusa dal commercio globale.
Dal canto suo, Xi ha più volte auspicato la risoluzione del conflitto mediante colloqui di pace ma non è mai davvero sceso in campo per impedire al Cremlino di continuare a sferrare offensive contro Kiev. Il perché è semplice: Pechino non controlla in nessun modo le azioni di Putin. È vero che la partnership sino-russa pende nettamente in favore della Cina ma, a quanto pare, la Russia gode di ampissima autonomia. Giusto per capirsi, il capo del Cremlino non avrebbe neppure avvertito il suo omologo cinese dell’intenzione di lanciare una simile “operazione militare speciale” in Ucraina, lasciando perplessa la leadership del Partito Comunista Cinese.
Una posizione difficile
È sempre più difficile per Xi rapportare costi e benefici della guerra in Ucraina. Toppe le variabili impazzite sul tavolo: su tutte l’imprevedibilità di Putin, che non sembrerebbe intenzionato a mollare la presa nel suo ormai personalissimo testa a testa con il blocco occidentale.
E pensare che in un primo momento, prima del 24 febbraio 2022, la Cina non poteva che nutrire aperto interesse nei confronti di un leader che stava picconando a suo modo il potere degli Stati Uniti e, al tempo stesso, mettendo a dura prova le alleanze statunitensi in Europa, il tutto quasi senza alcun costo per Pechino. Nella migliore delle ipotesi, intervenendo sull’Ucraina, Putin avrebbe forse persino spianato la strada a Xi per raggiungere il suo principale obiettivo in politica estera: riannettere Taiwan alla Cina continentale.
Quando il presunto piano di Putin per far cadere il governo di Zelensky è fallito – e probabilmente, come detto, la Cina lo ha scoperto in differita come il resto del mondo – è apparso evidente che la missione russa in terra ucraina si sarebbe trasformata in una guerra di logoramento.
Da quel momento in poi per Pechino sono iniziati i dolori. Come giustificare il fatto che l'”amico senza limiti” di Xi metta a ferro e fuoco un Paese indipendente, per altro contraddicendo il solido principio cinese di non interferenza negli affari degli altri governi? Come ignorare gli ingenti danni causati dalle bombe russe ai costosissimi investimenti cinesi in Ucraina? Come lasciar perdere lo choc energetico innescato dal conflitto, con l’aumento del costo di elettricità e petrolio in Europa, con ricadute nel business globale, ovvero la piscina prediletta del Dragone cinese?
Anche potendo rispondere a tali domande, la Cina non può rimproverare apertamente Putin, pena il prestare il fianco alla narrazione statunitense e rischiare di perdere un amico che, tutto sommato, fa ancora comodo alla causa cinese.
Finora, Pechino ha insistito sul fatto che la sua amicizia con Mosca è “solida come una roccia”, ma la sensazione è che Xi aiuterà il Cremlino finché ciò non comprometterà l’agenda cinese. È quindi probabile che il matrimonio tra Xi e Putin rimanga un matrimonio di convenienza.
Indipendentemente dall’esito della guerra in Ucraina, la coppia potrà ancora causare molti problemi agli Stati Uniti e ai suoi alleati, ma potrebbe avere grandi difficoltà a raggiungere una vera alleanza (per intendersi, come quella che Washington ha con il Giappone o la Gran Bretagna).
Intanto, ad un anno esatto dallo scoppio della guerra, la Cina ha presentato una proposta formata da 12 punti per porre fine al conflitto. Il documento è stato pubblicato sul sito del ministero degli Esteri ed è, di fatto, una sintesi approfondita degli appelli fin qui lanciati da Pechino. “Il conflitto e la guerra non giovano a nessuno. Tutte le parti devono restare razionali ed esercitare moderazione, evitare di alimentare il fuoco e aggravare le tensioni per impedire che la crisi si deteriori ulteriormente o addirittura vada fuori controllo“, si legge nel paper. La proposta della Cina include la richiesta di un cessate il fuoco e colloqui di pace, oltre alla fine delle sanzioni occidentali contro la Russia. Sottolinea che “i Paesi interessati dovrebbero smettere di abusare delle sanzioni unilaterali” e “fare la loro parte per ridurre la crisi ucraina”. Tra le linee troviamo una critica rivolta agli Stati Uniti (la necessità di archiviare la “mentalità da Guerra Fredda”) ma anche un flebile richiamo alla Russia (basta bombardare strutture civili e non usare armi nucleari).
Opportunità da sfruttare
La guerra in Ucraina offre però alla Cina anche diverse opportunità da sfruttare. Pechino può aiutare Mosca a eludere le sanzioni statunitensi, privare Washington di qualsiasi leva finanziaria e costringere il Cremlino a perdere la sua indipendenza economica. In altre parole, Putin ha un cappio attorno al collo che potrebbe stringersi sempre di più in base alle necessità di Xi.
Il presidente cinese ha definito il capo del Cremlino il suo “migliore amico” e, in effetti, molti fattori li stanno avvicinando. Economicamente, ad esempio, Cina e Russia sono partner complementari. Per i cinesi, la Russia è un fornitore di importanti materie prime, mentre i russi hanno bisogno degli investimenti della Cina e dei suoi prodotti ad alta tecnologia. Il commercio tra i due governi continua a crescere, mentre non mancano neppure esercitazioni militari congiunte.
In ogni caso è inutile girarci attorno: per il Dragone la guerra in Ucraina rappresenta prima di tutto un evento inatteso che potrebbe contribuire ad indebolire gli Stati Uniti e modificare l’attuale ordine globale. Il punto è che, mano a mano che Pechino diventerà più potente, il divario tra Cina e Russia si amplierà sempre di più. Putin sarà disposto a diventare l’amico subordinato di Xi? FEDERICO GIULIANI
Turchia, Israele e Vaticano: a che punto è la mediazione tra Russia e Ucraina. Mauro Indelicato il 25 Febbraio 2023 su Inside Over.
Quando l’ora “X” è scaduta e le prime esplosioni hanno illuminato il cielo di Kiev, una parte della comunità internazionale ha subito provato a intavolare una mediazione tra Russia e Ucraina. Un modo per fermare da subito il conflitto ed evitare di prolungare le azioni militari. Tentativi importanti sono stati perpetuati da Israele, dalla Turchia, in parte anche dal Vaticano. Al momento, nessuno di questi tentativi è stato coronato da successo. Ma le mediazioni stanno comunque proseguendo, così come i contatti politici tra alcuni degli attori internazionali direttamente o indirettamente coinvolti nel dossier.
La mediazione turca
Il presidente turco Erdogan ha subito condannato l’intervento russo in Ucraina. Poche ore dopo l’annuncio di Vladimir Putin sull’inizio delle operazioni militari, il governo di Ankara ha espresso profonda condanna per quanto avvenuto. Tuttavia, né alla vigilia del conflitto e né in seguito all’inizio della guerra, Erdogan ha sposato in toto le misure degli altri Paesi Nato relative alle sanzioni contro Mosca e alla quasi totale rottura dei rapporti diplomatici.
Al contrario, la Turchia ha continuato ad avere ottimi rapporti con la Russia. E questo soprattutto perché i due Paesi già da anni appaiono come tra i principali attori dei vari dossier che seguono in comune. Ankara e Mosca ad esempio sovrintendono al rispetto del cessate il fuoco nel nord della Siria. Appaiono inoltre i due protagonisti principali nello scacchiere libico. Dalla Turchia passano poi fondamentali snodi energetici per il gas e il petrolio russi. Tanti interessi quindi, impossibili da tranciare improvvisamente.
Allo stesso modo però, Erdogan negli anni ha intessuto importanti rapporti anche con Kiev. Ankara non ha mai riconosciuto l’annessione russa della Crimea e si è anzi fatta portavoce delle istanze della comunità tatara. Inoltre, la Turchia ha venduto agli ucraini decine di esemplari di Bayraktar, i droni tra i più richiesti in ambito difensivo e con i quali l’esercito di Kiev ha potuto da subito bersagliare le postazioni russe.
Alla luce di queste posizioni, la Turchia si è ritagliata un ruolo di primo piano nei tentativi di mediazione tra le parti. Ankara è stata percepita da entrambi gli attori contendenti come un Paese affidabile a cui affidare le proprie istanze diplomatiche. C’è la mano turca dietro i primi incontri avvenuti in Bielorussia tra le delegazioni russe e ucraine. Il 30 marzo forse l’evento più importante: a Istanbul, sotto lo sguardo dello stesso Erdogan, delegazioni di Mosca e Kiev si sono parlate affrontando alcuni dei punti principali del conflitto. A partire dal ritiro dei russi nelle posizioni antecedenti al 24 febbraio e al non ingresso nella Nato dell’Ucraina. Le fosse comuni apparse a Bucha nei primi giorni di aprile, hanno stroncato il percorso inaugurato a Istanbul.
Tuttavia la diplomazia turca è rimasta molto attiva nella mediazione. Il ministro degli Esteri turco, Mevlut Cavusoglu, ha più volte incontrato funzionari russi e ucraini. Ankara e Istanbul hanno inoltre più volte ospitato delegati da Kiev e Mosca, seppur in separate sedi. E sempre in Turchia si sono tenuti incontri tra vertici della sicurezza russa e omologhi statunitensi. Ad oggi, il tentativo di mediazione turco è quello più importante in campo e il più accreditato a essere preso in considerazione nel caso di ridimensionamento dello sforzo bellico di entrambe le parti in guerra.
Il tentativo israeliano
Quella turca è la mediazione più attiva, ma quella israeliana è stata la prima in assoluto a essere stata tentata dopo lo scoppio del conflitto. Lo Stato ebraico ha ottimi rapporti con Mosca e Kiev. Con la Russia, già da diversi anni, Israele ha costanti relazioni per via del dossier siriano. Inoltre, i rapporti diplomatici tra i due paesi sono stati cementificati dalla vicinanza tra Putin e Netanyahu. Con l’Ucraina i rapporti sono sempre stati buoni, per di più il presidente ucraino Zelensky ha origini ebraiche e questo ha contribuito ad avvicinare le due sponde.
A febbraio al timone di Israele c’era il premier Naftali Bennett. È stato lui il primo leader straniero a recarsi a Mosca dopo l’inizio della guerra per provare una mediazione. Il tentativo però non è andato a buon fine. E ad oggi le mediazione israeliana sembrerebbe poco tenuta in considerazione.
I motivi sono da ricercare nel progressivo disallineamento tra lo Stato ebraico e il Cremlino. La fuga da Mosca del capo della comunità ebraica, reo di non aver appoggiato pubblicamente la guerra, la minaccia dell’ex presidente russo Medvedev di interrompere ogni rapporto diplomatico e le tensioni sulla Siria, hanno inclinato l’asse tra i due Paesi.
Tuttavia né Bennett e né il successore Netanyahu, tornato in sella a gennaio dopo le elezioni, hanno per adesso messo in discussione la neutralità. Israele infatti non ha fornito aiuti militari all’Ucraina, eccezion fatta per elmetti e caschi girati all’esercito di Kiev. E ha sempre risposto negativamente alle richieste di Zelensky. Fonti diplomatiche hanno parlato di recente circa una maggior pressione degli Usa su Israele per aiutare concretamente l’Ucraina, la posizione però del governo è rimasta invariata. Segno che ancora forse gli israeliani credono in una propria mediazione.
Bennett e Putin nel 2021. Foto: EPA/Yevgeny Biyatov/Sputnik
L’attivismo del Vaticano
Papa Francesco ha subito condannato l’attacco russo contro l’Ucraina. Il Pontefice ha dedicato dalla prima ora di guerra discorsi e parole favorevoli a un repentino ritorno al dialogo. Una posizione, quella della Santa Sede, in linea con quella presa in altre crisi internazionali passate. Basti pensare, ad esempio, all’opposizione di Giovanni Paolo II sia alla prima che alla seconda guerra del Golfo. Tuttavia il richiamo alla pace da parte del Vaticano non era affatto scontato e ha posto la Chiesa Cattolica su un piano molto diverso rispetto a quella ortodossa russa, con cui Papa Francesco negli ultimi anni ha stretto molti più legami.
Gli ortodossi russi infatti, guidati dal patriarca Kirill, hanno subito sostenuto l’azione di Putin. Anzi, più volte il patriarcato di Mosca ha invitato i fedeli a sostenere l’operazione in Ucraina, indicata come “giusta” sia per la difesa della patria e sia per l’attacco contro un occidente considerato oramai lontano dai veri valori cristiani. Parole a cui il Pontefice romano ha risposto ricordando l’essenzialità della pace.
Un gesto molto significativo Papa Francesco lo ha promosso in occasione della via crucis del Venerdì Santo, quando due infermiere, una ucraina e una russa, hanno portato per un tratto assieme la Croce. Gesto non ben visto da Kiev, con la tv ucraina che ha censurato la processione.
Ad ogni modo, al fianco dei richiami alla pace il Papa ha anche avviato un’intensa opera diplomatica. Francesco ha promosso l’invio di aiuti umanitari in territorio ucraino ma, allo stesso tempo, ha anche parlato in un’intervista al Corriere della Sera di una guerra non esplosa improvvisamente. “L’abbaiare della Nato alle porte della Russia – ha dichiarato il Pontefice in quell’occasione – probabilmente ha scatenato l’ira russa”.
La Santa Sede quindi ha espresso una posizione di netta condanna all’operazione, senza tuttavia scontrarsi con Mosca e anzi provando a rinforzare il canale diplomatico. Il segretario di Stato Pietro Parolin, a dicembre ha ufficialmente dichiarato il Vaticano pronto a farsi mediatore tra le parti. Contatti tra Vaticano e Mosca sono stati segnalati soprattutto nella seconda metà del 2022. A dicembre un incidente diplomatico ha rischiato però di comprometterli: il ministero degli Esteri russo ha infatti espresso condanna e perplessità per le parole del Papa su presunti crimini attuati in Ucraina da buriati e ceceni. Ad ogni modo, i canali ad oggi risultano ancora aperti e praticabili.
I contatti tra russi e statunitensi
Occorre infine tenere in considerazione i contatti diretti tra Mosca e Washington. Contatti mai chiusi, come confermato nei mesi scorsi dal consigliere per la sicurezza nazionale Usa, Jake Sullivan. Statunitensi e russi, anche nella fase più critica, hanno continuato ad avere canali preferenziali aperti. Un dialogo che ha avuto come snodo fondamentale la sicurezza nucleare ma che, al tempo stesso, ha riguardato direttamente la guerra in Ucraina.
Del resto, l’obiettivo di Mosca è quello di parlare da pari a pari con la Casa Bianca prima ancora che con Kiev. Ottenendo quindi in tal modo il riconoscimento del suo status di potenza dagli Stati Uniti. Sul finire del 2022, la stampa turca ha riferito di incontri ai massimi vertici della sicurezza tra delegazioni statunitense e delegazioni russe. Si tratta di uno dei tanti segnali emersi circa il costante contatto tra le due parti. Ed è forse su questo canale che, nel prossimo futuro, potrebbe svilupparsi il reale incontro diplomatico capace di far arrivare almeno a un cessate il fuoco.
I colloqui in Svizzera
Alla vigilia del primo anniversario della guerra, nel febbraio 2023 il ministro degli Esteri svizzero Ignazio Cassus ha rivelato l’esistenza di colloqui svolti a Ginevra tra alcune delegazioni. In un’intervista al quotidiano Le Temps, il titolare della diplomazia elvetica ha sottolineato che i negoziati si stanno svolgendo tra rappresentanti non di massimo livello. Tuttavia, le trattative in corso riguarderebbero punti importanti ed è per questo che vige un certo riserbo.
Cassus ha anche specificato che la Svizzera si è offerta, in qualità di Paese neutro, a “offrire tutti i propri servizi a favore di una trattativa”. Nei mesi precedenti, Kiev aveva proposto a Berna di rappresentare i propri interessi in Russia, ma l’eventualità era tramontata dopo il diniego di Mosca. MAURO INDELICATO
La guerra e lo smarrimento Ue: così la Nato si è “ripresa” l’Europa. Lorenzo Vita il 25 Febbraio 2023 su Inside Over.
La guerra in Ucraina ha avuto un impatto sensibile sulla politica europea. Il Vecchio Continente è stato infatti tramortito da un conflitto che non solo ha modificato la percezione della Russia, ma che ha anche radicalmente mutato il quadro strategico europeo. Tutto questo ha innescato, rallentato o anche accelerato dei processi che erano già in corso da diversi anni e che hanno riguardato non soltanto l’Europa intesa come insieme di Stati geograficamente presente nel continente, ma anche l’Europa intesa come costruzione comune, e quindi l’Unione europea.
Dalla “morte cerebrale” alla resurrezione
Per comprendere questo complesso meccanismo politico avviato con l’invasione, va compreso innanzitutto il periodo precedente a essa. Dal punto di vista strategico, il continente europeo arrivava da una fase di profondo ripensamento rispetto alla concezione stessa dell’Alleanza Atlantica. Va ricordato, infatti, che appena pochi mesi prima delle grandi esercitazioni russe al confine con l’Ucraina, il veloce e confusionario ritiro dall’Afghanistan aveva messo ancora più in dubbio la leadership di Joe Biden così come la sinergia tra partner Ue e Nato. Emmanuel Macron aveva definito il blocco euro-atlantico in “morte cerebrale” già dai tempi della guerra in Siria. E nel frattempo, il dibattito sull’autonomia strategica europea (insieme a quello sulla difesa comune) sembrava essere una forma di espressione di desiderio di essere potenza da parte di un’Unione europea che aveva assaggiato una parvenza di unità successivamente al trauma del coronavirus.
Molti Paesi, inoltre, temevano che le richieste di aumento del budget per la Nato fossero eccessive per le proprie casse, esangui da una stagione di profonda crisi economica. Infine, si notavano forti divergenze in seno alla stessa Alleanza sia per i rapporti dei singoli Paesi rispetto alla Russia, da molti vista come un partner imprescindibile, sia per i dossier ritenuti prioritari. Questa contrapposizione interna tra alleati si univa, inoltre, a un complesso sistema di rivalità tra i partner che aveva in qualche modo scalfito la sinergia all’interno dell’Alleanza. I vari blocchi che compongono l’Europa e le singole più importanti potenze hanno sempre gestito in modo molto diverso la politica estera. E questo ha comportato inevitabilmente agende diverse sia nei rapporti con le alleanze di cui si fa parte, sia verso i partner continentali sia nei confronti delle superpotenze.
Dal punto di vista europeo, la scelta di Putin di avviare la sua “operazione militare speciale” ha quindi rappresentato una sorta di vaso di Pandora e allo stesso tempo un cambio di rotta di fondamentale. Sotto il primo aspetto, l’attacco russo all’Ucraina ha palesato quelle “ambiguità” strategiche che da tempo gli Stati Uniti riteneva prioritario ridurre. Washington non ha mai nascosto l’enorme difficoltà nel vedere gli idrocarburi russi arrivare in Europa mentre la Nato costituiva l’ombrello a protezione proprio di un’eventuale escalation con Mosca, né ha mai digerito i rapporti privilegiati di alcune potenze Ue con la Russia in una fase di notevole distanza tra le due superpotenze. E questa concezione era condivisa anche da diversi alleati nella Nato e della stessa Bruxelles.
I limiti dell’Ue
Contemporaneamente a questi problemi strategici, si univa poi un altro tema, che poi è palesato in modo evidente sin dalle prime fasi dell’escalation tra Russia e Ucraina, e cioè la debolezza strutturale dell’Unione come soggetto politico in grado di incidere sui destini del continente. Va infatti ricordato che, mentre gli Stati Uniti e il Regno Unito avevano continuato a lanciare allarmi sull’invasione ormai prossima negando fondamento alle proposte russe, Francia e Germania, le due “superpotenze” Ue, hanno provato fino all’ultimo a far desistere Putin dai suoi propositi. Macron e Olaf Scholz hanno anche fatto visita al presidente russo a Mosca per cercare di trovare una mediazione, ma il risultato è stato sostanzialmente un nulla di fatto, lasciando anzi intendere che gli Usa erano di fatto stati gli unici a capire la situazione e a evitare di rimanere “appesi” al dialogo con il Cremlino. In quel momento dunque si mostravano due debolezze: quella dei singoli Paesi, incapaci di dialogare con Mosca, e quella dell’Europa intesa nel suo insieme, lacerata da diverse visioni e soprattutto mai considerata davvero come un interlocutore né come un “game changer”.
Ecco dunque che con la guerra in Ucraina, la debolezza di questi soggetti e le diversità di vedute, unita all’inevitabile riconquista di leadership da parte degli Stati Uniti hanno fatto sì che l’Ue, di fatto, uscisse di scena come soggetto capace di incidere. Washington, e con essa la Nato, avevano dimostrato di sapere comprendere prima degli “europei” il destino dell’Ucraina, e la guerra scatenata a febbraio 2022 aveva invece portato a cancellare ogni ipotesi di dialogo e di collaborazione con Mosca.
Incontro virtuale tra Macron e Putin nel 2020. Foto: ANSA/Michel Euler.
Questo ha costretto l’Ue e con essa i singoli Paesi a compiere una serie di modifiche ai propri piani. Innanzitutto il dibattito sull’autonomia strategica si è di fatto annullato per via dell’evidente forza diplomatica e bellica rappresentata da Oltreoceano. Il vento atlantico ha surclassato le aspirazioni europeiste e ha rafforzato chi, all’interno dell’Ue, non vi aveva mai creduto: a partire dalla Polonia e dagli altri membri del gruppo di Visegrád fortemente antirussi (a eccezione della sola Ungheria). Lo confermano anche le iniziative militari e politiche sul fronte orientale, che hanno certificato una sorta di cesura tra un passato distensivo e un presente, e probabilmente un futuro, in cui la Nato ha assunto un peso estremamente rilevante sia sotto il profilo infrastrutturale (Trimarium docet) che sotto quello delle nuove forniture militari a tutti i Paesi coinvolti nel sostegno militare all’Ucraina.
Dal punto di vista energetico, le sanzioni contro la Russia e il graduale stop agli accordi sulle forniture hanno inoltre condotto a un enorme cambiamento strategico di tanti Paesi che avevano fatto affidamento, in larga parte, sulle garanzie fornite da Mosca. La modifica delle rotte del gas e del petrolio ha riacceso il dibattito sull’autonomia strategica ma solo in chiave energetica. E, immediatamente dopo lo scoppio della guerra, l’impressione che si è avuta è che l’unica vera carta europea da giocare nel conflitto sarebbe stata quella energetica. Oltre a spezzare l’asse che legava i partner continentali alla Russia, le rotte del gas e del petrolio sono mutate contestualmente a sanzioni e stop alle forniture. I Paesi europei più dipendenti da Mosca hanno modificato – almeno parzialmente – le proprie importazioni, tanti hanno virato sul Gnl e su altri fornitori per colmare il vuoto russo.
l simbolo di tutto questo è quanto avvenuto nel Baltico: la fine del Nord Stream 2, le falle nelle condutture, la virata verso il gas naturale liquefatto di tutti i Paesi della regione e l’attivazione del gasdotto Baltic Pipe dalla Norvegia alla Polonia. Una rivoluzione dell’area che però può essere letta anche come cartina di tornasole di tutto quanto avvenuto in Europa, con nuovi grandi fornitori di gas, nuove rotte e nuove difficili sfide per quanto riguarda il costo dell’energia, soprattutto legato alla stagnazione economica in corso e alla crisi dell’industria (già colpita dalla pandemia, dalle restrizioni e dai problemi alla catena di approvvigionamento).
La supremazia americana
In tutto questo, il corso della guerra ha anche prodotto due altri processi all’interno dell’Europa. Se infatti tutti i Paesi si sono resi conto dell’importanza ancora fondamentale della Nato rispetto alle aspirazioni continentali, questo ha significato d’altro canto un evidente spostamento del baricentro europeo verso occidente. Un cambiamento che ha reso sempre più chiaro come nessuno degli Stati membri potesse fare più finta di non vedere quanto accaduto in Ucraina ma nemmeno tergiversare sulle richieste di Usa e Nato, oltre che di Kiev. I tentennamenti, pur con vari negoziati, si sono sempre risolti nel graduale e progressivo sostegno militare all’esercito ucraino, e lo conferma anche la decisione di inviare i carri armati alle truppe di Volodymyr Zelensky nonostante all’inizio vi fossero addirittura dubbi se inviare o meno semplici mezzi per evitare l’escalation con Mosca. La trattativa tra Scholz e Biden per l’invio dei Leopard è stata in questo senso esemplare.
Infine, un secondo processo è stato di fatto l’esautoramento delle forze europee come interlocutori per la Russia o come eventuali mediatori. Al netto della volontà delle parti in guerra di giungere a un negoziato – cosa che al momento appare molto remota – va sottolineato che tutti i Paesi che si sono proposti di intercedere tra Kiev e Mosca e che hanno agito come potenziali ponti anche nei confronti del Cremlino sono sempre stati esterni all’Ue. Escludendo l’Ungheria di Viktor Orban, che non ha mai avuto un ruolo realmente da protagonista, gli unici Stati a svolgere un ruolo riconosciuto in qualche modo anche dallo stesso Putin sono stati Israele, Turchia, Città del Vaticano, India o al limite la Cina.
