Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

 

ANNO 2023

L’ACCOGLIENZA

SECONDA PARTE

L’ATTACCO

DODICESIMO MESE

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

 

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2023, consequenziale a quello del 2022. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

L’ACCOGLIENZA

INDICE PRIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

GLI EUROPEI

Confini e Frontiere.

Quei razzisti come gli italiani.

Quei razzisti come i serbi.

Quei razzisti come i greci.

Quei razzisti come gli austriaci.

Quei razzisti come i croati.

Quei razzisti come gli spagnoli.

Quei razzisti come i francesi.

Quei razzisti come i tedeschi.

Quei razzisti come gli olandesi.

Quei razzisti come i danesi.

Quei razzisti come i finlandesi.

Quei razzisti come gli svedesi.

Quei razzisti come gli inglesi.

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

GLI AFRO-ASIATICI

 

Quei razzisti come i zambiani.

Quei razzisti come i zimbabwesi.

Quei razzisti come i ghanesi.

Quei razzisti come i gabonesi.

Quei razzisti come i marocchini.

Quei razzisti come i tunisini.

Quei razzisti come gli egiziani.

Quei razzisti come i libanesi.

Quei razzisti come gli israeliani.

Quei razzisti come i turchi.

Quei razzisti come gli iraniani.

Quei razzisti come gli yemeniti.

Quei razzisti come gli afghani.

Quei razzisti come i pakistani.

Quei razzisti come gli indiani.

Quei razzisti come gli indonesiani.

Quei razzisti come i birmani.

Quei razzisti come i bielorussi.

Quei razzisti come i russi.

Quei razzisti come i kazaki.

Quei razzisti come i nord coreani.

Quei razzisti come i cinesi.

Quei razzisti come i giapponesi.

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

GLI OCEAN-AMERICANI

 

Quei razzisti come gli statunitensi.

Quei razzisti come i messicani.

Quei razzisti come i cubani.

Quei razzisti come i brasiliani.

Quei razzisti come i peruviani.

Quei razzisti come i canadesi.

Quei razzisti come i neozelandesi.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. UNDICESIMO MESE

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. DODICESIMO MESE

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. TREDICESIMO MESE. UN ANNO DI AGGRESSIONE

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. QUATTORDICESIMO MESE

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. QUINDICESIMO MESE

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. SEDICESIMO MESE

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITI PROFUGHI E FOIBE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Giorno del Ricordo.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI. (Ho scritto un saggio dedicato)

I Migranti.

Gli affari dei Buonisti.

Quelli che…porti aperti.

Quelli che…porti chiusi.

Cosa succede in Libia.

Cosa succede in Africa.

Gli ostaggi liberati a spese nostre.

Il Caso dei Marò & C.

 

 

 

 

 

 

L’ACCOGLIENZA

SECONDA PARTE

L’ATTACCO

DODICESIMO MESE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. DODICESIMO MESE

C’è una guerra combattuta e una guerra comunicata con un rischio: l’assuefazione. Tra meno di un mese, il 24 febbraio, la guerra di aggressione in Ucraina accenderà la sua disgraziata candelina dell’anno compiuto. Pino Pisicchio su La Gazzetta del Mezzogiorno il 28 Gennaio 2023.

Tra meno di un mese, il 24 febbraio, la guerra di aggressione in Ucraina accenderà la sua disgraziata candelina dell’anno compiuto. Ci teniamo lontani dalla profusione delle articolesse che andranno a celebrare la piccola e ingloriosa memoria, concedendoci, con un largo anticipo sulla ricorrenza e la benevolenza della Gazzetta, solo una domanda. Questa: come è stata «comunicata» questa drammatica vicenda che ha falcidiato almeno una generazione di giovani di tutte e due le parti in campo - si conterebbero 100 mila morti -, che ha fatto di città intere cumuli di macerie ed ha lasciato a terra, insieme al fumo e alla puzza degli incendi, anche l’ultimo brandello di umanità?

Si badi: non si ragiona in questo piccolo articolo, dei torti e delle ragioni, perché c’è poco da sofisticare quando hai di fronte un Paese invasore ed uno invaso. Ma forse val la pena capire la parte che ha avuto la comunicazione nell’era ad essa dedicata. E allora cominciamo col ricordare che persino la guerra dietro casa, purché non sia a casa, in un ambiente subissato di flussi informativi, subisce la stessa parabola di tutte le notizie troppo insistite e troppo dilatate nel tempo.

L’attenzione, la condivisione, la pietas, persino quella non commendevole pruderie che per qualche ragione cattura l’interesse e la curiosità della gente al cospetto delle tragedie, di fronte al protrarsi del fatto calano fino a tradursi in qualcosa che a che fare con l’overdose. E qui non è il venir meno della solidarietà umana: è la naturale caduta d’attenzione di fronte alla notizia, che sembra sempre uguale, reiterata all’infinito.

Perché l’idea stessa di un conflitto permanente ripone il conflitto stesso nello scenario della ordinarietà e dunque lo archivia, facendo prevalere sull’orrore e l’indignazione, l’assuefazione. C’è poco da fare: la nutrita squadra giovani reporter televisivi dal fronte (è la rivincita della Tv sul digitale) che ogni giorno manda in onda l’intervista sul campo, si iscrive nella percezione del pubblico quasi nella cornice di una rubrica, che sta lì nel palinsesto quotidiano come stanno le previsioni del tempo. Non è una buona cosa perdere l’indignazione per la guerra, anche perché il precipitato di tutto questo diventa la tiepidezza con cui la pubblica opinione può accogliere le scelte della politica occidentale di sostenere lo sforzo bellico ucraino.

L’unico che resta sul registro dell’indignazione sincera senza mai smarrire l’ammaestramento della gutta cavat lapidem, è Papa Francesco. Ma la vera e propria novità di questa guerra è stata indubbiamente la comunicazione di Zelensky, che ha governato i new media con una sapienza ed un rendimento assolutamente sconosciuti prima di lui.

Presente in streaming nei parlamenti mondiali, alle Nazioni Unite, in tutti i consessi istituzionali e al tempo stesso nei luoghi dove il rimbalzo mediatico, il detournement ( lo «sviamento»), che tanto sarebbe piaciuto a Debord, diventa persino clamoroso. Che sia la serata degli Oscar, o un evento sportivo globale, o il festival di Sanremo, il presidente ucraino non ha trascurato una sola occasione per manifestarsi al pubblico mondiale, ed uso l’espressione «pubblico» con accuratezza, perché di quello si tratta quando ci si affaccia ad una platea di persone che si riuniscono per assistere ad uno spettacolo.

Del resto, diranno i detrattori, Zelensky nasce come attore che diventa famoso interpretando in una fiction il presidente ucraino. Sarà pure così, ma bisognerà riconoscere che, se la Russia non ha fatto un sol boccone dell’Ucraina, questo si è dovuto anche alla capacità del suo presidente-attore di scuotere la pubblica opinione globale oltre che incitare il suo popolo alla resistenza. Del resto la propaganda è elemento costitutivo della guerra, da sempre. Forse oggi questo presenzialismo non basta più e può apparire qualche volta fuori contesto, ma la colpa, se così si può dire, è di chi lo chiama per fare audience a buon mercato, vedi Sanremo. Una cosa però è certa: la guerra mediatica con Putin l’ha vinta Zelensky, molte lunghezze a zero.

Corruzione a Kiev, la purga di Zelensky, Wsj: «Usa propensi all’invio dei carri armati Abrams». Andrea Nicastro, inviato, e Redazione Online il 24 gennaio 2023 su Il Corriere della Sera.

Le notizie sulla guerra di martedì 24 gennaio. Scandalo mazzette, saltano 4 vice ministri. La Polonia chiede alla Germania di poter inviare a Kiev i Leopard, Berlino esaminerà la richiesta «con urgenza»

• La guerra in Ucraina è arrivata al 335esimo giorno.

• Passi avanti sulle forniture di carri armati: il presidente francese Macron ha dichiarato che «nulla è escluso» riguardo alla consegna dei Leclerc, e la Germania è pronta ad autorizzare la Polonia a inviare i Leopard.

• Polonia, Finlandia, Danimarca pronti a chiedere il permesso alla Germania di fornire i Leopard all’Ucraina.

Ore 21:43 - Usa: Russia ha inviato nuove truppe per rafforzare linee del fronte

La Russia ha inviato decine di migliaia di nuove truppe per rafforzare le linee del fronte in Ucraina negli ultimi mesi. Lo ha dichiarato un alto funzionario militare statunitense. Le truppe hanno fatto poca differenza nel conflitto, ha detto il funzionario, arrivando in prima linea «mal equipaggiate, mal addestrate» e «lanciate sul campo di battaglia». La Russia ha inviato le truppe come rimpiazzi o rinforzi per le unità esistenti invece di reparti di nuova organizzazione e coese. Le truppe hanno iniziato ad arrivare sul campo di battaglia in seguito alla mobilitazione dichiarata dalla Russia di 300mila nuovi membri del personale a ottobre, ha detto in seguito il funzionario. Venerdì il capo di stato maggiore delle forze armate americane, il generale Mark Milley, ha affermato che la Russia ha subito «significativamente ben oltre 100mila [vittime] ora», compresi morti e feriti in azione.

Ore 21:48 - Usa: possibilità di un annuncio da Germania

C’è la possibilità che la Germania faccia presto un annuncio riguardante la fornitura di carri armati all’Ucraina. Lo ha annunciato il portavoce del Dipartimento di Stato americano, Ned Price. «La mia impressione, avendo visto le notizie che stanno appena emergendo, è che potremmo sentire di più dai nostri alleati tedeschi nelle prossime ore, nei prossimi giorni», ha detto Price durante una conferenza stampa. Il capo della politica estera dell’Ue, Josep Borrell, ha dichiarato a inizio giornata che il ministro degli Esteri tedesco Annalena Baerbock aveva confermato in una riunione del Consiglio Affari Esteri dell’Ue che Berlino non sta bloccando la fornitura di carri armati Leopard all’Ucraina.

Ore 00:03 - Lavrov: «Guerra con Occidente diventata quasi reale»

La guerra tra Mosca e l’Occidente non può essere più classificata come «ibrida» ed ora è «quasi reale». Lo ha dichiarato il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, in una conferenza stampa dopo i colloqui con il suo omologo sudafricano, Naledi Pandor.

Ore 03:13 - Usa, prove di sostegno cinese alla Russia (media)

Gli Stati Uniti avrebbero presentato alla Cina prove della collaborazione tra aziende di Stato cinesi e la Russia nella guerra con l’Ucraina. Lo riporta il sito americano Bloomberg, secondo cui gli aiuti riguarderebbero «armi non letali» e sostegni economici. L’informazione avrebbe suscitato preoccupazioni a Washington. Finora il presidente cinese Xi Jinping ha evitato di criticare la Russia ma allo stesso tempo si è offerto di dare una mano ai negoziati di pace e ha messo in guardia dall’uso di armi nucleari. Se il presidente Joe Biden e i suoi consiglieri dovessero avere la conferma che il governo cinese ha aiutato segretamente Mosca, secondo Bloomberg, gli Stati Uniti si troverebbero nella posizione di dover decidere una risposta. Il segretario al Tesoro Janet Yellen ha incontrato la settimana scorsa il vicepremier cinese Liu He, mentre il segretario di Stato americano Antony Blinken è atteso per una visita ufficiale a Pechino a febbraio.

Ore 07:25 - Corruzione a Kiev, Zelensky annuncia arresti e spostamenti

Volodymyr Zelensky ha annunciato cambi di personale nell’amministrazione pubblica (a livelli alti e bassi) in seguito al peggior scandalo legato alla corruzione scoppiato in Ucraina dall’inizio della guerra. Il presidente non ha fatto nomi. Alleati di governo hanno parlato di persone arrestate. Zelensky ha annunciato una stretta sui viaggi all’estero di funzionari pubblici. Intanto Kyrylo Tymoshenko, vice capo del suo staff presidenziale, ha annunciato oggi su Telegram di aver chiesto a Zelensky di sollevarlo dall’incarico. «Ringrazio il presidente per la fiducia e l’opportunità di compiere buone azioni ogni giorno e ogni minuto». Domenica la polizia anti-corruzione aveva arrestato il vice ministro per le infrastrutture, sospettato di aver intascato una mazzetta di 400 mila dollari su una fornitura di generatori dall’estero lo scorso settembre. Anche il vice ministro della Difesa Viatcheslav Shapovalov ha annunciato le sue dimissioni, dopo un’inchiesta giornalistica che ha messo in luce casi di corruzione per le forniture di cibo per l’esercito. Via anche il procuratore generale aggiunto Oleksei Simonenko.

Ore 07:47 - Incontro diplomatico Usa-Kazakistan

La vicesegretaria di Stato Usa Wendy Sherman ha incontrato a Washington il rappresentante presidenziale speciale per la cooperazione internazionale del Kazakistan, Erzhan Kazhykan. Lo riferisce una nota del dipartimento di Stato Usa. La vicesegretaria ha espresso apprezzamento per il sostegno umanitario dell’ex Repubblica sovietica all’Ucraina, e ha sollecitato il Paese a diversificare le sue relazioni economiche e di sicurezza.

Ore 07:57 - Il bilancio delle vittime civili secondo l’Onu

Il bilancio aggiornato delle vittime civili in Ucraina secondo le Nazioni Unite: la guerra della Russia contro l’Ucraina ha ucciso almeno 7.068 civili e ferito almeno 11.415 dal 24 febbraio al 22 gennaio. L’Onu ha riferito che le cifre effettive sono probabilmente molto più alte, poiché le informazioni dai luoghi dove la guerra è in corso arrivano in ritardo e molte segnalazioni di vittime civili devono ancora essere confermate.

Ore 08:10 - La Finlandia: pausa nei colloqui con la Turchia per l’ammissione alla Nato

Il ministro degli Esteri finlandese ha detto che ritiene probabile una sospensione di un paio di settimane nei colloqui con la Turchia per l’entrata del suo Paese e della vicina Svezia nella Nato. «Riprenderemo quando il polverone si sarà abbassato» ha detto Pekka Haavisto. Ankara continua a porre ostacoli per l’allargamento dell’Alleanza Atlantica ai due Paesi scandinavi che vogliono entrare nella Nato temendo il vicino russo. La Nato intende procedere con la loro adesione contemporanea. Sia Stoccolma che Helsinki sono state accettate, ma per la ratifica del processo manca il via libera della Turchia; Ankara esige che cessi la protezione dei due governi nei confronti di esponenti del partito curdo Pkk e di altre organizzazioni che considera «terroristiche». Il ministro Haavisto prevede una pausa temporanea a causa delle elezioni politiche e presidenziali in Turchia, fissate per il prossimo 14 maggio. La campagna elettorale, fa capire Helsinki, è il polverone che impedisce l’avanzamento dei colloqui.

Ore 09:10 - Il segretario della Nato a Berlino: si lavora in privato

Il neoministro della Difesa tedesco Boris Pistorius riceve oggi a Berlino il segretario generale dell’Alleanza Atlantica Jens Stoltenberg: un incontro preparatorio in vista della riunione dei ministri della Difesa della Nato di metà febbraio, che affronterà anche il tema spinoso dei Leopard 2, i tank prodotti in Germania che Kiev chiede a Berlino. Per ora il governo tedesco non ha annunciato l’intenzione di fornire i tank direttamente a Kiev. In un’intervista al quotidiano «Die Welt» Stoltenberg ha espresso comprensione per l’atteggiamento del cancelliere tedesco, Olaf Scholz. Per Stoltenberg il coordinamento e la riservatezza sono importanti in questa situazione e spesso sono preferibili a più «rumorose» dichiarazioni pubbliche. Il segretario generale della Nato ribadisce però la necessità di fornire più armi pesanti all’Ucraina.

Ore 09:18 - Rimosso un altro generale russo

Il generale russo Mikhail Teplinsky sarebbe stato rimosso dalla carica di comandante di una delle forze operative russe in Ucraina: è quanto scrive il Ministero della Difesa britannico nel suo rapporto quotidiano sull’andamento del conflitto. Teplinsky — ritenuto un ufficiale capace e pragmatico — aveva guidato la ritirata russa sulla sponda orientale del fiume Dnipro nello scorso novembre. Secondo Londra il suo allontanamento sarebbe un segnale delle perduranti divisioni in seno all’alto comando russo.

Ore 10:02 - Stoltenberg sui Leopard: «Presto una soluzione»

«Sui carri Leopard nessuna novità», ha detto questa mattina il ministro della Difesa tedesco Boris Pistorius nella conferenza stampa dopo l’incontro con il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg, che da parte sua ha aggiunto: «Sui Leopard avremo una soluzione presto».

Ore 10:46 - Berlino: gli alleati possono addestrare gli ucraini sui Leopard

Il ministro della Difesa tedesco Boris Pistorius ha affermato che gli alleati, disposti a consegnare carri armati Leopard a Kiev, possono iniziare a istruire gli ucraini.

Ore 10:52 - Crosetto: decreto armi forse nelle prossime settimane

«Io leggo articoli sui giornali sugli aiuti militari all’Ucraina e non è stato scritto ancora nessun decreto, probabilmente verrà scritto nelle prossime settimane. Per adesso stiamo valutando cosa serve di più, ma non soltanto armi, ma aiuti di ogni tipo. Anche aiuti su come superare il periodo invernale e la crisi in seguito ad attacchi russi, i generatori e le tende». Lo ha detto il ministro della Difesa, Guido Crosetto, durante un incontro nella caserma nella sede del Comando legione carabinieri Sicilia per congratularsi con i militari dell’Arma per la cattura del capomafia Matteo Messina Denaro.

Ore 11:27 - Il governo di Kiev pronto a destituire 5 governatori regionali

Nella riunione di oggi, il governo ucraino valuterà la destituzione di 5 capi delle amministrazioni statali regionali. Lo rivela Ukrainska Pravda. Si tratta dei capi delle amministrazioni regionali di Dnepropetrovsk (Valentin Reznichenko), Zaporozhye (Alexander Starukh), Kiev (Aleksey Kuleba), Sumy (Dmitry Zhyvitsky) e Kherson (Yaroslav Yanushevich). Secondo i media ucraini, lo stesso Reznichenko ha chiesto le dimissioni.

Ore 11:36 - Peskov: «Niente di buono da fornitura Leopard a Kiev»

Non verrà «niente di buono» dalla fornitura di carri armati tedeschi Leopard all’Ucraina. Lo ha detto il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov citato dalla Tass.

Ore 11:46 - Kiev, si dimette viceministro per sviluppo delle comunità

Anche il vice ministro ucraino per lo sviluppo delle comunità e dei territori dell’Ucraina, Ivan Lukerya, ha scritto una lettera per annunciare le sue dimissioni. Lo comunica lo stesso Lukerya su Facebook, come riporta Ukrinform.

Ore 12:08 - Lukashenko: Kiev ci ha offerto un patto di non aggressione

L’Ucraina avrebbe offerto alla Bielorussia un «patto di non aggressione». Lo ha detto il presidente bielorusso, Alexander Lukashenko. Lo riporta Ukrainska Pravda citando l’agenzia bielorussa Belta. «Non so perché gli ucraini lo facciano — ha spiegato — da un lato, ci chiedono di non combattere con loro in nessun caso, in modo che le nostre truppe non si spostino lì. D’altra parte, preparano questa miscela esplosiva e si armano».

Ore 12:45 - Mosca sulle dimissioni a Kiev, «vampiri insaziabili»

In Ucraina è cominciata «una nuova spartizione della torta». Lo scrive sul suo canale Telegram la portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, commentando le notizie delle dimissioni di diversi dirigenti governativi ucraini nell’ambito di inchieste per presunti episodi di corruzione. Di questa torta, aggiunge la portavoce, è rimasto solo un pezzo, ma «questi vampiri insaziabili continuano a spartirselo».

Ore 12:51 - Capo della Wagner: Zelensky ha parlato con la Cia del mio assassinio

Il direttore della Cia William Burns e il presidente ucraino Volodymyr Zelensky hanno discusso di assassinare Yevgeny Prigozhin, il fondatore del gruppo privato russo di mercenari Wagner. È stato lui stesso a riferirlo, ironizzando che «è un’ottima idea». «Sono d’accordo che sia ora che Prigozhin venga cancellato. Nel caso me lo chiedessero, fornirò sicuramente assistenza», ha aggiunto il capo di Wagner su Telegram, secondo quanto riportato dall’agenzia di stampa russa Tass. L’idea che Burns e Zelensky abbiano discusso di assassinare Prigozhin era già stata avanzata la settimana scorsa da Vladimir Rogov, presidente dell’associazione «Insieme con la Russia».

Ore 12:57 - Elicottero sull’asilo di Brovary, errore del pilota nella nebbia

È stato causato da un errore del pilota lo schianto dell’elicottero nei pressi di Kiev, in cui sono morte 14 persone, compreso il ministro dell’Interno Monastirsky e alcuni bambini: lo scrive il sito ucraino di notizie Strana.ua, citando fonti che hanno rivelato i risultati preliminari delle indagini. Secondo la ricostruzione effettuata dagli inquirenti, il 19 gennaio l’elicottero stava volando troppo basso, in condizioni di scarsa visibilità — quel giorno c’era una fitta nebbia — e il pilota non ha visto in tempo utile un edificio sulla sua traiettoria. Secondo una delle fonti citata da Strana, il pilota aveva scelto questa rotta per timori di attacchi missilistici dalla Bielorussia. «C’era nebbia, non c’era sufficiente visibilità, non vedeva le luci rosse sui condomini. Quando un edificio gli si è stagliato davanti, non aveva più spazio di manovra. Improvvisamente il velivolo ha preso ad avvitarsi ed è caduto sull’asilo di Brovary».

Ore 13:14 - La Polonia ha chiesto alla Germania se può mandare i suoi Leopard a Kiev: chiederemo all’Ue rimborso per i tank

La Polonia chiederà all’Ue un risarcimento per il costo dei carri armati Leopard 2 che vuole inviare all’Ucraina. «Faremo richiesta di rimborso all’Unione Europea, sarà un’altra prova di buona volontà», ha detto il premier Mateusz Morawiecki in conferenza stampa, come riporta il Guardian. La Polonia ha chiesto a Berlino se può inviare i suoi tank in Ucraina e Morawiecki ha spiegato che spera che ci sia una rapida risposta dalla Germania. «Spero che questa risposta dalla Germania arrivi presto, perché i tedeschi stanno ritardando, schivando, agendo in un modo che è difficile da capire», ha aggiunto.

Ore 13:50 - Berlino esaminerà con la «dovuta urgenza» la richiesta della Polonia sui Leopard

Il governo tedesco vuole esaminare la richiesta della Polonia per il trasferimento di carri armati Leopard 2 di fabbricazione tedesca in Ucraina «con la dovuta urgenza». Lo ha annunciato un portavoce del governo di Berlino alla Dpa, come riportano i media tedeschi. Il portavoce ha confermato che la domanda per l’invio dei Leopard a Kiev da parte del governo polacco è stata ricevuta, aggiungendo che le richieste saranno «esaminate con la necessaria urgenza in linea con le procedure stabilite e le linee guida sull’esportazione di armi».

Ore 14:09 - Allerta aerea in tutto il Paese

Allerta aerea annunciata su tutta l’Ucraina. Lo riporta Ukrainska Pravda facendo riferimento alla mappa di allarme gestita dal governo ucraino.

Ore 14:54 - Terminata dopo 40 minuti l’allerta aerea

L’allarme era scattato a causa di un jet da combattimento russo che era partito dalla Bielorussia.

Ore 15:23 - Kiev, riserve gas e carbone sufficienti per inverno

L’Ucraina ha riserve di carbone e gas sufficienti per i restanti mesi dell’inverno nonostante i ripetuti attacchi russi che hanno danneggiato circa il 40% delle infrastrutture energetiche. Lo ha riferito il premier ucraino, Denys Shmyhal. «Per ora tutti i tentativi della Russia di far precipitare l’Ucraina nell’oscurità sono falliti», ha dichiarato, sottolineando che ci sono «riserve sufficienti per continuare e terminare la stagione di riscaldamento in modo normale» Secondo Shmyhal, l’Ucraina ha «circa 11 miliardi di metri cubi di gas e quasi 1,2 milioni di tonnellate di carbone nei depositi».

Ore 15:25 - «I russi bombardano la regione di Kharkiv, 5 feriti»

Cinque persone sono rimaste ferite in un bombardamento russo della regione di Kharkiv. Lo riporta l’ufficio del procuratore della regione, citato da Ukrinform.

Ore 16:15 - Wsj, «Usa propensi all’invio dei carri armati Abrams»

L’amministrazione Biden è propensa all’invio di un numero significativo di carri armati Abrams M1 in Ucraina. Lo rivela oggi il Wall Street Journal, citando fonti ufficiali, precisando che l’annuncio dell’invio dovrebbe essere fatto questa settimana.

Ore 16:22 - Media, Ankara rinvia negoziati per Svezia-Finlandia in Nato

I negoziati tra Turchia, Svezia e Finlandia sull’adesione alla Nato sono stati rinviati a tempo indeterminato su richiesta di Ankara: lo ha riferito una fonte all’agenzia russa Ria Novosti e lo riporta anche la tv di stato turca Trt. «Su nostra richiesta, il meccanismo tripartito tra Turchia, Svezia e Finlandia è stato cancellato a tempo indeterminato», fanno sapere i turchi. Secondo la fonte, il prossimo incontro si sarebbe tenuto a Bruxelles a febbraio.

Ore 16:29 - Gerasimov: riforme militari per fronteggiare espansione Nato

Le riforme militari annunciate dalla Russia sono una risposta alla probabile espansione della Nato all’uso dell’Ucraina da parte dell’Occidente in una guerra ibrida contro la Russia: lo ha dichiarato il capo dello Stato maggiore russo e massimo responsabile delle operazioni russe in Ucraina, generale Valery Gerasimov. “Oggi le nuove minacce sono l’ambizione espansionistica della Nato a spese di Svezia e Finlandia, così come l’uso dell’Ucraina come uno strumento per una guerra ibrida contro il nostro Paese”, ha spiegato Gerasimov intervistato dal quotidiano russo Argumenti i Fakty.

Ore 17:53 - Leopard, 12 Paesi pronti a inviarli a Kiev. Manca solo l’ok tedesco

Dodici paesi hanno accettato di fornire all’Ucraina circa 100 carri armati Leopard 2 se il governo tedesco darà il suo consenso. Lo riferisce Abc News citando un alto funzionario ucraino che ha parlato in esclusiva al canale Usa. Tali accordi, ha detto la fonte, sono stati presi durante il vertice alla base aerea americana di Ramstein in Germania.

Per esempio, Paesi come la Polonia e la Finlandia hanno già dichiarato pubblicamente di essere disposti a fornire un certo numero di Leopard, e il funzionario ha affermato che anche Spagna, Paesi Bassi e Danimarca erano disposti a fornire alcuni dei loro tank, ma era necessario il consenso della Germania affinché la coalizione procedesse sulla questione.

Ore 18:34 - Corruzione e collaborazionisti: il secondo fronte della resistenza ucraina

(Di Andrea Marinelli e Guido Olimpio) Il punto militare 343 | Dalla morte del negoziatore Denys Kirieiev, pochi giorni dopo l’invasione, alle dimissioni dei funzionari del governo, il secondo fronte ucraino è infido, pieno di ombre, rischi e minacce.

È il secondo fronte ucraino. Infido, pieno di ombre e rischi, minacce. Animato da spie, corruzione, pericoli che arrivano dall’esterno. Un episodio brutale nei giorni seguenti all’invasione. Denys Kirieiev, uomo d’affari e negoziatore diplomatico, è ucciso da agenti del controspionaggio Sbu su uno dei loro mezzi. L’imprenditore era stato arrestato perché sospettato di aver passato informazioni a Mosca. Una versione ribaltata — come ha rammentato il Wall Street Journal di recente —, racconta una vicenda in cui la vittima non ha colpito alle spalle il suo paese ma lo ha aiutato in modo decisivo. Questo ribadiscono a Kiev. Se la capitale non è caduta in mano agli occupanti è anche merito suo, perché ha svelato a Zelensky dettagli importanti sul piano d’attacco. Particolari acquisiti attraverso le sue relazioni sull’altra barricata, in campo russo. Infatti sarà poi sepolto con tutti gli onori nonostante voci e notizie che lo dipingevano come una «talpa»

Ore 18:50 - Carri armati Abrams, Usa pronti a inviarli in Ucraina: cosa cambia nella guerra?

(Di Andrea Marinelli e Guido Olimpio) Berlino ha sempre subordinato il suo eventuale sì ai Leopard all’invio dei tank americani La fornitura eliminerebbe un alibi. Intanto Kiev otterrebbe un mezzo più preciso nel tiro rispetto alle «macchine» in dotazione.

Gli Usa sono pronti a fornire i carri armati Abrams all’Ucraina. Un’ipotesi prima considerata, poi raffreddata con scuse, ora vicina a concretizzarsi per accontentare una pre-condizione tedesca. La Germania era pronta a dire sì all’invio dei Leopard, a patto che gli americani facessero una mossa analoga. Ad anticipare la probabile svolta è un articolo del Wall Street Journal, sempre bene informato sui retroscena della crisi. Cosa comporta?

Ore 19:29 - La guerra nucleare e l’orologio dell’Apocalisse: mai stati così vicini al disastro atomico

(Antonio Carioti) Un «bollettino scientifico» nato nel 1947. Oggi saremmo a soli 90 secondi dall’Apocalisse (la mezzanotte) per via del conflitto ucraino. Ora incide anche il riscaldamento climatico.

La guerra atomica, o comunque una catastrofe mondiale per l’intera umanità, non è mai stata vicina come adesso. O, quanto meno, questa è la valutazione appena formulata dai curatori del «Bollettino degli Scienziati Atomici», che ogni anno misurano simbolicamente, attraverso il cosiddetto Orologio dell’Apocalisse, quanto la Terra si approssimi a un disastro irrimediabile. La mezzanotte sul quadrante di questo cronometro corrisponde all’olocausto nucleare: quanto più la lancetta dei minuti vi si avvicina, tanto maggiore è il pericolo. La stima comunicata il 24 gennaio è che ci troviamo a soli 90 secondi dall’apocalisse. A preoccupare è soprattutto la guerra provocata dall’aggressione di Mosca contro Kiev, tant’è vero che il comunicato stampa con l’annuncio è stato diffuso per la prima volta in inglese, in russo e in ucraino.

Ore 19:40 - Tank americani, Kiev: «Possibile annuncio già domani»

I media ucraini sono sicuri, a Kiev ritengono possibile che l’annuncio sull’invio dei carri armati Usa possa essere fatto dalla Casa Bianca già nel corso della giornata di domani.

Ore 19:44 - Putin sulla disinformazione: «Russi non si faranno ingannare da fake news»

«Le fake news sull’operazione militare speciale della Russia in Ucraina non inganneranno il popolo del Paese, visto il suo “carattere”». Lo ha assicurato il presidente russo Vladimir Putin al governatore di Belgorod, riferendosi alla regione per lui oggetto di campagne di disinformazione. Il governatore Vyacheslav Gladkov ha affermato che le persone nella regione della Russia occidentale al confine con l’Ucraina non erano estranee a fake news sulla situazione a Belgorod, che ha ricordato essere stata bombardata più volte dall’Ucraina dall’inizio dell’operazione militare russa. Questo secondo la sponda russa del conflitto.

Ore 20:50 - Usa sui tank: «Germania? Ogni Paese è sovrano»

«È una decisione sovrana di ciascun Paese decidere quali armi inviare all’Ucraina». Lo ha detto la portavoce della Casa Bianca Karine Jean-Pierre, in un briefing con la stampa. Queste le sue parole sulla questione tedesca, per l’invio dei suoi carri armati Leopard alle forze di Kiev. Quindi la portavoce smentisce che la vicenda sia legata a quella degli Stati Uniti di mandare gli Abrams, di cui ha parlato il Wall Street Journal. Quanto ad un eventuale annuncio di Washington la portavoce ha sottolineato di «non avere nulla da anticipare, ma siamo sempre in costante contatto con l’Ucraina».

Ore 21:06 - Gb, uccisi a Soledar i due volontari britannici dispersi

Chris Parry e Andrew Bagshaw, due volontari britannici dati per dispersi dal 7 gennaio, sono stati uccisi mentre tentavano una «evacuazione umanitaria» dalla città ucraina di Soledar. Lo riferisce Sky News, riportando una dichiarazione diffusa dalla famiglia di Parry.

Ore 21:32 - Zelensky a Mascron: «Escludete atleti russi da vostre Olimpiadi»

«Gli atleti russi non dovrebbero poter partecipare alle Olimpiadi di Parigi nel 2024». Lo ha chiesto oggi Volodymyr Zelensky al suo omologo francese Emmanuel Macron. Così su Telegram lo stesso presidente ucraino, dopo una conversazione telefonica con il capo di Stato francese.

La Russia aveva invaso l’Ucraina il 24 febbraio 2022, tre giorni dopo la cerimonia di chiusura dei Giochi invernali di Pechino 2022, violando la tregua olimpica, che si estende da una settimana prima dell’inizio dei Giochi olimpici a una settimana dopo la fine dei Giochi paralimpici

Ore 21:51 - Zelensky promuove Oleksy Kuleba vice capo dell’ufficio di presidenza

Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha nominato Oleksiy Kuleba come vice capo dell’ufficio della presidenza al posto di Kyrylo Timoshenko. Kuleba era governatore della regione di Kiev.

Un altro decreto di Zelensky lo ha destituito da questo incarico, assieme ad altri quattro governatori: Valentin Reznichenko (Dnepropetrovsk), Dmitry Zhyvitsky (Sumy), Alexander Starukh (Zaporozhzhia) e Yaroslav Yanushevich (Kherson).

I decreti arrivano al termine di una giornata segnata di una serie di dimissioni e destituzioni nell’amministrazione ucraina, legati ad episodi di presunta corruzione. Tymoshenko si è dimesso dopo accuse di aver usato a fini personali un Suv donato dalla General Motors per soccorrere la popolazione civile.

Ore 23:36 - Zelensky: «Sui tank oltre i confronti servono le decisioni»

«Per quanto riguarda i carri armati moderni di cui abbiamo bisogno, le discussioni devono concludersi con delle decisioni». Questo l’appello del presidente ucraino Volodymyr Zelensky nel suo discorso serale, alla fine del 335mo giorno di guerra, sul tema della consegna di tank occidentali all’Ucraina. Lo riporta Ukrinform.

Ore 01:48 - Usa, la produzione di proiettili da 155 mm aumenterà di sei volte

Il Pentagono ha annunciato che aumenterà di sei volte la produzione di proiettili da 155 millimetri, quelli di cui le forze ucraine hanno più bisogno fino ad arrivare a 90.000 al mese in due anni. Lo riporta il New York Times. Si tratta di un livello di produzione che non si vedeva dai tempi della guerra di Corea. Il piano prevede l’investimento di miliardi di dollari, la creazione di nuovi impianti di produzione e il coinvolgimento di più produttori.

Ore 03:46 - Ambasciata Russia negli Usa: carri armati a Kiev sono una provocazione

Gli Stati Uniti stanno «deliberatamente cercando di infliggerci una sconfitta strategica». Lo scrive l’ambasciatore della Russia negli Stati Uniti, Anatoly Antonov, sul canale Telegram dell’Ambasciata. Washington, aggiunge il diplomatico russo, «dà il via libera all’utilizzo dell’assistenza americana per attaccare la Crimea. Copre i crimini contro la popolazione del Donbass, di Zaporizhzhia e Kherson». E ancora: «Sempre più funzionari ed esperti in America ammettono che si tratta di una `guerra per procura´ con il nostro Paese». Secondo Antonov: «Se gli Stati uniti decidono di fornire carri armati, giustificare un simile passo con argomenti sulle armi difensive non funzionerà sicuramente. Questa sarebbe un’altra sfacciata provocazione contro la Russia».

(ANSA il 24 gennaio 2023.) - Il vice capo dell'ufficio presidenziale ucraino Kyrylo Tymoshenko si è dimesso, ha dichiarato oggi spiegando di aver chiesto al presidente Volodymyr Zelensky di sollevarlo dalle sue funzioni.

Sul sito web presidenziale è stato pubblicato un decreto che accetta le dimissioni di Tymoshenko. Zelensky ha detto ieri che alcuni cambiamenti saranno annunciati questa settimana nel governo, nelle regioni e nelle forze di sicurezza dopo le accuse di corruzione ad alcuni politici. "Ringrazio il presidente dell'Ucraina Volodymyr Zelensky per la fiducia e l'opportunità di compiere buone azioni ogni giorno e ogni minuto", ha scritto Tymoshenko su Telegram.

(ANSA il 24 gennaio 2023) - Si è dimesso il vice ministro della Difesa ucraino Vyacheslav Shapovalov. Lo riportano i media ucraini citando il sito web del Ministero della Difesa di Kiev. Secondo la nota ufficiale, Shapovalov ha chiesto di lasciare il suo incarico per non "creare minacce alle Forze armate in seguito alle accuse sull'acquisto dei servizi di ristorazione".

"Nonostante il fatto che le accuse annunciate siano prive di fondamento, le dimissioni sono un atto degno nelle tradizioni della politica europea e democratica, dimostrazione che gli interessi della Difesa sono superiori a qualsiasi gabinetto o presidenza", si legge sul sito del ministero. 

Estratto dell’articolo di Andrea Nicastro per il “Corriere della Sera” il 25 Gennaio 2023.

In Ucraina è scattata la prima vera purga anti corruzione dall’inizio della guerra. Almeno una dozzina di personaggi rilevanti, viceministri, governatori, magistrati, hanno lasciato il loro posto perché sospettati di aver approfittato di appalti pubblici e aiuti internazionali per arricchirsi.

 Niente di nuovo sotto il nevischio di Kiev. L’originalità viene dal fatto che solo un viceministro è stato arrestato domenica mentre intascava 400 mila dollari. Con le mani nella bustarella, il viceministro delle Infrastrutture Vasyl Lozynsky, continua comunque a negare sia di aver voluto agevolare alcuni appalti di riparazione del sistema elettrico sia di aver approfittato (a settembre) della corsa ai generatori gonfiando i prezzi.

 Gli altri, tutti gli altri, hanno lasciato la poltrona (apparentemente) di loro volontà presentando le dimissioni, senza (questo è il punto che stride in uno Stato di diritto) aver ricevuto avvisi di garanzia. L’Ue insiste da mesi che il sistema giudiziario ucraino debba essere reso indipendente. In attesa che ciò accada, a far pulizia ci pensa il presidente Zelensky in persona.

[…] Si sono dimessi i numeri due dei ministeri delle Comunicazioni e in quello dei Territori e Sviluppo, Vyacheslav Negoda e Ivan Lukerya. Ha lasciato l’incarico anche il vice procuratore generale dello Stato Oleksiy Symonenko, chiacchierato per delle costosissime vacanze estive a Marbella, in Spagna, e pure il numero due dell’ufficio presidenziale Kyrylo Tymoshenko, forse il nome più eclatante.

 I media lo includevano da mesi tra i profittatori di guerra anche se era parte del cerchio ristretto del presidente ucraino sin dai tempi del Zelensky commediante. L’ha tradito la passione per le belle auto. Prima il bolide elettrico della Porsche, la Taycan, poi un Suv Chevrolet Tahoe destinato agli aiuti umanitari. […]

Estratto dell’articolo di Micol Flammini per “il Foglio” il 25 Gennaio 2023.

[…] Zelensky ha promesso ai suoi cittadini di smantellare la corruzione e nello stesso tempo ha assicurato ai suoi alleati che provvederà a sanare i problemi che ne derivano e soprattutto ha promesso che la guerra non si trasformerà in nutrimento per nuovi e vecchi corrotti. E’ alla luce di questi impegni che bisogna leggere la sfilza di dimissioni consensuali.

 […] La promessa di Zelensky in campagna elettorale, in un lontanissimo 2019, era di liberare l’Ucraina dalla corruzione. Una promessa che avevano fatto in tanti, senza riuscirci. Con la guerra, con lo status di paese candidato a entrare, un giorno, dentro l’Unione europea, questa promessa è raddoppiata ed è diventata: elimineremo la corruzione nonostante tutto.

Il Cremlino adora descrivere l’Ucraina come un paese corrotto, la propaganda russa trionfalmente ripete che sarà peggio per gli occidentali accollarsi una società ucraina tanto malata. I problemi ci sono, gli ucraini li percepiscono, ma l’incurabilità della corruzione ucraina è un argomento da battaglia mediatica.

 […] Non sono soltanto gli europei o gli americani a volersi assicurare che i soldi vengano spesi bene, sono anche gli ucraini che, se poco tolleravano prima l’idea di una politica corrotta, durante la guerra, in questo sacrificio estremo imposto dalla Russia, trovano ancora più irritante la possibilità che i loro alti funzionari si stiano approfittando della situazione e possano indebolire lo sforzo collettivo.

(ANSA il 3 Febbraio 2023) - Le forze dell'ordine di Kiev hanno arrestato in flagrante un funzionario della Commissione medica militare centrale che stava ricevendo una tangente sul posto di lavoro. Secondo gli investigatori ucraini, il funzionario ha messo in piedi un meccanismo criminale per ottenere denaro da cittadini che volevano sottrarsi al servizio militare.

"In cambio di varie somme, il sospettato ha offerto agli uomini di sottrarsi al servizio militare. In particolare, gli agenti del servizio di sicurezza (Sbu) hanno documentato l'estorsione di 5.000 dollari a un soldato di leva", ha dichiarato l'Sbu in un comunicato. In cambio di questa somma, il funzionario prometteva di rilasciare un certificato di non idoneità al servizio militare con conseguente cancellazione dall'ufficio di registrazione e arruolamento militare.

Due manager di aziende che lavorano con il ministero della Difesa ucraino sono sotto inchiesta per appropriazione indebita di 3,23 milioni di dollari: "Con il pretesto di fornire cibo alle unità militari, i sospettati hanno trasferito parte dei fondi sul conto bancario di una società che controllavano", ha dichiarato oggi la polizia di Kiev, come riportano i media nazionali.

Lo scandalo corruzione travolge il governo ucraino. Michele Manfrin su L'Indipendente il 25 Gennaio 2023.

Arresti, licenziamenti e dimissioni forzate: è quanto sta accadendo in Ucraina, dove, nel bel mezzo del conflitto, si è assistito a un terremoto politico di vastissime proporzioni e probabilmente non ancora concluso. Dopo l’arresto avvenuto per mandato dell’Ufficio nazionale anticorruzione del viceministro delle Infrastrutture, Vasyl Lozynskiy, sono arrivate le dimissioni forzate di ben otto personalità di spicco del governo ucraino nonché il licenziamento di alcuni governatori degli Oblast ucraini. Tra mazzette, appalti gonfiati e furti, il governo ucraino ha dovuto mettere in atto un vasto rimpasto in piena guerra.

Il viceministro delle Infrastrutture, Vasyl Lozynskiy, è stato arrestato il 21 gennaio scorso su mandato dell’Ufficio nazionale anticorruzione che lo accusa di aver accettato, dal settembre scorso, l’equivalente di 400.000 dollari di tangenti su appalti riguardanti l’approvvigionamento di generatori di elettricità. Coloro che invece si sono dimessi forzatamente sono: il vicecapo dell’Ufficio presidenziale, Kyrylo Tymoshenko, il viceministro della Difesa, Vyacheslav Shapovalov, il viceministro della Politica Sociale, Vitaliy Muzychenko, i viceministro per lo Sviluppo della Comunità, Ivan Lukerya e Vyacheslav Negoda, i vicecapo del Servizio statale dei Trasporti Marittimi e Fluviali, Anatoliy Ivankevych e Viktor Vyshnyov, nonché il del viceprocuratore generale, Oleksiy Simonenko. La motivazione alla base di questo scossone politico è la dilagante corruzione che serpeggia in Ucraina a tutti i livelli e che è venuta a galla mettendo sotto i riflettori importanti personaggi di governo. Si va dagli appalti truccati e gonfiati al fine di favorire aziende amiche di personaggi appartenenti al sistema ucraino delle porte girevoli e/o per fare la cresta gonfiando il costo della merce e dei servizi acquistati dai ministeri.

Inoltre, a seguito della riunione del Consiglio dei ministri che ha avuto luogo martedì 24 gennaio, in merito ai decreti del Presidente, Volodymyr Zelensky, sono stati licenziati cinque governatori delle amministrazioni statali regionali: Valentyna Reznichenko (Dnipropetrovsk); Oleksandra Starukha (Zaporizhia); Dmytro Zhyvytsky (Sumy); Yaroslav Yanushevycha (Kherson); Oleksiy Kuleba (Kiev). Quest’ultimo è in realtà stato spostato a ricoprire il ruolo di vicecapo dell’Ufficio presidenziale lasciato da Kyrylo Tymoshenko, mentre gli altri sono stati cacciati proprio per i rapporti tutt’altro che trasparenti avuti con Tymoshenko.

Già nell’estate scorsa emerse uno scandalo di corruzione che riguardava il ministero della Difesa e il suo Direttore del Dipartimento degli appalti pubblici, Bohdan Khmelnytsky, accusato di aver sottratto indebitamente 580.000 dollari in relazione ad appalti per l’acquisto di munizioni; dall’indagine emerse che altri due cittadini ucraini erano coinvolti e che nell’operazione era stata utilizzata una società offshore nel Bahrain.

Inoltre, si sono verificati casi di furto da parte di aziende coinvolte in appalti statali come, per esempio, derrate alimentari destinate all’esercito, e che solo in parte venivano consegnate, rivendute sul mercato nero. Alla metà di gennaio, sono state sequestrate diverse tonnellate di derrate alimentari a lunga scadenza che l’azienda, con appalto assegnato dal ministero della Difesa, doveva consegnare all’esercito e che invece era pronta a rivendere.

Zelensky non è di certo l’immacolato Presidente, “il servo del popolo” ammirato nella serie TV che lo ha reso celebre e pronto al salto dalla finzione alla realtà. Nel 2021, insieme alla sua cerchia ristretta, il presidente ucraino è finito nello scandalo riguardante i così detti Pandora Papers, facendo emergere i suoi conti offshore nelle Isole Vergini britanniche, in Belize e a Cipro. Inoltre, sempre Cipro risulta essere la destinazione di 5,5 miliardi di dollari che l’oligarca Ihor Kolomoisky, sponsor principale del successo comico e politico di Zelensky, insieme al suo socio Hennadiy Boholiubov, ha dirottato dall’ucraina PrivatBank.

Ovviamente, in un Paese con un altissimo tasso di corruzione, nel bel mezzo di una guerra, tenuto in piedi e salvato dal fallimento grazie a decine di miliardi di dollari e di euro in aiuti e finanziamenti da parte dell’Occidente, molti sono coloro che vogliono prendersi per sé qualcosa dell’enorme torta di interessi che è l’Ucraina. Inoltre, è interessante notare come il rimpasto di governo, ad eccezione del licenziamento dei governatori delle amministrazioni statali regionali, abbia interessato solamente i “vice” e che – per il momento – nessuno di coloro che si trova alla guida dei ministeri sia stato scalfito dal terremoto politico. [di Michele Manfrin]

L'ira di Zelensky per la corruzione. Tolleranza zero e via alle purghe. Prezzi gonfiati sul cibo in dotazione all'esercito, tangenti sui contratti per i generatori elettrici. A Kiev è raffica di dimissioni, licenziamenti e arresti ai vertici del potere ucraino. Il presidente fa pulizia. Fausto Biloslavo il 25 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Lo scorso aprile, due mesi dopo l'invasione russa, stavano arrivando i primi e agognati missili terra aria Javelin dal Regno Unito sul duro fronte di Kharkiv, la seconda città del paese. Uno pseudo miliziano ucraino con divisa nera, che forniva ai giornalisti assistenza in cambio di mance, mi accoglie con il sorriso del volpone. E con un certo orgoglio spalanca la portiera posteriore della sua utilitaria, dove un Javelin occupava tutti e due i sedili. Chissà a chi l'ha venduto a caro prezzo. In ogni guerra c'è una minoranza di approfittatori che gioca sulla pelle dei soldati al fronte.

Questa volta la corruzione, che in un conflitto è simile al tradimento, ha coinvolto quattro vice ministri, il secondo consigliere presidenziale in ordine di importanza, cinque governatori oltre al vice procuratore generale. E potrebbe essere solo la punta dell'iceberg, che il capo dello Stato, Volodymyr Zelensky, sta spazzando via con una purga senza precedenti negli 11 mesi di guerra. Uno avrebbe incassato una mazzetta di 400mila euro per sostituire i generatori che i russi polverizzano a colpi di missile. Un altro ha addirittura maggiorato di tre volte il prezzo di uova e patate per l'esercito. E non poteva mancare chi ostentava la malversazione al volante di auto di lusso con gli ucraini al buio e al gelo. «Sono già state prese decisioni su diversi esponenti dell'esecutivo, a vari livelli ministeriali nelle strutture del governo centrale, ma anche negli organismi regionali e nelle forze di polizia» ha dichiarato il presidente.

Il 21 gennaio è stato arrestato il viceministro per lo sviluppo delle Comunità, dei territori e delle infrastrutture Vasily Lozinsky, accusato di aver intascato una tangente di 400.000 dollari. Una mazzetta sui contratti per nuovi generatori che rimettano in sesto il sistema elettrico ucraino bombardato dai russi.

L'operazione è condotta dallo speciale ufficio anti corruzione costituito prima del conflitto e fortemente sollecitato dai partner occidentali di Kiev, che nell'ultimo anno hanno già speso per l'Ucraina cento miliardi di euro in armi, aiuti finanziari e umanitari.

Ancora più vergognoso il vice Ministro della Difesa Vyacheslav Shapovalov, pure costretto alle dimissioni. I prezzi delle forniture alimentari ai soldati che combattono al fronte sarebbero stati gonfiati a dismisura. A cominciare dalle uova, che in negozio costano 7 grivnia (0,18 euro). Il ministero della Difesa le acquistava, all'ingrosso, per 17 grivnia. Stessa storia con le patate che trovi in ogni trincea. Il fornitore nega tutto parlando di un errore contabile, ma il vice ministro è stato silurato da Zelensky.

Repulisti necessario, che ha intaccato pure il cerchio magico del presidente. Il consigliere numero due, Kyrylo Tymoshenko, nega a spada tratta qualsiasi malversazione, ma ha dovuto dimettersi dal cruciale incarico. Per Kiev girava al volante di una Taycan bolide elettrico della Porsche, valore oltre 91mila euro, che sosteneva fosse in prestito da un amico. Tymoshenko era già stato chiamato in causa per un presento scandalo di settembre, quando sparirono nel nulla container, vagoni ferroviari e camion di aiuti umanitari destinati alla regione di Zaporizhzhia per un valore, al ribasso, di 7 milioni di euro.

Il braccio destro di Zelensky era soprannominato «il padrino del regioni». Non è un caso che nella purga presidenziale siano finiti cinque governatori delle regioni più importanti da Zaporizhzhia alla capitale. Quello di Dnipropetrovsk, Valentin Reznichenko, regione nella retrovia del Donbass martellata dai russi, avrebbe affidato contratti per la riparazione di strade, di decine di milioni di euro, a un gruppo cofondato dalla sua fidanzata, istruttrice di fitness.

La purga ha fatto fuori anche il vice Procuratore generale, Oleksiy Symonenko, molto chiacchierato per le costose vacanze da sogno a Marbella, in Spagna a Capodanno.

L'Ucraina era in cima alla lista dei paesi corrotti in Europa ben prima dell'invasione russa. A Bruxelles la purga di Kiev fa suonare l'allarme, dopo il via libera al mega prestito di 18 miliardi di dollari per il 2023 che servirà a tenere in piedi il paese.

Terremoto politico a Kiev. ‘Repulisti’ in Ucraina, dimissioni al vertice del governo Zelensky per accuse di corruzione: via 4 viceministri e il numero due del suo staff. Carmine Di Niro su Il Riformista il 24 Gennaio 2023

A Kiev è in atto un ‘repulisti’. Nel consueto discorso serale alla nazione, il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha infatti annunciato una riorganizzazione della sua amministrazione a vari livelli di responsabilità a seguito di una serie di denunce di corruzione.

“Ci sono già decisioni – alcune oggi, altre domani – che riguardano il personale, funzionari a vari livelli nei ministeri e in altre strutture del governo centrale, così come nelle regioni e nelle forze dell’ordine“, ha dichiarato Zelensky.

Alle parole del numero uno ucraino hanno seguito l’annuncio di due dimissioni di peso. Kyrylo Tymoshenko, vice capo dell’ufficio della presidenza ucraina, ha annunciato su Telegram di aver chiesto al presidente Volodymyr Zelensky di sollevarlo dall’incarico. “Ringrazio il presidente Volodymyr Zelensky per la fiducia e l’opportunità di compiere buone azioni ogni giorno ed ogni minuto“, ha scritto.

Secondo siti ucraini citati dall’Ansa, anche i capi di diverse autorità regionali vicini a Tymoshenko potrebbero offrire le loro dimissioni. Il nome del vice capo dell’ufficio presidenziale era finito in diversi scandali legati al suo presunto uso personale di auto di lusso, ma Tymoshenko ha respinto le accuse.

Dopo Tymoshenko a fare un passo indietro è stato anche il vice ministro della Difesa ucraino Vyacheslav Shapovalov. Secondo la nota ufficiale, Shapovalov ha chiesto di lasciare il suo incarico per non “creare minacce alle Forze armate in seguito alle accuse sull’acquisto dei servizi di ristorazione“. “Nonostante il fatto che le accuse annunciate siano prive di fondamento, le dimissioni sono un atto degno nelle tradizioni della politica europea e democratica, dimostrazione che gli interessi della Difesa sono superiori a qualsiasi gabinetto o presidenza“, si legge sul sito del ministero.

Terzo in ordine di tempo è Ivan Lukerya, vice ministro per lo sviluppo delle comunità e dei territori dell’Ucraina: Lukerya lo ha annunciato in una lettera, come riporta Ukrinform. Il quarto viceministro a rassegnare le dimissioni è stato quindi  Vyacheslav Negoda, numero due al ministero delle Politiche sociali.

Quello della presunta corruzione ai vertici dello Stato non è una novità. Soltanto lo scorso fine settimana la polizia anti-corruzione aveva dato la notizia dell’arresto del vice ministro per le Infrastrutture Vasyl Lozynsky, sospettato di aver percepito una tangente di 400mila dollari per l’importazione di generatori, accusa respinta dall’interessato. Ieri si era invece dimesso anche il vice Procuratore generale dello Stato Oleksiy Symonenko, chiacchierato per delle costosissime vacanze estive in Spagna.

Un’inchiesta giornalistica ha invece fatto emergere l’accusa nei confronti del ministero della Difesa di aver pagato prezzi eccessivi per le razioni di cibo dei soldati. Il fornitore del ministero ha però replicato alle accuse parlando di errore tecnico ed ha escluso passaggi di denaro.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Estratto dell'articolo di Jacopo Iacoboni per “La Stampa” il 6 febbraio 2023.

Volodymir Zelensky è a un passo da una decisione estremamente significativa: sostituire il ministro della Difesa Oleksii Reznikov con l'attuale capo del Gur, i servizi segreti militari, il generale Kyrylo Budanov, un uomo il cui credito nel Paese è cresciuto immensamente [...]

 Il 2 febbraio il viceniministro Vyacheslav Shapovalov è stato arrestato. Lo scandalo della Difesa riguarderebbe l'acquisto di grandi quantità di prodotti alimentari per l'esercito a prezzi gonfiati. Schemi che coinvolgerebbero anche diversi oligarchi. Una guerra che Zelensky ha lanciato e da cui non può più tornare indietro, nel momento in cui l'Europa gli chiede riforme contro la corruzione per avviare il processo di ingresso dell'Ucraina e l'America chiede di fermare gli oligarchi per continuare a incrementare la fornitura di armi a Kyiv.

Uno degli oligarchi più discussi è il suo ex amico Igor Kolomoisky, [...] Kolomoisky ha costruito molti dei suoi schemi in passato anche usando i paradisi fiscali (e i buchi nella legislazione) degli Usa, come racconta Casey Michel in American Kleptocracy. E era così legato a Zeklensky da scritturare e produrre nella sua tv, 1+1, lo show «Servitore del popolo» al quale Zelensky deve l'inizio della sua popolarità, una buona parte della sua ricchezza e, forse, il lancio della sua carriera politica. […]

Zelensky deve dimostrare alla comunità internazionale di combattere in modo radicale la corruzione nel Paese, anche per poter chiedere e ottenere nuove armi. Negli ultimi giorni la residenza di Kolomoisky a Dnipro è stata tra quelle perquisite dall'ufficio del Prosecutore generale ucraino, in una nuova ondata che ha visto nel mirino sia lui sia Dmitry Firtash, un altro potentissimo oligarca ucraino.

 Ma mentre Firtash era da sempre nell'orbita dei russi […] Kolomoisky inizialmente i russi li aveva avversati, o almeno: non aiutati, nel 2014, ai tempi della prima guerra in Donbass. Poi qualcosa era successo. Nel 2019 aveva dichiarato al New York Times che con la Russia bisognava comunque averci a che fare. Che gli Stati Uniti alla fin fine avevano tradito l'Ucraina.

Guarda caso, gli Usa che dal 2019 lo accusano di «corruzione significativa» in Ucraina, di aver usato una costellazione di società e conti bancari offshore per spostare milioni di fondi sottratti dall'Ucraina in una serie di investimenti immobiliari nel Midwest americano (Kolomoisky nega gli illeciti, dice di aver fatto gli investimenti con i suoi soldi).

E infatti ora Vladimir Solovyov, il propagandista più scatenato del Cremlino, commenta così, ironicamente, la notizia delle perquisizioni all'oligarca: postando quell'intervista «filorussa» di Kolomoisky, e scrivendo: «Toh, Inaspettato. Nel 2019 aveva detto che bisognava fare patti con la Russia». La verità è forse nel mezzo. L'Sbu conferma che Kolomoisky è stato perquisito nell'ambito di un'inchiesta che «ha rivelato schemi su larga scala per l'appropriazione indebita di 40 miliardi di grivnie (circa un miliardo di euro) da parte dell'ex dirigenza di Pjsc Ukrnafta e Pjsc Ukrtatneft. Gli schemi illegali sono stati associati a evasione fiscale e riciclaggio di denaro». […]

Estratto dell’articolo di P.Bre. per “la Repubblica” il 6 febbraio 2023.

[…] Il ministro della Difesa ucraino, Oleksiy Reznikov, è stato deposto ieri dall’Ufficio della presidenza. È il primo pezzo da novanta a cadere nel governo dall’inizio dell’invasione: paga gli scandali che hanno travolto il suo ministero, dall’appalto di Natale a prezzi gonfiati sui pranzi dei soldati ai giubbotti antiproiettile scadenti.

 Scandali in cui non è indagato, ma per cui sono scattate le manette per l’ex vice Vyacheslav Shapovalov, responsabile per gli appalti gonfiati; e per Bohdan Khmelnytskyi, ex direttore del Dipartimento degli appalti, che si sarebbe messo in tasca cento milioni di grivne per concedere il via libera ai giubbotti antiproiettile di scarsa qualità.

Al posto di Reznikov va un riluttante Kyrylo Budanov, che aveva lasciato intendere di non essere felice di lasciare l’ufficio di capo dei servizi segreti per un ruolo prettamente politico. […] La mossa apre ora una giostra politica, un rimpasto alla vigilia di una fase decisiva del conflitto in cui, ha ribadito ieri Zelensky, «le battaglie sono durissime nel Donbass e la situazione è molto difficile».

 Reznikov, che mantiene la fiducia del presidente nonostante la pessima gestione dello scandalo, dovrebbe diventare ministro delle Industrie strategiche […] Al posto di Budanov, capo della Sbu diventerebbe Vasyl Malyuk, mentre agli Interni — dopo la morte del ministro Denys Monastyrsky e del suo vice Eugene Yenin nel disastro in elicottero di Brovary — secondo Arakhamia verrà confermato Ihor Klymenko, che ne ha preso l’interim.

L’impressione dei commentatori è che sia solo una nuova tappa del processo in corso che potrebbe presto riguardare diversi altri ministri a rischio, in prima fila quelli di Sport, Energia e Giustizia. Ma c’è persino il primo ministro tra i nomi più gettonati di un prossimo rimpasto: sarebbe destinato a una sede diplomatica all’estero. […]

 Il livello di corruzione svelato dalle inchieste giornalistiche ha portato alle dimissioni di viceministri e alti magistrati, di governatori e di una lunga serie di dirigenti. Le inchieste proseguono, e gli americani hanno stretto la morsa dei controlli: il Congresso ha stanziato oltre 113 miliardi di dollari in aiuti, ma vuole verificare che non finiscano erosi da tangenti e truffe. […]

Corruzione, soldi e influenza politica: che fine hanno fatto gli oligarchi dell’Ucraina. Federico Giuliani il 7 Febbraio 2023 su Inside Over.

Nelle ultime settimane l’Ucraina è tornata a fare i conti con un vecchio problema mai veramente risolto: la corruzione interna. Alti funzionari e personaggi di spicco del sistema politico ucraino sono stati allontanati o hanno presentato le dimissioni.

La bolla è esplosa, o meglio è riesplosa dopo mesi di calma apparente, lo scorso 29 gennaio. Su queste colonne Andrea Muratore ha raccontato dell’arresto del viceministro ucraino per lo Sviluppo delle infrastrutture, Vasyl Lozynski, fermato dalla polizia di Kiev con l’accusa di aver intascato 400 mila dollari di tangenti nel contesto dell’acquisto da parte del suo ministero di generatori elettrici che sarebbero stati procacciati a prezzi lievitati. Nell’occhio del ciclone è finito anche il ministro della Difesa, Oleksiy Reznikov, che secondo i media locali avrebbe firmato un accordo a prezzi due o tre volte superiori a quelli attuali per i prodotti alimentari di base.

Inevitabile una durissima reazione del governo ucraino, che anche – e soprattutto – sulla lotta alla corruzione si gioca l’eventuale, futuro ingresso all’interno dell’Unione europea. Volodymyr Zelensky ha subito fatto sapere di aver imboccato la strada della tolleranza zero e di aver ordinato indagini approfondite per punire i colpevoli. Ma la corruzione, in Ucraina, è un tema molto ampio, che spesso fuoriesce dal mondo della politica e si intreccia con quello degli affari.

Così come esistono gli oligarchi russi, ambigue figure dal passato misterioso e dei quali si ignorano spesso le reali origini delle loro ricchezze, ci sono anche gli oligarchi ucraini. La guerra ha acceso i riflettori su quanto sta accadendo sui campi di battaglia ma, a differenza di quanto non si possa pensare, queste figure continuano ad avere un peso specifico, più o meno grande, all’interno del Paese. Sia chiaro: non tutti gli oligarchi sono corrotti, ma è comunque importante monitorarne ogni movimento. A maggior ragione in situazioni critiche, come durante un conflitto, onde evitare truffe ai danni dello Stato e della popolazione.

Nell’occhio del ciclone

Sono molto meno noti dei loro omologhi russi, ma gli oligarchi ucraini non sono da meno in termini di ricchezza e influenza. Alcuni di loro sono finiti sotto la scure anti corruzione attivata da Zelensky. È il caso, ad esempio di Igor Kolomoisky.

La residenza del miliardario ucraino è stata perquisita dal servizio di sicurezza dell’Ucraina (Sbu) in relazione a una possibile appropriazione indebita di 40 miliardi di grivna ucraine (circa 1 miliardo di dollari) da parte dell’ex dirigenza del colosso petrolifero ucraino e produttrice di gas, Ukrnafta, e del gestore di gasdotti Ukrtransnafta. Kolomoisky, al quale è stato impedito di entrare negli Stati Uniti per accuse di corruzione e indebolimento della democrazia, deteneva azioni in entrambe le aziende, in parte statali all’epoca dei fatti incriminati e adesso completamente nazionalizzate. Prima dello scoppio della guerra era uno degli uomini più ricchi del Paese, con partecipazioni in varie industrie, tra cui media, aviazione ed energia.

L’ufficio investigativo statale ucraino (Dbr) ha annunciato che anche un ex ministro dell’Energia è sospettato di corruzione. I media hanno riferito che il sospettato sarebbe Ihor Nasalyk, accusato di aver firmato contratti vantaggiosi per società associate all’oligarca ucraino Dmytro Firtash, in Austria da anni. Si dice che i presunti loschi affari siano costati all’Ucraina 1,5 miliardi di grivna (circa 37 milioni di dollari).

È anche per episodi del genere che il gruppo anticorruzione Transparency International ha collocato l’Ucraina al 116esimo posto tra i 180 Paesi presi in considerazione per la presunta corruzione presente al loro interno nel 2022.

Gli altri oligarchi

La guerra ha sostanzialmente rovinato la maggior parte delle fortune in possesso degli oligarchi ucraini. Come ha sottolineato Politico facendo alcuni esempi, le officine metallurgiche di Mariupol, di proprietà di Rinat Akhmetov, sono state trasformate in rovine fumanti; i terreni agricoli giacciono per lo più inutilizzati e pieni di mine antiuomo; le fabbriche non funzionano a causa delle interruzioni di corrente mentre le esportazioni marittime si sono ridotte al lumicino. Difficile fare business in un contesto del genere e con i colpi di cannone in sottofondo.

Come se non bastasse, già da prima della guerra Zelensky aveva promesso di attuare una legge di “deoligarchizzazione” volta a limitare l’influenza politica di questi personaggi. La guerra ha accelerato lo sforzo di Kiev, visto che i politici ucraini non sembrerebbero più aver alcun bisogno del sostegno di ricchi magnati. Al contrario, se il governo ucraino vuole sperare di accedere all’Ue deve recidere al più presto tutti i legami con soggetti poco trasparenti. Ma che fine hanno fatto gli oligarchi, intesa come categoria generale? Dipende.

Il citato Rinat Ahmetov, considerato l’uomo più ricco dell’Ucraina, ha visto il suo impero sgretolarsi. Il conglomerato metallurgico Metinvest ha perso due dei suoi principali stabilimenti: le famigerate acciaierie di Azovstal e le acciaierie di Ilyich. Altri suoi beni, tra cui centrali elettriche, banche, fattorie e impianti minerari, sono stati danneggiati o sequestrati dalle forze russe. Nel 2021, Akhmetov era stato accusato da Zelensky di aver tentato di organizzare un colpo di Stato, un’accusa che il magnate ha fortemente respinto. Intanto Forbes ha calcolato che la fortuna di Akhmetov sarebbe passata dai quasi 14 miliardi di dollari di gennaio ai 4,3 miliardi di dollari di dicembre. Nonostante questo, Rinat Akhmetov è ancora la persona più ricca dell’Ucraina.

È andata molto meglio a Viktor Pinchuk il cui impero, costruito attorno al produttore di tubi e ruote ferroviarie Interpipe, avrebbe sofferto meno delle attività di altri colleghi, visto che la sua ricchezza sarebbe scesa da 2,6 a 2 miliardi di dollari.

Le fortune dell’ex presidente Petro Poroshenko, che prima del conflitto stava affrontando accuse di alto tradimento e favoreggiamento del terrorismo, sono passate da 1,6 miliardi a 700 milioni di dollari. Di Kolomoisky abbiamo già parlato, mentre Viktor Medvedchuk, il più influente oligarca filo-russo in Ucraina, è tornato in Russia dopo essere stato arrestato da Kiev e rilasciato in seguito ad uno scambio di prigionieri con Mosca.

Ucraina: in attesa dei Leopard, Kiev si dibatte nelle difficoltà. Piccole Note (filo Putin) il 24 gennaio 2023 su Il Giornale.

Su Asia news un interessante articolo di Stepehen Brien, nel quale registra la fretta con cui si sta muovendo la Nato per inviare nuovi armamenti a Kiev. Tale fretta, e la relativa “improvvisazione”, secondo Brien, sono dovute al fatto che la Nato ha preso coscienza che l’Ucraina sta perdendo la guerra.

Considerazione verosimile. Si tenga presente il trionfalismo col quale i media hanno descritto la guerra fino a poco fa. Senza deflettere da tale trionfalismo obbligato, negli ultimi tempi gli stessi media hanno iniziato a riportare criticità crescenti nelle forze ucraine, delle quali abbiamo dato conto.

E la controffensiva invernale dei russi, ai quali gli ucraini e i mercenari Nato non riescono a far fronte, ha reso tali difficoltà ormai palesi. Da cui l’urgenza di un nuovo supporto. Ma non si tratta di inviare nuove armi in sostituzione delle precedenti, spiega Brien, si mira piuttosto “a spostare le sorti della guerra a favore dell’Ucraina”.

Limitarsi a inviare armi e nuovi volontari per consentire a Kiev una difesa più efficace sarebbe controproducente. Se il fronte si stabilizza, si rischia di riaprire una finestra per i negoziati, cosa che i falchi Nato vedono come il fumo negli occhi. Per questo l’attenzione si è focalizzata sui carri armati, che potrebbero consentire alle forze di Kiev di dare corpo alla famosa controffensiva.

In particolare, l’attenzione si è focalizzata sui Leopard 2 tedeschi, dal momento che gli altri veicoli corazzati in arrivo non avrebbero la forza d’urto necessaria.

I leopardi magici

Resta però l’incognita sulle reali possibilità dei Leopard 2. Un articolo dell’Associated Press, che pure magnifica tali veicoli e il loro impatto sul teatro di guerra, riporta anche la cautela espressa da Niklas Masuhr, ricercatore presso il Center for Security Studies di Zurigo.

L’arrivo dei Leopard 2, spiega Masuhr, da solo non rappresenta “un punto di svolta o una tecnologia vincente, niente del genere […] Non puoi semplicemente schierare un gruppo di carri armati e immaginare che vincano”, ha detto. “Sono più che preziosi, ma bisogna comunque utilizzarli nel modo corretto e integrarli con gli altri mezzi militari che si hanno a disposizione”, come fanteria, artiglieria, difesa aerea, genieri ed elicotteri.

Considerazioni che devono essere integrate da quanto scrive Brien: “Nessuno può dire quanto saranno efficaci i carri armati Leopard sul moderno campo di battaglia. Nel dicembre 2016,  numerosi Leopard 2 sono stati distrutti nel corso dei combattimenti nell’area di Al-Bab controllata dall’ISIS vicino ad Aleppo, in Siria. Nella battaglia, furono distrutti dieci Leopard, cinque dei quali da missili anticarro (di fabbricazione russa), due da IED [ordigni esplosivi artigianali ndr]  e uno da razzi” (gli altri due per cause ignote).

“I missili anticarro filoguidati russi, 9k115 Metis e 9M113 Konkurs, sono armamenti vintage anni ’70. Ciò induce il sospetto che i Leopard non si riveleranno più efficaci dei carri armati di fabbricazione russa già in dotazione all’Ucraina, il che potrebbe spiegare perché la Polonia sia ansiosa di scaricarli”. Ma bisogna vedere quali versioni dei Leopard sono state usati e quali versioni saranno inviate a Kiev.

Detto questo, resta da capire cosa accadrà prima dello schieramento dei carri. Gli ucraini si sono intestarditi sulla difesa di Bakhmut, spostando verso di essa ingenti risorse (c’è chi sostiene, numeri alla mano, che nell’area abbia fatto convergere metà delle loro forze, ma siamo nel campo dell’indeterminazione). Una decisione alquanto folle, se anche gli Stati Uniti hanno suggerito loro di ritirarsi.

La conquista della città da parte dei russi appare inevitabile, dal momento che stanno inesorabilmente chiudendo il cerchio attorno ai difensori, ma l’assedio potrebbe durare tempo, da cui una mattanza prolungata.

Resta da vedere cosa accadrà dopo, se cioè le forze russe continueranno a spingersi oltre, anche sul resto del fronte, come ipotizza Brien, e del caso quanto spingeranno sull’acceleratore.

E quando arriveranno i carri armati Nato, quanti ne arriveranno e di che qualità. Non solo devono arrivare, ma devono anche integrarsi col resto delle forze. Pianificare una controffensiva, sempre se si riuscirà a fare, è cosa complessa.

Il neorealismo di Arestovitch

Ad oggi, e in attesa dei rinforzi, l’Ucraina si dibatte in preda a una palese difficoltà. Lo ha detto a chiare lettere l’ex Consigliere di Zelensky Alexei Arestovitch, costretto alle dimissioni a seguito di un passo falso.

In un recente intervento, riportato da Al Manar, Arestovitch ha detto che l’Ucraina non è destinata a vincere la guerra, anzi rischia di non sopravvivere come entità statale, concordando, secondo l’estensore dell’articolo, con quanto immagina il presidente polacco Andrzej Duda.

Un concetto che il più autorevole Duda ha ribadito implicitamente nel recente vertice di Davos, nel quale ha dichiarato: “Temo che prima o poi, forse tra qualche mese, forse settimane, ci sarà un momento decisivo in questa guerra. E tale momento risponderà alla domanda se l’Ucraina sopravviverà o no” al conflitto (InterfaxUkraine).

Se si sta a quanto affermava lo scorso maggio, quando disse che in futuro non ci sarà alcun confine tra Ucraina e Polonia, la prospettiva che potrebbe delinearsi è quella di una spartizione dell’Ucraina tra Est, ai russi, e Ovest, alla Polonia… ma tale prospettiva potrebbe essere più lontana di quanto immagina Duda, dal momento che sembra potersi realizzare solo al termine del conflitto (altrimenti si avrebbe uno scontro diretto tra la Russia e un Paese Nato, cosa che Duda ha escluso).

Nel frattempo, come denuncia implicitamente lo stesso Arestovitch, a causa dell’attuale fragilità e dell’imponente flusso di soldi in arrivo, l’Ucraina è scossa da una lotta intestina dove ognuno “azzanna la gola dell’altro”.

Di tale lotta avevamo scritto alla morte del ministro degli Interni, ucciso col suo staff nello schianto dell’elicottero che lo trasportava (le cause dell’incidente sono ancora ignote). Ma ormai se ne sono accorti un po’ tutti, dopo che alcuni esponenti del governo si sono dimessi a causa di scandali vari (Open).

Interessante la notazione dell’articolo di Al Manar: nel denunciare pubblicamente tale lotta, Arestovitch rischia la vita: o è sciocco o è protetto da un ramo dei servizi segreti, ipotesi per la quale propende la nota del giornale libanese. E se una parte dei servizi segreti teme l’evoluzione del conflitto, prospettiva più realistica dell’attuale, potrebbero aprirsi scenari nuovi.

Così, tra i crescenti rischi di escalation, che l’attuale fragilità di Kiev amplificano, e le prospettive, seppur aleatorie e lontane, di una risoluzione della fase più acuta del conflitto, la guerra continua inesorabile a mietere vittime.

Ps. La Polonia chiederà un risarcimento alla Ue per la fornitura di carri armati a Kiev. Lo ha detto il Primo ministro Mateusz Morawiecki… perché dovrebbero essere risarciti loro e non anche gli altri che hanno mandato i loro armamenti? Richiesta invero bizzarra, ma che rischia di essere assecondata.  La guerra e il supporto Usa hanno conferito a Varsavia un peso notevole.

Tank da parata. I carri armati T-14 che la Russia manda in Ucraina sono buoni solo per la propaganda. Michelangelo Freyrie su L’Inkiesta il 25 Gennaio 2023.

Il modello che il Cremlino vorrebbe usare nelle prossime offensive è il più avanzato a disposizione delle forze di terra, ma è un mezzo nato più per ansia di dimostrare supremazia tecnologica che per i bisogni reali delle forze armate

Le strade di Mosca sono fatte per marciare. Ogni 9 maggio, le forze armate russe sfilano il proprio arsenale a beneficio del pubblico mondiale, mostrando i sistemi d’arma più moderni come monito all’Occidente. E proprio in questi giorni, uno di questi simboli della tecnologia militare russa fatta da parata dovrebbe fare la propria comparsa in Ucraina.

Il carro armato T-14 “Armata” è il modello più avanzato a disposizione delle forze di terra russe, progettato per superare progressivamente i vecchi carri di produzione sovietica (il numeretto indica l’anno di prima produzione: il T-90 è del 1990, il T-14 del 2014). L’Armata è emblematico dei problemi di cui sta soffrendo l’esercito russo. Un tank da parata più che da combattimento, il ministero della Difesa britannico sospetta che il T-14 sarà usato solo a scopi propagandistici. I carristi russi non si fiderebbero infatti di un veicolo sviluppato più per ansia di dimostrare la supremazia tecnologica russa che per i bisogni reali delle forze armate.

Una supremazia, tra l’altro, che rimane tutta da dimostrare: i problemi legati al progetto T-14 hanno portato a grossi ritardi nella sua produzione. Le forze armate russe ne hanno richiesto solo poche centinaia rispetto alle migliaia di carri in servizio, spiegando che la priorità sta nella modernizzazione di carri vecchi già esistenti e testati. La sua affidabilità in uno scenario operativo, poi, è tutta da dimostrare. Il T-14 ha operato infatti soltanto in Siria, un contesto relativamente sicuro nel quale i carristi russi non hanno dovuto affrontare un avversario armato di sofisticati sistemi occidentali. Non che serva un avversario per mettere fuori uso il carro: l’Armata sembra persino essersi bloccato durante le prove per la sua parata inaugurale sulla Piazza Rossa, nel 2015.

Il T-14 Armata, un carro troppo complicato

La storia del T-14 è fatti di iperbole ed è paradigmatica per la Difesa russa. Fra Cremlino, ministero della Difesa e industrie belliche, tutti avevano interesse a pavoneggiarsi con un carro hi-tech di cui le forze armate non sanno bene cosa farsene. Il principio dietro alle forze corazzate sovietiche prima e russe poi è quello di una produzione di massa di carri relativamente semplici. Questo è dovuto sia all’esigenza di doverne produrre una massa ragguardevole, sia per una scelta precisa di sostituire immediatamente sul campo i carri danneggiati piuttosto che aspettare pezzi di ricambio. Ciò non è ovviamente possibile con un carro zeppo di sistemi elettronici complessi che non beneficiano di decenni di produzione seriale.

In più, un cambio così radicale con le tecniche di costruzione di modelli precedenti non fa certo un favore all’industria russa, abituata nel corso dei decenni a migliorare gradualmente i mezzi da modello a modello (dal T-64 al T-72 al T-90) senza una rottura radicale. L’enfasi su sistemi elettronici nuovi di zecca, l’interconnessione con tutti gli altri sistemi d’arma e sensori presenti sul campo (in modo da permettere una condivisione in tempo reale delle informazioni) e alcuni cambiamenti al motore e alla forma della torretta significa che l’industria russa non sarà in grado di produrne un gran numero in tempi brevi. Ciò è soprattutto vero nel 2023, un anno nel quale l’industria militare russa farà fatica a procurarsi un numero adeguato di chip ad alte prestazioni a causa delle sanzioni internazionali.

Guerra di rete e guerra di massa

Perché allora schierare il T-14, anche solo in funzione propagandistica? Nel 2018 il viceministro della Difesa russo aveva spiegato che il T-14 non sarebbe stato utile nemmeno in un conflitto con i carri armati Nato, dato che versioni aggiornate di vecchi modelli sarebbero state più che sufficienti. Negli ultimi anni Nato, Unione europea e Stati Uniti hanno posto molta enfasi su un tipo di guerra “di rete”, che per l’appunto prevede l’integrazione di ogni sistema d’arma in un unico sistema di gestione e condivisione.

Questa sorta di cloud dovrebbe dare un vantaggio ai comandanti in termini di comprensione di quello che sta succedendo sul campo, sapere sempre dove si trova il nemico e, permettendo maggior coordinamento fra le forze anche sotto il fuoco, rendere più facile eseguire manovre e azioni complicate da eseguire potendo solo comunicare via radio. Il T-14, con la sua capacità di “parlare” con sistemi di artiglieria, antiaerea e droni, rientrerebbe in questa logica.

La Russia, con una forte tradizione di guerra “industriale”, non ha tuttavia mai fatto completamente proprio questo approccio. Le azioni brutali in Ucraina, la guerra di trincea in Donbas, il largo uso di artiglieria e le campagne di bombardamento contro le città dimostrano quanto le forze russe si trovino più a loro agio con operazioni di massa molto novecentesche e poco precise. Ma il comando russo ha capito tempo fa che un approccio di rete come quello adottato dallo Nato presenta dei vantaggi potenzialmente decisivi: un uso più mirato e meno costoso della forza ha dei lati positivi in termini politici ed economici. In più, la corsa alla sofisticazione tecnologica è diventata un elemento di prestigio per le forze armate di tutto il mondo. Per questo, almeno dal 2014 in poi, i russi hanno fatto molto per propagare l’immagine di un esercito russo in apparenza meno sovietico e più occidentalizzato e hi-tech.

Troppe Porsche, poche Polo

In fondo, l’arrivo del T-14 Armata in Ucraina è la continuazione logica di una guerra che i russi stanno combattendo ponendo l’accento su una logica politico-mediatica piuttosto che il buon senso militare. Molte decisioni militari prese in questi mesi sono state basate su presupposti totalmente falsi e su una fiducia nella pressoché totale nelle proprie capacità, sia politiche che tecnologiche. Kyjiv sarebbe dovuta cadere perché governata da nazisti satanici, e i russi avrebbero dovuto trionfare con perdite minime grazie ad un’alchimia di disinformazione, attacchi missilistici mirati e tecnologie avanzate invidiate da tutto il mondo.

Tutto ciò non è successo: la propaganda può poco contro la banalità di una campagna militare, fatta di logistica e di affidabilità dei mezzi militari usati. Le guerre si vincono con gli equivalenti militari delle Volkswagen Polo, non le Porsche. Avere il carro più moderno del mondo e credere nella propria superiorità serve a poco quando mancano i pezzi di ricambio, si hanno problemi di rifornimenti o interi battaglioni di ex carcerati vengono mandati a morire in attacchi frontali. Ma in qualche modo, la propaganda russa cerca ancora di dimostrare la propria forza tecnologica, almeno a beneficio del pubblico domestico. I T-14 abbandonati nelle retrovie del Donbas sono un monumento all’ipocrisia del Cremlino e della propria incapacità di sfuggire alle proprie stesse menzogne.

Arrivano i rinforzi. Germania, Stati Uniti e Francia forniranno carri armati all’Ucraina. L’Inkiesta il 24 Gennaio 2023.

Lo Spiegel rivela che il cancelliere Olaf Scholz avrebbe accettato di fornire i Leopard 2 a Kyjiv, sbloccando una lunga filiera di aiuti militari per molti altri Paesi. Lo stesso farà Biden con i M1 Abrams e Macron con i Leclerc

C’è voluto più tempo del previsto per prendere una decisione apparentemente scontata, ma alla fine tutto è andato come doveva andare. Il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha deciso di inviare i suoi carri armati Leopard 2 in Ucraina, sbloccando così un segmento determinante degli aiuti militari al Paese che si sta difendendo da quasi un anno dall’aggressione della Russia. La notizia è stata data dallo Spiegel e ripresa da molte testate internazionali (Bloomberg, Politico). L’annuncio ufficiale da parte del cancelliere dovrebbe arrivare mercoledì alle 13.

Quella di Scholz è un’inversione di marcia potenzialmente decisiva per i prossimi sviluppi della guerra. L’ok di Berlino dovrebbe aprire la strada all’invio di aiuti massicci per un’ampia coalizione di Stati del fronte occidentale: in quanto produttore dei Leopard 2, Berlino deve dare il suo benestare anche per la riesportazione da Paesi terzi verso l’Ucraina – nei giorni scorsi si era parlato di una fornitura di Leopard 2 che sarebbe dovuta arrivare in Ucraina dalla Polonia. «Ora si prevede di equipaggiare almeno un’azienda con la versione Leopard 2A6 dalle scorte della Bundeswehr», riporta lo Spiegel – equipaggiare un’azienda significa consegnare almeno quattordici sistemi d’arma.

Il nuovo ministro della Difesa tedesco, Boris Pistorius, questa mattina aveva detto che si aspettava che il suo Paese prendesse una decisione rapida sulla consegna dei carri armati Leopard all’Ucraina.

Fino a oggi Berlino aveva resistito alle pressioni della comunità internazionale – e di Kyjiv in particolare – chiedendo che fossero gli Stati Uniti a fare il primo passo per l’invio di questi sistemi d’arma. E in effetti anche a Washington ci sarebbero movimenti importanti in questa direzione: il presidente americano Joe Biden avrebbe deciso di inviare un numero significativo di carri armati M1 Abrams in Ucraina.

Come spiega la Cnn in un articolo firmato da Natasha Bertrand e Oren Liebermann, che l’amministrazione Biden sta mettendo a punto gli ultimi dettagli per inviare i suoi carri armati, e potrebbe fare un annuncio in settimana. «I tempi per la consegna effettiva – si legge nell’articolo – non sono ancora chiari e normalmente ci vogliono diversi mesi per addestrare le truppe a utilizzare i carri armati in modo efficace. Però un annuncio di questo tipo sarebbe stato proprio propedeutico a rompere un ingorgo diplomatico con la Germania, che non avrebbe inviato i suoi carri armati Leopard in Ucraina a meno che gli Stati Uniti non avessero accettato di inviare anche i loro carri armati M1 Abrams».

È sempre sembrato più convinto invece il presidente franese Emmanuel Macron, con Parigi che ha accordato l’invio dei suoi carri armati Leclerc a Kyjiv. Lo ha annunciato Volodymyr Zelensky via Twitter, ringraziando il capo dell’Eliseo per «la decisione rivoluzionaria di fornire carri armati leggeri e migliorare le capacità di difesa ucraine, inclusi i sistemi avanzati di difesa aerea».

I carri armati tedeschi affronteranno ancora una volta quelli russi. Piccole Note (filo Putin) il 26 gennaio 2023 su Il Giornale.  

L’invio di carri armati Nato è “l’ultima di una serie di graduali escalation che ha portato gli Stati Uniti e i suoi alleati della NATO più vicini al conflitto diretto con la Russia”. A scriverlo è il New York Times di oggi. Peraltro, ieri la stranissima ministra degli Esteri della Germania, Annalena Baerbock, ha dichiarato: “Siamo in guerra contro la Russia”.

La verde interventista

E lo ha dichiarato all’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa di Strasburgo, cioè in una sede decisionale dell’Unione europea. Di fatto, dato che l’Italia è membro di tale consesso, tale dichiarazione di guerra, ché di questo si tratta anche se in via informale, riguarda anche noi. Lo stranissimo personaggio politico è il leader di quel partito dei Verdi che nel 2021 aveva sorpreso tutti vincendo 118 seggi nel Parlamento tedesco.

E ciò grazie a un manifesto politico nel quale si dichiarava che i Verdi intendevano vietare “l’esportazione di armi e attrezzature militari” nelle zone di guerra. “La Germania – si leggeva ancora nel documento – deve diventare una forza trainante nella ricomposizione politica dei conflitti”, in particolare con la Russia.

Sempre nel documento, si sottolineava il valore del “disarmo” e tante altre belle cose. La menzogna è parte della politica, nel caso specifico siamo di fronte a un’artista del settore. E sapere che tale figura è il ministro degli Esteri della nazione più influente d’Europa non rassicura.

Per fortuna, non tutti in Germania sono allineati con le direttive dei neocon americani. Interessante, ad esempio, quanto ha dichiarato il ministro della Difesa Boris Pistorius: “Non capisco quelli che salutano l’invio di carri armati con un ‘Alleluia’”.

Tra panzer e speranze d’armistizio

Per fortuna, anche in America non mancano cenni di ragionevolezza. Ieri il New York Times e il Washington Post hanno infatti pubblicato due articoli paralleli che, in forme e modi diversi, parlavano di pace, parola bandita da tempo dal dibattito sulla guerra ucraina.

Sul Washington Post, al termine di un articolo un po’ troppo trionfalistico riguardo la sicura vittoria totale dell’Ucraina (propaganda d’obbligo), David Ignatius spiegava che, mentre la guerra avanza verso un “Endgame”, si osserva che, “come negli ultimi anni della seconda guerra mondiale, è già iniziata la pianificazione per l’ordine del dopoguerra” per costruire un’architettura di pace durevole.

Più interessante ancora quel che scriveva Ross Douthat sul Nyt, il quale spiegava come l’escalation Nato – l’invio dei carri armati – corra in parallelo con l’escalation russa, che ha lanciato l’offensiva invernale. E aggiunge che sia la dottrina Usa che quella russa prevedono l’escalation come fase necessaria a un de-escalation.

Ma mentre per i tanti falchi che volano sul conflitto, in Europa e in America, l’escalation dovrebbe avere come esito una vittoria totale dell’Ucraina, tale linea non è “condivisa dall’amministrazione Biden, o almeno non dai suoi più autorevoli esponenti”.

Infatti, “l’approccio cauto” alla guerra da parte del presidente, i suoi inviti all’Ucraina ad aprirsi al negoziato e la necessità di non esaurire le risorse Usa in questo conflitto, dovendo supportare anche il confronto con la Cina, “indica che l’obiettivo prossimo della Casa Bianca è un armistizio favorevole, non una sconfitta completa della Russia“.

Il palesarsi in parallelo di questi due articoli sui più autorevoli media dell’Impero, peraltro punti di riferimento dei due partiti presenti al Congresso, dimostra che nell’establishment americano lo scontro tra falchi e rapaci meno aggressivi è ancora in atto.

Resta, purtroppo, che l’invio dei carri armati segna un altro punto di svolta nell’ingaggio Nato nel conflitto. Certo, non sono i seicento carri armati chiesti dal Capo di Stato Maggiore ucraino, e avranno un impatto limitato sul campo di battaglia, forse non consentendo l’agognata controffensiva di primavera, ma non sono uguali a zero.

Se i Bradley e gli Abrams 1 che si appresta a inviare l’America sono poca cosa, non così i Leopard 2 teutonici provenienti dai vari Paesi europei. Questi, anche se inviati in piccoli numeri, potrebbero avere un impatto rilevante, soprattutto se combinati con altri sistemi d’arma.

In attesa di sviluppi, concludiamo ribadendo il titolo che abbiamo messo a questa nota, ripreso dal titolo di un articolo pubblicato su Israel Ayom: “I carri armati tedeschi affronteranno ancora una volta quelli russi”. Si rinnova una nefasta memoria.

L’invio dei carri armati a Kiev, tra propaganda di guerra e reale rischio escalation. Giorgia Audiello su L'Indipendente il 26 gennaio 2023.

Dopo un lungo periodo di incertezza, le pressioni degli Stati Uniti e degli alleati più ostili alla Russia, tra cui soprattutto Polonia, Gran Bretagna e Paesi Baltici, hanno indotto il cancelliere tedesco Olaf Scholz a cedere sulla questione dei carrarmati a Kiev: la Germania, infatti, invierà all’Ucraina 14 carrarmati Leopard 2 A6 provenienti dalle scorte della Bundeswehr, le forze armate tedesche. Oltre alla Germania, altri 12 Paesi forniranno veicoli corazzati a Kiev, tra cui i Paesi dell’est Europa che hanno esercitato grande pressione su Berlino affinché desse l’autorizzazione a Paesi terzi per cedere i tank di fabbricazione tedesca. Nello specifico, oltre a Berlino, anche Polonia, Norvegia e Paesi Bassi invieranno rispettivamente 14, 2 e 18 carrarmati Leopard, mentre Spagna, Slovacchia, Danimarca, Francia e Finlandia potrebbero inviarli a breve, anche se non tutti i governi hanno già preso una decisione in merito. La Gran Bretagna, invece, fornirà a Kiev 14 dei suoi carri armati Challenger 2. Da parte sua, anche gli Stati Uniti – inizialmente contrari – hanno deciso di cedere all’Ucraina 31 carri armati Abrams M1 che verranno prodotti ex novo dalla General Dynamics Land Systems. Il che significa che ci vorranno mesi affinché i mezzi corazzati arrivino effettivamente a destinazione, cosa che vale anche per i tank forniti dagli Stati europei per motivi logistici e di addestramento.

La decisione di Washington di fornire gli Abrams a Kiev arriva in seguito alla frenata della Germania che, secondo fonti interne al governo tedesco, avrebbe posto come condizione per fornire all’Ucraina i Leopard quella che venissero inviati anche i carri armati statunitensi. Non a caso, le decisioni di Berlino e Washington sono giunte quasi in concomitanza. Il presidente americano Joe Biden ha ringraziato Scholz e tutti gli alleati per l’impegno contro Mosca, spiegando che il sostegno occidentale a Kiev «non è per attaccare» ma per difendere. «Non permetteremo che una nazione strappi un territorio a un’altra», ha asserito, assicurando altresì che l’invio degli Abrams «non rappresenta una minaccia per la Russia, non è un’offensiva contro la Russia, aiutiamo l’Ucraina a difendersi, deve combattere equipaggiata al meglio». Il presidente americano ha ringraziato anche il governo italiano per il fatto che «sta inviando artiglieria in Ucraina», fornendo così indirettamente informazioni su quale tipologia di armamenti il nostro Paese fornisce a Kiev, considerato che queste informazioni sono secretate e tenute nascoste ai cittadini italiani che – paradossalmente – le possono conoscere solo tramite le dichiarazioni del presidente americano.

La volontà degli alleati occidentali di continuare ad equipaggiare Kiev con mezzi pesanti non ha solo rinvigorito gli animi dell’amministrazione ucraina, ma ha anche spinto quest’ultima a pretendere sempre di più: Zelensky, infatti, ha chiesto la fornitura di missili e aerei a lungo raggio alla Nato, insieme all’espansione della cooperazione nell’artiglieria. Lo ha dichiarato pubblicamente nel suo videomessaggio serale alla nazione: «Ho parlato oggi con il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg», ha asserito, aggiungendo che «dobbiamo aprire alla fornitura di missili a lungo raggio all’Ucraina, è importante. Dobbiamo anche espandere la nostra cooperazione nell’artiglieria» e pensare alla «fornitura di aerei per l’Ucraina».

Secondo Stoltenberg, i carrarmati degli alleati possono fare la differenza nel conflitto, aiutando Kiev a riconquistare i territori perduti: «gli alleati della Nato sono uniti nel sostegno all’autodifesa dell’Ucraina. Insieme ai Challenger del Regno Unito e ai Leopard 2 della Germania, questo può fare una differenza significativa nel respingimento della Russia», ha scritto in un tweet. Tuttavia, molti esperti del settore militare sostengono che difficilmente l’invio di mezzi corazzati, artiglieria e altri sistemi di difesa come i Patriot possa effettivamente ribaltare gli esiti dello scontro in corso per almeno tre ordini di ragioni: quello tempistico – la consegna effettiva dei tank richiederà mesi – quello che riguarda l’addestramento – l’esercito di Kiev non ha attualmente le capacità per utilizzare questo tipo di mezzi – e quello che riguarda la manutenzione. Secondo il sito specializzato Analisi Difesa, sul piano militare «l’invio di tank europei in Ucraina potrebbe risultare irrilevante o quasi per i numeri limitati, i tempi necessari a renderli operativi e i limiti di addestramento e logistica delle forze di Kiev». Inoltre, sarà necessario addestrare, oltre ai militari, anche il personale logistico, tenendo conto che ricambi, proiettili da 120mm e apparati del carro non sono compatibili con quelli utilizzati finora dall’esercito ucraino, di tipo russo/sovietico. Gli ucraini si troverebbero, dunque, con tre diversi tipi di tank occidentali (Leopard 2, Abrams e Challenger 2) di difficile gestione logistica e operativa. Per un loro utilizzo efficace sul campo, dunque, si renderebbe necessario impiegare appaltatori occidentali come equipaggi e per la manutenzione. Cosa che nel silenzio generale accade fin dall’inizio del conflitto, ma che esporrebbe ancora di più Europa e Stati Uniti in un coinvolgimento diretto nella guerra.

Oltre alla questione dell’efficacia sul piano militare, poi, vi è anche quella geostrategica: la consegna di carrarmati tedeschi a Kiev su pressione di Washington non conferma solo la già nota sudditanza del Vecchio continente agli alleati d’oltreoceano, ma implica anche un suo ulteriore indebolimento sul piano della difesa: escludendo la Polonia che dispone di circa 500 carri armati, i maggiori eserciti europei dispongono di un basso numero di tank che va dai 150 degli Ariete italiani ai 330 Leopard 2 tedeschi, non tutti operativi. La cessione di mezzi corazzati andrebbe quindi ad intaccare le scorte, come in parte confermato dal ministro della Difesa tedesco, Boris Pistorius: «certo questo è un intervento nelle scorte delle truppe, ma non influisce sulla prontezza operativa della Bundeswehr», ha affermato. Il potenziale indebolimento delle loro forze armate contribuirebbe a rendere le nazioni europee sempre più dipendenti da Washington anche sul piano militare, rendendo necessario l’acquisto di equipaggiamenti statunitensi nuovi o di seconda mano con investimenti ingenti per riammodernare il sistema di difesa: un processo che potrebbe richiedere anni.

Se da un lato, dunque, la decisione di inviare mezzi corazzati a Kiev logora ulteriormente i rapporti tra Europa e Russia, dall’altro decreta l’ormai irrimediabile sudditanza di Bruxelles a Washington, accelerando di giorno in giorno le possibilità di allargamento del conflitto con conseguenze catastrofiche. Dopo l’invio di armi sempre più pesanti, insieme alla presenza – non dichiarata – di personale NATO sul campo, non resta, infatti, che un coinvolgimento diretto nel conflitto. Tanto che il generale Marco Bertolini, già comandante del Comando operativo di vertice interforze e della Brigata Folgore, ha dichiarato alla stampa che «Ci stiamo rassegnando all’entrata in una guerra che con noi non c’entra niente, per questioni di carattere territoriale fra due paesi europei estranei sia alla Nato che all’Unione europea. Poi però ci siamo voluti invischiare, abbiamo voluto puntare tutto sulla prosecuzione di questa guerra e temo che se non ci sarà qualche illuminazione nei confronti di chi dirige questa operazione spaventosa, ci troveremo con le mani legate». [di Giorgia Audiello]

Estratto dell’articolo di Federico Rampini per corriere.it il 26 gennaio 2023.

La decisione presa da Stati Uniti e Germania di fornire carri armati all’Ucraina è positiva perché – ancora una volta – delude la speranza di Putin di dividere l’Occidente e ridurre il suo sostegno a Kiev. Però i tank in arrivo sono poche decine contro le migliaia di tank russi; trasportano un bagaglio di problemi (manutenzione, carburante, munizioni); lasciano irrisolte molte altre debolezze dell’esercito ucraino come i vistosi buchi nella difesa aerea. Inoltre le reticenze di Berlino continuano a rivelare un ritardo di fondo: culturale oltre che politico.

[…] Sul via libera ai tank Abrams americani e ai Leopard 2 tedeschi viene in mente una celebre battuta attribuita da alcune fonti a Winston Churchill, il premier britannico protagonista della resistenza contro i nazifascismi nella seconda guerra mondiale (una versione alternativa l’attribuisce a un premier israeliano, Abba Eban). «Potete essere sicuri – avrebbe detto Churchill – che gli americani faranno sempre la cosa giusta, dopo aver provato tutte le altre».

 In questo caso la battuta si può estendere alla Nato o all’Occidente. È dall’inizio di questo conflitto che il nostro appoggio all’Ucraina procede con il contagocce, tra resistenze e ritardi, e ogni decisione arriva dopo estenuanti esitazioni. […]

 La giustificazione principale per le nostre esitazioni – anche da parte di Joe Biden – è sempre stata quella di non provocare Putin, di non fare nulla che legittimi la sua narrazione di uno scontro diretto Russia-Nato. Per questo Biden continua a costringere gli ucraini a difendersi con un braccio legato dietro alla schiena, per esempio negandogli missili adeguati a colpire le basi di lancio da cui partono i missili russi.

Ma Putin quella narrazione sull’aggressione della Nato l’ha usata dal 2007 ed è con quella che ha giustificato l’aggressione di una nazione sovrana e indipendente fin dal 2008 (Georgie) e dal 2014 (Crimea). Qualsiasi forma di aiuto occidentale all’Ucraina, per la propaganda di Mosca è la conferma del teorema. I tank non cambiano nulla, Putin ha già accusato cento volte la Nato di combattere direttamente contro la Russia. […]

[…] Quegli aiuti arriveranno – pochi e tardi – con un carico di problemi. Le truppe ucraine vanno addestrate all’uso di tank diversi dai loro. Questi mezzi blindati hanno bisogno di essere riforniti costantemente di carburante, pezzi di ricambio, e soprattutto munizioni. Qui si tocca un tasto dolente.

 La produzione di munizioni è uno specchio del disarmo avvenuto per decenni in Occidente. Inclusi gli Stati Uniti, come documenta un recente rapporto del Congresso di Washington. Alla fine della seconda guerra mondiale gli Usa avevano 85 fabbriche di munizioni. Oggi ne sono rimaste sei, che spesso operano con macchinari e impianti ultra-ottantenni.

La Russia pur essendo molto più povera degli Stati Uniti, ha però una «economia di guerra» dove la produzione bellica riceve una porzione enorme delle risorse nazionali. E può avvalersi di forniture militari da parte di altre «economie di guerra» come Iran e Corea del Nord (quest’ultima essendo con ogni probabilità anche il canale clandestino attraverso cui la Cina aiuta Putin).

 […] La deindustrializzazione che ha colpito gli Stati Uniti da almeno tre decenni non ha risparmiato il settore della difesa: alcune sue produzioni sono dipendenti da materiali e componenti made in China, proprio come i telefonini o le auto elettriche. L’America conserva – per ora – una superiorità tecnologica, spesso affidata ai privati, e la si è vista all’opera con il ruolo dei satelliti Starlink (Elon Musk) o di Microsoft nell’aiutare l’Ucraina. Ma poiché l’aggressione russa usa tattiche e tecniche che evocano la prima e la seconda guerra mondiale, il software non basta, ci vogliono gli scarponi sul terreno, i tank, le munizioni.

La Germania, e l’Europa, sono un caso a parte in quanto a cultura del disarmo. Dietro le reticenze del cancelliere Olaf Scholz sui Leopard c’è una sorta di visione alternativa della storia. Molti tedeschi si sono costruiti una rappresentazione confortante sulla fine della guerra fredda, la caduta del Muro di Berlino, la dissoluzione dell’Urss.

 Gran parte del merito sarebbe loro: delle loro politiche di cooperazione e commercio che avrebbero ammorbidito il blocco comunista. Il ruolo di Ronald Reagan e della sua fermezza, o di papa Wojtyla e del suo sostegno alla rivolta polacca, viene opportunamente oscurato in questa ricostruzione. Gran parte del merito andrebbe invece ai leader socialdemocratici come Willy Brandt, artefice della Ostpolitik o «politica orientale» (la cui carriera politica fu stroncata perché i suoi uffici pullulavano di spie sovietiche).

Gerhard Schroeder, anche lui ex cancelliere socialdemocratico, ha potuto farsi assumere da Putin come amministratore di un ente energetico russo in nome della «pace e fratellanza» tra i popoli. La stessa democristiana Angela Merkel ha sostenuto fino all’ultimo Nord Stream 2, il gasdotto con cui Putin voleva perpetuare la dipendenza tedesco-europea dal gas russo. L’idea che la Russia sarebbe diventata più buona a furia di commerciare con noi ha anestetizzato ogni lucidità della classe dirigente tedesca. Scholz fatica ancora oggi a liberarsene, lo fa lentamente e puntando i piedi.

Estratto dell’articolo di Alberto Simoni per “la Stampa” il 26 gennaio 2023.

Biden annuncia l'invio in Ucraina di 31 carri armati M1 Abrams, Zelensky ringrazia via Twitter e dice che «è un passo importante verso la vittoria» ma chiede ora missili a lungo raggio; mentre il cancelliere tedesco Olaf Scholz conferma che in prima battuta 14 Leopard 2 verranno consegnati a Kiev. Fra maggio e dicembre potrebbero arrivarne altri 50. Nove Paesi europei invece si sono accodati subito alla Germania mobilitando i loro Leopard: saranno un centinaio quelli che nei prossimi mesi varcheranno i confini ucraini.

 Per il ministro della Difesa tedesco Boris Pistorius, «arriveranno entro fine marzo», in tempo – almeno secondo le ambizioni – per fronteggiare l'offensiva di primavera […] L'alleanza dei tank ridisegna i termini del conflitto, rinsalda l'asse fra Washington e Berlino e mantiene il fronte occidentale «completamente unito» nel sostenere la controffensiva di Kiev. […]

E’ l'asse con Berlino quello che interessa a Washington. Biden ha ringraziato Scholz per la sua leadership e sottolineato che anche britannici e francesi manderanno i loro mezzi corazzati pesanti, Challenger 2 e Amx 10. «È stata la necessità di rafforzare l'unità» la molla che ha spinto Biden a invertire rotta sugli Abrams, ha spiegato una fonte ufficiale Usa.

 Poco prima davanti al Bundestag Scholz aveva detto che la decisione sui Leopard è stata presa dopo consultazioni e «insieme». Allo sblocco del caso Leopard 2 si è arrivati con triangolazioni e bilaterali costanti. […] Nel suo intervento Biden ha fatto dei distinguo essenziali. Il primo è il messaggio alla Russia, ovvero che «l'invio dei tank non è un'offensiva contro Mosca». John Kirby più tardi, commentando le reazioni russe, ha detto di non aver «indicazioni che la Russia voglia colpire dei Paesi Nato». Il secondo è che per vedere gli Abrams sul campo di battaglia serviranno mesi. […]

La decisione di inviare il gioiello dell'esercito Usa – un carro armato capace di rovesciare la direzione del conflitto e nettamente più forte dei T-72, T-80 e T-90 russi – è vista con scetticismo dagli esperti e dagli operativi del Pentagono. Le questioni logistiche sono moltissime e non facili da superare […]

 Anzitutto gli Abrams necessitano di un addestramento lungo, sia per quanto concerne l'operabilità sia per la manutenzione. La logistica del trasporto è complessa così come la supply chain, ovvero la catena di rifornimento: gli M1 sono a turbina e sono spinti da un diesel usato dagli aerei. Sono questioni che – spiega un analista vicino al dossier – che rendono quasi impossibile «averli operativi prima di un anno».

[…] Si tratta quindi non tanto di renderli funzionali alla probabile […] offensiva di primavera della Russia e nemmeno a partecipare alla "controffensiva ucraina", quanto di diventare un bastione della sicurezza in una seconda fase, soprattutto se la guerra dovesse estendersi fino alla fine dell'anno […] Il pacchetto Abrams vale 400 milioni di dollari, insieme ai tank arriveranno otto mezzi di supporto logistico M88 e ci saranno munizioni per i cannoni da 120 mm. Di pari passo di procederà all'addestramento, possibile nella base di Grafenwoehr in Germania. […]

Un anno di guerra. Dopo i carri armati, all’Ucraina ora servono gli aerei da combattimento F16.  L’Inkiesta il 27 gennaio 2023.

La richiesta era già stata fatta all’inizio dell’invasione russa. «Ora abbiamo nuovi compiti da davanti a noi: ottenere i jet da combattimento occidentali, nuove sanzioni e l’attuazione della formula di pace», ha dichiarato il ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba

Con la fine del braccio di ferro tra Germania e Stati Uniti e la decisione sull’invio dei carri armati Leopard e degli Abrams in Ucraina, Kyjiv ora spera di ricevere presto anche gli aerei da combattimento occidentali, chiesti fin dalle prime fasi dell’invasione russa per mettere in sicurezza lo spazio aereo del Paese. In particolare, i famosi F-16. È la prossima richiesta di riarmo già avanzata dall’Ucraina, insieme a quella per i missili di lunga gittata Atacms, su cui non c’è più il veto assoluto e definitivo che gli Stati Uniti imponevano all’inizio del conflitto.

E questo – spiega Repubblica – per almeno cinque ragioni: primo, mettere Kyjiv in condizione di difendersi subito dall’imminente offensiva russa; secondo, scoraggiare possibilmente questa operazione, o spingere Mosca a lanciarla senza essere davvero pronta a condurla; terzo, favorire la controffensiva di Zelensky per riconquistare i territori occupati e andare all’auspicato tavolo della pace in una posizione di forza; quarto, far capire a Putin che se spera di vincere puntando sulla fine degli aiuti occidentali e lo sgretolamento dell’alleanza, sta sbagliando ancora i calcoli; quinto, guardare già al dopoguerra, per costruire una forza di deterrenza abbastanza solida da dissuadere il Cremlino, chiunque lo abiti, da altre future avventure.

«Ora abbiamo nuovi compiti da davanti a noi: ottenere i jet da combattimento occidentali, nuove sanzioni e l’attuazione della formula di pace» – cioè i dieci punti per la chiusura del conflitto proposti dal presidente ucraino Volodymyr Zelensky – come ha dichiarato il ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba, a seguito dell’annuncio tedesco e statunitense di inviare i loro carri armati in Ucraina.

L’Ucraina aveva chiesto i caccia F16 fin dal principio dell’invasione, e la Polonia aveva detto di essere pronta a darle i suoi Mig, per impedire a Mosca di avere il dominio dei cieli, decisivi nelle guerre moderne. In realtà i russi non sono mai riusciti a imporre la loro supremazia aerea, ma comunque Washington si era opposta per evitare l’escalation. Allora la speranza era che il combinato delle sanzioni economiche e la resistenza di Kyjiv convincessero Putin a cercare una soluzione diplomatica. Ora è chiaro che non l’aveva mai neppure considerata. Quindi in maniera progressiva l’Occidente ha incrementato la sua assistenza militare per mettere l’Ucraina in condizione di sopravvivere e convincere Mosca ad accettare un vero negoziato. Dopo i Javelin sono arrivati gli obici, poi gli Himars, i Patriot, e adesso i carri armati.

Yuriy Sak, consigliere del ministro della Difesa ucraino Reznikov, ha detto alla Reuters che «il prossimo grande ostacolo da superare saranno gli aerei da combattimento». Quindi la domanda è stata posta al portavoce del Consiglio per la sicurezza nazionale Kirby, in questi termini: «Se gli ucraini oggi dicessero: “Grazie mille dei carri. Ora, che ne direste di alcuni aerei da combattimento di quarta generazione?” Quali sono le possibilità che ciò accada?». Kirby non ha posto veti: «Siamo in costante discussione con gli ucraini sulle loro capacità. Le evolviamo mano a mano che le condizioni cambiano. Non posso biasimare gli ucraini per volere sempre più sistemi. Non è la prima volta che parlano di aerei da combattimento. Ma non ho annunci da fare su questo fronte».

Il processo quindi potrebbe seguire quello dei carri armati, che dovrebbero arrivare al fronte nel giro di un paio di mesi, perché addestramento e consegna dei Leopard saranno più rapidi del previsto. Oltre alla Polonia, anche l’Olanda sarebbe pronta a fornire gli aerei, mentre l’addestramento dei piloti sarebbe già in corso.

Biden, secondo Nbc, intanto prepara un viaggio in Europa per l’anniversario dell’invasione, mentre il segretario di Stato Blinken ha detto al Washington Post che c’è già un piano per il dopoguerra. Kyjiv non entrerà nella Nato, ma sarà rafforzata militarmente al punto di creare la deterrenza per scoraggiare altre aggressioni. Invece aderirà alla Ue, per favorire la sua prosperità, in contrasto evidente con l’arretratezza imposta da Putin alla Russia.

Dopo i carri armati l'Ucraina vuole i caccia. Ma la guerra del cielo ha altre regole. Sergio Barlocchetti su Panorama il 26 Gennaio 2023.

Pochi elicotteri e ancora meno aerei in volo sull’Ucraina. Mosca impegna in continuazione le difese aeree di Kiev cercando di farle esaurire gli arsenali più in fretta di quanto Usa e nazioni amiche possano fornirle,

Dopo i carri armati Kiev vorrebbe anche velivoli da combattimento come gli F-16. Zelensky, nel suo ultimo colloquio con il Segretario generale della Nato Jens Stoltenberg, ha ricordato la necessità di ricevere anche missili a lungo raggio, artiglieria a lunga gittata e appunto aeroplani, reiterando quanto ha sempre chiesto negli ultimi anni oltre a sottomarini e aerei da combattimento come i vecchi Tornado tedeschi, gli Eurofighter Typhoon della prima serie e appunto gli F-16, magari quelli olandesi di prossima radiazione poiché nel medio termine saranno sostituiti dagli F-35. Quest’ultima è ancora una soluzione poco probabile, mentre più realistica sarebbe quella 0:00 / 0:45 PUBBLICITÀ 27/01/23, 08:44 Dopo i carri armati l'Ucraina vuole i caccia. Ma la guerra del cielo ha altre regole - Panorama https://www.panorama.it/news/dal-mondo/dopo-i-carri-armati-l-ucraina-vuole-i-caccia-ma-la-guerra-del-cielo-ha-altre-regole 3/8 proposta da Lockheed-Martin, che si è detta pronta a soddisfare la richiesta da parte di nazioni che decidano di dare i propri caccia a Kiev, aumentando la produzione presso lo stabilimento di Greenville, nel South Carolina. Frank St.John, Ceo dell’azienda, tre giorni fa aveva dichiarato ai giornali statunitensi che sarebbero in corso discussioni su questa possibile soluzione, per la quale gli F-16 che queste nazioni “donatrici” riceverebbero sarebbero più moderne di quelle cedute. Come è cambiato lo scontro nel cielo ucraino Per comprendere come mai la guerra aerea in Ucraina non sia quella che immaginiamo, con duelli tra aerei ed elicotteri, è necessario ricordare che dopo la fase iniziale del conflitto, durante la quale gli scontri aria-aria non sono mancati, con il passare di poche settimane si è visto che è più efficace possedere una difesa aerea mobile a terra piuttosto di schierare, nascondere e proteggere, e nel caso perdere, costosi aeroplani militari ed equipaggi addestrati. Meglio quindi usare missili e droni. Tuttavia, oggi qualsiasi tentativo frettoloso da parte dell'Ucraina di ottenere la superiorità aerea sarebbe un grave errore poiché il vantaggio quantitativo di mezzi volanti della Russia sarebbe prevalente, a causa dei tempi di addestramento dei piloti di Kiev su cacciabombardieri occidentali. Sempre che, ovviamente, costoro non siano già da mesi presso le scuole di volo americane e non soltanto. Sul fronte opposto, per Mosca usare aeroplani militari e più elicotteri vorrebbe dire esporli ad altissime probabilità di abbattimento e indebolire le sue dotazioni aumentando la probabilità di fallire l’obiettivo di mantenere la superiorità aerea sull'Ucraina. Kiev ha quindi tutti i vantaggi nel saturare la difesa aerea da terra con l’aiuto degli occidentali. Inoltre, le forze Nato non dispongono di riserve di aeroplani tali da poter agire come hanno fatto con i carri armati, e potrebbero fornire a Kiev soltanto poche unità, dal momento che il mercato delle versioni da esportazione dei velivoli e di quelle con sistemi di penultima generazione, negli ultimi anni si è concentrato in Paesi come Turchia, Grecia, Egitto, Emirati e altre destinazioni nel quadrante Asia-Pacifico. La scelta terribile di Kiev, risparmiare i colpi Da ottobre a oggi, la Russia ha colpito soprattutto le infrastrutture energetiche dell'Ucraina con attacchi missilistici e droni, meno costosi di aeroplani ed equipaggi, con l'obiettivo, presumono molti analisti, di fiaccare la popolazione civile e l’opinione pubblica estera per fare pressione sui leader affinché chiedano la pace. Ma questo tipo di attacchi ha anche un’altra logica: raggiungere e mantenere la superiorità aerea per logoramento. Per quasi un anno Mosca ha cercato un metodo efficace per contrastare la strategia di difesa aerea ucraina che si basa su batterie mobili che si spostano rapidamente per non essere localizzate e distrutte ma senza riuscire neutralizzarle, e ora spera di ottenere lo stesso effetto facendole sparare continuamente lanciando ondate di missili e droni contro città e infrastrutture energetiche per costringere i militari ucraini a spendere preziosi missili terra-aria. Di fatto prendendo di mira le infrastrutture energetiche, i russi mettono Kiev di fronte a una scelta: tentare di salvare la popolazione da un inverno freddo e buio ma esaurire le scorte di missili terra-aria, oppure preservare gli arsenali ma chiedere alla sua gente di pagare un prezzo elevato. E da qui le continue richieste di rifornimento all’Occidente. Affinché la strategia di superiorità aerea russa abbia successo, essa deve attrarre i missili terra-aria dell'Ucraina a un ritmo più veloce di quanto gli Usa e altre nazioni possano fornirne. E il rischio di terminare gli ordigni difensivi significa lasciare civili e militari indifesi contro l'aviazione russa ancora pronta a decollare per colpire le posizioni di prima linea e le linee di rifornimento, facilitando la potenziale offensiva primaverile di Mosca.

Estratto dell’articolo di Siegmund Ginzberg per “Il Foglio” il 29 gennaio 2023.

Furono impiegati per la prima volta verso la fine della Grande guerra. Servivano agli Alleati a sbloccare lo stallo della guerra di trincea. Fu inizialmente un disastro. Venivano distrutti dall’artiglieria tedesca, trasformandosi in trappole mortali, bare di acciaio infuocato per i loro equipaggi. La propaganda di guerra tedesca irrideva il carro armato. Gli contrapponeva il coraggio umano.

 Un’illustrazione di Ernst Schilling sulla copertina del settimanale satirico Simplicissimus del 17 settembre 1918 mostra un tank inglese affrontato e distrutto da un singolo soldato che lancia granate. “Sono i cuori, non le macchine a decidere l’esito”, dice la didascalia. In realtà a decidere fu la potenza economica, la logistica, la capacità di produrli in massa, di approvvigionarli. Quando giunsero al fronte in migliaia fecero la differenza.

 I carri russi danzanti nella neve un anno fa parevano invincibili. Poi li abbiamo visti scoperchiati come gusci di tartaruga, o di trilobite preistorica, bersagliati senza scampo come al tiro al piccione, addossati uno all’altro in colonne lunghe decine di chilometri. Avevano, abbiamo letto, un tallone d’Achille. […]

Sono parecchi decenni che ci viene detto che i carri armati sono obsoleti. A sconfiggere il drago d’acciaio basta un uomo solo con un Bazooka o un Javelin a spalla, o con una bottiglia molotov. Così vorrebbe la leggenda. Sono molti i conflitti anche recenti nei quali i tank hanno fatto cilecca. E pure aerei ed elicotteri, che sulla carta sono la migliore arma anti-tank.

 In realtà non è proprio così. È vero che può bastare un drone ad annientare una macchina da molti milioni di euro o dollari (4 e passa per i Leopard 2 tedeschi, 6 e passa per gli Abrams americani, una somma dello stesso ordine di grandezza per i T-90 russi, che i generali di Putin si sono guardati bene sinora dallo sprecare in Ucraina, preferendo scialare carne da cannone che gli costa poco o niente).

Ma ci sono situazioni in cui a decidere la battaglia sono i vecchi dinosauri. È la vecchia storia della spada e dello scudo. Reso inefficace lo scudo da spade sempre più affilate, si inventano scudi più efficienti o, viceversa, spade più potenti. Succede per i missili e i fantascientifici scudi stellari, esattamente come per i carri armati.

    Ci deve essere pure una ragione se Zelensky chiedeva con tanta insistenza che gli inviassero i tank pesanti, e Mosca minacciava rappresaglie da fine del mondo se l’occidente li avesse forniti. Il conflitto in Ucraina si è ormai arenato in guerra di posizione, come un secolo fa si era impantanata per anni nelle trincee la Prima guerra mondiale. E’ chiaro che non ci sarà tregua finché le parti non riterranno di avere conseguito sul campo una posizione da cui negoziare meglio. Si preparano al grande scontro in primavera, quando sgelerà. E per tornare dalla guerra di trincea a una guerra di movimento nelle steppe sterminate servono i carri armati. […]

I panzer di Hitler erano tecnicamente superiori. Ma Stalin ne produceva di più e poteva rifornirli meglio, grazie anche agli aiuti americani e all’intelligence inglese. Anche allora gli alleati occidentali esitavano a fornire materiale avanzato.

 Se ne sono sentite di scuse. I tedeschi dicevano che i Leopard servivano a loro, poi che la fornitura li metteva a rischio di rappresaglie, che era troppo complicato imparare a usarli e, infine, che dovevano fare i conti con la propria opinione pubblica. Temevano, e non del tutto a torto, di essere lasciati soli, come era successo per il gas. In realtà si è poi capito che il vero problema del cancelliere Scholz erano le obiezioni pacifiste che venivano dalla sua coalizione, anzi dall’interno del suo Partito socialdemocratico. […]

Il carro armato è da sempre un simbolo, un microcosmo concentrato delle paure e delle contraddizioni della condizione umana, e pure della politica internazionale. Mi sono rimasti negli occhi della mente scene di film in bianco e nero visti da ragazzo. Non saprei dire al momento se è in Niente di nuovo sul fronte occidentale, tratto dal romanzo di Erich Maria Remarque. Il primo, ineguagliato, del russo naturalizzato americano Lewis Milestone, risale al 1930. Quello più popolare è del 1979. Un ultimo remake del tedesco Edward Berger è del 2022.

 Ricordo una scena in cui il carro armato passa sopra la trincea, sembra che ti schiacci. Poi su internet ho scoperto che nascondersi in una buca, per aggredire il carro dalla parte più vulnerabile, da dietro, fa ancora parte dell’addestramento. In un’altra scena, un soldato ustiona un proprio commilitone sparando un razzo anti-carro. L’urlo straziante tornava nei miei incubi. I tank in fatto di claustrofobia fanno a gara con i sottomarini. E li superano di larga misura. […]

Altro film capolavoro: Sahara del 1943, dove è Humphrey Bogart a fare il carrista in Nord Africa. Un gioiello assoluto il film israeliano Lebanon del 2009, di Samuel Maoz, girato come se ci si trovasse nell’abitacolo di un Merkava. E’ il mondo, un’intera guerra, anzi l’intero conflitto tra Israele e gli arabi, più crudeli tra di loro che col nemico israeliano, visto non da una finestra, ma dal mirino di un carro armato.

 […]

   C’erano una volta i cantori della macchina miracolosa, della “cannoniera automobile”, della “prodigiosa sintesi fra l’uomo bellico e le sue creature meccaniche”. Ci fu un’epoca in cui i cervelli più creativi d’Italia e d’Europa erano in deliquio di fronte al mito delle macchine che, con la loro incredibile velocità, erano in grado di annientare la vecchia antiquata cavalleria. C’è chi dice che proprio dai carri armati, e comunque dall’aggressività della fabbrica, il cubismo avrebbe tratto le fattezze squadrate, gli angoli metallici, le punte aguzze. Filippo Tommaso Marinetti si scioglieva dinanzi all’idea della “Guerra come igiene del mondo”, così come, anni dopo, Ernst Jünger avrebbe goduto nelle “Tempeste d’acciaio”. 

 […]

Di carri armati parlava la canzone che avevano improvvisato nel 1968 i compagni della Sezione universitaria del Pci alla Statale di Milano. Sull’aria di Quel mazzolin di fiori, faceva: “Quella bandiera rossa sul carro armato / oh quanto dolore ci ha dato”. Le parole le aveva inventate Gaspara Pajetta, una delle figlie di Gian Carlo. Parlava dell’invasione sovietica della Cecoslovacchia. Il “dispiacere” è vedere quei carri che avevano ricacciato Hitler e liberato Berlino schiacciare un tentativo di “socialismo dal volto umano”.

 […]

C’erano guerre, come quella dei Sei giorni, tra Israele e l’intero mondo arabo, in cui avevano un ruolo di primo piano i mezzi corazzati. Ma negli anni 60 e 70 il carro era stato, per la mia generazione, simbolo di golpe, di violenza armata contro i governi legittimamente eletti e i civili. Ricordo il carro armato sulla copertina di un libriccino dal titolo Coup d’Etat: A Practical Handbook, un manuale pratico del colpo di stato. L’autore era un allora giovane e brillante studioso americano, Edward Luttwak.

 Poi nel 1989 i carri armati fecero strage a Pechino. Non ci si limitò a dispiegarli in funzione intimidatoria. Vennero usati per schiacciare gli studenti che da settimane occupavano la piazza chiedendo democrazia. Ricordo un collega, peraltro simpatico, che si faceva in quattro per giustificare la scelta di Deng Xiaoping. Non c’era da meravigliarsi. Prima che a Pechino aveva fatto il corrispondente dalla Madrid di Franco, dalla Washington di John Kennedy, dalla Mosca di Breznev. Immancabilmente si era fatto in quattro a ingraziarsi quelli al momento al potere. Ha fatto scuola.

L’uomo solo di fronte al carro armato in piazza Tienanmen divenne il simbolo del coraggio e della resistenza. Lo videro in molti dai balconi del Beijing Fandian, l’albergo con vista laterale sulla piazza in cui alloggiavano i giornalisti. Negli scatti di Stuart Franklin per la Magnum si vede un uomo magro e mingherlino, in camicia bianca, con in mano una borsa di tela di quelle allora diffusissime in Cina, fermare un’intera colonna di carri armati mettendoglisi davanti.

Il carro capofila imballa il motore, minaccia di travolgerlo, prova a superarlo a destra, poi a sinistra. Lui imperterrito, saltella di lato per impedirgli di passare, continua a fargli segno con la mano che si fermino, tornino indietro. Poi lo si vede arrampicarsi sul carro, mettersi a discutere col guidatore emerso dalla torretta. Alla fine si vede che lo portano via. Non si è mai saputo il suo nome, chi fosse, che cosa diceva ai carristi, né che fine abbia fatto.