L’Unione europea, schierata apertamente a favore dell’Ucraina, si è di fatto inevitabilmente posta in una posizione di piena sintonia con gli Stati Uniti, rendendo in sostanza la Nato il vero contenitore della strategia europea. I singoli Stati membri, per errori, ambiguità, inadeguatezza o anche semplicemente per difficoltà oggettive nel parlare con la Russia, non hanno mostrato alcun tipo di reale peso diplomatico. Lo confermano le inutili, lunghissime ed estenuanti telefonate di Macron con Putin, così come in vani tentativi di Scholz, su cui pesa anche la pensate (e criticata) eredità merkeliana. E anche il fatto di dipendere dall’esterno sotto il profilo energetico, prima con la Russia e poi con altri partner, si è tradotto in un pesante fardello diplomatico, tagliando larga parte dell’autonomia rimanendo invece in balia dell’evoluzione bellica. Lorenzo Vita
La guerra in Ucraina e la partita italiana nella Nato. Lorenzo Vita su Inside Over il 26 Febbraio 2023
Con l’attacco della Russia all’Ucraina, la Nato ha ricevuto un impulso non indifferente per quanto concerne la sua importanza nel quadro di sicurezza europeo ma anche la sua proiezione strategica. Il fronte orientale è diventato in modo inequivocabile come il vero baricentro delle azioni Nato. E il possibile ampliamento dell’Alleanza a Finlandia e Svezia ha acceso i riflettori anche sul fronte del Baltico e dell’Alto Nord, sottolineando quindi una complesso politico-militare che, almeno al momento, appare incentrato verso nord-est.
Le sfide dell’Italia nella Nato
L’Italia, da sempre in prima linea nelle varie missioni Nato in Europa, Iraq e Mediterraneo, si trova quindi al momento coinvolta in quella che è una duplice sfida. Da una parte sottolineare la propria fedeltà alla linea euro-atlantica dopo un periodo in cui è apparsa tentennante nei rapporti con i due grandi avversari Nato: Cina e Russia. Dall’altra parte, far sì che la naturale attenzione di Bruxelles e Washington verso est non faccia perdere di vista l’importanza del fronte meridionale, che per l’agenda di Roma rappresenta una questione di natura essenziale. Se non esistenziale.
Sotto il primo aspetto, l’Italia, sin dall’inizio della guerra in Ucraina, ha impostato una rotta profondamente ancorata alle linee euro-atlantiche. I governi di Mario Draghi prima e di Giorgia Meloni poi hanno dimostrato una netta continuità strategica e diplomatica, confermando la presa di posizione a favore di Kiev e di condanna a Mosca, ma anche stabilendo pacchetti di aiuti militari in linea con la maggior parte degli alleati e le richieste di Usa e Nato.
Per il Belpaese si tratta di prove di sinergia da non sottovalutare, specialmente perché negli esecutivi precedenti vi erano stati molteplici avvertimenti di Washington su alcune mosse diplomatiche ritenute estranee alla fedeltà atlantica. Inoltre, il tradizionale e profondo legame economico (e non solo) tra Mosca e Roma, specialmente sul fronte del gas, era visto con sospetto da molti apparati d’Oltreoceano ed europei che vedevano nell’Italia una sorta di punto interrogativo europeo al pari della Germania, ritenute troppo divergenti sul rispetto della linea dell’intransigenza verso la Russia. E questo era stato percepito non solo da Washington, ma anche dalle varie cancellerie dell’Europa orientale, che hanno spesso evidenziato difficoltà nella convivenza tra le strategie di alcuni Paesi dell’Europa centrale e meridionale rispetto alle esigenze di chi vive fronte est dell’Alleanza Atlantica.
L’Italia e le missioni dell’Alleanza atlantica
Questa impostazione strategica italiana è andata in ogni caso sempre parallela a una piena fedeltà e a un continuo ed efficiente coinvolgimento in tutte le missioni Nato, in cui Roma, come detto in precedenza, non ha mai fatto mancare il proprio sostegno. Anzi, la partecipazione attiva e fondamentale dei militari italiani nelle più importanti operazioni euro-atlantiche è sempre stata la più chiara certificazione del peso e della piena adesione della nazione al sistema politico-militare occidentale. E questo si è visto non solo in precedenza nelle varie missioni Nato (tra cui l’Afghanistan), ma anche ora nei Balcani, in particolare in Kosovo, in Iraq, nel Mediterraneo, in Lettonia, e nelle varie missioni di air policing in Europa orientale. Operazioni cui si devono naturalmente unire quelle sotto il cappello Onu e Ue pur sempre legate al sistema occidentale.
Se questa è la premessa, va anche detto che l’Italia, come sottolineato in precedenza, si è spesso trovata a dover districarsi fra il proprio interesse e quello di altri Paesi Nato che, nel corso degli anni, hanno spesso dimostrato di potere spostare il baricentro dell’Alleanza verso est dimenticandosi delle conflittualità e delle instabilità del fronte meridionale, in particolare quello africano. Sul punto, è importante sottolineare che la posizione dell’Italia è sempre stata quella di ribadire che per Bruxelles e Washington quanto accade a sud delle frontiere euro-atlantiche non è meno importante e urgente di quanto accade a oriente, soprattutto perché i fattori di insicurezza molto spesso convergono. Roma ha più volte sostenuto, in diversi summit atlantici, la necessità di far sì che le forze dell’Alleanza fossero anche in grado di sostenere la sicurezza del lato meridionale del blocco, e se questo risulta chiaro anche dalle responsabilità di Roma su questo fronte (basti pensare al Kosovo e al comando della missione in Iraq), va altresì detto che molto spesso l’attenzione di Bruxelles è stata minima rispetto alle richieste.
Il nuovo baricentro della nato dopo la guerra in Ucraina
La guerra in Ucraina – spostando di nuovo il focus dell’Alleanza a est e a nord-est – sembra avere nuovamente messo a repentaglio il piano italiano. Tuttavia, in questo anno di conflitto è altrettanto evidente che l’aumento del protagonismo e dell’impegno in questo frangente può essere per l’Italia una carta da giocare nel futuro riequilibrio del blocco. Il summit di Madrid ha confermato che la Nato, pur ritenendo la Russia la “minaccia più diretta e più significativa” alla sicurezza degli alleati e inserendo la Cina come rivale, ha dato risalto alla situazione del fianco sud facendo riferimento ad Africa e Medio Oriente.
Al punto 11 del nuovo Concetto Strategico si legge infatti che “i conflitti, la fragilità e l’instabilità in Africa e nel Medio Oriente incidono direttamente sulla nostra sicurezza e su quella dei nostri partner”. Inoltre, si fa riferimento ai vicini meridionali della Nato che devono “affrontare sfide interconnesse in materia di sicurezza, demografiche, economiche e politiche” in una situazione che “offre un terreno fertile per la proliferazione di gruppi armati non statali, comprese le organizzazioni terroristiche. Consente inoltre interferenze destabilizzanti e coercitive da parte di concorrenti strategici”. L’Italia ha interesse affinché questo punto del nuovo “programma” Nato si concretizzi nel prossimo futuro.
In tutto questo, pesa anche la scelta del futuro segretario generale dell’Alleanza. Jens Stoltenberg ha confermato che lascerà l’incarico in autunno e non intende prorogare ulteriormente il mandato. La partita è aperta ed è chiaro che quella che si gioca in Ucraina è anche una sfida politica su chi ha la capacità di imporre una propria guida al blocco euro-atlantico. Nei mesi scorsi si era parlato dell’ipotesi di Draghi alla guida della Nato, visto anche il favore di cui gode Oltreoceano. Per Roma sarà un banco di prova non indifferente. LORENZO VITA
Un anno di guerra: chi ha davvero aiutato l’Ucraina in Italia. Massimo Balsamo su Inside Over il 26 Febbraio 2023
È trascorso un anno dalla guerra voluta da Vladimir Putin, dall’invasione del territorio ucraino, dall’inizio di morti e scie di sangue. Migliaia di vittime innocenti, soldati uccisi ed esecuzioni truculente. Nessun segnale degno di nota dalle trattative per il cessate il fuoco, riflettori accesi sulle dinamiche a livello internazionale con protagonisti anche Stati Uniti e Cina, senza dimenticare l’Europa. L’Italia ha sempre mantenuto la barra dritta, nonostante il cambio di governo e di maggioranza. Il passaggio da Mario Draghi a Giorgia Meloni non ha visto scossoni per quanto concerne il sostegno a Kiev: totale e incondizionato.
L’esecutivo di unità nazionale fatto cadere dal Movimento 5 Stelle ha interpretato un ruolo importante a livello europeo nel sostegno al Paese di Volodymyr Zelensky. Draghi si è esposto in prima persona con gli altri leader, ribadendo l’importanza di individuare spiragli di pace e mediazione ma allo stesso tempo rimarcando l’imperativo di ripristinare l’integrità territoriale dell’Ucraina. In altre parole, di garantire il rispetto di un popolo aggredito.
Come anticipato, il risultato delle elezioni del 25 settembre non hanno segnato svolte o passi indietro sul sostegno a Kiev. Anzi, hanno rafforzato le garanzie di sostegno. Le perplessità appartengono sono alla sinistra: il Movimento 5 Stelle si è reso protagonista dell’ennesima capriola firmata Giuseppe Conte, un riposizionamento ultra-pacifistica per una logica elettorale. No convinto all’invio di armi da parte dei grillini, ma anche di Verdi e Sinistra Italiana, alleati del Partito Democratico.
In politica, come in molti altri ambiti della vita, contano i fatti più delle parole. E i fatti sono noti a tutti, a prescindere dalle fake news: il centrodestra ha sempre votato in maniera compatta pro-Kiev. Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia hanno votato documenti operativi e di solidarietà sin dall’inizio dell’invasione. Tenere aperto il dialogo per arrivare alla pace è un conto, smettere di contribuire alla difesa di un Paese aggredito è tutt’altro discorso. Nonostante la propaganda e le accuse lanciate in campagna elettorale, la sinistra sul punto è apparsa quantomeno confusa. Restando all’opposizione, discorso diverso per Italia Viva e Azione: i partiti guidati da Matteo Renzi e Carlo Calenda hanno sempre votato per fornire aiuti e armi a Kiev, confermando la linea tenuta durante la presidenza Draghi.
Il viaggio in Ucraina di tre giorni fa ha confermato ancora una volta l’indirizzo di Giorgia Meloni. Il primo ministro ha espresso a parole e con i fatti il sostegno a Kiev sia dai banchi dell’opposizione, sia da Palazzo Chigi. “Potete contare sull’Italia. Siamo con voi dall’inizio e lo saremo fino alla fine. Avete tutto il nostro il supporto”, il messaggio della leader di Fratelli d’Italia a Zelensky.
In prima linea anche Antonio Tajani e Guido Crosetto. Il titolare della Farnesina ha ribadito a più riprese la contrarietà azzurra all’invasione russa e l’appoggio all’indipendenza ucraina, come certificato dalle votazioni in Parlamento. “Dobbiamo essere ottimisti anche in un momento difficile, non dobbiamo mai dimenticare che alla fine prevale il bene sul male, che alla fine prevarrà la pace e dobbiamo impegnarci tutti noi affinchè si arrivi a un accordo che non penalizzi l’Ucraina perchè la resa sarebbe una cosa diversa dalla pace. Se aiutiamo quel Paese lo facciamo perchè vogliamo una trattativa”, la sua posizione. Posizioni condivise dal collega della Difesa, che ha dovuto fare i conti con minacce e offese personali da parte dell’elite russa, a partire dall’ex presidente Dimitri Medvedev. MASSIMO BALSAMO
Le armi dell’Italia a Kiev: cosa abbiamo inviato. Paolo Mauri su Inside Over il 26 Febbraio 2023
Il conflitto scatenato dall’invasione russa dell’Ucraina ha provocato la nascita di un fronte occidentale (ma non solo) di sostegno a Kiev.
Paesi europei, anche al di fuori della Nato come Svezia, Svizzera e Finlandia, insieme ad alcune nazioni dell’emisfero orientale come il Giappone, la Corea del Sud e l’Australia, si sono impegnati nel fornire all’Ucraina aiuti economici, umanitari e militari.
Dal punto di vista strettamente militare, il blocco dei Paesi che stanno fornendo equipaggiamento di vario tipo per l’esercito ucraino è rappresentato dalla quasi totalità delle nazioni appartenenti alla Nato con l’aggiunta di Svezia, Finlandia e Australia.
L’intervento dell’Italia
Anche l’Italia ha deciso di sostenere Kiev da questo punto di vista, e nel corso del conflitto ha inviato una serie di armamenti e relativo munizionamento (siamo al sesto pacchetto) di cui però non se ne conosce ufficialmente né la quantità né la tipologia eccezion fatta, come vedremo, per un particolare strumento bellico.
La decisione di non divulgare pubblicamente la lista degli equipaggiamenti ceduti all’Ucraina è in controtendenza rispetto alla strada percorsa da altri alleati della Nato come Francia, Germania, Regno Unito e ovviamente gli Stati Uniti. Va comunque notato che anche Washington, ad esempio, non rivela esattamente il tipo di tutti i sistemi inviati (si parla ad esempio di generici sistemi “anti-drone”), ma comunque si è scelto da subito di assottigliare il velo di segretezza che invece permane nel caso italiano.
Abbiamo già avuto modo di spiegare come l’aver posto il segreto sulla lista di armamenti, non significhi che il governo agisca unilateralmente: Palazzo Chigi ha la prerogativa di dare una classificazione ai suoi atti informandone però il Copasir, il Comitato Parlamentare per la Sicurezza della Repubblica che esercita il controllo sull’operato dei servizi segreti italiani, che li ha in forma integrale. Il Copasir, quindi, esprime il proprio parere sui decreti del governo in materia, e in merito a questa questione li ha sempre trovati in linea con le “indicazioni” e gli “indirizzi dettati dal Parlamento”. È difficile spiegare la decisione di porre il segreto sulla lista degli armamenti inviati all’Ucraina: molto probabilmente si tratta di una decisione presa in funzione di una serie di considerazioni legate alla politica interna – in Italia esiste un fronte “pacifista” importante ereditato dai tempi della Guerra Fredda e rispondente alle stesse dinamiche internazionali – e per opportunità diplomatica, ma le vere ragioni ci sono ignote.
In un mondo, però, in cui la rivoluzione digitale ha generato la possibilità di setacciare il web alla ricerca di fonti non ufficiali, anche definibili Osint (Open Source Intelligence), è difficile celare la paternità di certi aiuti militari, se pur resti la possibilità di negazione plausibile.
Le informazioni che arrivano da Kiev
Quando non è stato il singolo osservatore civile a mettere in rete fotografie e video di equipaggiamenti diretti al fronte, o addirittura in azione, è stato lo stesso governo ucraino (o l’esercito) ad aver palesato l’aiuto italiano dal punto di vista militare con post sui social network a volte corredati da alcuni scatti o filmati: un caso in tal senso è rappresentato da un video del comando operativo occidentale ucraino in cui viene mostrato un camion militare Iveco trainante un obice FH-70 che sembra a tutti gli effetti di provenienza italiana.
Possiamo quindi stabilire una lista di massima degli armamenti italiani ceduti all’Ucraina solo tramite fonti aperte avendo cura di vagliarle attentamente per stabilirne l’attendibilità. Da esse abbiamo potuto capire che il nostro Paese ha fornito, oltre ai già citati obici trainati FH-70 da 155 millimetri, obici semoventi M-109 (si ritiene più di 20) e probabilmente anche 6 più moderni Pzh-2000. Sconosciuto, invece, è il numero dei Vtlm (Veicolo Tattico Leggero Multiruolo) “Lince” che vestono i colori dell’esercito ucraino, ma sempre da fonti Osint è evidente che i mezzi italiani siano al fronte. Risulta anche, da queste fonti aperte, che siano stati ceduti due Mlrs (Multiple Launch Rocket System) tipo M-270A1. Sconosciuta la quantità di equipaggiamento leggero rappresentato da mitragliatrici Mg 42/59, mortai da 120 millimetri, Atgm (Anti Tank Ground Missile) “Milan”, granate a razzo anticarro “Panzerfaust”, Manpads (Man Portable Air Defense System) “Stinger” e mitragliatrici pesanti Browning M2 insieme a relativo munizionamento, che si ritiene sian stato inviato nei primi mesi del conflitto.
Il ruolo degli Samp-T
L’unica deroga al velo di segretezza caduto sulla lista di armamenti è rappresentato dal sistema missilistico da difesa aerea Samp-T. Il nostro Paese ha reso noto che, congiuntamente con la Francia con la quale ne condividiamo la produzione e messa in servizio, una batteria mista di questo importante strumento difensivo verrà inviata in Ucraina nel prossimo futuro. La decisione di rendere nota questa particolare spedizione riteniamo sia stata presa proprio perché il Samp-T viene prodotto e utilizzato anche dalla Francia, che ha stabilito di non porre la segretezza sulla maggior parte dell’equipaggiamento militare (anche pesante) inviato in Ucraina.
Non trova alcun riscontro, nel momento in cui scriviamo, la ventilata possibilità che l’Italia possa cedere 5 cacciabombardieri all’aviazione ucraina, che parte della stampa nazionale ha indicato possano essere composti da Tornado e AMX. La notizia non è ancora stata smentita da Palazzo Chigi, ma il ministro degli Esteri Antonio Tajani da Bruxelles, dove si è tenuto il vertice ministeriale dell’Ue, ha riferito che “di caccia non se n’è parlato” aggiungendo che vede impossibile l’invio di velivoli italiani, pur restando possibilista sull’eventualità che l’Alleanza Atlantica in futuro possa decidere di inviare caccia, che potrebbero facilmente essere gli statunitensi F-16 che non sono più in dotazione alla nostra Aeronautica Militare.
Del resto la linea di cacciabombardieri dovrebbe essere unica per evitare le enormi difficoltà logistiche rappresentate dall’addestramento di piloti e personale di terra ucraini su velivoli occidentali di diverso tipo, addestramento che già per una sola tipologia di velivolo risulta essere molto impegnativo e lungo in quanto l’aviazione ucraina ha usato sempre solo caccia di fabbricazione sovietica/russa (molto diversi da quelli occidentali), e l’F-16 potrebbe essere il candidato migliore data la sua enorme disponibilità numerica. PAOLO MAURI
La partita energetica a un anno dallo scoppio della guerra in Ucraina. Andrea Muratore su Inside Over il 26 Febbraio 2023
Un anno fa, mentre i missili devastavano Kiev e i combattimenti sanguinosi infuriavano in Ucraina, su Inside Over chi scrive propose, assieme a Emanuel Pietrobon, un focus politico ed economico su un tema fondamentale per l’Italia e l’Europa: l’energia. Si scrisse che per l’Europa era giunto il momento di pensare in grande e a maggior ragione per Roma fosse arrivata un momento decisivo. Finito il (comprensibile) momento della priorità data all’economicismo, arrivava quella della geopolitica. Lontana anni luce l’idea di diventare hub energetico del gas russo dopo la fine di South Stream, restava viva la forza della diversificazione energetica e la prospettiva della creazione di una “porta” mediterranea all’oro blu per sostituire le forniture di Mosca.
L’Europa e l’Italia oltre il gas russo
L’Europa, ha scritto l’Ispi, “nella sua disperata ricerca di un sostituto del gas russo ha guardato al pragmatismo più che alla coerenza. Mosca ha gradualmente chiuso i rubinetti delle sue esportazioni di gas verso l’Europa, che nel corso di quest’anno si sono ridotte dell’80%. Il peso del gas russo tra i fornitori dell’Ue è così sceso sotto il 10%“. Anche grazie all’impegno italiano.
Nei mesi è nata la più ambiziosa strategia energetica mai sviluppata dal sistema-Paese italia dai tempi di Enrico Mattei: una corsa alle fonti ottimali di gas naturale per sostituire la dominanza russa, vicina al 40% delle forniture nel 2021, avviata da Mario Draghi e proseguita da Giorgia Meloni, che proprio al visionario manager democristiano di origini marchigiane ha intitolato il piano per la “caccia” al gas africano.
Il piano di Draghi e Meloni
L’Italia deve pensare in grande e Draghi e Meloni, in continuità, sembrano averlo compreso. Draghi ha avviato, e gli va riconosciuto il merito, una strategia di diversificazione a tutto campo. Ha fino all’ultimo giorno del suo mandato dato la caccia fino all’ultimo metro cubo di gas tra Algeria, Azerbaijan, Congo e altri Paesi. Ha spinto sul price cap al gas russo prima che il boom di agosto rendesse inattuabile la sua proposta di 80 euro al MWh, oggi riposizionata a 180 euro.
Ha costruito un asse con la Norvegia che oggi fornisce mediamente un quarto del gas naturale che arriva all’Italia, divenendo suo primo fornitore. In sinergia con Claudio Descalzi, Ceo dell’Eni e ministro degli Esteri-ombra del suo governo, Draghi ha costruito un sistema vincente di relazioni energetiche che Meloni ha approfondito. Mirando a rompere la maggiore diffidenza possibile che si poteva incontrare sul percorso: il timore dei Paesi “sostituti” della Russia che la corsa alle forniture avrebbe avuto carattere provvisorio.
Sfide di sistema
Il governo Meloni sta in quest’ottica accelerando su un grande progetto di sistema che proprio dall’energia prende il là: quello dell’alleanza dei gasdotti nel Mediterraneo. Capace di dare struttura al “piano Mattei”, di vivificarlo, di renderlo competitivo. In primo luogo il governo Meloni punta fortemente EastMed, gasdotto che può unire tra di loro Grecia, Cipro, Egitto; in secondo luogo sta costruendo un asse sistemico con Israele per promuovere la triangolazione tra l’apertura di Tel Aviv a East Med e lo smussamento delle pressioni turche sul progetto. Infine, dopo la distruzione di Nord Stream nel controverso incidente vuole riprendere in mano l’idea di fare dell’Italia l’hub del gas nel Mediterraneo con vista Europa.
Il grande progetto, in quest’ottica, è fondato sulla sinergia tra tre assi. In primo luogo, la garanzia delle forniture algerine e libiche. In cui Roma deve essere garante e protagonista, tenendo conto che il gas di Algeri contribuisce a finanziare indirettamente la Russia tramite armi e accordi e che la Libia va tutelata securitariamente. In secondo luogo, il grande gioco dei gasdotti nei Balcani per la distribuzione dell’oro blu, che vede protagoniste aziende quali Eni e Snam. In terzo luogo, l’apertura a una strategia pragmatica in Europa sulla gestione dei mercati energetici.
In quest’ottica il passaggio è, per citare le riflessioni di Stefano Zamagni, da un’etica dell’utilità a una delle virtù. Nell’utilitarismo energetico a fare la differenza è stato unicamente il fattore-prezzo. E questo ha alimentato il crescente legame con la Russia e la conseguente dipendenza. Nell’epoca del “virtuosismo” energetico a farla da padrone sono la geopolitica e l’interesse nazionale. L’Italia si è trovata a cambiare domanda prospettica nella sua politica energetica. Da “dove trovare gas a buon mercato?” si è passati a riflette sul tema di “dove trovare approvvigionamenti sicuri da partner affidabili?”. Un friendshoring energetico guidato direttamente da Palazzo Chigi oltre le competenze di ogni ministero, data la dipendenza sistemica della sicurezza economica nazionale da questa partita.
Rischi e opportunità
Tale approccio impone ovviamente rischi e opportunità. L’Italia spinge per il decoupling energetico dalla Russia e un domani potrà far pesare nei suoi confronti una maggiore resilienza, ma nel breve periodo questa strategia impone dei costi. L’esempio dello sviluppo dei terminal di gas naturale liquefatto da parte di Snam lo testimonia: serviranno centinaia di milioni di euro di spesa per aumentare la capacità di rigassificazione.
La seconda problematica è quella del fatto che l’Italia mira a essere un hub del gas in una fase in cui la domanda di oro blu dell’Europa è data in declino del 25-30% in un decennio. Ma lo sviluppo infrastrutturale consente di pensare alla sinergia tra opportunità di rafforzamento del Paese sul gas e infrastrutture dual use con ricadute sulla transizione energetica: si pensi al caso dell’idrogeno.
Infine, la diversificazione delle forniture impone di diversificare a sua volta l’attenzione nei confronti dei Paesi di riferimento per la crescita delle forniture di oro blu. Casi come le tensioni tra Algeria e Marocco o Azerbaijan e Armenia riguarderanno da vicino anche il sistema-Paese. Ma uno Stato maturo deve tenere in conto anche la prospettiva di sfide mulltidimensionali.
Infine, l’Italia delega una fetta importante della sua sicurezza energetica alle sue partecipate pubbliche come Eni e Snam. La sicurezza diventa funzione della corretta governance di queste aziende e ciò pone un problema di corretta gestione dei processi di rinnovo dei Cda, che per il Cane a sei zampe si avvieranno a breve.. Ma si pone anche un’attenzione sull’italianità assoluta del processo di diversificazione. Pensato a Palazzo Chigi, non imposto da terzi e attuato dalle energie dell’impresa e del mercato. Per permettere all’Italia di navigare nell’attuale caos energetico. ANDREA MURATORE
Con l’Ucraina ma divisa sugli armamenti a Kiev: il paradosso della sinistra in Italia. Marco Leardi su Inside Over il 26 Febbraio 2023
Quando si parla di armamenti, il fronte progressista è tutt’altro che compatto. A sinistra, infatti, sull’argomento persiste una storica idiosincrasia in grado di creare cortocircuiti ideologici non indifferenti. I motivi di tale fenomeno sono molteplici, spesso riconducibili a un anti-militarismo di fondo che da sempre pervade alcuni settori della gauche italica. Con lo scoppio della guerra in Ucraina, di cui è ricorso il primo triste anniversario, anche i progressisti di casa nostra hanno però dovuto fare i conti con la realtà. Ovvero, con la pragmatica decisione di scegliere da che parte stare. All’indomani dell’attacco russo, Pd e Cinque Stelle avevano quindi indossato l’elmetto e di getto avevano assecondato l’unica scelta di buon senso: quella di difendere il Paese aggredito. Ma è col passare dei mesi che il vecchio istinto al pacifismo tout court è tornato a fare capolino, spaccando la linea progressista sull’argomento.