Tutta la storia dei Leopard 2 all’Ucraina, dall’inizio. VINCENZO POTI su Il Domani il 24 gennaio 2023

Il ministro della Difesa di Varsavia annuncia la richiesta ufficiale e spinge la Germania a inviare i propri carri per la «sicurezza di tutta l’Europa». I “tank” sono tornati

Come annunciato via Twitter, il ministro della Difesa polacco, Mariusz Blaszczak, ha inoltrato alla Germania la richiesta di autorizzazione per l’invio all’Ucraina dei carri armati Leopard 2, fabbricati dalla tedesca Rheinmetall, in possesso dell’esercito di Varsavia. Alla richiesta è stato affiancato un accorato invito all’emulazione, con il ministro che ha nuovamente chiesto alla Germania di «unirsi alla coalizione di paesi che sostengono l’Ucraina con i carri armati Leopard 2» legando l’invio dei mezzi al mantenimento della «sicurezza di tutta l’Europa».

L’autorizzazione sembra però una formalità. Berlino, che esaminerà la richiesta, si è già detta pronta a consentire il trasferimento da altri paesi, forse nel tentativo di prolungare i tempi della decisione riducendo la pressione dei “falchi” sulla Germania stessa. In Polonia, con una mossa probabilmente elettorale in vista delle elezioni del novembre 2023, il governo ha provato a derubricare l’autorizzazione tedesca, definendo il consenso di Berlino «secondario». 

Il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, oggi fa un passo oltre e, dopo aver incontrato il ministro della Difesa Boris Pistorius, dice di essere fiducioso sulla rapidità della decisione tedesca. L’interlocutore è più cauto: «Non c’è ancora nessuna novità» sui Leopard, ma la decisione verrà presa «a breve». Premettendo che la Nato «non deve diventare parte del conflitto», il ministro tedesco apre all’inizio dell’addestramento degli ucraini da parte degli alleati disposti a consegnare i carri. 

Secondo quanto dichiarato da due funzionari statunitensi a Reuters, gli Stati uniti potrebbero presto comunciare la decisione di mandare i propri carri M1 Abrams al fronte, adempiendo così alla condizione posta dai tedeschi per l’invio dei Leopard 2. 

Indiscrezioni di Der Spiegel suggeriscono che la stessa Germania sia, dunque, pronta a sbloccare i propri Leopard 2, portando così nell’ordine del centinaio i mezzi corazzati che potrebbero presto arrivare in Ucraina. 

LE PREMESSE

Recentemente il governo di Olaf Scholz ha subito pressioni dagli alleati atlantici e dall’Ucraina affinché sbloccasse la fornitura dei propri Leopard 2, al punto che i carri sono stati tra i temi centrali dell’ultimo incontro del gruppo di contatto di Ramstein. Tuttavia, la linea del cancelliere è stata estremamente cauta: sui social è stata addirittura coniata la parola “scholzing” per indicare l’azione di chi promette aiuti per poi temporeggiare. 

Eppure, l’Ucraina aspetta la decisione tedesca sull’ambito mezzo corazzato da ben prima delle recenti richieste avanzate dal presidente Volodymyr Zelensky. Infatti, già il 3 marzo 2022, solo sette giorni dopo l’invasione del paese, l’ambasciata ucraina di Berlino inviava una nota scritta al ministero degli Esteri tedesco in cui richiedeva «il più rapidamente possibile» una serie di sistemi d’arma ritenuti essenziali per l’iniziale resistenza delle truppe di Kiev. A pubblicarla l’attuale vice ministro degli Esteri ucraino, Andrij Melnyk. 

Tra le armi richieste, oltre a pezzi di artiglieria, missili antiaerei e, curiosamente, sottomarini, figurano i carri armati, gli stessi Leopard sui cui oggi si incentra il dibattito politico sugli aiuti militari. A seguito della richiesta, la Germania inviò immediatamente, seguendo gli altri alleati, missili terra-aria portatili (i cosiddetti Manpad) di fabbricazione sovietica, gli Strela, e americana, gli Stinger. 

IL SILENZIO

Nonostante l’invito alla rapidità, a circa 11 mesi dall’inizio della guerra, l’Ucraina non ha ancora ricevuto carri occidentali ma solo modelli di concezione sovietica come i T-72 già in dotazione agli eserciti ucraino e russo.

Al contrario, le armi anticarro, in particolare i Javelin americani, hanno costituito la spina dorsale della resistenza nelle prime fasi del conflitto. Sul campo di battaglia, i Javelin, missili a spalla precisi ed estremamente efficaci, hanno arrestato le colonne di carri russi diretti verso Kiev e altre città ucraine. I Javelin sono diventati l’icona del primo “no” ucraino all’avanzata dell’invasore, tanto da entrare nell’iconografia pop come i soggetti privilegiati di adesivi e gadget pro-Ucraina. 

Le immagini dei carri russi distrutti dai missili o impantanati hanno fatto pensare alla fine del carro armato come arma di punta degli eserciti convenzionali: troppo pesanti, troppo lenti, assetati di un carburante che la fallace logistica russa fatica a fornire. 

IL RITORNO DEL CARRO ARMATO

Eppure, con il mutato contesto bellico e con una guerra sempre più d’attrito tra i due eserciti europei, il carro armato è tornato di moda, rimodulando il dibattito politico occidentale sugli armamenti e ritornando nelle liste dei desideri di Zelensky e generali. 

Già ad aprile 2022 Zelensky aveva reiterato la richiesta di «armi pesanti» in un video diffuso su Twitter in cui, citando i massacri di Mariupol, Bucha, Kramatorsk, il presidente dice: «la Russia può essere fermata solo con la forza delle armi».

La Repubblica Ceca si fa trovare pronta, diventando così il primo stato della Nato a inviare carri sovietici T-72 a Kiev. Seguiranno a breve altri stati membri, su tutti gli Stati Uniti. 

Contestualmente, il ceo della Rheinmetall, Armin Papperger, assicura che l’azienda è pronta a produrre 50 Leopard 1, il modello precedente al più moderno 2, da inviare a Kiev nel breve periodo. Immediata la risposta negativa dell’ex ministro della Difesa Christine Lambrecht, recentemente dimessasi in seguito ai dubbi sollevati sulla compatibilità con il suo ruolo. 

A settembre, il leader della coalizione d’opposizione Cdu/Csu, Friedrich Merz, ha invitato i governi statunitense e tedesco a fornire i propri carri armati all’Ucraina, citando i mezzi “del momento”: gli M1 Abrams e, appunto, i Leopard 2.

In quello stesso periodo, l’European Council on Foreign Relations pubblicava un report intitolato «Leopard Plan» in cui si discuteva dell’opportunità politica e militare di inviare i moderni corazzati come aiuti militari. 

È, tuttavia, a dicembre che, alla luce degli sviluppi sempre più favorevoli all’esercito di Kiev, gli Stati uniti chiedono alla Germania di provvedere all’invio dei propri Leopard 2. Alla richiesta del consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan, il consigliere diplomatico di Scholz Jens Plötner risponde invitando alla reciprocità: la Germania non sarà il primo paese Nato a fornire carri occidentali all’Ucraina. 

Da quel momento in poi, l’affare Leopard 2 è diventato la priorità delle diplomazie europee e nordamericane. A gennaio, Francia e Regno Unito hanno aperto all’invio dei rispettivi carri armati, i Leclerc e i Challenger 2. Rishi Sunak, primo ministro britannico, ha ripetuto più volte l’offerta, suggerendo di poter lasciar partire 14 Challenger nel giro di poco. 

Evidente lo scopo delle promesse francesi e britanniche: mettere pressione al Scholz affinché si senta obbligato a inviare i sospirati Leopard 2. Berlino risponde legando il proprio consenso all’invio degli M1 Abrams da parte degli Stati uniti. 

Il carro tedesco è, però, preferito alle alternative americane, inglesi e francesi per diversi motivi. Rispetto all’Ambrams, è meno complesso, più facile da mantenere e da riparare. Gode, inoltre, del vantaggio numerico sui concorrenti francesi e britannici in quanto è parte degli arsenali di ben 13 paesi Nato con chiari vantaggi in termini di mezzi e ricambi disponibili. Il Leopard 2 è, infine, universalmente considerato un mezzo dal grande potenziale bellico, grazie al grado di avanzamento delle tecnologie impiegate e al bilanciamento tra corazzatura, mobilità e armamenti. 

UN CARRO PER IL MORALE

Se a marzo 2022 la Germania ha potuto glissare sulla voce «carri armati», oggi il Leopard 2 è oggetto delle pressioni polacche (e non solo) e dello “scholzing” prolungato di Berlino. I tedeschi temono i costi dell’invio dei carri. Da un lato, quelli tecnici: quanto costerebbe e quanto richiederebbe ripristinare l’inventario dei corazzati del Bundeswehr? Dall’altro quelli politici: quali conseguenze per la Germania e quale impatto sulla possibilità di un’escalation del conflitto? 

I dubbi sorgono anche sull’effettivo utilizzo dei Leopard 2 sul campo di battaglia. Infatti, il rinvio alla primavera della controffensiva e le memorie dei relitti dei mezzi russi fanno dubitare dell’utilità delle decine di carri che i possessori europei invierebbero previo consenso tedesco. Zelensky risponde sulla tv tedesca Ard: «10, 20, 50 carri armati non risolvono il problema, ma motivano i nostri soldati a combattere per i propri valori, perché dimostrano che il mondo intero è con te». 

Il Leopard 2 diventa così soggetto attivo del dibattito politico: l’impatto tattico è secondario rispetto al significato simbolico che la cessione di questi mezzi avrebbe. In effetti, il carro, che abbia fatto il suo tempo o meno, rimane un segno indiscutibile di forza militare, specie se fiore all’occhiello della proverbialmente nota industria tecnologica tedesca.  VINCENZO POTI

(ANSA il 24 gennaio 2023) - Le tattiche brutali della compagnia di mercenari Wagner in Ucraina sono state rivelate da un rapporto dei servizi segreti militari ucraini che illustra l'efficacia del gruppo paramilitare a Bakhmut e quanto sia difficile contrastarlo. La Cnn ha potuto leggere il documento segreto.

 "I combattenti del Gruppo Wagner sono diventati la fanteria usa e getta dell'offensiva russa nell'Ucraina orientale. I gruppi d'assalto non si ritirano senza un comando. Il ritiro non autorizzato di una squadra o senza essere feriti è punibile con l'esecuzione sul posto", afferma il report dell'intelligence. Anche le intercettazioni telefoniche ottenute da una fonte dell'intelligence ucraina e condivise con la Cnn indicano comportamenti spietati sul campo di battaglia.

In una si sente un soldato parlare di un altro militare che ha cercato di arrendersi agli ucraini: "I mercenari della Wagner lo hanno preso e gli hanno tagliato i testicoli". Secondo la valutazione ucraina, i combattenti Wagner feriti vengono spesso lasciati sul campo di battaglia per ore, "la fanteria d'assalto non è autorizzata a portare via i feriti dal campo di battaglia da sola, poiché il suo compito principale è quello di continuare l'assalto fino al raggiungimento dell'obiettivo. Se l'assalto fallisce, la ritirata è consentita solo di notte".

 Wagner è un appaltatore militare privato fondato dall'oligarca Yevgeny Prigozhin, che nelle ultime settimane è stato molto in vista in prima linea e sempre pronto a rivendicare il merito dei progressi russi. I combattenti di Wagner sono stati pesantemente coinvolti nella conquista di Soledar, a pochi chilometri a nord-est di Bakhmut, e delle aree intorno alla città. Il rapporto ucraino, datato dicembre 2022, conclude che Wagner rappresenta una minaccia unica a distanza ravvicinata, anche se subisce perdite straordinarie.

(ANSA il 25 gennaio 2023) Il cimitero russo noto per essere usato dai mercenari di Wagner è cresciuto rapidamente negli ultimi mesi, mostrando come il gruppo sta pagando l'invasione dell'Ucraina. Lo riporta il New York Times che ha analizzato le immagini satellitari dell'area notando il recente ampliamento del cimitero che coincide con l'offensiva russa per guadagnare terreno nell'Ucraina dell'est.

Un'immagine satellitare del 24 gennaio, spiega il quotidiano, mostra 170 sepolture nell'area del cimitero dove si trovano di solito i soldati di Wagner, un numero quasi sette volte superiore alla stessa immagine di due mesi fa. Il cimitero del gruppo in Russia, che si trova nelle vicinanze del villaggio di Molkin dove addestra i suoi uomini, è stato reso pubblico in dicembre da Vitaly Wotanovsky, attivista ed ex dell'aeronautica russa.

Per anni i mercenari di Wagner hanno mantenuto un basso profilo nelle loro operazioni in paesi quali la Siria, la Libia e in Africa. ma dall'inizio della guerra in Ucraina, il gruppo è salito alla ribalta con video promozionali e ripetute dichiarazioni sulla sua potenza, rilasciate dal volto pubblico dell'organizzazione Yevgeny Prigozhin.

Anche gli africani combattono in Ucraina, per uscire di prigione o per soldi. Storia di Matteo Fraschini Koffi su Avvenire il 26 Gennaio 2023.

«Resta in prigione o vieni a combattere». È questa una delle strategie della Russia che ha spinto Tarimo Nemes Raymond a prendere in mano le armi contro l’Ucraina. Assoldato l’anno scorso dalla società di mercenari russa Wagner, Tarimo ha combattuto nel Donbass per alcuni mesi fino a quando è morto a fine ottobre durante uno scontro armato nella località di Bakhmut, nell’est dell’Ucraina. Il suo corpo sarà presto rimpatriato in Tanzania dove le autorità e i media locali non hanno ancora commentato questa notizia, nonostante il tempo trascorso dall’uccisione.

«Tarimo era uno dei tanti studenti arrivati in Russia per studiare all’università – afferma la stampa internazionale –. Era però stato arrestato e imprigionato per un apparente crimine legato al traffico di droga». Un video che circola sulle reti social mostra la foto di Tarimo con di fianco la sua bara e intorno alcuni mercenari della Wagner totalmente incappucciati. Su un tavolo giacciono due medaglie: una per il coraggio e l’altra composta dalla una croce usata come simbolo dalla società militare russa.

Ma Tarimo non è il solo africano ad essere rimasto ucciso tra le fila della Wagner. Lemekhani Nathan Nyirenda era un 23enne originario dello Zambia. Preso da una prigione russa dove stava scontando una pena a 9 anni iniziata nel 2020, il giovane studente africano si è in seguito ritrovato a combattere per il gruppo Wagner prima di finire ucciso lo scorso settembre. Martedì centinaia di persone hanno partecipato al suo funerale nella capitale, Lusaka.

«Centinaia di africani, in gran parte studenti, sono da mesi sotto pressione – confermano gli analisti militari–. Molti sono spinti a combattere per la Russia in Ucraina in cambio dell’annullamento della pena». Non ci sono solo ex carcerati tra le file di Wagner o dell’esercito russo, sono presenti anche studenti che invece di continuare gli studi ricevono offerte che raggiungono i «tremila dollari al mese» per imbracciare le armi a favore della Russia. Nei vari atenei, soprattutto quelli vicino al confine con l’Ucraina, numerosi reclutatori militari russi approcciano gli studenti africani per convincerli ad arruolarsi promettendogli un salario sostanzioso e «l’avventura».

Altri africani, in maniera volontaria, hanno cercato invecedi andare a combattere dalla parte degli ucraini, soprattutto studenti o semplici cittadini originari di Paesi come Senegal, Nigeria, Zambia, Costa d’Avorio e Sudafrica. «So che è una guerra e non un gioco da ragazzi, ma voglio unirmi agli ucraini – aveva detto alla stampa Kereti Usoroh, giovane avvocato nigeriano che ha scelto la via del Donbass–. Essere un soldato in Ucraina è sempre meglio che essere qui nella città di Lagos».

Le richieste di volontari africani pronti a partire per il fronte ucraino erano talmente numerose che alcune ambasciate ucraine in Africa hanno ricevuto minacce dai governi africani che volevano bloccare i propri connazionali dall’arruolarsi. Al momento, però, non ci sono stime certe riguardo al numero di africani assoldati dall’Ucraina o dalla Russia. «Alcuni amici del Nordafrica e diversi centrafricani dovrebbero essere partiti al fronte – commentano alcuni studenti africani che hanno declinato tali offerte –. Li vedevamo ogni giorno in università e poco dopo scomparivano senza dire niente».

Estratto dell’articolo di Domenico Quirico per “La Stampa” il 24 gennaio 2023.

Uno dei ruoli più spiacevoli e dannosi che possano capitare a un uomo politico è quello di finire per rappresentare la propria figura del passato. […] È letale esser guidati da qualcuno segnato dal passato. Anche se questo passato è positivo, perfino eroico. […] Colui che era formidabile […] nella prima fase della lotta diventa, […] superato, inadatto. Talvolta perfino dannoso. Soprattutto se quel capo comincia a credere lui stesso […] al proprio personaggio. A Zelensky, forse, questo non è ancora accaduto e vorremmo che non accadesse. Forse ha meritato di meglio.

[…] Zelensky di prima del 24 febbraio, prima della invasione russa, era un attore, e soprattutto un leader, scialbo, alla ricerca di un copione giusto, di una maschera di cartone che lo sollevasse dalla mediocrità di una recita senza profumo. Sillabava, povera animuccia prigioniera di questo secolo di ferro, in un luogo d’Europa dove geografia e Storia sono in pericolosa contraddizione […]

[…] È Putin che ha scritto […] con l’aggressione, la parte perfetta per lui, quella che non avrebbe mai immaginato da solo: il leader che guida la resistenza eroica di un popolo intero […] Zelensky ha recitato la parte con efficacia […] le passeggiate nella Kiev deserta e spettrale dei primi mesi a fianco dei leader occidentali, o al fronte tra le macerie riconquistate, i discorsi serali alla nazione, in perenne costume guerresco, la maglietta verdognola che allude a iconologie mistico consumistiche alla Guevara, gli interventi continui, incalzanti, assertivi via video per non dar scampo ad alleati tiepidi o riluttanti.

Zelensky sa che nel nostro Occidente stanco, esausto, un discorso all’Onu […] non conta quasi nulla. Molto più efficace irrompere al festival di Sanremo o sulla Croisette di Cannes. Zelensky è consapevole che la sua persona […] è qualcosa di […] mediocre e banale.

Molti dei suoi connazionali, e non solo i filorussi, lo detestavano. […] Nel ruolo di eroica guida suprema degli ucraini Zelensky ha trovato […] l’eterno.

 […] in realtà non ha fatto nulla di politicamente o militarmente memorabile. I russi aggressori e gli americani hanno deciso tutto per lui. Vive, teatralmente, tutto nelle parole che ha pronunciato sul palcoscenico tragico della guerra. […] In realtà sa che l’unico spettatore in prima fila che conta è Biden. Perché è dagli Stati Uniti che dipende la sopravvivenza del suo Paese […]

[…] Il rischio per Zelensky è di cominciare a credere al copione che finora ha recitato […] anche se sa che è finzione […]Ciò significa credere che la vittoria totale contro la Russia, la eliminazione diretta o indiretta di Putin, sia l’unica opzione possibile. E che invece non sia arrivato il tempo del secondo atto […] sfruttando le evidenti debolezze russe, saper trattare i margini della vittoria. […]

Il piano per fare di Mosca un’orbita dell’Ue. Così Francia e Germania vogliono fare fuori Putin, rischio escalation sempre più vicino. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 24 Gennaio 2023

Il mondo del 2023 va assomigliando al mondo che nel 1914 si dilaniò nella Grande Guerra per molti motivi scollegati e convergenti: allora la nuova Germania era certa di poter strappare all’Inghilterra il dominio dei mari, la Francia e la Russia zarista erano unite con la Serbia. Mai avremmo sospettato nel 1945 con l’inizio del bipolarismo e dai primi venti di guerra fredda, che dopo due generazioni ci potessimo trovare a fronteggiare una corsa verso le strutture imperiali. La Germania e il Giappone, le due grandi potenze nemiche delle democrazie nella Seconda guerra mondiale, hanno deciso di riarmarsi come grandi potenze e nel caso della Germania di farlo sotto l’impulso americano.

L’America nel complesso anche molto contenta del risorgere della potenza giapponese perché sente di non poter farcela da sola nel contenimento della Cina se le cose dovessero precipitare. E poi naturalmente c’è la Turchia di Erdogan che sta rimettendo insieme l’impero ottomano recuperando quel che può del Medio Oriente e puntando ora specialmente sulla Siria che vuole condividere con i russi contando di espellere – se non di sterminare – il popolo curdo. Ma c’è la vicenda delle armi in Ucraina che sta creando la più grande spaccatura e saldatura tra imperi e democrazia. La Francia di Macron e la Germania di Scholz hanno formato in questi giorni una specie di Santa alleanza insieme alla Polonia per trovare l’accordo con cui recapitare a Kiev un numero sufficiente di carri armati Leopard (diretti discendenti dei Tigre del Terzo Reich), quanti ne bastano per rovesciare le sorti della guerra a favore di Kiev. Dove lo Stato maggiore ucraino è convinto non solo di potersi riprendere tutta l’Ucraina invasa, ma anche la Crimea.

È sulla Crimea che gli americani non ci stanno e tendono a frenare l’asse più militarista europeo formato da Germania, Francia, Polonia, Svezia e Finlandia. convinto di dover infliggere una sconfitta militare a Putin per poter poi ripartire da capo con un’altra Russia e un’altra Europa. Si tratta idi una rielaborazione della linea gollista che voleva l’Europa dall’Atlantico agli Urali, già difesa da Macron, che però pensa di poter imporre la caduta del regime attuale a Mosca e la nascita di un regime filoeuropeo. Gli americani invece sono preoccupatissimi del piano ucraino franco-tedesco di cacciare i russi anche dalla Crimea. In parole povere gli Stati Uniti puntano a una guerra di lunga durata e di lungo costo che abbia l’ obiettivo di persuadere Putin a fare marcia indietro senza nuove avventure, mentre Berlino, Parigi e Varsavia accarezzano l’idea della spallata: dare una spallata a regime del Cremlino, far emergere le forze europeiste in grado di sostituire l’attuale dirigenza e passare di fatto a una incorporazione della Federazione russa nell’orbita europea che è l’esatto contrario di ciò che pensava di fare Putin incorporando l’Europa nell’orbita russa.

Perché la guerra in Ucraina può finire a Parigi: la data, i precedenti e la vittoria di Putin, Zelensky e Occidente

A questo piano europeo che sta prendendo forma in queste ore con una serie di “stop and go” per via dei ripensamenti ora del governo tedesco ora del dipartimento di Stato americano, Putin è certamente pronto a rispondere ma non è ben chiaro come. Per cominciare l’attuale governo russo distingue le posizioni europee da quelle americane che sono molto più caute, ma sempre con l’obiettivo di non abbandonare mai gli alleati ucraini anche perché è evidente che questa guerra subita dall’Ucraina abbia fatto emergere un paese che nel corso di un anno è diventato una vera potenza umana anche se ancora non in grado di produrre sistemi di difesa in proprio. Dal punto di vista americano l’Ucraina che era stata tenuta accuratamente fuori dalla Nato è adesso una potenzialità più che una potenza e costituisce un solido bastione per l’Occidente. Tuttavia, né Biden, né il dipartimento di Stato, né la Cia puntano alla sostituzione di Putin o su improbabili colpi di mano a Mosca. E a questo punto, con la evidente separazione degli interessi e degli strumenti fra Europa e America nella questione Ucraina, Putin può a sua volta differenziare le sue reazioni contro i nemici europei separandole da quelle contro gli Stati Uniti.

Secondo tutti gli analisti americani ed europei la risposta che si sta profilando da parte dei russi nei confronti dell’Europa è un’accurata preparazione di un piano in parte terroristico, in parte destabilizzante condotto da forze di estrema destra. Per primo il partito imperiale russo bianco, suprematista ed antisemita con molti simboli nazisti che sarebbe stato addestrato e schierato sul campo per ora in Spagna, dalla cosiddetta “Unità 29155”, che sarebbe l’antico servizio militare sovietico e poi russo. In Spagna governo e polizia nonché l’opinione pubblica si sono trovati di fronte a una catena di manifestazioni di suprematisti bianchi dei gruppi antisemiti sui quali le autorità spagnole non si sono ancora espresse ufficialmente ma che a parere della signora Fiona Hill, già direttrice del consiglio di sicurezza nazionale della Casa Bianca per i rapporti tra Europa e Russia, conferma il collegamento tra servizio militare russo e i nuovi nazisti sparpagliati in Europa. Non sarebbe la prima volta perché già dopo la caduta del muro e il dissolvimento dell’Unione sovietica emersero sotto il coperchio imperiale eserciti di ultras che si dichiaravano ora nazisti e ora comunisti, uniti dal comune progetto di sottomettere le depravate democrazie occidentali.

Nell’aprile del 2020 il Dipartimento di Stato americano denunciò la crescita di uno sconosciuto Movimento Imperiale Zarista che costituisce la parte violenta del suprematismo bianco. Secondo l’intelligence americana e il dipartimento di Stato i capi di questo vasto movimento che agisce sia in America che in Europa sarebbero il fondatore Stanislav Anatolievich Vorobyev, in azione da due decenni, Denis Valiullovich Gariyev al comando dei paramilitari della Legione Imperiale Russa e Nicolai Nikolayevich Truschalov, specialista in operazioni all’estero. A questi gruppi sostenuti dai servizi russi e in particolare dal Gru – intelligence militare – gli svedesi attribuiscono gli attentati di Gothenburg nel 2016 che avevano colpito posti di rifugio per i migranti e altri luoghi di accoglienza. Secondo la Stanford University il Movimento Imperiale Russo trova i suoi adepti fra ”suprematisti bianchi” monarchici ultranazionalisti ortodossi antisemiti, tutti nostalgici dell’Impero zarista dei Romanov ma nutriti di idee neonaziste fuse con quelle dei suprematisti bianchi europei e americani. A loro dichiarò di ispirarsi l’australiano che nel 2019 uccise 51 musulmani in Nuova Zelanda.

Gli stessi personaggi avrebbero compiuto nel 2018 l’attentato in Inghilterra contro Sergei Skripal, ex agente del Gru passato agli inglesi, avvelenando lui e la figlia, scatenando durissime reazioni della politica e della stampa inglese, procedendo poi con una catena di attentati nella Repubblica Ceca e in Bulgaria oltre a un tentativo di colpo di Stato in Montenegro nonché una taglia offerta ai talebani afghani per ogni soldato occidentale ucciso. Secondo le inchieste che affiorano sulla stampa americana australiana e canadese questo vastissimo movimento ormai radicato in quasi tutti i Paesi occidentali potrebbe avere il compito di destabilizzare dall’interno i Paesi dell’Europa occidentale inclini all’invio di carri armati tedeschi Leopard in Ucraina, Nel frattempo – sono dati dell’ultimo mese – la Cina ha smesso di crescere: i progetti vagheggiati dalla dirigenza del partito comunista cinese sembrano frustrati da una crisi imprevista: il calo repentino delle nascite, l’aumento delle morti per Covid e la sterilità di 150 milioni di maschi privi di una partner femminile a causa della politica di un solo figlio per famiglia voluta da Mao Zedong la cui conseguenza è stata la strage nelle case contadine di quasi tutte le neonate femmine, inutili come forza lavoro nei campi.

Sembrano crollare a picco le prospettive del mercato interno e si prevede uno svuotamento delle scuole. La Cina vive una crisi economica che porterà fin quasi all’arresto della crescita del paese mentre la fobia di nuove forme di covid provoca tumulti, panico e cessazione di attività commerciali e produttive. con l’effetto collaterale di una rivendita sottobanco di milioni di barili di grezzo che la Cina compra a prezzo di favore dalla Russia e rivenderebbe sottobanco all’Iran, che a sua volta lo immette sui mercati che avevano adottato il Price Cap contro la Russia. Una parte dell’Europa del Nord più, la Francia, è incline a fondersi con i nuovi membri della Nato, Svezia e Finlandia, più Germania Francia e Polonia che puntano su una nuova Russia senza Putin e che quindi perseguono la sconfitta.

Anche Vladimir Putin vede come il fumo negli occhi questo progetto volto a farlo fuori senza danneggiare la Russia, perché è sempre più determinato a rimettere insieme l’antico Impero russo. Infine, il turco Erdogan è infaticabile nel trattare su tutti i tavoli, europeo, americano, russo e cinese pur di tornare padrone del Mediterraneo, della Libia e del Medio Oriente. L’invasione dell’Ucraina di undici mesi fa ha aperto dunque un inaspettato vaso di Pandora che ha portato alla luce sottomondi fra loro ostili e infuriati esattamente come accadde quando la fine della Grande Guerra mise il mondo di fronte ad un formicaio ingovernabile simile a quello contenuto dai vecchi imperi.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Biden: «Daremo 31 carri armati Abrams a Kiev. Ma non è un’offensiva contro la Russia». Andrea Nicastro, inviato, e Redazione Online su Il Corriere della Sera il 25 Gennaio 2023.

Le notizie sulla guerra di mercoledì 25 gennaio, in diretta. Il presidente Usa: «Non è una minaccia offensiva contro la Russia». Kiev: «Confermiamo Soledar in mani russe»

• La guerra in Ucraina è arrivata al 336esimo giorno.

• Germania e Usa forniranno i carri armati che Kiev chiedeva da tempo. L’Ucraina potrà così reggere l’offensiva russa in primavera.

• Corruzione e collaborazionisti, un secondo fronte per Kiev.

Ore 04:42 - Corruzione e collaborazionisti: il secondo fronte della resistenza ucraina

(Di Andrea Marinelli e Guido Olimpio) Il punto militare 343 | Dalla morte del negoziatore Denys Kirieiev, pochi giorni dopo l’invasione, alle dimissioni dei funzionari del governo, il secondo fronte ucraino è infido, pieno di ombre, rischi e minacce.

È il secondo fronte ucraino. Infido, pieno di ombre e rischi, minacce. Animato da spie, corruzione, pericoli che arrivano dall’esterno. Un episodio brutale nei giorni seguenti all’invasione. Denys Kirieiev, uomo d’affari e negoziatore diplomatico, è ucciso da agenti del controspionaggio Sbu su uno dei loro mezzi. L’imprenditore era stato arrestato perché sospettato di aver passato informazioni a Mosca. Una versione ribaltata — come ha rammentato il Wall Street Journal di recente —, racconta una vicenda in cui la vittima non ha colpito alle spalle il suo paese ma lo ha aiutato in modo decisivo. Questo ribadiscono a Kiev. Se la capitale non è caduta in mano agli occupanti è anche merito suo, perché ha svelato a Zelensky dettagli importanti sul piano d’attacco. Particolari acquisiti attraverso le sue relazioni sull’altra barricata, in campo russo. Infatti sarà poi sepolto con tutti gli onori nonostante voci e notizie che lo dipingevano come una «talpa»

Ore 04:46 - Carri armati Abrams, Usa pronti a inviarli in Ucraina: cosa cambia nella guerra?

(Di Andrea Marinelli e Guido Olimpio) Berlino ha sempre subordinato il suo eventuale sì ai Leopard all’invio dei tank americani La fornitura eliminerebbe un alibi. Intanto Kiev otterrebbe un mezzo più preciso nel tiro rispetto alle «macchine» in dotazione.

Gli Usa sono pronti a fornire i carri armati Abrams all’Ucraina. Un’ipotesi prima considerata, poi raffreddata con scuse, ora vicina a concretizzarsi per accontentare una pre-condizione tedesca. La Germania era pronta a dire sì all’invio dei Leopard, a patto che gli americani facessero una mossa analoga. Ad anticipare la probabile svolta è un articolo del Wall Street Journal, sempre bene informato sui retroscena della crisi. Cosa comporta?

Ore 04:47 - La guerra nucleare e l’orologio dell’Apocalisse: mai stati così vicini al disastro atomico

(Antonio Carioti) Un «bollettino scientifico» nato nel 1947. Oggi saremmo a soli 90 secondi dall’Apocalisse (la mezzanotte) per via del conflitto ucraino. Ora incide anche il riscaldamento climatico.

La guerra atomica, o comunque una catastrofe mondiale per l’intera umanità, non è mai stata vicina come adesso. O, quanto meno, questa è la valutazione appena formulata dai curatori del «Bollettino degli Scienziati Atomici», che ogni anno misurano simbolicamente, attraverso il cosiddetto Orologio dell’Apocalisse, quanto la Terra si approssimi a un disastro irrimediabile. La mezzanotte sul quadrante di questo cronometro corrisponde all’olocausto nucleare: quanto più la lancetta dei minuti vi si avvicina, tanto maggiore è il pericolo. La stima comunicata il 24 gennaio è che ci troviamo a soli 90 secondi dall’apocalisse. A preoccupare è soprattutto la guerra provocata dall’aggressione di Mosca contro Kiev, tant’è vero che il comunicato stampa con l’annuncio è stato diffuso per la prima volta in inglese, in russo e in ucraino.

Ore 05:01 - Vjosa Osmani, presidente del Kosovo: «La Serbia? Imperialista come Mosca e coopera con la Wagner»

(di Francesco Battistini) Presidente Osmani, un quarto di secolo dopo le bombe, quindici anni dopo l’indipendenza, come mai il Kosovo è ancora sull’orlo d’una guerra con la Serbia?

«Non direi che sia stato il Kosovo a finire nel baratro di queste tensioni. E non si può dire che aggressore e vittima stiano sullo stesso piano. E’ casomai quello stesso Paese che intraprese le guerre negli anni ’90, ancora una volta, a creare problemi. Purtroppo la Serbia è guidata da chi negli anni ’90 stava al servizio di Milosevic e ha le stesse rivendicazioni territoriali d’allora: han solo cambiato strategia. La Serbia considera il Kosovo, la Bosnia, il Montenegro come Stati provvisori da distruggere, vuole destabilizzarli».

La più giovane presidente del più giovane Stato europeo, Vjosa Osmani, da qualche mese maneggia una delle crisi più pericolose dei Balcani. Barricate serbe, corpi speciali mobilitati, cannoni alle frontiere, spari sulle truppe Nato. Di fronte, l’eterno nemico. E sullo sfondo, ne è convinta, qualcun altro di ben più pericoloso: «La mentalità egemonica di Belgrado somiglia moltissimo all’approccio che ha la Russia, quando crede di tornare all’era imperiale e di prendersi territori di Paesi vicini...».

Ore 05:03 - Usa, la produzione di proiettili da 155 mm aumenterà di sei volte

Il Pentagono ha annunciato che aumenterà di sei volte la produzione di proiettili da 155 millimetri, quelli di cui le forze ucraine hanno più bisogno fino ad arrivare a 90.000 al mese in due anni. Lo riporta il New York Times. Si tratta di un livello di produzione che non si vedeva dai tempi della guerra di Corea. Il piano prevede l’investimento di miliardi di dollari, la creazione di nuovi impianti di produzione e il coinvolgimento di più produttori.

Ore 06:28 - Stati Uniti invieranno a Kiev 30 carri armati Abrams M-1

Il governo degli Stati Uniti sta ultimando i preparativi per l’invio in Ucraina di circa 30 carri armati M-1 Abrams. Lo riferisce l’emittente televisiva «Cnn», che cita due fonti governative anonime. Le tempistiche dell’invio dei carri armati sono ancora incerte, e addestrarne gli equipaggi potrebbe richiedere mesi. Secondo le fonti anonime, il governo Usa intende fornire all’Ucraina anche un piccolo numero di veicoli di recupero: mezzi cingolati utilizzati per la riparazione di carri armati o la loro rimozione dal campo di battaglia. Come anticipato dal quotidiano «Wall Street Journal», l’annuncio ufficiale da parte del presidente Joe Biden potrebbe giungere gia’ questa settimana.

Ore 07:41 - E Mosca mostra i muscoli: esercitazione con missile ipersonico nell’Atlantico

Mentre l’Occidente si prepara ad inviare carri armati da combattimento in Ucraina, il governo di Mosca reagisce mostrando i muscoli. La Marina militare russa ha effettuato un’esercitazione nell’Oceano Atlantico con un missile ipersonico Tsirkon: lo ha reso noto questa mattina il ministero della Difesa russo, come riporta la Tass. «L’equipaggio della fregata Admiral Gorshkov, che opera nella parte occidentale dell’Oceano Atlantico, si è addestrata all’uso di un’arma missilistica ipersonica con il metodo della modellazione computerizzata», ha spiegato il ministero». Secondo i vertici dell’esercito, l’equipaggio della fregata Ammiraglio Gorshkov «si è esercitato a colpire con un missile ipersonico Tsirkon un obiettivo che simulava una nave da guerra nemica a una distanza di oltre 900 chilometri».

Ore 07:50 - La furia dell’ambasciatore russo negli Usa: «Distruggeremo tank Abrams»

Le forze armate russe «distruggeranno i carri armati M1 Abrams fabbricati negli Stati Uniti e altre attrezzature militari della Nato se verranno forniti all’Ucraina».

Lo ha assicurato l’ambasciatore russo negli Stati Uniti Anatoly Antonov. «Durante tutta la crisi ucraina - ha affermato - l’amministrazione ha utilizzato ripetutamente la tecnica di pubblicare informazioni sui media alla vigilia di consegne significative di armi e attrezzature al regime di Kiev. Un’analisi dell’intera sequenza delle azioni di Washington mostra che gli americani stanno costantemente aumentando il livello dell’assistenza militare al loro governo fantoccio». «Se viene presa la decisione di trasferire a Kiev gli M1 Abrams, i carri armati americani senza dubbio verranno distrutti come tutte le altre dotazioni militare della Nato», ha continuato. «Ovviamente, Washington sta deliberatamente cercando di infliggerci una sconfitta strategica». Nelle sue parole, prosegue, l’amministrazione di Washington sta dando il «via libera» all’utilizzo dell’assistenza statunitense per attaccare la Crimea e «copre i crimini commessi degli ucraini contro la popolazione delle regioni di Donbass, Zaporizhzhia e Kherson».

Ore 08:14 - Carri armati, il punto della situazione

(Gianluca Mercuri) Se ne parla da mesi: Roma (l’Occidente) ne discuteva mentre gli appelli di Sagunto (l’Ucraina) assumevano col tempo toni sempre più drammatici. Alla fine, la svolta è arrivata: Kiev avrà i carri armati.

Punto per punto:

• Il sì di Berlino (e Washington)

Lo hanno preannunciato due grandi giornali (Wall Street Journal e Der Spiegel) con la concomitanza che chiedevano i tedeschi. Il cancelliere Scholz, infatti, non se la sentiva di compiere un passo del genere senza la copertura degli Stati Uniti. E dunque: l’Ucraina avrà «un numero significativo» di carri Abrams americani e almeno una compagnia (ovvero 14 pezzi) di Leopard tedeschi. In più, Berlino autorizzerà i governi a cui ne ha già venduti — a cominciare da quello polacco — a cederli all’Ucraina.

• Perché è importante

Perché si tratta, semplicemente, di armi che possono rivelarsi decisive negli equilibri del conflitto. Come scrive Paolo Valentino, «secondo gli esperti militari, una volta sul teatro del conflitto, i carri armati di fabbricazione tedesca darebbero alle forze ucraine una nuova capacità offensiva, mettendole in grado di bucare le difese russe e riprendere la loro avanzata».

• Ma cos’hanno di speciale i tank tedeschi?

Il punto è che sono perfino migliori di quelli Usa: «A parità di potenza di fuoco, sono più leggeri, più veloci, più facili da manovrare e da rifornire». In più, c’è il vantaggio organizzativo che spiegano Andrea Marinelli e Guido Olimpio : «Essendo in dotazione a 13 Paesi europei hanno una riserva consistente e scorte di munizioni». Anche per questo gli strateghi Usa erano riluttanti alla cessione degli Abrams: meglio per Kiev un arsenale meno diversificato possibile, era la tesi.

• Qual era la ragione politica dell’esitazione?

Sia da parte americana sia da parte tedesca, c’era — e c’è — il timore di un salto di qualità del conflitto, con una risposta rabbiosa dei russi che finisca per coinvolgere più direttamente l’Occidente. Da parte della Germania, in più c’è il peso della Storia: i 25 milioni di sovietici morti per mano tedesca soltanto 80 anni fa, i decenni di Ostpolitik (la politica di riconciliazione con Mosca) andati in frantumi per le scelte scellerate di Putin, la difficile riconversione del Paese verso atteggiamenti più bellicosi.

• È giusto allora criticare la Germania? Fino a un certo punto. Intanto, ricorda Paolo, «è il Paese che ha fornito più aiuti militari e finanziari all’Ucraina dopo gli Stati Uniti». Poi, al di là degli errori comunicativi di Scholz, «a suo merito va il fatto di aver tenuto il punto su una questione centrale: per la sua Storia, il suo ruolo e il suo peso, la Germania non può e non deve decidere da sola ma sempre insieme agli alleati sulle questioni della pace e della guerra. Si può essere d’accordo o meno, ma è un argomento solido e fondato».

E Zelensky intanto?

Zelensky, a sorpresa (ma, anche qui, fino a un certo punto) ha anche un fronte interno. Punto per punto:

• La purga anti corruzione

Sembra incredibile che in un Paese stremato da quasi un anno di guerra ci siano dirigenti che hanno approfittato della situazione. Sta di fatto che nel giro di 48 ore, tra arresti e dimissioni, sono saltati il viceministro delle Infrastrutture Vasyl Lozynsky, quello della Comunicazioni Vyacheslav Negoda e quello dei Territori Ivan Lukerya, oltre al vice Procuratore generale dello Stato Oleksiy Symonenko al numero due dell’ufficio presidenziale Kyrylo Tymoshenko.

• Di cosa sono accusati?

Il caso più grave è quello di Lozynsky, colto, racconta Andrea Nicastro, «mentre incassava una mazzetta da 400 mila dollari per agevolare la firma di contratti per la riparazione del sistema elettrico». Lascia basiti l’ipotesi che sia stata fatta la cresta anche sull’acquisto «di generatori utilissimi a sopravvivere ai blackout causati dagli attacchi missilistici russi, ma pagati a settembre a prezzi gonfiati». Symonenko è «chiacchierato per delle costosissime vacanze estive in Spagna». Ma il caso politicamente più spinoso è quello di Tymoshenko, che fa parte del cerchio magico di Zelensky. Lo chiamano «il padrino delle regioni» e gira in Porsche elettrica.

• Come ha reagito il presidente?

Con un divieto di espatrio per quasi tutti i funzionari pubblici, nel timore che scappino con i soldi. E, come suo costume, con un video-selfie: «Voglio essere chiaro, non ci sarà un ritorno alle vecchie abitudini».

• Un Paese ultracorrotto

Le vecchie abitudini sono le mazzette. L’Ucraina, ricorda Andrea, «era prima in Europa per livello di corruzione e il suo cammino verso l’Unione europea è sempre stato condizionato alla soluzione del problema attraverso nuove leggi e una magistratura più autonoma». I Paesi donatori temono un assalto agli aiuti e chiedono un ufficio anti corruzione totalmente indipendente.

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Ore 08:28 - «Gli Stati Uniti vogliono infliggere una sconfitta strategica a Mosca»

«Gli Stati Uniti hanno dichiarato inequivocabilmente il loro desiderio di infliggere una sconfitta strategica alla Russia. Impossibile non notare la realtà»: a dirlo — proseguendo nella narrazione secondo cui quello in atto in Ucraina non è la risposta della comunità internazionale a una invasione inaccettabile, ma una «guerra per procura» dell’Occidente contro Mosca, è il ministero degli Esteri russo, con una nota all’agenzia di stampa moscovita Tass.

L’annuncio arriva dopo l’annunciato ok di Washington all’invio di carri armati Abrams all’Ucraina.

Ore 08:32 - Perché la Germania l’ha «spuntata» con gli Usa, sui carri armati

(Paolo Valentino, da Berlino) Olaf Scholz voleva una copertura politica per prendere la decisione della vita, la fornitura all’Ucraina dei Leopard, l’arma che potrebbe cambiare il corso della guerra ma anche ampliare il conflitto innescando conseguenze imprevedibili.

Non una copertura qualsiasi, ma quella degli Stati Uniti, principale alleato e potenza leader dell’Occidente. E alla fine, dopo aver tenuto il punto pur sommerso dalle critiche, il cancelliere tedesco l’ha spuntata.

Poche ore dopo l’anticipazione del Wall Street Journal, secondo cui la Casa Bianca sta per annunciare l’invio a Kiev di un numero significativo dei suoi formidabili carri armati Abrams M1, il governo federale ha deciso ieri sera di rompere ogni indugio e dare il segnale verde a fornire all’Ucraina i propri tank pesanti.

L’ultima trattativa tra il presidente americano e il cancelliere sarebbe iniziata con la telefonata del 17 gennaio scorso, ma il negoziato segreto si è intensificato negli ultimi giorni. Si spiegano così le arrabbiature degli americani, di fronte alle ripetute fughe di notizie sulle condizioni poste da Scholz, che subordinava l’invio dei Leopard a quello degli Abrams.

Sollecitato da tutte le parti, all’esterno e all’interno del governo, il sì di Olaf Scholz alla cessione dei Leopard si lascia dietro molte macerie. A suo merito va tuttavia il fatto di aver tenuto il punto su una questione centrale: per la sua Storia, il suo ruolo e il suo peso, la Germania non può e non deve decidere da sola ma sempre insieme agli alleati sulle questioni della pace e della guerra. Si può essere d’accordo o meno, ma è un argomento solido e fondato.

Ore 08:37 - Il piano di Kiev per i prossimi mesi (e il rischio che la guerra duri anni)

(Federico Fubini) È probabile che la Russia prepari un attacco fra pochi mesi ma, prima di accettare qualunque negoziato, anche l’Ucraina vuole cambiare a proprio favore gli equilibri della guerra. A Zelensky non bastano più le armi per difendersi e far pagare cara ai russi l’aggressione: vuole più forza di fuoco, vuole contrattaccare ancora.

L’idea a Kiev sarebbe di usare centinaia di Leopard e altri tank occidentali per sfondare in primavera le linee nemiche al centro del fronte del Donbass, spezzando i contingenti nemici in due tronconi separati a Nord e a Sud. A quel punto gli ucraini avrebbero a tiro e potrebbero distruggere il ponte di Kerch fra la Russia e la Crimea grazie agli Himars, il micidiale sistema di missili fornito dagli americani.

I prossimi mesi saranno dunque decisivi per capire se questa guerra avrà un vincitore o se invece è destinata a durare anni, magari a intensità più bassa.

Del resto il tempo non gioca a favore di nessuno.

A Washington c’è reale preoccupazione per la rapidità con cui gli stock di missili americani vengono logorati in questa guerra terribile. Anche perché intanto nel triangolo fra americani, tedeschi e ucraini altre tensioni sulla gestione civile ed economica della guerra stanno venendo a galla.

Dice Michael McFaul, l’ex diplomatico americano che collabora con Zelensky: «Quelli dicono di sapere come finirà non sanno neanche di cosa stanno parlando».

Ore 08:46 - Ambasciatore russo a Washington: fornitura Abrams sarà «una provocazione»

Il possibile invio di carri armati da parte di Washington all’Ucraina rappresenta «un’altra palese provocazione» contro la Russia: lo ha detto oggi l’ambasciatore russo negli Stati Uniti, Anatoly Antonov, in un messaggio inviato sull’account Telegram dell’ambasciata. «Se gli Stati Uniti decidono di fornire carri armati, allora giustificare un tale passo con argomentazioni sulle `armi difensive´ non funzionerà di certo. Sarebbe un’altra palese provocazione contro la Federazione Russa», ha scritto Antonov, come riporta il Guardian.

Ore 08:51 - Mosca: esercitazioni in corso con missili Zircon

La fregata russa Ammiraglio Gorshkov, che sta svolgendo esercitazioni nell’Oceano Atlantico, ha eseguito un’esercitazione sull’uso di armi missilistiche ipersoniche utilizzando la simulazione al computer. Lo ha reso noto il ministero della Difesa russo. Mentre l’Occidente si prepara ad inviare carri armati da combattimento in Ucraina, il governo di Mosca dunque reagisce con i Zircon, missili di nuova generazione, che secondo Mosca viaggiano a una velocità nove volte superiore a quella del suono, con una portata di oltre 1.000 km. «Coerentemente con l’ambiente di addestramento, la fregata Ammiraglio Gorshkov si è esercitata ai preparativi per un attacco con un missile ipersonico Zircon su un bersaglio marittimo che imitava una finta nave nemica a una distanza di oltre 900 chilometri». La nota non afferma che la fregata ha sparato davvero un missile. Il ministero aveva reso noto due settimane fa che la nave da guerra stava effettuando esercitazioni nel Mare del Nord.

Ore 09:14 - Papa a Chiese Ucraina: non abbiate dubbi, vi ho nel cuore

«Non abbiate dubbi, io prego per voi», «io vi porto nel cuore e chiedo a Dio che abbia pietà di questo popolo così coraggioso». Lo ha detto il Papa al Consiglio panucraino delle Chiese.

«Io sono vicino a voi», ha detto il Papa ricordando che la sua «simpatia» è cominciata da quando era bambino e serviva messa ad un sacerdote ucraino e «da quel momento è cresciuta, una simpatia vecchia che è cresciuta e questo mi fa più vicino a voi». Poi ha chiesto a tutti di pregare «in silenzio ma insieme per la madre Ucraina». Sottolineando positivamente il fatto che nel Consiglio sono tutti insieme, cristiani, ebrei, ortodossi, e tutte le fedi presenti nel Paese, il Papa ha detto: «tutti insieme» per la «mamma ucraina, tutti insieme e questo fa vedere il tessuto della vostra razza», «è un esempio davanti a tanta superficialità che oggi si vede nella nostra cultura».

Ore 09:29 - Cnn, gli Usa invieranno 30 carri armati Abrams a Kiev

Gli Stati Uniti stanno finalizzando i piani per inviare circa 30 carri armati Abrams in Ucraina: lo hanno detto alla CNN due funzionari statunitensi che hanno familiarità con la decisione. L’annuncio dell’amministrazione Biden di inviare i carri armati di fabbricazione statunitense potrebbe arrivare già questa settimana, ha riferito ieri sempre la CNN. I tempi della consegna effettiva dei carri armati non sono ancora chiari e normalmente ci vogliono diversi mesi per addestrare le truppe a utilizzare i carri armati in modo efficace, hanno detto i funzionari.

Ore 09:31 - Kiev: Wagner recluta detenuti ucraini

Il gruppo di mercenari Wagner, legato al Cremlino, sta reclutando cittadini ucraini detenuti che sono stati trasferiti nelle carceri russe per portarli al fronte. È l’accusa dell’esercito ucraino riportata dal Kyiv Independent. «La Russia sta reclutando cittadini ucraini detenuti che sono stati portati con la forza nelle carceri russe. In particolare, a Krasnodar, il reclutamento attivo di tali persone viene effettuato nella compagnia militare privata Wagner», ha assicurato lo stato maggiore ucraino. La Cnn ha riportato le tattiche utilizzate al fronte dal gruppo di mercenari che, recluta nelle proprie fila migliaia di detenuti russi. Sono questi detenuti, secondo i rapporti dell’intelligence ucraina, che spesso formano la prima ondata in un attacco e subiscono le perdite più alte, fino all’80%. L’organizzazione russa per i diritti dei prigionieri Rus Sidiaschaya (RS) ha affermato che circa 40.000 detenuti reclutati da Wagner sono stati uccisi, abbandonati, feriti o catturati come prigionieri in Ucraina.

Ore 09:37 - Zelensky compie 45 anni. La moglie: spero tu torni a sorridere

Il presidente dell’Ucraina Voldymyr Zelensky compie oggi 45 anni. La moglie Olena gli fa gli auguri con un post su Telegram pubblicando una foto insieme al marito sorridente. «Spesso mi chiedono - scrive Zelenska - come sei cambiato quest’anno. E io rispondo sempre: `Non è cambiato. Lui è lo stesso. Lo stesso ragazzo che ho incontrato quando avevamo diciassette anni´. Ma in realtà qualcosa è cambiato: ora sorridi molto meno. Ti auguro altri motivi per sorridere. E sai cosa ci vuole. Lo sappiamo tutti». «La testardaggine non ti manca, l’importante è che la salute sia sufficiente», ha aggiunto. «Quindi sii sano, per favore! Voglio sorridere sempre con te. Dammi questa opportunità!», ha concluso la moglie del Presidente.

Ore 10:01 - Zelensky impone nuove sanzioni a religiosi ortodossi russi

Il presidente dell’Ucraina Volodymyr Zelensky ha firmato un nuovo decreto che sanziona alcuni ecclesiastici ortodossi russi. Le restrizioni riguardano anche l’ex deputato Vadym Novinskyi. Lo riferiscono i media ucraini. Tra i religiosi destinatari dei provvedimenti ci sono il Metropolita Pavlo, vicario della Santa Dormizione di Kiev-Pechersk Lavra, il Metropolita di Simferopoli e Crimea Shvets Rostyslav, il vescovo di Bakhchisarai Chernyshov Kostyantyn, l’arcivescovo di Rovenkiv e Sverdlovsk Oleksandr Taranov. Le sanzioni sono valide per cinque anni, i beni e i fondi dei destinatari sono stati bloccati ed è loro vietato utilizzare terre demaniali e altri beni, oltre che usare capitali dell’Ucraina. Nelle scorse settimane, Kiev ha imposto sanzioni ad altre 22 figure religiose della Chiesa ortodossa russa.

Ore 10:51 - Cremlino: «Gli Abrams in Ucraina bruceranno come gli altri»

Anche il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, durante il consueto punto stampa della giornata, ha puntato il dito sui carri armati Abrams americani che Biden manderà a Kiev, affermando che «bruceranno nello stesso modo degli altri». Lo riporta l’agenzia Interfax.

Ore 11:07 - Kiev ammette di aver perso Soledar, ora in mano ai russi

Le forze ucraine hanno ammesso di aver perso la città di Soledar, che si trova a circa 10 chilometri da Bakhmut: adesso è in mano ai russi. «Dopo mesi di duri combattimenti le forze armate ucraine hanno lasciato Soledar per “ritirarsi sulle posizioni preparate”», in modo da riorganizzarsi. Lo ha detto all’Afp, il portavoce militare per la zona orientale Serguiï Tcherevaty, rifiutandosi però di specificare quando è avvenuta questa ritirata.

Soledar distrutta vista dall’alto (foto Maxar Technologies via Ansa)

Ore 11:48 - Via libera di Scholz all’invio di 14 Leopard all’Ucraina

Il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha annunciato oggi al suo gabinetto l’invio di 14 Leopard 2A6 all’Ucraina. È quello che si legge in una nota diramata dal portavoce Steffen Hebestreit. Scholz interverrà al Bundestag alle 13. In quella sede è atteso un suo annuncio ufficiale sull’invio dei tank e sull’autorizzazione ad altri Paesi a fare altrettanto.

Ore 12:05 - Berlino: presto addestramento ucraini all’uso dei tank in Germania

«L’addestramento delle forze ucraine dovrebbe iniziare rapidamente in Germania. Al pacchetto appartengono oltre all’addestramento, anche logistica, munizione e manutenzione dei sistemi». È quello che si legge nella nota della cancelleria tedesca, che dà notizia della decisione di Olaf Scholz di inviare i Leopard 2 in Ucraina.

Ore 12:11 - Sunak: «I tank alleati rafforzano le capacità di Kiev»

Il premier britannico Rishi Sunak ha affermato in un tweet che è «giusta la decisione degli alleati e degli amici della Nato di inviare carri armati in Ucraina» dopo il via libera della Germania sui Leopard 2. Il primo ministro ha poi sottolineato che insieme ai Challenger 2 del Regno Unito «rafforzeranno la potenza di fuoco difensiva» dell’esercito di Kiev e in questo modo «stiamo accelerando i nostri sforzi per garantire che l’Ucraina vinca questa guerra e si assicuri una pace duratura».

Ore 12:18 - Il premier polacco ringrazia Berlino per i Leopard

Il primo ministro polacco Mateusz Morawiecki ha ringraziato Berlino per la decisione di inviare carri armati Leopard all'Ucraina.

Ore 12:31 - Kiev: seimila soldati russi sul territorio della Bielorussia

Circa seimila militari russi si trovano attualmente sul territorio della Bielorussia. Lo afferma il rappresentante della direzione principale dell'intelligence del ministero della Difesa ucraino, Vadym Skibitskyi. Lo riferisce Ukrinform.

Ore 12:38 - Kiev: bene l'invio di Leopard, è il primo passo

L'Ucraina accoglie con favore il «primo passo» del via libera tedesco ai carri armati Leopard, ha fatto sapere l'ufficio di presidenza da Kiev.

Ore 12:45 - Berlino: per i Leopard in Ucraina servono circa tre mesi

«I Leopard potranno essere in Ucraina nel giro di tre mesi». Lo ha detto il ministro della Difesa tedesco Boris Pistorius, parlando alla stampa a Berlino.

Ore 13:00 - Podolyak: inevitabile un'escalation della guerra in Russia

«Confermo ufficialmente che un'escalation interna della guerra in Russia è inevitabile. E saranno effettuati attacchi diversi contro obiettivi diversi. Perché, da chi e per quale scopo è un'altra questione, e non ne possiamo discutere oggi. Mancano le informazioni sufficienti», ha dichiarato Mykhailo Podolyak, consigliere di Zelensky, in un'intervista al blogger Michael Nucky, citata da Unian. Podolyak ha sottolineato che le forze armate ucraine non stanno attaccando la Russia, ma che i russi, anche nelle grandi città, potranno «sentire la guerra».

Ore 13:02 - «Servono molti Leopard»

«Il primo passo sui tank è stato fatto. Il prossimo è la "coalizione di carri armati". Abbiamo bisogno di molti Leopard». Lo scrive su Telegram Andriy Yermak, capo dell'ufficio della presidenza ucraina, a seguito del via libera di Berlino all'invio dei carri armati tedeschi a Kiev.

Ore 13:08 - Cremlino: le minacce Podolyak confermano che siamo nel giusto

Le dichiarazioni del consigliere presidenziale ucraino Mikhaylo Podolyak su possibili attacchi contro città russe è «una conferma della correttezza» della decisione di Mosca di avviare l'operazione militare in Ucraina «per proteggerci da questo pericolo». Lo ha detto il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov, citato dalla Tass.

Ore 13:11 - Ambasciatore russo: molto pericolosa la scelta di Berlino

L'ambasciatore russo in Germania Sergey Nechaev afferma che la decisione tedesca sull'invio dei tank Leopard all'Ucraina è «altamente pericolosa» e «porta il conflitto a un nuovo livello». Per l'ambasciatore, citato dalla Tass, la decisione «distrugge quello che resta della fiducia reciproca, infligge un danno irreparabile» ai legami con Berlino e indica «il completo rifiuto della Germania di riconoscere la responsabilità storica» per i crimini nazisti.

Ore 13:26 - Scholz: «Sosteniamo l'Ucraina ma non entriamo in guerra»

Il cancelliere tedesco Olaf Scholz parlando al Bundestag ha detto: «Non lontano da qui c'è una guerra in Europa. E dobbiamo chiarire che noi facciamo tutto il necessario per sostenere l'Ucraina, ma allo stesso tempo che noi dobbiamo evitare una escalation che porti ad uno scontro fra Nato e Russia. Questo è il principio seguito finora e continueremo a seguirlo».

Ore 13:29 - Nato: «Bene Berlino sui tank, aiuteranno Kiev a vincere»

«Accolgo con grande favore la leadership del cancelliere Olaf Scholz e della Germania nel fornire i carri armati Leopard 2 all'Ucraina in consultazione con altri alleati e partner della Nato: in un momento critico della guerra contro la Russia, questi tank possono aiutare l'Ucraina a difendersi, vincere e prevalere come nazione indipendente». Lo scrive su Twitter il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg.

Ore 13:34 - Putin: «Non consentiremo minacce ai nostri territori storici»

La Russia non può consentire che vengano minacciati i suoi territori storici. Lo ha detto il presidente Vladimir Putin, aggiungendo che lo scopo principale dell'operazione militare in Ucraina è quello di proteggere il popolo e la stessa Russia. Lo riferisce la Tass.

Ore 13:45 - Putin: «In Germania ci sono truppe Usa d'occupazione»

«Le forze americane in Germania sono truppe d'occupazione, in termini legali ed effettivi». Lo ha detto il presidente russo Vladimir Putin citato dalla Tass.

Ore 14:07 - Spiegel, oggi telefonata tra Biden, Scholz, Sunak e Macron

In serata dovrebbe esserci una telefonata fra il presidente Usa, Joe Biden, il cancelliere tedesco, Olaf Scholz, il presidente francese, Emmanuel Macron e il premier britannico, Rishi Sunak. È quello che scrive der Spiegel sul sito. I quattro leader vogliono parlare dei prossimi passi per sostenere l'Uucraina.

Ore 14:08 - Spiegel, saranno 80 i Leopard che Kiev riceverà dai Paesi Ue

Gli alleati europei stanno discutendo il trasferimento congiunto di un totale di 80 carri armati Leopard 2 in Ucraina per formare due battaglioni di 40 veicoli. Lo riferisce Spiegel con riferimento alle sue fonti. Nell'ultimo incontro del formato Ramstein, 12 Paesi hanno accettato, riferisce il quotidiano, di fornire carri armati all'Ucraina a condizione che la Germania fosse d'accordo.

Ore 14:18 - Zelensky: «Sinceramente grato a Scholz per i tank»

Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky si è detto «sinceramente grato» per la decisione presa dal cancelliere tedesco Olaf Scholz sull'invio di «carri armati tedeschi in Ucraina», ma anche per «l'ulteriore ampliamento del sostegno alla difesa e per le missioni di addestramento» oltre al «via libera ai partner per la fornitura di armi simili». Zelensky - aggiunge su Twitter - di avere saputo «di queste decisioni importanti e tempestive in una telefonata con Scholz».

Ore 14:52 - Intelligence Kiev: possiamo arrivare anche al Cremlino

L'intelligence della Difesa ucraina ha confermato che il Cremlino si trova nel raggio d'azione dei mezzi militari ucraini: per questo motivo Mosca ha iniziato a schierare sistemi di difesa aerea. Lo riporta Unian. Queste informazioni sono state condivise dal vice capo dell'intelligence della Difesa ucraina Vadym Skibitskyi in tv. Per la prima volta, ha confermato indirettamente che l'Ucraina ha effettuato attacchi in territorio russo. I sistemi di difesa aerea a Mosca sono stati installati dopo l'attacco all'aeroporto militare russo di Engels «e questo suggerisce che se arriviamo a Engels, arriveremo al Cremlino», ha detto.