In particolare, i dem hanno dovuto fare i conti con i malumori di alcuni loro esponenti rispetto alla decisione del loro partito di rinnovare il sostegno militare all’Ucraina almeno fino al 31 dicembre prossimo. Lo scorso 11 gennaio, a palazzo Madama, due senatori Pd avevano votato contro la proroga agli armamenti e altri due si erano astenuti. Tra questi ultimi anche l’ex sindacalista Susanna Camusso. E alla Camera, pochi giorni dopo, il deputato Paolo Ciani aveva analogamente espresso parere negativo.
Stranamente a quelle voci dissenzienti non era stato dato risalto, peraltro proprio mentre i vertici dem si stracciavano le vesti che per chiunque – fuori dal Pd – sollevasse anche solo qualche dubbio sul tema. Allo stesso modo, un silenzio imbarazzato aveva accolto le fragorose affermazioni di Vincenzo De Luca contro il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg. “Ha detto che dobbiamo produrre più munizioni, più armi e più cannoni. Queste sue dichiarazioni mi confermano l’urgenza di affidarlo ai servizi sociali”, aveva picconato il governatore della Campania. Ma tra i piddini nessuno aveva battuto ciglio. Sul tema degli armamenti va poi registrata la schizofrenia politica di chi, come Elly Schlein, appoggia il sostegno a Kiev ma con ampie riserve. “Credo che sia stato giusto sostenere la resistenza ucraina, ma penso che la guerra non si risolve con le armi”, aveva detto in tempi non sospetti la deputata.
Chi invece si è spostato sull’irremovibile contrarietà alle forniture militari all’Ucraina sono stati i Cinque Stelle, con il loro leader in testa. I grillini in realtà sono abituati a sostenere tutto e il contrario di tutto, dunque il loro mutato orientamento non ha stupito i più. Il punto è che, a oggi, i pentastellati non hanno offerto soluzioni alternative all’invio di armi, se non quelle generiche dei negoziati che al momento non hanno prodotto gli esiti sperati. Peraltro anche tra i 5s non sono mancate le contraddizioni sull’argomento. Non più tardi di un mese fa, Giuseppe Conte aveva incontrato i Verdi europei in vista di un possibile ingresso del Movimento nel gruppo. Piccolo dettaglio: i Verdi, soprattutto in Germania, sono in prima linea nel sostegno militare all’Ucraina. Non accade così in Italia, dove invece l’alleanza Verdi-Sinistra Italiana aveva sin da subito osteggiato qualsiasi soluzione armata.
Nel nostro Paese, più che altrove, la sinistra sembra costretta un equilibrio precario dovuto alle varie anime che la popolano. Dai filo-atlantisti agli irriducibili “No war”, passando per gli indecisi sul da farsi, i progressisti di casa nostra si dividono pure sulla guerra. Ma così non fanno pace nemmeno con se stessi. MARCO LEARDI
Tutte le innovazioni belliche in un anno di guerra in Ucraina. Joost Oliemans , Stijn Mitzer su Inside Over il 24 Febbraio 2023
Questo articolo è la traduzione italiana di un articolo apparso sul ventesimo numero del magazine inglese di Inside Over, “The Perfect Storm”, dedicato alle conseguenze di un anno di guerra in Ucraina. Il magazine intero è leggibile a questo link, l’articolo in inglese è invece disponibile qui.
Giunto il primo anniversario della guerra in Ucraina e con pochi segni di cedimento, gli analisti militari stanno facendo il punto su come un anno di conflitto convenzionale su larga scala in Europa abbia avuto impatto sul nostro modo di pensare alla guerra moderna, sperando di trarre delle lezioni dal più grande scontro via terra in Europa dai tempi della Seconda Guerra Mondiale. Sebbene i report sulla morte del carro armato siano stati parecchio esagerati, questa guerra ha evidenziato la vulnerabilità di più di un sistema di armi, e nel frattempo una moltitudine di nuove tecnologie ed armamenti hanno fatto il proprio debutto sul campo di battaglia.
La guerra in Ucraina ha visto varie fasi chiave: dalle prime avanzate russe ad inizio 2022, alle controffensive ucraine per riprendersi i territori perduti nell’estate 2022, ed infine al duello di artiglieria diffuso lungo un fronte perlopiù statico dal tardo 2022. Nel corso di ciascuna di queste fasi, l’abilità di individuare la concentrazione delle truppe avversarie, i loro depositi di munizioni ed altri bersagli di alto valore ben aldilà delle linee nemiche è diventata di cruciale importanza per prendere il sopravvento in battaglia.
Sin dallo scoppio della Guerra del Donbass nel 2014, artiglieria e lanciarazzi multipli hanno giocato un ruolo di spicco in Ucraina, con quest’ultimi che si sono rivelati in grado di distruggere le fortificazioni avversarie e rompere le avanzate utilizzando soltanto qualche raffica di razzi. Eppure è proprio questa capacità che palesemente manca, o quantomeno scarseggia, negli inventori della maggior parte degli Stati membri della NATO, e forse in maniera prevedibile, nell’ultimo anno molti Paesi europei hanno cercato di (re)introdurre questo tipo di sistema di armi nei propri inventori militari.
La Russia era entrata in guerra con un significativo vantaggio in termini di artiglieria e potenza di fuoco. Inizialmente meno armati e messi alle strette lungo la maggior parte del fronte, per gli ucraini la situazione iniziò a cambiare con la consegna di circa 300 obici a rimorchio e semoventi d’artiglieria occidentali e circa 40 lanciarazzi HIMARS e MLRS, che hanno gradualmente permesso all’Ucraina di prendere il sopravvento in maniera significativa, fino al punto da sostenere che le forze russe non siano state in grado di colmare il divario da allora. Tale disparità non è stata raggiunta semplicemente tramite la consegna delle sole armi da fuoco, ma quest’ultime sono arrivate insieme ad un arsenale di munizioni a mira assistita, mine terrestri FASCAM e radar per la localizzazione di armi. Benché le prime siano generalmente considerate troppo costose per un impiego diffuso, hanno permesso all’Ucraina di affrontare bersagli di alto valore, presumibilmente giustificandone gli elevati costi di produzione. Lo schieramento di mine da artiglieria ha visto le offensive russe venire fermate lungo il proprio percorso, con nuove mine appena deposte che formano ostacoli impenetrabili in campi liberati soltanto un giorno fa. I radar per la localizzazione di armi, dal canto loro, hanno permesso alle forze ucraine di rispondere al fuoco in maniera sempre più efficace, grazie al rilevamento dei proiettili di artiglieria in arrivo e all’immediato calcolo del loro punto di origine; una volta nel mirino, le armi da fuoco che hanno sparato tali proiettili possono essere distrutte prima ancora che siano in grado di cambiare posizione.
Inoltre, la guerra in Ucraina ha evidenziato la necessità di ben più scorte di munizioni di quante ne erano state previste per una guerra via terra di questa intensità. Occorrono anche una logistica dettagliata ed una rete di riparazioni per armamenti sofisticati ed inclini ad incepparsi frequentemente sotto lo stress di tale utilizzo intensivo.
Come in ogni conflitto, è solo questione di tempo prima che l’avversario cominci ad adottare soluzioni per fare fronte a determinate minacce. L’utilizzo su larga scala di munizioni circuitanti, che sono sostanzialmente droni kamikaze senza equipaggio ma carichi di testate esplosive che volano da soli su un bersaglio nemico, era stato considerato con largo anticipo. Tuttavia lo schieramento di Switchblade statunitensi sul lato ucraino hanno lasciato molto a desiderare, ed è stata infine la Russia che per prima è riuscita ad introdurre sul campo con successo questa nuova modalità di attacco bellico. I video che hanno ripreso le operazioni finora confermano come la Russia abbia utilizzato munizioni circuitanti Lancet per colpire circa cento bersagli ucraini, tra cui dozzine di sistemi di artiglieria occidentali. L’Ucraina ha tentato di mitigare la loro minaccia installando reti metalliche sopra le postazioni degli obici, i quali sono particolarmente vulnerabili ai droni nemici per la propria incapacità di riposizionarsi in fretta dopo aver sparato. Il ciclo apparentemente senza fine di innovazione letale, evidentemente, sta continuando in tempo reale nell’est di un’Ucraina sfregiata dalle bombe.
Ad attrarre più attenzione delle munizioni circuitanti è stata la flotta ucraina (e anche quella russa, seppure in maniera minore) di piccoli droni usati per l’acquisizione di bersagli e, sempre più, per il bombardamento di carri armati ed avamposti nemici. Piccole, agili ed estremamente difficili da individuare, queste apparecchiature hanno superato le prestazioni che ci si aspettava da droni più grandi, anche se operando ad una distanza ben più ravvicinata. Specialmente in questa fase segnata da fronti perlopiù stazionari, il tormento continuo da parte di questi piccoli sistemi può rendere la vita di trincea in prima linea un vero e proprio inferno. Al momento sta venendo schierata una miriade di tipologie diverse con armamenti integrati, da ottocotteri pesanti che trasportano mortai multipli a piccoli modelli con singole armi anticarro, operate con visuale in prima persona usando degli occhiali speciali. E la loro popolarità è giustificata: il logoramento dei soldati e dei veicoli da combattimento (in particolare russi) provocato da questi nuovi strumenti è stato tutt’altro che insignificante.
Nonostante l’apparente situazione di stallo, il conflitto si sta in realtà evolvendo più in fretta di quanto le forze armate occidentali siano in grado di seguire ed analizzare, figurarsi di trarne delle le lezioni. Sebbene gli armamenti tradizionali possano avere ed avranno un impatto significativo sul corso del conflitto, gli strumenti veramente efficaci che riflettono tutte le necessità e particolarità di questa guerra emergeranno soltanto man mano. In altre parole, come aveva osservato il leggendario Will Rogers nel 1929:
“Non si può dire che la civiltà non progredisca, poiché in ogni guerra uccide in una nuova maniera”. JOOST OLIEMANS
Il fronte spaziale della guerra in Ucraina: il ruolo dei satelliti. Robert Cardillo su Inside Over il 23 Febbraio 2023
Questo articolo è la traduzione italiana di un articolo apparso sul ventesimo numero del magazine inglese di Inside Over, “The Perfect Storm”, dedicato alle conseguenze di un anno di guerra in Ucraina. Il magazine intero è leggibile a questo link, l’articolo in inglese è invece disponibile qui.
Mentre la Russia si preparava per un’invasione non provocata dell’Ucraina all’inizio del 2022, i satelliti di imaging commerciale hanno fatto luce sul dispiegamento delle forze armate di Mosca individuando le loro loro truppe e armi in avanzata verso il loro confine. Questa trasparenza spaziale, guidata dagli attori attivi per i servizi al commercio, ha fornito chiarezza e ha contribuito a combattere la disinformazione prima dell’invasione.
Prendiamo questo esempio specifico: quando il presidente Putin ha dichiarato che le unità russe stavano tornando alla base il 17 febbraio 2022, i satelliti commerciali hanno fotografato un ponte di barche di nuova costruzione che è apparso durante la notte attraverso il fiume Pripyat, un fiume chiave in Bielorussia a meno di quattro miglia dal confine ucraino. Questa costruzione del ponte contraddiceva le affermazioni di Putin e, come riportato dai media, è stata vista dall’intelligence occidentale e dai funzionari militari come parte di una serie di infrastrutture di supporto costruite prima di un’invasione.
All’inizio dell’invasione, l’Ucraina non aveva alcuna capacità spaziale nazionale. Ma la disponibilità di servizi satellitari commerciali esistenti e crescenti e di tecnologie avanzate ha drasticamente alterato l’accesso di tutte le nazioni allo spazio e quindi alla guerra moderna. I funzionari ucraini e i civili sono in grado di comunicare aggiornamenti sul campo di battaglia con i colleghi di tutto il mondo, prevenendo la diffusione di false informazioni e aumentando la probabilità di sostegno alleato a favore degli ucraini. Secondo CNBC, “pochi giorni dopo l’invasione della Russia del 24 febbraio – e a seguito di una richiesta di supporto internet satellitare via Twitter da parte del ministro digitale ucraino Mykhailo Federov – SpaceX ha iniziato a inviare kit terminali Starlink in Ucraina e da allora ne ha inviati migliaia”. Starlink ha fornito un’ancora di salvezza e garantito la sicurezza delle comunicazioni critiche alle forze ucraine nonostante i ripetuti tentativi russi di oscurare il paese sia con attacchi cinetici che con attacchi informatici. I satelliti Starlink che volano fino a 130 miglia sopra lo spazio di battaglia trasmettono l’accesso a Internet ad alta velocità, consentendo alle truppe ucraine in prima linea nell’est fortemente conteso di comunicare con una catena di comando che si estende per centinaia di miglia, fino alla capitale Kiev.
Federov ha anche invitato le società satellitari commerciali a condividere immagini e dati direttamente con l’Ucraina. Il governo degli Stati Uniti ha contribuito attraverso la condivisione delle informazioni. Quando sono iniziati i preparativi per l’invasione, la National Geospatial-Intelligence Agency (NGA) “ha aumentato e accelerato diversi sforzi che erano in corso commercialmente”, secondo David Gauthier, direttore delle operazioni commerciali e commerciali pressola NGA. Ora c’è una nuova relazione ibrida tra le capacità spaziali governative e commerciali. Una relazione che è reciprocamente vantaggiosa ed è rafforzata dalla sua interdipendenza.
Ora, a un anno dall’inizio della guerra, la mancata fine dell’invasione non provocata dell’Ucraina da parte della Russia getta nuova luce sullo stato di guerra in evoluzione. La prima osservazione piuttosto ovvia è che lo spazio è fondamentale per la condotta della guerra moderna, sia in termini di puntamento di precisione con armi a guida GPS, comunicazioni commerciali o sorveglianza satellitare. Inoltre, la grande quantità di immagini commerciali raccolte ha creato uno spazio di battaglia in Ucraina che è uno dei più trasparenti della storia. Inoltre, ora sembra che la capacità di guerra elettronica della Russia non sia buona come pensavamo. Le forze russe hanno una reputazione temibile quando si tratta di guerra elettronica e fanno di tutto per rafforzare questa narrativa. A un certo punto, l’agenzia di stampa statale Sputnik ha proclamato che le capacità di guerra elettronica russe “rendono inutili le portaerei”. Quel vanto sembra essere molto più un tributo allo spettacolo che qualcosa di reale sostanza. Anche la manciata di tentativi di interrompere la rete StarLink non hanno prodotto risultati. Tuttavia, non dovremmo presumere che la Russia abbia usato tutto il suo arsenale di opzioni di guerra elettronica.
Più minacciosamente, la Russia continua la sua tendenza a fare dichiarazioni provocatorie sull’ordine internazionale nello spazio. Mentre gli Stati Uniti e l’Occidente continuano a sfruttare i satelliti commerciali per il lavoro di intelligence e comunicazione, la Russia ha emesso un avvertimento che questi potrebbero diventare un “obiettivo legittimo” per le operazioni in tempo di guerra.
La guerra in Ucraina ci ha insegnato che una nazione non ha bisogno di possedere satelliti o avere un forte programma spaziale per partecipare e prosperare nelle guerre moderne. La “nebbia di guerra” esisterà sempre per i combattenti sul terreno, ma nuove fonti di dati fattuali raccolti dallo spazio possono aiutare a illuminare, chiarire e livellare il campo di gioco delle informazioni e avvantaggiare cittadini, imprese, attori umanitari o funzionari militari e di intelligence che cercano una maggiore chiarezza nelle attività che si svolgono in tutto il mondo. I governi non sono più l’unico arbitro di ciò che i cittadini sanno. Questa luce può esporre la disinformazione e i misfatti di attori nefasti, creando risposte più informate e partecipative da parte dei media, delle organizzazioni umanitarie e dei cittadini globali.
Come dice un vecchio proverbio americano, la luce solare è il miglior disinfettante per le democrazie. Il mondo libero ha un netto vantaggio date le capacità avanzate dell’ecosistema delle immagini commerciali di fornire quella luce solare e guidare in una nuova era di consapevolezza condivisa. Dobbiamo sfruttare questo vantaggio per illuminare e denunciare azioni e attori nefasti. Questa prospettiva può portare a una maggiore consapevolezza sulla strada della verità condivisa, rafforzando il rispetto della libertà individuale e della sicurezza collettiva. ROBERT CARDILLO
Armi e tecnologia: cosa sta insegnando la guerra ucraina. Sergio Barlocchetti su Panorama il 28 Febbraio 2023
Terra, cielo, acqua e spazio (anche cibernetico), il conflitto in terra si sta rivelando un momento di riscrittura della dottrina militare
Oltre la tragedia, la guerra russo-ucraina si sta rivelando non soltanto una vetrina per l’industria degli armamenti ma sta anche riscrivendo parte della dottrina militare. Contrariamente a quando accadeva nelle recenti campagne in Iraq e Afghanistan, Il fatto che i territori contesi siano in Europa e che il tipo di scontri sia definibile “ad alta intensità intermittente” , la situazione sta offrendo ai militari uno scenario prezioso per analizzare e aggiornare gli studi militari. Del resto, guardare due forze armate relativamente avanzate confrontarsi direttamente per dodici mesi ha fornito una nuova visuale sulla guerra, e l’anno di combattimenti prevalentemente terrestri ha fornito agli studiosi di strategia e tattica l'opportunità di esaminarne meglio, per esempio, complessità e necessità di rifornimenti continui.
Christine Wormuth, segretario dell’esercito Usa, ha recentemente dichiarato alla stampa del settore difesa: “Stiamo osservando ogni singolo giorno, praticamente in diretta, ciò che sta accadendo in Ucraina: l'esercito russo sta cercando di raccogliere quante più lezioni possibile, per evitare errori in futuro”. Un esempio sono state le immagini riprese nei primi giorni del conflitto che mostravano i carri armati russi intrappolati nel fango sollevando una domanda chiave: che ruolo hanno sul campo di battaglia di oggi? La risposta è che senza i mezzi pesanti sia ancora impossibile far avanzare le truppe e dunque in un territorio pianeggiante come quello ucraino si è arrivati alla richiesta urgente di carri da parte di Zelensky. Ma da soli i carri armati possono fare poco, servono anche la fanteria, l’aviazione per l’attacco al suolo ma anche quella per la superiorità aerea che li protegge. E da qui la richiesta di caccia F16, aerei utilizzabili per entrambi gli scopi. Ma per proteggere le basi servono poi missili a media e lunga gittata e sempre una intelligence dotata di dispositivi tecnologici. Insomma, contrariamente all’Afghanistan, dove la supremazia aerea alleata era dominante, in questa guerra si torna a dover impiegare ogni tipo di forza. Sempre riguardo i carri armati, questi raramente affrontano direttamente quelli nemici; il più delle volte si tratta di utilizzarli per penetrare territori e quindi occorre proteggerli da attacchi aerei fatti con droni e aerei, ma anche dalle armi portatili. La conseguenza è che gli Usa, ma anche altre nazioni, stanno guardando a come modificare i mezzi di nuova costruzione per poter diventare meno vulnerabili in un simile contesto. Se un carro armato Abrams M1 per essere efficace in Medioriente doveva essere modificato per sopportare clima e la sabbia delle zone desertiche, in Ucraina è più importante la manovrabilità e la velocità di avanzamento su terreni fangosi. Un’altra sfida tecnologica e organizzativa che questa guerra sta imponendo è quella degli approvvigionamenti continui, non tanto per le consegne su un fronte lungo quasi mille chilometri, quanto sul piano della capacità produttiva di armamenti, che dopo tre decenni di riduzioni è tornata a essere una priorità, ma in un contesto globale nel quale non si trova più “tutto quasi ovunque”. Altro argomento di studio l’uso armato di droni civili commerciali. Già Iraq e Afghanistan avevano mostrato i pericoli derivanti dai piccoli UAS modificati con cariche esplosive, ma l’Ucraina rivela che questi possono dare un contributo inimmaginabile fino a qualche mese fa, costituendo un grande pericolo per i soldati sul campo. I piccoli droni vengono individuati con fatica e una volta a portata dell’obiettivo non c’è tempo per ripararsi. E i sistemi anti-drone sono ancora poco diffusi e non possono intercettare ogni tipologia esistente. Spazio, mare e qualità dell’addestramento Se riguardo l’aviazione lo scenario ucraino è stato chiaro in poche settimane, con la superiorità aerea russa inizialmente vittoriosa sui pochi caccia di Kiev, ma poi vulnerabile alla progressiva saturazione di difese antiaeree che le hanno causato gravi perdite, l’osservazione interessante riguarda lo spazio. Il capo delle forze spaziali Usa, generale Chance Salzman, il 13 gennaio scorso aveva affermato che la guerra in Ucraina stava evidenziando la centralità delle risorse spaziali per vincere la guerra. Se il nemico, in questo caso la Russia, può annientare un singolo satellite, neutralizzare intere costellazioni di piccoli congegni orbitanti è impossibile, come dimostra l’efficacia del sistema Starlink di SpaceX per mantenere i collegamenti internet.
Gli attacchi informatici hanno bloccato rapidamente la rete Viasat ucraina, ma poco hanno sortito finora contro i satelliti di Elon Musk. Diversamente, i russi sono riusciti molte volte a disturbare il sistema Gps, che sta mostrando i limiti di una tecnologia che, seppure aggiornata, a livello progettuale risale agli anni Settanta e, operativamente, alla fine degli anni Ottanta. Il generale Saltzman ha anche sottolineato l’importanza dei satelliti commerciali sia per le comunicazioni sia per il telerilevamento per l'intelligence, la sorveglianza e la ricognizione. Tra questi le costellazioni Maxar, Planet e BlackSky, hanno contribuito a riprendere e diffondere nel mondo le immagini della devastazione causata dalle forze d'invasione russe giocando un ruolo importante nel sostegno pubblico alla causa dell'Ucraina, oltre a fornire informazioni all'intelligence di Kiev quando i satelliti spia statunitensi non potevano essere usati a causa dei vincoli di segretezza. Non meno importante è la guerra delle informazioni e quella che si combatte nell’etere per le comunicazioni. Una delle differenze con le altre guerre moderne è l’ampio e continuo utilizzo dei social media, che riportano situazioni anche veritiere ma non contestualizzate alla situazione globale. Ma lo fanno con immediatezza e in modo globale. Le operazioni sullo spettro elettromagnetico, dalle comunicazioni radio dei carristi russi captate in chiaro fino all’uso di vecchi radar a onde corte, ha evidenziato la necessità di maggiori investimenti e collaborazione tra i servizi militari di diverse nazioni occidentali. Infine, la guerra sul mare: la Marina russa ha mostrato grande vulnerabilità e le sue infrastrutture sono state colpite sia da missili, sia da barche senza pilota armate di esplosivo. In altre parole, la guerra ha mostrato che avere tante navi, come la Marina militare russa, non compete con una flotta composta da unità meno numerose ma dalle capacità moderne e dotate di sistemi d’arma dell’ultima generazione. E in ogni dominio, comunque, la differenza la sta facendo la qualità dell’addestramento dei combattenti.
Tutti i problemi della leva obbligatoria in Ucraina. Andrea Muratore l’1 Marzo 2023 su Inside Over.
La chiamata alle armi della popolazione in Ucraina si sta razionalizzando ma continua a essere un processo complicato. Tra una definizione complessa del perimetro della coscrizione, abusi e rischi di incertezze nel processo le regole della chiamata alle armi faticano a tenere il passo delle esigenze della guerra contro l’invasore russo.
In un primo momento, nel marzo scorso, l’Ucraina aveva impedito l’uscita dal Paese di tutti i cittadini tra i 18 e i 60 anni, potenzialmente arruolabili. A ottobre la Verchovna Rada ha approvato la Legge 8109 sulle specifiche della coscrizione per il servizio militare e il funzionamento delle commissioni di coscrizione, che dovranno programmare esami medici a ogni cittadino oltre i 27 anni per capire la sua eleggibilità o meno ai requisiti della leva e scegliere eventualmente quali potenziali militari inserire nelle liste privilegiate per forze speciali e intelligence.
Le esenzioni e le retate
Una circolare ufficiale firmata da Volodymyr Zelensky del 27 gennaio 2023 non ha però ampliato le maglie della leva di massa indicando sulla carta un tentativo di razionalizzazione per la chiamata alle armi di lavoratori appartenenti a settori strategici come la produzione e distribuzione di energia e la fabbricazione e il trasporto di armi, anche alla luce dei rischi legati ai recenti scandali di corruzione che richiedono la presenza di personale rodato e esperto. Anche le agenzie statali, gli enti di governo locale e il sistema sanitario hanno la facoltà di esentare loro lavoratori dal servizio. Al tempo stesso tutti i tecnici qualificati indispensabili lontani dal fronte non saranno chiamati a presentarsi alle obbligatorie visite di leva.
Così sulla carta. Nei fatti la realtà è complessa. E l’Economist ha parlato di potenziali abusi legati al caos dei primi mesi del nuovo sistema e all’emergenza. Tra questi, da un lato, ciechi o persone senza uno o più arti a cui veniva recapitata la cartolina precetto perchè il loro posto era stato preso da altri autocertificati falsi invalidi. O dall’altro “retate” di militari e poliziotti per colmare i vuoti: “Ci sono state segnalazioni di avvisi di leva emessi (e talvolta applicati con la violenza) ai funerali militari a Lviv, posti di blocco a Kharkiv, centri commerciali a Kiev e agli angoli delle strade a Odessa. Le famose località sciistiche giacciono deserte nonostante le prime nevicate dell’inverno: le riprese di funzionari militari che curiosavano sulle piste sono bastate a tenere lontana la folla”, ha scritto la prestigiosa testata britannica
Non c’è ancora una valutazione piena della capacità di arruolamento dell’Ucraina o della quantità e della qualità del materiale umano mandato in campo nell’anno di guerra. Si sa solo la soglia massima che il Paese può gestire: fino al 3-4% della popolazione abile, oltre un milione di uomini. Npr stima che solo il 10% dei coscritti sia arrivato al fronte prima che fosse passato un mese dall’arruolamento, ma ad oggi si possono decisamente derubricare a esagerazioni e casi singolari i video circolanti sui social e sfruttati dalla propaganda russa sull’arruolamento a forza avvenuto in diversi casi. Di cui, peraltro, non è dato sapere se l’esito finale sia stata la coscrizione o invece l’effettuazione della citata visita di leva, che non è viatico immediato per il fronte.