Ore 14:56 - La Norvegia rilascia l'ex comandante della Wagner che ha chiesto asilo

Le autorità norvegesi hanno annunciato il rilascio di Andrey Medvedev, ex membro di spicco del gruppo paramilitare russo Wagner, che aveva fatto domanda d'asilo, dopo essere entrato illegalmente nel Paese. Le ragioni per la detenzione di Medvedev, ha riferito Jon Andreas Johansen, della polizia di immigrazione norvegese, «non persistono più». L'ex comandante della Wagner, che all'inizio del mese era entrato in Norvegia attraverso il confine con la Russia, ha detto di temere per la sua vita in caso di ritorno in patria. Dopo il suo ingresso in Norvegia, l'ex mercenario era stato immediatamente trasferito a Oslo, secondo la normale procedura per i richiedenti asilo. Ad aiutare Medevedev nella sua fuga in Norvegia è stato Vladimir Osechkin, giornalista dissidente russo e fondatore di Gulagu.net. Prima di essere trasferito in un centro di detenzione, Medvedev era stato tenuto in custodia in un luogo protetto.

Ore 15:04 - Biden parla alle 18 (ora italiana), il discorso sul sostegno a Kiev

La Casa Bianca ha annunciato un discorso sul sostegno all'Ucraina del presidente Joe Biden alle 18 ora italiana. È molto probabile che Biden annuncerà la decisione di inviare carri armati in Ucraina.

Ore 15:58 - Unesco iscrive centro storico Odessa nel patrimonio mondiale

Il centro storico della città portuale di Odessa, in Ucraina, sul mar Nero, è stato iscritto oggi nella lista del patrimonio mondiale dell'umanità in pericolo, nonostante l'opposizione della Russia. Nel corso di una sessione straordinaria del Comitato del patrimonio mondiale a Parigi, 6 Paesi su 21 hanno votato a favore dell'iscrizione di Odessa, 14 si sono astenuti e la Russia ha votato contro la città «perla del Mar Nero», nota per la Scalinata Potemkin.

Ore 16:43 - In corso call tra Meloni, Biden, Scholz, Macron e Sunak

La presidente del Consiglio Giorgia Meloni sta partecipando ad una call con il presidente Usa Joe Biden, il cancelliere tedesco, Olaf Scholz, il presidente francese, Emmanuel Macron e il premier britannico, Rishi Sunak. Al centro il punto sulla situazione in Ucraina.

Ore 17:02 - «Attacco russo a Zaporizhzhia, una donna sotto le macerie. Due morti nella regione di Kherson»

I russi hanno attaccato Zaporizhzhia, distruggendo una casa. Una donna è sotto le macerie. Lo riferisce su Telegram il sindaco ad interim di Zaporizhzhia Anatoly Kurtev, come riferisce Ukrinform. «A seguito di un attacco aereo nemico, una casa privata è stata distrutta in uno dei quartieri della città. Secondo le prime informazioni, una donna è ora sotto le macerie», precisa Kurtev.

Inoltre, oggi i russi hanno bombardato Beryslav, nell'oblast di Kherson, colpendo un negozio di alimentari: il bilancio è di due morti e tre feriti. «Beryslav è finita sotto un fuoco russo su ampia scala. I russi hanno intenzionalmente attaccato a metà giornata un luogo dove si riuniscono molte persone. Proiettili nemici hanno colpito un negozio locale di alimentari, mentre la gente si trovava all'interno», si legge nel messaggio rilanciato da Ukrainska Pravda.

Ore 17:29 - Zelensky sente Stoltenberg: ampliare la coalizione dei tank

«Ho discusso con il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg un ulteriore consolidamento dei partner per il sostegno dell'Ucraina, in particolare l'ampliamento della coalizione dei carri armati e lo sblocco di tipi qualitativamente nuovi di armi». Lo riferisce su Twitter il presidente ucraino Volodymyr Zelensky. «Abbiamo anche parlato dei passi necessari verso un'ulteriore integrazione con la Nato», ha aggiunto.

Ore 17:37 - Ministro Difesa ucraino sente Austin: presto buone notizie

«Ho avuto una telefonata con (il Segretario Usa alla Difesa) Lloyd Austin. Abbiamo discusso i risultati di Ramstein 8, l'ulteriore rafforzamento dell'esercito ucraino comprese le forniture di carri armati e la manutenzione del nuovo armamento. Altre buone notizie saranno presto annunciate». Lo riferisce su Twitter il ministro della Difesa ucraino, Oleksii Reznikov, dopo un colloquio con il suo omologo statunitense Lloyd Austin. «Abbiamo piena fiducia e forte supporto degli Stati Uniti», ha aggiunto.

Ore 18:06 - Biden: «Invieremo 31 Abrams, situazione critica. Saremo uniti»

«Saremo compatti nel sostegno a Kiev, per questo abbiamo deciso di inviare 31 carri armati Abrams all’Ucraina di fronte a una situazione che sul campo si stava facendo critica. Ci vorrà comunque del tempo. In questi momenti dobbiamo mostrarci uniti, soprattutto per difendere la sovranità e l’integrità di un Paese invaso». Così il presidente americano Joe Biden in un punto stampa dopo la telefonata, che ha definito un confronto positivo, con Meloni, Macron e Scholz. «Kiev raggiungerà gli obiettivi strategici grazie al nostro aiuto, ma i tank non saranno una minaccia offensiva contro la Russia. Siamo grati soprattutto al cancelliere tedesco. Da parte della Germania è stata una vera accelerazione», così Biden.

Ore 18:27 - Biden: «L’alleanza regge, Putin si sbagliava»

«Putin si aspettava che l’Europa e gli Stati Uniti avrebbero allentato le decisioni. Si aspettava che il nostro sostegno all’Ucraina si sbriciolasse nel tempo. Si sbagliava». Lo ha detto il presidente Usa, Joe Biden, nel corso del suo intervento dalla Casa Bianca.

Ore 18:35 - Zelensky: «Odessa ha ottenuto la tutela dell’Unesco»

La città di Odessa ha ottenuto oggi la tutela dell’Unesco. Lo ha scritto su Twitter il presidente ucraino Volodymyr Zelensky. «Il centro storico della città portuale di Odessa non solo è incluso nella lista del Patrimonio mondiale, ma è anche riconosciuto come patrimonio culturale in pericolo. Sono grato ai partner che aiutano a proteggere la nostra perla dagli attacchi degli invasori russi!», si legge nel tweet.

Ore 18:50 - Il Punto Militare: 14 Leopard dalla Germania e 31 Abrams dagli Usa: ma per vederli sul campo ci vorranno mesi

(Andrea Marinelli e Guido Olimpio) Il punto militare 345 | Il governo tedesco ha precisato che l'obiettivo europeo è quello di assemblare il prima possibile due battaglioni di Leopard per Kiev. Saranno circa 70 tank.

Quello che fino a ieri sembrava difficile, ora può diventare realtà: tutti — o quasi — promettono carri armati per Kiev. La Germania ha messo fine alle titubanze annunciando questa mattina la consegna di una «compagnia» di Leopard 2, un totale iniziale di 14 mezzi che saranno consegnati entro 3 mesi e si aggiungono ai 14 promessi dalla Polonia e ai 14 Challenger 2 della Gran Bretagna. L’obiettivo europeo, ha precisato il governo tedesco, è di assemblare prima possibile due battaglioni di Leopard da destinare a Kiev , che equivalgono all’incirca a 70 tank. Volodymyr Zelensky dovrebbe ricevere fra 20 e 53 Leopard 2 dalla Spagna, 4 dal Portogallo, 8 dalla Norvegia e 14 dalla Finlandia. Danimarca e Paesi Bassi stanno invece ancora discutendo l’invio rispettivamente di 18 e 6 tank di produzione tedesca. Quella di Berlino era una decisione attesa, dopo che gli Stati Uniti si erano detti pronti a inviare 30 carri armati Abrams: poi oggi pomeriggio Joe Biden ne ha promessi 31, del valore di 400 milioni di dollari.

Ore 18:57 - Biden: «Italia fornisce artiglieria»

L'Italia sta fornendo «artiglieria» all'Ucraina. Lo ha dichiarato il presidente degli Stati Uniti Joe Biden, annunciando in un punto stampa l'invio di 31 carri armati Abrams alle forze di Kiev. Nel suo intervento Biden ha elencato i Paesi dell'alleanza che stanno contribuendo alla difesa di Kiev con sistemi di difesa aerea, artiglieria e veicoli blindati, citando tra gli altri, oltre l'Italia, anche Regno Unito, Germania, Francia, Olanda, Francia, Slovacchia, Canada, Norvegia, Polonia e Svezia.

Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha citato anche l'Italia per il fatto che «sta inviando artiglieria in Ucraina».

Ore 19:09 - L'ironia dei media russi: un video scherza sull'efficacia dei tank»

La tv russa, già nei giorni scorsi, aveva sminuito l'apporto che i carri armati Abrams americani potrebbero avere nella guerra in Ucraina. Il presentatore Dmitrij Kiseliov, nel suo talk show «Vesti Nedeli» sulla tv di Stato Rossija1, li aveva definiti inadatti al combattimento in inverno. Sarebbe stato questo il motivo della riluttanza degli Stati Uniti a inviarli in Ucraina per sostenere la difesa di Kiev, secondo i media vicini al Cremlino.

Ore 19:00 - Zelensky ringrazia Biden per i carri armati

«Grazie al presidente degli Stati Uniti Joe Biden per un'altra importante decisione di fornire gli Abrams all'Ucraina. Sono grato al popolo statunitense per il supporto alla leadership! È un passo importante sulla via della vittoria. Oggi il mondo libero è unito come mai prima d'ora per un obiettivo comune: la liberazione dell'Ucraina. Stiamo andando avanti». Lo scrive su Twitter il presidente ucraino Volodymyr Zelensky.

Ore 19:52 - Sunak: «Puntiamo a una pace duratura»

Il primo ministro britannico Rishi Sunak, dopo la telefonata avuta con Biden, Meloni, Scholz e Macron si è dichiarato «contento» del fatto che altri Paesi si siano uniti al Regno Unito nella decisione di mandare carri armati in Ucraina. «Abbiamo l'opportunità per accelerare gli sforzi e garantire una pace duratura per gli ucraini», ha dichiarato su Twitter.

Ore 21:12 - Fonti ucraine: «Mosca concentrerà presto gli attacchi nel Donetsk»

L'Ucraina afferma che la Russia sta aumentando la pressione nella battaglia per Bakhmut, in Donetsk, e che le forze di Kiev sono in inferiorità numerica e senza armi. «Il nemico sta intensificando la pressione nei settori Bakhmut e Vugledar. Ora nel Donbass, rispetto al loro numero superiore di soldati e armi, abbiamo il vantaggio di un comando militare professionale e il coraggio dei soldati», ha sottolineato in una nota il vice ministro della Difesa Ganna Malyar.

Ore 22:46 - Zelensky agli alleati: «Ci servono jet e missili a lungo raggio»

«È molto importante che ci siano progressi in altri aspetti della nostra cooperazione in materia di difesa. Ho parlato oggi con il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg. Dobbiamo anche aprire alla fornitura di missili a lungo raggio all'Ucraina, espandere la nostra cooperazione nell'artiglieria, pensare alla fornitura di aerei per l'Ucraina». Lo ha detto il presidente ucraino Volodymyr Zelensky nel suo videomessaggio serale. «Maggiore è il sostegno alla difesa che i nostri eroi al fronte ricevono dal mondo, prima finirà l'aggressione della Russia e più affidabili saranno le garanzie di sicurezza per l'Ucraina e tutti i nostri alleati dopo la guerra», ha aggiunto.

Estratto dell’articolo di Mario Landi per il Messaggero il 25 Gennaio 2023.

«Sfortunatamente, Putin è curato dai migliori medici occidentali, per questo è ancora vivo. Se fosse curato da medici russi tutto andrebbe più in fretta». Ad affermarlo è Vadym Skibitskyi, numero due dell'intelligence militare ucraina, in un'intervista all'agenzia Delfi, rilanciata da Ukrainska Pravda.

 Sulla presunta cattiva salute del presidente russo Vladimir Putin circolano molte voci. Il 19 gennaio il presidente ucraino Volodymyr Zelensky si era chiesto pubblicamente se fosse ancora vivo. A maggio il capo dell'intelligence militare ucraina, Kyrilo Budanov, aveva dichiarato che Putin ha gravi problemi di salute, compreso un tumore, ma che gli resta ancora qualche anno da vivere.

Il capo dell'Intelligence danese Joachim aveva così detto: «Vladimir Putin era in cura per un cancro alla tiroide e stava assumendo farmaci ormonali, provenienti dall'Occidente, che alterano l'umore: probabilmente per questa ragione ha deciso di attaccare l'Ucraina. L'uso di tali è diventato uno dei motivi del fallimento dell'attacco russo».

 Joachim ricopre un importante ruolo nella Forsvarets Efterretningstjeneste (Fe), il Servizio d'Informazioni della Difesa.

 Cosa è successo prima

Nel maggio 2022, il capo della Gur (l'intelligence ucraina, ndr.) Kyrylo Budanov ha affermato che il presidente della Russia, Vladimir Putin, potrebbe vivere ancora per molti anni nonostante gravi malattie, incluso il cancro.

«Sì, confermiamo pienamente questa informazione (che Putin ha il cancro, ndr). Ha diverse malattie gravi, una delle quali è il cancro. Ma non dovremmo sperare che Putin muoia domani. Ha ancora anni da vivere. Che ci piaccia o no, è la verità», ha riferito Budanov.

(...)

Documents men. Una azienda italiana salverà il patrimonio archivistico ucraino. L’Inkiesta il 26 gennaio 2023.

La CSA Documents ha risposto all’appello del direttore generale degli archivi di Stato ucraini Anatolii Khromov, offrendosi di digitalizzare gratuitamente atti, manoscritti e documenti storici del governo di Kyjiv

Migliaia di atti, manoscritti e documenti storici conservati negli archivi e nelle biblioteche di Stato dell’Ucraina saranno salvati dalla distruzione dovuta all’invasione russa. A farlo sarà una azienda italiana, la CSA Documents, leader del settore dell’archivistica e della digitalizzazione che ha offerto un aiuto gratuito al governo di di Kyjiv

Il Presidente del consiglio di amministrazione di CSA Documents Gian Marco Di Domenico ha risposto all’appello del direttore generale degli archivi di Stato ucraini Anatolii Khromov, pubblicato da Repubblica il 22 gennaio, inviando una lettera all’ambasciatore ucraino in Italia Yaroslav Melink: «Saremmo onorati di offrire gratuitamente le nostre competenze alla direzione generale degli archivi di stato ucraini, sarebbe il nostro modo per dare un contributo all’eroica resistenza del vostro popolo», si legge nella missiva.

Finora i russi hanno distrutto oltre 300 biblioteche statali e universitarie ucraine e rubato oltre la metà del materiale cartaceo e audiovisivo. Come ha raccontato Khromov a Repubblica,  finora sono andati persi oltre dodicimila documenti del Kgb sulla repressione degli ucraini da parte del regime sovietico nel XX secolo.

«Salvare un archivio significa salvare la memoria di un Paese e un segmento importante della sua sicurezza – ha affermato il responsabile delle relazioni esterni e dei rapporti istituzionali Nicola Ucciero – per questo una volta letta la richiesta di cooperazione che il governo di Kyjiv ha lanciato abbiamo risposto prontamente e ci siamo messi a disposizione. Crediamo che l’aiuto alla causa ucraina passi anche per queste azioni concrete e pragmatiche».

Se nomini la guerra ti cancello. A migliaia nelle prigioni di Putin.

Vladimir Putin, presidente della Russia

Carceri piene per aver violato le norme che proteggono la reputazione dell’esercito. Si finisce dentro per una canzone, un sermone in chiesa o una scritta nella neve. Alessandro Fioroni su Il Dubbio il 26 gennaio 2023

Sebbene anche Putin definisca guerra e non chiami più Operazione militare speciale l’invasione dell’Ucraina, in Russia dettano legge quelle norme repressive che stanno colpendo pesantemente ogni voce dissenziente in Russia.

Il 4 marzo dello scorso anno, a meno di un mese dallo scoppio delle ostilità, la Duma (il parlamento russo) aveva approvato una legge che riguarda la responsabilità amministrativa e penale a carico di chi e giudicato colpevole di diffusione di notizie false riguardo il comportamento dell’esercito russo. La legge è conosciuta comunemente come discredito delle Forze Armate. Potrebbe sembrare ridicolo in quanto tutte le opinioni contro la guerra potrebbero essere considerate lesive ma in effetti è proprio cosi.

A cominciare dalle pene che variano da sanzioni pecuniarie comprese tra i 30 e i 60 mila rubli (300 e 600 euro). Concretamente le fattispecie di questo reato sono innumerevoli. Per fake news si intende la propria posizione ufficiale (dettata da motivi di odio politico, razziale, nazionale o religioso o di profitto) che fa rischiare a coloro che incappano nella denuncia fino a 50 mila euro oppure la reclusione fino a dieci anni.

Nel caso di reiterazione della violazione le conseguenze possono essere ancora più gravi e arrivare a condanne a quindici anni di galera. Nei giorni immediatamente seguenti all'entrata in vigore della legge si contavano già sessanta fermi, di cui sette condanne a multe salate commisurate agli standard economici dei cittadini comuni russi. Le cronache riportavano i casi limite di un prete ortodosso denunciato per un sermone pacifista e di una donna che aveva scritto No alla guerra sulla neve. La lista si è ulteriormente allungata nel periodo successivo fino ad oggi quando a conflitto acclarato e non più celabile dietro astruse formule dialettiche, ci si aspetterebbe un freno alla furia militarista del Cremlino.

A giudicare dalle notizie che nonostante la censura operata continuano ad arrivare da diverse città della Russia. Si può dunque rimanere impigliati nelle maglie di una legge assurda e tragica nello stesso tempo per una canzone, un poster o un video pubblicato online. A quanto sembra le sanzioni sono quasi quotidiane e i tribunali istituiscono processi lampo ad un ritmo frenetico. Basta prendere in esame gli ultimi giorni. Il 15 gennaio si e aperto un procedimento giudiziario per discredito dell'esercito contro il dj di un locale di Tula (sud di Mosca) che aveva messo su un piatto una canzone ucraina durante gli auguri di Vladimir Putin la notte di Capodanno; Il 17 invece una donna della Crimea, che aveva affisso un manifesto che definiva il suo vicino che combatteva in Ucraina, un criminale di guerra, si e vista confermare la sua condanna a due anni e mezzo di carcere per diffusione di fake news.

Ma ancora, il 20 di questo mese, un autista di camion della Chuvashia, località sulla riva sinistra del Volga, è stato condannato a 30 mila rubli di ammenda (circa 400 euro) perché aveva considerato interessanti, sui social, due video, uno dei quali incentrato sul conflitto ingaggiato da Kiev nelle repubbliche separatiste del Donbass negli ultimi otto anni.

Senza soluzione di continuità, pochi giorni fa a Novosibirsk, un direttore di un istituto tecnico e stato fatto oggetto di controlli da parte della polizia perché inculcherebbe un'educazione pacifista al figlio. Ma non manca neanche la repressione dettata dallo stato di guerra come quella che ha colpito la rappresentante del Consiglio delle mogli e delle madri, un collettivo che difende i diritti dei chiamati alle armi. Arrestata mentre si apprestava a presentare al ministero della Difesa le denunce di settecento donne.

Prigioniero di guerra. I russi hanno reso il procione rapito a Kherson un’arma di propaganda. Matteo Castellucci su L’Inkiesta il 28 Gennaio 2023.

Il caso dell’orsetto lavatore, diventato suo malgrado mascotte di un reparto di paracadutisti, dimostra come funziona la macchina di disinformazione del Cremlino che, attraverso un canale Telegram con ottantamila iscritti, raccoglie fondi per comprare equipaggiamento militare

La sua patria non l’ha dimenticato, anche ora che è nelle grinfie dei nemici. I russi l’hanno rapito durante la ritirata da Kherson. Forse come rappresaglia, forse per ottenere un riscatto. Hanno ipotizzato di usarlo come contropartita in uno scambio di prigionieri. È costretto a girare video propagandistici per il Cremlino, che lo schiavizza nelle campagne social, ma la sua frustrazione è evidente. Il ministero della Difesa ucraino ha promesso di vendicarlo. Non è un comandante, o un pilota, e nemmeno un leader politico, ma un animale. Un procione, per l’esattezza.

Prima di lasciare la città, lo scorso novembre, le truppe nemiche non solo hanno svuotato il museo, nelle più gravi razzie d’arte dai tempi dei nazisti, ma persino lo zoo locale. Hanno portato via due lupe, alcuni pavoni, un asino e un lama. E sette procioni. Una «farsa», l’ha definita il Washington Post, arrivata dopo il furto delle spoglie del generale Grigorij Potëmkin, amante della zarina Caterina. Gli animali sono ricomparsi in alcuni video girati in Crimea. «È una missione umanitaria», si dice in uno di questi, cioè la falsa promessa di sottrarli alle bombe per restituirli un giorno alla struttura d’origine.

«Per noi non hanno valore zoologico – continua il filmato –. Abbiamo settantacinque procioni, potremmo mangiare carne di procione. Sono in buone mani». L’ironia di dubbio gusto sul macellare gli ospiti del parco non è quella di un animalista. Di fronte alle immagini, in cui si vede un orsetto lavatore venire sballottato fuori da una scatola, il ministero della Difesa di Kyjiv ha reagito: «Gli occupanti hanno rubato di tutto da Kherson: dipinti dalle gallerie, reperti antichi, manoscritti storici dalle biblioteche, però il loro bottino più prezioso è un procione dello zoo. Rubate un procione e morite».

Non è stata un’evacuazione, ma l’ennesimo furto. In effetti, i russi hanno fatto il possibile per ribaltare lo sfottò degli ucraini, per rendere cioè il procione rapito un asset. Quando è ricomparsa, infatti, la bestiola lo ha fatto nelle nuove, e inconsapevoli, vesti di uno strumento di propaganda. Il 12 novembre, a pochi giorni dalla rotta di Kherson, la priorità dell’esercito dovrebbe essere una riorganizzazione logistica nella regione, invece apre un canale Telegram monotematico. Si documentano le condizioni dell’orsetto, adottato da un reparto di paracadutisti che gli hanno cucito una magliettina a righe simile a quelle indossate da loro.

Il canale Rossija 1 (l’equivalente russo di Rai 1, con cinquanta milioni di spettatori) gli dedica un servizio televisivo. È l’inizio della fama. Il presentatore lo definisce «piccolo combattente». Dopo un sondaggio online, i soldati l’hanno ribattezzato «Kherson», come la città a cui l’hanno strappato, e davanti alle telecamere assicurano che li motiva. «Ci sprona a nuove vittorie». Come è da chiarire. Nel girato lo si vede sbucare da uno zaino militare e, non troppo entusiasta, venire trasportato lungo il fronte in una gabbietta. «Quando pensi che la tv russa non possa più sorprenderti, producono una cosa del genere», ha commentato il giornalista della Bbc, Francis Scarr.

La bestiola, suo malgrado, diventa la mascotte del battaglione. Lo riproducono sulle divise, ma la viralità sui social viene spesa soprattutto per raccogliere fondi attraverso donazioni su internet. Centinaia di migliaia di rubli, in un caso tre milioni (circa quarantamila euro). Come ringraziamento, ci sono le foto dell’equipaggiamento acquistato con quei soldi. Per esempio, un set di tute invernali e cento paia di calze termiche. Le didascalie suonano cringe nella finzione che le abbia scritte l’animale, non un social media manager. Con un decreto speciale, i russi lo avrebbero persino ammesso all’università di Melitopol, nella facoltà di sicurezza informatica.

Su Telegram, quasi ogni giorno, quasi ottantamila follower seguono gli spostamenti dell’animale e della “sua” unità. «Non mi hanno torto un cappello», recita un messaggio a corredo di un video in cui, in realtà, il procione sembra visibilmente stressato. Non può mancare la fotto sotto l’albero per gli auguri del Natale ortodosso, il 6 gennaio. Gli vengono mandati cappellini su misura, filastrocche e disegni dei bambini. È la prova che l’operazione è riuscita: l’orsetto di nome Kherson è ormai un’arma propagandistica del Cremlino. In patria, a suo modo, è una star. Invia addirittura un videomessaggio a un torneo di ginnastica ritmica a Shakhty, nella regione di Rostov.

Uno dei momenti più surreali, ma pure più organici alla narrazione imperialista che viene convogliata persino così, è un annuncio in pompa magna del 10 gennaio. Quel giorno, in Crimea, l’orsetto riceve una vaccinazione contro la rabbia e la cittadinanza russa. Nel video si nota la riluttanza dell’animale, quella tipica di fronte a un veterinario. Sembrano posticci i documenti che riceve, con la sua foto su un passaporto di carta. «Questo è probabilmente uno degli eventi più importanti della mia vita!», è il virgolettato fabbricato per l’occasione.

Gli ucraini, che nella comunicazione tramite meme sono maestri, su Twitter hanno ipotizzato un’operazione stile Salvate il soldato Ryan per liberarlo, con il profilo peloso photoshoppato sopra i volti dei suoi carcerieri. Hanno esultato quando Kherson, in uno dei filmati, ha morso sul dito uno dei capi dell’amministrazione militare nemica. Come dire, è ancora uno dei nostri. A un certo punto, un prigioniero di guerra russo ha chiesto di essere scambiato con il procione. Anche Kyjiv ha una sua icona: il Jack Russell Patron, premiato dal presidente Volodymyr Zelensky per le vite che ha salvato scovando centinaia di mine grazie al suo fiuto.

Anche lui è una di quelle che in giornalese vengono apostrofate «stelle del web». Kherson ha un vantaggio. I procioni, negli ultimi anni, hanno colonizzato i nostri feed. Saranno le movenze goffe, le zampe che ricordano le nostre mani, la corporatura «chubby» in anticipo sulla body positivity: le analisi si sprecano. Anni fa, era diventato famoso Tema, un altro procionide, soprattutto per la sua stazza extra–large. Tra l’altro, i procioni sono animali selvatici e non sono fatti per vivere nelle case. Né addomesticabili, a giudicare da come quello ucraino ha azzannato il russo che provava a toccarlo.

Se sorridiamo di fronte a contenuti rivedibili, però, rischiamo di cadere nella trappola di Mosca. È esattamente quello lo scopo: rendere «cute» la guerra. Umanizzarla. Le gif buongiorniste, il lessico infantile e apparentemente innocuo convivono nello stesso feed delle operazioni militari, dei bombardamenti e del volo dei droni. Un hate speech che glorifica la macchina bellica russa, legittima le sue pretese antistoriche su una nazione sovrana e ripete una contro-narrazione falsificata al racconto dei media occidentali (per esempio sulle ruberie d’arte), in una coabitazione vicina a un matematico cinquanta-e-cinquanta. L’ultimo post, in ordine di tempo, celebra un camion ucraino fatto saltare da un obice da 152 millimetri.

Chi è Maria Zakharova, la portavoce di Lavrov. Emanuel Pietrobon il 30 Gennaio 2023 su Inside Over.

Irriverente, sarcastica, vulcanica, odiatrice del politicamente corretto e amante della diplomazia dei social network, Maria Zakharova figura tra i personaggi-chiave dell’establishment putiniano ed è l’insospettabile spalla del secondo uomo più potente del Cremlino: Sergej Lavrov.

Le origini

Maria Vladimirovna Zakharova nasce a Mosca il 24 dicembre 1975. Cresciuta in un contesto agiato, in quanto figlia di diplomatici, la Zakharova si sposta da Mosca a Pechino nel 1981, all’età di sei anni, per seguire le orme del padre, chiamato dall’ambasciata sovietica in loco, e farà ritorno in patria soltanto nel 1993.

Il ritorno a casa è dei più traumatici: l’Unione Sovietica non esiste più, al suo posto si trova la Federazione Russa. Ma la famiglia Zakharova riesce ugualmente a navigare le acque turbolente della transizione verso il nuovo: il padre continuando a lavorare negli ambienti politici e diplomatici, la madre lavorando come storica dell’arte presso il Museo Puškin delle belle arti.

La Zakharova, compiuta la maggiore età, sceglie di seguire un percorso ispirato dalla carriera del padre: laurea in giornalismo internazionale presso il prestigioso MGIMO di Mosca, con specializzazione in studi orientalistici e un tirocinio formativo svolto all’ambasciata russa di Pechino. Nel dopo-laurea, forte di una personalità vulcanica e aiutata da un cognome importante, la Zakharova riesce ad entrare nel Cremlino. L’inizio di un lungo cammino che l’avrebbe portata, negli anni successivi, a servire il mostro sacro della diplomazia russa: Sergej Lavrov.

La lunga ascesa

L’ingresso nella diplomazia della Zakharova è tempestivo e irruento. Nel 2003 entra nel dipartimento stampa e informazione del ministero degli Affari esteri, che lascia nel 2005 dopo aver ricevuto la classica offerta che non si può rifiutare: portavoce della Missione permanente della Federazione Russa alle Nazioni Unite.

L’esperienza newyorkese è l’occasione per perfezionare la conoscenza della lingua inglese, ma anche per apprendere sul campo i meccanismi decisionali della più importante organizzazione internazionale universale del mondo, le Nazioni Unite, nonché per costruirsi una reputazione. Nel 2008, dopo tre anni di servizio, è il momento del ritorno a Mosca. Ad attenderla è, nuovamente, il dipartimento stampa e informazione del ministero degli Affari esteri.

Il 2011 è l’anno della promozione a numero due del dipartimento, ruolo che, oltre a comportare maggiori responsabilità – come l’organizzazione di eventi e la gestione dei canali social del ministero degli Esteri –, le permette di avvicinarsi al longevo padrino della politica estera russa, Lavrov, col quale stabilisce un rapporto amichevole e del quale conquista rapidamente la stima.

Il vulcanico duo Lavrov-Zakharova

La Zakharova è la social media manager, la raccoglitrice di informazioni e l’organizzatrice di eventi più in gamba che Lavrov ritiene di aver mai conosciuto. È colei alla quale la diplomazia russa deve l’ingresso sui generis nei social network globali, come Facebook e Twitter, tra meme e post provocatori capaci di fare il giro del mondo in poche ore. Contenuti che riflettono lo stile esuberante della Zakharova, che Lavrov notoriamente condivide.

Il 10 agosto 2015, su ordine di Lavrov in persona, la Zakharova viene nominata direttrice di quel Dipartimento stampa e informazioni in cui ha fatto carriera. Una nomina storica: è la prima donna a ricoprire l’incarico. Una nomina che riflette l’astro esercitato su Lavrov e all’interno del ministero degli Esteri, tanto che la BBC, l’anno seguente, la inserisce nella classifica delle 100 donne più influenti del pianeta.

Sergej Karaganov, il falco di Putin

Esibizionista, provocatrice, pungente, sarcastica e odiatrice del politicamente corretto, pioniera di un nuovo modo di fare la diplomazia ai tempi dei social network, a metà tra la comunicazione persuasiva e il marketing politico, la Zakharova diventa rapidamente la spalla di Lavrov, di cui cura l’immagine pubblica, le relazioni coi media e che accompagna in ogni viaggio.

La Zakharova è il volto mediatico di Lavrov, del quale completa le battute e col quale forma un dinamico e vulcanico duo specializzato nel lancio di frecciatine alla stampa occidentale. Le sottolineature del doppiopesismo per evidenziare le ipocrisie di fondo dei governi occidentali. L’enfasi sulle degenerazioni del politicamente corretto made in West attrarre le simpatie del The Rest. Partecipazioni televisive in casa e concessioni di interviste ai giornalisti stranieri per fornire il punto di vista di Mosca sui temi più svariati: dall’Ucraina alla questione arcobaleno.

La sua visibilità mediatica è aumentata a dismisura nel 2022, alla vigilia e nel corso della guerra in Ucraina, e le è anche costata l’inserimento nell’elenco dei cittadini russi sanzionati dall’Unione Europea e dagli Stati Uniti. Accusa: l’essere “una figura centrale della propaganda governativa [del Cremlino]”.

Le sanzioni non le hanno comunque impedito di raggiungere il pubblico occidentale. Anzi. Il suo canale Telegram, che ha raggiunto oltre 500mila iscritti all’inizio del 2023, ha progressivamente assunto la forma di un organo di stampa parallelo, è stato utilizzato per produrre meme e contenuti di vario tipo ed è divenuto una fonte per i giornalisti stranieri. Forse non diventerà l’erede di Lavrov, perché diversi sono i loro profili e ruoli, ma certo è che verrà ricordata come uno dei grandi cervelli della diplomazia della Russia ai tempi dei social network.

Dmitry Kiselyov, il propagandista del Cremlino. Pietro Emanueli il 25 Gennaio 2023 su Inside Over.

La macchina informativo-propagandistica del Cremlino è una fabbrica che non conosce periodi né di pausa né di chiusura. È bifronte, cioè ha un lato rivolto verso il mondo e uno verso l’interno. Il primo è incardinato su media globali, come Russia Today e Sputnik, e su enti specializzati in operazioni cognitive, come l’Internet Research Agency. Il secondo è basato sul connubio simbiotico tra stampa e televisione.

La propaganda russa è simile a quella di altri Paesi: veicola e legittima interessi e visioni del governo in carica, migliora l’immagine della nazione nel mondo, raccoglie la popolazione attorno alla bandiera, vuole vincere cuori e menti di chi l’ascolta. Nel perseguire suddetti obiettivi, la propaganda russa non differisce da quella degli Stati Uniti, del Regno Unito o di altre potenze.

Quando si scrive di propaganda russa, oltre che di Rt, Sputnik e Ira, sarebbe utile e necessario parlare della galassia di presentatori e giornalisti che lavorano incessantemente da megafoni del Cremlino per nazionalizzare le masse e plasmarne le convinzioni. Trattasi di personaggi che hanno giocato un ruolo-chiave nella costruzione della reputazione di Vladimir Putin, nel ritorno della società al conservatorismo e, oggi, nella fabbricazione di consenso attorno all’invasione dell’Ucraina. Personaggi come Vladimir Solov’ëv e Dmitry Kiselyov.

La formazione

Dmitrij Konstantinović Kiselyov nasce a Mosca il 26 aprile 1954. Cresciuto in un ambiente relativamente agiato per gli standard dell’epoca, in quanto nipote del noto compositore Jurij Šaporin, Kiselyov vuole inizialmente seguire le orme del nonno. Appassionato di musica, in ogni sua forma, si iscrive e si laurea alla Scuola sovietica di musica. Ma la vita aveva altri piani in serbo per lui.

L’Unione Sovietica degli anni Settanta non dona né particolare fama né rilevanti opportunità carrieristiche ai lavoratori dell’industria musicale, perciò Kiselyov, alla ricerca di lavori dignitosi, decide di trasferirsi a Leningrado per studiare filologia scandinava all’Università statale della città. Si laurea nel 1978, ventiquattrenne, e per lui si spalancheranno quasi immediatamente le porte del mondo del lavoro nel prospero mercato dell’informazione.

Forte della conoscenza del norvegese e dello svedese, appresi durante il periodo di studi a Leningrado, Kiselyov viene assunto dalla Televisione statale dell’Unione Sovietica e inviato nel dipartimento dedicato alla trasmissione di programmi e servizi radiofonici in Scandinavia e Polonia. L’inizio di un lungo percorso che lo renderà, col passare del tempo, il propagandista più celebre di Mosca.

Una vita dedicata all'informazione di regime

Nel 1989, dopo aver folgorato l’allora re dell’informazione sovietica – Eduard Sagalaev –, Kiselyov diventa corrispondente per il programma più seguito dell’Unione Sovietica: Vremya. Preparato e tagliente, Kiselyov è l’inviato giusto per coprire le notizie provenienti dal mondo e non di rado gli viene chiesto di recarsi all’estero per realizzare delle dirette. Nell’aprile 1989, ad esempio, viene mandato in Georgia per seguire la sollevazione antisovietica passata alla storia come la tragedia di Tbilisi.

Nel 1991, a seguito di disaccordi su come coprire le rivolte lituane – ultima propaggine del processo di indipendenza di Vilnius –, Kiselyov viene allontanato dalla Tv di Stato. Ma non gli importa: è consapevole che l’esperienza sovietica è ormai giunta al termine e che riuscirà a ritagliarsi spazi nel nuovo ordine che emergerà. Convinzione alla quale i fatti danno rapidamente ragione: viene richiamato a Vremya, su indicazione di Boris Eltsin, all’indomani del tentato golpe di agosto.

Gli anni Novanta saranno la prima età dell’oro del rinato Kiselyov, il giornalista e presentatore più richiesto dai canali della televisione russa. La sua partecipazione è, infatti, voluta dalle reti più importanti e seguite, in particolare da Prt (oggi Canale1). Curiosamente, in questi anni, sebbene in seguito sia diventato un capofila dell’antioccidentalismo, Kiselyov ricevette un contributo dell’Eurocommissione per la creazione di “Finestra sull’Europa”, un programma interamente dedicato alle relazioni Europa-Russia, e ospitato proprio su Prt.

Entro la seconda metà degli anni Novanta, il presentatore più irriverente di Russia è tanto potente da aver raggiunto una sorta di semi-autonomia operativa: produce programmi, sceglie le linee editoriali, segue l’allargamento delle trasmissioni russe nello spazio postsovietico, in particolare in Ucraina. Abilità, inventiva e stacanovismo continueranno ad essergli riconosciute anche nel dopo-Eltsin, in una misura persino maggiore rispetto al passato, e, nel corso dei primi anni Duemila, Kiselyov verrà investito dell’onere-onere di dirigere la macchina propagandistica del Cremlino da Putin in persona.

Il propagandista in capo del Cremlino

Kiselyov trascorre la prima parte del Duemila tra Ucraina e Russia, conducendo e/o producendo programmi televisivi di carattere politico in entrambi i paesi. I suoi programmi attirano ascolti, suscitano polemiche e polarizzano l’opinione pubblica. Di proposito. In Ucraina, nel 2004, anno delle presidenziali, i suoi notiziari vengono accusati di essere sfacciatamente di parte, propaganda a favore di Viktor Janukovyč, e l’esito elettorale giocherà a suo sfavore.

Nel 2006, scaduto il contratto con canale Ictv – non rinnovato dalla dirigenza (anche) per via dei legami con Janukovyč –, Kiselyov si sposta definitivamente in patria. La fine dell’andirivieni e l’inizio dell’egemonia presso il popolarissimo Russia1, nata con la partecipazione all’incendiario talk show “Interesse nazionale”.

Entro il 2010, complice la sua popolarità, Kiselyov occupa i più importanti palinsesti della televisione russa ed è l’intervistatore più richiesto dai potenti del Paese, come ad esempio il patriarca Cirillo. Ma è molto più di un giornalista: è documentarista prolifico, che realizza serie e opere atte a inculcare nel pubblico sentimenti patriottici, valori tradizionali, conoscenza della storia e nostalgia per il passato sovietico. Portano la sua firma i discussi “URSS: Il collasso“, “I cento giorni di Gorbačëv” e “I cento giorni di Eltsin“.

Nel 2012, anno del ritorno alla presidenza di Putin, Kiselyov è ormai, da tempo, il giornalista più affermato di Russia. Dal suo curriculum traspare lealtà (al Cremlino). I suoi numeri suggeriscono che il “formato Kiselyov” funzioni. È l’uomo adatto, evidentemente, a ricoprire il ruolo di propagandista in capo del Cremlino.

Nel 2013, dal grembo di Ria Novosti, viene partorita l’agenzia internazionale Russia Today, di cui Kiselyov viene nominato amministratore delegato. Dei vari figli dell’agenzia, come l’influente Rt, il propagandista diventa lo stratega in capo della loro internazionalizzazione e della loro formazione stilistica. Parole d’ordine: antioccidentalismo di fondo, irriverenza, politicamente scorretto, taglienza. Obiettivo: migliorare l’immagine della Russia, e sottolineare ipocrisie e degenerazioni dell’Occidente, a mezzo di informazione prodotta da media globali.

Tra coloro che hanno popolarizzato l’appellativo dispregiativo Gayropa, molto in voga negli ambienti conservatori russi (e oggi di tutto il mondo), Kiselyov ha giocato un ruolo determinante nel tentativo di inculcamento dei cosiddetti “valori tradizionali” nella società russa, obiettivo conclamato di Putin sin dal 2012, e utilizzato i propri programmi per perseguire tale fine.

La televisione e i media digitali come mezzi per dare compimento alla strategia identitaria del Cremlino, che vorrebbe dare ai russi un io col quale affrontare a modo le turbolenze che si prospettano nel corso del secolo. La televisione e i media digitali come mezzi, caratterizzati da un ottimo rapporto economia-rapidità, per deteriorare l’immagine dell’Occidente nel mondo.

Kiselyov è l’uomo che ha riportato Stalin nei salotti dei russi – e i sondaggi sulla crescente popolarità del fu dittatore indicano che stia avendo successo. È colui che ha lavorato duramente per giustificare agli occhi dell’opinione pubblica, domestica e internazionale, ogni politica interna ed estera del Cremlino: dall’intervento militare in Siria all’invasione dell’Ucraina. È colui che sa come trasformare l’informazione in uno strumento di condizionamento mentale e comportamentale. È l’Edward Bernays, con le dovute differenze, di Vladimir Putin. PIETRO EMANUELI

Dezinformacija. Le parole chiave della narrazione russofila sulla guerra in Ucraina. Maurizio Stefanini su L’Inkiesta il 26 Gennaio 2023

Genocidio, de-nazificazione e golpe sono alcuni tra i termini abusati dal Cremlino per giustificare l’invasione del 24 febbraio. Ecco una anticipazione dell’intervento di Maurizio Stefanini al convegno «Dezinformacija e misure attive: Le narrazioni strategiche filo-Cremlino in Italia sulla guerra in Ucraina»

Dalle 16 alle 20 presso la Casa dell’Aviatore (Viale dell’Università, 20 – Roma) si tiene oggi la conferenza «Dezinformacija e misure attive: Le narrazioni strategiche filo-Cremlino in Italia sulla guerra in Ucraina», primo di tre incontri organizzati dall’Istituto Gino Germani di Scienze Sociali e Studi Strategici. Pubblichiamo una anticipazione dell’intervento di Maurizio Stefanini su «Genocidio, de-nazificazione, golpe. Alcune parole-chiave della propaganda russa».

Genocidio

Nel Donbass soldati ucraini commettono atti di cannibalismo, denunciò alla Camera il 24 giugno 2014 la portavoce dei Cinque Stelle Marta Grande. Prova, «la foto di un soldato ucraino mentre tiene tra le mani sogghignando in modo ineffabile il braccio semi carbonizzato di una donna». In capo a poche ore, saltò fuori che era il fotogramma di un film di fantascienza di cinque anni prima. 

È un caso estremo, ma nella piena logica di una quantità di fake che vengono riciclate senza controllo per giustificare l’attacco di Putin. Sui Social, ma non solo. Ad esempio: «gli ucraini responsabili in Donbass di un genocidio che ha fatto tra i russi 13.000 (14.000) vittime». Gonfiata a 16.000 vittime, la cosa fu ripetuta anche da Berlusconi da Bruno Vespa tra gli interventi dei leader prima del voto, a spiegare il motivo per cui il suo amico Putin aveva fatto l’«operazione speciale» per mettere al potere a Kiev «persone per bene». Col tono che non ci sarebbero stati problemi, se gli ucraini non avessero deciso incomprensibilmente di fare resistenza. Anzi, si è messo pure a dare consigli ai russi su come avrebbero dovuto fare la campagna: tipo quando fece dimettere Zoff da Ct della Nazionale per le sue critiche alla gestione di una finale degli Europei.

In realtà, la cifra di 14,000, più precisamente tra le 14.200 e le 14.400 riguarda tutte le vittime contate dall’Onu nella regione tra 6 aprile 2014 e 31 dicembre 2021. Sono 3404 civili, tra cui 306 stranieri (di cui i 298 del Malaysia Airlines Flight 17). 4400 militari e paramilitari ucraini (4641 per il Museo di Storia Militare ucraino, che però conta fino al 23 febbraio). 6517 miliziani filo-russi, anch’essi contati fino al 23 febbraio integrando le cifre Onu con quelle delle stesse milizie. 400-500 soldati russi tra 6 aprile 2014 e 10 marzo 2015, secondo il Dipartimento di Stato Usa. L’Osce ulteriormente osserva che tra primo gennaio 2017 e 15 settembre 2020 ci sono state 946 vittime civili: 657 nelle aree controllate dai filo-russi. La maggior parte per bombardamenti, ma 81 per mine, e 150 per tentativi di disinnescare ordigni non esplosi da parte di civili senza competenze.

Ovviamente, la semplice uccisione di civili nel corso di un conflitto non è genocidio, anche se si può configurare come crimine di guerra. A proposito dei civili dell’aereo Boeing 777-200ER della Malaysia Airlines che si trovava in volo tra Amsterdam e Kuala Lumpur c’è comunque una sentenza olandese che attesta come fu abbattuto per responsabilità di cittadini russi e loro complici locali al servizio di Putin. Dunque, se l’uccisione di civili nella guerra del Donbas può essere considerata un genocidio, allora questa sentenza configurerebbe una responsabilità di Putin. 

Come è stato però di recente ricordato, ai sensi del Diritto Internazionale costituisce sicuramente genocidio la politica di cui il governo russo si vanta, di prendere bambini ucraini alle loro famiglie per “rieducarli” come «buoni russi».

Il rapimento di minori è stato pianificato dalle autorità russe come componente essenziale della strategia di invasione dell’Ucraina. Vladimir Putin ha emesso a maggio un decreto che rende più facile per i russi adottare bambini ucraini, e il commissario russo per i diritti dei bambini Maria Lvova-Belova, che sostiene apertamente la pratica di spogliare i bambini della loro identità ucraina e insegnare loro ad amare la Russia, sta perseguendo questa politica. In recenti dichiarazioni alla televisione ufficiale, la Lvova-Belova ha spiegato come ha trasformato i minori rapiti, facendo sì che gli insulti a Putin dei piccoli «si trasformino in amore per la Russia». Il numero di bambini ucraini rapiti dalla Russia non è chiaro. Ma Daria Herasymchuk, responsabile ucraina dei diritti dei bambini, stima che almeno 11.000 bambini siano stati sottratti ai genitori.

Ora, la Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio del 9/12/1948 all’articolo II dice: «Nella presente Convenzione, per genocidio si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale: a) uccisione di membri del gruppo; b) lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo; c) il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale; d) misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo; e) trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro.» La disposizione del trattato sul genocidio fu adottata nel ricordo delle atrocità naziste, compreso un piano guidato da Heinrich Himmler per rapire bambini dalla Polonia e collocarli in orfanotrofi tedeschi o con famiglie tedesche per essere cresciuti tedeschi. Le prime condanne nei processi per crimini di guerra nazisti furono per rapimento di minori. Il procuratore Harold Neely disse che «non è una difesa per un rapitore affermare di aver trattato bene la sua vittima«, osservando che «questi bambini innocenti sono stati rapiti allo scopo di essere indottrinati con l’ideologia nazista ed educati come “buoni” tedeschi». Questo serve ad aggravare, non a mitigare, il reato.

La Russia, successore dell’Unione Sovietica, è parte della convenzione sul genocidio. In conclusione: sì, in Ucraina sta venendo computo sicuramente un genocidio, e responsabile ne è Putin. 

Denazificazione

«Non è sorprendente che la società ucraina si sia trovata di fronte all’ascesa del nazionalismo di estrema destra, che si è rapidamente sviluppato in russofobia aggressiva e neonazismo. Questo ha portato alla partecipazione di nazionalisti ucraini e neonazisti nei gruppi terroristici nel Caucaso del nord e alle sempre più forti rivendicazioni territoriali», è stata l’accusa di Putin nel momento in cui attaccava l’Ucraina. La «denazificazione» è un’altra grande giustificazione per la guerra, assieme alla storia del «genocidio nel Donbas». Ovvia l’obiezione che è stata fatta subito: ma come fa l’Ucraina a essere nazista se ha un presidente come Zelensky, che è ebreo? Suo nonno Semyon servì nell’Armata Rossa durante la Seconda guerra mondiale, e tre parenti morirono nell’Olocausto. E secondo i sondaggi del Pew Research Center l’Ucraina nel 2018 era il meno antisemita di tutti i Paesi dell’Europa Centro- Orientale. Ovviamente, la narrazione putiniana è che hanno messo un presidente ebreo apposta per nascondere che sono nazisti. Sicuramente ci furono manifestanti di destra radicale nella rivolta del Maidan. In effetti ci sono ebrei anche nel Reggimento Azov, l’unità spesso citata come esempio del carattere «nazista» del regime ucraino. Uno è ad esempio Nathan Khazin, già esponente di una organizzazione ebraica del Maidan. Anzi, di recente elementi dell’Azov si sono recati in Israele, e sono stati ripresi mentre danzavano una hora, danza nazionale israeliana abbracciato a ebrei. 

In una famigerata intervista alla tv italiana Lavrov rispose riciclando una vecchia fake, e spiegando che anche Hitler era ebreo. A parte l’Azov e ruolo di elementi di destra radicale nella protesta di Euromaidan, l’accusa si basa molto sul passato, e sul collaborazionismo filo-tedesco di una componente del nazionalismo ucraino durante la Seconda Guerra Mondiale. In particolare viene citato Bandera, la cui attività verso i polacchi è stata rubricata anche come terrorismo, ma che in effetti dopo un iniziale tentativo di collaborazione con i tedeschi ruppe con loro e fu da loro internato. Sicuramente, un periodo di alleanza tra Bandera e il Terzo Reich vi fu. Molto meno lungo del periodo di alleanza che vi fu tra l’Urss di Stalin e la Germania di Hitler dopo il Patto Molotov-Ribbentop, grazie al quale l’Urss incamerò Estonia, Lettonia, Lituania e porzioni di Polonia, Romania e Finlandia. 

Ma, passato a parte, si può ricordare come in effetti di elementi nazistoidi tra le truppe che combattono per Putin e contro l’Ucraina ce ne siano in abbondanza. Ad esempio, il Battaglione Sparta. 7000 membri, simbolo una M di fulmini. Fondatore e primo comandante Arsen Pavlov, nome di battaglia Motorolla. Cittadino russo, ex-marine con precedenti penali, in una intervista ammise di avere ucciso un prigioniero ucraino con due colpi alla testa, e c’è una registrazione in cui per telefono si vanta di aver fatto lo stesso a almeno una quindicina. Si sarebbe reso responsabile anche di torture: accuse che Amnesty International gira all’intero reparto. Ucciso nell’ottobre del 2016, fu sostituito da Vladimir Zhoga, a sua volta caduto il 5 marzo durante l’invasione dell’Ucraina. Putin lo ha subito fatto «Eroe della Federazione Russa».

Una svastica in bianco e rosso è l’emblema della Unità Nazionale Russa, fondata nel 1990 da Alexander Barkashov. Forte di almeno 100.000 simpatizzanti, in teoria è fuori legge in varie regioni della Russia. Era però un suo membro quel Pavel Gubarev che fu il fondatore della Milizia Popolare del Donetsk ed anche il primo «governatore» della Repubblica Popolare del Donetsk. Ma è uomo di Barakshov anche Dmitry Boytsov: il comandante di un Esercito Ortodosso Russo schierato con i separatisti del Donbass con circa 4000 effettivi. Bandiera blu e rossa con una croce e una spada, è stato accusato di rapimenti, pestaggi e minacce verso protestanti, cattolici, ebrei e membri della Chiesa Ortodossa Ucraina, oltre che di saccheggi. L’8 giugno del 2014 a Slaviansk uccise alcuni pentecostali, e nel novembre 2014 sequestrò due sacerdoti cattolici.  

Una versione slava della svastica è stato il simbolo del Battaglione Svarozich: reparto di neopagani adoratori del dio slavo Svarog che arrivò ad avere 1200 combattenti, ma ora è stato assorbito dalla Brigata Vostok. C’è poi un gruppo di «Brigate Internazionali» tra cui gli estremisti di sinistra spagnoli della Brigada Internacional Carlos Palomino, ma anche i nazionalisti bulgari di «Alba Ortodossa», una Legione di Santo Stefano di estremisti di destra ungheresi che vogliono «riprendere» all’Ucraina la Rutenia subcarpatica, un Distaccamento Jovan Šević di cetnici serbi. 

Senza essere inquadrati in reparti autonomi, hanno mandato volontari per la guerra del Donbas anche l’Unione della Gioventù Euroasiatica di Dugin, il Movimento Imperiale Russo, una Unione Slava e un Movimento contro l’Immigrazione Illegale che hanno anch’essi come simbolo varianti della svastica: come d’altronde la hanno i Battaglioni Rusich e Ratibor. Le Interbrigate di L’Altra Russia, pure attive nel Donbass, hanno invece come simbolo una bomba a mano. Si dichiarano «nazional-bolsceviche».

Putin, peraltro, ha coltivato rapporti intensissimi con gran parte della destra radicale europea: da Marine Le Pen, che ha ricevuti da lui finanziamenti; a Alternative für Deutschland, secondo cui «l’attuale situazione è il risultato dell’espansione a est della Nato, portata avanti malgrado gli accordi con Mosca» e «le sanzioni non hanno mai funzionato». 

Svoboda, cioè Libertà, si chiama un partito ucraino che alle elezioni politiche del 21 luglio 2019 prese il 2,15 p3r cento dei voti e uno dei 450 seggi alla Rada. In effetti aveva preso il 10,45 per cento e 37 seggi il 28 ottobre 2012, nel clima di dura mobilitazione che avrebbe portato alla rivolta di Euromaidan e alle dimissioni del presidente Yanukovych. Ma al voto immediatamente successivo, il 26 ottobre 2014, era già calato al 4,71 per cento e a 6 seggi.. La definizione di Svoboda come neo-fascista o neo-nazista è corrente sui media e nella polemica politica, ma più sfumata tra i politologi. L’ucrainista statunitense Alexander J. Motyl, ad esempio, dice che assomiglia di più al Tea Party Usa. «È diversa dalla normale estrema destra europea per il fatto che il suo nemico principale non sono migranti o minoranze ma il Cremlino», è il giudizio di Anton Shekhovtsov: politologo ucraino che è anche il massimo esperto di rapporti tra Russia e estrema destra: «Tango Noir» si chiama un suo libro in cui analizza in dettaglio le relazioni di Putin con le destre europee, ma ricorda pure come la stessa Urss non fosse del tutto estranea a certe manovre. Shekhovtsov spiega anche che «nazista» nel linguaggio russo significa essenzialmente «anti-russo», e quindi un partito di estrema destra che si mette dalla parte di Putin cessa si essere considerato tale.  

Svoboda nel 2009 aderì a una Alleanza Europea dei Movimenti Nazionali in cui stavano anche Fiamma Tricolore e Casa Pound. Ma se ne andò sbattendo la porta dopo l’annessione della Crimea, tacciandoli di putiniani. Il tema è spinoso anche in campo sovranista, dal momento che lo divide in due al Parlamento Europeo: euroscettici ma anche anti-Putin i Conservatori e Riformisti, dove stanno Fratelli d’Italia con Vox, col partito al governo in Polonia e con altri partiti dell’Europa dell’Est; euroscettici ma pro-Putin Identità e Democrazia, dove la Lega sta con Marine Le Pen, Wilders, la Afd tedesca e la Fpö austriaca. 

Nel 2015 nel loro libro «Ucraina La guerra che non c’è» i due corrispondenti di guerra italiani Andrea Sceresini e Lorenzo Giroffi iniziavano il racconto con un italiano ex-Avanguardia Nazionale che combatteva nel Donbas con gli ucraini e lo finiva con un altro italiano di Forza Nuova che invece stava con i separatisti filo-russi. Da allora vari giornali hanno titolato sul «derby nero in Ucraina» tra una Casapound filo-ucraina e una Forza Nuova filo-russa. Nel 2018 la Procura di Firenze fece arrestare sei estremisti di destra italiani accusati di combattere con i separatisti del Donbass. Ma questa cosa di trovare concittadini estremisti di destra che nel Donbass stavano da entrambe le parti del fronte è capitata anche ai reporter di altri Paesi europei. 

E c’è pure il Gruppo Wagner. Ufficialmente compagnia di ventura privata con sede in Argentina, ma finanziata da oligarchi vicini a Putin, si addestra in strutture del ministero della difesa, e secondo molte analisi è semplicemente un paravento che il governo russo utilizza quando non vuole intervenire direttamente. Adesso è impegnata in Ucraina. Dmitrij Valer’evič Utkin, il suo fondatore, è un noto estimatore di folklore nazisteggiante, a partire dalle mostrine Ss con cui si fa spesso fotografare. Lo stesso nome Wagner sarebbe stato prescelto in onore del musicista più amato da Hitler.

Un gruppo di estrema destra russo sarebbe poi dietro l’invio di lettere bomba a membri del governo spagnolo. Designato come organizzazione terroristica dagli Stati Uniti, il Movimento Imperiale Russo è un gruppo suprematista bianco con membri in tutta Europa e centri di addestramento militare a San Pietroburgo. Funzionari statunitensi ed europei ritengono che un gruppo di suprematisti bianchi con sede in Russia abbia ricevuto l’ordine dall’intelligence russa di inviare lettere bomba al primo ministro spagnolo, Pedro Sánchez, e ad altri obiettivi in Spagna, entro la fine del 2022, secondo il quotidiano. New York Times. Le sei lettere bomba, inviate tra la fine di novembre e l’inizio di dicembre, hanno ferito una persona, un impiegato dell’ambasciata ucraina a Madrid, quando una di esse è esplosa.

Golpe

Fu golpe Euromaidan? Moto popolare nato nella iconica Piazza Maidan e in seguito a cui il 22 febbraio 2014 il presidente Vikor Yakunovich scappò del Paese, è una giustificazione dei filo-Putin per l’aggressione all’Ucraina. Tra i putiniani da tastiera sui Social si arriva a scrivere che il presidente ucraino attuale Volodymir Zelensky sarebbe stato «messo al potere dagli americani con il Maidan», quando in realtà all’epoca faceva ancora l’attore. Divenne presidente dell’Ucraina nel 2015, ma appunto sullo schermo.  Con Sluha Narodu, «Servitore del popolo»: serie tv in cui impersonava appunto un capo di Stato onesto, capace di superare in astuzia antagonisti e detrattori, sull’onda del cui successo nel 2018 scese in campo in politica,  e il 21 aprile 2019 fu eletto presidente con il 73,22 er cento dei voti. Sconfisse il presidente in carica Petro Poroshenko che lui sì è espressione dell’Euromaidan, ed è considerato uomo degli americani. All’epoca c’è invece il dubbio che sia Zelensky un uomo di Putin, e sicuramente è confluito su di lui un voto considerato filo-russo.

Sicuramente la rimozione di Yanukovych non ha seguito il processo di impeachment come specificato dalla Costituzione: incriminazione formale, esame della Corte Costituzionale, voto a maggioranza dei tre quarti della Rada. Però con lo scappare a rotta di collo il presidente si è di fatto dimesso. Qualcosa di analogo a quanto accadde il 20 dicembre del 2001 a Buenos Aires, quando di fronte alla protesta popolare il presidente argentino Fernando de la Rúa scappò dal tetto della Casa Rosada in elicottero.

I latino-americani sono particolarmente precisi nell’indicare questo tipo di fenomeni, e la fattispecie di un presidente che scappa per via di una protesta popolare è rubricata da loro come «golpe de calle». Un «golpe della strada», diverso da un golpe militare. Una quantità di presidenti sono saltati in questo modo nella regione, spesso consentendo l’ascesa di nuovi presidenti poi divenuti alleati di Mosca nel cortile di casa Usa. In genere analisti locali e interazionali non restano a contestare la legittimità della cosa per anni, ma accettano che lo sbrego istituzionale sia sanato da voto del Parlamento e nuove elezioni. Specie se, come è avvenuto in Argentina e in Ucraina, chi è andato al potere grazie al golpe de calle è sconfitto da altri. Oltre che di Zelensky è il caso di Alberto Fernández: presidente argentino espressione di un’area politica erede della protesta del 2001, che ha sconfitto Mauricio Macri, a sua volta eletto dopo aver sconfitto lo schieramento di Fernández. 

Proprio Fernández poco prima della guerra era stato ricevuto da Putin, promettendogli che avrebbe fatto da «porta di ingresso della Russia in America Latina». Cosa abbastanza equivalente alla Ucraina alla Nato: invasione di una superpotenza nel cortile di casa di un’altra superpotenza. Essendo inoltre erede del Maidan argentino: sarebbe Biden autorizzato a procedere con lui nel modo in cui Putin sta procedendo con Zelensky? 

Comunque, questa settimana Lavrov è andato in visita in Sudafrica, e sno stati annunciate esercitazioni navali congiunte Cina-Russia-Sudafrica che avranno luogo proprio un Sudafrica nell’anniversario dell’attacco russo all’Ucraina. Si tratta della seconda visita africana di Lavrov in sei mesi, e precede il vertice Russia-Africa di San Pietroburgo, che lo scorso anno è stato rinviato al luglio 2023 a causa della guerra in Ucraina. Al voto dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite per sospendere l’adesione della Russia al Consiglio dei diritti umani lo scorso aprile solo 10 nazioni africane su 54 hanno votato a favore, mentre nove si sono opposte alla delibera e 35 si sono astenute o assentate. Un mese prima, solo 28 paesi africani avevano sostenuto una risoluzione delle Nazioni Unite che chiedeva il ritiro immediato e incondizionato delle truppe russe dall’Ucraina. Come mai questo entusiasmo? La Russia è attualmente il più grande esportatore di armi nel continente africano, e secondo lo Stockholm International Peace Research Institute, le esportazioni di armi in Africa hanno rappresentato il 18 per cento di tutte le esportazioni di armi russe tra il 2016 e il 2020. Nel gennaio 2022, centinaia di consiglieri militari russi sono stati schierati in Mali, e tra essi gente della Wagner. Anche il regime golpista del Burkina Faso ha simpatie per Mosca, e sono stati addestrati in Russia anche i militari andati al potere negli ultimi anni in paesi come Sudan, Ciad, Guinea e Guinea Bissau. Sono andati al potere con golpe militari di tipo classico. 

Impegni della Nato

Agilulfo Emo Betrandino dei Guildiverni e degli Altri di Corbentraz e Sura, il Cavaliere Inesistente di Italo Calvino, era un’armatura vuota con dentro un cavaliere che non c’era, ma «sapeva di esserci»: talmente tanto, da rompere la scatole a tutti quelli che gli stavano attorno. Al contrario Gurdulù, il suo scudiero, c’era, ma non sapeva di esserci perché era un minus habens. Mutatis mutandis, potrebbero rappresentare la bizzarra contrapposizione tra il verbale desecretato che secondo lo Spiegel avrebbe impegnato la Nato a non espandersi a Est in cambio dell’assenso alla riunificazione tedesca, e quel Memorandum di Budapest che impegnava la Russia a garantire l’integrità territoriale dell’Ucraina in cambio della restituzione di 1900 testate nucleari rimaste sul suo territorio dai tempi dell’Urss. 