L’addestramento e i renitenti alla leva
Il vero problema per Zelensky e i suoi sarà, nei prossimi mesi, capire come rafforzare la capacità di addestramento delle truppe per le armi sofisticate in arrivo o già arrivate, dai Leopard ai sistemi Samp-T. E al tempo stesso decidere in che misura muoversi sul fronte della gestione della leva senza mantenere nell’incertezza i cittadini non ancora chiamati alle armi, creare strozzature nel processo di addestramento, vedere problemi logistici nella gestione del reclutamento.
Altra questione la punizione dei renitenti alla leva. “Migliaia di persone sono state accusate di aver tentato di eludere la coscrizione, e mentre molte delle accuse sono state respinte, centinaia di casi si stanno ora facendo strada attraverso il sistema legale notoriamente losco dell’Ucraina”, nota Almayadeen. Capire quanti processi faranno riferimento a casi reali e quanti invece a coloro che sono stati sostituiti nelle liste dagli imboscati di tutta Ucraina sarà una sfida ardua. E sul fronte della leva, si notano anche problemi nella tutela dei diritti umani come diversi casi d’arresto di persone che già prima dell’invasione si erano dichiarate obiettrici di coscienza. Vitaly Alekseenko, 46enne di Ivano-Frankivsk, è stato arrestato a febbraio dopo aver chiesto invano di sostituire la leva col servizio civile e il suo caso ha fatto scalpore a livello nazionale.
Qual è il confine tra sicurezza nazionale e prerogative individuali? Contando che l’Ucraina combatte, tra le altre cose, per entrare anche nell’affluente e democratico Occidente la risposta a questa domanda non è questione di lana caprina. E invita a riflettere sulla reale efficacia di questi processi in era di guerra iper-tecnologica e, tendenzialmente, senza limiti. ANDREA MURATORE
Dai gruppi tattici di battaglione alle unità d’assalto: com’è cambiato l’esercito russo. Paolo Mauri il 2 Marzo 2023 su Inside Over.
Col ritorno della rasputitsa sul campo di battaglia, il fango causato dal disgelo determinato da un inverno relativamente mite e una primavera alle porte, l’esercito russo sta cercando di spingere la sua lenta avanzata ostacolata dalla resistenza ucraina.
L’offensiva invernale russa, come già analizzato, si è sviluppata in una miriade di attacchi lungo tutta la linea del fronte invece di palesarsi in un’operazione in grande stile, e lo Stato maggiore russo vuole capitalizzare la ripresa dell’iniziativa tattica sfruttando questo particolare momento in cui l’esercito ucraino appare a corto di munizioni e mezzi pesanti come i fondamentali Mbt (Main Battle Tank).
Le unità d’assalto
Qualcosa, tra le fila russe, è cambiato anche a livello organizzativo: il Corriere della Sera riferisce che l’esercito di Mosca si è riorganizzato con la creazione di distaccamenti o unità d’assalto, che sembra stiano sostituendo i Gruppi Tattici di Battaglioni (o Btg nel loro acronimo anglosassone), l’unità base dell’esercito russo formata da circa 700 uomini (per i reparti meccanizzati) e impiegati dall’inizio del conflitto con non poche difficoltà.
Queste unità d’assalto risulta siano formazioni più piccole e quindi agili, composte da tre carri armati, sei pezzi d’artiglieria, sei mezzi blindati, e relativa fanteria di supporto armata di mitragliatrici pesanti, sistemi anticarro e lanciagranate. I dettagli sono descritti in un manuale che sarebbe stato trovato al fronte e che descriverebbe anche la dottrina di impiego di questi reparti: apparentemente i soldati devono attaccare non oltre un minuto dalla fine del fuoco di copertura, e sarebbe vietato occupare le trincee nemiche in quanto possono nascondere trappole esplosive. I feriti devono essere evacuati da team di soccorso ma non dai militari impegnati nella missione. Ci sarebbero anche regole ben precise per l’utilizzo dei piccoli droni (alcuni dei quali armati artigianalmente come visto dal lato ucraino) in quanto vanno usati con parsimonia, idem per il fuoco di supporto.
Questi ultimi due passaggi, in particolare, farebbero pensare che i russi si trovano costretti a fare economia di mezzi e munizioni e affidandosi alle nuove unità – dell’ordine compagnia e plotone — ritengono di poter continuare a mantenere l’iniziativa tattica nel conflitto.
Un Btg, sulla carta, è composto da una compagnia di carri, due di veicoli corazzati (Apc e Aifv), una di artiglieria semovente, una di veicoli da difesa aerea oltre a tutti i veicoli per il sistema logistico necessario atto a muoversi in autonomia per un totale di, in media, 700/900 uomini e sono presenti anche assetti unmanned (UAV) e da guerra elettronica (Ew – Electronic Warfare).
Da quanto sappiamo i Btg russi non erano al completo nemmeno all’inizio del conflitto – i video in cui le colonne corazzate russe procedevano senza fanteria di supporto lo dimostra – e ora, dopo un anno di guerra, si ritiene che il consumo di mezzi ma soprattutto della risorsa più preziosa, gli uomini, abbia ridimensionato tutte le unità combattenti presenti al fronte, quindi quelle che vengono indicate come “Brigate”, in realtà sono dell’ordine “Battaglione” e via discorrendo.
Del resto, sebbene la Russia abbia indetto una mobilitazione parziale, il personale va addestrato e questo richiede tempo, anche se sappiamo che a volte le reclute venivano spedite al fronte dopo sole due o tre settimane di addestramento, facendole diventare “carne da cannone”.
La nascita di nuovi “reparti d’assalto”, più snelli e agili, potrebbe quindi rispondere all’esigenza di ridefinire l’organigramma dell’esercito russo creando unità più piccole inserite nella catena di comando, e quindi, sostanzialmente, averle “in linea” al completo.
La catena di comando dell’esercito russo
Esiste però un limite che va ancora capito se sia stato superato o meno, e riguarda proprio la catena di comando dell’esercito russo.
La riforma “New Look” del 2008, voluta dall’allora ministro della Difesa Anatoly Serdyukov, è stata “abortita” allorquando gli succedette Sergej Shoigu. La riforma, che avrebbe dovuto snellire l’impianto dell’esercito russo che era ancora di stampo sovietico, ha stabilito la nascita dei Btg ma essi, per via dello stop subito, si trovano in una struttura in cui spesso manca un livello intermedio – quello Brigata – che possa fare da tramite sino ai comandi divisionali. Pertanto la catena di comando, oltre a essere rimasta sostanzialmente la stessa dei tempi dell’Urss, si trova a mancare di un organo intermedio, più “vicino al fronte” in grado di ricevere informazioni e distribuire ordini.
Proprio la distribuzione degli ordini, fortemente gerarchizzata, ha dimostrato tutti i suoi limiti: i comandanti sul campo (sia di compagnia sia di plotone) non hanno la stessa libertà di manovra dei loro omologhi occidentali dovendo attendere gli ordini dello Stato maggiore della rispettiva divisione, quindi dovendo perdere numerose e preziose ore.
Non sappiamo, come dicevamo, se queste nuove unità potranno eludere questa dinamica, e quindi se gli ufficiali comandanti avranno modo di agire liberamente per ottenere un obiettivo (esattamente come avviene negli eserciti occidentali), ma se così fosse rappresenterebbe una vera rivoluzione per l’esercito russo, ed è anche probabile che questa novità sia stata determinata dal raffronto coi reparti del gruppo Wagner, che sembra godano di una maggiore libertà rispetto ai regolari.
Di certo lo “slancio” dei reparti, di qualsiasi grandezza essi siano, è determinato dalla capacità logistica di un esercito – che nel caso russo è carente -, dall’addestramento ricevuto – generalmente scarso come visto – e dalla disponibilità di mezzi e armamenti, inoltre una nuova tattica di combattimento ha bisogno di venire assimilata dai quadri, che in Russia sono stati formati in modo diverso come da tradizione pluridecennale, quindi solo gli esisti futuri sul campo di battaglia ci permetteranno di stabilire se questa piccola riforma dei reparti sarà efficace.
PAOLO MAURI
Ucraina, un anno di guerra senza limiti. George Allison su Inside Over il 24 Febbraio 2023
Questo articolo è la traduzione italiana di un articolo apparso sul ventesimo numero del magazine inglese di Inside Over, “The Perfect Storm”, dedicato alle conseguenze di un anno di guerra in Ucraina. Il magazine intero è leggibile a questo link, l’articolo in inglese è invece disponibile qui.
Inizialmente, l’invasione su vasta scala dell’Ucraina da parte del Cremlino, lanciata il 24 febbraio dello scorso anno, avrebbe dovuto avere vita breve e si sarebbe dovuta concludere con la rapida conquista di Kiev. Tuttavia, ad un anno di distanza, quel piano è fallito: le forze ucraine hanno respinto con successo le truppe russe grazie ad una combinazione di determinazione e supporto dei Paesi occidentali.
Il conflitto ha avuto un impatto di ampia portata, rimodellando le nostre conoscenze in vari ambiti, tra cui operazioni e strategie militari, diplomazia, servizi segreti, sicurezza nazionale ed energetica, governance economica, e molti altri. In occasione del primo anniversario di questo conflitto che ancora imperversa, è fondamentale riflettere sulle sue lezioni chiavi da imparare.
Innanzitutto, del regine di Putin non ci si può fidare
Gli ultimi sei mesi della campagna militare russa contro l’Ucraina, insieme alle ripetute invasioni degli Stati confinanti e alla recente guerra ibrida contro l’Occidente, hanno dimostrato come gli accordi con il regime di Putin siano inaffidabili e possano rivelarsi anche deleteri. Nel 2014 la Russia invase l’Ucraina benché si fosse impegnata con il Memorandum di Budapest a rispettarne la sovranità nazionale e l’integrità territoriale. Più recentemente, nonostante anni di trattative nell’ambito del Formato Normandia e del Protocollo di Minsk, il Cremlino ha conquistato un quinto del territorio ucraino. Azioni che evidenziano come qualsivoglia accordo stipulato con il governo russo andrebbe approcciato con cautela.
Il governo russo ha manifestato costantemente la propria inosservanza verso il diritto internazionale, le istituzioni liberali e vari accordi a livello globale, sia nei confronti dei propri alleati che dei propri rivali. Coinvolto in crimini contro l’umanità in Ucraina, violazione del principio di libera navigazione, militarizzazione alimentare e ricatto energetico, il regime di Putin costituisce una significativa minaccia per il futuro della nazione ucraina e le regole dell’ordine mondiale.
L’approccio della pacificazione, del dialogo e del compromesso con un aggressore si è rivelato inefficace in passato. Per raggiungere la pace nella regione è necessario che l’Occidente adotti una posizione forte e dura, in quanto è l’unica lingua a cui risponde il regime di Putin.
La vittoria del conflitto dipende dalle persone, non soltanto dagli armamenti
Nel 2021 la Russia stanziò per le spese di difesa circa 65 miliardi di dollari, una cifra dieci volte più grande di quella dello stanziamento ucraino. Nonostante il significativo investimento in attrezzature, il risultato del conflitto non ha però soddisfatto le aspettative russe. Il divario nella performance militare evidenzia l’impatto della leadership e dell’addestramento sull’esito del campo di battaglia.
Con un retaggio militare condiviso risalente ai tempi della Russia imperiale, i risultati contrastanti del conflitto offrono interessanti spunti di riflessione. Dal 1933 l’Ucraina ha preso parte al National Guard’s State Partnership Program, sottoponendosi ad addestramenti sul modello statunitense: un approccio che promuove l’emancipazione di giovani ufficiali e sottufficiali con ordini tattici, chiare spiegazioni delle intenzioni del comandante, e l’abilità di prendere decisioni in tempo reale sulla base di sviluppi situazionali. Attraverso esercitazioni realistiche, l’Ucraina ha coltivato una mentalità bellica che favorisce l’iniziativa individuale ed incoraggia una rigorosa valutazione, e tali pratiche hanno contribuito al morale elevato e alle prestazioni efficaci dei suoi combattenti.
In confronto, le forze armate russe fanno in larga parte affidamento su reclute e soffrono della mancanza di plotoni di sottufficiali professionisti, il che disincentiva sia l’iniziativa che i riscontri; le decisioni rimangono estremamente centralizzate e l’autonomia è limitata ai soli superiori. L’approccio bellico adottato dalla Russia è caratterizzato dall’assenza di flessibilità e da uno scarso livello di morale davanti a condizioni sfavorevoli sul campo di battaglia.
L’Ucraina è una lezione chiave nelle insidie del pensiero lineare
Inizialmente si pensava che un attacco russo ai danni dell’Ucraina si sarebbe concluso con la vittoria di Mosca. Tuttavia, in seguito alla sconfitta russa nella battaglia di Kiev, ci è voluto del tempo affinché gli esperti riconoscessero che i fallimenti iniziali non erano soltanto temporanei e che in questa guerra la Russia stava in realtà avendo la peggio.
Secondo un’altra ricorrente previsione, il conflitto avrebbe raggiunto un punto morto, simile a quello della Prima Guerra Mondiale, con le forze ucraine e russe entrambe barricate in trincea ed incapaci di compiere significativi passi in avanti. Tale previsione è stata smentita dalle varie controffensive ucraine, ma così come non è saggio presumere che tali controffensive perdureranno in futuro, è plausibile che questa guerra possa condurre a degli sviluppi imprevisti anziché protrarre gli stessi schemi.
La guerra ha dimostrato che il cyberspazio è un settore di conflitto a tutti gli effetti
Gli ultimi avvenimenti in Ucraina, tra cui l’invasione da parte della Russia, hanno dato vita ad un nuovo ruolo per il settore privato nei conflitti cyber, in quanto le aziende stanno partecipando attivamente ad operazioni cyber dirette. Ovviamente l’Ucraina dispone di un team competente per la difesa della cybersicurezza e che ha sventato con successo diversi attacchi, ma i loro sforzi hanno potuto contare sul sostegno di aziende private che hanno collaborato con il governo ucraino per incrementare il livello di cybersecurity del Paese.
Aziende leader nel settore tech quali Microsoft e Cisco hanno pubblicato dei report sul loro impegno difensivo, e anche aziende europee di cybersicurezza quali ESET sono state coinvolte.
È fondamentale che gli Stati Uniti, la NATO e i Paesi democratici della regione Indo-Pacifica instaurino collaborazioni efficienti con membri di rilievo del settore privato per assicurare operazioni nel cyberspazio senza interruzioni nel caso di un conflitto armato. Il National Cyber Security Centre del Regno Unito e la Joint Cyber Defense statunitense sono iniziative encomiabili, ma non dispongono delle capacità per fare fronte alle sfide poste da scenari bellici su vasta scala. Un lezione importante, che ha insegnato al mondo come sia essenziale pianificare ed implementare meccanismi operativi all’altezza di tale sfida.
Imparare dalle lezioni
L’invasione ucraina ha fornito un’opportunità unica per valutare le capacità delle forze armate russe e l’impatto di varie tecnologie e strategie militari per la guerra moderna. Questo resoconto ha lo scopo di fare luce sulle lezioni chiave da trarre da questo conflitto, ma andrebbe anche tenuto a mente che, trattandosi di un conflitto in corso, impareremo altre lezioni negli anni a venire. Tra un anno esatto potremmo senza dubbio comprendere molto di più di ciò che si può imparare da questo conflitto. GEORGE ALLISON
Parla il generale Petraeus: “Putin ha reso la Nato nuovamente grande”. Andrea Muratore su Inside Over il 26 Febbraio 2023
Dopo un anno di guerra in Ucraina, la NATO è più forte e più unita. Inside Over dialoga con il generale David Petraeus sulle dinamiche plasmate dal conflitto a livello globale, sul ruolo dell’Alleanza nella competizione mondiale tra potenze e sui possibili fini della guerra. Petraeus, nato nel 1952, ha prestato servizio per 37 anni nell’esercito degli Stati Uniti e ha ricoperto molti ruoli di primo piano. Dal 2007 al 2008 è stato comandante generale della Multi-National Force – Iraq (MNF-I), dal 2008 al 2010 è stato comandante del Comando Centrale degli Stati Uniti (Centcom), tra il 2010 e il 2011 è stato comandante dell’International Security Assistance Force (ISAF) e comandante delle Forze USA – Afghanistan (USFOR-A). Dal 2011 al 2012 è stato il 4° Direttore della Central Intelligence Agency (Cia). Ora è partner di KKR e presidente del KKR Global Institute,
In che modo la guerra in Ucraina ha cambiato il contesto strategico in Europa?
“Penso che sia accurato osservare che mentre Vladimir Putin si proponeva di “rendere la Russia di nuovo grande”, ciò che ha realmente fatto è rendere di nuovo grande la NATO: spingendo due paesi storicamente neutrali (e molto capaci) a cercare l’adesione alla NATO; promuovendo un livello di unità nella NATO che non si vedeva dalla fine della guerra fredda;,con conseguente aumento dei bilanci della difesa in Europa e negli Stati Uniti, con la Germania, in particolare, ora impegnata a raggiungere l’obiettivo della NATO di spendere il 2% del PIL per la difesa, dopo non essere arrivata all’1,5% in precedenza. La guerra inoltre ha portato all’aumento delle forze negli Stati baltici e nell’Europa orientale; e, infine, ha spinto a ridurre drasticamente la capacità militare della Russia, con le forze russe che hanno subito enormi perdite e perdite sconcertanti di sistemi d’arma e veicoli, oltre a ridurre drasticamente le sue scorte di munizioni. In sintesi, la Russia è sostanzialmente uscita indebolita e la NATO sostanzialmente rafforzata”.
Possiamo affermare che l’Occidente è più unito un anno dopo l’inizio della guerra?
“Sì, assolutamente, nonostante occasionali esitazioni sulla fornitura di alcune armi all’Ucraina (come nella decisione sulla fornitura di carri armati occidentali all’Ucraina, che ora è concordata, ovviamente). Come ho notato in precedenza, la NATO e altri paesi occidentali non sono stati così uniti dalla fine della Guerra Fredda”.
Qual è stato il ruolo delle armi occidentali e del sostegno dell’intelligence nel rafforzare la resistenza ucraina?
“Assolutamente vitale. L’Ucraina ha fatto un lavoro davvero straordinario nel mobilitare l’intero paese per combattere ciò che gli ucraini vedono come la loro guerra d’indipendenza; hanno fatto molto meglio della Russia nel reclutamento, nell’addestramento, nell’equipaggiamento, nell’organizzazione e nell’impiego di forze e capacità aggiuntive. Ma ciò non sarebbe stato possibile senza la massiccia assistenza degli Stati Uniti e di altri paesi occidentali. Gli Stati Uniti da soli hanno ora fornito oltre 27 miliardi di dollari in armi, munizioni e materiale all’esercito ucraino dall’invasione dello scorso febbraio, con altri 2 miliardi di dollari che stanno per essere aggiunti. E i sistemi d’arma forniti continuano ad essere sempre più efficaci. E, secondo quanto riferito, anche la condivisione dell’intelligence è stata molto utile, anche se non voglio speculare ulteriormente su questo”.
Quali errori sono stati commessi dall’esercito russo?
Un numero impressionante di errori, – tutto, dal disegno terribilmente carente della campagna iniziale, alla sopravvalutazione delle capacità russe, alla completa sottovalutazione delle capacità (e all’incredibile determinazione) delle forze e del popolo ucraino, alla mancanza di apprezzamento del sostegno occidentale all’Ucraina, allo scarso comando e controllo e comunicazioni, al mancato raggiungimento degli effetti combinati delle armi (corazzati, fanteria, artiglieria, genieri, supporto aereo ravvicinato, difesa aerea e guerra elettronica che lavorano tutti insieme). A cui aggiungiamo una logistica del tutto inadeguata, la terribile indisciplina da parte delle forze russe, la mancanza di un corpo di sottufficiali professionisti, la carenza leadership (che è il motivo per cui più leader sono stati licenziati) e, chiaramente, un fallimento nell’approfittare di tutto il tempo che le forze russe hanno avuto in Bielorussia e Russia per addestrare e preparare effettivamente le forze per l’invasione.
La prospettiva di una vittoria dell’Ucraina è fattibile come esito finale della guerra?
Sì, anche se la risposta a questa domanda dipende ovviamente da come si definisce la “vittoria” e dipende anche da una serie di fattori, in particolare la continuità di un forte sostegno occidentale e dell’assistenza economica per l’Ucraina e l’ulteriore inasprimento delle sanzioni e dei controlli sulle esportazioni sulla Russia. In definitva, credo che la guerra finirà con una risoluzione negoziata quando la Russia si renderà conto che il conflitto è insostenibile sul campo di battaglia (dove la Russia ha già perso più di 8 volte i soldati che l’URSS ha perso in quasi 10 anni in Afghanistan) e anche sul fronte interno, date le sanzioni sempre più severe e i controlli sulle esportazioni. E dobbiamo fare tutto il possibile per affrettare quel giorno – e anche per essere pronti con un Piano Marshall per aiutare a ricostruire l’Ucraina. A cui aggiungere anche una garanzia di sicurezza ferrea per l’Ucraina, sia che si tratti dell’adesione alla NATO, che sarebbe l’ideale, o di un impegno di coalizione guidato dagli Stati Uniti, se l’adesione alla NATO non sarà realizzabile “.
Il presidente Biden ha dichiarato nel suo discorso di insediamento che l’America stava tornando come leader globale e affidabile. La guerra in Ucraina ha dimostrato che aveva ragione o la leadership americana è ancora in dubbio?
“Penso che la leadership americana della NATO e lo sforzo occidentale per sostenere l’Ucraina e imporre sanzioni e controlli sulle esportazioni alla Russia abbiano dimostrato che gli Stati Uniti sono “tornati”, per usare il termine del presidente Biden. E questo è particolarmente importante sulla scia del ritiro dall’Afghanistan nell’agosto 2021, che ha permesso ai potenziali avversari di sostenere che gli Stati Uniti erano un partner inaffidabile e una grande potenza in declino. E nell’offrire questa valutazione, ci tengo a ribadire che non sono membro di alcun partito politico negli Stati Uniti e non mi registro nemmeno per votare. Ho smesso di votare quando sono stato promosso generale a due stelle e da allora ho cercato di rimanere apolitico”.
A livello globale, gli Stati Uniti stanno affrontando l’espansionismo della Russia in Europa e le ambizioni della Cina in Estremo Oriente. Quale sarà la questione più importante per Washington nei prossimi anni?
“Penso che non ci siano dubbi sul fatto che la partita più importante al mondo sia quella tra gli Stati Uniti – insieme ai nostri alleati e partner – e la Cina. Jake Sullivan, consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Biden, ha descritto il rapporto con la Cina come una “forte concorrenza”. E tutti noi – tutte le nazioni che la pensano allo stesso modo – dobbiamo lavorare insieme per garantire che la competizione non si trasformi in conflitto. Si potrebbe sperare che un impegno paziente, pragmatico e fermo possa aiutare a ridurre il senso di competizione e aumentare le aree di cooperazione, producendo infine una relazione che sia il più reciprocamente vantaggiosa possibile. Ma dobbiamo essere chiari e freddamente realisti, anche se cerchiamo di affrontare le differenze e, ancora una volta, garantire che non sfocino in veri conflitti. E dobbiamo anche lavorare tutti insieme per garantire che gli elementi di deterrenza (capacità e volontà di impiegarli) siano solidi come una roccia”.
Questo articolo è la traduzione italiana di un articolo apparso sul ventesimo numero del magazine inglese di Inside Over, “The Perfect Storm”, dedicato alle conseguenze di un anno di guerra in Ucraina.
Un anno esatto di guerra che no, non è stata affatto un lampo. La notte del 24 febbraio 2022 e dopo tre settimane di schermaglie e false prospettive di arretramento quattro divisioni meccanizzate di Vladimir Putin e di una Russia a lui supina attraversano il confine ed entrano in Ucraina. Giampiero Casoni il 24 Febbraio 2023 su Notizie.it.
Trecentosessantacinque giorni di conflitto, un anno esatto di una guerra che no, non è stata affatto quella guerra lampo che l’invasore e molti analisti prefiguravano e che si è trascinata fino ad oggi, 24 febbraio 2023, fra orrori, contrapposizioni, assetti geopolitici mutati e tutte le sconfitte della soluzione diplomatica al primo conflitto europeo dopo la Seconda Guerra Mondiale e dopo la guerra civile nella ex Jugoslavia che ebbe vita e collocazione sua, ancorché altrettanto orribile.
La notte del 24 febbraio 2022 e dopo tre settimane di schermaglie e false prospettive di arretramento quattro divisioni meccanizzate di Vladimir Putin e di una Russia a lui supina attraversano il confine ed entrano un Ucraina, entrano con il motivo di uccidere, il movente di “denazificare” un paese che nella sua ricerca di democrazia si era affidato molto agli Usa e con lo scopo strategico di togliere a quel paese le due repubbliche indipendentiste nel Dondass, russofile, quasi tutte russofone e in conflitto fin dal 2014 con il governo di Kiev.