Il primo, forse preso il 6 marzo 1991, in realtà non c’è. Secondo un verbale desecretato nel 2017, era un colloquio centrato sui temi della sicurezza nell’Europa centrale e orientale, oltre che sui rapporti con l’Urss, guidata allora da Michail Gorbaciov. Attenzione! Molti giornali hanno scritto “con la Russia”. Ma Gorbaciov era il leader dell’Urss! Di fronte alla richiesta di alcuni paesi dell’Est Europa di entrare nella Nato, Polonia in testa, i rappresentanti di Usa, Gran Bretagna, Francia e Germania Ovest concordarono nel definirla «inaccettabile». 

L’Urss, però, cessò di esistere il 26 dicembre 1991. Al suo posto apparvero 15 Stati successori, ognuno dei quali erede dell’Unione. Effettivamente, in alcuni casi questa eredità è stata riconosciuta alla sola Russia: il seggio permanente al Consiglio di Sicurezza, per esempio. La Russia è erede anche di quell’impegno? O l’impegno, più propriamente, vale verso tutti i Paesi successori? Insomma: Stati Uniti, Regno Unito, Francia e Germania secondo questo verbale si sono impegnati con Ucraina, Estonia, Lettonia, Lituania e Georgia che Ucraina, Estonia, Lettonia, Lituania e Georgia non entreranno nella Nato. Ma se l’Ucraina dice che rinuncia al suo diritto a porre il veto all’ingresso dell’Ucraina nella Nato? E se ci volesse rinunciare la stessa Russia? La Russia trattò per molti anni sulla possibilità di essere ammessa. Non è interpretazione autentica che l’impegno verbale e mai formalizzato decadde con la fine dell’Urss? Insomma, Agilulfo. Non esiste, ma è riuscito a convincere il dibattito che esiste a tal punto, che su di esso si sta fondando la guerra di aggressione di Putin all’Ucraina.  

Invece, il Memorandum di Budapest sulle garanzie di sicurezza esiste. Fu firmato il 5 dicembre 1994, e indusse l’Ucraina a rinunciare all’ombrello nucleare in presenza del quale difficilmente Putin si sarebbe azzardato ad attaccare. Ma, esattamente come Gurdulù, fa come se non sapesse di esserci. Non solo non ne parla nessuno, ma non ci si accorge che in base a esso Stati Uniti, Regno Unito e Francia sarebbe stati già tenuti a intervenire militarmente contro la Russia dai tempi dell’annessione della Crimea, senza nessun bisogno di adesione dell’Ucraina alla Nato. Come fu nel 1914 per il Belgio e nel 1939 per la Polonia. Ed è ancora valido.

Identità ucraina

«Parte inalienabile della nostra storia, della nostra cultura e del nostro spazio spirituale» ha detto Putin dell’Ucraina moderna al momento di entrare in guerra: «interamente creata dalla Russia o, per essere più precisi, dalla Russia bolscevica e comunista». La Rus di Kiev però fu distrutta dai mongoli nel 1240, da cui l’evoluzione separata delle tre culture russa, ucraina e bielorussa, nelle zone che finirono rispettivamente sotto gli stessi mongoli, sotto la Polonia e sotto la Lituania. L’Ucraina è poi conquistata dalla Russia, non senza la resistenza espressa ancora a inizio ’700 da Mazepa. Ridiventa indipendente nello sfasciarsi dell’Impero, come Finlandia, Polonia, Estonia, Lettonia e Lituania. Il ruolo dei bolscevichi è che, a differenza di queste altre regioni, l’Ucraina riescono a riconquistarla. Ma il regime comunista ne ha poi sterminato i contadini con l’Holodomor, genocidio per fame. Da 1,5 a 10 milioni di morti, secondo le stime. Senza questi vuoti e senza i detenuti che il regime portò dalle carceri russe per lavorare nelle miniere di carbone, oggi una maggioranza russofona nel Donbass non ci sarebbe.

La parte occidentale dell’Ucraina non ha mai fatto parte dell’Impero Russo. Divisa tra Polonia, Cecoslovacchia e Romania dopo lo sfasciarsi dell’Austria-Ungheria, fu annessa all’Urss nel 1945, ma rimase la più tenace roccaforte dell’identità ucraina. Per questo nel discorso di inizio della guerra Putin ha espulsa. «Stalin incorporò nell’Urss e trasferì all’Ucraina alcune terre che appartenevano a Polonia, Romania e Ungheria». «Diede alla Polonia parte di ciò che tradizionalmente era terra tedesca come compensazione». Vuole allora per coperenza restituire alla Germania la Kaliningrad già Königsberg di Kant? Chiede alla Polonia di ridare Danzica e Stettino? 

«E nel 1954, Krusciov tolse la Crimea dalla Russia dandola all’Ucraina. È così che si è formato il territorio della moderna Ucraina». Omette che fu uno scambio per cui l’Ucraina diede alla Russia Taganrog. 

«Nel 1990, quando si discusse la questione dell’unificazione tedesca, gli Stati Uniti promisero alla leadership sovietica che non ci sarebbe stata alcuna estensione della giurisdizione o della presenza militare della Nato di un centimetro verso est». Possibile, ma verba volant, scripta manent. Ed era invece scritto quel memorandum di Budapest del 5 dicembre 1994, con il quale l’Ucraina accettava di restituire alla Russia le 1900 testate nucleari che aveva ricevuto in eredità dall’Urss, in cambio di una precisa garanzia da parte di Russia, Usa, Regno Unito Cina e Francia sulla sua sicurezza, indipendenza e integrità territoriale. Violata già con l’annessione della Crimea. 

Biolaboratori

«Esperimenti biomilitari nella fossa 404 – Un laboratorio biologico segreto della NATO a 30 metri di profondità sotto l’Azovstal a Mariupol». «Da Agent Smith 11 aprile 2022» «Il 4 aprile ha scritto Pepe Escobar su Twitter: MARIUPOL 1/3 QUESTA sarà LA storia esplosiva dell’intera saga dei 404, non la false flag di Bucha. Sì, c’è una schiera di capoccia della NATO ancora rintanati con i neonazisti Azov nelle viscere di Azovstal. Eppure la chiave è cosa stava succedendo in questo sotterraneo 8 piani più in basso». Agent Smith non si sa chi sia, Pepe Escobar invece sì: fin troppo bene. Critico musicale brasiliano negli anni ’80 cacciato da due giornali per plagio di recensioni e invenzioni di interviste, dal 1985 si è reinventato come analista geopolitico, e oggi campa mettendo le sue doti di falsario di talento al servizio di RT e Sputnik News. 

Comunque non si trova a Mariupol, non dà prove, ed è stato sospeso da Twitter. Ma è una delle origini del tormentone su Social e media «alternativi». Oltre, ovviamente, alle affermazioni del Ministero della Difesa russo. In realtà, tutte le mappe diffuse e divulgate riguardano il «Cooperative Threat Reduction Program»: un programma di cooperazione tra Ucraina e USA per ridurre il rischio di armi biologiche, derivante da accordi presi nel 1991 per evitare la proliferazione delle armi di distruzione di massa dopo lo sciogliersi dell’Urss. Insomma, è collegato all’altra iniziativa per cui col Memorandum di Budapest nel 1994 l’Ucraina accettò di rinunciare a 1900 bombe atomiche in cambio di una garanzia sulla sua integrità territoriale di cui la Russia era parte, e che ha brutalmente violato. Come ha ripetuto l’alto rappresentante delle Nazioni Unite per il disarmo Izumi Nakamitsu: non c’è «alcun programma di armi biologiche condotto in Ucraina». 

I Filo Putin. Dal Vietnam alla Russia, l’eredità diplomatica di Kissinger. Andrea Muratore il 27 gennaio 2023 su Inside Over.

Il 27 gennaio 1973 Henry Kissinger, allora consigliere per la Sicurezza Nazionale del presidente Usa Richard Nixon, celebrò la sua più grande pietra miliare diplomatica con gli Accordi di Parigi che posero fine all’intervento americano in Vietnam senza per questo pregiudicare la posizione e, soprattutto, l’immagine di Washington. L’allora 50enne studioso e diplomatico americano è oggi il quasi centenario esperto e vecchio saggio, interprete della dottrina del realismo, che chiede all’Occidente e alla Russia di concludere un negoziato sull’Ucraina ed evitare di calpestare le reciproche linee rosse. Ieri come oggi agendo in funzione di una visione imperiale della geopolitica e del pragmatismo più schietto.

Dialogando con il leader politico nordvietnamita Le Duc Tho, Kissinger trattò dall’insediamento dell’amministrazione Nixon in avanti cercando una via d’uscita per Washington a una guerra che si era rivelata dispendiosa e foriera di grandi sconvolgimenti. Nella consapevolezza, non colta da molti membri dell’establishment Usa, che le decine di migliaia di morti in Vietnam non valessero la pena del sostegno alla repressione anticomunista nel Vietnam del Sud fino alla vittoria finale e che l’obiettivo strategico di impantanare le forze rivoluzionarie in Asia meridionale e mostrare agli alleati e ai rivali regionali la determinazione dell’America a combattere fosse stato raggiunto.

Inoltre, Kissinger era stato l’uomo dei viaggi in Cina, dell’apertura al dialogo con la Repubblica Popolare e il disgelo con il regime di Mao Zedong. Pragmaticamente, aveva capito che la vera partita si giocava a Pechino, non ad Hanoi o Saigon. E da sostenitore della realpolitik, Kissinger ha svolto un ruolo dominante nella politica estera degli Stati Uniti grazie agli incontri con Zhou Enlai e il passaggio alla nuova frontiera della diplomazia in senso antisovietico.

In seguito, però, fu anche l’interprete della distensione e degli Accordi di Helsinki del 1975 da Segretario di Stato di Gerald Ford. Un uomo capace di mischiare soft power e diplomazia a un uso spregiudicato della linea “dura” in politica estera: nel discorso di Kissinger sulla stabilità rientrano anche le mosse compiute a favore del golpe cileno del 1973 o dei bombardamenti sul Vietnam del Nord per accelerare la conferenza di Parigi l’anno precedente.

La lezione di Kissinger sulla Russia

Ciò che si può trarre dalle mosse di Kissinger e dai suoi moniti odierni sui rischi di un’escalation con la Russia è chiara: gli Stati Uniti devono ragionare da potenza imperiale, da primus inter pares, cercando il dialogo diretto con gli attori pivotali ed evitando che le tensioni alle periferie si scarichino nel centro politico e diplomatico. Una visione alla Metternich della diplomazia che presuppone un ruolo naturale delle potenze maggiori come custodi e gendarmi della stabilità complessiva dell’ordine globale. In cui si può competere nelle regole generali del “concerto tra le potenze”. Questo informa appieno la visione sistemica di Kissinger riguardo la stabilità planetaria, ieri come oggi.

All’alba dei cento anni il diplomatico divenuto filosofo della politica internazionale si è rilanciato come vecchio saggio della stabilità internazionale, ammonendo Washington e Mosca che la stabilità in Ucraina è cruciale per l’ordine mondiale ed è loro responsabilità garantirla. Per comprendere i rischi a cui il mondo va incontro, Kissinger a dicembre ha usato la metafora della corsa alla Grande Guerra nel 1914 in un articolo pubblicato sullo Spectator: “La prima guerra mondiale è stata una sorta di suicidio culturale che ha distrutto l’eminenza dell’Europa. I leader europei sono stati sonnambuli – secondo le parole dello storico Christopher Clark – in un conflitto in cui nessuno di loro sarebbe entrato se avessero previsto il mondo alla fine della guerra nel 1918”, ha scritto l’ex segretario di Stato.

“Il mondo di oggi si trova a un punto di svolta paragonabile in Ucraina”, ha notato Kissinger, per il quale “si avvicina il momento di costruire sui cambiamenti strategici che sono già stati compiuti e di integrarli in una nuova struttura verso il raggiungimento della pace attraverso il negoziato”. Una versione odierna del Congresso di Vienna, negoziato tra imperi e potenze in nome del realismo secondo cui l’abboccamento con un rivale è meglio della mutua distruzione assicurata. Perché il mondo del confronto, anche aspro, ma prevedibile è, secondo Kissinger, migliore di qualsiasi forma di imprevedibilità. Contro il cui sdoganamento da tempo avverte i principali leader mondiali. A Parigi come sull’Ucraina, seguendo la stella polare del realismo che ritiene la più funzionale all’interesse nazionale americano.

Dagospia il 3 Febbraio 2023. ANCHE KISSINGER A VOLTE SBAGLIA, MA ALMENO LO AMMETTE – L’EX SEGRETARIO DI STATO AMERICANO 99ENNE, A UN ANNO DALL’INVASIONE RUSSA DELL’UCRAINA APRE ALLA POSSIBILITÀ DELL’INGRESSO DI KIEV NELLA NATO: “SAREBBE UN ESITO APPROPRIATO. L’IDEA DELLA NEUTRALITÀ IN QUESTE CONDIZIONI NON È PIÙ SIGNIFICATIVA” – SECONDO IL REALISTA KISSINGER BISOGNERÀ DARE A MOSCA ASSICURAZIONI SULLA SUA SICUREZZA, E STABILIRE PRIMA COME EVOLVERÀ LA TRATTATIVA SULLE CONQUISTE TERRITORIALI. QUALE? DI NEGOZIATI ORMAI NON PARLA PIÙ NESSUNO

Estratto dell’articolo di Danilo Taino per corriere.it il 3 Febbraio 2023.

All’età di 99 anni, Henry Kissinger ha di nuovo dato prova di onestà intellettuale, oltre che di lucidità di pensiero. Qualche settimana fa, ha ammesso di avere cambiato posizione sull’ingresso nell’Ucraina nella Nato, una volta finita la guerra scatenata dalla Russia. Ora lo ritiene «un esito appropriato».

 L’anziano statista americano segue l’approccio attribuito a John Maynard Keynes: «Quando i fatti cambiano, io cambio le mie opinioni. Lei cosa fa, sir?». Già, noi cosa facciamo di fronte all’evoluzione dell’aggressione di Putin, quasi un anno dopo? Gli sviluppi bellici sul terreno sono decisivi ma allo stesso tempo cambiano le mappe mentali e le possibilità della politica e della diplomazia.

Occorre adeguarsi. La frase completa di Kissinger è la seguente: «Prima di questa guerra, ero contrario alla membership dell’Ucraina nella Nato perché temevo che sarebbe stata esattamente l’inizio del processo che stiamo vendendo ora. Adesso che il processo ha raggiunto questo livello, l’idea di un’Ucraina neutrale in queste condizioni non è più significativa. E alla fine del processo che ho descritto, essa dovrebbe avere la garanzia della Nato, in qualsiasi forma la Nato possa svilupparsi, ma credo che la membership dell’Ucraina nella Nato sarebbe un esito appropriato».

L’ex segretario di Stato (del presidente Richard Nixon) era fedele alla sua fama di realista (forse fin troppo) nelle relazioni internazionali prima dell’invasione del 24 febbraio 2022. Lo è rimasto durante tutto l’anno scorso; e massimamente uomo della Realpolitik è oggi. Per come si sono messe le cose, la soluzione migliore sarà ammettere Kiev nell’Alleanza Atlantica, dice. Niente di imminente: una volta che le operazioni militari saranno terminate.

Allo stesso tempo – ha aggiunto – a Mosca occorrerà dare assicurazioni circa la sua sicurezza, dal momento che nessuno ha intenzione di minacciarla. Entrambe operazioni non semplici. L’ingresso dell’Ucraina – che ha presentato domanda lo scorso settembre – troverà i 30 membri dell’Alleanza divisi: nove Paesi dell’Europa centrale e dell’Est si sono detti favorevoli, altri tacciono ma si sa che sono dubbiosi, scettici.

 E, prima di dare garanzie alla Russia, occorrerà stabilire come evolverà il quadro interno del grande Paese, quale disponibilità avrà Mosca a discutere. Fatto sta che il cambio di opinione dell’influente Kissinger ha fatto sì che la lepre ora corra per i corridoi dei governi e dei ministeri degli Esteri e della Difesa di mezzo mondo. Cosa è cambiato in quasi dodici mesi? Un cessate il fuoco e una tregua sono stati difficili da immaginate sin dall’inizio dell’invasione.

[…] Vladimir Putin […] non si fermerà. Ed è chiaro che Zelensky non ha intenzione di cedere e nemmeno può farlo: troverebbe la popolazione contro di lui e le migliaia di ucraini morti risulterebbero un sacrificio vano. […]

 In un’altra occasione, sempre nello scorso gennaio, Kissinger ha detto che gli Stati Uniti, a suo parere, dovranno continuare a fornire armi a Kiev ma non chiudere la porta della comunità internazionale al futuro di un Paese importante come la Russia. In qualunque modo finisca il conflitto […] Kiev non avrà rapporti facili con il vicino russo, continuerà a sentirne la minaccia: l’unico dubbio è sull’intensità della minaccia. Adesso, non esiste un livello minimo di fiducia nei confronti di Mosca, accordi non sono possibili e, come dice Kissinger, la neutralità non è più proponibile: occorre un ombrello che protegga il Paese. […]

Estratto dell'articolo di repubblica.it il 6 febbraio 2023.

Litigano ormai da più di trent'anni. Negli ultimi tempi Roger Waters e David Gilmour si sono detti di tutto, soprattutto a causa delle posizioni politiche, assolutamente divergenti. Ma oggi è apparso un tweet di Polly Samson, moglie del chitarrista dei Pink Floyd David Gilmour, rivolto a Waters: nessuna mezza misura.

 […]  "Sfortunatamente Roger Waters sei antisemita fino al midollo. Sei anche un apologeta di Putin e un bugiardo, un ladro, un ipocrita, uno che elude le tasse e canta in playback, un misogino, un invidioso patologico, un megalomane. Ne abbiamo abbastanza delle tue cazzate".

[…] Waters non ha rilasciato nessuna dichiarazione sul tweet di Polly Samson. La moglie di Gilmour ha preso una durissima posizione contro il bassista della storica band, a causa delle sue posizioni sulla guerra in Ucraina e su Israele, espresse in una recente intervista. Fra gli ultimi contrasti tra i due o stato della guerra in Ucraina: il chitarrista ha pubblicato un brano a sostegno della causa di Kiev e il bassista ha invece dato la colpa del conflitto "ai nazionalisti ucraini".

"Putin ha sempre sottolineato di non avere alcun interesse a conquistare l’Ucraina occidentale - ha detto Waters in un'intervista alla Berliner Zeitung - né a invadere la Polonia o qualsiasi altro paese oltre confine. Vuole proteggere le popolazioni di lingua russa in quelle parti dell’Ucraina dove le popolazioni di lingua russa si sentono minacciate dai governi di estrema destra influenzati dal golpe di Maidan a Kiev. Un colpo di stato ampiamente accettato come orchestrato dagli Stati Uniti». […]

(ANSA l’8 febbraio 2023) - La Russia ha chiesto al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di includere il fondatore dei Pink Floyd, Roger Waters, da tempo su posizioni filorusse, nell'elenco degli oratori per la riunione del Consiglio di oggi sull'Ucraina. Lo ha dichiarato il primo vice rappresentante permanente russo presso le Nazioni Unite Dmitry Polyansky, come riporta la Tass. In un'intervista rilasciata alla Tass nei mesi scorsi, Waters aveva accusato gli Stati Uniti e la loro leadership di aver provocato la crisi ucraina.

Mosca arruola il fondatore dei Pink Floyd. "Roger Waters all'Onu contro gli Usa". Storia di Roberto Fabbri su Il Giornale il 9 febbraio 2023.

 Trent'anni fa, nel suo (bellissimo) album solista «Amused to death», Roger Waters aveva compiuto uno sforzo di obiettività che doveva essergli costato gran fatica. Ben noto per il suo marxismo al caviale e per l'abitudine di paragonare Israele al Terzo Reich nazista, aveva sparso lacrime per i ragazzi massacrati in piazza Tienanmen a Pechino su ordine del partito comunista cinese, e in una lunga lista di popoli martoriati aveva perfino citato gli estoni perseguitati dai compagni sovietici. Si vede che invecchiando (ha compiuto 79 anni) i mai sopiti istinti antioccidentali hanno ripreso il sopravvento: nei mesi scorsi, in un'intervista all'agenzia russa Tass, l'ex leader dei Pink Floyd aveva accusato gli Stati Uniti di aver provocato la crisi ucraina, sfociata nell'invasione russa di quasi un anno fa. E a Mosca hanno molto apprezzato il suo non richiesto endorsement.

Le successive prese di posizione filorusse di Waters avevano suscitato pochi giorni fa una specie di faida interna a quel che resta di uno dei gruppi storici del rock mondiale: Polly Samson, moglie del suo antico sodale David Gilmour, aveva preso di punta Waters senza mezze misure, dandogli tra l'altro dell'antisemita, dell'amico di un criminale (Putin), dell'ipocrita evasore fiscale e del megalomane. Accuse confermate dal marito, risentito perché l'ex compagno di strada aveva bollato come «incoraggiamento alla continuazione della guerra» la sua recente canzone griffata Pink Floyd «Hey hey rise up» dedicata alla resistenza ucraina.

Ieri, la notizia choc: il Cremlino ha invitato Waters a parlare al Consiglio di Sicurezza dell'Onu. Un colpo di teatro del tutto esente da rischi: il musicista inglese, infatti, sottoscrive tutti i capisaldi della propaganda russa sull'Ucraina, difende regolarmente Putin (ma gli garba molto anche il super macellaio siriano Assad, nemico giurato di Israele e ancora in sella solo grazie a un intervento militare russo) e non risparmia attacchi agli americani. Secondo lui, Putin aveva teso la mano all'Occidente per la pace in Europa, ricevendo in cambio minacce inaccettabili come l'invito a Kiev a entrare nella Nato; l'invasione dell'Ucraina non è una guerra ma (indovinate?) «un'operazione militare speciale» che serve (indovinate?) «a denazificare l'Ucraina e a salvaguardare i russofoni del Donbass»; e la resistenza armata del popolo ucraino è «una guerra per procura», ovviamente al servizio degli interessi americani.

L'ex Pink Floyd ha reagito all'invito indossando i panni dell'uomo di pace. Con finta equidistanza si è rivolto ai tre presidenti Putin, Zelensky e Biden affinché fermino la guerra e mettano le basi per un negoziato (posizione gradita a Mosca, che pretende di mettere l'Ucraina nelle condizioni di rifiutare il dialogo). A Kiev l'hanno presa malissimo: «Waters invoca una tregua ma in realtà ci dice di arrenderci». Se davvero parlerà al Palazzo di Vetro, sarà musica per le orecchie dello «Zar».

Roger Waters difende Putin: «In Ucraina un’invasione provocata». L’ultima stecca della star delle cause controverse. Matteo Persivale su Il Corriere della Sera il 10 Febbraio 2023.

L’ex Pink Floyd Roger Waters ha difeso Putin davanti al Consiglio di sicurezza Onu: «Condanno l’invasione, ma anche chi l’ha provocata»

Non batté ciglio quando venne attaccato da più parti, dieci anni fa, per aver fatto volare un gigantesco maiale gonfiabile decorato con la stella di David sul palco di un suo concerto in Belgio; è pertanto improbabile che Roger Waters, co-fondatore dei Pink Floyd, si scomponga più di tanto per gli attacchi di ieri, dopo la sua comparsa — su invito della Federazione Russa — al cospetto del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per invocare un cessate il fuoco della guerra in Ucraina .

«L’invasione dell’Ucraina da parte della Federazione Russa è stata illegale. La condanno nei termini più forti possibili — ha detto, tramite collegamento video dal suo studio il musicista 79enne, professorale in giacca e cravatta, in compagnia del suo simpaticissimo cane bianco — ma l’invasione russa dell’Ucraina non è avvenuta senza che ci fosse una provocazione, quindi condanno anche i provocatori nei termini più forti possibili».

Ha concluso il suo discorso chiedendo un cessate il fuoco immediato, indicando sé stesso come «una voce per i milioni senza voce»: «Grazie per averci ascoltato oggi: siamo in molti a non approvare i profitti dell’industria bellica: non alleviamo volentieri i nostri figli e le nostre figlie per fornire carne ai vostri cannoni. A nostro avviso, l’unica linea d’azione sensata oggi è chiedere un cessate il fuoco immediato in Ucraina. Senza se, senza ma. Non c’è da spendere un’altra vita ucraina o russa: sono tutte preziose ai nostri occhi».

La cosa interessante è che Waters, davanti all’augusto consesso, si è abbastanza imborghesito. Molto più vivaci i toni del musicista — che peraltro all’Onu ha definito il governo ucraino come «il regime di Kiev» — nelle sue più recenti interviste: sabato scorso sulla tedesca Berliner Zeitung aveva elogiato apertamente Putin come uomo di pace che, a suo parere, «nel 2004 aveva teso la mano all’Occidente nel tentativo di costruire un’architettura di pace in Europa ma è stato mandato a quel paese» e «se è un gangster, non è un gangster peggiore di Joe Biden o degli altri presidenti americani del dopoguerra». Il Pink Floyd aveva anche detto che chi considera la Russia l’aggressore della guerra in Ucraina «ha subìto il lavaggio del cervello», che vivrebbe volentieri in Russia perché è simile all’Inghilterra meridionale dove c’è casa sua, che se proprio c’è una nazione da boicottare quella nazione è l’America, e che «chiunque abbia mezzo cervello può vedere che il conflitto in Ucraina è stato provocato oltre ogni misura. È probabilmente l’invasione più provocata di tutti i tempi». Aveva poi dato il suo endorsement anche a uno dei principali talking points del Cremlino, opinando cioè che in Ucraina i russi puntano alla «denazificazione».

Su Rolling Stone poi, l’anno scorso, Waters aveva anche detto che il suo nome apparirebbe «in una lista di personaggi da uccidere, supportata dal governo ucraino» e che la Nato non aveva lasciato a Putin altra scelta che invadere l’Ucraina (Waters usa l’espressione «the Ukraine», con l’articolo «the» che veniva utilizzata ai tempi dell’Urss, e non semplicemente «Ukraine», cosa che gli attira regolarmente altre critiche nel mondo anglosassone ma pare il minore dei problemi a questo punto).

Insomma, Waters non ha detto niente di tutto questo davanti al Consiglio di sicurezza. Forse sfiorato dal dubbio che le sue parole sarebbero state strumentalizzate dalla diplomazia russa, che l’aveva invitato?

In ogni caso è stata immediata la reazione dell’ambasciatore ucraino all’Onu Sergiy Kyslytsya che facendo il verso a The Wall ha parlato di «un altro mattone aggiunto al muro della disinformazione russa: triste spettacolo per i suoi fan di una volta»

BOB DYLAN SULLA GUERRA 

BOB DYLAN FILOSOFIA DELLA CANZONE MODERNA

WAR - EDWIN STARR

Uscita originariamente nell’album War & peace (Gordy 1970)

Composta da Norman Whitfield e Barrett Strong

 Da “Filosofia della canzone moderna”, di Bob Dylan, ed. Feltrinelli - ESTRATTO

 È interessante osservare che in origine questa canzone faceva parte dell'album Psychedelic Shack dei Temptations, uscito nel marzo del 1970. C'erano state pressioni per farla uscire come singolo ma alla Motown i prudenti responsabili del marketing erano esitanti a offendere quella parte di appassionati dei Tempts che non avevano ancora operato la transizione al sound soul-psichedelico-politico del produttore Norman Whitfield.

A quell'epoca, il Motown Sound era stato definitivamente accettato dal pubblico bianco, ma godeva anche di una vasta accoglienza tra una piccola borghesia nera sorprendentemente conservatrice. Solo due anni prima, entrambi questi segmenti di pubblico erano rimasti soddisfatti da Live at the Copa dei Temptations, che conteneva versioni di standard come Hello Young Lovers, The Impossibile Dream, nonché la composizione di Irving Caesar e George Gershwin, Swanee, insieme a un certo numero di loro successi.

 Alla Motown, Edwin Starr era un ambizioso violino di seconda fila. Aveva avuto un solo successo e stava ancora aspettando l'occasione di lasciare il segno. Era nella posizione invidiabile di non avere una base di appassionati da irritare e poteva fare quello che gli pareva. Contattò Whitfield e gli suggerì l'idea di reincidere War.

Mossa astuta. La versione di Starr risultò più aggressiva di quella dei Temptations e piena di tutti i tipici svolazzi della produzione Whitfield. Il singolo uscì tre mesi dopo Psychedelic Shack e salì al primo posto tra gli Hot 100 di "Billboard". Definì la carriera di Starr, contribuì a modernizzare la voce della Motown e vendette più di tre milioni di copie, facendo in modo di smentire i versi del testo.

Non si può fare a meno di chiedersi se il tono beatnik-pacifista che permeava la canzone fosse sincero oppure solo un altro tema di attualità a cui attingere nel tentativo di raggiungere i portafogli della Giovane America, tra Agent Double-O. Soul e Mercy Mercy Me (The Ecology).

 Anche se sfruttava in modo sfacciato il movimento per la pace, è comunque una canzone più forte di Eve of Destruction. Le guerre hanno bisogno di un messaggio chiaro, un'immagine forte che faccia colpo su un manifesto per 'arruolamento, uno slogan, un inno travolgente che possa essere cantato a passo di marcia. Il Vietnam, d'altro canto, era una guerra piccola, alimentata dalla hybris e incomprensibile alla popolazione, lasciata nell'incertezza rispetto ai motivi per cui si combatteva.

Storicamente, le grandi nazioni non combattono piccole guerre. Perfino nella Grecia del settimo secolo a.C., quando c'erano oltre millecinquecento città-stato indipendenti, le regole del conflitto erano già organizzate gerarchicamente. Anche allora, non si vedeva una grande città attaccare un piccolo avamposto chissà dove. È raro che la battaglia sia la prima risorsa di una nazione. "War, what is it good for?" ("La guerra, a cosa serve?").

 Forse questa non è la domanda giusta. Forse è migliore quella che formulò Country Joe McDonald quando mise delle parole a Muskrat Ramble di Louis Armstrong e pose quell'al- tra domanda che ognuno si chiedeva a proposito del Vietnam: "What are we fighting for?" ("Per che cosa stiamo combattendo?").

La guerra è un'arma potente, qualche volta l'unica scelta per due parti in causa che hanno esaurito ogni altra opzione. Quando i negoziati e la diplomazia falliscono, spesso è l'unica soluzione. Le guerre hanno risollevato popoli, li hanno liberati dall'oppressione e da vera e propria schiavitù. Le guerre hanno riaperto rotte commerciali e canali di comunicazione. E come la storia è scritta dai vincitori, così è per la guerra.

La nazione vincitrice vi dirà quello che ha conquistato. Per trovare le atrocità dovrete cercare gli sconfitti. O ascoltare le voci di dissenso. Nei primi anni trenta, Smedley D. Butler, due volte Medaglia d'Onore, si congedò dalla marina militare dove era stato maggior generale. Fece un tour in tutto il Paese pronunciando un discorso che dapprima venne pubblicato dal "Reader's Digest" e successivamente come libro.

Il discorso, intitolato ‘’La guerra è un racket’’, presentava un panorama di pescecani che versavano benzina sulle fiamme del conflitto per incrementare i loro profitti. Ammise di avere contribuito ad azioni su vari fronti che avevano recato danni a un gran numero di persone allo scopo di beneficiarne ben poche.

 È chiaro che la risposta alla domanda fatta da questa canzone è: quanto se ne ricava. Il che è appropriato, visto che uno degli autori della canzone è Whitfeld, insieme all'altro autore che aveva dato alla Motown il primo successo, quell'inno all'avarizia - Money - poi tante volte ripreso.

‘’War’’ certamente ha riempito le casse di Hitsville USA, ma d'altra parte la guerra è sempre stata ottima per gli affari. Come Asa Philip Randoplh, organizzatore e presidente del Brotherhood of Sleeping Car Porters, disse nel 1925, quando Smedley Butler era ancora nell'esercito, "Togliete il profitto alle guerre e le renderete impossibili". Ma la guerra non si fa solo per i soldi. Si fa per i diritti. Diritti di proprietà, giusto per essere chiari. A chi appartengono la terra e il petrolio che ci sta sotto?

Per quanto le guerre attraggano corsari, dissoluti, mascalzoni, canaglie internazionali, mercenari e pescecani, la sete di denaro non è l'unica strada che conduce alla guerra. Ci sono anche sfarzo e superbia. Le guerre cominciano anche a causa di un timore xenofobico di incursioni reali o immaginarie.

 Ci sono state guerre religiose come le Crociate e guerre che sono servite a consolidare imperi ribelli e tentacolari, come la Guerra del Peloponneso. I popoli hanno combattuto guerre per espandere i loro confini o per difenderli. Hanno combattuto per vendetta o per estendere il dominio della loro bandiera.

E nel 1838 Messico e Francia vennero alle mani quando il re Luigi Filippo scopri che un certo Remontel, pasticcere espatriato, non aveva ricevuto alcun risarcimento dopo che il suo caffè messicano era stato saccheggiato. Si potrebbe sostenere che ci sono ragioni migliori per entrare in guerra di un conto di pasticceria non pagato.

Ma nella guerra è sempre incluso un certo sentore di futilità machista. Al giorno d'oggi, non è tanto il fatto scatenante a essere cambiato quanto la natura stessa della guerra. C'è stato un tempo in cui comandanti degli eserciti opposti stavano loro stessi sul campo di battaglia. E dovevano guardare in faccia il nemico e mettere alla prova la tempra dell'avversario con la loro convinzione in ciò in cui credevano.

A determinare la vittoria era il ferro, tanto nella spina dorsale quanto nella lama. Uno dei segni della civiltà è la capacità di aumentare la distanza tra di noi e la persona che uccidiamo. La lama ha ceduto al fucile, che ha ceduto alla bomba, che ha ceduto a ogni tipo di macchine per uccidere ad ampio raggio.

Più potente eri, più lontano dall'azione stavi. I più potenti stavano a mezzo mondo di distanza, avvolti nelle loro vestaglie mentre soldati senza nome procedevano a uccidere. La "negazione plausibile" ha fatto sì che questi guerrafondai riuscissero a dormire, con un'arroganza che era il risultato della distanza, e con un'ignoranza dei particolari che a loro parere gli manteneva le mani pulite.

C'è una scena nel documentario ‘’The Fog of War’’ in cui l'ex ministro della Difesa Robert McNamara discute il suo ruolo e quello del generale Curtis LeMay nel bombardamento di sessantasette città giapponesi durante la Seconda guerra mondiale, prima delle bombe su Hiroshima e Nagasaki.

 In una sola notte, a Tokyo, centomila uomini, donne e bambini vennero bruciati vivi su suggerimento di McNamara. Ciò costrinse LeMay ad ammettere: "Se avessimo perso, saremmo stati tutti portati in giudizio come criminali di guerra". Per tutto il resto della sua vita, McNamara è stato ossessionato dalla domanda: "Cos'è che ti rende immorale se perdi ma non se vinci?".

La semplice risposta suona superficiale: la storia è scritta dai vincitori. Il problema più grande, però, è che, nella guerra moderna, battaglie che non si possono vincere vengono combattute su fronti molteplici senza una chiara ragione, in un guazzabuglio di ideologia, economia, propaganda e millanteria. Intere sezioni del globo se ne stanno apparentemente calme per lunghi periodi di tempo solo per eruttare di colpo e di sorpresa con esplosioni devastanti, come una qualche sorta di herpes geopolitico.

Nel terzo atto del Mercante di Venezia, il buffone Lancillotto dice a Jessica che "i peccati del padre ricadranno sui figli". Sono stati in molti a richiamare lo stesso argomento a proposito della sola dinastia presidenziale che abbiamo avuto finora e delle due Guerre del Golfo, che hanno causato increspature di amplissimo raggio sulle acque della Storia. Il Padre, constatando la possibile fine della Guerra fredda ma dovendo affrontare una maggiore instabilità nel Medio Oriente, nonché scaramucce a Panama più vicine a casa, aveva bisogno che una mano sicura controllasse quella scacchiera tridimensionale che il mondo era diventato.

Agì con rapidità chirurgica in risposta all'aggressiva invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein. Ci furono vittime, è vero, ma in numero inferiore a qualsiasi previsione, e quando lo scontro finì il tasso di approvazione del Padre raggiunse 189 per cento, il più alto nella storia dei sondaggi Gallup. E, cosa forse ancora più importante, le Nazioni Unite imposero sanzioni contro l'Iraq e crearono una commissione per garantire che l'Iraq non riprendesse il suo programma di armi di distruzione di massa.

 Questo fu ciò che venne deposto ai piedi del Figlio; non i peccati. Ma il Figlio non era lo stesso uomo che era il Padre e, nella scia della paranoia del dopo 11 settembre e in seguito a falliti tentativi di spezzare l'Asse del Male", rivolse la sua attenzione all'Iraq. Il suo occhio non vedeva chiaro, né la mano era sicura come quella di suo padre.

 Si fecero affermazioni a proposito di armi di distruzione di massa che non furono mai trovate, battaglie vennero combattute su molti fronti, vite andarono perdute nel corso di un'invasione che non era stata provocata. Se Robert McNamara e Curtis LeMay fossero vivi oggi saprebbero come chiamare quegli uomini che mandarono quei soldati alla guerra.

Ma le accuse non finiscono qui. Come popolo, tendiamo a essere molto fieri di noi stessi per via della democrazia. Andiamo al seggio elettorale, diamo il nostro voto e ci mettiamo l’adesivo “Ho votato" come un distintivo d'onore. Ma la verità è più complessa. La responsabilità che abbiamo quando usciamo dal seggio è la stessa che avevamo quando ci siamo entrati.

 Se quelli che eleggiamo mandano gente a morire o, peggio, mandano gente a morire dall'altra parte del mondo - alla quale non prestiamo attenzione perché non assomigliano a noi e non parlano come noi - e noi non facciamo niente per impedirlo, non siamo forse colpevoli anche noi? E per vedere un criminale di guerra dobbiamo solo guardare allo specchio.

Djokovic, il padre con i sostenitori di Putin agli Australian Open. Marco Calabresi su Il Corriere della Sera il 26 Gennaio 2023.

Dopo la vittoria di Novak contro il russo Rublev, Srdjan Djokovic si ferma e si fa fotografare con un gruppo di tifosi filo-Putin che sventolano una bandiera con il volto del presidente russo

Un anno Novak (nel 2022 fu espulso per il caso vaccini), un anno il padre. In Australia c’è sempre un Djokovic che fa discutere. Stavolta è il turno di Srdjan, filmato — con video ovviamente già postati sul web — mentre posa con alcuni tifosi che sventolavano una bandiera russa con il volto di Vladimir Putin. Tutto è accaduto nella serata australiana di ieri, dopo che il figlio (nei giorni scorsi al centro di qualche polemica per un battibecco con l’arbitro per far allontanare un tifoso ubriaco e anche per un «pizzino» ricevuto dal box durante la partita del secondo turno) aveva appena travolto il russo Andrei Rublev qualificandosi alla semifinale dell’Australian Open. Rublev che, come tutti i giocatori russi (tra questi anche Karen Khachanov, semifinalista dalla parte opposta del tabellone rispetto a Djokovic) gioca senza bandiera dopo i provvedimenti dello scorso anno presi dall’Itf.

Fuori dalla Rod Laver Arena sono comparse comunque bandiere russe, inizialmente concesse anche all’interno degli impianti — purché non ci fossero riferimenti a Putin — ma successivamente bandite dopo che una bandiera era spuntata (creando parecchio imbarazzo) durante il match di primo turno femminile tra la russa Kamilla Rakhimova e l’ucraina Kateryna Baindl: nel video, però, si vede Djokovic senior vicino ai tifosi russi (uno dei quali indossava anche una maglia con la lettera Z, un simbolo militare che appare sui mezzi armati dell’esercito russo in Ucraina), che Tennis Australia aveva già segnalato alle forze dell’ordine ed espulso da Melbourne Park.

«Quattro persone tra la folla che lasciava lo stadio hanno mostrato bandiere e simboli inappropriati e minacciato addetti alla sicurezza — si legge nella nota —. La polizia di Victoria è intervenuta e sta continuando a interrogarli. Il comfort e la sicurezza di tutti sono la nostra proprietà e lavoriamo a stretto contatto con la sicurezza e le autorità». Sempre nel video, si vede Srdjan Djokovic pronunciare una frase in serbo prima di salutare i tifosi russi e prendere un’altra direzione: sembrerebbe dire, come riportato dai media australiani, «lunga vita ai russi». Quantomeno inappropriato.

Estratto da liberoquotidiano.it il 26 gennaio 2023.

"Un pupazzetto, un criminale". Vauro Senesi insulta Volodymyr Zelensky in studio a L'aria che tira, su La7. E fin qui, tutto bene per così dire. [...] Poi però prende la parola Fabrizio Roncone, giornalista del Corriere della Sera, che replica a muso duro sia alle invettive pacifiste della senatrice grillina Alessandra Maiorino, in collegamento, sia allo stesso Vauro.

[...] Poi la botta: "Devo confessarti - spiega Roncone alla conduttrice Myrta Merlino - che da mezz'ora sono in profondo imbarazzo, non tanto per le insolenze rivolte da Vauro alle colleghe Stefania e Molinari...".

 Il riferimento è alle accuse di faziosità rivolte dal vignettista alla inviata del Corriere della Sera in Ucraina Stefania Battistini e al direttore di Repubblica. E qui Vauro si alza come una molla e se ne va: "Vabbè io vi saluto tanto dovevo andare, così tolgo il disturbo e ti risparmio l'insolenza".

[...] "Non sarà che lei è un po' fascista?", domanda provocatoriamente Roncone. "Come?", gli si avvicina. "Sarà che lei è un po' fascista? Perché vedo dei comportamenti...". Replica del vignettista del Fatto quotidiano, secca: "Sarà che lei è un po' cog***e?". E lascia lo studio, sotto lo sguardo divertito di Roncone e quello sconcertato della Merlino.

(ANSA il 25 Gennaio 2023) "Dalle bombe alle canzoni. Anche il dolore fa spettacolo": si intitola così l'intervento di Torquato Cardilli sul blog di Beppe Grillo. Nell'analisi della guerra in Ucraina, l'autore si sofferma sull'operato del presidente Zelensky.

 "Ma come si fa - scrive - a dare fiducia e credito a un Capo di Stato che da un anno, collegato dal suo bunker, partecipa ad ogni consesso internazionale (Onu, G20, G7, NATO, UE Parlamento europeo e Parlamenti nazionali ecc.) proclamando guerra fino alla vittoria finale ed assiste impassibile alla distruzione del suo paese, alla morte di una generazione di giovani, all'emigrazione di alcuni milioni di cittadini, alla disarticolazione totale delle infrastrutture, alla morte per ferimento o alla mutilazione di migliaia di civili innocenti, alla condanna alla miseria degli scampati ai bombardamenti?"

"Dimentico dei sacrifici del popolo ucraino - prosegue - da consumato attore di cabaret, Zelensky ha da ultimo partecipato in video alla serata di gala di Los Angeles per il Grammy Awards 2022, al convegno di Davos a cui ha inviato la sua first lady per perorare aiuto dalla crema finanziaria e speculatrice mondiale ed ha chiesto di apparire sul palcoscenico dell'Ariston, durante il festival di Sanremo, grazie alla mediazione con Amadeus condotta da Vespa che lo ha intervistato. Puro spettacolo!".

 "Forse - aggiunge - bisognerebbe consigliargli di cominciare un rosario di scongiuri vista la fine che hanno fatto Capi di Stato che hanno concesso altrettante analoghe interviste in passato (Saddam Hussein, Gheddafi)".

Ucraina, blog di Grillo contro Zelensky e Occidente: «Incosciente, allontana la pace». Franco Stefanoni su Il Corriere della Sera il 25 Gennaio 2023.

L’ex ambasciatore Cardilli: «L’industria bellica gestita da seminatori di morte è un maiale all’ingrasso e consente libertà di manovra a Erdogan, che si erge a regista della politica di mediazione»

«Dalle bombe alle canzoni. Anche il dolore fa spettacolo». Il garante del M5S, Beppe Grillo, lancia così su Twitter un nuovo contenuto del suo blog. Il riferimento critico è al presidente ucraino Volodymyr Zelensky, che prossimamente sarà ospite al Festival di Sanremo, e alla gestione del conflitto da parte dell’Occidente. «Possibile che i governi e i parlamenti occidentali votino per la continuazione della guerra facendo passare l’idea che con quel voto rendono più vicina la pace?», spiega più chiaramente Grillo su Facebook, ospitando sul blog l’intervento del diplomatico Torquato Cardilli, già ambasciatore d’Italia in Albania, Tanzania, Arabia Saudita ed Angola.

Gelmini: «Grillo prenda le distanze»

«Le parole in libertà di Torquato Cardilli pubblicate sul blog di Beppe Grillo contro Zelensky, l’Unione europea, la Nato e, per non farsi mancare nulla, pure contro Bruno Vespa e il Festival di Sanremo, sono inaccettabili». Dice Mariastella Gelmini, vicesegretario e portavoce di Azione. «Il Movimento 5 stelle», reagisce l’ex ministra, «dovrebbe prendere drasticamente le distanze da questo post, se non vuol essere considerato un fiancheggiatore di Putin e dei suoi crimini».

Cosa sostiene Cardilli

«A fronte di enormi perdite russe in uomini e materiali, c’è stata la distruzione totale delle zone contese, con le infrastrutture industriali e i servizi essenziali in ginocchio, morti a migliaia, case e edifici pubblici rasi al suolo, ospedali e strutture sanitarie al collasso, deportazione di bambini, sistema stradale e ferroviario sconvolto, milioni di profughi fuggiti in Europa, migliaia di feriti e mutilati, una generazione di piccoli resi prematuramente orfani, il tracollo di ogni attività agricola, industriale, finanziaria con pesanti negativi riflessi nei paesi importatori dall’Ucraina, riduzione allo stato di età della pietra dei pochi abitanti rimasti nell’area di guerra».

«Occidentali incoscienti»

«Proclamando ai quattro venti che vogliono punire una volta per tutte la Russia, i politici occidentali si comportano da incoscienti: continuano ad insistere nell’inviare nuove armi super tecnologiche che allontanano la pace e non evitano ulteriori distruzioni, lasciano spazio alle caste militari a scapito della diplomazia, nascondono che l’industria bellica gestita da veri e propri seminatori di morte è un maiale all’ingrasso e consentono libertà di manovra a Erdogan di ergersi a regista della politica di mediazione».

«I leader politici facciano almeno una notte al gelo»

«Quegli stessi politici di oggi (Biden, Macron, Sholz, Von der Leyen, Meloni, Stoltenberg, Metsola, Borrel) anziché mentire sulla volontà di pace senza fare nulla per raggiungerla, provino a trascorrere almeno un’intera notte al gelo, senza alcun giaciglio o riparo, senza acqua, né corrente, né cibo, senza medicine, né speranza di vita migliore e poi all’alba essere oggetto di lanci di bombe incendiarie e a grappoli, mentre tutt’intorno i propri bambini cadono come birilli, per capire quale sia la misera condizione di chi non ha scelto dove e quando nascere e che non è responsabile di quanto accade sulla sua testa».

«Zelensky attore di cabaret»

«Dimentico dei sacrifici del popolo ucraino, da consumato attore di cabaret, Zelensky ha da ultimo partecipato in video alla serata di gala di Los Angeles per il Grammy Awards 2022, al convegno di Davos a cui ha inviato la sua first lady per perorare aiuto dalla crema finanziaria e speculatrice mondiale ed ha chiesto di apparire sul palcoscenico dell’Ariston, durante il festival di Sanremo, grazie alla mediazione con Amadeus condotta da Vespa che lo ha intervistato. Puro spettacolo!»

Estratto da open.online il 25 Gennaio 2023.

«Una scelta squallida», così il vignettista Vauro Senesi si scaglia contro la decisione di Amadeus di mandare in onda durante l’ultima puntata del Festival di Sanremo, il prossimo 11 febbraio, un video messaggio del presidente ucraino Volodymyr Zelensky. «Stiamo parlando del leader di un paese in guerra» […] «il mainstream italiano lo continua a dipingere come l’eroe in maglietta, sembra un personaggio di un fumetto. Questo invito diventa una propaganda bellica in un momento in cui c’è bisogno di parlare di diplomazia, di cessate il fuoco e di pace». […]

«Quello che dice Zelensky è solo “armi, armi”, sembra che nel suo vocabolario non ci siano altri termini». Il vignettista […]annuncia la sua possibile presenza alla manifestazione dei pacifisti che dovrebbe a Sanremo proprio l’11 febbraio. […]

Sanremo, caso Zelensky. Proteste da Vauro a Moni Ovadia. Previsto un corteo al Festival. Maria Volpe su Il Corriere della Sera il 25 Gennaio 2023.

Sabato 11 febbraio, nell’ultima serata della kermesse canora, Amadeus proporrà una intervista (registrata) al Presidente dell’Ucraina

Ancora una volta il Festival di Sanremo è preceduto da polemiche. Ma questa volta la vicenda è più complessa e la musica non c’entra. C’entra invece la guerra. Da quando si è saputo che sabato 11 febbraio, nella serata finale del Festival, il presidente dell’Ucraina Volodymyr Zelensky, dovrebbe intervenire con una intervista registrata da Amadeus, l’opinione pubblica si è divisa tra favorevoli e contrari. Chi apprezza l’idea che un leader di un Paese attaccato da un altro Paese possa dare voce alle sue sofferenze e dei cittadini ucraini, chi non lo ritiene opportuno, anzi sbagliato.

Da giorni Diego Costacurta - coordinatore provinciale imperiese del Comitato di Liberazione Nazionale e membro attivo del collettivo Pecora Nera — è molto attivo e ha annunciato di voler invitare tutti i pacifisti d’Italia a riunirsi: «Occuperemo le strade di Sanremo». Alla fine è stata effettivamente organizzata una manifestazione dal Comitato di liberazione nazionale (Cln) con l’associazione Pecora nera, per sabato 11 febbraio, a Sanremo, come forma di protesta. «Sono invitati i rappresentanti di tutte le confessioni religiose, ma anche gruppi politici e privati cittadini - ha detto Diego Costacurta (Cln), uno degli organizzatori - che guardano alla pacificazione di un’Europa martoriata dalla violenza. E’ un modo per mostrare il nostro disappunto contro l’indegna proposta di offrire a Zelensky uno spazio di propaganda bellica durante la principale trasmissione di intrattenimento popolare del palinsesto di RaiUno». Costacurta si era reso protagonista tempo fa di un’aspra polemica con l’infettivologo Matteo Bassetti: gli aveva contestato le sue posizioni pro vaccino anti covid 19.

Le presa di posizione di Diego Costacurta contro la partecipazione di Zelensky al Festival ha trovato una eco tra personaggi noti. Il vignettista Vauro Senesi si scaglia contro la decisione di Amadeus di ospitare un videomessaggio del presidente ucraino: «Sabato 11 febbraio se potrò sarò a manifestazione pacifisti sennò invierò vignetta. Trovo che sia una scelta squallida, Zelensky è il leader di un paese in guerra, il mainstream italiano lo continua a dipingere come l’eroe in maglietta, sembra un personaggio di un fumetto. Questo invito diventa una propaganda bellica in un momento in cui c’è bisogno di parlare di diplomazia, di cessate il fuoco e di pace».

E c’è anche la posizione di Moni Ovadia che si spinge oltre e dice: «Basta umiliazioni a Putin». L’attore e musicista in un’intervista al Fatto Quotidiano sostiene che la decisione faccia parte di una «mediatizzazione ossessiva della guerra». E che l’Italia faccia «strame della Costituzione promuovendo una deriva militarista furiosa». Secondo Ovadia «non si può spettacolarizzare la guerra. Tanto meno in un programma che ospita canzoni e che è visto in tutto il mondo. Il messaggio che mandiamo a Putin è che vogliamo schiacciarlo. E lui può essere molto cattivo, quindi non è conveniente».

E anche Mario Giordano, giornalista e conduttore di «Fuori dal coro» su Retequattro, di tutt’altra parte politica, prende posizione e ha urlato martedì in diretta durante la puntata del suo programma: «Zelensky va a Sanremo a chiedere più armi lì sul palco tra Gianni Morandi, Chiara Ferragni, i Cugini di Campagna e Amadeus. Zelensky giù le mani da Sanremo».

Seppur indirettamente, anche Beppe Grillo contesta l’idea di Zelensky al Festival di Sanremo: «Possibile che i governi e i parlamenti occidentali votino per la continuazione della guerra, facendo passare l’idea che con quel voto rendono più vicina la pace?». Lo ha scritto su Facebook Beppe Grillo invitando a leggere l’analisi di Torquato Cardilli sul conflitto russo ucraino, pubblicata sul suo blog. Il comico ne riporta alcune frasi: «Ma come si fa a dare fiducia e credito a un Capo di Stato che da un anno, collegato dal suo bunker, partecipa ad ogni consesso internazionale e assiste impassibile alla distruzione del suo paese, alla morte di una generazione di giovani?». Grillo contesta Zelensky che «ha chiesto di apparire sul palcoscenico dell’Ariston, durante il festival di Sanremo, grazie alla mediazione con Amadeus condotta da Vespa che lo ha intervistato. Puro spettacolo!».

Amadeus di recente aveva raccontato: «Mi ero sentito con Bruno Vespa la settimana scorsa e mi aveva detto di aver ricevuto la richiesta da parte di Zelensky di essere presente al festival. Sono felice di avere questo collegamento, ed è giusto che sia nella serata finale».

Estratto dell'articolo di Maria Volpe per corriere.it il 26 gennaio 2023.

Ancora una volta il Festival di Sanremo è preceduto da polemiche. 

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Da giorni Diego Costacurta - coordinatore provinciale imperiese del Comitato di Liberazione Nazionale e membro attivo del collettivo Pecora Nera — è molto attivo e ha annunciato di voler invitare tutti i pacifisti d’Italia a riunirsi: «Occuperemo le strade di Sanremo». Alla fine è stata effettivamente organizzata una manifestazione dal Comitato di liberazione nazionale (Cln) con l’associazione Pecora nera, per sabato 11 febbraio, a Sanremo, come forma di protesta. «Sono invitati i rappresentanti di tutte le confessioni religiose, ma anche gruppi politici e privati cittadini - ha detto Diego Costacurta (Cln), uno degli organizzatori - che guardano alla pacificazione di un’Europa martoriata dalla violenza. E’ un modo per mostrare il nostro disappunto contro l’indegna proposta di offrire a Zelensky uno spazio di propaganda bellica durante la principale trasmissione di intrattenimento popolare del palinsesto di RaiUno». Costacurta si era reso protagonista tempo fa di un’aspra polemica con l’infettivologo Matteo Bassetti: gli aveva contestato le sue posizioni pro vaccino anti covid 19.

Le presa di posizione di Diego Costacurta contro la partecipazione di Zelensky al Festival ha trovato una eco tra personaggi noti. Il vignettista Vauro Senesi si scaglia contro la decisione di Amadeus di ospitare un videomessaggio del presidente ucraino: «Sabato 11 febbraio se potrò sarò a manifestazione pacifisti sennò invierò vignetta. Trovo che sia una scelta squallida, Zelensky è il leader di un paese in guerra, il mainstream italiano lo continua a dipingere come l’eroe in maglietta, sembra un personaggio di un fumetto. Questo invito diventa una propaganda bellica in un momento in cui c’è bisogno di parlare di diplomazia, di cessate il fuoco e di pace».

E c’è anche la posizione di Moni Ovadia che si spinge oltre e dice: «Basta umiliazioni a Putin». L’attore e musicista in un’intervista al Fatto Quotidiano sostiene che la decisione faccia parte di una «mediatizzazione ossessiva della guerra». E che l’Italia faccia «strame della Costituzione promuovendo una deriva militarista furiosa». Secondo Ovadia «non si può spettacolarizzare la guerra. Tanto meno in un programma che ospita canzoni e che è visto in tutto il mondo. Il messaggio che mandiamo a Putin è che vogliamo schiacciarlo. E lui può essere molto cattivo, quindi non è conveniente».

E anche Mario Giordano, giornalista e conduttore di «Fuori dal coro» su Retequattro, di tutt’altra parte politica, prende posizione e ha urlato martedì in diretta durante la puntata del suo programma: «Zelensky va a Sanremo a chiedere più armi lì sul palco tra Gianni Morandi, Chiara Ferragni, i Cugini di Campagna e Amadeus. Zelensky giù le mani da Sanremo».

 Seppur indirettamente, anche Beppe Grillo contesta l’idea di Zelensky al Festival di Sanremo

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“La Shoah deve insegnare a cercare la pace ma Ue e Usa vogliono allargare la guerra”. Eleonora Ciaffoloni su L’Identità il 26 Gennaio 2023

Un Giornata della Memoria in tempo di guerra. Un ossimoro, eppure è quello che sta accadendo, con il conflitto riacceso in Europa dopo ottant’anni. Domani ricorre la memoria dell’olocausto: un “Mai più” solenne che per l’attore e musicista Moni Ovadia deve significare “l’impegno di tutti a contrapporsi a ogni violenza” e la necessità di arrivare “immediatamente alla pace”.

Domani la Giornata della Memoria, in pieno conflitto: cambia il senso del ricordo?

“Vivo una Giornata della Memoria dopo l’altra e vedo aumentare il tasso di retorica insieme alla pletora di film, trasmissioni. La mia impressione è che la Giornata della Memoria ha senso come uno strumento propellente per costruire una società diversa. Io sono ebreo, so bene cosa ha significato la Shoah. E mi impegno a mantenere viva la memoria. Però non posso tollerare la poca attenzione che si dà allo sterminio vero: sterminati antifascisti, slavi, menomati, omosessuali, testimoni di Geova. Ci sono stati altri genocidi dopo la Seconda Guerra Mondiale. Ed è stato gridato ancora sulle ceneri della guerra, è stato preso l’impegno solenne: è stato detto ‘Mai più’. Io non vedo questo impegno e non vedo una ripulsa delle discriminazioni, delle violenze e dei massacri insensati. Il ‘Mai più’ della Shoah, dovrebbe implicare l’impegno di tutti a contrapporsi a ogni violenza perpetrata da chiunque contro chiunque. A edificare una società di pace, perché gli orrori si generano nelle guerre. Anche i nazisti hanno avviato lo sterminio nel 1942, quando la guerra era iniziata nel 1939. Le guerre sono foriere di catastrofi e di orrori. È necessario cercare immediatamente la pace”.

Violenze e orrori che stiamo rivivendo tra due popoli in Ucraina…

“È una guerra tragica, con orrori e morti che le guerre portano. Però sembra che questa guerra si voglia alimentare, invece di prendere iniziative di pace e diplomatiche, mentre si approfitta per fare retorica e propaganda. L’ultima trovata è quella di chiamare Zelensky a Sanremo, che trovo scellerata e funesta. Vuol dire mediatizzare la guerra. E rinnovo la mia solidarietà al popolo ucraino, ma non ai suoi governanti che hanno una attitudine sinistra. Perché questa è una guerra che comincia ben prima e non è per democrazia o per libertà, questa è una fola. Come spiega il professore Emiliano Brancaccio, è una guerra di due capitalisti: il debitore e il creditore. Si muove tutto per interessi geostrategici ed economici. E con prese di posizione a priori, come quella atlantista occidentalista solo foriera di disastri: ne sanno qualcosa Iran e Afghanistan”.

Interessi non solo della Russia?

“Putin non è il nuovo Hitler, ma un autocrate con concezione di potere personale. E non può non ricordare quello che gli Stati Uniti avevano promesso a Gorbaciov, cioè che la Nato non si sarebbe estesa di un solo pollice dopo l’ex Germania dell’Est. Putin li considera dei bugiardi immatricolati. E chi tira le fila di tutto sono gli Stati Uniti, l’Europa conta poco e non può fare altro che accodarsi agli ordini degli Usa. La storia che è veramente inquietante è che l’Europa non abbia saputo dire è che in una questione interna gli americani dovevano starne fuori. Tutti i Paesi che mandano le armi sono contro la guerra: e anche la mossa di Zelensky a Sanremo serve a compensare il deficit di credibilità dei governi nella guerra per seguire i propri scopi e interessi”.

Stiamo vivendo ciò che volevamo non si ripetesse. È un insulto alla Memoria?

“La prima cosa che mostrerebbe la sincerità del ricordo è cercare la pace immediatamente e veramente. Come una conferenza senza precondizioni, che duri tutto il tempo necessario, purché non ci siano più morti. Invece è tornata la retorica bellicistica, il riarmarsi e riempire di armi il pianeta. La Shoah dovrebbe anche insegnare a non entrare in guerra e a uscirne il prima possibile. Invece pare che le armi siano ritornate al centro dell’attenzione. Tutte le iniziative contro la guerra vanno sostenute con forza e partecipazione. Noi abbiamo una classe dirigente mediocre, e priva di qualsiasi orizzonte, progetto e sguardo sul futuro. Che terreno prepariamo ai nostri giovani? Un terreno avvelenato. Per questo non serve la retorica della memoria.

Serve educazione alla cultura fatta in profondità e non solo cavalcando il momento emotivo”.

Estratto dell’articolo da liberoquotidiano.it il 21 febbraio 2023.

Moni Ovadia è contrario alla guerra, contrario al sostegno militare dell'Ucraina e la pensa come Silvio Berlusconi sul presidente Zelensky. "L'atteggiamento di Zelensky è un grande problema", dice in collegamente con Myrta Merlino a L'aria che tira, su La7, nella puntata del 21 febbraio, "ormai questa è una guerra della Nato e principalmente degli Stati Uniti ed è inutile tentare degli slalom per dimostrare che non è così".

"Per la prima volta non mi sono sentito di contestare, come ho sempre fatto, il presidente Silvio Berlusconi (che aveva criticato Zelensky restio a sedersi a un tavolo per negoziare con Putin, ndr). E apprezzo le parole di Gasparri. Che ha detto una cosa importante: l'Europa che ci sta a fare se Biden bypassa l'Europa? Su questa linea di armare, armare, armare, si va verso un eccidio spaventoso, a fiumi di sangue".

[…]

Quando l’ignoranza e la malafede fa informazione.

Stasera Italia, niente russi ad Auschwitz? Senaldi: è cancel culture. Il Tempo il 27 gennaio 2023

C’è la possibilità che la guerra tra Russia ed Ucraina porti ad uno scontro mondiale o ad un allargamento del fronte di battaglia? È questo il quesito rivolto a Pietro Senaldi, codirettore di Libero, nel corso del collegamento effettuato durante la puntata del 27 gennaio di Stasera Italia, il programma televisivo condotto da Barbara Palombelli: “Non credo che si rischi un’escalation, ovverosia che la guerra arrivi ad uno stato superiore di quello che abbiamo visto in questi undici mesi. Penso che il conflitto si estenderà in durata e sarà molto difficile venirne fuori, ma non vedo un’escalation, il mondo si è fermato prima. Qualche mese fa ero più preoccupato. Poi voglio fare una battuta, cioè non invitare i russi ad Auschwitz è cancel culture, come abbattere la statua di Cristoforo Colombo, è paradossale che avvenga nella Giornata della Memoria. Quando in questo giorno non ricordi chi ha liberato Auschwitz mi sembra - la battuta finale di Senaldi - che si crei una situazione abbastanza paradossale”.