Non è stata affatto una guerra lampo
Governo che ha un presidente semisconosciuto, ex attore, che sale alla ribalta delle cronache mondiali: si chiama Volodymyr Zelensky ed ha l’aura del capo di stato coraggioso, indomito e resistente. Le truppe corazzate contrassegnate da una misteriosa Z bianca sembrano avanzare senza ostacoli mentre il mondo inorridisce per quello che molti, forse troppi, avevano considerato un bluff. Da Bielorussia e Crimea le divisioni di Vladimir Putin dilagano verso Kiev e fanno tappa nell’aeroporto di Hostomel dove ricevono la prima di una lunga serie di amare sorprese: la Cia era in allerta da tempo ed ha passato agli ucraini, bellicosissimi e preparati militarmente, informazioni tali da sterminare i parà spetznats che avevano il compito di raggiungere il palazzo presidenziale ed uccidere Zelensky.
Gli ucraini resistono e resistono bene e quella che sembrava dover essere una spocchiosa guerra lampo diventa fin dalla fine di marzo 2022 una tremenda guerra di contatto alternato e di avanzate tutt’altro che repentine.
Mentre entrano in gioco i terribili reggimenti ceceni del tiranno satrapo di Putin Razman Kadyrov l’Occidente reagisce e mette a punto le prime sanzioni economiche: i gerarchi di Putin e ed il miliardari del suo cerchio magico si vedranno sequestrare tutti i beni ed i mezzi che hanno fuori dal loro paese, sono tanti e il Regno Unito, prossimo a dire addio al governo di Boris Johnson per uno scandalo, ottiene risultati micidiali su questo fronte.
Un primo tentativo di colloqui di pace, praticamente il solo ufficiale di tutto il conflitto, fallisce nella Bielorussia del filoputiniano Lucashenko e il fronte vivo si sposta a sud: Maiurpol, affacciata sul Mar Nero, diventa il simbolo della resistenza ucraina e con essa il famigerato Battaglione Azov, che resisterà per mesi dell’acciaieria Azovstal: per alcuni sono patrioti meritevoli, per altri sono la prova provata che le forze armate ucraine contenevano il germe del neonazismo usato come movente da Putin per attaccare.
Mariupol e l’epopea del battaglione Azov
La Federazione di Mosca entra a Kherson e prende Zaporizhzia, la più grande centrale nucleare d’Europa, Europa che pensa a Chernobyl e inorridisce. Ma l’orrore ha anche connotazioni peggiori: ad inizio aprile emergono gli orrori di Bucha ed Irpin, con cittadini inermi giustiziati e lasciati morti in strada, esecuzioni sommarie e violenze terribili. Il mondo si indigna con le truppe buriate dei confini mongoli dell’impero di Putin e l’Occidente inasprisce le sanzioni. A quel punto la Nato diventa un ombrello e Svezia e Finlandia chiedono di entrare mentre l’Ucraina si candida ad essere membro dell’Ue.
Dagli orrori di Bucha al blitz su Odessa
L’estate 2022 si apre con il tentativo di sfondamento a Odessa e con la manovra strategica con cui la Russia vorrebbe arrivare a chiudere ogni sbocco al mare all’Ucraina, congiungendosi idealmente con la sua “dependance” della Transnistria, che sta accatta all’indifesa Moldavia e che potrebbe diventare la porta per un secondo inferno ed un attacco a Kiev da ovest. Usa, Nato ed Ue inviano dopo deliberazioni dei singoli governi non sempre omogenee le prime armi che hanno ed avranno un’influenza decisiva sul conflitto.
L’invio di armi e il gas: Nord Stream “salta”
A quel punto è già scoppiata la guerra del gas, quasi tutto russo, che arriva in Europa e i sabotaggi al Nord Stream uno e due diventano il simbolo di una crisi mondiale che è anche energetica, con le nazioni che si affannano a trovare un “sostituto” di Mosca nelle forniture, in primis l’Italia di Mario Draghi che manda il ministro degli Estero Di Maio in Algeria, Azerbaigian ed Africa centrale a cercare nuove risorse e che stringe con gli Usa di Biden un accordo per il gas liquido. L’autunno esordisce con due eventi: quello singolo dell’esplosione del ponte di Kerch verso la Crimea e quello strategico con cui l’arrivo di armi chiesee con insistenza dalle dirette quotidiane social di Volodymyr Zelensky, inizia a far sentire il suo effetto: l’Ucraina non si difende solo ma contrattacca e riconquista molti territori ad est.
Kiev contrattacca: i missili e i rerefendum-farsa
I russi cambiano strategia ed iniziano a bombardare con missili tutto ciò che nel paese aggredito può produrre energia: l’inverno rigidissimo è alle porte e lo scopo è piegare il paese dove non può dare prova di coraggio militare. A quel punto Putin capisce che deve forzare la mano non solo sui campi di battaglia ed indice dei referendum popolari con cui Donetsk, Lugansk, Kherson e Zaporizhizhia si auto annettono a Mosca. Pochi giorni dopo un missile antiaereo ucraino cade in territorio polacco e ammazza due lavoratori: quelle sono le ore in cui, dopo le reiterate minacce degli uomini di Putin di usare l’arma nucleare, si teme di più che la guerra diventi mondiale ed atomica in base all’articolo Nato di mutua assistenza. Poi di scopre che il missile non era russo e l’incidente recede.
Zelensky vola da Biden: “Dateci altre armi!”
Dicembre vede Volodymyr Zelensky in volo verso il primo partner dell’Ucraina aggredita, gli usa di Joe Biden che però ha perso le elezioni di mid term ed è molto più cauto nel promettere aiuti. In Italia intanto al governo Draghi è succeduto quello di Giorgia Meloni che conferma in tutto e per tutto l’appoggio a Kiev, fatta eccezione per una mutata opinione pubblica ed alcune “uscite” del suo alleato di governo Silvio Berlusconi.
Il 2023 e il caso dei carri “Leopard 2”
Il mese che precede il “compleanno dell’orrore” di oggi, gennaio 2023, è segnato dalla questione dell’invio dei carri Leopard e da una generale sensazione di escalation che dice due cose. La prima è che no, non è stata affatto una guerra lampo e che Putin ormai è un attaccante che gode di meno credito di quando aveva avviato l’attacco. La seconda è che quella guerra e la condotta dell’Occidente poco propenso a cercare soluzioni diplomatiche ha di fatto visto l’unità degli stati tenere, ma le convinzioni delle singole popolazioni vacillare di fronte all’opportunità di cercare la pace inviando armi. Oggi il mondo è diviso ed in pericolo più che mai, ad un anno esatto dall’inizio di quell’orrore.
La battaglia di Kiev, spiegata. Mauro Indelicato il 10 febbraio 2023 su Inside Over.
La battaglia di Kiev, nell’ambito della guerra in Ucraina del 2022, ha inizio lo stesso giorno del conflitto, ossia il 24 febbraio, e termina tra il 30 marzo e il 3 di aprile. L’assedio prende le sembianze di un vero accerchiamento, operato dalle forze russe, ai danni della capitale ucraina. Le truppe di Mosca avanzano, durante questa fase, tra le direttrici di nord ovest ed est, colpendo particolarmente le cittadine di Gostomel, Bucha, Irpin, Makariv e Brovary. L’assedio termina con l’annuncio da parte russa di un ridispiegamento di forze nel Donbass e quindi un indietreggiamento delle proprie truppe dall’area di Kiev.
Il contesto dell'assedio di Kiev
La capitale ucraina vive tumulti e tensioni tra il 2013 e il 2014, quando le proteste contro l’intenzione dell’allora presidente ucraino Yanukovich di aderire a un partenariato con la Russia degenerano in guerriglia. Kiev dal novembre 2013 fino al 22 febbraio 2014, giorno della destituzione di Yanukovich, è al centro di scontri violenti e una vera e propria guerriglia urbana. Prima della fine della presidenza Yanukovich, a scontrarsi sono soprattutto forze di Polizia contro gruppi nazionalisti di estrema destra, quali Svoboda e Pravij Sektor.
Successivamente le tensioni si spostano nelle regioni orientali dell’Ucraina. A marzo la Crimea, dopo le proteste scoppiate questa volta nei gruppi filorussi, è annessa alla Russia. Mentre nell’aprile sempre del 2014 la situazione degenera fino allo scoppio della guerra del Donbass tra l’esercito ucraino e i separatisti di Donetsk e Lugansk.
Kiev vive questo conflitto da lontano. La città torna alla sua normalità e gli abitanti non vengono coinvolti in scontri, anche per la distanza geografica tra la capitale e l’est del Paese. La tensione ritorna sul finire del 2021, quando dalla Russia arrivano notizie di assembramenti di truppe lungo i confini con l’Ucraina e dagli Usa gli allarmi su una possibile operazione russa nel Paese.
A Kiev si comincia a restaurare antichi bunker, la gente inizia a fare scorta di cibo e viveri. Per la verità, a dispetto dei timori statunitensi, buona parte della popolazione non crede subito all’eventualità di un’invasione russa. La situazione però precipita tra gennaio e febbraio, quando molte ambasciate occidentali decidono di trasferire la propria sede a Leopoli e un attacco russo è oramai dato per certo.
La capitale ucraina teme particolarmente le manovre svolte in Bielorussia dai soldati locali e dalle truppe russe. Kiev infatti si trova a meno di 200 km dal confine bielorusso e un ingresso da qui dei militari di Mosca rappresenterebbe la volontà russa di prendere la città. L’unica speranza per gli abitanti della capitale è data dalla distanza con il Donbass e dalla possibilità quindi che la guerra si concentri unicamente nell’est dell’Ucraina. Sotto il profilo prettamente strategico infatti, Kiev è molto lontana dai fronti in cui si combatte dal 2014 e dalle terre considerate russofone. Ma a livello politico è il cuore delle istituzioni ucraine ed è sede del governo del presidente Zelensky. Se l’obiettivo russo è quello di far crollare l’attuale Stato ucraino, Kiev non può sfuggire dall’accerchiamento.
Le operazioni di Gostomel del 24 febbraio
Il primo vero intervento volto ad accerchiare Kiev si ha al mattino del 24 febbraio, poche ore dopo l’inizio delle operazioni militari. Un’azione compiuta da unità aviotrasportate prende di mira l’aeroporto di Gostomel, situato a circa 25 km a nord ovest dal centro della capitale. Mentre in città gli abitanti temono soprattutto i raid e si rifugiano nei bunker e nei tunnel della metropolitana, a Gostomel va in scena la prima battaglia di terra tra russi e ucraini.
Intorno alle 13:00, Mosca rivendica il controllo dell’aeroporto. Tuttavia gli ucraini affermano di essere riusciti ad abbattere alcuni mezzi russi. A dispetto delle dichiarazioni sorte poco dopo l’alba da parte dell’esercito russo, l’aviazione ucraina è ancora in grado di replicare e non appare annientata.
La battaglia a Gostomel va avanti per diversi giorni. Più volte, prima della fine di febbraio, le due parti ne rivendicano il controllo. L’aeroporto, a giudicare dalle prime immagini trapelate sui social, appare distrutto. L’hangar che ospita l’Antonov An-225, l’aereo più grande del mondo, è anch’esso distrutto e il mezzo ridotto in frantumi. I russi comunque, nonostante le controffensive ucraine, riescono a controllare la cittadina di Gostomel.
L'avanzata lungo l'asse occidentale
A dare manforte alle truppe aviotrasportate su Gostomel sono i reparti entrati, sempre il 24 febbraio, dal confine con la Bielorussia nell’area di Chernobyl. La regione si trova a 150 km dal centro di Kiev. Nel pomeriggio i russi riescono a conquistare la zona attorno l’ex centrale nucleare teatro del disastro del 1986.
In questo modo raggiungono nel giro di un paio di giorni la regione di Makariv e provano ad aiutare le truppe stanziate a Gostomel. Prende forma in questa maniera l’avanzata russa lungo il fronte nord occidentale di Kiev. È da qui che per gli ucraini arrivano le principali minacce per la difesa della capitale.
Nel frattempo il ministero della Difesa russo mostra alcune immagini di un lungo convoglio attestato tra il confine bielorusso e la regione a nord di Kiev. Secondo l’intelligence britannica, la prima a lanciare indiscrezioni in tal senso, il convoglio di carri armati e mezzi russi è lungo 60 km. Una lunga carovana con la quale Mosca intende mostrare l’intenzione di entrare nella più grande città ucraina.
Già a cavallo tra febbraio e marzo inizia quindi l’esodo di migliaia di cittadini verso ovest, zona dell’Ucraina meno coinvolta dal conflitto. Si teme una battaglia casa per casa, per cui i residenti della capitale preferiscono uscire. Si scappa con i treni oppure sfruttando l’asse meridionale della viabilità di Kiev.
Il 25 febbraio il presidente ucraino Zelensky dichiara di essere a conoscenza di “sabotatori russi già presenti in città”. Tra il 26 e il 27 febbraio alcuni scontri hanno luogo nel settore occidentale della periferia di Kiev e, in particolare, lungo Victory Avenue, non lontano dalla stazione di Beresteiska. Si tratterebbe, secondo gli ucraini, di un primo tentativo di infiltrazione di reparti russi all’interno della capitale. Un tentativo però respinto o comunque abbandonato dai soldati di Mosca.
Nel primo fine settimana di guerra si ha la sensazione di un imminente ingresso russo in città. A testimoniarlo è l’aumento dei raid attorno i quartieri occidentali e i continui allarmi che corrono via social. Sabato 26 i bagliori dei traccianti della contraerea ucraina vengono scambiati per paracadutisti russi in procinto di assediare il centro di Kiev. Nei primi giorni di marzo tuttavia i quartieri centrali appaiono risparmiati da sortite di Mosca. La battaglia è invece confinata lungo il settore nord occidentale.
La battaglia tra Bucha e Irpin
Il 27 febbraio il giornalista ucraino Andriy Tsaplienko parla di violenti combattimenti in corso a Bucha. È la prima volta che il nome della cittadina viene menzionato nel conflitto. E, purtroppo, non sarà l’unica. Il suo territorio si trova a metà strada tra Gostomel e Irpin. Quest’ultima è la località che confina direttamente con il territorio di Kiev. Dunque sfondare su questo fronte per i russi appare importante per raggiungere la capitale.
Le truppe di Mosca nei giorni successivi avanzano su Bucha, anche sfruttando gli ulteriori rinforzi arrivanti dal fronte di Chernobyl e dalla paralisi dell’esercito ucraino nella zona di Borodyanka, località più a ovest rispetto alla periferia di Kiev. Tuttavia la battaglia appare molto aspra. Tanto è vero che il 3 marzo gli ucraini rivendicano la ripresa di Bucha e una bandiera ucraina viene di nuovo issata davanti il municipio della cittadina.
Le forze russe però controbattono. Per almeno dieci giorni il territorio risulta conteso. Nel frattempo i civili vivono una situazione drammatica. Bucha, assieme alle altre cittadine del fronte occidentale di Kiev, sono senza i servizi essenziali, senza acqua e con pochi viveri a disposizione. I raid da parte degli eserciti in lotta poi provocano la morte di molte persone. Tanto è vero che la Bbc, in un articolo del 14 marzo, sottolinea come gli stessi abitanti sono costretti a scavare una fossa dove seppellire i civili deceduti.
Il 13 marzo i russi annunciano di aver ripreso il controllo di Bucha e passano all’attacco anche sulla confinante Irpin. Qui va in scena un’autentica battaglia urbana, con gli ucraini che si difendono riuscendo a sfruttare la conoscenza del territorio e le tattiche delle imboscate tra i palazzi residenziali che caratterizzano la città.
Contestualmente vengono allagati diversi terreni attorno il fiume Irpin, corso d’acqua che divide l’omonima cittadina con la municipalità di Kiev. La battaglia a Irpin va avanti per giorni, tuttavia i russi non sembrano in grado questa volta di sfondare. La violenza degli scontri da queste parti è testimoniata anche dal decesso di alcuni giornalisti stranieri presenti non lontano dalle linee del fronte. Buona parte dei cronisti morti in Ucraina era a lavoro proprio nella zona di Irpin.
I civili con non poca difficoltà vengono evacuati verso Kiev, da cui poi è possibile salire a bordo dei treni diretti verso le regioni occidentali dell’Ucraina. Per tutto il mese di marzo la battaglia nel quadrante nordoccidentale della capitale appare in stallo. Con i russi che non riescono a superare le difese ucraine poste a Irpin e lungo i limiti della periferia di Kiev.
La situazione a Kiev a marzo
Le notizie dello stallo tra Bucha e Irpin assicurano agli abitanti della più importante metropoli ucraina il tempo necessario per procedere con le evacuazioni. Passato il timore per un’imminente invasione nel primo fine settimana di guerra, a Kiev si intuisce nella prima decade di marzo che il centro città è lontano dalle prime linee del fronte.
Questo tuttavia non permette ai cittadini di vivere normalmente. Vengono approvati diversi coprifuoco, in alcuni casi lunghi anche 36 ore. Le attività non basilari sono chiuse, stesso discorso vale per le scuole e diversi uffici. Migliaia di persone vivono nei rifugi e all’interno delle gallerie della metropolitana. L’unica zona dove tutto sembra normale è quella della stazione centrale. Qui ogni giorno in centinaia si ammassano per salire a bordo dei treni e fuggire via. Si calcola che a marzo un abitante su due di Kiev è riuscito ad andare via. Dei tre milioni di abitanti prima del conflitto quindi, la città dopo un mese di guerra potrebbe contare non più di 1.5 milioni di residenti rimasti.
La situazione si mantiene tesa poi a causa dei raid sempre più frequenti all’interno del perimetro cittadino. Diversi missili piombano su alcuni palazzi e in alcuni punti nevralgici di Kiev. Si piangono diverse vittime civili e, al contempo, chi rimane in città teme di ritrovarsi nel mezzo di un bombardamento.
L'avanzata lungo l'asse orientale
Da est i russi già dal primo giorno di guerra provano ad avanzare lungo l’asse che va dalle province di Sumy e Chernihiv fino alla periferia orientale della capitale ucraina. Obiettivo principale qui è prendere Brovary, cittadina che segna il confine tra l’oblast e la municipalità di Kiev. L’azione russa si concentra soprattutto lungo le vie principali della regione.
Le truppe di Mosca, in particolare, provano da subito a consolidare le proprie avanzate nelle arterie autostradali che collegano il confine russo-ucraino con Chernihiv, importante città messa subito sotto assedio. Tuttavia i battaglioni inviati dal Cremlino raramente provano a sfondare nelle zone più interne. La strategia è quella di arrivare il prima possibile a Brovary, aumentando così la pressione su Kiev, già in parte circondata nella periferia occidentale.
A metà marzo le forze russe si trovano in prossimità di Brovary, ma riscontrano notevoli difficoltà nelle retrovie. Avendo consolidato unicamente le posizioni lungo le autostrade principali, intere squadre ucraine rimaste dietro le posizioni di Mosca riescono a infliggere pesanti perdite al nemico. Sia con l’ausilio di droni che con mezzi di artiglieria, unitamente all’organizzazione di imboscate nelle foreste tra Kiev e Chernihiv, gli ucraini distruggono molti mezzi russi e causano la perdita di centinaia di unità di Mosca.
Anche sul fronte orientale quindi la situazione può considerarsi, sul finire del mese di marzo, in una fase di stallo. I russi non hanno la forza per raggiungere i confini orientali della città di Kiev, gli ucraini non hanno invece concrete possibilità di contrattacco.
La fine dell'assedio
Il 30 marzo 2022 a Istanbul si tiene una delicata e importante riunione tra due delegazioni russe e ucraine. L’incontro è organizzato e voluto dal presidente turco Recep Tayyip Erdogan, il quale ben presto subito dopo l’inizio delle ostilità si erge quale principale mediatore tra le parti. Il governo di Ankara ha infatti sì condannato l’azione russa, ma non ha aderito alle sanzioni contro Mosca promosse invece dagli altri Paesi della Nato.
Il vertice termina con una fumata nera, anche se trapelano alcuni passi avanti nelle trattative. Quel giorno stesso il ministero della Difesa russo annuncia un “riposizionamento” delle proprie truppe impegnate nelle operazioni in Ucraina. In particolare, i soldati presenti nell’area di Kiev vengono dislocati nella regione del Donbass, da questo momento in poi principale obiettivo del Cremlino. Si tratta nei fatti di un integrale ritiro dall’area attorno a Kiev.
Difficile dire se questa mossa dipenda o meno dall’incontro di Istanbul, l’unica cosa certa è che dal 30 marzo iniziano le operazioni volte a riportare le truppe russe in territorio russo per assegnare poi ai vari reparti le nuove missioni nel Donbass. Per Mosca, come detto, si tratta di un semplice riposizionamento. Per Kiev invece si vero e proprio ritiro e di una grave battuta d’arresto del Cremlino.
Nei giorni successivi tutte le località a nord, a ovest e a est di Kiev in mano ai russi vengono abbandonate. Entro la prima decade di aprile i reparti ucraini possono quindi rientrare nelle cittadine perdute durante il primo mese di guerra. Termina così l’assedio della capitale ucraina. Tra aprile e maggio molti tra coloro che erano scappati in precedenza fanno rientro nelle proprie case, in città molte attività riaprono e il conflitto viene temuto quasi unicamente soltanto quando nella regione di Kiev risuonano gli allarmi per possibili attacchi aerei.
Le notizie relative alle fosse comuni
Subito dopo il ritiro russo i media ucraini danno conto del ritrovamento di diversi corpi abbandonati all’interno di alcune fosse comuni, soprattutto nell’area nord occidentale di Kiev. Secondo il governo ucraino, si tratta della principale testimonianza del comportamento russo durante l’assedio della capitale. Mosca invece nega ogni accusa e punta il dito contro una possibile propaganda da parte di Kiev.
Cosa è successo a Bucha?
Fosse comuni vengono ritrovate sia all’interno di alcune cittadine che nei boschi dove per oltre un mese si è combattuto. La località simbolo del ritrovamento delle fosse comuni è quella di Bucha: qui diversi corpi vengono scoperti dietro una delle più grandi chiese cittadine, attirando anche un’inchiesta del New York Times. Ritrovamenti del genere avvengono anche a Irpin e Borodyanka.
Attualmente sono in corso delle inchieste da parte della procura generale di Kiev, ma sono diversi anche gli investigatori internazionali giunti in Ucraina per approfondire la vicenda.
Il raid del 10 ottobre 2022
Dopo mesi di relativa calma nella capitale ucraina, Kiev torna a essere nel mirino dei russi la mattina del 10 ottobre 2022. Poco prima dell’alba, le prime allerte aree annunciano ai cittadini l’inizio di una delle giornate più difficili per la città. Diverse le esplosioni che questa volta riguardano soprattutto il centro. Mai prima di allora i quartieri limitrofi alle zone governative risultano così pesantemente attaccati. Un missile cruise, probabilmente sparato dalla flotta russa del Mar Nero, colpisce un’area a metà strada tra il palazzo presidenziale di via Bankova e la sede dei servizi segreti.
Un altro ordigno invece distrugge parzialmente il Glass Bridge. Si tratta del ponte pedonale situato in uno dei parchi del centro della capitale. Possibile che quest’ultimo attacco costituisca in qualche modo un segnale per il governo ucraino: pochi giorni prima infatti, precisamente l’8 ottobre, un sabotaggio attribuito dai russi all’intelligence ucraina danneggia pesantemente il Ponte di Kerch, in Crimea. L’opera è considerata da Mosca strategica: è l’unico collegamento via terra tra la penisola e la federazione, nonché simbolo stesso dell’annessione del territorio della Crimea.
Alla luce di ciò, il bombardamento del 10 ottobre, che colpisce Kiev e altre città dell’Ucraina sia a ovest che a est, può essere visto come una rappresaglia del Cremlino per il sabotaggio del Kerch. A fine giornata la capitale ucraina conta almeno 11 vittime. Diversi gli edifici distrutti, i servizi di emergenza rilevano 30 incendi in tutta l’area urbana. Colpite anche centrali elettriche e danneggiato inoltre il tetto della stazione centrale. Per Kiev il 10 ottobre rappresenta un ritorno ai primi mesi di guerra, con i cittadini costretti per ore a stare nei rifugi e successivamente a iniziare la corsa nei supermercati e nei distributori di carburante per accaparrarsi le provviste.
Kiev al buio
Il raid del 10 ottobre non è l’unico che coinvolge la capitale ucraina negli ultimi mesi del 2022. Più volte Kiev deve far fronte ad allarmi aerei, così come anche all’incursione di droni. La novità, rispetto alle fasi iniziali del conflitto, riguarda proprio l’uso da parte dei russi degli aerei senza pilota per colpire specifici obiettivi in periferia e in centro. Si tratta il più delle volte di droni di fabbricazione iraniana, girati da Teheran prima della guerra. Almeno stando alla versione fornita dai vertici della Repubblica Islamica.
Non solo, ma tra novembre 2022 e gennaio 2023, i bombardamenti riguardano diverse infrastrutture elettriche sia di Kiev che dell’intera Ucraina. Si calcola che più della metà delle centrali presenti nel Paese sono soggette a danni parziali o totali. Il risultato è che il governo viene costretto a razionare l’erogazione di energia elettrica. La stessa capitale è al buio. Le immagini della metropoli senza luce per le strade e con i grattaceli spenti fanno il giro del mondo.
Il pericolo maggiore riguarda la mancanza di riscaldamenti nel momento in cui l’inverno avanza e le temperature scendono costantemente sotto lo zero. Le autorità locali forniscono in questo periodo elettricità per sole due ore al giorno. La guerra quindi, con tutti i suoi effetti più deleteri, continua a farsi sentire anche a Kiev e anche dopo l’allontanamento del fronte. MAURO INDELICATO
La battaglia di Kherson, spiegata. Mauro Indelicato il 17 febbraio 2023 su Inside Over.
La battaglia di Kherson ha luogo nell’ambito della guerra russo-ucraina del 2022. Si sviluppa all’interno e attorno la città di Kherson, capoluogo dell’omonimo oblast e situata in una zona strategica tra la foce del fiume Dnepr e il Mar Nero. La battaglia è nota per aver dato ai russi la prima città capoluogo nella loro avanzata in territorio ucraino. Per gli ucraini, la battaglia risulta importante per le sorti militari e politiche delle regioni meridionali e della città di Odessa.
Il contesto della battaglia di Kherson
L’oblast’ di Kherson è situato in uno dei punti più nevralgici dell’Ucraina. Qui passa l’estuario del Dnepr, il quale si getta poi sul Mar Nero. Non solo, ma poco più a sud vi è il confine con la Crimea. Una linea di frontiera diventata molto calda da quando, a partire dal 2014, la Russia ha annesso la penisola. Inoltre a ovest di Kherson sono situate tutte le principali infrastrutture per collegare la Crimea e le regioni sud orientali dell’Ucraina con Odessa.
L’intera area risulta quindi strategica sia per i russi che per gli ucraini. Per i primi appare essenziale prenderla, per i secondi invece è vitale difenderla. Mosca, nell’avviare le operazioni militari nella regione, punta anche sulla nomina di città russofona di Kherson. Molti dei suoi trecentomila abitanti infatti parlano regolarmente il russo e, assieme alle regioni di Odessa e Mykolaiv, l’area di Kherson è tradizionalmente collocata nella parte russofona dell’Ucraina, unendosi idealmente con il Donbass e l’est del Paese.
Una circostanza però che non determina, nel corso delle fasi più delicate della battaglia, un’unanime accondiscendenza per il passaggio della regione al definitivo controllo russo. Anzi, proprio la risposta della popolazione alle prime operazioni di Mosca nell’area risulta in futuro una delle variabili maggiormente sottovalutate dal Cremlino tanto a Kherson quanto in altre aree dell’Ucraina.
L'inizio della battaglia
Nella notte del 24 febbraio 2022, il presidente russo Vladimir Putin in un discorso televisivo annuncia il via libera all’operazione militare in Ucraina. La regione di Kherson è una delle prime a essere bersagliate. Già prima dell’alba vengono segnalate numerose incursioni aeree e diversi bombardamenti missilistici.
Ma nelle prime ore del conflitto si registrano anche primi interventi russi con le truppe di terra. I soldati, in particolare, entrano dalla Crimea e si dirigono subito verso il Dnepr. Alla fine della prima mattinata di guerra, i soldati di Mosca riescono a occupare la strategica località di Nova Kachovka. Si tratta di uno snodo strategico: situata sulle rive del Dnepr, avanzando a est è possibile raggiungere facilmente Melitopol e quindi la regione di Mariupol, mentre andando verso ovest si entra nell’hinterland di Kherson.
Così come ammesso dallo stesso presidente ucraino Volodymyr Zelensky, la sera del 24 febbraio i russi sono alle porte di Kherson e le truppe di Kiev stanno cercando di respingere l’assalto. Epicentro di questa prima fase della battaglia è il ponte Antonovskiy, struttura che permette di attraversare il Dnepr ed entrare nell’area urbana di Kherson. Nella notte tra il 24 e il 25 febbraio, il ponte è rivendicato dai russi e Mosca sembra avere gioco facile per entrare definitivamente nella città contesa.
Tuttavia è proprio in quest’area che si hanno le prime sorprese. La resistenza dei soldati ucraini è molto forte e il mattino seguente le truppe di Kiev riprendono in mano la struttura. Forse è questa la fase più cruenta della battaglia ed è questo il primo vero episodio di scontro frontale tra le parti nell’arco dell’intero conflitto. Sul campo restano decine di vittime sia tra gli ucraini che tra i russi, nonché una distesa di mezzi e carri armati distrutti. Il ponte passa di mano varie volte tra il 25 e il 26 febbraio. Il sindaco di Kherson, Ihor Kolykhaiev, annuncia nella sera del 26 che i russi sono costretti a un ripiegamento per via delle difficoltà incontrate nella periferia sud della città.
2 marzo 2022: l'arrivo dei russi
A guidare la resistenza dell’esercito ucraino è la 59esima brigata motorizzata, contrapposta dall’altro lato alla 58esima armata combinata russa. Mosca qui schiera anche la settima divisione d’assalto aereo delle guardie di montagna. Lo scontro continua a essere duro, ma la svolta si ha il 27 febbraio, quando i russi dichiarano di aver oltrepassato il Dnepr.
Quello stesso giorno, da Mosca il ministero della Difesa fa sapere di aver circondato Kherson e di aver preso l’aeroporto internazionale. Il 28 febbraio anche le autorità ucraine confermano l’accerchiamento della città. Nei giorni successivi, le truppe russe avanzano lungo la tangenziale e occupano i principali punti di accesso verso il centro cittadino.
L’impressione è che la resistenza ucraina è concentrata soprattutto lungo il Dnepr e nella periferia. Una volta oltrepassate le difese di Kiev in questi punti, i russi riescono a dilagare fino a mettere una seria ipoteca sulla presa di Kherson.
E infatti il 2 marzo le prime avanguardie delle truppe russe vengono avvistate in piazza Svobody, nel cuore della città. All’interno del centro urbano si sparano pochi colpi. A differenza di Bucha, Irpin, Mariupol e altre città ucraine di lì a breve coinvolte nelle battaglie urbane, Kherson non subisce gravi danni e le sue infrastrutture appaiono integre.
Sui social diversi cittadini rintanati a casa mostrano il passaggio di truppe russe nelle vie principali. La sera del 2 marzo è lo stesso sindaco Kolykhaiev ad ammettere la caduta di Kherson che, in questa maniera, diventa il primo capoluogo di regione dell’Ucraina a essere in mano russa.
Le manifestazioni contro la presenza russa
Come detto, nonostante una presenza importante di russofoni nel territorio di Kherson, la gente non accoglie con molto favore l’arrivo dei soldati russi. Difficile dire in che modo è divisa l’opinione pubblica in città. Non ci sono riscontri ufficiali, né dati plausibili. L’unica cosa certa è che, a livello generale, non ci sono scene di parate e accoglienze calorose in favore dei soldati russi.
Molte delle informazioni che dal 2 marzo trapelano da Kherson sono foraggiate dalla propaganda di entrambe le parti. I russi presentano infatti come un proprio successo il ritorno a una certa normalità della situazione, mostrando parchi pieni di cittadini e scuole e uffici nuovamente riaperti. Dall’altro lato però, gli ucraini sottolineano la costante presenza, soprattutto nelle prime settimane di occupazione, di manifestanti in piazza. Per Mosca si tratta di una sparuta minoranza, per Kiev invece del segno della resistenza popolare anti russa.
Le proteste sono documentate soprattutto sui social. A marzo quasi ogni giorno vanno in scena manifestazioni di persone che espongono la bandiera ucraina, contrapposta invece a quella russa issata sugli edifici pubblici e a quella della vittoria nella seconda guerra mondiale esposta in occasione della festa del 9 maggio. In almeno un’occasione i manifestanti hanno intonato l’inno ucraino difronte a schieramenti di truppe russe che, per risposta, hanno invece fatto risuonare in filodiffusione l’inno russo.
Con il passare delle settimane il numero delle manifestazioni risulta diminuito. Tuttavia all’interno di Kherson, così come segnalato dai servizi di intelligence britannici e degli Stati Uniti, sarebbero attivi gruppi di sabotatori ucraini. Si tratta di cellule fedeli a Kiev, attivate per colpire membri della nuova amministrazione filo Mosca o soldati russi stanziati nel territorio occupato. Si ha notizia, da marzo in poi, di alcuni episodi verosimilmente attuati da sabotatori ucraini. Il più grave dei quali riguarda l’uccisione, a seguito di un’esplosione avvenuta il 7 settembre, del colonnello russo Atem Bardin.
La nuova amministrazione pro Mosca
Tra scene di normalità e manifestazioni pro Kiev, i comandi militari russi si muovono per dare a Kherson un’amministrazione politicamente legata al Cremlino. Il 18 aprile da Mosca arriva la designazione di Igor Kastyukevich quale nuovo sindaco della città, anche se il diretto interessato nega l’incarico ricevuto. Il 22 aprile invece si insedia quale nuovo governatore Volodymir Saldo, pochi giorni dopo viene annunciata invece la designazione di Oleksandr Kobets come nuovo sindaco facente funzioni.
L’obiettivo principale delle nuove amministrazioni pro Mosca è l’organizzazione di un referendum in grado di sancire l’annessione di Kherson alla federazione russa. Per preparare l’intera regione a questa chiamata elettorale, vengono prese nel frattempo alcune decisioni volte ad agganciare sempre più il destino di Kherson alla Russia. Da maggio ad esempio circola il Rublo, ossia la moneta della federazione, che sostituisce la Grivnia ucraina.
Tra maggio e giugno le utenze telefoniche e la linea internet vengono agganciate alle infrastrutture russe, così come iniziano a essere rilasciati i passaporti russi. Diversi cittadini ottengono la cittadinanza della federazione, altro modo per provare a rendere indelebile il passaggio di Kherson a Mosca.
Il referendum di Kherson
In un primo momento si parla di aprile o di maggio come data per tenere un referendum di annessione alla Russia. Il modello, seppur differente per modalità e per situazioni, non sarebbe così diverso da quello applicato in Crimea. Ossia far arrivare direttamente dai cittadini la legittimazione per l’annessione a Mosca.
Il referendum viene organizzato tra il 23 e il 27 settembre. Kiev non riconosce il voto e lo considera solo uno strumento pilotato dalla Russia per legittimare l’occupazione. Anche gran parte della comunità internazionale non dà rilevanza politica al referendum. Ad ogni modo, il Cremlino il 29 settembre rende nota la vittoria del Sì all’annessione e, il giorno successivo, è Vladimir Putin ad annunciare il passaggio di Kherson alla federazione russa assieme alle altre province dell’Ucraina occupate.
Lo stallo estivo
La battaglia di Kherson però non termina con la conquista russa della città. Dopo il ritiro delle proprie forze, Kiev si dice convinta di poter recuperare il territorio. Si organizza così una più solida linea difensiva a ovest del centro urbano, lungo la strada per Mykolaiv. Quest’ultima diventa a sua volta un’altra città strategica, considerata infatti la vera e propria porta verso Odessa. L’esercito ucraino quindi ha un duplice obiettivo nella regione: impedire l’avanzata dei russi verso Mykolaiv e iniziare ad allestire il piano per una controffensiva verso Kherson.
In un primo momento le forze di Mosca sembrano poter procedere verso Mykolaiv, ma l’avanzata viene effettivamente bloccata dagli ucraini. Un colpo molto duro per le ambizioni russe nell’area è inferto il 23 marzo, quando le forze di Kiev lanciano missili contro l’aeroporto militare di Kherson, distruggendo una grande quantità di mezzi russi. Mosca quindi è costretta a fermare o comunque ridimensionare le proprie velleità.
Il fronte rimane in una fase di stallo per diverse settimane. Ad aprile gli ucraini rivendicano una prima avanzata verso Kherson. In particolare, il 23 aprile l’esercito di Kiev annuncia la riconquista di otto località nell’oblast’ di Kherson. Il fronte viene spostato verso la città occupata, facendolo definitivamente allontanare da Mykolaiv.
La linea di contatto tra i due eserciti rimane immobile per tutta l’estate. Sul finire del mese di agosto, l’esercito ucraino fa sapere di aver messo a punto le strategie per iniziare una controffensiva. Gli attacchi partono effettivamente i primi giorni di settembre, ma appaiono concentrati su alcuni specifici obiettivi locali. In realtà, la vera controffensiva ucraina ha luogo negli stessi giorni lungo il fronte di Kharkiv, dove Kiev riesce ad avanzare recuperando diverse aree andate perse tra marzo e aprile. A Kherson invece la situazione al momento è quasi immutata. Si registrano diversi scontri tra le parti, ma le variazioni territoriale sono poco significative.
La controffensiva ucraina
La svolta definitiva avviene il 4 ottobre. Penetrando dal settore nord occidentale dell’oblast’ di Kherson, le forze ucraine riescono a sfondare le difese russe. Mosca nella parte attaccata da Kiev è in evidente inferiorità numerica e le truppe presenti sul campo possono solo pensare a un’ordinata ritirata. Nel giro di poche ore, gli ucraini guadagnano terreno e si spingono per diversi chilometri in profondità costeggiando la riva occidentale del Dnestr. C’è un dettaglio politico non secondario da considerare nel valutare la nuova avanzata degli uomini agli ordini di Zelensky: appena quattro giorni prima infatti, al Cremlino si era svolta la cerimonia di annessione dell’intero oblast’ di Kherson alla Russia, assieme a quelli di Zaporizhzhia, Donetsk e Lugansk.
Dunque, per la prima volta le truppe di Kiev si spingono in profondità in un territorio considerato unilateralmente da Mosca come parte integrante della federazione. A livello internazionale, l’annessione non viene riconosciuta e dunque le operazioni ucraine vengono legittimate come parte dei tentativi per recuperare la sovranità nelle zone occupate.
La prima spinta ucraina da nord si esaurisce dopo qualche giorno, ma produce significative avanzate all’interno del distretto di Beryslav. Nel frattempo la pressione ucraina aumenta anche da ovest, con le truppe che spingono dalla direzione di Mykolaiv. Mosca intuisce che la difesa della città di Kherson non può durare a lungo. Con l’avanzata delle forze di Kiev non si hanno infatti grossi scontri, segno di come dal Cremlino venga messa in conto la possibilità di ordinare un ritiro definitivo dalla zona evitando battaglie in grado di debilitare ulteriormente l’esercito russo.
Il 10 novembre, il ministro della Difesa Sergej Shoigu annuncia da Mosca l’ordine di ritiro da Kherson. Il giorno dopo, truppe russe vengono avvistate in ponti provvisori realizzati dall’esercito sul Dnepr. In questo modo, le forze di Mosca presenti in città oltrepassano il fiume e lasciano il territorio. Il giorno dopo, gli ucraini entrano in città e Kherson viene considerata ufficialmente nelle mani di Kiev.
Kherson dopo il ritiro russo
In città però la guerra non è finita. Dalla sponda in cui si sono ritirati, i russi lanciano diversi attacchi con colpi di artiglieria causando ulteriori danni agli edifici e pericoli per l’incolumità delle persone. Inoltre, anche Kherson è soggetta ai disagi derivanti dalla distruzione di diverse infrastrutture energetiche causate dai bombardamenti attuati in quelle settimane in tutta l’Ucraina. Le strade sono al buio, la distribuzione di luce e acqua è razionata, i cittadini temono di dover affrontare il grande gelo invernale senza riscaldamenti.
Ad ogni modo, sotto il profilo prettamente militare, Kherson è saldamente in mano alle forze ucraine e i russi al di là del fiume non sembrano avere la possibilità di attuare un contrattacco. MAURO INDELICATO
La battaglia di Mariupol, spiegata. Mauro Indelicato il 18 febbraio 2023 su Inside Over.
La battaglia di Mariupol è inquadrata all’interno del conflitto russo-ucraino scoppiato il 24 febbraio 2022. Ha per teatro la città di Mariupol, importante scalo portuale sul Mar d’Azov all’interno dell’oblast di Donetsk. I combattimenti vanno avanti dal primo giorno di guerra fino al 21 maggio, quando Mosca dichiara la città integralmente nelle proprie mani. Oggi Mariupol è controllata da forze russe e filorusse.
Il contesto della battaglia di Mariupol
Quando il 24 febbraio scatta l’operazione russa in Ucraina, si intuisce subito come Mariupol appaia uno degli obiettivi più importanti per il Cremlino. I motivi sono tanti. In primo luogo, la città (di quasi mezzo milione di abitanti) si trova all’interno dell’oblast di Donetsk e dunque in un territorio rivendicato dalla Repubblica Popolare di Donetsk (Dpr), l’entità filorussa autoproclamatasi indipendente dall’Ucraina durante i moti del 2014.
In secondo luogo, Mariupol è un importante centro portuale situato sul Mar d’Azov. Per Mosca quindi prendere lo scalo significa dominare l’intero specchio d’acqua a est della penisola di Crimea. Infine, la città viene storicamente identificata come “russofona”. Tanto è vero che proprio nel 2014 più volte passa di mano tra l’esercito ucraino e i combattenti filorussi della Dpr.
In quell’anno, a seguito delle rivolte di Piazza Maidan a Kiev e dell’insediamento nella capitale ucraina di un governo filo-occidentale non favorevole al mantenimento del bilinguismo russo-ucraino nell’est, a Donetsk e Lugansk vanno in scena contromanifestazioni sfocianti per l’appunto nella creazione delle repubbliche autoproclamate. Proteste del genere vanno in scena anche a Mariupol, lì dove per l’appunto il controllo del territorio varia più volte tra esercito regolare e milizie filorusse.
Alla fine però Kiev riesce a mantenere la città sotto la propria ala. Questo grazie anche al supporto di un gruppo di combattenti, provenienti dai settori più estremisti della destra nazionalista, che inizia a farsi riconoscere con il nome di “Battaglione Azov”. Dal 2014 in poi il gruppo stanzia la sua sede proprio a pochi passi da Mariupol. E forse è questo un quarto motivo per cui la Russia vuole concentrare, nell’operazione iniziata nel febbraio 2022, le sue forze in questo angolo di Mar d’Azov.
Cos’è il Battaglione Azov
Negli otto anni che separano gli eventi del 2014 dalla guerra del 2022, Mariupol appare in continua mutazione. La città di fatto diventa confine dei possedimenti ucraini del Donbass, visto che la linea di contatto proclamata con il cessate il fuoco e con i successivi accordi di Minsk siglati tra il 2014 e il 2015 passa proprio a pochi passi dalla periferia di Mariupol. Molte famiglie russofone emigrano altrove, cambiando quindi anche la composizione etnica e linguistica. In poche parole, la città diventa un bastione di Kiev nell’est del Paese.
L'inizio delle operazioni russe in Ucraina
Non c’è quindi sorpresa nel constatare che, a poche ore dal discorso della notte del 24 febbraio 2022 con cui il presidente russo Vladimir Putin dà il via libera all’attacco contro Kiev, i primi bombardamenti riguardano proprio Mariupol. Si ha anche notizia di un possibile sbarco anfibio di unità russe, circostanza però smentita durante il primo giorno di guerra.
Mosca si muove comunque in Ucraina sia a nord che a sud. Nelle regioni settentrionali entra dalla Bielorussia, in quelle meridionali dalla Crimea. Su quest’ultimo fronte, molte unità sembrano puntare verso Melitopol e verso quindi le coste del Mar d’Azov. Oltre che per i bombardamenti, i cittadini di Mariupol avvertono di essere nel mirino delle operazioni militari anche per via dei primi movimenti delle truppe russe in territorio ucraino.
Le avanzate di Mosca e dei soldati della Dpr
La mattina del 24 febbraio le truppe del Cremlino entrate dalla Crimea conquistano la cittadina di Nova Kachova, lungo le sponde del Dnepr. Nel giro di poche ore appare chiaro come l’intenzione russa sia quella di dilagare dirigendosi verso est. A inizio marzo i soldati inviati dal Cremlino controllano Melitopol e avanzano verso Berdyansk, altro porto importante ad appena 30 km da Mariupol.
Contestualmente, primi movimenti si hanno anche a est e a nord della città portuale. Il leader della Dpr, Denis Pushilin, il primo marzo rende noto che alcuni reparti dell’esercito dell’autoproclamata repubblica filorussa avanzano verso Volnovakha, cittadina a nord di Mariupol. La località, nel giro di pochi giorni, viene circondata e conquistata. Si tratta di un episodio forse decisivo per le sorti della battaglia: perdendo Volnovakha, le difese ucraine attorno Mariupol iniziano a cedere e russi e filorussi possono seriamente pensare di attaccare il centro urbano, adesso a portata di artiglieria. Per questo la battaglia di Volnovakha appare molto cruenta: molti cittadini sono costretti a fuggire, altri sono morti e gran parte delle abitazioni al termine dei combattimenti sono distrutte.
Intuendo l’imminenza della battaglia per Mariupol, centinaia di persone provano a scappare. Le strade però sono blindate. Diverse testimonianze sui social riportano l’impossibilità di andare via dalla città e il nervosismo soprattutto dei membri del Battaglione Azov nei posti di blocco organizzati alle porte di Mariupol.
I bombardamenti su Mariupol
A contribuire all’aumento della tensione sono i continui raid sulla città. I russi bombardano per via aerea e con l’avanzata nelle campagne attorno Mariupol anche con l’artiglieria. Sui social nei primi giorni di marzo si leggono testimonianze relative a continui bombardamenti, i quali oltre a mettere paura provocano danni e morti.
E infatti la situazione umanitaria peggiora rapidamente. Il sindaco di Mariupol, Vadym Boichenko, denuncia carenze nell’erogazione dei servizi essenziali, il tutto a causa del danneggiamento di condotte idriche e di impianti di energia elettrica. Molte famiglie rimangono al buio e senza riscaldamenti, fatto grave considerando che a inizio marzo le temperature sono ancora rigide e la neve imperversa tra le strade di Mariupol.
Da Mosca i vertici della difesa sottolineano di colpire unicamente obiettivi militari. Il 9 marzo però avviene il primo grave episodio legato ai raid sulla città. In particolare, viene bombardato e distrutto l’ospedale pediatrico. Secondo le autorità ucraine, l’esplosione provoca decine di vittime soprattutto tra le donne e i bambini ricoverati al suo interno. L’episodio ha un volto simbolo, quello di Marianna. Quest’ultima viene presentata dai video rilanciati dagli ucraini come una donna in procinto di partorire ferita a seguito del raid. Viene filmata mentre, con il volto tumefatto, scende le scale aiutata dai soccorritori.
La donna viene data per morta alcuni giorni dopo. In realtà Marianna, una influencer e blogger prima della guerra, poi riappare sia nelle tv ucraine che in quelle russe. Per Mosca la sua storia risulta manipolata da Kiev per fini propagandistici. La difesa russa sostiene come in realtà l’ospedale preso di mira già da giorni risulta evacuato e trasformato in una base militare del Battaglione Azov. La stessa Marianna riappare in un’intervista diffusa da canali filorussi alcuni giorni dopo e dichiara di aver visto trasformare la struttura in un obiettivo militare. Di certo la donna, probabilmente oggi rifugiata in un’area controllata dai separatisti filorussi, rimane invischiata in un gioco propagandistico molto più grande di lei.
I bombardamenti intanto proseguono in tutto il territorio di Mariupol. Il 12 marzo viene centrato dalle bombe il teatro di arte drammatica. Si tratta di una delle strutture più emblematiche e storiche di Mariupol, in quel momento usato come rifugio. Per le autorità ucraine quando il teatro viene raggiunto dal raid al suo interno ci sono almeno mille persone e le vittime potrebbero essere 600. Per Mosca invece i rifugiati si trovano in un sotterraneo non raggiunto dai crolli. Anche in questo caso è difficile accertare la verità.
Ad ogni modo, episodi come quelli narrati denotano una città in preda alla guerra e devastata già nelle prime settimane di conflitto. Scarseggiano i generi di prima necessità, gli ospedali non riescono a lavorare a pieno regime, nella gran parte delle case mancano acqua e riscaldamento, i rifugi sono ricavati in località di fortuna.
La gente è in preda al panico e alla disperazione in molti distretti. I primi contatti diretti tra delegazioni russe e ucraine danno il via libera a corridoi umanitari per evacuare i civili. Vengono aperte le strade dirette a Zaporizhzhia per far confluire verso lì i profughi, ma spesso i bus preposti alle evacuazioni sono costretti a rimanere fermi. Con un successivo rimpallo di responsabilità per il fallimento di molti dei corridoi organizzati. Kiev accusa Mosca di voler portare i rifugiati in territorio russo, dal canto suo il Cremlino accusa il Battaglione Azov di voler usare i civili come scudi umani.
Le prime avanzate russe in città
Entro la prima decade di marzo, a seguito delle avanzate russe e filorusse sia a ovest che a nord di Mariupol, la città portuale risulta assediata. I combattenti ucraini al suo interno sono lontani e scollegati dal resto dei reparti di Kiev. L’assedio vero e proprio inizia il 18 marzo, quando le forze di Mosca conquistano l’aeroporto. Da allora in poi si assiste a un costante avvicinamento delle truppe russe verso il centro.
Il 23 marzo la guerra arriva nei distretti centrali di Mariupol e dunque all’interno della cinta urbana della città. Tanto è vero che in quello stesso giorno il sindaco Boichenko viene evacuato assieme agli altri membri dell’amministrazione cittadina. La battaglia urbana per la presa di Mariupol è oramai cominciata.
Le forze schierate in campo a Mariupol
Sul versante ucraino combattono diversi reparti dell’esercito regolare, così come gruppi di volontari e, come detto, una corposa rappresentanza del Battaglione Azov. Kiev per difendere Mariupol schiera sul campo la 36esima Brigata fanteria di marina “Contrammiraglio Michajlo Bilyns’kyj”, il 501esimo Battaglione di Fanteria di Marina, così come reparti della polizia militare. In totale, le forze armate ucraine dispongo di almeno 3.500 effettivi. A questi si aggiungono 800 combattenti del Battaglione Azov e altri 300 tra volontari e miliziani.