Prima di tutto l’armata rossa era formata da soldati sovietici e non russi. Unione sovietica nata 30 dicembre 1922 e sciolta il 26 dicembre 1991.

L’imbarazzante tentativo mediatico di riscrivere la liberazione di Auschwitz. di Giorgia Audiello su L'Indipendente il 29 Gennaio 2023

Il tentativo di riscrivere la storia è uno dei principali “ingredienti” della propaganda, uno strumento imprescindibile soprattutto in tempo di guerra per irregimentare e ottenere il favore delle masse. Non a caso, si dice che “la storia la scrive chi vince”, a conferma del fatto che non di rado essa finisce per essere il frutto delle convenienze politiche e geopolitiche del momento, piuttosto che una materia oggettiva basata su fatti e documenti. Lo dimostra proprio in questi giorni il tentativo di stravolgere la storia della liberazione del campo di concentramento di Auschwitz ad opera di diversi media nazionali, spinti dal risentimento che vede l’Europa e il mondo occidentale in genere contrapposto alla Russia. Una opposizione politica e culturale sempre più profonda e incolmabile che ha portato strumentalmente a sostenere che Auschwitz non fu liberato dai russi, ma dagli ucraini: in particolare, il quotidiano online Linkiesta scrive che a liberare il lager «fu un reparto dell’Armata Rossa che era composto al novanta per cento da ucraini e per il restante dieci per cento da bielorussi», anche per giustificare il mancato invito della Russia alla cerimonia per la liberazione del campo di sterminio. A causa dell’invasione dell’Ucraina, infatti, i rappresentanti russi non sono stati invitati alle commemorazioni del settantottesimo Anniversario della Liberazione da parte dell’Armata Rossa: lo ha reso noto direttamente il sito del museo di Auschwitz.

Il «reparto» dell’Armata Rossa cui fa riferimento Linkiesta è, per essere precisi, la Centesima Divisione Fucilieri dell’esercito sovietico: formata il 5 febbraio del 1942, questa divisione era composta dai coscritti di diverse repubbliche sovietiche, tra i quali comparivano anche reclute ucraine. Tuttavia, la formazione era prevalentemente “russa”, essendo costituita principalmente da soldati dell’oblast di Vologda e dell’Oblast di Arcangelo. La divisione è stata successivamente insignita del titolo onorifico di “Lviv” (o “Lvov” in russo, l’attuale Leopoli) per il suo ruolo determinante nella liberazione della città, invasa dai tedeschi e facente parte della Polonia fino al 1939. Il 27 gennaio del 1945, la divisione ha liberato il campo di Auschwitz-Birkenau guidata dal maggiore ebreo ucraino Anatoly Shapiro nato a Krasnograd. Shapiro si arruolò volontario nell’Armata Rossa nel 1938 e poi di nuovo nell’ottobre del 1941. Da sottolineare anche come, al tempo, esistesse un unico esercito sovietico e chiunque ne facesse parte era considerato sovietico, così come anche le varie etnie ricadevano sempre sotto la “sfera” russa, in quanto territori come l’Ucraina sono storicamente e culturalmente legati alla Russia. Ad esempio, lo scrittore Gogol è annoverato tra le grandi personalità della letteratura russa nonostante fosse di origine ucraina. Solo a seguito del crollo dell’Urss e con l’indipendenza delle ex repubbliche sovietiche si cominciano a fare delle distinzioni nette in questo senso. Allo stesso modo, anche Stalin e Beria erano georgiani, ma i loro operati politici sono legati all’Unione Sovietica e a Mosca e non alla Georgia che ne era, comunque, una parte integrante come l’Ucraina.

Si tratta, dunque, del tentativo di distorcere gli avvenimenti storici con un chiaro intento propagandistico che si traduce nell’ergere a eroi gli ucraini, continuando – di contro – il processo di demonizzazione degli avversari russi, di modo che l’opinione pubblica sia maggiormente propensa a solidarizzare e simpatizzare per Kiev e a identificare Mosca come barbaro nemico che si appropria indebitamente di azioni encomiabili compiute da altri. Nel feroce scontro in corso tra l’Occidente liberal e la Russia, infatti, l’obiettivo non può essere che mettere in luce Kiev per promuovere e legittimare – soprattutto agli occhi dei popoli europei che ne pagano maggiormente le conseguenze – le azioni politiche del fronte occidentale in suo favore, tra cui anche l’invio di carrarmati. Se difficilmente i tank potranno cambiare il corso della guerra, infatti, sicuramente aumenteranno le tensioni tra Russia ed Europa a danno soprattutto di quest’ultima.

Con ciò non si vuole negare che anche gli ucraini hanno avuto un ruolo importante nella liberazione dei lager nazisti. Tuttavia, negare che l’Armata Rossa fosse innanzitutto l’armata sovietica composta dalle varie etnie dei vastissimi territori dell’Urss non è solo un errore giornalistico, ma anche uno scempio storico e culturale che dimostra l’altissimo livello di indottrinamento – e dunque di distorsione e alterazione dei fatti – che anima a livello comunicativo uno dei conflitti più importanti del decennio. Controllare l’informazione, infatti, è un efficace elemento per “imbrigliare” le menti e creare il consenso. Tuttavia, la manipolazione dei fatti sta precipitando a livelli sempre più bassi, tali per cui anche la sua funzione di livellamento e omologazione del pensiero rischia di diventare inefficace. [di Giorgia Audiello]

Mistificazione sovietica. Sono stati gli ucraini a liberare Auschwitz, non i russi. Maurizio Stefanini su L’Inkiesta il 27 Gennaio 2023.

Il cancello del campo di sterminio è stato aperto dai soldati del 100° battaglione della divisione di Lviv, comandata da Anatolyj Shapiro, un ebreo nato a Poltava. Poi la propaganda di Mosca ha rimodellato la storia secondo convenienza

per il fatto che la Russia non è stata invitata alla commemorazione di Auschwitz, e la macchina della propaganda si metterà a protestare che erano stati i soldati russi a liberare il lager. Allora, cominciamo subito a ricordare che fu un reparto dell’Armata Rossa che era composto al novanta per cento da ucraini e per il restante dieci per cento da bielorussi». Su questo appello si è chiuso giovedì il convegno “Dezinformacija e misure attive: Le narrazioni strategiche filo-Cremlino in Italia sulla guerra in Ucraina”, a cura dell’Istituto Gino Germani di Scienze Sociali e Studi Strategici. Proprio perché il giorno dopo sarebbe seguita la Giornata della Memoria, che ricorda il giorno in cui l’Armata Rossa arrivò ad Auschwitz. È un elemento forte della narrazione sovietica sulla «Grande guerra patriottica» che è stato rilanciato da Putin, ed è un elemento chiave nella propaganda su questa «operazione speciale» come strumento per «denazificare l’Ucraina».

Per capire una certa suscettibilità che c’è sul tema, basta ricordare il modo in cui su Roberto Benigni rimbalzò l’accusa di “falso storico” lanciata da Mario Monicelli e dall’allora leader dei Comunisti Italiani, Oliviero Diliberto, per aver rappresentato il padre e il figlio di “La vita è bella” liberati dagli americani, invece che dai sovietici.

Un’accusa di manipolazione filo-americana e anticomunista invero curiosa, nei confronti di un regista e attore il cui primo film si era intitolato “Berlinguer ti voglio bene”, e che il leader del Pci Enrico Berlinguer aveva addirittura “preso in collo” durante una famosa Festa dell’Unità.

Indubbia ruffianeria da Oscar a parte, Benigni ebbe buon gioco a puntualizzare che «il film non parla di Auschwitz, e infatti intorno al campo ci sono i monti, che ad Auschwitz invece non ci sono». I monti della Valnerina, perché il campo di concentramento nel film è in realtà una vecchia fabbrica dismessa che fu riadattata come lager per le riprese e che si trova a Papigno, vicino a Terni. «Quello è il campo di concentramento, perché qualsiasi campo contiene l’orrore di Auschwitz, non uno o un altro», disse pure Benigni.

E si può anche ricordare che il film è ispirato a uno zio della moglie di Benigni che era morto davvero a Mauthausen: un lager dove invece i liberatori erano stati gli americani. Ovviamente, la bufala che «Benigni fa entrare gli americani a Auschwitz» è stata ritirata fuori anche per questa polemica.

Ma Auschwitz si trova in Polonia, che è in primissima linea nell’aiuto all’Ucraina. E il museo di Auschwitz ha dunque deciso di escludere la Russia dalla cerimonia per il 78esimo anniversario della liberazione da parte dell’Armata Rossa, il 27 gennaio del 1945, del campo di sterminio nazista di Auschwitz-Birkenau.

Lo ha annunciato il portavoce del sito museale Piotr Sawicki: «Data l’aggressione contro l’Ucraina libera e indipendente, i rappresentanti della Federazione Russa non sono stati invitati a partecipare alla commemorazione. Era ovvio che non potessi firmare alcuna lettera all’ambasciatore russo con un tono invitante, dato il contesto attuale. Spero che cambierà in futuro, ma abbiamo ancora molta strada da fare», ha detto ipotizzando che ci vorrà del tempo affinché Mosca «faccia un autoesame molto profondo dopo questo conflitto per tornare ai raduni del mondo civilizzato».

Per il museo, infatti, l’invasione in Ucraina è un «atto barbarico». Auschwitz-Birkenau è diventato un simbolo del genocidio della Germania nazista ma, dai massacri di Bucha alle leggi sull’adozione di bambini ucraini per russificarli, la Russia putiniana in questo momento non solo sta emulando alcuni dei comportamenti peggiori delle truppe naziste, ma sta addirittura violando apertamente la Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio del 9 dicembre 1948.

In effetti, il non invito rappresenta il punto di arrivo di una tensione che iniziò a scalare dopo l’attacco a Crimea e Donbas, quando per i settant’anni dalla liberazione di Auschwitz, nel 2015, Putin non venne per lo sgarbo di non essere stato ufficialmente invitato. Cioè, in realtà l’invito gli era stato mandato. Ma tramite l’ambasciata russa a Varsavia, invece che al Cremlino: cosa che era stata percepita come uno sgarbo, e in effetti lo era. Appunto, come reazione a quel primo attacco all’Ucraina. «Si è cercato di non invitarlo, benché lo si sia invitato», spiegò alla Bbc Konstanty Gebert, editorialista della Gazeta Wyborcza, il principale giornale polacco. La Russia, comunque, fu presente. Al posto di Putin, andò il capo dell’amministrazione presidenziale, Sergej Ivanov.

Proprio in quell’occasione, però, il ministro degli Esteri polacco Grzegorz Schetyna ricordò che a liberare Auschwitz erano stati in realtà soldati ucraini. Il governo ucraino subito confermò. Mosca protestò: non ancora screditato dall’aver spiegato che «Hitler era ebreo», il ministro degli Esteri russo Lavrov, disse che «sfruttare la storia del lager a fini nazionalistici sia molto cinico», e che «tutti sanno che a liberare Auschwitz fu l’Armata Rossa, composta da soldati di più etnie».

Schetyna ammise che il reparto dell’Armata Rossa che varcò i cancelli dell’inferno di Auschwitz era ovviamente multietnico, ma insistette sul fatto che il suo comandante era di nazionalità ucraina, ed era ucraina la maggior parte dei soldati.

In effetti, il cancello del campo di sterminio di Auschwitz fu aperto dai soldati del 100° battaglione della divisione di Lviv, comandata dal futuro Eroe dell’Ucraina, Anatolyj Shapiro, un ebreo ucraino nato a Poltava. Questo momento storico fu immortalato da un altro ebreo nato in Ucraina, a Kyjiv: Volodymyr Judin, il fotografo del giornale “Per l’onore della patria del Primo Fronte Ucraino dell’Armata Rossa”, cui apparteneva il reparto.

Welfare comunicativo. Sanremo è espressione dello stato sociale ed è ovvio che ci vada Zelensky (lo sa anche Salvini). Guia Soncini su L’Inkiesta il 28 Gennaio 2023.

Il Festival è la più fenomenale cassa di risonanza per paranoici e complottisti, e i paranoici e complottisti non lo capiscono

Sanremo è una forma di welfare comunicativo. Ogni anno garantisce due mesi di carro di visibilità su cui salire per avere il proprio titolo di giornale. Tre anni fa ne approfittarono le femministe dell’Instagram, quando Amadeus disse che la fidanzata di Valentino Rossi stava un passo indietro: poteva non approfittarne Matteo Salvini?

«Poi, se lei mi chiede se guarderò il festival di Sanremo per ascoltare una canzone o per vedere Zelensky, come milioni di italiani se avrò dieci minuti di tempo per guardarmi il festival di Sanremo mi ascolterò Giorgia, Ultimo, Grignani, perché dal festival della canzone italiana mi aspetto delle canzoni».

Di questa frase, che ho trascritto dalla puntata di “Otto e mezzo” di giovedì, vanno chiariti un paio di punti. Il primo è che nessuno glielo stava chiedendo: quando dice ad Alessandro De Angelis «se lei mi chiede», Salvini non sta rispondendo a un intervento su Sanremo, ma a uno sull’eventuale passaggio parlamentare dell’invio di armi. Ma, se Salvini avesse parlato di noiose procedure parlamentari, il Corriere non se lo sarebbe filato; così, invece, ha potuto titolare «Sanremo, il fronte contro Zelensky: da Matteo Salvini a Fabio Volo». Il welfare della visibilità funziona.

Il secondo punto è che la virgola dopo Zelensky l’ho messa io, in un impeto d’interpretazione caritatevole. Si potrebbe metterla dopo «italiani», e il senso diventerebbe che milioni di italiani lo guardano per Zelensky. Ma credo di rispettare le intenzioni comunicative di Salvini mettendola lì: credo che Salvini voglia dire che milioni di italiani aspettano Grignani, e non i vestiti della Ferragni. Credo che Salvini sia disposto a fingersi uno che non capisce Sanremo.

Milioni di italiani hanno le canzoni gratis su Spotify o altrove: non devono neanche comprarsi le musicassette come una volta. Milioni di italiani guardano Sanremo per le ragioni per cui si guarda un vero evento nel secolo che chiama “evento” a sproposito pure l’inaugurazione d’un negozio di frutta e verdura. Milioni di italiani, proprio come Salvini, capiscono Sanremo.

Elenco non esaustivo di momenti che vengono in mente ripensando ai Sanremo degli ultimi quarant’anni. Beppe Grillo che dice che i socialisti rubano. Beppe Grillo che tre decenni dopo, essendo una battuta sui socialisti che rubano una roba per cui la tua carriera di comico in Rai si arena, e avendo quindi montecristicamente dedicato la sua successiva vita a fare la politica del moralizzatore, compra un posto in platea all’Ariston, minacciando di intervenire in diretta per parlare degli sprechi.

Fabio Fazio che ospita Gorbaciov. Paolo Bonolis che ospita Mike Tyson. Carlo Conti che ospita una famiglia di Catanzaro con sedici figli. Pippo Baudo che ospita gli operai dell’Italsider. Pippo Baudo che salva il suicida. Pippo Baudo che scrolla via quello che dice che Sanremo è truccato e lo vince Fausto Leali.

Jovanotti che chiede a D’Alema di cancellare il debito dei paesi africani, assieme a Bono, Bono che poi scende in platea cantando e viene intercettato da Mario Merola, e la sera dopo Teocoli che fa la parodia di Lorenzo, «io mi rivolgo a lei, presidente Berlusconi, l’unico che ha vinto cinque coppe dei campioni».

Certo che Sanremo è fatto soprattutto di dettagli extramusicali, storici o frivoli ma comunque in grado di passare dallo schermo ed entrare nel lessico famigliare del pubblico: Gorbaciov vale quanto Anna Falchi che presenta nell’anno in cui il fidanzato Fiorello è in gara. Vale quello che catalizza l’attenzione del paese, e in questo senso non è affatto detto che un Nobel per la pace valga più che una seconda classificata a miss Italia.

E certo che è normale che Salvini si accolli il ruolo di paranoico complottista che finge di non capire il meccanismo e ne approfitti per far polemica politica: è Sanremo stesso che incoraggia il ruolo.

Nel 2000 ero a Sanremo a fare, nella settimana del festival, un programma per RadioRai. Questo dettaglio mi rendeva una privilegiata: avevo un pass Rai, che diversamente dai pass che hanno quelli dei giornali permetteva di accedere ovunque sempre. Quindi vidi le prove di Teocoli, e il ritornello della canzone in cui parodiava Lorenzo diceva «Gira la ruota» (se non sapete cosa fosse «gira la ruota», ormai per voi è troppo tardi: la cultura popolare del Novecento non la recuperate più).

La sera, «gira la ruota» non c’era. Restai per anni convinta d’una censura Fininvest: è Sanremo, mica accadrà qualcosa per caso. Anni dopo intervistai Teocoli e glielo chiesi. Mi disse che in diretta s’era dimenticato il ritornello. La realtà non è mai ben sceneggiata quanto le nostre paranoie.

Però la realtà imprevista a volte è meglio di quella programmata. Nel 2014, Grillo è su tutti i giornali perché ha comprato il biglietto in platea. È tornato ricco e spietato, come montecristicamente diceva di sé Nino Manfredi in un film (il titolo se l’avete visto lo sapete, altrimenti di nuovo: per voi ormai è tardi).

Quella sera, l’inizio della serata mette a dura prova i nervi di Fabio Fazio. Prima non si apre il sipario, un dettaglio che se lo metti in una commedia te lo bocciano per inverosimiglianza: è la serata più importante della tv italiana, e il sipario s’inceppa. Poi ci sono due millantatori di suicidio che minacciano di buttarsi da una balconata. Fabio Fazio, pur stremato, ha i tempi comici di uno che fa la tv da un secolo. Durante una pubblicità guarda il Montecristo seduto in platea e gli scandisce: «Beppe, puoi tornare a casa».

Quindi, figuriamoci se è un problema che a Sanremo vada un minuto o due di video di Zelensky, tradotto in italiano perché mica vogliamo distrarci dai sottotitoli come durante l’intervista a Letterman. Intervista a Letterman, su Netflix, su cui non c’è stata nessuna polemica giacché gli americani, non avendo Stato, quasi non hanno neppure televisione pubblica, e né i Salvini né le Vongola75 di lì possono recriminare che si faccia propaganda politica coi-soldi-del-canone.

Noi abbiamo il limite dei soldi pubblici e delle annesse polemiche, ma pure parecchi milioni in più di spettatori rispetto a un prodotto che andrà pure in tutto il mondo ma raccoglie le briciole della frammentazione dello streaming. Tra le poche cose rimaste immutate dal Novecento, il fatto che Sanremo e la finale dei mondiali li guardino tutti, li ricordino tutti, li capiscano tutti.

Persino Salvini, che è pur sempre la Ferragni della politica: simile al pubblico, cioè all’elettorato. Lo sa benissimo, che Zelensky a Sanremo è fisiologico quanto lo è Pupo (è come se vedessi le riunioni, «di’ a coso, Zelensky, di non sforare, abbiamo il tassativo»: che tu abbia in collegamento la guerra o i figli di Al Bano e Romina, comunque la pubblicità deve andare a quell’ora).

Lo sanno tutti, Salvini e Fabio Volo e tutti quelli che polemizzeranno nelle prossime settimane. Ma è giusto abbiano la loro risonanza: sono la prova che Sanremo è la migliore e più efficiente espressione dello stato sociale.

L’amore per il Festival. Zelensky a Sanremo è l’occasione per gli ucraini di riappropriarsi della canzone italiana. Yaryna Grusha Possamai. su L’Inkiesta il 28 Gennaio 2023.

L’intervento del presidente ha attirato polemiche inutili da chi non sa che per quel popolo i Toto Cutugno, gli Umberto Tozzi e i Riccardo Fogli sono parte della sua storia e della sua cultura pop

La polemica sulla partecipazione di Volodomyr Zelensky a Sanremo ha quasi superato quelle sulle accise e ha raggiunto il livello di quella sul servizio fotografico del presidente ucraino e della First Lady su Vogue. Tra l’altro l’Italia è stato l’unico Paese che si è indignato grazie al sostegno di troll russi che, con il loro scarso italiano via Google Translate, denunciavano un presidente «che al posto di fare la guerra, posa per un servizio su Vogue».

Zelensky non è un politico di professione, ma un attore, ed è giusto che lui parli anche al pubblico che conosce bene, quello che legge Vogue e quello che guarda Sanremo, per mantenere accesa l’attenzione sul suo Paese che da un anno vive la guerra. Lo ha fatto fin dal primo giorno della guerra con le dirette al festival di Cannes e a Venezia.

Per qualcuno tutto questo è uno scandalo, ma noi ucraini anche durante la guerra, soprattutto durante la guerra, troviamo il tempo per vestirci bene, per truccarci, per andare a mangiare al ristorante, per andare a un concerto del nostro gruppo preferito e allo stesso tempo doniamo soldi e compriamo il necessario per sostenere l’esercito al fronte, per acquistare i generatori di corrente e le connessioni Starlink. Siamo anche consapevoli che potrebbe essere l’ultima volta che lo facciamo ed è giusto sentire questa vita, anche breve, fino in fondo.

Al Trieste Film Festival, dedicato quest’anno all’Ucraina, ho incontrato una mia vecchia collega che mi ha detto che ogni volta che esce fuori dall’Ucraina abbraccia sua madre come se fosse l’ultima volta. Avrebbe preferito rimanere in Ucraina, ma è una brava produttrice cinematografica, quindi deve usare ciò che sa fare meglio per contribuire alla vittoria comune, anche se le costa una fatica morale enorme.

Una fatica morale che provano tutti gli ucraini che salgono sui palchi, che cantano e raccolgono fondi, che giocano a calcio, che scendono ogni giorno nelle piazze europee. Nonostante la stanchezza morale si va avanti proprio grazie a quello che ognuno di noi sa fare meglio.

Il presidente Zelensky è un ottimo comunicatore e anche lui sfrutta le sue doti e la sua esperienza. Da ucraina mi sono rallegrata quando ho saputo di Zelensky a Sanremo: finalmente il Festival di Sanremo sarà anche parzialmente restituito agli ucraini.

Il culto di Sanremo nella vecchia Unione Sovietica è noto. A casa mia ho ancora i vecchi dischi di Al Bano e Romina Power, di Riccardo Fogli, di Umberto Tozzi, di Toto Cutugno e di altre star di Sanremo. Imparavo l’italiano cantando “Felicità” e “Storie di tutti i giorni”.

Dopo lo scioglimento dell’Unione Sovietica, la Russia, in quanto centro imperialista, si è appropriata di tutto il patrimonio sovietico oscurando, come il suo solito, gli altri Paesi. Eppure Toto Cutugno veniva a suonare a Kyjiv ogni anno e ogni anno le sale erano piene, anche se le esibizioni davanti a Putin erano più clamorose e meglio pagate.

Nel 2021, un gruppo di artisti russi ha fatto un programma televisivo di fine anno intitolato “Ciao, 2021!”, girato addirittura in lingua italiana, imparata per l’occasione dagli attori, come modo per rinnovare il grande amore dei russi per la canzone italiana. Ne hanno scritto tutti, ripeto tutti, i giornali italiani ed è stata un’ottima operazione mediatica, dobbiamo riconoscerlo. Ora, finalmente, con Zelensky a Sanremo noi ucraini possiamo rinnovare l’amore per la canzone italiana che ha fatto così tanto per le generazioni cresciute negli anni Ottanta. E possiamo infine ribadire che il Festival è stato, ed è, anche un po’ nostro.

Zelensky stride col cazzeggio di Sanremo, me se fermiamo lui fermiamo tutti. Francesco Specchia su Libero Quotidiano il 27 gennaio 2023

Francesco Specchia, fiorentino di nascita, veronese d'adozione, ha una laurea in legge, una specializzazione in comunicazioni di massa e una antropologia criminale (ma non gli sono servite a nulla); a Libero si occupa prevalentemente di politica, tv e mass media. Si vanta di aver lavorato, tra gli altri, per Indro Montanelli alla Voce e per Albino Longhi all'Arena di Verona. Collabora con il TgCom e Radio Monte Carlo, ha scritto e condotto programmi televisivi, tra cui i talk show politici "Iceberg", "Alias" con Franco Debenedetti e "Versus", primo esperimento di talk show interattivo con i social network. Vive una perenne e macerante schizofrenia: ha lavorato per la satira e scritto vari saggi tra cui "Diario inedito del Grande Fratello" (Gremese) e "Gli Inaffondabili" (Marsilio), "Giulio Andreotti-Parola di Giulio" (Aliberti), ed è direttore della collana Mediamursia. Tifa Fiorentina, e non è mai riuscito ad entrare in una lobby, che fosse una...

Che poi, se proprio vogliamo, il faccione di Zelensky a riempire il palco dell'Ariston nella finale del prossimo 11 febbraio (dopo mezzanotte), be’, lo volevano in pochi.

Dicono che Amadeus se lo sia trovato come pacchetto regalo da Bruno Vespa. E, a quel punto, pareva scortese dire al Volodymyr in mimetica che non ci fosse più posto a tavola. Specie se la tavola è uno show musicale da 10 milioni e passa di spettatori, e tu, l’aggredito, vorresti offrire un vibrato pippone contro la guerra.

Detto ciò, oggi la fronda dei «No Zelensky al Festival di Sanremo» s’ingrossa e il presidente ucraino viene paradossalmente trattato come un invasore (lui!). E i grillini e i putinani d’Italia con Di Battista che lascia le sue partite di padel si preparano a un controfestival, al grido di «No alla propaganda di morte in tv». E molti s’indignano o fingono di farlo, attraverso attacchi assortiti alla Nato, chiedendosi «che cavolo c’entra Zelensky con Sanremo?». Che, poi, il dubbio non è peregrino. Dal servizio in posa con la moglie sulla copertina di Vogue all’ubiquità sugli schermi dell’Onu mentre chiede all’Occidente egoista nuovi Leopard e batterie antiaeree, la parabola dell’ex attore fattosi premier si è stinta un po’ nel narcisismo. Ma sì. Giusto.

Strappiamo via il giullare da quel palcoscenico fiorito. No alla politica in riviera. Mica siamo alla consegna dei Grammy Awards (dove il presidente, tra l’altro, s’è palesato). Eppure.

TUTTI GLI ALTRI Eppure, se vietiamo Zelensky al Festival, in fondo dovremmo anche ripudiare tutti gli altri. Perché, a ben vedere, lì la politica ha spesso fatto capolino. Tv Talk, il programma Rai di analisi del piccolo schermo lo ha ben ricordato in questi giorni. Il democristianone Pippo Baudo, nel 1984, fece salire sul palco i metalmeccanici dell’Italsider contro la chiusura dello stabilimento; e l’anno dopo sventò il leggendario tentativo di suicidio del disoccupato dalla balaustra, roba ben oltre il reddito di cittadinanza. Nel 1999 Fabio Fazio portò Mikhail Gorbaciov e signora – ben pagati- a rimarcare la nostalgia della Perestrojka, la più grande svolta del Novecento.

Nel 2000 Jovanotti con Carlinhos Brown chiese, rappando, di «cancellare il debito», ottenendo udienza dall’allora premier D’Alema. Nel 2016 tutti gli artisti, attraverso proclami o semplici nastri arcobaleno al microfono, spinsero per la volata alla Legge Cirinnà sulle unioni civili. La nostra memoria vaga nell’immemorabile.

Nel 1995 si ricorda una Sabina Guzzanti pepatissima antiberlusconiana che col suo gruppo Riserva Indiana inspiegabilmente piazzato in gara nella “sezione campioni”, aveva richiamato in servizio molti militanti a sinistra da Nichi Vendola, a Daria Bignardi e Mario Capanna; e li aveva sbrigliati in Troppo sole, canzone-protesta a sfondo generico-ecologista di stampo alla Latouche e grillino prima dei grillini. Uno spettacolo tutt’altro che indimenticabile. E, infatti, il carrozzone sanremese se ne dimenticò. Ma fischi, urla, appelli, condanne, pantomime all’insegna dell’impegno civile hanno sempre accompagnato le canzoni. Anzi, a volte le canzoni stesse hanno fatto politica, come nel caso del rapper Junior Cally redattore d’un testo d’attacco contro sia Renzi che Salvini.

E che dire del 2020, edizione in cui una polemicissima Rula Jebreal- ora spara a palle incatenate contro il centrodestra al governo, ma anche prima non scherzava- si produsse in un j’accuse sul tema della violenza contro le donne? E come commentare, ancora, il Sanremo dell’anno scorso, quando, di fatto, la politica irruppe portando davanti alle telecamere Roberto Saviano uno dei commentatori più schierati e faziosi su piazza?

Saviano non era ancora sotto processo per aver vilipeso la Meloni; ma diede il suo particolare tocco al racconto, peraltro sentito, della Strage di Capaci. Senza citare i monologhi del passato (spesso fanno parte delle performance dei comici) o quelli del futuro (non oso pensare quale discorso sull’antirazzismo gli autori metteranno in bocca, alla pallavolista Paola Egonu) la politica scorreva sempre sotto la pelle del Festival. E noi giornalisti- confessiamolo- ci eccitavamo.

CAOS AGLI OSCAR A metà degli anni 2000, il clou fu l’edizione in cui trapelò la notizia dell’arrivo all’Ariston del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Le grandi testate giornalistiche rimodularono i loro inviati al fronte sanremese, mandandovi le grandi firme del politico. E quegl’inviati, all’astuto forfeit del Berlusca si trovarono spaesati a Sanremo come in guerra a Saigon. In realtà, i larghi palcoscenici dello spettacolo sono da sempre megafono della politica; basti pensare alle varie notti degli Oscar: Jane Fonda antnixoniana; Marlon Brando rifiutante il premio a favore della causa pellerossa; l’iraniano Asghar Farhadi in polemica con Trump; Jared Leto contro le forze russe in Crimea. Certo, Zelensky è un elemento stridente nel cazzeggio di Sanremo. Ma se fermiamo lui, in futuro dovremo fermare tutti.

«Zelensky non deve parlare a Sanremo». Intellettuali al capolinea...Da Vauro a Ovadia, fino a Di Battista: i firmatari dell’appello contro il presidente ucraino chiamano a raccolta gli italiani per una manifestazione davanti al teatro Ariston. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 26 gennaio 2023

Un lungo, pletorico comunicato che sembra ideato dall’ufficio propaganda del Cremlino per dire semplicemente che il presidente ucraino Volodymir Zelensky al Festival di Sanremo non deve proprio intervenire: «L'Italia ha lanciato da Sanremo successi planetari che celebrano la vita, la felicità e l'amore. Abbiamo appreso perciò con incredulità che, in una delle serate clou dell'evento parlerà Zelensky capo di Stato di uno dei due paesi che oggi combattono la sanguinosa guerra del Donbass. Una guerra terribile».

A scrivere e sottoscrivere queste incredibili considerazioni una minutaglia smarrita di intellettuali tra cui lo storico Franco Cardini, il giurista Joseph Halevi, l’attore Moni Ovadia, il vignettista Vauro, ma anche esponenti politici come il grillino Alessandro Di Battista. Che riescono nel capolavoro retorico di non citare mai, ma proprio mai, le parole «Putin» e «invasione», trasformando l’occupazione militare dell’Ucraina nella «guerra del Donbass» e scaricando le responsabilità del conflitto sulla «brutale repressione della popolazione russofona da parte del nazionalista Zelensky». E ovviamente sulla Nato e all’Occidente che inviano armi a Kiev, «abbaiando ai confini della Russia».

Nemmeno un passaggio sulle fosse comuni di Bucha, sulle centinaia di migliaia di profughi in fuga, sulle città ucraine bombardate senza sosta da quasi un anno. Nel pieno della trance negazionista e mitomane i firmatari del comunicato chiamano a raccolta gli italiani a manifestare con loro davanti al teatro Ariston sabato 11 febbraio data in cui è previsto il videomessaggio di Zelensky: «Invitiamo alla mobilitazione per partecipare a una grande assemblea popolare di piazza». Se non ci fosse da piangere verrebbe da ridere.

(ANSA il 26 gennaio 2023) – "Speriamo che Sanremo rimanga il festival della canzone italiana e non altro". Così il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Matteo Salvini, alla luce dell'annuncio dell'intervento, con un video messaggio, del presidente dell'Ucraina Volodymyr Zelensky al Festival di Sanremo.

 "Avranno fatto le loro valutazioni, quello che spero è che la guerra finisca il prima possibile e che il palcoscenico della città dei fiori rimanga riservato alla musica", dice Salvini, aggiungendo che se avrà tempo di guardare il Festival "sarà per ascoltare canzoni e non per ascoltare altro" qualcosa che penso tutti si aspettano.

Gli affari “d’azzardo” del consigliere leghista in Crimea. Enrico Ferro su La Repubblica il 06 Febbraio 2023.

L’inchiesta del pool di giornalisti internazionali: "Soldi alla Lega per appoggiare Mosca". Stefano Valdegamberi voleva creare una zona speciale per aprire casinò sul Mar Nero

Aveva fiutato l’affare il consigliere regionale della Lega Stefano Valdegamberi. Era convinto che la Crimea, dopo l’occupazione russa del 2014, potesse diventare un nuovo Eldorado, sia per la politica che per l’imprenditoria italiana. O più semplicemente un’altra Las Vegas. E così, tra un forum sull’economia e un dibattito sulle fake news, ha pensato che durante quei soggiorni nei resort a 5 stelle sul Mar Nero mancasse qualcosa.

“Soldi alla Lega per appoggiare Mosca”: Russiagate, nelle mail la pista veneta. Enrico Ferro La Repubblica il 05 Febbraio 2023.

Stefano Valdegamberi ieri in piazza Bra a Verona nella manifestazione anti Zelensky  

L’inchiesta di un pool di giornali internazionali: nella posta hackerata  a un fedelissimo di Putin soldi, viaggi  e regali per sostenere l’invasione della Crimea. La replica: “Falsità”

Cambiare la narrazione sulla Russia e sull'invasione della Crimea stringendo accordi, organizzando convegni, intrecciando relazioni economiche. Il tutto grazie a esponenti politici entrati anima e corpo in uno schema che aveva come unico scopo quello di conferire alle politiche di Putin il diritto di cittadinanza nella Ue. Pezzi della Lega hanno portato avanti per anni questa opera fluidificatrice, sfruttando anche la credibilità e la solidità delle regioni in cui esercitano la loro azione politica.

L'inchiesta che inguaia alcuni leghisti veneti: viaggi e soggiorni a 5 stelle per sostenere l'occupazione della Crimea. Enrico Ferro su La Repubblica il 04 Febbraio 2023.

Al centro degli articoli pubblicati dalla rivista internazionale Occrp, sulla base dell'analisi di oltre mille email, Stefano Valdegamberi, Paolo Tosato e Roberto Ciambetti. Dall'indagine, che imbarazza la Lega di Zaia e il Consiglio regionale Veneto, emerge l'opera dei politici italiani che potrebbe avere preparato il terreno all'invasione russa in Ucraina

Lo schema è molto simile a quello scoperto con il Qatargate, ma in questo caso i soggetti sono differenti: al posto degli Emirati Arabi c'è la Russia e invece dei deputati europei socialisti ci sono alcuni esponenti leghisti del Veneto. C'è anche un altro ingrediente sostanzialmente diverso rispetto all'inchiesta condotta dalla polizia belga sui lobbisti del Parlamento

Estratto dell’articolo di Enrico Ferro per repubblica.it il 4 febbraio 2023.

Lo schema è molto simile a quello scoperto con il Qatargate, ma in questo caso i soggetti sono differenti: al posto degli Emirati Arabi c'è la Russia e invece dei deputati europei socialisti ci sono alcuni esponenti leghisti del Veneto. C'è anche un altro ingrediente sostanzialmente diverso rispetto all'inchiesta condotta dalla polizia belga sui lobbisti del Parlamento Europeo: le tangenti non sono state ancora dimostrate ma le conseguenze sono molto più gravi, perché l'opera fluidificatrice portata avanti dai politici italiani potrebbe avere in qualche modo preparato il terreno all'invasione russa in Ucraina.

 L'inchiesta giornalistica è stata realizzata da Eesti Ekspress (settimanale in lingua estone) con Occrp (team giornalistico investigativo che lavora su criminalità organizzata e corruzione), IrpiMedia (il gruppo italiano di giornalismo d'inchiesta) e iStories (sito web russo specializzato in giornalismo investigativo). Ebbene, il pool è venuto in possesso di oltre un migliaio di email riservate che sarebbero circolate dal 2007 in avanti e che vedono nel consigliere regionale veneto della Lega Stefano Valdegamberi uno snodo cruciale. 

Valdegamberi: "Solo gossip"

"Quante cazzate", sbotta Stefano Valdegamberi, veronese della Lessinia, ex assessore regionale del primo mandato di Luca Zaia e ora semplice consigliere regionale tesserato Lega. 

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 I legami economici con la Russia, e non solo

Alcune email mostrano come Valdegamberi avesse cercato di far fruttare le sue connessioni con il Cremlino. Dopo il forum di Yalta del 2016, è volato in Crimea alla ricerca di relazioni d'affari e ha portato con sé altri politici italiani: tre dal Veneto (Roberto Ciambetti e Luciano Sandonà della Lega ma anche Marina Buffoni consigliera comunale di FdI a Padova), più uno ciascuno da Toscana, Lombardia, Emilia Romagna e Liguria. Al viaggio si è unita una delegazione di investitori italiani.

 "Per Stefano Valdegamberi il risultato del viaggio non è stato puramente di pubbliche relazioni, ma l'organizzazione di contatti promettenti per iniziative imprenditoriali, che pagano le sue campagne elettorali e sostengono la sua attività politica", ha scritto uno dei soci europei di Mirzakhanian, in una email a lui spedita nell'ottobre 2016, subito dopo la visita della delegazione.

La strategia ha dato i suoi frutti: il presidente del Consiglio di Stato della cosiddetta "Repubblica di Crimea" ha firmato un accordo di cooperazione con il presidente del consiglio regionale del Veneto Ciambetti, promettendo di costruire legami economici.

 E Valdegamberi non sarebbe tornato a casa a mani vuote. Avrebbe ricevuto infatti un appartamento nel Villaggio Italiano, secondo quanto riportato dai media ucraini, che lo hanno mostrato in posa con un certificato di proprietà immobiliare. "Magari fosse vero", replica lui. "Era solo uno spot per una società di costruzione che voleva vendere appartamenti vicino al mare".

 La manifestazione pro-Putin

Ma nonostante le critiche e gli imbarazzi del suo partito in Veneto, la folgorazione pro Putin continua. Proprio oggi, sabato 4 febbraio, il consigliere regionale leghista è in piazza Bra a Verona, davanti all'Arena, per una manifestazione dal titolo "Il popolo non vuole la vostra guerra". Con lui ci sarà Eliseo Bertolasi (giornalista e reporter), uno degli "osservatori elettorali" del referendum-farsa di Putin nei territori ucraini conquistati dai russi.

 Bertolasi scrive per l'Antidiplomatico, rivista online critica verso l'imperialismo occidentale e anche per Sputnik Italia, testata controllata da Mosca. Con lui ci sarà anche Lorenzo Berti da Pistoia, ex Casapound, che nel 2021 aveva definito "il 25 aprile lutto nazionale" e "la giornata più squallida dell'anno". Ma non è finita, perché tra gli organizzatori c'è anche la giornalista Gloria Callarelli, candidata alle elezioni europee del 2019 con Forza Nuova, integralista cattolica tutta dio-patria-famiglia tradizionale. "Stop all'opera di persuasione di massa per convincerci a mandare armi, per portarci ad una deflagrazione mondiale mentre gli amici di Crosetto fanno affari d'oro", scrive il leghista che imbarazza la Lega di Luca Zaia.

Estratto dell’articolo di Enrico Ferro per “la Repubblica” il 5 febbraio 2023.

Cambiare la narrazione sulla Russia e sull’invasione della Crimea stringendo accordi, organizzando convegni, intrecciando relazioni economiche. Il tutto grazie a esponenti politici entrati anima e corpo in uno schema che aveva come unico scopo quello di conferire alle politiche di Putin il diritto di cittadinanza nella Ue. Pezzi della Lega hanno portato avanti per anni questa opera fluidificatrice, sfruttando anche la credibilità e la solidità delle regioni in cui esercitano la loro azione politica.

 L’attività del consigliere regionale del Veneto Stefano Valdegamberi, tesserato Lega, è certamente paradigmatica per comprendere quanto il partito di via Bellerio si sia speso per oliare i rapporti tra Italia e Russia. Una dinamica caldeggiata dal Cremlino che, anche in questo modo, avrebbe poi preparato il terreno per l’invasione dell’Ucraina. Adesso c’è anche un’inchiesta giornalistica internazionale, realizzata tra gli altri da IrpiMedia.

Grazie a migliaia di e-mail sotratte dagli hacker ucraini al parlamentare russo Sargis Mirzakhanian, responsabile della “International Agency for Current Policy” negli anni successivi all’invasione della Crimea nel 2014, sono emersi i rapporti e le loro dinamiche. Valdegamberi era uno snodo cruciale.

 Le e-mail conterrebbero le prove di come i lobbisti russi intendessero pagare i politici: ci sono addirittura onorari e budget per piani di viaggio con soggiorni in resort a 5 stelle come il Mriya Resort and Spa, un mega hotel sulle rive del Mar Nero. Tuttavia, è bene specificarlo, nel malloppo raccolto non ci sono documenti finanziari o estratti conto bancari in grado di dimostrare che i pagamenti siano stati effettuati.

«Quante cazzate», sbotta Stefano Valdegamberi, ex assessore regionale del primo mandato di Luca Zaia e ora consigliere regionale. «Si evince chiaramente che le attività promosse erano di natura commerciale. Ma io non ho mai preso un soldo». Ma è Mirzakhanian stesso a descrivere questi pagamenti come il «prezzo del voto», in una email contenente le linee guida del progetto per l’Italia e l’Austria.

 Riecco Valdegamberi in uno schema in cui gli viene attribuito l’incasso di 3 mila euro. «Probabilmente quei 3 mila euro sono i soldi che l’organizzazione del Forum di Nazarov ha speso per i viaggi e l’ospitalità della delegazione. Ma nessun compenso è stato dato», la replica del leghista. Della partita faceva parte anche il senatore veronese Paolo Tosato, anch’egli della Lega e anch’egli corteggiato affinché appoggiasse Mosca. Così fece, ma la sua risoluzione in Senato non venne recepita.

Uno dei primi grandi risultati ottenuti dal gruppo di Mirzakhanian è stato invece con il Consiglio regionale veneto. Grazie a Valdegamberi, il 18 maggio 2016 la delibera viene adottata a maggioranza. I primi in Europa. Nei mesi successivi, grazie alla spinta della Lega, Liguria e Lombardia hanno seguito l’esempio del Veneto e approvato le loro risoluzioni, riconoscendo la Crimea come parte della Russia.

Dopo il forum di Yalta del 2016, Valdegamberi è volato in Crimea alla ricerca di relazioni d’affari e ha portato con sé altri politici italiani: tre dal Veneto (Roberto Ciambetti e Luciano Sandonà della Lega, ma anche Marina Buffoni consigliera comunale di FdI a Padova), più uno ciascuno da Toscana, Lombardia, Emilia Romagna e Liguria. Al viaggio si è unita una delegazione di investitori italiani, tra cui alcuni imprenditori sempre dal Veneto. «Per Stefano Valdegamberi il risultato del viaggio non è stato puramente di pubbliche relazioni, ma di contatti promettenti per iniziative imprenditoriali, che pagano le sue campagne elettorali e sostengono la sua attività politica», ha scritto uno dei soci europei di Mirzakhanian in una e-mail. […]

Da corriere.it il 27 gennaio 2023.

Il leader di Azione Carlo Calenda: «Ci sono pochi dubbi sulla nostra linea di sostegno all’Ucraina. Ritengo tuttavia un errore combinare un evento musicale con il messaggio del Presidente di un paese in guerra», ha scritto in un tweet. E ancora il leader del M5S, Giuseppe Conte: «Io sono stato molto contento quando il presidente Fico ha invitato il presidente Zelensky alla Camera dove ha potuto esprimere le sue ragioni in Parlamento. Non credo che sia così necessario avere Zelensky in un contesto così leggero come quello di Sanremo».

L’ex deputato pentastellato Alessandro Di Battista, definendo il video di Zelensky «una ridicola buffonata», è tra i firmatari del manifesto con cui un gruppo di intellettuali ha accompagnato la decisione di manifestare, in piazza a Sanremo, proprio l’11 febbraio:

 «Abbiamo appreso con incredulità che interverrà Zelensky, capo di Stato di uno dei due Paesi che oggi combattono la sanguinosa guerra nel Donbass. Una guerra terribile», scrivono nomi come Franco Cardini, Ugo Mattei, Carlo Freccero, Joseph Halevi e Moni Ovadia. Secondo Ovadia «non si può spettacolarizzare la guerra. Tanto meno in un programma che ospita canzoni e che è visto in tutto il mondo. Il messaggio che mandiamo a Putin è che vogliamo schiacciarlo. E lui può essere molto cattivo, quindi non è conveniente».

   Estratto dell’articolo di Matteo Pucciarelli per “la Repubblica” il 27 gennaio 2023.

È uno strano e trasversale fronte e dentro c’è un po’ di tutto, vecchie e nuove pulsioni antisistema che per una volta si ritrovano d’accordo nel condividere la protesta. Contro cosa, contro chi?

La partecipazione di Volodymyr Zelensky al Festival di Sanremo.

 L’intervento in collegamento del presidente ucraino sul più nazionalpopolare dei palchi non è gradito da: Matteo Salvini, Beppe Grillo, Alessandro Di Battista, Carlo Freccero, Maurizio Gasparri, Vauro Senesi, Fabio Volo, solo per citare i volti più noti. Di sicuro pesano e parecchio le dichiarazioni del vicepremier e leader della Lega:

«Mi chiedo quanto sia opportuno che il Festival della canzone italiana abbia un momento con la guerra e le morti in corso. Non mi sembra che le cose vadano d’accordo ». Anni fa, quando girava con le magliette “sono un populista” o con quelle col faccione di Vladimir Putin, annunciava divertito di preferire il popolare cartone animato Masha e Orso al discorso di fine anno di Sergio Mattarella.

L’attuale registro comunicativo è simile: «Se avrò dieci minuti di tempo per vedere il Festival vedrò le canzoni, non Zelensky», le sue parole ieri a “Otto e mezzo”.

Il fondatore e garante dei 5 Stelle invece si prepara al gran debutto del 15 febbraio a Orvieto col nuovo spettacolo, intanto su beppegrillo. it due giorni fa ha pubblicato una lunga analisi dell’ex ambasciatore Torquato Cardilli, non nuovo a prese di posizione originali, per così dire. Stavolta nel commentare lo Zelensky sanremese ha spiegato, in maniera un po’ sinistra, che «forse bisognerebbe consigliargli di cominciare un rosario di scongiuri vista la fine che hanno fatto altri capi di Stato che hanno concesso analoghe interviste in passato (Saddam Hussein, Gheddafi)». Una dichiarazione presa al balzo da Europa verde, che l’ha inserita nel dossier di 16 pagine che verrà presentato oggi alla Stampa estera contro l’ingresso del M5S nel gruppo parlamentare europeo dei Greens.

(…)

Estratto dell’articolo di Tommaso Rodano per “il Fatto quotidiano” il 27 gennaio 2023.

“Io penso sia un errore gravissimo di Zelensky, ma soprattutto un errore tragico della Rai. A livello mediatico è controproducente per entrambi”. È un Carlo Freccero fluviale, come sempre, quello che commenta l’imminente ospitata sanremese del presidente dell’Ucraina. 

“Credevano di rendergli un omaggio, al contrario non fanno altro che compattare le voci di quelli che si oppongono alla guerra, con varie posizioni e vari punti di vista. Infatti la piattaforma che manifesta contro Zelensky a Sanremo tiene insieme personalità molto diverse” (ci sono, tra gli altri, Alessandro Di Battista, Franco Cardini e Moni Ovadia, ndr).

Per quale motivo? In fondo la copertura mediatica di Zelensky è sempre stata abbondante e trasversale.

Raffigurare la guerra in un musical di canzoni e siparietti di costume significa superare un limite, andare oltre ciò che è concepibile. È vero che Zelensky si esibisce praticamente su ogni palcoscenico, le sue apparizioni hanno una forma cinematografica: se ci fa caso, sono pochissime le immagini “sporche”, da telegiornale; in genere invece viene rappresentato con una luce perfetta, vestito da attore, sempre allo stesso modo. Ma partecipando al festival di Sanremo si ridicolizza, scende nella categoria del musical. Si mescola alle musichette, mentre sul terreno di guerra si accumulano i morti.

 Il salto di qualità, in sostanza, è l’accostamento tra guerra e canzoni?

Mi ricorda da vicino quello che avveniva durante la pandemia, quando tra terrore e farsa, nel mezzo dei bollettini di morte, medici e paramedici si esibivano in balli di gruppo sulle note di Jerusalema. Nei momenti più tragici, per far diminuire l’ansia allo spettatore, al terrore vanno alternati momenti assurdi di non senso, che ricordano i musical.

 Se è un tragico errore, come dice, a chi va attribuita la sciagurata idea?

Penso sia l’iniziativa di Bruno Vespa, che confonde l’informazione con lo spettacolo: è nella sua natura. Da uomo di potere, voleva fare un favore alla Meloni. Un omaggio per lei, che si presentava come la più grande sovranista ed è diventata invece la più grande alleata del globalismo e degli Stati Uniti. Un tale servizio di propaganda, credo, non se lo aspettava nemmeno lei. Al punto che si stanno scatenando contro questa scelta anche i suoi alleati.

Pure Salvini, proprio in queste ore.

Salvini dice le stesse cose che dico io: parla anche lui di un musical. Se non è un paradosso questo... Quest’operazione è un errore colossale: un grande aiuto a chi è contro la guerra.

 (...)

Estratto dell’articolo di Silvia Truzzi per “il Fatto quotidiano” il 7 febbraio 2023.

[…] Carlo Freccero […]

 È un compromesso al ribasso per la Rai avere la letterina di Zelensky al posto del consueto video?

[…] per la Rai Sanremo rappresenta un grande bottino di […] introiti pubblicitari: così si evitano potenziali defezioni di pubblico e investitori.

 Secondo la Rai è stata una scelta di Zelensky.

Ho dei dubbi: questa soluzione si risolve in un depotenziamento del messaggio di Zelensky. Sanremo è uno spettacolo televisivo: chiaramente una lettera letta non ha lo stesso impatto di un filmato. […] Sanremo voleva fare C’è posta per te, ma il gioco non è riuscito.

[…] E dal punto di Vespa, il grande regista di quest’operazione?

Vespa ha fatto il Caschetto (Beppe, agente di personaggi dello spettacolo, ndr) di Zelensky, ma gli è andata male. […] Chiaramente una sconfitta, che può anche essere letta come un ridimensionamento di Vespa all’interno della Rai. In qualche modo, con l’invito a Zelensky e l’annuncio fatto personalmente, Vespa si era sostituito all'amministrazione delegato della Rai. Che […] non per nulla sarà a Sanremo. Fuortes batte Vespa sei-zero, sei-zero.

La lettera verrà letta da Amadeus, che di mestiere conduce I soliti ignoti.

[…] C'era molta attesa per il video del presidente ucraino. Dal punto di vista degli ascolti il depotenziamento e un boomerang? Sicuramente. […] Il depotenziamento […] agisce sul messaggio di Zelensky, ma anche sulla protesta contro la guerra. Sabato a Sanremo non ci sarà la tensione che ci sarebbe stata con il video messaggio.

Estratto dell’articolo di Maurizio Caverzan per “La Verità” il 31 gennaio 2023.

Carlo Freccero, cosa significa il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ospite del Festival di Sanremo?

«Significa che siamo di fronte a un atto di propaganda».

 Cioè?

«È sempre stato necessario far accettare al popolo un’azione impopolare come la guerra […]».

 Nel caso del popolo italiano, in maggioranza contrario all’invio di armi all’Ucraina nonostante l’informazione spinga in questa direzione, la propaganda fallisce?

«[…] Il primo è la paura di un conflitto nucleare […] Il secondo motivo è che nel nostro Paese c’è povertà e noi abbiamo già destinato molti soldi all’Ucraina. La guerra sta provocando disagi all’economia e alla nostra vita quotidiana». […] «[…] La maggioranza degli italiani non vive come Joe Biden alla Casa bianca, ma in case fredde e con spese che si moltiplicano».

 L’errore di questa ospitata è il contesto o il contenuto?

«Entrambi. […] Anche le persone che ritengono necessaria la partecipazione alla guerra non ne condividono la spettacolarizzazione a Sanremo. […]».

[…] Zelensky all’Ariston è la spettacolarizzazione della guerra?

«Mentre non c’è spazio per la trattativa e per la diplomazia, tutto è affidato all’azione delle armi e l’Ucraina è diventata un cimitero a cielo aperto». […] «[…] Questa guerra è un esempio di reductio ad Hitlerum di Putin analoga a quella condotta contro Saddam Hussein e Gheddafi. Ricordiamo le armi di distruzione di massa di Saddam simboleggiate dalla fialetta agitata da Colin Powell nell’assemblea delle Nazioni unite. Tutti sanno che quelle armi non esistevano, però nell’immaginario Saddam è rimasto un crudele dittatore».

I morti ucraini esistono.

«A questo proposito vorrei ricordare la frase sfuggita nel 2014 a Victoria Nuland, all’epoca segretario di Stato aggiunto, quando le fu fatto presente che l’Europa non poteva tollerare un colpo di Stato nazista in Ucraina: “Che l’Unione europea si fotta”, disse. Da quel colpo di Stato, la guerra dell’Ucraina contro le popolazioni russofone del Donbass non si è mai interrotta. […]».

 […] Il presidente ucraino è un ex attore comico e un ottimo comunicatore.

«Non un comunicatore, ma un attore che cura molto le sue apparizioni. Il fatto interessante è che mescolare guerra con spettacolo è, in qualche modo, in continuità con la propaganda pandemica».

In che senso?

«I virologi chiedevano di vaccinarsi contro il Covid sulle note di Jingle bells. Ora Zelensky ex attore arriva al palco del Festival di Sanremo a chiedere armi. Da tempo Sanremo sembra occuparsi, più che di musica, di look transgender presunti trasgressivi. Anche a questo riguardo Zelensky è idoneo perché sono noti i suoi balletti con tacchi a spillo, nudo e lingua fuori, in perfetto stile Måneskin».

[…] Il Cda Rai ha convocato il direttore dell’Intrattenimento Stefano Coletta per spiegare l’invito: cosa si aspetta?

«Oltre a Coletta, sarebbe interessante ascoltare Bruno Vespa che si è prestato a fare il Beppe Caschetto di Zelensky».

Estratto dell’articolo di Corrado Formigli per “la Repubblica” il 31 gennaio 2023.

Con sprezzo del ridicolo, prosegue incandescente il dibattito sulla presenza di Zelensky al festival di Sanremo. Parliamo di un intervento registrato di circa due minuti in collegamento da Kiev durante la serata finale. […] il presidente ucraino è stato già ospite di numerosi eventi televisivi nel mondo, dai Golden Globe ai festival di Venezia e Cannes […] Eppure, da noi è un caso di Stato.

Sarà che i partiti […] considerano la Rai […] una sorta di colonia catodica del governo con annessa dépendance per l’opposizione. Sta di fatto che tutti i leader mettono bocca […] Chi protesta contro la presenza del presidente ucraino, sostiene che il contenitore non sia adatto. Insomma, dopo aver imperversato in qualunque format televisivo immaginabile, dalla d’Urso alla De Filippi a Novantesimo minuto, ora alcuni indignati leader politici lanciano l’austera invocazione: Zelensky, Amadeus e tutta la Rai dimostrino un po’ di serietà anziché mischiare la guerra con il rock. Come se non fosse tradizione sanremese aprirsi ai temi sociali, alle proteste, ai gesti simbolici. […]

Con la stessa ipocrisia per la quale i corpi martoriati dalle bombe non devono essere mostrati, adesso si rimprovera al servizio pubblico di voler mescolare sangue e musica. […] Il consiglio di amministrazione della Rai chiede dunque rassicurazioni al direttore dell’intrattenimento Coletta, indaga sul contenuto del messaggio che verrà inviato dal presidente di un popolo sotto assedio. Si cautela su possibili conseguenze. A monte di queste paranoie c’è l’inguaribile impulso dei partiti di considerare la Rai roba loro.

 […] Adesso vogliono pure la scaletta di Sanremo. […] Alla prossima tornata, il governo cambierà amministratore delegato com’è nei suoi poteri. Fino ad allora, per favore, giù le mani dal copione. Tantopiù che, una volta archiviata Sanremo, questa polemica apparirà per quel che è: strumentale. Tra riflessi pseudo pacifisti, perbenismo mediatico e generali da tastiera, la guerra, quella vera, è sempre più lontana dal racconto della realtà. In Ucraina si muore in una crescente indifferenza. […] Chiuso il collegamento col presidente ucraino e archiviate le “canzonette”, in Rai si tornerà alla vera partita del cuore per il governo: quella delle nomine. Un direttore a me, uno a te. Come sempre. […]

“Un altro modo per fare propaganda di guerra: scenderemo in piazza”. Redazione su L’Identità il 31 Gennaio 2023

di GIORGIO CREMASCHI SINDACALISTA FIOM

 La presenza di Zelensky al Festival di Sanremo è propaganda di guerra, non è nient’altro. Proprio come si faceva nel 1915-18 quando si presentavano le donne imbandierate con il tricolore.

È una cosa orribile. E non bisogna fare l’errore di cadere nella questione del rapporto tra il Festival di Sanremo e la politica. Tutto è politica e quindi non si può “tenere fuori il Festival” dai temi del momento, sarebbe una ipocrisia.

Perché il Festival potrebbe accogliere i portuali di Genova che stanno facendo gli scioperi per contestare l’invio di armi all’Arabia Saudita, così come potrebbe accogliere i disoccupati, oppure i ragazzi che si occupano di ambiente.

Non si vuole discutere sul fatto che al Festival non si debba parlare anche di temi centrali. Io sostengo fortemente il no alla presenza di Zelensky in quanto presidente di un Paese in guerra a cui il nostro Paese fornisce le armi.

È propaganda di guerra ed è inaccettabile, a maggior ragione nel momento in cui è chiaro che solo una minoranza del popolo italiano è a favore della guerra, mentre la grande maggioranza è contraria alla guerra e alla partecipazione dell’Italia.

Per questo il prossimo 11 febbraio scenderemo in piazza con una manifestazione e un altro appuntamento generale è stato lanciato dai portuali di Genova per il 25 febbraio: una manifestazione nazionale dei lavoratori dei porti contro la guerra, a cui si affiancheranno altre manifestazioni in tutta Italia per l’anniversario della guerra.

Bisogna dirlo chiaramente: il partito guerrafondaio ha rotto, perché tanto più arrogante, sfacciato, odioso, e tanto più è in minoranza rispetto alla popolazione.

È il momento di alzare la testa, anche perché questa presenza di Zelensky potrebbe essere un boomerang della propaganda di guerra.

Quindi da un lato c’è la condanna, ma dall’altro questo boomerang potrebbe far diventare ancora più chiaro che la maggioranza del Paese è contro la guerra.

E credo che sarà un incentivo, per chi come noi è contro la guerra, a manifestare e dire basta al partito guerrafondaio.

“La guerra non si ferma per Sanremo: ascoltiamo gli appelli prima che sia tardi”. Redazione su L’Identità

31 Gennaio 2023 

di CARLO GIOVANARDI POLITICO

E se sulla polemica sul previsto intervento di Zelensky al Festival di Sanremo entrassimo a gamba tesa con una proposta radicale tipo: sospendiamolo per quest’anno per rispetto ai civili inermi che in quegli stessi giorni verranno fatti a pezzi dai bombardamenti russi?

Oppure chiedere, come avveniva nella antica Grecia, di fermare la guerra per il tempo dei Giochi Olimpici (la cosiddetta tregua olimpica) chiedendo ai russi una tregua per rispetto al Festival della Canzone Italiana?

Inevitabilmente proposte di questo tipo verrebbero subito bollate come intollerabili, ridicole, utopiche e grottesche.

Premesso, pertanto, che il Festival è intoccabile e andrà in onda pure in Mondovisione in concomitanza con le stragi quotidiane di donne e bambini, perché contestare a Zelensky la possibilità di richiamare tutti al dovere di solidarietà con un intero popolo massacrato?

Per non annoiare chi comodamente seduto su un divano sta ascoltando musica leggera, rispondono i contrari.

Si dà il caso che Sanremo ricada proprio tra la Giornata della Memoria dell’Olocausto del popolo ebraico e quella del Ricordo degli Italiani infoibati in Istria, che è giusto e doveroso commemorare ogni anno, perché la barbarie non può venire a noia.

E soprattutto quando siamo ancora in tempo ad ascoltare gli appelli per fermarla prima che sia troppo tardi”.

Salvini: «Zelensky a Sanremo? Spero rimanga il Festival della canzone». Cesare Zapperi su Il Corriere della Sera il 26 Gennaio 2023.

Il leader della Lega non apprezza la partecipazione in video al Festival del presidente ucraino. «Il palcoscenico deve rimanere riservato alla musica»

«Speriamo che Sanremo rimanga il festival della canzone italiana e non altro». Anche il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Matteo Salvini, esprime le sue perplessità alla luce dell’annuncio dell’intervento, con un video messaggio, del presidente dell’Ucraina Volodymyr Zelensky al Festival di Sanremo. «Avranno fatto le loro valutazioni, quello che spero è che la guerra finisca il prima possibile e che il palcoscenico della città dei fiori rimanga riservato alla musica», dice Salvini a »Otto e mezzo» su La7, aggiungendo che se avrà tempo di guardare il Festival «sarà per ascoltare canzoni e non per ascoltare altro, qualcosa che penso tutti si aspettano». (Anche se la politica ha fatto più volte irruzione al Festival, vedi il servizio)

«Speriamo che» la guerra «finisca il prima possibile - ha poi aggiunto il vicepremier -, noi siamo allineati con le posizioni occidentali. E speriamo che Sanremo rimanga il festival della canzone italiana e non altro». A chi gli ha chiesto se ritenga inopportuna la presenza di Zelensky, Salvini ha replicato: «Non giudico. E’ l’ultima settimana di campagna elettorale, se avro’ tempo di guardare Rai Uno sara’ per ascoltare canzoni, non per ascoltare altro». Replicando a chi gli ha chiesto se la polemica fosse sul presidente ucraino, Salvini ha ironizzato: «Adoro la canzone italiana. Zelensky? Non so come canta, ho altre preferenze». «Non dico chi spero che vinca - ha infine concluso - senno’ lo danneggio e arrivera’ ultimo sicuramente. Ho le mie preferenze, ma in campo canoro, non in altri campi».