Dall’altro lato, la Russia invia verso Mariupol almeno 14.000 soldati dell’esercito regolare, tra forze terrestri, truppe aviotrasportate e membri della guardia nazionale. Presenti nel contesto della battalia urbana anche membri della compagnia privata Wagner. A Mariupol a combattere ci sono però anche i ceceni. Il gruppo agli ordini del leader ceceno Ramzan Kadyrov è presente con decine di unità in città, le quali appaiono molto motivate e hanno una maggiore abitudine, rispetto alle forze regolari russe, alla battaglia urbana. I ceceni inoltre sono molto attivi sui social: specialmente su Telegram, pubblicano quotidianamente immagini e video dei combattimenti. Infine, a supportare l’azione russa ci sono ovviamente i soldati dell’autoproclamata Repubblica Popolare di Donetsk. Le unità presenti a Mariupol sarebbero 1.500.
I combattimenti in centro
La prima svolta nella battaglia urbana si ha il 29 marzo. L’avanzata di russi e filorussi nei quartieri centrali di Mariupol, determina quel giorno la separazione in due sacche dei territori ancora in mano ucraina. Le forze di Kiev, già assediate e impossibilitate a ricevere rifornimenti, adesso faticano a comunicare tra loro e sono separate dalle avanguardie russe.
Il 2 aprile, con la conquista da parte di Mosca dell’edificio che ospita la sede dei servizi segreti ucraini a Mariupol, viene ritenuta conclusa la battaglia nel centro storico. Prosegue però nelle altre parti della città. I combattimenti sono letteralmente casa per casa. Spesso sono i ceceni ad assaltare gli edifici più alti, da cui poter avere il controllo del fuoco nelle vie circostanti. Si va avanti così in ogni ora del giorno, si combatte anche in piena notte.
Con il centro di Mariupol ormai in mano russa, le sorti della battaglia appaiono segnate. Il 4 aprile si ha la resa del 501esimo Battaglione di Fanteria Marina, con almeno 267 soldati ucraini che depongono le armi e si consegnano ai russi. Il 7 aprile inizia l’avanzata russa all’interno del porto. A cadere per prima è l’area dove sono ormeggiati i pescherecci. Al 10 aprile la situazione è la seguente: circa l’80% di Mariupol è in mano a Mosca, gli ucraini sono concentrati adesso all’interno di tre sacche. La prima è quella situata nella zona portuale, c’è poi quella dove sono presenti i soldati della 36esima brigata di fanteria marina, guidata dal colonnello Baranyuk, corrispondente all’area dell’acciaieria Illich. Infine ci sono i combattenti del Battaglione Azov all’interno dell’acciaieria Azovstal, comandati da Denys Prokopenko.
Nella notte tra l’11 e il 12 aprile, il colonnello Baranyuk prova a rompere l’assedio dell’acciaieria Illich, il tentativo però viene stroncato dai russi. Molti membri della sua brigata periscono oppure vengono catturati, altri si arrendono. In pochi riescono a raggiungere i membri dell’Azov nell’acciaieria Azovstal. Poche ore dopo più di mille marines della 36esima brigata si arrendono e le truppe russe possono quindi conquistare la Illich.
A questo punto, le sacche in mano agli ucraini sono due: quella riguardante l’area portuale e quella situata nell’acciaieria Azovstal.
21 aprile: Mosca dichiara caduta Mariupol
Il 13 aprile fonti della Dpr danno per conquistata l’area commerciale del porto, mentre il 18 aprile l’intero scalo risulta nelle mani russe e filorusse. Il 21 aprile il ministro della Difesa russo, Sergej Shoigu, incontra al Cremlino il presidente della federazione russa Vladimir Putin. Nel corso del colloquio il numero uno della difesa rende conto degli aggiornamenti relativi ai combattimenti a Mariupol.
Vladimir Putin dichiara conquistata la città, dando ordine alle truppe di sorvegliare l’area attorno l’acciaieria Azovstal, ultima sacca controllata dagli ucraini. Il presidente russo decide quindi di evitare nuovi combattimenti, considerando la possibilità molto forte di perdere unità all’interno dell’impianto industriale e tenendo conto di come il resto della città è oramai nelle mani di Mosca. I russi puntano inoltre sulla difficoltà degli ultimi combattenti ucraini di ricevere rifornimenti e munizioni.
La resistenza all'interno dell'acciaieria Azovstal
Tuttavia la mancata resa delle forze di Kiev relegate e rinchiuse dentro Azovstal non spegne del tutto la battaglia. All’interno dello stabilimento sono presenti soprattutto i membri del Battaglione Azov, oltre che i marines della 36esima brigata riusciti ad uscire dalla Illich. Il loro intento è quello di non consegnarsi alle forze russe. Dentro l’area industriale sono presenti anche i civili.
Viene invocata a più riprese una mediazione internazionale per garantire l’evacuazione tanto dei civili, quanto dei combattenti. Sono pochi i rifornimenti a disposizione, sia in termini militari che sanitari e alimentari. Si ha notizia di soldati feriti morti per mancanza di cure e di altri in grave pericolo di vita per lo stesso motivo.
Per tutto il mese di maggio vanno avanti importanti contrattazioni tra le parti, mediate soprattutto da Turchia e Nazioni Unite. L’episodio relativo all’assedio dell’acciaieria Azovstal è destinato a diventare uno dei più emblematici della guerra in Ucraina.
La fine della battaglia di Mariupol
I primi giorni di maggio non sono contrassegnati soltanto dalle trattative, mediate anche dalle Nazioni Unite, per l’evacuazione dello stabilimento. Sono segnalate infatti importanti schermaglie attorno l’area di Azovstal. Probabilmente si tratta di tentativi russi di mettere pressione sugli ultimi combattenti ucraini, al fine di accelerarne la resa.
Si ha notizia però anche delle prime evacuazioni di civili. Diversi gruppi vengono fatti uscire, con l’ausilio della Croce Rossa internazionale inviata sul posto. All’interno dell’acciaieria ci sono diversi gruppi di cittadini che qui trovano rifugio già dai primi giorni di bombardamenti, così come parenti e mogli dei soldati. Alla fine, così come redatto dai vari report della stessa Croce Rossa e delle autorità ucraine, gli ultimi civili vengono fatti uscire il 6 maggio.
Da Kiev intanto si prende atto della situazione considerata oramai compromessa a livello militare. Il 5 maggio, così come riportato da diverse fonti governative, è lo stesso presidente Zelensky a dare ordine di resa “qualora le circostanze dovessero renderla inevitabile”. Tuttavia i vertici del Battaglione Azov rifiutano qualsiasi ipotesi relativa al deporre le armi.
Le trattative vanno comunque avanti e il 16 maggio arriva la svolta definitiva che sancisce di fatto la fine della battaglia di Mariupol. C’è l’ordine da parte dei comandi ucraini di uscire da Azovstal. Kiev non parla ufficialmente di resa, ma di compimento della missione da parte dei difensori ucraini “i quali hanno consentito all’esercito di rafforzarsi e guadagnare tempo”. Per Mosca si tratta invece di una vera e propria resa.
L’evacuazione inizia il 16 maggio e termina cinque giorni dopo con l’uscita degli ultimi combattenti asserragliati dentro l’acciaieria, i quali vengono portati in territori controllati dalla Dpr. I russi prendono possesso dell’ultima area in mano ucraina e Mariupol viene considerata interamente conquistata da Mosca.
Difficile attualmente stabilire una stima delle vittime civili e militari. Considerando la portata degli scontri e delle distruzioni all’interno di Mariupol, è possibile azzardare cifre nell’ordine delle migliaia di unità.
Mariupol dopo la battaglia
Ad oggi, Mariupol è l’unica vera grande città conquistata da Mosca dopo il 24 febbraio 2022. Kherson, altra grande città e unico capoluogo di regione preso dalle truppe del Cremlino, è tornata sotto il controllo di Kiev nel mese di novembre. Sono diversi i video dei media russi che mostrano la situazione a Mariupol dopo la battaglia. Lì dove ci sono le macerie del teatro bombardato il 12 marzo, è stato innalzato un telo raffigurante la vecchia facciata. Forse a indicare un prossimo restauro di uno dei simboli del Donbass.
In altri video si nota la costruzione di nuovi e moderni palazzi residenziali lungo l’autostrada che collega l’aeroporto con il centro. Mostrate anche alcune scuole riaperte ed altri edifici pubblici resi agibili. Si tratta tuttavia di immagini girate da media vicini a Mosca. Chi, tra le poche testate indipendenti, è riuscito a raggiungere Mariupol è stato in grado di confermare una parte della ricostruzione già avviata. Ma, al tempo stesso, ha descritto la situazione come molto critica.
Il centro storico è ancora un cumulo di macerie, più della metà degli edifici dell’intero perimetro urbano non sono agibili e abitabili. Mancano inoltre molti servizi, mentre per rifornirsi d’acqua i cittadini sono ancora costretti a mettersi in fila in alcuni distributori oppure davanti i presidi creati dalle autorità locali. Le funzioni amministrative sono demandate ad organismi locali nominati da Mosca. Le autorità ucraine che hanno governato Mariupol fino ad aprile, sono oggi in esilio nei territori controllati da Kiev.
Il 23 gennaio è stata segnalata su diversi canali Telegram una forte esplosione non lontano dal centro di Mariupol. Secondo i media filo ucraini, si sarebbe trattato di un atto di sabotaggio. A testimonianza di come, anche dopo la battaglia, alcune cellule di sabotatori sarebbero attive nella regione. MAURO INDELICATO
La storia della battaglia di Kharkiv. Mauro Indelicato il 18 febbraio 2023 su Inside Over.
La battaglia di Kharkiv ha avuto come obiettivo la conquista della seconda città ucraina da parte dell’esercito russo, nel contesto della guerra tra Russia e Ucraina scoppiata il 24 febbraio 2022. I combattimenti hanno coinvolto la città già nelle prime ore di guerra e sono andati avanti per diversi mesi. La battaglia viene considerata conclusa solo con il contrattacco ucraino sferrato nel settembre 2022, con il quale i russi sono costretti al ritiro verso i propri confini.
L'importanza politica di Kharkiv per i russi
Kharkiv nella storia viene attraversata da diverse battaglie. L’ultima, prima della crisi del 2022, riguarda la battaglia che porta il nome di Kharkiv-Izyum combattuta durante la Seconda guerra mondiale, con l’esercito sovietico che riesce a contrapporsi a quello nazista. Anche per questo la città viene vista dai russi come tra le più importanti a livello storico e culturale.
La sua posizione la pone poi in un nodo strategico, tanto a livello militare quanto forse soprattutto a livello politico. Situata infatti ad appena 100 km dal confine con la regione russa di Belgorod, Kharkiv ha al suo interno un’importante minoranza russofona. Tanto che nel 2014, quando a seguito della rivoluzione di Maidan a Kiev si insedia un governo filo occidentale, il suo territorio sembra destinato a seguire gli oblast di Lugansk e Donetsk nella rivolta organizzata da secessionisti filorussi.
In quell’anno Kharkiv vive momenti di forte tensione, tuttavia la città rimane in mano ucraina e non si ha la prevalenza di gruppi separatisti anti Kiev. Ad ogni modo, quando da Mosca si preparano i piani per un attacco contro l’Ucraina nel 2022, Kharkiv sembra rappresentare una delle priorità degli alti comandi russi. Proprio in virtù della vicinanza al confine e della popolazione russofona al suo interno, i vertici del Cremlino sperano di vedere una flebile resistenza ucraina e poter avanzare subito verso il centro cittadino.
I primi tentativi di avanzata russa
Quando alle 3:51 del 24 febbraio 2022 il presidente russo Vladimir Putin annuncia, durante un discorso alla nazione, l’inizio di quella che viene chiamata “operazione militare speciale”, Kharkiv è tra le prime città a essere raggiunta dai bombardamenti. La popolazione viene svegliata dal rumore delle esplosioni provocate da raid che, nelle prime ore, prendono di mira soprattutto obiettivi militari situati in periferia.
All’alba nel territorio della regione di Kharkiv entrano i primi carri armati russi provenienti da Belgorod e ammassati a ridosso del confine già da diverse settimane. Mosca sembra puntare a una veloce avanzata almeno alle porte di Kharkiv. Si hanno infatti notizie di mezzi inviati dal Cremlino in prossimità della periferia nord e della periferia est al mattino del 24 febbraio.
Gli ucraini nella zona non sono colti di sorpresa, ma i comandi generali a Kiev sono alle prese con una situazione generale molto problematica dovendo fronteggiare un attacco su più fronti da parte russa. Viene però dato l’ordine, nonostante una veloce prima avanzata delle forze di Mosca, di non cedere la città e di preservarla. Se per il Cremlino prendere Kharkiv è importante a livello politico e strategico, è altrettanto vitale per Kiev evitare di perdere la seconda città ucraina e la prima capitale della vecchia Repubblica Socialista ucraina.
Tra i principali reparti ucraini in città c’è senza dubbio la 92esima Brigata meccanizzata, comandata da Pavlo Fedosenko. È lui a organizzare le prime linee di difesa a ridosso del centro urbano di Kharkiv. Gli ucraini riescono, nella giornata di sabato 26 febbraio, a ingaggiare importanti combattimenti nel villaggio di Tsyrkuny. Si tratta probabilmente della prima vera battaglia difensiva delle forze di Kiev nella regione di Kharkiv. I cronisti del New York Times arrivati nell’area descrivono scene di devastazione: si notano diverse vittime da entrambe le parti, così come mezzi corazzati distrutti e molti crateri sul terreno. Segno quindi di una battaglia molto aspra.
La giornata decisiva per questa prima fase della guerra è quella di domenica 27 febbraio. I russi spingono da nord e iniziano a spingere anche da ovest, provando ad aggirare le difese ucraine lungo la strada che attraversa i boschi in prossimità della località di Pisochyn. Il comandante della 92esima brigata intercetta però i mezzi corazzati russi, arrestando parzialmente l’avanzata.
La doppia spinta delle forze di Mosca permette comunque ai primi reparti russi di entrare a Kharkiv. Per l’intera giornata si susseguono notizie contraddittorie: da un lato fonti russe che danno per imminente la caduta della città, dall’altra però fonti ucraine che, oltre a invocare alla resistenza da parte di militari e civili, sostengono di avere ancora in mano il controllo del territorio.
Nemmeno i cittadini hanno contezza della situazione, specialmente quelli residenti a ridosso dei quartieri coinvolti dalla battaglia. Sui social spuntano video girati dagli abitanti asserragliati in casa, in cui si notano scontri strada per strada tra russi e ucraini in alcune zone della periferia. Immagini che testimoniano un primo serio tentativo di Mosca di sconfiggere nel giro di poche ore ogni resistenza. Sembra il preludio alla capitolazione delle forze ucraine locale.
In serata però arriva il dietrofront: da Kiev danno per ufficiale il respingimento dei russi lungo gli assi difensivi di Kharkiv. Il governatore della regione, Oleh Synyehubov, dichiara il 27 sera che la città è interamente in mano ucraina e che i russi penetrati nel territorio urbano sono da considerarsi respinti. Circostanza confermata il giorno successivo dal sindaco, Ihor Terekhov.
Tra raid e battaglie urbane
L’esercito ucraino riesce quindi a respingere le prime incursioni russe in centro, Kharkiv però non è risparmiata dalla guerra. Al contrario, per superare le difese di Kiev le forze di Mosca iniziano a bersagliare in modo molto pesante la città. Nei primi giorni è la periferia a essere colpita, a marzo invece anche il centro non è risparmiato.
La dimostrazione è data dal bombardamento subito dal palazzo che ospita la sede delle istituzioni regionali, nel cuore di Kharkiv. L’edificio il primo marzo viene colpito da un missile, la deflagrazione lo danneggia pesantemente e causa anche diversi feriti tra i civili. L’episodio diventa il simbolo di questa prima parte della battaglia per la seconda città ucraina, da subito considerata la più colpita dall’inizio della guerra.
I raid si susseguono giorno dopo giorno. I russi usano l’aviazione, così come i missili a media gittata e l’artiglieria nelle zone più vicine alla linea del fronte oramai consolidata poco più a nord dell’area urbana. In migliaia scappano in zone ritenute più sicure. Vengono organizzati treni e autobus per permettere alla popolazione di raggiungere Kiev e le regioni occidentali del Paese. Si calcola che almeno mezzo milione, sul milione e mezzo di abitanti dichiarati prima del conflitto, scappano da Kharkiv per le conseguenze della battaglia. Quasi un abitante su tre va via, lasciandosi dietro macerie e ansie per il futuro.
Chi rimane ogni notte è costretto a convivere con i rumori delle sirene antiaeree che risuonano costantemente. L’amministrazione comunale introduce più volte il coprifuoco sia come misura di sicurezza per i cittadini che come misura per coprire gli spostamenti notturni dell’esercito. I servizi essenziali sono erogati in modo discontinuo, anche se la popolazione non patisce comunque la penuria di cibo e acqua.
Sul campo i russi avanzano nelle campagne a nord di Kharkiv, lungo le linee di frontiera. Così come iniziano a marzo a guadagnare terreno nella regione meridionale dell’oblast di Kharkiv, puntando su Izyum, vera e propria porta del Donbass e dunque obiettivo strategico vitale per il Cremlino.
Lo stallo a Kharkiv nel mese di aprile
Se nella regione circostante i russi controllano i confini e avanzano nelle aree a ridosso di Izyum e del fiume Siversky Donetsk, nell’area urbana di Kharkiv invece si assiste a un vero e proprio stallo. Le forze di Mosca non riescono a sfondare, nonostante l’uso massiccio dell’artiglieria e nonostante i costanti bombardamenti, le linee difensive ucraine.
Si crea una linea di fronte stabile e sostanzialmente immobile per tutto il mese di aprile, con i russi alle porte di Kharkiv impossibilitati però ad avanzare verso il centro. Lo stallo fa venire meno anche una delle prime convinzioni politiche di Mosca. E cioè che la popolazione russofona della città viene incontro ai russi facilitandone l’avanzata. Al contrario, i cittadini di Kharkiv vedono nei raid e nelle azioni delle truppe di Mosca degli atti ostili che porta loro a supportare la difesa ucraina. Peraltro l’amministrazione cittadina è retta da una giunta che, pur avendo avuto in passato legami con il Partito delle Regioni, la formazione dell’ultimo presidente filorusso Viktor Yanukovich, dal 2014 in poi prende le distanze dal Cremlino evitando l’instaurarsi di repubbliche separatiste come nel Donbass.
Uno scenario politico quindi strettamente connesso a quello militare: Kharkiv mantiene una posizione legata al governo di Kiev e dalla capitale ucraina giungono continui input affinché la città non cada in mano alla Russia.
Maggio 2022: la prima controffensiva ucraina
La situazione di stallo a nord di Kharkiv termina nei primi giorni di maggio. Gli ucraini infatti iniziano a contrattaccare e a guadagnare diverse posizioni. L’avanzata ha luogo il primo maggio e per i successivi 12 giorni le forze di Kiev rivendicano la riconquista di alcune importanti località, spingendosi in alcuni tratti anche a ridosso del confine russo.
A muoversi ancora una volta è la 92esima brigata meccanizzata, aiutata dalla 93esima. A confermare il successo del contrattacco ucraino sono i servizi segreti di Usa e Regno Unito. I russi dal canto loro sembrano preferire una progressiva ritirata ordinata, rimanendo in possesso solo di una zona cuscinetto importante per proteggere il confine.
Kiev dà il via libera alla controffensiva forse confortata dalle notizie passate dall’intelligence alleata, a partire da Washington e Londra. I servizi, in particolare, notano una certa debolezza russa nel quadrante attorno l’area urbana di Kharkiv. Una debolezza dovuta principalmente allo sforzo di Mosca attuato nell’area meridionale dell’oblast di Kharkiv, lì dove i russi a fine aprile conquistano Izyum e iniziano ad avanzare verso le aree di Lugansk e Donetsk. In qualche modo il Cremlino sembra accettare l’idea, una volta iniziato il contrattacco ucraino, di indietreggiare rispetto all’area urbana di Kharkiv.
L’azione ucraina si arresta intorno al 13 maggio, dopo aver permesso alle truppe di Kiev di riprendere in proprio possesso l’hinterland di Kharkiv e aver fatto indietreggiare verso il confine i soldati russi. Al termine del contrattacco, la seconda città ucraina non può più considerarsi “contesa” ma definitivamente in mano a Kiev. Inoltre il centro non è più a portata di artiglieria russa, con quindi un sostanziale alleggerimento della pressione bellica anche sugli stessi cittadini di Kharkiv. C’è però da sottolineare come i bombardamenti missilistici continuano a non dare tregua.
La seconda controffensiva ucraina attorno Kharkiv
Per tutta l’estate non si assiste a significative variazioni lungo la nuova linea del fronte imposta dalla controffensiva di maggio. Una nuova svolta si ha però nel secondo fine settimana di settembre. Kiev infatti dà il via libera a un nuovo contrattacco, il cui obiettivo questa volta è la riconquista dell’intera area a nord e a est di Kharkiv.
La seconda controffensiva attorno alla seconda città ucraina è figlia in realtà dell’azione ordinata dagli alti comandi militari di Kiev nella regione meridionale dell’oblast’ di Kharkiv. Qui, tra l’8 e il 12 settembre in poche ore gli ucraini riprendono tutti i territori persi a vantaggio dei russi tra aprile e maggio. Le truppe ucraine entrano infatti a Izyum e in tutte le altre città a ovest del fiume Oskil, costringendo le forze di Mosca a una frettolosa ritirata verso est.
Forti del successo del contrattacco a sud di Kharkiv, domenica 11 settembre i soldati agli ordini del presidente Zelensky si muovono verso le posizioni russe a nord della città. In poche ore l’intero territorio posto tra il confine con la federazione russa e il fronte a ridosso di Kharkiv risulta tornato in mano ucraina.
La città non solo, come dopo la prima controffensiva di maggio, non ha più forze russe vicino l’area urbana, ma adesso assiste all’indietreggiamento di Mosca da tutta la regione a sé circostante. Secondo molti analisti, in questo modo può dirsi conclusa la battaglia di Kharkiv iniziata il 24 febbraio 2022.
I bombardamenti russi di fine anno colpiscono anche Kharkiv
Come a Kiev e a Kherson, altre città da dove i russi si sono ritirati oppure, come nel caso della capitale ucraina, in cui hanno dovuto rinunciare all’attacco, anche a Kharkiv sul finire del 2022 vengono registrati numerosi bombardamenti. Centrali elettriche ed infrastrutture energetiche sono costantemente prese di mira, con le autorità costrette a razionare l’erogazione di energia.
Kharkiv è costretta così a patire un inverno rigido affrontato senza riscaldamenti e con gravi disagi per i propri cittadini. La città non sente più i rumori dell’artiglieria, essendo i russi oramai lontani. Tuttavia subisce gli effetti del conflitto tramite bombardamenti e carenze di servizi basilari. La situazione al suo interno viene descritta come molto critica.
Ad ogni modo, sotto il profilo strettamente militare, il suo territorio è saldamente in mano ucraina con l’esercito di Kiev che ne mantiene il controllo. Questo nonostante, all’inizio del conflitto, nei piani di Mosca la presenza di una solida minoranza russofona doveva garantire appoggio alle operazioni del Cremlino. In realtà, anche alla luce degli esiti della battaglia, la popolazione di Kharkiv sembra aver scelto di rimanere vicina alle istituzioni ucraine.
MAURO INDELICATO
“Così la Nato uccide l’Europa” il 20 Febbraio 2023 su Inside Over.
Dopo esser entrato nel Kgb, Vladimir Putin passò cinque anni di servizio a Dresda, nella Repubblica democratica tedesca. Qui ebbe accesso a numerosi documenti (il suo era infatti un lavoro di “desk”), riguardanti sia la politica occidentale che quella dell’Urss.
In un’intervista concessa alla Bild, il presidente russo ha mostrato un documento inedito che riporta un colloquio del 1990 tra dirigenti sovietici (Mikhail Gorbachev e Valentin Mikhaylovich) e politici tedeschi (Hekmut Kohl ed Egon Bahr) in cui viene delineato il futuro politico dell’Europa.
Quello portato da Putin è un documento interessante perché dimostra come, all’inizio degli anni Novanta, si stava pensando alla creazione di un’Europa indipendente – se vogliamo equidistante – sia dalla Nato che dall’Urss. Bahr in quel colloquio disse: “Se con la riunificazione della Germania, non si faranno passi risolutivi sulla divisione dell’Europa in aree di interesse, lo sviluppo degli eventi può portare l’Urss ad un isolamento internazionale”.
In pratica, come spiega Putin, Bahr stava parlando “della necessità di formare al centro dell’Europa una nuova Unione che non si sarebbe dovuta avvicinare alla Nato. (…) Un’Unione separata con la partecipazione sia degli Usa che dell’Urss”.
Prosegue Bahr: “La Nato come organizzazione, soprattutto nella sua componente militare, non deve ampliarsi militarmente nell’Europa centrale”. Ed era questa – sottolinea Putin nell’intervista – la chiave per porre fine alla Guerra fredda. Non solo, sembra dire Putin: attualizzando il pensiero di Bahr si eviteranno contrasti tra Russia e Nato anche in futuro.Non a caso il conflitto tra Federazione Russa e Nato si è inasprito con la questione ucraina o, più recentemente, con il tentativo di portare il Montenegro nella Nato. Giustamente Sergio Romano ha scritto sul Corriere della Sera: “Invece di rinnovare le sue finalità, la Nato è diventata il braccio militare degli Stati Uniti […] e si è allargata sino a includere fra i suoi soci gli Stati che appartenevano al patto di Varsavia, tre repubbliche ex-sovietiche, due repubbliche ex jugoslave”. Una provocazione chiara. Ma per pensare a una pace efficace e duratura tra Russia e Occidente è necessario un ripensamento della politica della Nato.
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A un anno dall’invasione. La nostra colpa peggiore sta in tutto quello che non abbiamo voluto imparare. Francesco Cundari su L’Inchiesta il 21 Febbraio 2023.
Dal 24 febbraio in poi, anche l’osservatore più distratto ha avuto tutte le controprove possibili: su chi diceva la verità e chi mentiva, su chi era l’aggressore e chi l’aggredito, su chi torturava e uccideva civili innocenti e chi tentava di difenderli. E su chi negava sistematicamente l’evidenza
Con l’avvicinarsi del primo anniversario dell’invasione russa, giustamente, in molti hanno cominciato a rilanciare sui social network le infelici previsioni pronunciate un anno fa, alla vigilia dell’attacco, da tanti autorevoli analisti, politologi e geopolitologi. È sempre istruttivo riascoltare o rileggere il superiore disprezzo con cui si liquidavano le «fake news» americane circa un inesistente piano d’invasione russa dell’Ucraina, l’incrollabile assertività con cui si garantiva che in ogni caso gli Stati Uniti non ne avrebbero mai preso le difese, il tono oracolare con cui si tracciavano futuri scenari in cui Vladimir Putin non si sarebbe nemmeno sognato di spostare un carrarmato ed era semmai la Nato a provocare, accerchiare, assediare la pacifica Russia.
Rileggere e riascoltare tutto questo è sempre istruttivo, certo, ma non decisivo. A ben vedere, non ci dice nulla – dei nostri esperti, dei nostri giornalisti e in fondo dell’Italia – che non sapessimo già.
Più significativo mi pare quello che è accaduto dopo. Fino al 24 febbraio, infatti, almeno per chi esperto non era e non aveva mai pensato di doverlo diventare, era più che lecito non conoscere la genesi e tutti i dettagli degli accordi di Minsk o del conflitto nel Donbas, avere un’idea vaga dello stesso regime di Putin e magari anche prenderne per buoni alcuni argomenti: dalla lotta al terrorismo islamico, con cui si erano coperte fino a quel momento molte delle peggiori atrocità commesse in patria e all’estero, fino alla necessità di ricostruire un Paese uscito a pezzi dalla crisi dell’Unione sovietica.
Certo, c’era già stata l’occupazione della Crimea nel 2014. Ma fino a quel momento poteva apparire ragionevole anche una certa diffidenza nei confronti del ruolo giocato dagli Stati Uniti e dall’occidente in generale nei rapporti con la Russia, considerando la piega che avevano preso gli eventi ai tempi di Boris Eltsin, rispetto ai quali la leadership di Putin poteva anche apparire come un passo avanti, come il tentativo di ristabilire un principio di ordine, dinanzi allo spettacolo di un Paese in cui i cittadini comuni erano ridotti alla fame e piccoli gruppi di affaristi spuntati dal nulla si trasformavano in multimiliardari spartendosi le ricchezze nazionali.
Non faccio l’elenco completo di tutti gli argomenti della propaganda putiniana perché ormai li sappiamo tutti a memoria. Il punto è che, per le ragioni qui sommariamente ricordate, fino al 24 febbraio la situazione poteva anche presentarsi, perlomeno agli occhi di un osservatore distratto, come un dilemma. Ma non dopo.
Dal 24 febbraio in poi, anche il meno esperto e il più disattento degli osservatori ha avuto la controprova, ha avuto tutte le controprove che potesse desiderare: su chi diceva la verità e chi diceva il falso, su chi era l’aggressore e chi l’aggredito, su chi torturava, stuprava e faceva strage di civili innocenti e chi tentava solo di difendersi. E su chi, puntualmente, tentava di negare o mettere in dubbio ciascuna di quelle tragedie, che sarebbero poi state ampiamente documentate da centinaia di riprese via telefonino e via satellite, da intercettazioni telefoniche e da documenti di ogni genere, nonché dalle dirette testimonianze di giornalisti indipendenti provenienti da ogni parte del mondo.
A chiamare in causa la coscienza di ciascuno di noi non è solo la classica domanda: come abbiamo fatto a non accorgerci prima di quanto stava per accadere? Il peggio è che, dopo aver visto e avere saputo e avere avuto la prova e la dimostrazione di tutto, abbiamo continuato a fingere di non vedere e di non capire.
Abbiamo continuato a intervistare gli stessi esperti del giorno prima, senza mai chiedere conto dei fatti del giorno dopo, delle loro previsioni completamente sballate e delle loro analisi distorte, lasciando anzi che continuassero implacabilmente a sbagliarle tutte, e sempre ovviamente nella stessa direzione: così la Russia che fino al 24 febbraio mai e poi mai avrebbe invaso l’Ucraina dal 25 avrebbe vinto in due settimane al massimo, e così via. E più analisi, previsioni e commenti apparivano clamorosamente smentiti dalla realtà, più insistevamo, e ancora insistiamo, a non prenderne atto e a non chiederne conto a nessuno.
Piuttosto continuiamo a presentare la questione avvolta in una nebbia di considerazioni politiche e geopolitiche che sono un misto di vere e proprie falsità costruite dalla propaganda russa e affermazioni di banale buon senso che potevano reggere prima del 24 febbraio. Ma dal 24 febbraio 2022 è passato un anno. Un anno in cui abbiamo potuto osservare in diretta, minuto per minuto, l’invasione e il tentativo di soggiogare un intero Paese. Un anno in cui a Bucha e in gran parte delle città liberate dalla controffensiva ucraina abbiamo visto le fosse comuni, le camere di tortura e tutte le atrocità commesse contro la popolazione civile. Di cosa ancora dobbiamo discutere?
La nostra colpa più grave sta in quello che non abbiamo voluto imparare. Sta in quello che ci ostiniamo a non volere imparare. Se ci mettessimo a rileggere e riascoltare una a una analisi e previsioni di quest’anno, ci sarebbe ampia materia per un severo esame di coscienza.
Un anno di una guerra che non avrà vincitori. Stefano Piazza su Panorama il 24 Febbraio 2023. Colloquio con Maurizio Boni, Generale di Corpo d’Armata, Leonardo Tricarico, Generale di Squadra Aerea e Giorgio Battisti Generale di Corpo d’Armata sullo stato della battaglia sul campo
La Russia ha invaso l'Ucraina il 24 febbraio 2022, in quella che definisce «una operazione militare speciale per denazificare il paese e proteggere i russofoni». In realtà sappiamo che non è stato altro che un accaparramento di terre dove sono stati commesse indicibili atrocità e crimini di guerra. L'ufficio per i diritti umani delle Nazioni Unite ha dichiarato lunedì di aver registrato 7.199 morti civili e 11.756 feriti dall'invasione russa del 24 febbraio, principalmente a causa di bombardamenti, attacchi missilistici e aerei. Tuttavia, si ritiene come scrive la Reuters che la cifra effettiva sia molto più alta. Morti
Almeno 42’295 persone Ferite non mortali Almeno 56’756 persone Dispersi Almeno 15’000 persone Profughi Circa 14 Mln persone Edifici distrutti Almeno 140’000 Danni materiali Circa 350 Mrd USD Nella sola giornata di sabato 11 febbraio, riporta il ministero della Difesa ucraino su Twitter, la Russia ha perso 900 uomini, mentre dall'inizio dell'invasione il 24 febbraio 2022 sono morti in Ucraina circa 137.780 soldati russi. Ne parliamo con: Leonardo Tricarico è un generale di Squadra Aerea che ha ricoperto nella sua lunga carriera, anche l'incarico di Capo di Stato Maggiore dell'Aeronautica militare italiana. Maurizio Boni è un Generale di Corpo d’Armata. Nella sua carriera molte le missioni all’estero tra le quali è stato Capo di Stato Maggiore del NATO Rapid Deployable Corps (Italia). Giorgio Battisti Generale di Corpo d’Armata. Ha partecipato alle operazioni in Somalia (1993), in Bosnia (1997) e in Afghanistan.
In un anno di guerra in Ucraina il mondo è peggiorato, compreso ciascuno di noi. Andrea Soglio su Panorama il 24 Febbraio 2023
Un anno fa la Russia invadeva l'Ucraina portando la guerra in Europa. Oggi ci siamo dimenticati dei morti e litighiamo come dei tifosi di calcio
È passato esattamente un anno dall’inizio dell’invasione della Russia in Ucraina. Non è un caso che abbiamo usato il termine «invasione» e non guerra; perché non dobbiamo mai dimenticare che la mattina del 24 febbraio 2022 (data che resterà di certo nei libri di storia) un paese ha deciso di invadere un’altra nazione, a lui confinante, cercando di conquistarlo con la forza delle bombe, dei carri armati, dei missili a lungo raggio e dei soldati. Anzi, non è stato un paese, ma un uomo, Vladimir Putin, a volere l’invasione dell’Ucraina. Ma oggi non è il momento di pensare a colpevoli ed innocenti, a chi ha ragione e chi invece torto. Oggi per prima cosa dobbiamo pensare che in un anno le vittime di questa follia sono state circa mezzo milione. Su questo Kiev e Mosca non hanno mai rilasciato comunicazioni ufficiali perché sanno che fare il conteggio dei morti è la cosa più dolorosa in assoluto. Di questo ci si vergogna. In realtà ogni giorno il ministero della difesa di Kiev pubblica l’elenco degli aerei abbattuti, dei carri armati distrutti, dei droni eliminati dall’antiaerea. E anche il presunto numero di soldati russi uccisi; ad oggi siamo a quota 146 mila. E lo stesso per logica dovrebbe essere accaduto dall’altra parte della barricata. Poi ci sono i civili. Una strage, in Europa. Purtroppo la seconda considerazione è che il tempo, questi 12 mesi, ci hanno anestetizzato. Ci siamo abituati ai video dei missili sulle case, alle scuole ed agli ospedali distrutti dai bombardamenti, ai corpi per strada. Abbiamo capito ad esempio che il massacro immotivato di civili a Bucha è stato un crimine contro l’umanità dopo averla negata o raccontata come propaganda di Kiev, e nessuno ha battuto ciglio. Nessuno ha detto: «Scusate, ci eravamo sbagliati». Siamo anestetizzati, assuefatti. Oggi vorremmo che la guerra finisse non solo per far cessare il dolore ma anche per far tornare la benzina ai prezzi di un anno fa, far calare l’inflazione e far crescere l’economia, che dopo la pandemia aveva nel 2022 l’anno della grande rivincita. E ci nascondiamo dietro una parola bellissima, Pace. Parola che è stata utilizzata come scudo e per certi versi persino «violentata», Ci sono persone, opinionisti, politici, gente comune, convinti, anzi certi, che ci sia qualcuno davvero contento di fare la guerra; qualcuno a cui la morte ed il dolore piace. Su tutti il Presidente Usa, Biden, ovviamente lo stesso dicasi per Putin ma anche Giorgia Meloni. Ci sono persone ed opinionisti che da 12 mesi raccontano che «bisogna aprire un tavolo per la Pace», ed è fatta. Come se fosse un invito a cena, o ad un matrimonio. Ci sono persone per cui dietro la parola Pace in realtà si nasconde il termine «resa». D’altronde l’Ucraina è lontana e se invece del loro governo democraticamente eletto arriva un regime straniero a comandare, chissenefrega. Sono fatti loro. Ci sono poi quelli che alla parola Pace aggiungono un aggettivo: «giusta». Capite bene come uscirne sia praticamente impossibile. Abbiamo accennato al nostro Presidente del Consiglio cui va dato il merito in questi 6 mesi di governo di aver rispettato la parola e la posizione presentata agli italiani in campagna elettorale ed in continuità con l’esecutivo precedente.
Atlantista e pro Zelensky fu Mario Draghi, atlantista e pro Ucraina è anche la leader di Fratelli d’Italia. E tutto questo malgrado qualche alleato della maggioranza non faccia più mistero della propria opinione, sempre più lontana da quella di Palazzo Chigi. Giorgia Meloni magari un giorno cambierà idea, ma questo succederà se e solo se sarà la Nato e l’Europa intera a farlo. Altrimenti la strada è segnata e non si torna indietro perché l’Italia non può più rimangiarsi la parola data al mondo. Nell’avvicinarsi dell’anniversario dell’invasione russa abbiamo letto e sentito il parere di numerosi generali e militari che ci raccontano del fango, il pantano, un simbolo di questa guerra. I due eserciti faticano ad avanzare bloccati dalla melma dei campi di grano il cui ghiaccio si sta sciogliendo. Tutto fermo, tutti in trincea sul campo di battaglia come nella diplomazia. Abbiamo sentito negli ultimi giorni una sequela di frasi fatte e già ripetute mille volte dai principali leader del mondo, buone solo per la propaganda di una o dell’altra parte. Ormai è chiaro che si tratta di una guerra mondiale, anzi, di un problema mondiale. A fianco della Russia si è schierato da mesi l’Iran (altro regime che nel 2022 ha vissuto uno dei suoi anni più bui con la protesta delle donne e le decine di giovani ragazze uccise per un velo non indossato) e forse, lo sostiene la Cia, anche la Cina (che dall’altra parte del globo ha il problema Taiwan da risolvere, magari seguendo proprio la strategia usata dal Cremlino con l’Ucraina). Dall’altra c’è l’occidente che però sembra avere il fittone e che soprattutto si è accorto di essere «minoranza» in un mondo dove le democrazie sono sovrastate per numero de regimi e monarchie varie. È passato un anno e di sicuro il mondo è molto peggiore di quanto fosse 12 mesi fa. Mentre noi, impegnati a fare il tifo come allo stadio contro Putin o contro Zelensky ci dimentichiamo che anche domani poco meno di duemila persone moriranno.
Ucraina, un anno di guerra, lo speciale della «Gazzetta»: «Luce su una tragedia che non deve lasciare indifferenti». Analisi, punti di vista e storie nel tentativo di aiutare il lettore a capire meglio uno scenario che ci riguarda ogni giorno di più. OSCAR IARUSSI su La Gazzetta del Mezzogiorno il 24 Febbraio 2023
Un abbraccio, anzi l'abbraccio. Un militare ucraino si accomiata dalla madre nello straordinario scatto del fotoreporter barese Lorenzo Turi, datato aprile 2022. Siamo nel villaggio di Ukrainka, oblast' di Mykolaïv-Nicolaev (in omaggio a San Nicola), non lontano da Cherson invasa dall'esercito russo la mattina del 24 febbraio 2022, giusto un anno fa. Cherson sorge sulla riva destra dell'estuario del Dnepr, a una trentina di chilometri dal Mar Nero. Dopo oltre otto mesi di occupazione, il 12 novembre 2022 è stata liberata dalla controffensiva ucraina, però continua tutt'oggi a essere bombardata. I testimoni la descrivono come una città fantasma: contava circa trecentomila abitanti (più o meno quanto Bari), adesso ne saranno rimasti forse trentamila ad aggirarsi fra le rovine. Sono due "fantasmi" anche il soldato e la mamma che si stringono. Non vediamo i loro volti ed è uno dei motivi per cui abbiamo scelto questa immagine: corpi, carne, sangue, calore, pensieri, paure, sentimenti, parole sussurrate... Ma non abbiamo il diritto di violare il riserbo di persone che hanno già perso tutto. Vero è che il presidente ucraino Zelensky, da ex attore qual è, ha fatto dell'esibizione ossessiva di sé e del suo popolo un'arma mediatica importante presso l'opinione pubblica mondiale, tuttavia a chi è in guerra è concesso quel che lo "spet-tatore" non dovrebbe permettersi. Invece nel corso dell'ultimo anno abbiamo spesso peccato di impudicizia televisiva "davanti al dolore degli altri", per dirla con un titolo della grande scrittrice Susan Sontag.
Il conflitto parrebbe a una terribile svolta, si allarga lo scenario dei nemici e altri fantasmi si sono palesati o si stagliano all'orizzonte: da un lato la determinazione statunitense che profitta dell'impotenza europea e del tramonto della terzietà dell'ONU, dall'altro il possibile ruolo della Cina "dietro" la sagoma neo-zarista di Putin. In questo "speciale" della Gazzetta proponiamo analisi, punti di vista e storie nel tentativo di aiutare il Lettore a capire meglio una tragedia che ci riguarda ogni giorno di più, a dispetto dell'indifferenza crescente. Si dice Ucraina, ma parliamo anche del Mediterraneo e quindi di casa nostra. Siamo d'accordo con i governi Draghi e Meloni: è giusto schierarsi dalla parte degli invasi e degli oppressi, è legittimo armarne la resistenza come gli alleati angloamericani armarono i partigiani italiani contro il nazifascismo. D'altro canto, è altrettanto doveroso cercare una via per la Pace, forse il sentiero nascosto che si addice alla diplomazia, fino a raggiungere quel soldato e quella madre. Fino a ritrovarne l'abbraccio, se sono ancora vivi.
Un anno di bugie. La disinformazione della Russia contro l’Ucraina (e quelli che ci cascano). Olga Tokariuk su L’Inkiesta il 24 Febbraio 2023
La fake news del Cremlino nei prossimi mesi continueranno ad alimentare la narrazione dell’alto costo del sostegno a Kyjiv e della stanchezza psicologica nei confronti del conflitto. Ma non è detto che saranno efficaci
Uno dei luoghi comuni preferiti del Cremlino per anni, l’affermazione che l’Ucraina è “piena di nazisti”, è stata una delle motivazioni addotte da Vladimir Putin per la sua “operazione militare speciale” del 24 febbraio dello scorso anno. La necessità di “denazificare l’Ucraina” si è poi estesa ad altri obiettivi nel suo discorso ufficiale, ma questa narrazione, presente nella propaganda di Mosca almeno dall’invasione russa del Donbas e dall’annessione della Crimea nel 2014, ha trovato il favore del popolo russo. Gran parte della popolazione russa sostiene ancora la guerra e la continua propaganda disumanizzante sull’Ucraina ha giustificato e permesso l’attuale genocidio.
La manciata di media indipendenti russi rimasti è stata costretta all’esilio e per loro è una lotta continua per superare la macchina della propaganda del Cremlino, che rimane la fonte primaria di informazione per la maggior parte dei russi. Sebbene i media indipendenti in esilio cerchino di riportare in modo più o meno oggettivo ciò che accade in guerra, rimangono dubbi sull’uso talvolta compassionevole del loro linguaggio nei confronti dei soldati russi, come dimostrato di recente dalla controversia che ha visto Rain TV privata della sua licenza dalle autorità lettoni.
Il fallimento del Cremlino nel convincere gli ucraini
In Ucraina, la resistenza alla propaganda e alla disinformazione russa, sviluppata dal 2014, ha aiutato il Paese a evitare il caos informativo nel 2022. Le stazioni televisive filorusse sono state tolte dalla circolazione non appena è iniziata l’invasione e la maratona televisiva United, lanciata da alcune delle più importanti emittenti nei primi giorni di guerra, ha fatto sì che gli ucraini avessero informazioni affidabili 24 ore su 24 da parte di presentatori televisivi ed emittenti che conoscevano e di cui si fidavano. Questa iniziativa ha inoltre contribuito a contrastare le informazioni non verificate e i post dannosi sui social media da parte dei tirapiedi del Cremlino nella fase iniziale della guerra. Fake news che avrebbero potuto scatenare il panico e ostacolare la capacità di resistere alla avanzata iniziale della Russia.
Con il proseguire della guerra, sono sorti interrogativi sull’opportunità di mantenere la maratona televisiva, sempre più giudicata come troppo filogovernativa e fonte solo di buone notizie. Tuttavia i media ucraini, che hanno affrontato sfide significative nel 2022 (secondo l’Istituto per l’informazione di massa, più di 200 punti vendita sono stati costretti a chiudere a causa della bancarotta o dell’occupazione russa), rimangono diversi e vivaci. C’è spazio per il dibattito e i giornalisti ucraini non solo hanno raccontato la guerra e denunciato i crimini di guerra russi, ma hanno anche portato alla luce esempi di corruzione ucraina.
Le operazioni di disinformazione della Russia in Ucraina dopo l’invasione sono in gran parte fallite. Molti ucraini che un tempo simpatizzavano con la Russia hanno cambiato opinione dopo aver assistito e sperimentato le atrocità dell’esercito russo, e i russofoni sono passati alla lingua ucraina nella loro vita quotidiana, spinti dal desiderio di tagliare tutti i legami con tutto ciò che è russo.
La disinformazione russa inciampa in Occidente
La Russia non è riuscita finora a convincere le popolazioni e i governi occidentali della necessità dell’invasione, né a minare la loro unità nel sostenere l’Ucraina. Al contrario, il sostegno dell’opinione pubblica occidentale è rimasto notevolmente solido tra aprile e gennaio di quest’anno, esprimendo una diffusa disponibilità a sopportare l’aumento dei prezzi dell’energia a causa dell’aggressione russa. Secondo un sondaggio di Ipsos su 28 Paesi «la piena maggioranza della popolazione di Stati Uniti, Canada, Regno, Francia, Paesi Bassi e Polonia sostiene la fornitura di armi e/o sistemi di difesa aerea alle forze armate ucraine da parte del loro Paese».
Il sostegno militare dell’Occidente all’Ucraina è in costante aumento dal febbraio 2022 e la posizione ufficiale è che continuerà «finché sarà necessario», come ha sottolineato il presidente Joe Biden durante la sua visita a Kyjiv il 20 febbraio. I tentativi russi di negare i propri crimini di guerra a Bucha e altrove, così come i successi delle controffensive militari ucraine, hanno solo rafforzato questa determinazione.
Alcune narrazioni distorte, tuttavia, hanno avuto risonanza presso alcuni politici e parti dell’opinione pubblica occidentale. In Italia, ad esempio, il sostegno pubblico all’invio di armi all’Ucraina sta diminuendo, dopo mesi di retorica da parte dei partiti della coalizione del governo Meloni, in particolare Matteo Salvini e Silvio Berlusconi, politici noti per gli stretti legami prebellici con il Cremlino, nonché del Movimento 5 Stelle all’opposizione e degli opinionisti filorussi nei media. La Russia cercherà di sfruttare queste divisioni per minare l’unità dell’Unione europea e della NATO in Ucraina.
La Russia ha utilizzato altre narrazioni in Occidente e continuerà a farlo nel 2023. Per esempio, evidenziare il costo economico del sostegno all’Ucraina per i contribuenti occidentali; screditare il governo e i vertici militari ucraini facendoli passare come corrotti, avidi e ingrati; fomentare il risentimento per i rifugiati ucraini nei Paesi che ne hanno ospitato la maggior parte (Polonia, Germania, ecc.); incoraggiare la stanchezza psicologica verso la guerra e la stanchezza morale nel sostenere l’Ucraina.
La Russia trova sostegno nel mondo non occidentale
Nei Paesi del Sud globale, tra cui India, Brasile e alcuni Stati africani, così come la Turchia, membro della NATO, le operazioni di disinformazione russa hanno avuto un parziale successo. In molti di questi luoghi i canali di propaganda russi, come RT e Sputnik, non sono stati limitati, a differenza di quanto avviene in Occidente, e i funzionari russi e i loro sostenitori hanno accesso incontrastato ai media locali.
La Russia sfrutta i sentimenti anti-occidentali e anti-imperialisti dei Paesi in via di sviluppo, dipingendosi come “vittima della NATO” e come alternativa all’Occidente imperialista (Stati Uniti, Regno Unito, Francia, ecc.) e promuovendo relazioni diplomatiche e commerciali di reciproco vantaggio, un argomento importante per molti Paesi in via di sviluppo che devono affrontare sfide economiche e provvedere al sostentamento delle loro popolazioni in crescita. Alla Russia, questo serve a presentare sé stessa come parte della comunità globale, come un Paese che non è isolato ma ha ancora amici sulla scena mondiale.
Nel Sud globale, la Russia manipola anche la narrazione del presunto razzismo degli ucraini e degli occidentali. Ad esempio, sfrutta le tensioni per il trattamento più favorevole riservato ai rifugiati ucraini rispetto a quelli provenienti da Africa, Medio Oriente o America Latina.
Quale sarà il prossimo passo?
Con l’inizio del secondo anno della guerra russa contro l’Ucraina, è prevedibile che le campagne di disinformazione e influenza del Cremlino si intensifichino. Molto probabilmente saranno più sofisticate e più sfumate, mirando al pubblico di specifici Paesi ritenuti più suscettibili.
L’obiettivo primario è quello di minare l’unità dell’Occidente e la sua solidarietà con l’Ucraina, concentrandosi sull’interruzione del sostegno militare. In altre parti del mondo, gli sforzi di disinformazione del Cremlino saranno finalizzati a favorire la ricerca di alleati che aiutino la Russia a consolidare la reputazione internazionale di potenza forte, inserita nella comunità internazionale nonostante la guerra all’Ucraina.
Per quanto riguarda gli argomenti di queste campagne di disinformazione, dobbiamo aspettarci maggiori sforzi per screditare il governo, le forze armate e la società civile ucraina. Ci si concentrerà sempre di più sull’alto costo percepito del sostegno all’Ucraina, sullo sfruttamento della stanchezza della guerra e sul dissenso per i rifugiati ucraini all’estero.
Articolo pubblicato in inglese su Center for European Policy Analysis
Tra le palazzine a fuoco. No, noi ucraini non ci abitueremo mai alla guerra (e speriamo ci sia solo un anniversario). Yaryna Grusha Possamai su L’Inkiesta il 24 Febbraio 2023
A un anno dalla sciagurata invasione della Russia nessun ucraino sta facendo quello che voleva fare nella vita. Ognuno porta i segni del conflitto, quelli visibili e quelli nascosti