(ANSA il 26 gennaio 2023) - Una "ridicola buffonata". Così l'opinionista ed ex 5 Stelle Alessandro Di Battista giudica la partecipazione del presidente ucraino alla serata conclusiva del festival di Sanremo.

 Il reporter ha firmato la petizione condivisa da un gruppo di intellettuali in cui si critica la decisione di invitare Zelensky allo spettacolo canoro ma, conversando con l'ANSA, precisa di non essere intenzionato a partecipare alla protesta in piazza indetta proprio a Sanremo per l'11 febbraio: "Sostengo la petizione ma non parteciperò alla manifestazione".

Piuttosto, dice, " se stabiliamo che si inizia a rendere una manifestazione canora un luogo di dibattito di questioni politiche, allora che si parli anche di quello che sta avvenendo in Palestina".

Da “Un giorno da Pecora – Rai Radio 1” il 26 gennaio 2023.

Zelensky a Sanremo? “Sono cose che personalmente fatico a capire, capisco l’attenzione però mi sembra anche un po’ la spettacolarizzazione di un qualcosa. Non lo so, quando poi è venuto cosa cambia?” Così a Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, lo scrittore e conduttore Fabio Volo. Forse lo scopo della sua presenza è sensibilizzare maggiormente sul conflitto all’interno di un contesto di grande seguito come il Festival.

 “Ma mi sembra che l’Italia non sia nel dubbio, quel che deve fare lo sta facendo, non è che uno fa una donazione dopo aver visto Zelensky a Sanremo ad esempio. Non capisco bene questa cosa – ha aggiunto a Un Giorno da Pecora Volo - ma siccome ognuno fa il suo mestiere se lo hanno chiamato avranno avuto i loro motivi, sapranno cose che io non capisco

Pier Silvio Berlusconi: "Zelensky a Sanremo? Avrei preferito di no". Panorama il 2 Febbraio 2023

L’ad di Mediaset interviene sulle polemiche che scaldano la vigilia del Festival. «Da parte di Zelensky una ricerca di visibilità che mi turba», commenta. E spiega la scelta di controprogrammare Sanremo: «Niente disarmo, vogliamo dare un'alternativa al pubblico» Francesco Canino «Zelensky a Sanremo? La Rai deve fare le sue scelte e da editore non voglio mettere becco. Da cittadino che paga il canone non fa piacere». Pier Silvio Berlusconi è entrato a gamba tesa sulle polemiche che stanno infuocando la vigilia del Festival di Sanremo, con la politica, gli addetti ai lavori e l'opinione pubblica divisa sul video-messaggio di Volodymyr Zelensky, che dopo i Grammy, i Festival di Cannes e Venezia, e due settimane i Golden Globe, ha chiesto (via Bruno Vespa) di poter intervenire durante la finale di Sanremo 2023. Richiesta accordata dalla Rai e da Amadeus, il quale ha già fatto sapere che il messaggio di due minuti andrà in onda il sabato sera al termine dell'esibizione di tutti i ventotto big in gara. E mentre il cda Rai ha chiesto un incontro con Stefano Coletta, direttore dell’Intrattenimento Rai, per approfondire il "caso" , Berlusconi jr. ha deciso di dire la sua. Pier Silvio Berlusconi perplesso dalla presenza di Zelensky a Sanremo «Io non posso dire da editore che non deve farlo andare in onda, onestamente no. Sarebbe come se noi bloccassimo tutte le cose che ci sembrano un po' al limite nei programmi che vanno in onda. Ma da cittadino c'è un conflitto in ballo, si parla di morti: cosa c'entra Sanremo?». È stato piuttosto categorico Pier Silvio Berlusconi rispondendo a una domanda sulla partecipazione di Zelensky a Sanremo nel corso di un incontro con i giornalisti sui progetti del digitale di Mediaset. L'amministratore delegato del Biscione non si è sottratto alla questione e ha spiegato il suo punto di vista. Da editore e da cittadino che paga il canone. «Da un lato c'è la questione della libertà di espressione, un presidente che vuole far sentire la sua voce e tutti noi siamo con lui e con l'Ucraina. La Rai deve fare le sue scelte e da editore non voglio mettere becco. Dall'altro c'è il mio essere cittadino che paga il canone e non riesco a non essere trasparente: a me che Zelensky" intervenga a Sanremo "con tutto quello che si deve dire a favore dell'Ucraina e della situazione che stanno vivendo, non fa piacere. Mi sembra una ricerca di visibilità che un pochino mi turba: preferirei di no».

Perché Mediaset ha deciso di "controprogrammare" il Festival Soddisfatto per la crescita digitale di Mediaset, con 10 milioni e 500 mila video visti al giorno (numeri quintuplicati nell'ultimo anno) e il raddoppio del tempo speso per guardarli (1,3 milioni di ore quotidiane) e soprattutto per i conti del 2022, Pier Silvio Berlusconi ha poi spiegato la scelta di "controprogrammare" il Festival. Dopo vent'anni di "tregua" durante la settimana sanremese, quest'anno Mediaset ha decido di tenere accesse tutte le sue trasmissioni, comprese quelle di punta tra cui C'è posta per te di Maria De Filippi. Ma Berlusconi precisa: «Non abbiamo alcuna intenzione di fare 'controprogrammazione' al Festival di Sanremo: evitiamo dopo molti anni il disarmo assoluto». Ma questa scelta da cosa deriva? Dagli ascolti che hanno retto (e pure bene) durante i Mondiali di Qatar e di conseguenza dalla tenuta dei ricavi pubblicitari. «Abbiamo visto che durante i mondiali in Qatar i nostri ricavi non ne hanno risentito e abbiamo deciso di mantenere una settimana a prezzo normale». Insomma, nonostante la delicata fase di mercato, gli eventi in onda sulle reti concorrenti sembrano non incidere sui ricavi pubblicitari di Mediaset e a questo si somma la scelta di offrire un'alternativa al pubblico: «È sbagliato togliere questa possibilità e lasciare accesa una tv da Terzo Mondo. Anche se c’è Sanremo sarebbe un disservizio per gli spettatori. Sanremo fa il 60% di share? C’è comunque un 40% che non lo guarda e ha voglia di seguire altro». Ecco perché andranno regolarmente in onda Grande Fratello (con doppio appuntamento lunedì e giovedì), Le Iene, i talk di Rete4 e anche C’è posta per te: «Non importa quanto faremo, che sia il 5, il 10 o il 15% di share: è importante offrire un’alternativa sia al pubblico sia al mercato e ai client. Ringrazio Maria De Filippi per questo atto di coraggio».

Perché Putin è Putin. L’insopportabile coro degli indignati speciali per Zelensky a Sanremo. Amedeo La Mattina su L’Inkiesta il 27 gennaio 2023.

Il presidente ucraino interverrà con un messaggio nella serata finale del Festival della canzone italiana. La cosa dà fastidio a molti. Forse perché bastano pochi minuti per raccontare la brutalità e i crimini di guerra commessi dai russi

Amadeus va alla guerra. Come se fosse così banale, come tutti i mali del mondo, confondere le canzonette di Sanremo con il massacro in Ucraina voluto da Mosca. Allora partiamo da chi è preoccupato di trasformare il palco dell’Ariston in un proscenio bellico.

Volodymyr Zelensky ha chiesto al conduttore della principale manifestazione canora nazionalpopolare, attraverso Bruno Vespa, di poter intervenire con suo video preregistrato. Amadeus ha detto di sì. Pochi minuti nella serata finale dell’11 febbraio per il leader ucraino che il vignettista Vauro considera un «personaggio da fumetti», quindi ridicolo per le magliette che indossa con il simbolo del suo Paese. Lui, Vauro, ridicolo invece non si sente quando va in giro, anche negli studi televisivi, con le camice militari dell’Armata rossa.

Dimenticando che il suo caro amico Putin a quel tipaccio con la barba voleva tagliare la gola. Tutti scandalizzati adesso per Sanremo come Zelensky non avesse parlato ai Golden Globes, al Festival di Cannes e a quello di Venezia (dimentico qualcosa di meno importante di Sanremo?). Ha parlato e nessuno si è indignato o sognato di dire «e che cazzo, fateci vedere i film, levate quel tizio, quell’attore fallito dal red carpet».

Ma Sanremo è Sanremo, guai a infilarci dentro questa lagna dei morti, dei bombardamenti su case, scuole, ospedali. Basta con la solfa del popolo orgogliosissimo che resiste e vuole stare in Europa, vivere come gli europei e non prigioniero dell’autarchia russa. Non sanno che si perdono!

Perché questa fastidiosa distorsione acustica, tra fiori e melodie, del sangue che scorre (per colpa sua?). «Non è educativo, oltre che di cattivo gusto, mescolare la musica con la guerra», tuona il geopolitologo Lucio Caracciolo nel programma di Lilli Gruber, per la verità un po’ sconcertata, dove Massimo Giannini parla di gravitas della morte calata in maniera inopportuna in una bella serata spensierata. Amadeus, che sa come fare ascolto e ha già la pubblicità in overbooking, secondo il direttore della Stampa dovrebbe fare come fece Fabio Fazio nel 2009 che invitò a Sanremo Michail Sergeevič Gorbačëv, accompagnato dalla moglie Raissa. E vuoi mettere l’ultimo segretario del Pcus insignito del premio Nobel per la pace con quel guerrafondaio di Volodymyr Zelensky che sta provocando un’escalation che potrebbe portarci al disastro atomico? Una cosa che va venire il sangue alla testa a Nicola Porro, vice direttore del Giornale. «Ma perché ci dobbiamo sorbire Zelensky?», si chiede il conduttore televisivo di Quarta Repubblica.

L’abbraccio destra-sinistra al grido giù le mani dalla melodia sanremese, raggiunge l’apoteosi con il contributo di un ministro della Repubblica. Stiamo parlando del leader della Lega, Matteo Salvini, che ha ancora una fratellanza politica con Russia Unita, il partito di Putin. Spera che «il palcoscenico della città dei fiori rimanga riservato alla musica: è qualcosa che penso tutti si aspettano». Lui, che è amante del festival vecchia maniera e adora la canzone italiana, non sa come canta Zelensky. «Ho altre preferenze». Magari, chissà, avrebbe preferito il coro dell’Armata rossa che si esibì con l’italiano vero Totò Cutugno nel festival del 2013 (sempre presentato da Fabio Fazio).

No, forse è troppo brutto ricordare quei poveri coristi che disgraziatamente, qualche anno dopo, morirono in un incidente aereo a Sochi. Siamo sicuri però che, cantando sul palco dei fiori, fecero piangere di gioia e non scandalizzare il vignettista Vauro che nella sua casa-museo di Roma ha una collezione di cimeli sovietici da fare invidia agli stalinisti moscoviti. Meglio l’Internazionale che il “nazista” di Kiev.

E allora tutti a Sanremo l’11 febbraio a contestare la «propaganda di morte in tv». Andiamo a parlare di pace, diplomazia, di cessate il fuoco. Con chi, a Mosca, non è dato saperlo. Tutti a fare il controcanto a Zelensky. Addirittura ci saranno due manifestazioni. Una organizzata da un fantomatico Comitato di liberazione nazionale con Pecora nera, nel piazzale di Pian di Nave, a Sanremo. Ma quella più sexy sarà il controfestival di Carlo Freccero dove interverrà Dibba. Non si può mancare il comizio di Alessandro Di Battista, che si porterà nel tascapane, tra una partita di padel e una comparsata a pagamento a Dimartedì, il post di Beppe Grillo «dalle bombe alle canzoni, anche l’orrore fa spettacolo». Proprio lui, il comico genovese, che con l’orrore della casta, delle banche, delle armi ha fatto i più grandi incassi e addirittura ha fondato un partito che fu di maggioranza relativa. A quanto pare ci saranno anche gli ucraini fuori dal teatro Ariston ad applaudire il loro presidente. Magari chi è da quelle parti potrebbe farci un salto in quella parte della barricata.

Ma perché i pochi minuti di Zelensky a Sanremo fanno tanta paura, danno tanto fastidio? Non è certo perché si disturba la gara canora che già dura un’infinità di ore per giorni fino a notte fonda, da ammazzare il più insonne degli italiani. Forse una spiegazione potrebbe essere legata al fatto che, parlando in programma nazionalpopolare e seguito da decine di milioni di telespettatori, il presidente ucraino potrebbe convincere gli italiani incerti della brutalità russa e sulla necessità di difendere i confini occidentali dell’Europa. Far cambiare idea a chi pensa «ma a noi di questi che ce ne frega?».

C’è un pezzo non minoritario che ritiene che la guerra in Ucraina sia l’unica e primaria fonte dei rincari energetici. Oppure che l’Italia insieme all’Europa è supina all’America, che stiamo facendo una guerra che non è la nostra. Oppure che abbiamo provocato l’orso russo e ora noi dobbiamo spendere tutti questi soldi per armare gli ucraini, con il rischio dell’atomica. Valutazioni in buona fede per alcuni, polemiche politiche anti occidentali e anti americane per altri che arrivano a dire, come fa Marco Travaglio, che prima o poi dovremo fare i conti con i corrotti di Kiev e vedere dove sono finite tutte le armi che stiamo dando a quello con la maglietta da fumetto.

Ora, senza dubbio, come ha fatto tutte le volte che è intervenuto pubblicamente, Zelensky sa come fare comunicazione. Parla alle opinioni pubbliche occidentali che cominciano a essere stanche. La guerra sarà lunga, purtroppo. Ed essendo noi una democrazia in cui votare conta ancora qualcosa, potrebbe succedere che i governi occidentali stacchino la spina agli ucraini. Con il risultato di farli fagocitare da Putin e di assistere alla marcia dei macellai della Wagner nelle strade di Kyjiv.

C’è tutto questo. Ma c’è anche quello che disse Totò Cutugno in quel Sanremo del 2013 con alle spalle gli impettiti soldati del coro russo. Disse che Sanremo è molto seguita in Russia. Allora magari quel personaggio da fumetto vuole parlare anche ai russi, a quelle famiglie che non hanno visto più tornare i loro figli. Non sappiamo quanti potrà convincerne, quali argomenti userà. Magari in quel momento l’etere russo sarà oscurato. Di sicuro farà incazzare Putin, che non vedrà l’ora di conoscere il vincitore del festival di Sanremo.

Estratto dell’articolo di Stefano Feltri per “Domani” il 26 gennaio 2023.

[…] Il parlamento ha appena votato a favore del decreto che proroga fino al 31 dicembre la possibilità per il governo di inviare armi a Kiev attraverso atti interministeriali, cioè senza passare dallo scrutinio delle Camere. […] Varie fonti confermano che l’attesa molto più lunga del previsto per il decreto sul sesto pacchetto e la prudenza semantica sulla natura del supporto del governo Meloni a Kiev si devono al fatto che Lega e Forza Italia stanno continuando a tenere le posizioni filorusse che hanno sempre caratterizzato i loro leader Silvio Berlusconi e Matteo Salvini. Non tanto in parlamento, dove restano allineati con la maggioranza, ma nelle interlocuzioni dirette all’interno del governo.

In questi giorni Berlusconi – che ancora pochi mesi fa diceva «la guerra è colpa di Zelensky» – e Salvini, leader di un partito ancora formalmente gemellato con la putiniana Russia Unita, hanno fatto pressioni sul ministro della Difesa Guido Crosetto perché il pacchetto di aiuti militari venisse rimesso in discussione. La notizia è arrivata agli americani che non hanno affatto gradito […] 

[…] Il ministro Crosetto […] ha retto e respinto le pressioni. Fonti di Fratelli d’Italia […] confermano la differenza di vedute e dicono che c’è stato bisogno di spiegare e convincere leghisti e forzisti della necessità di tenere una linea ferma sull’Ucraina. […] Giorgia Meloni è uno dei pochi capi di governo della coalizione a sostegno di Zelensky a che non è ancora andata a Kiev […]

Zelensky a Sanremo, il caso non si chiude: sale la tensione sui vertici Rai. Storia di Antonella Baccaro su Il Corriere della Sera il 28 Gennaio 2023.

Chi rischia di saltare per la polemica sulla partecipazione di Volodymyr Zelensky a Sanremo non è la partecipazione del presidente ucraino, che appare salda (cancellarla provocherebbe a questo punto un incidente diplomatico) ma la poltrona di Carlo Fuortes a capo del consiglio di amministrazione della Rai. Anche ieri Matteo Salvini non ha mancato di rimarcare la propria contrarietà alla presenza nella manifestazione canora del leader straniero. Lo ha fatto prima scherzando: «Pensavo di autoinvitarmi per cantare due canzoni». Per poi aggiungere più tardi: «Non è con un’apparizione a Sanremo che si mette fine a questa guerra». La Lega ieri è sembrata tenere il punto anche con l’europarlamentare Matteo Adinolfi, secondo cui «la Rai dovrebbe rivedere questa posizione su Zelensky a Sanremo». Mentre Maurizio Lupi (Noi Moderati) sostiene che «dare voce a Zelensky sia un bene, per ricordare che c’è un popolo aggredito che lotta per la propria libertà e indipendenza». E Angelo Bonelli (Avs) rivendica uno spazio per il video nel quale il musicista Shervin Hajipour canta «Baraye», canzone di protesta per la morte dell’attivista dei diritti iraniana Mahsa Amini, uccisa dal regime. Ma la partita in gioco a questo punto non è più Sanremo ma un’altra, e riguarda l’amministratore delegato della Rai che domani, salvo ulteriori rinvii, dovrebbe portare al voto il bilancio aziendale 2023, già presentato nella scorsa riunione. Ma gli equilibri che fin qui gli hanno consentito di spuntarla sembrano compromessi a causa di un fronte sempre più consistente che vorrebbe un ribaltone in Rai. Un fronte che si contrappone a quello guidato da Giorgia Meloni, più favorevole a non aprire il vaso di Pandora della Rai, lasciando Fuortes fino a scadenza (2024) e al massimo affiancandolo con una figura tecnica, forse solo con un ulteriore passaggio sul Tg1, dove Monica Maggioni potrebbe lasciare per una trasmissione politica serale. Tutto questo però sembra non bastare ai fautori del ribaltone, irritati perché Fuortes parlerebbe solo con Meloni, che trovano la massima espressione nella Lega. Il voto contrario (o l’astensione) del membro leghista del cda Igor De Blasio, dopo la polemica su Zelensky sembra inevitabile, a dispetto delle parole di miele che ieri Salvini ha speso per Meloni da Milano. Il motivo per cui il tempo dei ribaltonisti stringe, lo spiega una fonte ben informata: «Sanremo, se va bene, equivale a un condono tombale per l’ad». E che Fuortes conosca il valore salvifico degli ascolti, lo dimostra l’enfasi con cui ieri ha sottolineato il successo della prima serata di RaiUno «Binario21», seguita giovedì scorso da più di 4 milioni e mezzo di spettatori. E che gli ascolti pesino, lo sa anche Mediaset che per la prima volta ha organizzato una controprogrammazione a Sanremo. Se davvero domani il leghista boicottasse il budget, si andrebbe alla conta: c’è da aspettarsi, oltre al voto favorevole dello stesso Fuortes, quello della presidente Marinella Soldi (che finora non è mancato), e probabilmente quello di Francesca Bria (espressa dal Pd). Voto contrario o astensione verrebbero dal membro del M5S Alessandro di Majo e dal rappresentante dei dipendenti Riccardo Laganà. Fin qui: tre a tre. Ago della bilancia sarebbe Simona Agnes (FI), finora sempre fedele a Fuortes. Ma ieri dalle parti del Cavaliere non giungevano le solite rassicurazioni circa il posizionamento in cda, segno che anche per Forza Italia potrebbe essere arrivato il momento di «scuotere l’albero», prima che Sanremo spazzi via tutto, ma anche prima delle Regionali, il cui esito non sarà indifferente per gli equilibri nel governo. Se così fosse, a Fuortes non resterebbe che un ulteriore rinvio per prendere tempo e magari consentire alla maggioranza di trovare l’eventuale quadratura.

"Basta ipocrisie su Zelensky Sanremo come Hollywood". Il filosofo difende l’ospitata del presidente al Festival: "Siamo in guerra e la propaganda è strumento bellico". Laura Cesaretti il 29 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Al solo sentir nominare il Festival di Sanremo, Massimo Cacciari (filosofo, ex sindaco di Venezia e parlamentare, anima perennemente critica della sinistra) si scoccia visibilmente. «Ma dai, ma per l'amor di dio, non ho mai guardato quella roba in vita mia, figurarsi se lo faccio stavolta perché c'è o non c'è Volodymyr Zelensky».

Ma non la stupisce la surreale polemica armata da politici e soi-disant intellettuali filo-russi, ma non solo, contro l'intervento del leader ucraino in quella che da anni è la principale tribuna tv italiana?

Ci sono passati tutti, da Gorbaciov alla regina di Giordania ai sindacalisti dell'Italsider, ma il presidente di un paese massacrato no? «A quella polemica mi son ben guardato dal partecipare, come avrà notato. Anche perché è di una ipocrisia ridicola: è in corso una guerra, e noi in siamo parte in causa di quella guerra. Con la decisione di inviare carri armati e sistemi di difesa siamo a tutti gli effetti partecipi: non combattiamo direttamente, ma siamo in guerra. E la propaganda è strumento essenziale di ogni evento bellico, basta ricordare le produzioni cinematografiche di Hollywood durante la Seconda guerra mondiale. Può anche farci schifo la propaganda mischiata alle tragedie, ma in tempi di guerra è inevitabile. Di che ci stupiamo?».

Beh, oddio: non è che alla Bbc, negli anni Quaranta, invitassero Goebbels a spiegare le buone ragioni di Adolf Hitler e la sua legittima difesa del Lebensraum tedesco. Qui invece abbiamo i propagandisti di Putin e i loro scherani italiani invitati in tutti i talk-show televisivi: mi pare difficile parlare di propaganda a senso unico a favore del paese aggredito, ossia l'Ucraina.

«Sì, ma anche in Inghilterra fino al giorno prima c'erano i fautori dell'appeasement con Hitler che dicevano liberamente la loro».

Secondo lei però siamo già al giorno dopo: siamo in guerra, dice. Come finirà questa guerra?

«Malissimo per chi la ha voluta e iniziata, ossia Vladimir Putin. Il capo della Russia ha fatto un errore folle e sciagurato, probabilmente anche indotto da un fallimento disastroso della sua intelligence che non ha capito nulla del nemico. E ha ottenuto esattamente quello che non voleva, ossia un ricompattamento occidentale forzato, sotto l'egemonia Usa. L'Ucraina sarà inevitabilmente il VietNam del Cremlino».

Non teme dunque quella «terza guerra mondiale», con contorno di bombe atomiche a gogò, che minacciano i russi e che paventano tutti i «pacifisti» più indulgenti col Cremlino?

«Macché. I cosiddetti leader politici pacifisti, da Matteo Salvini a Giuseppe Conte, non sono mai riusciti a spiegarci come, secondo loro, si dovrebbero raggiungere la tregua e il cessate il fuoco: riempirsi la bocca della parola pace è un velleitario quanto vacuo esercizio fine a se stesso, se non spieghi in che modo politicamente la si può ottenere. Certo, la guerra è brutta: si sa da millenni: bellum nefandum, diceva Virgilio. Ma non basta dirlo per impedirla».

Lei prevede addirittura un «Vietnam» per Mosca.

«La Russia sarà inevitabilmente sconfitta, non ha alcuna via d'uscita se non cambia la propria leadership cleptocratica e insensata. L'oligarchia corrotta di Mosca non vuole perdere la faccia ritirandosi, ma dopo la follia prepotente di Putin che ordina l'invasione dell'Ucraina, sottovalutando l'incredibile forza del nazionalismo di Kiev, non hanno alcuna speranza di cavarsela. La guerra andrà avanti fino al patatrac della Russia. E gli Usa stanno semplicemente facendo il loro mestiere di impero globale: per loro la sfida decisiva non è certo la Crimea, né l'Ucraina».

E qual è?

«L'appuntamento fatale è nel Pacifico, con la Cina. E devono arrivarci nelle condizioni migliori, con l'Occidente ricompattato e la Russia indebolita dalle sue scelte tragiche e fallimentari, che stanno costando centinaia di migliaia di vite agli ucraini ma anche ai russi spediti ad immolarsi al fronte. Mentre l'Europa intera, che ormai da generazioni ha dimenticato - a differenza degli Stati Uniti - cosa vuol dire combattere una guerra, non ha capito cosa stava succedendo, che rischi si correvano. E ha fallito ogni tentativo di esercitare una propria leadership e prevenire il conflitto, a cominciare dalla Germania. La verità è che il popolino europeo vive in pace da 80 anni, e si è convinto che questo sia lo stato normale e naturale delle cose. Purtroppo non lo è».

Estratto dell’articolo di Silvia Fumarola per repubblica.it il 28 gennaio 2023.

In quello del 1997 con Mike Bongiorno e Valeria Marini, si presentò vestito da angelo con le scarpe da ginnastica, lo slogan "Comunque vada sarà un successo" diventò un tormentone. Nel 2001 ci tornò come giurato, nel 2008 affiancò Pippo Baudo, la strana coppia della storia dell'Ariston: Piero Chiambretti conosce bene il festival di Sanremo.

 La colpisce quello che sta succedendo con Zelensky?

"Per cominciare direi che non mi colpisce più nulla. Quello che succede, da qualunque punto di osservazione, non stupisce".

 Neanche la guerra sul palco dell'Ariston?

"Ecco, la guerra è perfino più sorprendente rispetto a quanto possa essere considerata stupida, abbiamo sentito parlare di tante guerre lontane, così lontane da non interessarcene. Ora ce l'abbiamo in casa e c'è il rischio dell'atomica. Vedere intelligenze e cervelli che mostrano la loro forza bellica e non diplomatica, diventa paradossale. Sentire che Zelensky ha il tempo di venire in collegamento al festival di Sanremo, che è il programma più leggero e di evasione, a raccontarci che ha bisogno di armi, se non fosse vero sarebbe un'idea importante per un film dei Monty Python".

 Ma non è un film.

"Facendo le dovute proporzioni, Zelensky mi ricorda il presidente Cossiga, che parlava ovunque. Lui picconava il palazzo, Zelensky cerca di difendere il suo, che è l'Ucraina. Sono dalla sua parte, l'ardimento è da apprezzare".

 (…)

 Cosa consiglierebbe a Amadeus?

"Non ha bisogno di consigli, ha trovato un'identità. Non si sa se sia Amadeus che fa il festival, o è il festival che fa Amadeus".

Fulvio Abbate per Dagospia il 28 gennaio 2023.

Zelensky al Festival di Sanremo è un durissimo colpo al cuore della casalinga di Vladivostok. Al di là d’ogni considerazione prosaica e delle mille obiezioni politiche e di opportunità che giungono dalla “quinta colonna” filo-russa vivamente attiva nel nostro Paese, l’evento prossimo, sebbene da remoto, ha valore tutt’altro che irrilevante. Una pugnalata al silenzio domestico ufficiale della Russia putiniana, pronta ad abbattere virtualmente la stessa aura poliziesca presidenziale. Una risposta notevole sferrata, sia detto con retorica tinteggiata di glamour, a tutti gli aggressori, non soltanto in armi, dello Stato sovrano d’Ucraina.

    Ben oltre ogni semplice atto di propaganda, il gesto assume anzi valore politico straordinario, unico, oltreché, va da sé, spettacolare, mediatico. Da Sanremo, lo spettro in mimetica di Zelensky apparirà appunto alla casalinga di Vladivostok, al tassista di San Pietroburgo, alla callista di Ekaterinburg, alla influencer di Smolensk, ai macellai di Groznyj.

 Il Festival di Sanremo, dai giorni di Breznev e dell’Urss da molti incredibilmente rimpianta, storia nota, vale milioni di telespettatori in Russia. Quando le pupille della già citata casalinga di Vladivostok e del risaputo vinaio di Mosca troveranno d’improvviso il “nemico” Zelensky, dalla propaganda ufficiale descritto "a capo di una banda drogati e neonazisti", e ancora "satanisti", al posto di Toto Cutugno, del mio carissimo amico Pupo, dei rimanenti Ricchi e Poveri sarà forse a tutti chiaro che la battaglia è cosa seria, qualcosa per Putin è già perduto.

Non occorre ricordare che in Russia, proprio il Festival di Sanremo, è ragione di culto, il suo sipario canoro nel tempo ha offerto occasioni di remake feticistici, amabile parodia della lontana e amata Italia da evocare a un pubblico di telespettatori post-sovietici.

 Con Ivan Urgant che nelle vesti del “bravo presentatore” italiano Giovanni Urganti portava in scena un cast di cantanti russi dai nomi italianizzati che, leggo testualmente, si alternavano “sul palco esibendosi con una serie di hit riadattate in italiano: Elard Giarahov diventa Dario Giaracci, Dead Blonde è Bionda Morta, My Michelle & Jeva Pol'na sono Mia Michela & Eva Pollini, Manizha è Manigi. E persino Valerij Leontjev, uno degli artisti pop più famosi in Russia, trasformato in Valerio Leonci”. Kermesse stroboscopica, stile anni ’80.

Apprezzabilmente, Ivan Urgant-Giovanni Urganti, lo scorso anno si è schierato contro la guerra d’aggressione all’Ucraina, e per questa ragione prontamente radiato dalla televisione pubblica russa. Zelensky, dal palco infiorato dell’Ariston, ne colmerà il vuoto in palinsesto.   

Estratto dell'articolo di Marco Cremonesi per il Corriere della Sera il 28 gennaio 2023.

Dentro e fuori gli schieramenti, dentro e fuori i partiti. L’intervento del presidente ucraino Zelensky ha già determinato un’onda di piena che non si placa.

 Nell’area di governo erano già risuonate le parole di Matteo Salvini («Spero che il palcoscenico della città dei fiori rimanga riservato alla musica») e quelle di Maurizio Gasparri (FI), a sua volta contrario. Ma dal partito di maggioranza e a un passo da Giorgia Meloni, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giovanbattista Fazzolari scuote la testa: «Chi non fa una bella figura è l’Italia...».

 Perché Zelensky «non ha mai chiesto di venire a Sanremo. Che parli o che non parli, è un problema tutto italiano». Insomma: «Stiamo facendo una pessima figura». Quanto all’opportunità dell’intervento, Fazzolari ricorda che «Sanremo da anni è diventato il contenitore di temi di altra natura». E dunque, «non mi parrebbe di rottura se uno dei temi che si affrontano fosse di interesse mondiale, riguardante la vita e la morte di tante persone».

(…)

 Estratto dell'articolo di Renato Franco per il Corriere della Sera il 28 gennaio 2023.

 Mentre intorno infuria la tempesta politica, viale Mazzini assomiglia a un’oasi di pace apparente, la quiete dietro la tempesta. La Rai sta ferma e non ha intenzione di cambiare per il momento il suo palinsesto sanremese: Zelensky ci sarà. Tra i corridoi della tv di Stato c’è chi si sorprende di questa agitazione parlamentare, molti si chiedono dove stia il problema, visto che l’Italia è sempre stata dalla parte dell’Ucraina e ha appena deciso di aiutarla con uno dei sistemi di difesa aerea più sofisticati al mondo.

 L’equazione è che se il Paese sotto attacco russo è amico dell’Italia, inevitabilmente lo è anche il suo leader.

Da pareti che hanno avuto accesso a dialoghi delicati filtra soprattutto che la scelta è stata condivisa a più livelli (anche politici) e che Amadeus gode della stima e fiducia di tutti, già di suo e senza considerare che il prossimo Festival di Sanremo «rischia» di portare nelle casse della tv pubblica un bottino da 50 milioni di euro in pubblicità (come ha rivelato Il Sole 24 ore ).

 In Rai fanno anche notare che il Festival di Sanremo è solo una delle tante passerelle mediatiche che Zelensky ha deciso di calcare: era già intervenuto ai festival di Cannes e Venezia e, due settimane fa, ai Golden Globes. Insomma dopo il cinema tocca alla musica, niente di strano... La richiesta di esserci poi era partita dallo stesso Zelensky che aveva incontrato Bruno Vespa a Kiev per un’intervista. Il giornalista aveva quindi «girato» ai vertici Rai e ad Amadeus il desiderio del leader e in nome di un accordo che accontentava tutti la decisone è stata presa. «Non capisco francamente tutto questo rumore per un breve intervento di Zelensky — spiega Vespa —. Al Festival hanno partecipato alte personalità della politica internazionale e sono stati trattati tutti i temi sociali, anche scabrosi e controversi, mi dispiace questo malanimo nei confronti di un uomo che si sta battendo con straordinario coraggio per salvare la libertà del proprio popolo da una pesantissima aggressione» (...)

Estratto dell’articolo di Antonella Baccaro per il “Corriere della Sera” il 29 gennaio 2023.

Bruno Vespa è un fiume in piena. Quando gli si chiede della partecipazione del presidente dell’Ucraina Volodymyr Zelensky al Festival di Sanremo, stargli dietro è difficile. Frena solo quando si entra in «politica»: le parole diradano quando si adombra la sua funzione di consigliori di Giorgia Meloni. E si fanno «no comment» quando si chiede della striscia informativa che dovrebbe essergli affidata dopo il TgUno.

 Direttore, com’è nata l’idea della partecipazione di Zelensky a Sanremo?

«Nella preparazione del mio viaggio in Ucraina, Zelensky ci ha fatto sapere che avrebbe gradito partecipare al Festival. Il che non è per lui una grande novità: è stato a Venezia, a Cannes, ai Golden Globe».

Lei a chi ne ha parlato?

«Ai vertici aziendali, poi con Amadeus e, tutti d’accordo, hanno deciso la collocazione nella serata conclusiva».

 Senza passare da Palazzo Chigi?

«Immaginare che avremmo dovuto chiedere il permesso alla presidenza del Consiglio è surreale».

 Veramente un messaggio divulgato a milioni di spettatori in Eurovisione ha una valenza politica, se trasmesso sulla tv pubblica.

«Ricordiamo sempre la libertà dell’informazione. Nel ‘90 intervistai Saddam Hussein contro il parere del governo italiano. Ma stavolta l’Italia è molto schierata con l’Ucraina, fino a prova contraria. Piuttosto ho la sensazione che una parte dell’opinione pubblica italiana abbia un po’ sottovalutato quello che sta succedendo in Ucraina». […]

Intanto a frenare è la politica: Salvini si è detto contrario alla partecipazione di Zelensky.

«Evidentemente alcuni leader politici assumono le ragioni di quella parte dell’opinione pubblica che esprime perplessità. Opinione che non condivido ma che rispetto».

Da “Posta e Risposta – la Repubblica” il 30 gennaio 2023.

Caro Merlo, basta un’occhiata ai nomi di quelli che non vogliono Zelensky a Sanremo per volere Zelensky a Sanremo.

Arianna Gori – Pistoia

 Risposta di Francesco Merlo:

L’impegno come intrattenimento a Sanremo è sempre stato borderline con l’avanspettacolo, con lo scandalo scintillante e prefabbricato per acchiappare ascolti.

E non si capisce mai se il festival peggiora le buone cause o se le buone cause migliorano il festival.

 Ma ascoltare e aiutare Zelensky vale sempre la pena. Lei ha ragione: i soliti putiniani pavidi, che in Parlamento si vergognano, usano il festival per scatenarsi e, finalmente spavaldi, cantano Putin a Sanremo. Il vero spettacolo sono loro.

Andrea Nicastro per il “Corriere della Sera” il 30 gennaio 2023.

Se avete vissuto nell’ex Urss potete andare direttamente alla prima domanda. Se invece non conoscete Verka Serdyuchka dovete immaginare una star come Raffaella Carrà in versione drag queen. […]

 Andriy Danylko si traveste con costumi improbabili e trash per diventare Serdyuchka, incarnazione della trasgressione e del divertimento post comunista. È stato/a tra i soli 5 cantanti ad esibirsi al Cremlino.

 Serdyuchka, cosa ne pensa di Zelensky a Sanremo? C’è chi dice sia sbagliato mischiare canzoni e politica.

«Allora dovrebbero spiegarlo anche a Putin. Sanremo era un evento imperdibile per tutti noi sovietici e lo è ancora. Io avevo in cameretta il poster di Adriano Celentano. […]

«Serdyuchka rappresentava l’Ucraina all’Eurovision del 2007. Il Cremlino però mi considerava cosa sua, 100% russa. Per punirmi inventarono che un ritornello senza senso, “lasha tumbai” volesse dire “Russia Goodbye” insultando la Grande Russia. Giuro che non ci avevo pensato» […].

 Perse i fan russi?

«Allora no e questo fece arrabbiare Putin ancora di più.

Dissero che ero nazista siccome avevo messo anche parole tedesche in una canzone, ucraina e nazista. Mi impedirono i concerti, ma la gente ballava lo stesso con le mie canzoni. A Mosca ci sono almeno 3 sosia di Serdyuchka per ogni quartiere. Si esibivano alle feste che non potevano permettersi l’originale».  […]

Quando è stata bandita per 50 anni dalla Russia?

«Con le mie critiche all’invasione del 2022. Vorrà dire che a 98 anni tornerò a Mosca e andrò a cercare la tomba di Putin. Se Zelensky a Sanremo potrà aprire qualche cervello sarà solo un atto di giustizia».

 Ha incontrato Putin?

«Sì, al Cremlino nel 2004. A fine show, ero ubriaco e con tutti i lustrini di Serdyuchka. L’ho visto e gli ho fatto segno col dito: “Vieni carino, vieni su”. Lui a gesti mi ha detto: “No, scendi tu da me”. E io sono corso. Penso che potesse anche innamorarsi. Mi ha invitato per il dopo spettacolo, ma non ci sono andato» […]

Estratto dell’articolo di Alessandra Ghisleri per “la Stampa” il 28 gennaio 2023.

Il Festival di Sanremo è sempre stato, per gli italiani, lo spettacolo nazional-popolare […] L’intervento del Presidente ucraino Zelensky […] è tornato a scatenare le rispettive fazioni legate al conflitto che per qualche mese si erano eclissate […] Pacifisti anni 90, filo-putiniani, intellettuali "reazionari", atlantisti, governisti, polemisti... […] In sostanza, come esprimono i sondaggi realizzati per "Porta a Porta", gli italiani in maggioranza sentono il conflitto russo-ucraino lontano (78,2%) con una percentuale superiore a quella di metà dicembre.

Nei cluster analizzati solo i giovani tra i 18 e i 25 anni si differenziano nelle risposte: il 15,8% sente vicine le ostilità della guerra rispetto all'8,2% del dato nazionale, mentre il 51,2% le sente prossime e ben il 33% non ha saputo offrire una valutazione. Nei dati si conferma quella tendenza che perdura dai primi mesi delle ostilità in cui gli italiani continuano a mostrarsi in maggioranza contrari all'invio delle armi all'Ucraina (52%). Questo trend non ha mai presentato una singola inversione.

Si può dire che solo gli elettori di Pd, FI e Azione con Italia Viva si dichiarano maggiormente favorevoli. Così se il 33,9% degli intervistati ritiene doveroso il sostegno all'Ucraina con l'invio dei Panzer – Leopard tedeschi, ben il 58% non legge positivamente questa scelta principalmente perché teme l'inasprirsi della guerra con la possibilità che la Nato sia costretta ad entrare come parte attiva nel conflitto. Naturalmente, su questa possibilità il 68,5% del campione si dichiara contrario […]

Questo pensiero stimola le paure più profonde degli italiani che […] leggono tutto ciò come un'importante crisi per la sicurezza europea. […] Il possibile sfondamento della guerra da fatto locale a fatto europeo spinge il 38,2% dei cittadini ad augurarsi un negoziato di cessate il fuoco con i russi "alle spalle" degli ucraini per imporlo agli aggrediti.

Il 25,6% è convinto che riducendo il sostegno militare a Kiev si potrebbe riuscire a convincere Zelensky dell'impossibilità di vincere e quindi giungere ad una sorta di negoziato. Infine, l'8,4% auspica un impegno diretto di tutti gli "alleati" per salvare l'Ucraina andando direttamente al confronto militare con la Russia, anche a rischio di perdite importanti per il nostro Paese. […] Uno su tre degli elettori (il 32,5%) è convinto che prima o poi si riuscirà a negoziare con i russi imponendo all'Ucraina una soluzione.

Un cittadino su quattro (il 24,9%), invece sostiene che piano piano si ridurrà il sostegno militare a Kiev, mentre il 10,2% pensa che alla fine si entrerà in maniera attiva nel conflitto. Ancora una volta il 41,4% dell'elettorato del Pd non sa indicare una sua visione nel merito. […]

Estratto dell’articolo di Uski Audino per “la Stampa” il 30 gennaio 2023.

«L'eterno grigio» del cielo berlinese è molto più che pura meteorologia, è una condizione dello spirito, un invito alla riflessione. E dal tetto del Berliner Scholss, non solo la cupola del Duomo di Berlino e la torre della televisione di Alexanderplatz acquistano una nuova prospettiva. Anche la guerra in Ucraina e il brulicare di opinioni sulla fornitura di nuovi sistemi d'arma, come i carri armati Leopard 2, guadagnano in chiarezza.

 «Il giorno dopo l'aggressione di Putin all'Ucraina ho pensato: "datemi il mio libretto degli assegni e ditemi quanto vi serve per comprarvi armi e ricacciarlo indietro"», ci racconta Barbara, 64 anni, professoressa di germanistica. […].

 «Questa naturalezza per poco mi è costata il legame con la mia migliore amica», dice. «Da un anno non possiamo più parlare di politica. È doloroso. Lei ripete solo pace, pace, pace e abbassa lo sguardo. Per noi tedeschi le cose sono più difficili», tenta di spiegare: «Per quelli nati del dopoguerra come me», continua Barbara, «c'era la generazione dei padri e dei nonni, implicata in crimini terribili, e poi c'era la nostra, nata in tempo di pace e cresciuta al motto "mai più guerra"». Non è semplice cambiare punto di vista: «Per noi essere buoni, stare dalla parte giusta, significa volere la pace».

Anche i sondaggi raccontano di questa spaccatura tra la popolazione, una divisione che è insieme politica, geografica e generazionale. Secondo un rilevamento Forsa di pochi giorni fa una stretta maggioranza dei tedeschi, il 53%, sostiene la decisione del governo di inviare i panzer Leopard 2, mentre il 39% non la condivide. E la percentuale dei contrari all'Est diventa ancora più alta: il 65 %. Nei nuovi Laender, come vengono chiamati le 5 regioni orientali, è alto in particolare il timore di una reazione militare russa contro la Germania, il 59% contro il 33% dei Laender dell'Ovest.

[…] Anche a sul fronte orientale della Germania il panorama è tutt'altro che omogeneo. C'è chi si sente ancora legato a quel che rimane dell'Unione sovietica e chi invece è rimasto, allora come oggi, ostile. […] «Da una parte l'Ucraina ha tutto il diritto di difendersi e riprendersi i suoi territori, dall'altro questo invio dei carri armati significa che la guerra durerà più a lungo e ci saranno più vittime» dice. «Il cancelliere però ha fatto bene a pensarci a lungo» conclude la pensionata. «Se stiamo uniti, siamo tutti più sicuri».

 […] A Steffi, ingegnere bavarese da vent'anni a Berlino, non piace rispondere sulla questione dell'invio di armi: «Il punto non è essere favorevoli o contrari ai Leopard 2, a me è mancato un dibattito serio sulla partecipazione alla guerra», ci spiega, uscita da lavoro. «Io sono iscritta al partito dei Verdi anche perché si sono sempre detti contrari a mandare armi a Paesi in guerra. E adesso?». E aggiunge: «Se dici certe cose in pubblico vieni guardato male. Essere contro l'invio delle armi, equivale a sostenere Putin», dice. […]

Marco Zonetti per vigilanzatv.it il 28 gennaio 2023.

Interpellato da Luca Sommi ad Accordi e Disaccordi, programma di approfondimento in onda sul Nove il venerdì in seconda serata, il direttore del Fatto Quotidiano Marco Travaglio non ha risparmiato strali nei confronti della decisione della Rai di ospitare l'intervento del presidente ucraino Volodymyr Zelensky al Festival di Sanremo.

Sulla scelta della Tv di Stato che sta dividendo l'opinione pubblica, e alla domanda di Sommi se sia più un errore della Rai o più un errore di Zelensky, "perché tragedia e farsa sono molto vicine, spesso", Travaglio è stato oltremodo chiaro. "Da noi in Italia - ha risposto il direttore del FQ - siamo abilissimi a trasformare le peggiori tragedie nelle migliori farse. Questa è una barzelletta, ovviamente. Vespa che fa da "mezzano" è un'altra barzelletta. La Meloni che usa Vespa come suo consigliere, quella che doveva rivoluzionare... e che si mette in mano al re dei gattopardi, è tutta una farsa".

Secondo Marco Travaglio, l'ospitata di Zelensky in collegamento con l'Ariston: "Porterà simpatia all'Ucraina? No. Renderà ancor più impopolari le uniche vittime di questa guerra che sono gli ucraini. Perché, a furia di retorica bellicista, a furia di danni alla nostra economia [...] stiamo attenti, perché l'indignazione per la guerra e per l'aggressore non dura in eterno. La solidarietà per gli ucraini non dura in eterno. C'è stanchezza. C'è sfinimento. C'è preoccupazione. Soprattutto perché nessuno vede qual è l'obiettivo... e quindi alla fine diventeranno antipatici gli ucraini. E la presenza di Zelensky a Sanremo, tra sorrisi e canzoni, renderà più antipatici e più insopportabili gli ucraini, che è la cosa peggiore che si possa fare se vogliamo davvero aiutarli".

Estratto dell'articolo di repubblica.it il 28 gennaio 2023.

"Alla fine lo sgangherato livello del dibattito pubblico italiano produrrà il suo tragicomico risultato, e passerà la tesi per cui Zelensky - un leader che da un anno guida la resistenza di un Paese europeo contro l'invasione russa - ha chiesto di andare a Sanremo ma non è stato accettato. Come i Jalisse". Lo scrive su Facebook il direttore del TgLa7, Enrico Mentana.

 Anche il giornalista con una battuta sceglie di intervenire nel dibattito sulla presenza del Presidente ucraino con un videomessaggio nella serata finale del festival. La compagna di Mentana, la giornalista Francesca Fagnani conduttrice di Belve, sarà una delle cinque coconduttrici del festival insieme ad Amadeus e Gianni Morandi.

I favorevoli e i contrari

Del fronte dei contrari fanno parte: Matteo Salvini, Beppe Grillo, Alessandro Di Battista, Carlo Freccero, Maurizio Gasparri, Vauro Senesi, Fabio Volo, Giuseppe Conte, Carlo Calenda, Gianni Cuperlo e Vittorio Sgarbi. Ma  c'è anche un ampio fronte che sostiene la scelta di Amadeus e della Rai: il presidente della Regione Liguria, Giovanni Toti, il sindaco di Firenze del Pd, Dario Nardella, il segretario di +Europa, Benedetto Della Vedova, il deputato del Pd Matteo Orfini, l'eurodeputata Pd Alessandra Moretti, l'ex ministro degli Esteri, Luigi Di Maio.

Sanremo, Zelensky e il mistero delle interferenze politiche sul video diventato lettera. Antonella Baccaro su Il Corriere della Sera il 07 Febbraio 2023

In merito alla partecipazione del leader ucraino al Festival di Sanremo, Viale Mazzini sostiene che «non corrisponde al vero che la Rai si è rifiutata di mandare in onda un suo video»

Chi ha deciso che la partecipazione del presidente ucraino Volodymyr Zelensky al Festival di Sanremo non consistesse più in un video di due minuti ma in un testo letto da Amadeus? La spiegazione fornita dal direttore del Prime Time Stefano Coletta, che sarebbe stata una scelta di Zelensky riferita all’ambasciatore ucraino in Italia, accrediterebbe la pista diplomatica. E cioè che sarebbe stato davvero il leader ucraino a preferire un’apparizione più discreta in una sede come il Festival, essendo prevista una sua presenza più incisiva a Bruxelles, nel consiglio Europeo, giovedì prossimo.

Ma leggendo tra le righe delle dichiarazioni di giornata emergono quei mal di pancia nella maggioranza, sopiti ma mai placati, che secondo alcuni avrebbero prodotto la decisione comune di «abbassare i toni». Paventa questa interpretazione Maurizio Lupi (Noi moderati) quando dice: «Siamo stupiti da questa scelta che, ci auguriamo, non sia dovuta a motivi “politici” perché, ricordiamolo: in questa guerra c’è un aggressore e c’è un aggredito».

Chi non si nasconde dietro un dito è il vicepresidente del Senato, Maurizio Gasparri (Forza Italia) che sembra proprio rivendicare alla politica decisioni che finora sarebbero planate su altri tavoli: «Sinceramente — dichiara — sarebbe stato meglio che la Rai non si fosse infilata in questa vicenda». E poi: «Non ho capito come sia nata. Forse dalla volontà di qualche autorevole esponente della galassia Rai, più che da una decisione dei suoi vertici, che mi sono sembrati più coinvolti nell’iniziativa altrui, che promotori di iniziative proprie».

Insomma Gasparri rilancia l’interpretazione secondo cui la Rai, ma anche il governo, sarebbero stati travolti dall’altrui attivismo, e poi costretti a gestire un invito che ormai non si poteva più ritirare, alla fine ridimensionandolo . Ma che forse, alla fine, è stato ridimensionato. La decisione finale solleva perplessità, come quella dell’ex presidente della Camera, Pier Ferdinando Casini: «Credo che Biagio Agnes (ex direttore generale Rai, ndr) si rivolti nella tomba a pensare a come si sia ridotta la tv pubblica».

A sera ce n’è abbastanza per una replica della Rai: «Non corrisponde al vero che la Rai si è rifiutata di mandare in onda un suo video. Al contrario, la Rai si è sempre dichiarata disponibile a raccogliere un intervento in forma video o audio. È stato l’ambasciatore dell’Ucraina a Roma ad avanzare la richiesta di far leggere un testo scritto del presidente».

Zelensky a Sanremo solo con un testo. Il compromesso dopo le polemiche. Giovanna Vitale su La Repubblica il 07 Febbraio 2023

In Rai assicurano che la decisione di inviare una lettera e non un videomessaggio è stata presa dall'Ucraina

In Rai assicurano che no, loro non c'entrano: la decisione di inviare un testo scritto al Festival di Sanremo, anziché il videomessaggio che Volodymyr Zelensky avrebbe dovuto registrare per la serata conclusiva, è stata presa dalle autorità ucraine. Comunicata giovedì scorso dall'ambasciatore in Italia, Yaroslav Melnyk, al direttore dell'Intrattenimento Prime time Stefano Coletta, che con il diplomatico aveva già qualche giorno intavolato una trattativa sul tenore del contributo previsto al clou dell'evento nazionalpopolare più atteso della tv.

"Sono un sostenitore dell'Ucraina, ma non è giusto associare la guerra alle canzonette". Il leader del Terzo polo, Carlo Calenda, a Metropolis precisa la sua posizione sull'intervento a Sanremo del presidente ucraino, che invierà un testo tradotto e letto da Amadeus: "Prima il video sì, poi il video ce lo guardiamo, come se il burocrate Rai potesse tagliarlo, poi il testo. Sconcertante".

Mario Maffucci. Estratto dell'articolo di Alessandro Ferrucci e Stefano Mannucci per il “Fatto quotidiano” il 6 febbraio 2023.

 (...)

Torniamo a Sanremo: lei ha portato Gorbaciov.

Oggi qualcuno potrebbe obiettare: quindi è giusto Zelensky. Peccato per la differenza: Gorbaciov veniva dal Nobel per la Pace e soprattutto a quel tempo non eravamo in mezzo a una guerra sanguinosa.

 Ha conosciuto Gorbaciov...

Non tanto, non parlava neanche inglese, eravamo affidati solo all’interprete e a Giulietto Chiesa (giornalista, ndr), amico dell’ex leader comunista e garante della qualità dell’impegno televisivo; (sorride) quell’anno il direttore del Festival era Fabio Fazio e lo convinsi a prendere Letizia Casta: “Va benissimo, ha un carattere forte, ci stupirà”.

 Ed è andata così.

Peccato che l’anno dopo, Fazio, abbia dato retta alla moglie e abbia scelto Ines Sastre, ragazza bella, ma che non esprimeva nulla, un pezzo di legno. Mica come la Casta.

 Insieme alla Casta c’era il premio Nobel Dulbecco: per molti lo avete svilito.

Lui non si sentiva svilito, era felicissimo; la decisione di coinvolgerlo è nata durante una riunione preliminare, quando uno di noi ha sentenziato: “Il regolamento di Sanremo è talmente complicato che ci vorrebbe un Nobel per capirlo”. “Bene! E allora prendiamo un Nobel”.

 (...)

E la Carrà?

Un anno è stata lei a condurre, ma non è andata bene, era stanca, non aveva preparato bene il Festival; dopo la prima puntata ci riuniamo e Raffaella tenta una carta: “Chiamo Banderas, è un mio amico, verrà”. Lo contatta, ci accordiamo sulla cifra, arriva e si fa accompagnare da uno spilungone vestito di nero, uno che sembrava uscito da una puntata della Famiglia Adams. Baci e abbracci tra Banderas e la Carrà.

Però...

Andiamo sul palco per provare e Iapino propone un duetto tra i due con i brani spagnoli di Raffaella. A quel punto l’uomo nero alza la mano: “Non si può fare e per due motivi. Uno perché non è previsto dal contratto. Due perché è una cagata”.

Lei è svenuto.

Aveva ragione l’uomo nero. E neanche Banderas è riuscito a risollevare la situazione; (pausa) Banderas lo abbiamo pagato bene.

 (...)

 In quanto a super ospite lei ha avuto Madonna...

Nell’anno di Vianello, ma non andò bene; (ride) Raimondo la trattò malissimo, subito dopo la sua esibizione l’ha mandata via dal palco, quando poteva scambiarci due battute.

 Cosa era accaduto?

Non lo so, forse lo aveva infastidito il suo ruolo da mega diva; il bello è che tutti hanno interpretato quel saluto frettoloso come una gag costruita, mentre anche noi rimanemmo stupiti.

 Nel 1989 avete affidato la conduzione ai “figli di...”: Rosita Celentano, Paola Dominguín, Danny Quinn e Gianmarco Tognazzi.

Un disastro, una tragedia.

Senza se e senza ma.

L’anno prima era andata benissimo con Gabriella Carlucci, mentre con quei quattro non è andato bene nulla.

 (...)

L’anno di Bongiorno e il primo con Fazio, mentre ho il rimpianto di non aver lavorato con Renzo Arbore.

Insieme qualcosa avete combinato...

Le otto puntate di Aspettando Sanremo, con anche Lino Banfi e Michele Mirabella; (sorride) una sera, mentre preparavamo il programma, Arbore mi dice: “Dobbiamo prendere uno veramente antipatico”. E allora scegliemmo Mirabella che in realtà è una persona deliziosa.

Arbore è una colonna della tv...

Con lui mi sono divertito da matti: le riunioni preparatorie si svolgevano a casa di Renzo, ed erano il vero show, qualcosa di unico, ancora più divertente del programma stesso.

 Cosa accadeva?

Arbore dava le poche linee dentro le quali ognuno poteva sbizzarrirsi con la sua creatività; il bello è che la fantasia dell’uno stimolava quella dell’altro, e in mezzo a questi fenomeni potevi venir stupito da chi meno te l’aspettavi.

 Come mai Arbore non ha mai condotto il Festival?

Perché certi ruoli non sono compatibili: il comico come Benigni o l’ironico alla Arbore non sono adatti a guidare uno show come Sanremo. Il Festival è una cosa serissima. È sacerdotale.

Il Festival cancella il video di Zelensky: solo un messaggio. Sberleffo di Mosca: "Poteva vincere..." Sanremo Dietrofront. Un mezzo passo indietro. Un po' di Zelensky ma non troppo. Niente video messaggio, ma una letterina letta da Amadeus. Laura Rio il 7 Febbraio 2023 su Il Giornale.

Sanremo Dietrofront. Un mezzo passo indietro. Un po' di Zelensky ma non troppo. Niente video messaggio, ma una letterina letta da Amadeus. Insomma, la solita soluzione all'italiana. Dopo tutte le polemiche, le prese di posizione, le raccolte di firme, le petizioni di intellettuali contro l'intervento del presidente ucraino al Festival di Sanremo, la Rai ha trovato una soluzione che accontenta tutti e nessuno. Lo ha annunciato ieri mattina il direttore dell'intrattenimento prime time Stefano Coletta nella prima conferenza stampa che dà il via alla settimana festivaliera.

«Siamo in contatto quotidiano con l'ambasciatore ucraino Melnyk - ha spiegato il direttore - Siamo giunti alla definizione dell'intervento del presidente ucraino: non invierà un video, ma un testo scritto» che sarà letto sul palco dal presentatore Amadeus. L'ipotesi iniziale, ovvero che Zelensky intervenisse con un collegamento o con un messaggio registrato come già accaduto in altre occasioni simili (ai Golden Globes, alla Mostra del Cinema di Venezia e a quella di Cannes) e come annunciato da Bruno Vespa che ha fatto da intermediario, è stata quindi accantonata. Secondo la versione ufficiale dei vertici Rai, sarebbe stato il leader in guerra con Putin a preferire inviare una lettera. «Così ci è stato comunicato dall'ambasciatore nel pomeriggio del 2 febbraio», ha precisato Coletta. Ma è evidente, anche se i vertici di viale Mazzini smentiscono, che si è trovato di comune accordo questa soluzione dopo le fortissime polemiche - da Salvini a Grillo a un gruppo di intellettuali che si sono schierati contro - suscitate dall'intervento.

«Quindi Zelensky non vincerà questo concorso con un rap», interviene sarcastica la portavoce del ministero degli Esteri russo Maria Zakharova. Insomma, la guerra tra i due paesi passa anche per le canzoni: il Festival è sempre stato ascoltatissimo in Russia, anche ai tempi dell'Unione Sovietica. E si riesce pure a scherzare su una situazione così drammatica. Amadeus - ribattezzato da Fiorello «lo Swiffer delle polemiche» - commenta la vicenda sorridendo: «Leggerò il testo in ucraino» e aggiungendo che «una lettera è più romantica».

La brutta figura, in tutta questa storia, la fanno i vertici della tv di Stato che per tenersi in equilibrio, cedono alle pressioni. L'impatto di un testo letto e contestualizzato da Amadeus ovviamente avrà un impatto meno violento sul pubblico rispetto al faccione di Zelensky che sarebbe apparso in mezzo alle canzoni a chiedere armi e sostegno all'Occidente.

Su quanto scriverà nella lettera il leader ucraino è ancora riserbo, ma il direttore Coletta assicura che non ci sarà alcun controllo preventivo sul testo inviato, come era stato paventato dopo che i consiglieri del Cda Rai avevano chiesto chiarimenti sulla questione. «Mi sembra complicato poter censurare il presidente - ha risposto a una domanda - Il controllo di noi dirigenti è preventivo alla messa in onda di ogni programma, ma sorrido all'idea di un dirigente Rai che possa censurare un presidente».

Comunque sia, la soluzione non piace a nessuno. «Stiamo parlando di un contesto completamente diverso rispetto a quello dove ha già parlato, cioè il Parlamento, che era la sede più opportuna e giusta», ha commentato il presidente del Movimento 5 Stelle Giuseppe Conte. «Resto convinto che il massacro degli ucraini non meritava di essere mischiato con il televoto», ha commentato il vicepresidente del Senato Maurizio Gasparri.

Non ha dubbi Carlo Calenda: «Capisco la logica dell'invito a Zelensky, ma ci sono luoghi che non si prestano in termini di gravitas. Poi quello che ha fatto la Rai è davvero il peggio. Nel momento in cui dici che lo vuoi a Sanremo, non ti metti poi a fare la censura al presidente di un Paese in guerra».

Il pasticciaccio Rai: lettere, telefonate e lo stupore dell'ambasciata. Dall'annuncio di Vespa a "Domenica in" all'imbarazzato compromesso con Kiev. Laura Rio il 7 Febbraio 2023 su Il Giornale.

Forse l'ambasciatore d'Ucraina in Italia, Yaroslav Melnyk, sarà rimasto attonito nel vedere le prime pagine dei giornali italiani pieni di articoli sulla presenza del suo presidente a Sanremo piuttosto che sotto le bombe in Donbass. E, invece, da noi accade pure questo: fa molto più clamore scannarsi politicamente sul Festival che sull'opportunità o meno di sostenere con le armi il paese invaso da Putin. Dunque, ecco che, dopo l'annuncio - fatto in diretta da Bruno Vespa a «Domenica In» - di uno spazio nell'ultima serata del Festival concesso al presidente ucraino, scoppia il bubbone, partono le telefonate tra i vertici Rai e l'ambasciata ucraina a Roma. Melnyk, unico referente della televisione italiana, chiede di incontrare nella capitale il direttore dell'intrattenimento Prime Time Coletta e il presentatore Amadeus, che però sono già nella città ligure. Dopo varie chiamate e varie proposte, si giunge alla soluzione di compromesso: evitare il «pericoloso» video messaggio per una più controllabile e tranquilla lettera. E, per salvare la faccia, i vertici Rai sostengono che non si era mai espressamente parlato di un videomessaggio, ma di una «modalità partecipativa» ancora da definire che - secondo le precisazioni di Coletta - sarebbe potuto essere in «video, in collegamento, escludendo invece la presenza fisica sul palco». Peccato, però, che Bruno Vespa - che ha fatto da tramite tra viale Mazzini e il leader ucraino quando è andato a intervistarlo a Kiev - aveva detto tutt'altra cosa nell'annuncio fatto nel salotto domenicale di Mara Venier: «Sapevo che Zelensky voleva venire a Sanremo in collegamento - ha detto espressamente - Dopo aver parlato con Amadeus, gli ho potuto dire: Caro presidente, la aspettiamo nella serata finale'». Insomma, l'idea iniziale era quella addirittura di un collegamento o di un video messaggio, poi per smorzare le polemiche si è passati al più semplice testo scritto che verrà letto da Amadeus sabato dopo che si saranno esibiti tutti i 28 cantanti in gara più i tanti e vari ospiti. Quindi a tarda notte, quando molta parte del pubblico sarà già assopita. E l'altra parte, annebbiata dal sonno, non si renderà ben conto se sta ascoltando qualche brano contro la guerra o un presidente in guerra.

Tra l'altro è singolare pure la modalità con cui è stato comunicato l'evento. Vespa lo ha detto mentre scorrevano i titoli di coda di «Domenica In» il 15 gennaio senza avvisare né i vertici di viale Mazzini né Amadeus che lo avrebbe fatto in collegamento in diretta da Kiev con Mara Venier. E il presentatore, nella stessa giornata, poche ore prima, aveva fatto uno dei suoi annunci al Tg1 delle 13 (dove aveva presentato le due co-conduttrici Chiara Francini e Paola Egonu) senza fare alcuna menzione della notizia più importante e clamorosa che in breve ha scatenato una montagna di polemiche. Accadano pure queste cose in una Rai, dove una mano non sa cosa fa l'altra oppure lo sa fin troppo bene. Tanto - come sostiene Amadeus - le polemiche si «sgonfiano» appena parte la prima nota del festival. Che siano stonate o meno, non fa nulla.

Se la tragedia sfocia nell'avanspettacolo. Poteva essere una cosa seria. È diventata una farsa. Amadeus ventriloquo di Zelensky, siamo ai massimi dei minimi, l'appello alla pace si trasforma in una recita a soggetto esterno. Tony Damascelli il 7 Febbraio 2023 su Il Giornale.

Poteva essere una cosa seria. È diventata una farsa. Amadeus ventriloquo di Zelensky, siamo ai massimi dei minimi, l'appello alla pace si trasforma in una recita a soggetto esterno, nessun video messaggio ma una lettera, scritta dal premier, il testo verrà prima tradotto dall'ambasciatore ucraino e poi letto, con dizione improbabile, dal direttore artistico del festival davanti a spalti gremiti, un teatro scintillante di pubblico pagante e ingioiellato e almeno quindici milioni di italiani davanti al televisore aspettando il nome del vincitore. Peggio di così non poteva finire ma è soltanto l'inizio, la tragedia della guerra trasformata in una gag da avanspettacolo, la sofferenza di un popolo mescolata alle esibizioni dei cantanti, brividi ma non quelli della canzone vincitrice lo scorso anno ma un senso di fastidio e di rigetto a ciò che da dramma viene utilizzato come acchiappo e propaganda. Il capo di Rai 1, Coletta Stefano, ha spiegato che gli sembrerebbe complicato poter censurare il presidente «sorrido all'idea di un dirigente Rai che possa censurare un presidente», in verità ci sarebbe pochissimo da sghignazzare nel caso in cui pungesse vaghezza a Vladimir Putin di mettere giù due righe e spedirle a viale Mazzini perché vengano pubblicamente lette, assieme a quelle del rivale Zelensky, che accadrebbe nei piani alti e nelle parti basse del e dei dirigenti Rai? Applicherebbero la par condicio e si rifugerebbero nel canneto, come per abitudine sanno fare? Tutto ciò conferma come si sia superato il limite, la guerra o invasione è argomento delicato già nei dibattiti politici, figuriamoci quando viene messo in tavola a sera tarda, per di più diffuso da un presentatore che dovrà essere capace di passare dagli inquietanti interrogativi sull'esatta identità dello show Soliti Ignoti, all'annuncio di una canzone per concludere l'impegno contrattuale con i tank Abrams americani arrivati a Kiev. D'accordo, non sono soltanto canzonette ma qui stanno canzonando gli abbonati e i cittadini italiani tutti, riuscendo in quella che sembrava poter essere una mission impossible, rendere ancora più antipatico il premier ucraino e ridurne il messaggio a uno spot tra altri cento magari accompagnato da un restate con noi, non cambiate canale. Ma il peggio è fatto, non si può tornare indietro, il messaggio è stato inviato sulla linea dell'utente desiderato. Verrà l'ora della lettura e improvvisamente le luci del teatro Ariston si abbasseranno, calerà il silenzio, non si percepirà nemmeno il fiato di un cantante, quindi, dopo l'ultima parola, gli spettatori si alzeranno in piedi e scoppierà l'applauso. Coletta e la sua orchestra sperano tuttavia che il premier ucraino possa ripensarci. Volodymyr Zelensky, da attore era anche comico, non poteva però immaginare di finire in una pagliacciata.

Luigi Mascheroni per “il Giornale” il 7 febbraio 2023.

Roberto Dagospia è la coscienza critica di Sanremo. Anticipa le anticipazioni, presenta i presentatori, critica i leccazampe, esalta i critici, dà consistenza al gossip, sgonfia la retorica: sul suo sito Dagospia commenta, beffeggia, spiffera, ci racconta scena, proscenio e retroscena del festival.

 D'Agostino: prima la Rai annuncia un video di Zelensky, poi arriva una bufera di polemiche, adesso non è un video ma una lettera; Mosca che si fa beffe del Festival e una cosa seria come la guerra diventa una mezza pagliacciata Cosa sta succedendo a Sanremo?

«L'ho scritto una settimana fa, il 1° febbraio, sul mio sito. Le demenziali polemiche sull'intervento di Zelensky a Sanremo sono arrivate all'orecchio dei funzionari di Kiev, e il presidente ucraino che pure è un ex comico e conosce le regole dello show è rimasto sbigottito. Nessuno ha mai preteso che il suo discorso fosse sottoposto a lettura da parte di un funzionario televisivo. Ma che roba è?

Si è mai visto un direttore di rete che può esercitare una qualsiasi forma di controllo su un messaggio di un presidente di una nazione in guerra? Zelensky ha parlato all'Onu, alla notte degli Oscar, a Cannes, alla mostra del cinema di Venezia senza colpo ferire; però alla tv di Stato italiana vogliono sapere cosa dirà. Demenziale. Qualcuno dentro la Rai ha voluto sabotare l'evento».

 E perché?

«Perché l'idea di portare Zelensky sul palco dell'Ariston è di un signore che si chiama Bruno Vespa, oggi accreditato come gran consigliori di Giorgia Meloni per le questioni Rai, e qualche nemico interno gli ha voluto fare lo sgambetto».

 E adesso?

«Adesso Amadeus e Stefano Coletta, il direttore della prima serata Rai, invece di avere Zelensky si devono accontentare di Fedez... Il presidente di uno Stato in guerra, invaso e bombardato, aveva la possibilità di fare un legittimo appello in video, in prima persona, per chiedere aiuti militari ed economici, e invece se gli va bene può al massimo mandare una lettera... Dalla tragedia alla barzelletta».

La portavoce del ministero degli Esteri russo ha ironizzando sul mancato video del presidente ucraino. Ha detto: «Peccato per Zelensky, forse poteva vincere Sanremo».

«Siamo a un livello sotto la vergogna. C'è una guerra, neanche a troppi chilometri da qui, ci sono bombardamenti, morti, minacce nucleari, si poteva sfruttare un messaggio di pace, e questi stanno a ballare sul palco... Sembra la repubblica Weimar. Qui cantano, e là arrivano i nazisti... Pensa a Kiev cosa possono pensare... Saranno inferociti».

Amadeus ha detto che è più romantico leggere una lettera di Zelensky anziché mandare un video..

«Romantico?! Ma si rende conto? Ma stiamo parlando di una guerra! Non giochiamo con le parole. Posso farlo io, sul mio sito disgraziato, ma non la televisione di Stato... Senti, io la prima volta che sono andato a seguire il Festival di Sanremo era il 1978, ho fatto persino un Dopofestival... E ho capito una cosa in tutti questi anni. Il Festival peggio è, meglio è. Più riesci ad avere canzoni pessime, macchiette che salgono sul palco, stecche e polemiche, meglio funziona.

 A Sanremo adesso stanno festeggiando. il Festival rappresenta l'identità di un Paese fatto di paesi, dove il divertimento maggiore è lo struscio: c'è chi passeggia e si mette in mostra, e chi guarda e giudica. Il Festival è quello: tu vai lì a farti guardare, io ti guardo e ti sbertuccio, tutto in tre minuti, il tempo di una canzone. Se porti solo belle persone, abiti eleganti e buoni brani, che divertimento c'è? Siamo un Paese di guardoni e pettegoli. E Sanremo è il Festival dei guardoni e dei pettegoli».

"Sabotaggio interno per colpire Vespa". Mister Dagospia: "Mai visto un direttore di rete che censura un leader in guerra". Luigi Mascheroni il 7 Febbraio 2023 su Il Giornale.

Roberto Dagospia è la coscienza critica di Sanremo. Anticipa le anticipazioni, presenta i presentatori, critica i leccazampe, esalta i critici, dà consistenza al gossip, sgonfia la retorica: sul suo sito Dagospia commenta, beffeggia, spiffera, ci racconta scena, proscenio e retroscena del festival.

D'Agostino: prima la Rai annuncia un video di Zelensky, poi arriva una bufera di polemiche, adesso non è un video ma una lettera; Mosca che si fa beffe del Festival e una cosa seria come la guerra diventa una mezza pagliacciata Cosa sta succedendo a Sanremo?

«L'ho scritto una settimana fa, il 1° febbraio, sul mio sito. Le demenziali polemiche sull'intervento di Zelensky a Sanremo sono arrivate all'orecchio dei funzionari di Kiev, e il presidente ucraino che pure è un ex comico e conosce le regole dello show è rimasto sbigottito. Nessuno ha mai preteso che il suo discorso fosse sottoposto a lettura da parte di un funzionario televisivo. Ma che roba è? Si è mai visto un direttore di rete che può esercitare una qualsiasi forma di controllo su un messaggio di un presidente di una nazione in guerra? Zelensky ha parlato all'Onu, alla notte degli Oscar, a Cannes, alla mostra del cinema di Venezia senza colpo ferire; però alla tv di Stato italiana vogliono sapere cosa dirà. Demenziale. Qualcuno dentro la Rai ha voluto sabotare l'evento».

E perché?

«Perché l'idea di portare Zelensky sul palco dell'Ariston è di un signore che si chiama Bruno Vespa, oggi accreditato come gran consigliori di Giorgia Meloni per le questioni Rai, e qualche nemico interno gli ha voluto fare lo sgambetto».

E adesso?

«Adesso Amadeus e Stefano Coletta, il direttore della prima serata Rai, invece di avere Zelensky si devono accontentare di Fedez... Il presidente di uno Stato in guerra, invaso e bombardato, aveva la possibilità di fare un legittimo appello in video, in prima persona, per chiedere aiuti militari ed economici, e invece se gli va bene può al massimo mandare una lettera... Dalla tragedia alla barzelletta».

La portavoce del ministero degli Esteri russo ha ironizzando sul mancato video del presidente ucraino. Ha detto: «Peccato per Zelensky, forse poteva vincere Sanremo».

«Siamo a un livello sotto la vergogna. C'è una guerra, neanche a troppi chilometri da qui, ci sono bombardamenti, morti, minacce nucleari, si poteva sfruttare un messaggio di pace, e questi stanno a ballare sul palco... Sembra la repubblica Weimar. Qui cantano, e là arrivano i nazisti... Pensa a Kiev cosa possono pensare... Saranno inferociti».

Amadeus ha detto che è più romantico leggere una lettera di Zelensky anziché mandare un video..

«Romantico?! Ma si rende conto? Ma stiamo parlando di una guerra! Non giochiamo con le parole. Posso farlo io, sul mio sito disgraziato, ma non la televisione di Stato... Senti, io la prima volta che sono andato a seguire il Festival di Sanremo era il 1978, ho fatto persino un Dopofestival... E ho capito una cosa in tutti questi anni. Il Festival peggio è, meglio è. Più riesci ad avere canzoni pessime, macchiette che salgono sul palco, stecche e polemiche, meglio funziona. A Sanremo adesso stanno festeggiando. il Festival rappresenta l'identità di un Paese fatto di paesi, dove il divertimento maggiore è lo struscio: c'è chi passeggia e si mette in mostra, e chi guarda e giudica. Il Festival è quello: tu vai lì a farti guardare, io ti guardo e ti sbertuccio, tutto in tre minuti, il tempo di una canzone. Se porti solo belle persone, abiti eleganti e buoni brani, che divertimento c'è? Siamo un Paese di guardoni e pettegoli. E Sanremo è il Festival dei guardoni e dei pettegoli».

Gio.Vi. per “la Repubblica” il 7 febbraio 2023.

In Rai assicurano che no, loro non c’entrano: la decisione di inviare un testo scritto al Festival di Sanremo, anziché il videomessaggio che Volodymyr Zelensky avrebbe dovuto registrare per la serata conclusiva, è stata presa dalle autorità ucraine.

 Comunicata giovedì scorso dall’ambasciatore in Italia, Yaroslav Melnyk, al direttore dell’Intrattenimento Prime time Stefano Coletta, che con il diplomatico aveva già qualche giorno intavolato una trattativa sul tenore del contributo previsto al clou dell’evento nazionalpopolare più atteso della tv.

[…]

 Matteo Salvini era stato il primo ad augurarsi che «il palcoscenico della città dei fiori rimanga riservato alla musica».

Seguito da Carlo Calenda — «Parrebbe molto strano vedere un presidente impegnato a difendere il suo Paese tra una canzone e l’altra» — e pure da Giuseppe Conte: «Non è necessario avere Zelensky in un contesto così leggero». Posizioni ostili, che non sono passate inosservate.

[…]

«Mi sembra complicato poterlo censurare. Il controllo di noi dirigenti è preventivo alla messa in onda di ogni programma», taglia corto Coletta, «ma sorrido all’idea di un dirigente Rai che possa censurare un presidente». […]

 Giovanna Vitale, Tommaso Ciriaco per “la Repubblica” il 7 febbraio 2023.

Alla fine, è l’ambasciata d’Ucraina in Italia a chiudere il caso. E lo fa comunicando ai vertici Rai di aver deciso che la partecipazione di Volodymyr Zelensky a Sanremo si sarebbe risolta con una lettera del Presidente. Questa, confidano fonti diplomatiche ucraine, rappresenterebbe una soluzione condivisa, presumibilmente con il governo di Roma.

Con l’obiettivo, aggiungono le stesse fonti, di evitare di dividere l’opinione pubblica italiana sulla guerra in Ucraina. È l’ultimo tassello di una vicenda che oscilla come un pendolo tra l’incidente diplomatico e il caso politico. Un caso che in alcuni dettagli si tinge di giallo, chiamando in causa i vertici della televisione pubblica, l’esecutivo e le diplomazie di entrambi i Paesi. Vale la pena provare a ricostruirlo.

La versione della Rai ridimensiona l’accaduto a un’interlocuzione senza tensioni o sbavature.

Tutto nasce dalla missione di Bruno Vespa a Kiev, per intervistare il Presidente ucraino. Il direttore e conduttore di Porta a Porta ottiene la disponibilità a un intervento del leader ucraino al Festival. Tornato in Italia, riporta questa possibilità all’amministratore delegato della Rai Carlo Fuortes e al conduttore del Festival Amadeus.

[…] L’opzione su cui si tratta è quella di un video registrato della durata di due minuti. […]

 Nel frattempo, però, in Italia scoppia una polemica politica durissima. Capofila degli scettici è Matteo Salvini, notoriamente vicino alle posizioni di Mosca. Mostrano dubbi anche Carlo Calenda e Giuseppe Conte. E va registrato tra l’altro anche l’intervento di Piersilvio Berlusconi. Finché, il 2 febbraio, la diplomazia ucraina comunica alla Rai che il format dell’apparizione sarebbe stato quello del testo scritto.

Le stesse fonti della tv pubblica sostengono che non sia credibile che dietro alla scelta si nasconda anche un fastidio di Zelensky, culminato nella mossa asettica di una lettera al posto del video, che certamente avrebbe garantito una resa televisiva migliore. A differenza degli ucraini, inoltre, le fonti di Viale Mazzini negano che ci sia stato un intervento della Farnesina per ricomporre il caso.

 Tutte le fonti ufficiali, a sera, si attestano sostanzialmente su questa linea. Palazzo Chigi si tira fuori dalla partita, mentre il ministero degli Esteri è netto: non siamo intervenuti. [...]

Per un giorno intero, si rincorre un’altra ricostruzione dei fatti. La gestione della partecipazione di Zelensky sarebbe stata effettivamente portata avanti dall’ambasciata ucraina. Ma il polverone politico avrebbe fatto inceppare la trattativa. Gli ucraini non avrebbero gradito neanche la pianificazione, fin nei dettagli, dell’intervento del leader, così come l’eventualità di conoscere in anticipo le modalità, la durata e i contenuti dell’intervento.

 Secondo alcune fonti, si sarebbe arrivati vicini alla defezione di Zelensky: non solo niente video, ma anche nessuna lettera. Un passo indietro capace di generare un vero caso diplomatico, soprattutto a pochi giorni dall’annunciata visita di Meloni a Kiev. La premier, d’altra parte, non può certo essere sospettata – a differenza di Lega e Forza Italia - di essere tra quelli che avrebbero frenato l’intervento del presidente ucraino. […]

Estratto dell'articolo di Antonella Baccaro per il “Corriere della Sera” il 7 febbraio 2023.

La spiegazione fornita dal direttore del Prime Time Stefano Coletta, che sarebbe stata una scelta di Zelensky riferita all’ambasciatore ucraino in Italia, accrediterebbe la pista diplomatica. E cioè che sarebbe stato davvero il leader ucraino a preferire un’apparizione più discreta in una sede come il Festival […]

[…] emergono quei mal di pancia nella maggioranza, sopiti ma mai placati, che secondo alcuni avrebbero prodotto la decisione comune di «abbassare i toni». Paventa questa interpretazione Maurizio Lupi (Noi moderati) quando dice: «Siamo stupiti da questa scelta che, ci auguriamo, non sia dovuta a motivi “politici” perché in questa guerra c’è un aggressore e c’è un aggredito».

 Chi non si nasconde dietro un dito è il vicepresidente del Senato, Maurizio Gasparri (Forza Italia) che sembra proprio rivendicare alla politica decisioni che finora sarebbero planate su altri tavoli: «Sinceramente — dichiara — sarebbe stato meglio che la Rai non si fosse infilata in questa vicenda». E poi: «Non ho capito come sia nata. Forse dalla volontà di qualche autorevole esponente della galassia Rai, più che da una decisione dei suoi vertici, che mi sono sembrati più coinvolti nell’iniziativa altrui, che promotori di iniziative proprie».

Insomma Gasparri rilancia l’interpretazione secondo cui la Rai, ma anche il governo, sarebbero stati travolti dall’altrui attivismo […] A sera ce n’è abbastanza per una replica della Rai: «Non corrisponde al vero che la Rai si è rifiutata di mandare in onda un suo video. Al contrario, la Rai si è sempre dichiarata disponibile a raccogliere un intervento in forma video o audio. È stato l’ambasciatore dell’Ucraina a Roma a avanzare la richiesta di far leggere un testo scritto del presidente».

Andrea Parrella per fanpage.it il 7 febbraio 2023.

Il caso Zelensky a Sanremo accende la vigilia del Festival di Sanremo, in partenza martedì 7 febbraio al teatro Ariston, con la conduzione di Amadeus. Nel corso della tradizionale conferenza stampa del lunedì, è arrivato infatti l'annuncio del dietrofront sul video del presidente ucraino trasmesso in diretta nell'ultima serata del sabato.

 Come comunicato nel corso della prima conferenza stampa di lunedì 6 febbraio, l'intervento di Volodymir Zelensky sarà solo in forma scritta, letto da Amadeus proprio nel corso dell'ultima serata. Una decisione che ha alimentato non poche perplessità, presa su richiesta esplicita dell'ambasciatore ucraino.

Tra i fautori di questo intervento, Bruno Vespa, conduttore di Porta a Porta che aveva intervistato Zelensky poche settimane fa e proprio in quell'occasione aveva annunciato la presenza del presidente ucraino a Sanremo. Raggiunto da Fanpage.it, Bruno Vespa ha chiarito come siano andate le cose: "Per chiarezza io ho fatto il postino. Zelensky mi ha fatto sapere che voleva intervenire a Sanremo come in altre occasioni. Ho trasmesso in azienda la richiesta e Amadeus lo ha invitato nella serata finale. Nella fase finale ho messo in contatto Coletta con l'ambasciatore ucraino per trovare la soluzione migliore".

 Vespa, tuttavia, si mostra soddisfatto rispetto al fatto che il messaggio di Zelensky possa arrivare comunque alla platea e al pubblico del Festival: "Mi fa piacere che anche il pubblico sanremese possa essere messo a parte direttamente dell'atroce vicenda ucraina". 

Intervenendo su uno dei temi più spinosi di questo Festival, il responsabile del genere intrattenimento Stefano Coletta ha chiarito che si è trattato diuna richiesta dell'ambasciatore ucraino: “Siamo in contatto con più colloqui al giorno con l’ambasciatore Melnyk. Siamo giunti alla definizione dell’intervento del presidente ucraino ieri. Il presidente non invierà un video ma un testo. Riguardo al controllo preventivo, ci sono sempre degli elaborati rispetto a talune affermazioni che sono vicini a delle boutade.

Ai nostri tempi è complicato censurare un presidente. Il controllo è relativo alla messa in onda di qualsiasi programma televisivo, siamo dirigenti per questo. Visioniamo tutto ciò che va in onda prima della messa in onda. Ma sorrido all’idea che un direttore Rai possa censurare un presidente. Riguardo ai contenuti del testo, saremo più puntuali nei prossimi giorni ma non abbiamo ancora contezza del contenuto e della forma. Sarà letto da Amadeus”. Quindi Amadeus ha aggiunto: "Il contenuto dell’intervento sarà letto esattamente come arriverà".

Giorgio Rutelli per formiche.net il 12 febbraio 2023.

Le 4.15. Era notte fonda a Mosca quando è andata in onda la lettera di Zelensky letta da Amadeus. Da noi erano le 2.15, una buona fetta di spettatori di Sanremo era già crollata. Non solo il tira e molla imbarazzante che aveva portato a cancellare il video del presidente in guerra e sostituirlo con un breve testo scritto (corredato dall’esibizione sul palco, sempre dopo tutti e 28 i cantanti in gara, di una band ucraina), anche lo smacco della collocazione più infelice di tutte, cioè quando il pubblico sopravvissuto vuole solo capire chi ha vinto e andare a dormire, e maledice ogni ulteriore motivo di ritardo.

Programmandolo a quell’ora si è azzerata la possibilità che in Ucraina (dove erano le 3.15) e in Russia qualcuno potesse vedere il più popolare spettacolo televisivo italiano schierato a sostegno di un popolo invaso e massacrato. Lo ha spiegato perfettamente Fulvio Abbate: il Festival in Russia è seguito da milioni di persone, lo adorano, e vedere Zelensky, descritto dalla propaganda putiniana come “a capo di una banda di drogati, satanisti e neonazisti” occupare la prima serata più importante dell’anno avrebbe mandato un messaggio potentissimo anche nelle province più remote dove arrivano solo le trasmissioni del regime.

Invece i vertici Rai sono riusciti a dare nuove munizioni alla disinformazia del Cremlino, con la portavoce fragole-e-limousine Maria Zakharova che ha subito colto l’occasione per fare battute, a riprova di come a Mosca lo spazio dedicato ai nemici fosse un tema cruciale, e abbiano festeggiato il trattamento umiliante riservato al presidente ucraino.

 Ora che si è chiusa la kermesse, per usare un termine caro al direttore dell’Intrattenimento di prime time Stefano Coletta, crolla la scusa imbastita per giustificare l’aver relegato la crisi ucraina nel peggiore momento possibile e con l’immagine più moscia possibile: al Festival si parla di canzoni, non di cose serie come un conflitto in corso.

Un falso storico, visto che Sanremo è sempre stato iper-politico, e un falso pure contemporaneo: nelle cinque serate si è parlato di tutto e affrontato qualsiasi tema, a maggior ragione se in aperto contrasto con le posizioni dell’attuale maggioranza con un forte accento woke, l’aggettivo che connota chi si è “risvegliato” sulle discriminazioni del passato e del presente: Fedez ha strappato la foto di un viceministro, con gli Articolo 31 ha chiesto a Giorgia Meloni cannabis libera, dal rapper Rosa Chemical ha ricevuto una lap dance e un bacio appassionato.

E stiamo parlando del marito di Chiara Ferragni, la co-conduttrice più attesa di questa edizione, azionista di maggioranza di un duo che si muove all’unisono, vale milioni di follower e programma ogni selfie, non di un passante. Oggi Coletta ammette di aver chiesto l’ultima versione del testo di Fedez, e di non averla ricevuta. Quindi il controllo editoriale di Viale Mazzini c’era, ma hanno trovato il modo furbo di non assumersene la responsabilità.

Oltre ai Ferragnez, sul palco sono “passati” tutti i messaggi importanti, delicati, o controversi che ospiti, artisti in gara, monologhiste, hanno voluto far passare: razzismo, detenzione minorile, depressione, diritto alla non-maternità, misoginia e patriarcato, strage delle donne iraniane, poliamore, mafia, aborto, porno, fluidità sessuale (praticamente l’unico non fluido era Al Bano). Un mix tra Pasquino, Hyde Park Corner e open mic nights, il Festival è stata una serie di serate col microfono aperto in cui tutti hanno avuto a disposizione la più sofisticata macchina di produzione di luci, immagini e suoni strabilianti. Tutti, tranne Zelensky e i 44 milioni di ucraini. Un danno alla nostra immagine internazionale i cui effetti si sono visti immediatamente.

Estratto dell’articolo di Renato Franco per il “Corriere della Sera” il 12 febbraio 2023.

 Dopo uno scontro politico che ha tenuto banco per giorni, ieri sera (o meglio ieri notte, quando le 2 erano già passate, televisivamente una follia) si è materializzata finalmente sul palco del Festival di Sanremo la lettera di Zelensky. […] L’attesa è stata lunga, con tanto di giallo in corsa. Perché l’intervento di Zelensky era stato messo in scaletta prima dello spareggio per la vittoria finale tra i cinque finalisti, invece è stato collocato in un secondo momento, più avanti, prima dell’annuncio del vincitore.

A molti la scelta di relegare a notte fonda l’intervento del leader ucraino è parsa un po’ pilatesca […], ma Amadeus ne ha spiegato così il senso: «Avevo detto fin dall’inizio che qualsiasi comunicazione, ben accetta, sarebbe avvenuta a fine gara. Mi è piaciuto mantenere questa scelta, che l’ambasciatore ha condiviso». […]

 Prima della messa in onda e per evitare […] l’ambasciatore ucraino in Italia, Yaroslav Melnyk, e l’amministratore delegato della Rai, Carlo Fuortes, hanno voluto precisare congiuntamente che è stata una scelta condivisa. «La cultura non può stare fuori dalla politica in tempo di guerra. […] Il palco dell’Ariston è l’occasione di trasmettere la verità e il messaggio di sostegno di cui abbiamo bisogno perché la pace torni sul territorio europeo».

 Parole che provano a sgombrare il campo dalle illazioni secondo cui l’intervento di Zelensky a Sanremo, con polemiche annesse, sarebbe diventato un caso internazionale in grado di pesare sui rapporti tra l’Italia e gli altri principali partner europei, nei giorni del disappunto della premier Meloni esclusa dall’incontro all’Eliseo tra il presidente Macron e il cancelliere tedesco Scholz con lo stesso Zelensky.

Cari partecipanti, organizzatori e ospiti del festival!

 Da più di sette decenni, il festival di Sanremo si sente in tutto il mondo. Si sente la sua voce, la sua bellezza, la sua magia, la sua vittoria. Ogni anno sulle rive del Mar Ligure vince la canzone. Vincono la cultura e l’arte. La Musica vince! E questa è una delle migliori creazioni della civiltà umana.

Sfortunatamente, per tutto il tempo della sua esistenza, l’umanità ha creato non solo cose belle. E purtroppo oggi nel mio paese si sentono spari ed esplosioni. Ma l’Ucraina sicuramente vincerà questa guerra. Vincerà insieme al mondo libero. Vincerà grazie alla voce della libertà, della democrazia e, certamente, della cultura.

Ringrazio il popolo italiano e i suoi leader che insieme all’Ucraina avvicinate questa vittoria.

 Auguro il successo a tutti i finalisti e dal profondo del mio cuore voglio invitare i vincitori di quest’anno a Kyiv, in Ucraina, nel Giorno della Vittoria. Nel Giorno della nostra Vittoria!

Questa Vittoria oggi viene creata e ottenuta in condizioni estremamente difficili. Grazie ai nostri difensori! Grazie al loro coraggio, indomabilità, invincibilità. Centinaia di canzoni sono già state scritte su questo, e ne ascolterete una oggi.

E sono sicuro che un giorno ascolteremo tutti insieme la nostra canzone della vittoria!

 Cordiali saluti, 

 Presidente dell’Ucraina.

Sanremo, la lettera dell’ipocrisia e la vittoria di Instagram. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 13 Febbraio 2023

Il testo della lettera di Zelensky è stato letto alle 2,15 (era già domenica) dopo l’esibizione di tutti i cantanti in gara.

Peccato, un Festival che era iniziato con l’avallo più prestigioso, la presenza del presidente Mattarella, è finito nel compromesso, nell’ipocrisia, nella pusillanimità. Il testo della lettera di Zelensky è stato letto alle 2,15 (era già domenica) dopo l’esibizione di tutti i cantanti in gara.

In tutta onestà, Amadeus faceva meglio a non leggerlo per non esporre il Festival di Sanremo a una figuraccia internazionale. I messaggi del presidente ucraino, il cui paese è stato invaso da Vladimir Putin, sono stati ospitati da manifestazioni come i Grammy Awards, la Mostra del cinema di Venezia, il Festival di Cannes, i Golden Globes. Il no era venuto soltanto dalla Fifa (nomen omen), durante i mondiali di calcio in Qatar. È finito negli inevitabili scazzi della politica.

Davvero si è deciso di accelerare il cambio della dirigenza di Viale Mazzini per la performance del marito della Ferragni? Perché ha strappato la fotografia di un sottosegretario che si era travestito da nazista? E le grandi richieste di cambiamento non vengono forse dal sottosegretario Gianmarco Mazzi, uno che ha già diretto il Festival di Sanremo, che ha organizzato trasmissioni tv e concerti all’Arena di Verona (persino con il «comunista» Gianni Morandi) senza che nessuno gli abbia chiesto conto della sua appartenenza politica?

Manca poco che contestino alla regia il numero di volte che ha inquadrato la famiglia di Amadeus seduta in prima fila (onestamente, un po’ troppe). Se questo è il modo di governare Sanremo, diventerà il festival dei partiti, dove a ogni apparizione corrisponderà un’interpellanza parlamentare. Oppure una festa di partito, così nessuno più si lamenterà.

Oltre a Mengoni, ha vinto Instagram, il territorio prediletto, la «bottega» di Chiara Ferragni: tramite un tutorial ad Amadeus, il social network ha goduto gratuitamente di una pubblicità che, monetizzata, avrebbe forse salvato i bilanci della Rai.

Zelensky unico senza voce. Ogni tanto viene da chiedersi se il "Made in Italy" sia una realtà culturale o una forzatura commerciale. Paolo Guzzanti il 12 Febbraio 2023 su Il Giornale.

Ogni tanto viene da chiedersi se il «Made in Italy» sia una realtà culturale o una forzatura commerciale. Purtroppo, insieme a tutto il buono del decantato genio italico c'è anche qualcosa di meno geniale e spesso imbarazzante che non riguarda l'abilità di sfornare cibi e vestiti e lo si è visto con il caso Zelensky a Sanremo. C'era un partito che non voleva offrire una tribuna al presidente ucraino e c'è un partito che considerava dovuto offrirgli quel diritto già avuto in quasi tutti i Paesi europei e negli Usa. Poteva essere detestabile questo il mio punto di vista dirgli semplicemente di no. Sarebbe stata un'idea onesta perché dichiarata di fronte a tutti. Invece non gli è stato detto un vero no, ma è stata trovata una formuletta, penosa per tutti e specialmente per l'onore collettivo: quella di affidare al conduttore Amadeus, con la sua voce e il suo volto le parole che lo stesso Zelensky ha fatto arrivare ovunque con la propria voce e il proprio volto.

Così il presidente ucraino non ha avuto il diritto di apparire, ma quello trascurabile di essere citato all'una di notte. Così si è evitata la responsabilità di dire sì o no alla sua richiesta di parlare del suo Paese che da un anno resiste nel sangue con i propri soldati, i propri morti e le armi inviate anche da noi. Poiché la faccenda era politicamente scomoda e poiché noi italiani siamo stati abituati a illuderci che solo a noi sia consentito svicolare sulle scelte morali perché siamo simpatici. Simpatici al punto di meritare l'esenzione dai doveri etici. Non è stato certamente per questo motivo che Giorgia Meloni non è stata invitata a cena da Macron insieme a Zelensky e al cancelliere tedesco Sholz: quella era infatti una cena gollista in cui Francia Germania proponevano a Zelensky una condotta militare diversa da quella di Stati Uniti e Regno Unito, cui anche l'Italia aderisce. La polemicuzza sul mancato invito non c'entra niente con Sanremo, ma siamo sicuri che l'incontro sul marciapiede tra Giorgia Meloni e Volodymyr Zelensky sia stato poco prestigioso anche a causa della modesta figura che abbiamo fatto. Si dovrebbe a questo punto dire che chi porta la responsabilità di questa scelta dovrebbe pagarne le conseguenze ma sappiamo che sarebbero tempo perso.

Di tutto, di Putin. La Rai merita di essere azzerata per come ha trattato Zelensky, non per i girotondi di Fedez. Mario Lavia su L’Inkiesta il 13 Febbraio 2023.

La sinistra delle provocazioni fesse ha servito alla destra di Meloni l’occasione per riprendersi la tv pubblica. E le pagliacciate di Berlusconi dimostrano che Viale Mazzini ha fiutato un vento filorusso nella maggioranza di governo

Non si è ancora capito bene perché la lettera di Volodymyr Zelensky sia stata letta sul palco di Sanremo alle due e passa di notte. Non lo si è spiegato perché è inspiegabile oltre che ingiustificabile. Un gesto di inaudita scortesia, relegare un momento così importante del Festival giusto un po’ prima della celebrazione di Marco Mengoni, una presa in giro nella massima opacità.

Poi ieri sera è apparso un improvvido squarcio di chiarezza, con Silvio Berlusconi che ha sostanzialmente preso le parti dell’amico Vladimir Putin e svillaneggiato Volodomyr Zelensky. E viene il sospetto che forse l’anziano padrone di Mediaset fiuti l’aria che tira e conti ancora qualcosa in Rai, nell’azienda pubblica che ha capito che il presidente ucraino non è gradito ai padroni del 25 settembre.

Si è tentato dall’inizio di boicottare il presidente ucraino e la sua battaglia, e infatti è verosimile che appena iniziate le polemiche sulla sua presenza personale al Festival egli stesso abbia chiesto di soprassedere e ripiegare sulla famosa lettera. È la gestione vergognosa di questa vicenda – trattata molto all’italiana, famose du’ spaghi che c’è Zelensky – che obbligherebbe a una protesta contro i vertici della Rai.

Altro che il bacio con la lingua e la foto del sottosegretario Galeazzo Bignami strappata. Il problema di questo Festival non si chiama Fedez, si chiama Zelensky. Se Giorgia Meloni e i suoi boys avessero protestato per questo atteggiamento irriguardoso verso un Paese invaso e massacrato avrebbero meritato un plauso, ma non avendolo fatto si vede che in fondo non gliene importa molto. E, come ha scritto qualcuno, la premier manda le armi ma senza farlo troppo a vedere perché in termini di consenso non rende: quant’è lontano Mario Draghi.

Invece i bravi ragazzi della “nuova” destra si stanno scatenando contro Fedez e Rosa Chemical, i quali come fanno sempre i “girotondini” vecchi e nuovi, con le loro provocazioni non sempre azzeccate non fanno altro che offrire il fianco ai soliti reazionari, anche loro vecchi e nuovi, come se la dannazione delle battaglie di libertà in questo Paese stesse esattamente nell’avvitamento tra lo sberleffo e la reazione, nel perpetuarsi dell’antica tenzone tra Pulcinella e il Gendarme del teatro dei burattini.

Ma certo, nessuno si illude che possa scaturire da un Festival canoro l’elevazione culturale e civile di un Paese, a pensarlo si rischia di fare del sociologismo della domenica, per quanto i nostri governanti dovrebbero riflettere senza stizzirsi su certe opinioni, su certi mutamenti di costume e di mentalità che l’Ariston non ha scagliato sul Paese ma ha recepito dal Paese.

Un Festival è un Festival e Amadeus non è Ferruccio Parri, così come Gianni Morandi non è Sandro Pertini. Che la destra meloniana, con la ruote di scorta portate da Matteo Salvini e Giuseppe Conte, pensi di espugnare la Rai come fosse la Barcellona della guerra di Spagna è penoso, essendo la verità molto più semplice: Giorgia Meloni, autoproclamatasi padrona d’Italia grazie al ventisei per cento del voti, dall’inizio della sua avventura a Palazzo Chigi è convinta che la Rai le spetti, solo che aveva in mente tempi più lunghi e azioni non traumatiche, come quelle che metteva in atto Silvio Berlusconi, per intenderci, un uomo che confondeva Rai e Mediaset.

Matteo Salvini, che come spesso gli accade non ha capito la situazione, agita lo spauracchio del taglio dei fondi con il canone fuori dalla bolletta, senza rendersi conto che per Giorgia la Rai va presa, non distrutta.

Ora, la premier pensava di agire chiane chiane, come si dice a Napoli, un pezzo alla volta. Solo che adesso i girotondini di Fedez le hanno offerto la testa di Carlo Fuortes su un piatto d’argento, e lei ha già l’acquolina in bocca per papparsi la direzione generale e il Tg1. E di Zelensky, nella Grande Commedia Sanremese, chi se ne frega. E meno male che c’era Tananai.

Libertà, fuoco e rabbia. Gli ucraini a Sanremo e lo spirito d’acciaio dei loro cuori. Yaryna Grusha Possamai su L’Inkiesta il 13 Febbraio 2023.

La grottesca gestione Rai della presenza di Zelensky commentata dal gruppo degli Antytila che si è esibito al Festival. Con la speranza che le parole del presidente, l’esibizione della band e la canzone di Tananai possano far riflettere chi ancora si proclama neutrale

Il messaggio del presidente ucraino Volodymyr Zelensky è arrivato sul palco di Sanremo, durante la finalissima, alle 2:12, in piena notte, letto da Amadeus e seguito dall’esibizione dalla band ucraina Antytila. Secondo la scaletta della Rai era lo slot migliore per l’Ucraina, perché dopo cinque ore di diretta tutti comunque avrebbero aspettato il nome del vincitore; secondo i commenti degli spettatori lo era un po’ meno perché dopo cinque ore di diretta si fa fatica a distinguere LDA da Sethu, figuriamoci cogliere il messaggio del presidente di un Paese che da un anno resiste alla barbarica invasione della Russia.

I più coraggiosi hanno resistito, i meno coraggiosi hanno messo la sveglia alle 1:45, quelli ancora meno coraggiosi hanno rivisto tutto la mattina dopo su RaiPlay.

Dopo che Amadeus ha cercato di interpretare Zelensky, finalmente è arrivata la voce degli ucraini, senza la mediazione delle lettere stampate né la partecipazione di terzi. Gli Antytila (gli anticorpi), il gruppo ucraino che si è esibito già sui palchi europei più importanti con Ed Sheeran e Bono, hanno portato a Sanremo la loro canzone appena uscita, “Fortezza Bakhmut”, sulla battaglia che si svolge oggi a Bakhmut, città sulla prima linea che d a mesi resiste a costanti attacchi russi.

«Peccato per la mancanza dei sottotitoli al testo della canzone, per il pubblico in sala e a casa», dice a Linkiesta il frontman del gruppo Taras Topolia, «ogni sillaba della nostra canzone trasuda la resistenza e la rabbia nei confronti dell’invasore russo». Alla fine si sono affidati alla musica, mood e flow, e sono riusciti a trasmettere l’ardore della resistenza del popolo ucraino di questi giorni, quando ormai ci stiamo avvicinando alla tragica data del 24 febbraio, che segna un anno dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina.

«Siamo arrivati in Italia con molti timori», dice Taras a Linkiesta la mattina dopo l’esibizione, in viaggio da Sanremo verso Nizza, dove la band ha preso il volo per tornare verso l’Ucraina, «abbiamo passato troppo tempo in prima linea e avevamo una visione approssimativa dell’atmosfera in Italia. Sapevamo delle ingerenze russe e della galoppante propaganda russa da queste parti, eppure gli organizzatori e tutta la gente con cui abbiamo avuto a che fare nelle ultime ventiquattro ore esprimevano il loro sostegno all’Ucraina. Sì, a volte dicevano “speriamo che questo incubo finisca presto”, cercando di slittare su una linea neutrale, e noi aggiungevamo ”con la vittoria dell’Ucraina”, e alla fine sembrava che il nostro messaggio arrivasse. Il pubblico ci ha applaudito calorosamente e noi oltre a cantare abbiamo avuto l’opportunità di dire qualche parola. Devo dire che non succede spesso. Capita che gli organizzatori si giustifichino con il format e i tempi stretti per non darti la possibilità di esprimerti, invece a Sanremo ho detto quello che mi sono sentito di dire».

Taras Topolia ha avuto anche l’occasione di ringraziare Tananai, il cantante italiano in gara con il brano “Tango” che racconta con parole e immagini la storia d’amore tra Olha, un’ucraina sfollata in Italia insieme a sua figlia Liza, e suo marito Maksym, che invece è al fronte a difendere il Paese. «Ho ringraziato Tananai da parte di tutti gli ucraini, mi sembrava emozionato, gli ho detto che come artista e come persona poteva rimanere in disparte, invece ha deciso di dare la voce agli ucraini e per noi è stato davvero prezioso».

Gli Antytila tornano in Ucraina per ripartire tra due settimane con i concerti in Gran Bretagna. Hanno prestato servizio in prima linea da febbraio fino ad agosto, prima in difesa di Kyjiv poi in difesa di Kharkiv, arrivando fino alla confine con la Russia. Ad agosto sono stati richiamati nelle retrovie dal generale Zaluzhnyy, ma tuttora sostengono il battaglione con il quale hanno liberato le città ucraine.

Con la partenza degli Antytila rimane un retrogusto amaro sull’intera gestione della presenza ucraina a Sanremo, dalle polemiche sul collegamento di Zelensky alla lettera degli intellettuali italiani contro il collegamento, dai commenti dei politici italiani sul non confondere la guerra con il festival delle canzonette al testo che ha voluto rivedere la Rai, dal messaggio scritto e mandato da Zelensky e letto da Amadeus fino ai sottotitoli mancanti della canzone e al microfono abbassato fin troppo mentre parlava Taras in ucraino sul palco dell’Ariston.

Eppure possiamo ancora sperare che la presenza fisica, la musica, la forza delle parole degli ucraini, come quella degli Antytila, possa cambiare l’ormai palpabile indifferenza (se non altro) verso la guerra, indifferenza che viene mascherata (male) da un’ipocrita neutralità.

Canto della resistenza. Il testo della canzone della band ucraina che la Rai, ops, ha scelto di non sottotitolare. L’Inkiesta il 13 Febbraio 2023.

Gli Antytila, ospiti nella finalissima di Sanremo e annunciati dal presidente Zelensky, si sono esibiti con un brano sulla battaglia che si svolge in questi giorni a Bakhmut (e non solo), senza che nessuno ne spiegasse il significato. Bakhmut è la fortezza sulla linea del fronte che ogni giorno regge gli attacchi russi spietati

Fortezza Bakhmut,

Tutte le nostre preghiere sono qui.

Lo spirito d’acciaio dei nostri cuori,

E gli indomiti Eroi della Battaglia di Kruty,

Dal cielo ci mandano forza,

Libertà, fuoco e rabbia!

Bruciano i muri in battaglia,

Mamma, io resisto,

Mamma, mi sono arruolato,

Mamma, io combatto!

Vincerò e tornerò!

Ora arriviamo alla base…

Dimentichiamo il dolore, i vecchi rancori,

Ecco la mia spalla, sono qui, brother,

Eccola di fronte che arriva: la peste.

Arriva di lato, una nuova fase.

Manteniamo la calma,

Come ci è stato insegnato.

Alle nostre spalle, c’è il nostro domani,

I nostri figli, i genitori, le famiglie sono lì,

I fratelli caduti e tornati “sullo scudo”

Anche loro sono alle nostre spalle.

Che salti il ratto cacciato in un angolo,

E che la nostra strada sia luminosa,

Quindi qui c’è lavoro per le nostre mani.

Qui! Qui!

Fortezza Bakhmut,

Tutte le nostre preghiere sono qui.

Lo spirito d’acciaio dei nostri cuori,

E gli indomiti Eroi della Battaglia di Kruty,

Dal cielo ci mandano forza,

Libertà, fuoco e rabbia!

Bruciano i muri in battaglia,

Mamma, io resisto,

Mamma, mi sono arruolato,

Mamma, io combatto!

Vincerò e tornerò!

Adesso arriva il buio.

Il demone insanguinato cade in agonia,

Allora non abbiamo combattuto invano,

Allora non era invano tutto questo ardore.

Allora va tutto secondo i piani, poi arriva il mattino,

E con lui la Vittoria!

Infine dico solo una cosa: avere paura non è un peccato,

Tradire i propri invece lo è.

Fortezza Bakhmut,

Tutte le nostre preghiere sono qui.

Lo spirito d’acciaio dei nostri cuori,

E gli indomiti Eroi della Battaglia di Kruty,

Dal cielo ci mandano forza,

Libertà, fuoco e rabbia!

Bruciano i muri in battaglia,

Mamma, io resisto,

Mamma, mi sono arruolato,

Mamma, io combatto!

Vincerò e tornerò!

 Traduzione presentata dal gruppo Antytila e rivista da Yaryna Grusha Possamai

Non è mai lunedì. La storia della coppia ucraina che ha ispirato la canzone di Tananai. Yaryna Grusha Possamai su L’Inkiesta l’11 Febbraio 2023

Mentre l’Italia polemizzava su Zelensky a Sanremo, il cantante ha portato all’Ariston Olha e Maksym Rastieriaiev, separati a causa della guerra imperialista russa. La fuga in Italia con la figlia quattordicenne, mentre il marito liberava Kherson. In attesa della vittoria finale

La polemica sull’intervento di Volodymyr Zelensky a Sanremo ha superato qualsiasi limite di logica e di umanità. Mentre il presidente dell’Ucraina raccoglieva applausi in tutta Europa, suscitando emozioni forti dalla Westminster Hall di Londra all’Aula del Parlamento Europeo di Bruxelles, in Italia c’era chi spiega che la guerra non c’entra niente con il festival della canzone, probabilmente nel timore che Zelensky potesse fare, in diretta tra i fiori sanremesi, l’elenco delle armi che servono all’Ucraina per proteggersi da un’altra invasione russa oppure che facesse vedere i video delle vittime dell’invasione barbarica russa, o chissà cos’altro. Sembrava che la voce degli ucraini fosse stata negata su quel palco, con l’eccezione di una lettera del presidente letta da Amadeus. 

Sembrava, ma poi ci ha pensato Tananai con una dolcissima canzone d’amore, Tango, accompagnata da un video che in un solo giorno ha raccolto 750 mila visualizzazioni e che ha fatto assumere un significato del tutto diverso rispetto a una semplice canzone d’amore. 

«Amore tra le palazzine a fuoco / la tua voce riconosco / noi non siamo come loro», incanta il ritornello. A non essere come loro sono una coppia di ucraini, Olha e Maksym Rastieriaiev, della regione di Kropyvnyts’kyy in Ucraina. Olha e Maksym quasi da un anno vivono nel cellulare uno dell’altro a causa dell’aggressione russa. Una delle tante storie d’amore nella guerra e la nuova realtà che tutti gli ucraini si sono trovati a vivere dopo il 24 febbraio 2022. 

Linkiesta ha contattato Olha per farsi raccontare la loro storia, la loro «notte in cui ti ho conosciuta». Maksym Rastieriaiev, marito di Olha, è un militare di professione, già difensore dell’Ucraina durante la prima invasione russa nel Donbas nel 2014, dove ha trascorso un anno e mezzo al fronte. 

Nel febbraio del 2022, l’invasione russa è stata più ampia, più feroce e più crudele. Maksym è stato chiamato alla fine di febbraio a riprendere il servizio e Olha è rimasta da sola a casa con la loro quattordicenne figlia Liza. Alla fine di aprile, la paura ha fatto mettere in moto Olha e sua figlia verso la Toscana e, alla fine di agosto, sono arrivate a Milano, dove Olha ha trovato un lavoro, una sistemazione e la scuola per la figlia. 

Nel video montato dalla squadra di Tananai si vedono le scene della comunità ucraina che a Milano si raduna in piazza Duomo ogni sera e ogni fine settimana non solo per ricordare ai cittadini e ai turisti la grande tragedia che vivono gli ucraini ogni giorno, ma anche per stare un po’ tutti insieme. Lontani da casa, in un paese dove non si conoscono né la lingua né le regole, ritrovarsi in piazza Duomo è una specie di terapia di gruppo necessaria a superare ancora un altro giorno, il giorno che la connessione sul fronte si ristabilisca, il giorno che arriva un messaggio, qualsiasi messaggio, come segno di un altro giorno da sopravvissuti.

Una delle produttrici del video di Tananai è nata a Kyjiv, così la storia di Olha e Maksym è arrivata a Tananai e l’ha aiutato a far nascere un testo molto più profondo di un semplice amore vissuto a distanza. Olha nel frattempo ha lasciato tutte le cose che ha saputo mettere in piedi a Milano ed è tornata a casa sua, perché il marito e l’Ucraina le mancavano tanto, troppo, proprio perché quel lunedì in cui finalmente suo marito tornerà sembra non arrivare mai. 

Dopo sette mesi di vita attaccata a un filo telefonico, dopo la gioia della liberazione di Kherson cui ha preso parte Maksym, finalmente Olha ha rivisto Maksym per 2 giorni. È dovuta andare fino alla più grande città vicina alla linea del fronte, ma è pronta a tutto pur di abbracciare suo marito «lo so quanto ti manco / Ma chissà perché Dio / Ci pesta come un tango». 

La comunità ucraina in Italia ha ringraziato Tananai e la sua squadra per aver dato forma alle emozioni degli ucraini. Su YouTube, Twitter e Instagram, i commenti pullulano di ringraziamenti e cuori gialloblù che si fondono negli sms con il codice 06 assegnato a Tananai nella terza serata del festival di Sanremo. Tananai ha buone prospettive per la serata finale, gli ucraini sicuramente non smetteranno di dargli il sostegno. Sono, siamo, alquanto tenaci nel perseguire i nostri giusti obbiettivi. 

La storia di Olha e Maksym è la tenera illustrazione di una vita bruscamente interrotta, una condizione che tutti gli ucraini vivono ogni giorno ormai da un anno: «È un anno che mi hai perso / E quel che sono non volevo esserlo». 

Nella polemica pompata dalla propaganda russa sull’escalation, sugli ucraini guerrafondai che non vogliono fermarsi né cedere alla Russia le proprie terre, sugli ucraini che chiedono solo più e più armi, l’amore di Olha e Maksym restituisce il volto umano a un intero popolo che ogni giorno combatte insieme e unito per far arrivare quel lunedì.

'Tango', il testo della canzone di Tananai a Sanremo 2023

Alberto Cotta Camusino ha scelto un nome d'arte che, in dialetto bolognese, significa 'fracasso'. E di casino, dalla partecipazione dello scorso anno al Festival (dove è arrivato ultimo) fino a oggi, ne ha fatto parecchio. Star in rete, la sua 'Sesso occasionale' è…

Tango di A. Cotta Ramusino - D. Simonetta - P. Antonacci - A. Raina - A. Cotta Ramusino - D. Simonetta

Non c’è un amore senza una ragazza che pianga

Non c’è più telepatia

È un’ora che ti aspetto

Non volevo dirtelo al telefono

Eravamo da me, abbiamo messo i Police

Era bello finché ha bussato la police

Tu, fammi tornare alla notte che ti ho conosciuta

Così non ti offro da bere e non ti ho conosciuta

Ma ora addio, va bene amore mio

Non sei di nessun altro

E di nessuna io

Lo so quanto ti manco

Ma chissà perché Dio

Ci pesta come un tango

E ci fa dire

Amore tra le palazzine a fuoco

La tua voce riconosco

Noi non siamo come loro

È bello, è bello, è bello

È bello stare così

Davanti a te in ginocchio

Sotto la scritta al neon di un sexy shop

Se amarsi dura più di un giorno

È meglio, è meglio

È meglio che non rimani qui

Io tornerò un lunedì

Come si salva un amore se è così distante

È finita la poesia

È un anno che mi hai perso

È quel che sono, non volevo esserlo

Eravamo da me, abbiamo messo i Police

Ridevamo di te che mi sparivi nei jeans

Tu, fammi tornare alla notte che ti ho conosciuta

Così non ti offro da bere e non ti ho conosciuta

Ma ora addio, va bene amore mio

Non sei di nessun altro

E di nessuna io

Lo so quanto ti manco

Ma chissà perché Dio

Ci pesta come un tango

E ci fa dire

Amore tra le palazzine a fuoco

La tua voce riconosco

Noi non siamo come loro

È bello, è bello, è bello

È bello stare così

Davanti a te in ginocchio

Sotto la scritta al neon di un sexy shop

Se amarsi dura più di un giorno

È meglio, è meglio

È meglio che non rimani qui

Io tornerò un lunedì

Ma non è mai lunedì

Qui non è mai lunedì

Amore, tra le palazzine a fuoco

La tua voce riconosco

Noi non siamo come loro

È meglio, è meglio

È meglio che non rimani qui

Io tornerò un lunedì

Ma non è mai lunedì

Zeleni Ochi. Perché il cantante “Slava” rappresenta la vera anima dell’Ucraina. Bernard-Henri Lévy su L’Inchiesta il 21 Febbraio 2023.

Come racconta Bernard-Henri Lévy nel libro “Dunque, la guerra!” (La Nave di Teseo), Sviatoslav Vakarchuk non è un semplice artista: è un bardo che ha scelto di cantare esclusivamente nella lingua dei perseguitati, dei bombardati, dei torturati

Il suo nome è Sviatoslav Vakarchuk. Ma tutti, in Ucraina, lo chiamano Slava. È una star del suo paese. D’altra parte, pare che anche lui, prima di Zelensky, abbia

pensato di candidarsi alle presidenziali. E, se non l’ha fatto, l’hanno fatto per lui i suoi fan; sicché Slava ha dovuto, parecchi mesi prima delle elezioni, dichiarare solennemente che non avrebbe oltrepassato il Rubicone e si sarebbe interamente dedicato al suo mestiere di artista. Poiché la sola e unica passione di quest’uomo, che è anche un intellettuale, uno studioso di alto livello e – comunque – un ex deputato, è evidentemente la musica.

Per chi non lo conoscesse, potrebbe far pensare, per errore, a uno Sting o a uno Springsteen, il corpo e la voce tagliati sul modello di quei titani che hanno fatto rinascere il rock anglosassone.

Tuttavia, per fortuna, ci sono quelli che lo conoscono. Tra i quali c’è chi lo ha sentito cantare per i soldati nelle trincee del Donbas.

C’è chi lo ha visto con il suo gruppo, gli Okean Elzy, esibirsi davanti alla Porta di Brandeburgo, a Berlino, dov’è scritta la storia d’Europa, quella dei suoi imperi e dei loro crolli, delle sue barbarie e delle sue liberazioni, che sembrava rispondergli come un’eco.

Poi ci sono i fortunati, come me, che lo hanno scoperto nel 2014 a Maidan, e lo hanno sentito allo Zénith, a Parigi, pochi giorni fa, interpretare Zeleni Ochi (“Occhi verdi”): palcoscenico immenso e grande presenza di pubblico; folla che respirava e ballava all’unisono; compagni scatenati che facevano volare, tra i fumogeni, criniere e chitarre; puro fuoco rock; e Slava che, corpo d’acciaio e testa di tigre, voce roca e melodiosa insieme, balza con un salto felino su una pedana e, a torso nudo, non come Cristo ma come l’uomo di Leonardo, apre le braccia e invita a un battimani forte e invulnerabile come lui.

C’è chi si accontenterà di guardare su YouTube il video messo online dalla Biennale di Venezia: il cortile di un palazzo barocco, tra l’ocra e il bruno, devastato; macerie, fili che pendono, sbarre d’acciaio, fori di pallottole; al secondo piano – omaggio allo spirito delle città che hanno reso eterna l’Europa – un cancello di ferro battuto con curvature delicate; ripreso dal basso verso l’alto, un cielo dal quale non si sa che cosa affiorino, se nuvole o fiamme di un incendio; e, in questo scenario da fine del mondo, un pianista, un quartetto d’archi che fremono e la voce di Vakarchuk che s’innalza – “Obiymi mene… abbracciami… abbracciami ancora… non lasciare le mie braccia, abbracciami…”; che cosa si può cantare di meglio quando si appartiene a un popolo che tenta di restare umano sotto le folgori della disumanità? Che cosa, se non una ballata che ruota senza fine attorno al suo refrain, mentre si cerca un riparo contro l’odio, il missile che cadrà, il caos?

Per tutti costoro, Vakarchuk non somiglia a nessuno. È se stesso, Slava, uno dei nostri ultimi rocker e uno degli ultimi poeti epici del nostro tempo. Perché esistono, in fin dei conti, due tipi di poesia. L’orfica e la lirica. L’orfica si regge da sé, superba, tesa al vertice del suo dire – in francese, Mallarmé. La lirica vuole invece l’accordo con l’altro, grande o piccolo che sia, il cuore nudo come il cuore del poeta, sentimenti semplici e profondi: Notte renana, poesia di guerra di Apollinaire, e La ballata degli impiccati di Villon.

E poi c’è, tra i cantori di questa specie, quell’animale ancora più raro che è il poeta lirico ed epico – quello che i greci chiamavano l’aedo; nella Francia delle origini, il trovatore; colui che, espiatorio senza capro e messaggero senza mandato, si fa carico, in virtù del mistero di quanto possiede – parole, voce, corpo e presenza – del destino di un popolo.

Be’, Vakarchuk si fa carico di questo compito per il popolo ucraino. Come Armstrong con il suo timbro spezzato, in cui trovavano una sintesi nostalgica il martirio e la resurrezione dei neri americani. Come Bono, che stringe, una volta per tutte, nelle sue dissonanze più rauche, il corpo insanguinato della sua amata Irlanda. Come loro, sì, Vakarchuk compie il miracolo di quella semplificazione senza perdita che è il segreto dell’aedo. Come loro, con lo sfarzo delle strutture specifiche del rock, Vakarchuk padroneggia la tecnica di quell’essenzializzazione geniale, di quella lacerazione impietosa nella materia della musica, di quell’ascesi che è la creazione di un refrain perfetto, vertice del canto e del testo, arte totale e minimale che ritorna su se stessa come un ossimoro, e a cui si abbarbica lo spirito di un tempo, di una giovinezza, di un popolo.

E, dentro, nulla di nazionalista. Solo un corpo che trova il suo slancio là dove si suda, si sanguina, si uccide. Solo una voce ruvida e dolce, fra tenore e baritono, con un’intonazione nitida, senza vibrato; una voce che non ha il tempo di ascoltarsi poiché pare sempre sul punto di frantumarsi; una voce di granito che, oltre ad amare e piangere, ruggisce, poiché è il ruggito di un paese che vive e si ostina a vivere.

E solo un bardo che ha scelto – non è sempre stato così, ma oggi lo è – di cantare esclusivamente nella lingua dei perseguitati, dei bombardati, dei torturati. Per tutte queste ragioni, Slava è l’anima dell’Ucraina.

Ci facciamo sempre riconoscere. Le ore piccole riservate a Zelensky, la Meloni indispettita e il Festival dei farisei. Giuliano Cazzola su L’Inkiesta il 13 Febbraio 2023.

La scelta della Rai fa il paio con le dichiarazioni della premier, irritata per non essere stata invitata a Parigi da Macron

Prevista per le ore 1:52 del 12 febbraio, la lettura del messaggio di saluto di Volodymyr Zelensky al Festival di Sanremo ha subito il ritardo di una decina di minuti. A quanti hanno criticato l’orario in cui era stata fissata la cerimonia, la direzione aveva risposto che si sarebbe comunque effettuata prima della proclamazione dei vincitori e quindi nel momento clou del Festival.

In verità, con un po’ di malizia e di faccia tosta in più, sarebbe stato “politicamente corretto” sostenere che la scelta dell’ora – nel palinsesto dello spettacolo – teneva conto dei fusi orari che ci separano dall’Ucraina (e dalla Russia) e che pertanto le parole del presidente ucraino – lette da Amadeus, che per l’occasione non aveva indossato lo smoking mimetico – sarebbero arrivate in quelle lande (che sembrano essere molto interessate al Festival) quando la notte era ancor giovane.

Nel frattempo da alcune ore in Italia era aperto un dibattito sui risultati che Giorgia Meloni ha vantato di aver ottenuto nella riunione del Consiglio europeo del 9 e 10 febbraio, ma soprattutto per l’onta subita dalla presidente di non essere stata invitata a Parigi da Emmanuel Macron alla cena con Zelensky. Indispettita, Meloni si è intrattenuta a lungo sullo sgarbo subito durante la conferenza stampa. Ma è sembrata la volpe della favola che se la prendeva con l’uva acerba soltanto perché non era riuscita a raggiungerne, saltando, i grappoli dorati.

Si dice, negli ambienti informati, che “Io sono Giorgia” si sia posta a lungo, adattandolo alle circostanze, il dubbio di Nanni Moretti: «Mi si nota di più se protesto per l’esclusione dell’Itala o se critico l’esistenza di una gerarchia degli Stati e mi erigo a paladina di tutti quelli che giocano nella serie cadetta?». Ovviamente questa seconda scelta può apparire più generosa, ma ha indotto Meloni a mostrarsi più realista del re, dal momento che nessun altro governo di un Paese di serie B ha protestato per l’iniziativa franco-tedesca, mettendosi a rivendicare – come mai in passato – la regola esclusiva della collegialità.

Meloni poi – per ritorsione? – si è attorniata dei governi del gruppo di Visegrad. Ma questo non è stato un errore, perché la posizione di quei Paesi (tranne l’Ungheria, che comunque fa la sua parte nell’accoglienza dei profughi ucraini) è molto importante per quanto riguarda la partita della vita che l’Unione europea sta giocando con Vladimir Putin. Il ruolo e l’impegno, in prima linea, della Polonia sono fondamentali là dove tuona il cannone; le altre controversie possono attendere.

Poi, la premier ha capito che non avrebbe potuto sottrarsi, in conferenza stampa, a una domanda relativa al caso Sanremo e alla linea di condotta bizzarra della Rai sull’invito al presidente ucraino. «Io avrei preferito che Zelensky fosse stato presente a Sanremo», ha affermato Meloni aggiungendo di aver «apprezzato» la scelta del presidente ucraino di inviare poi la lettera. «Mi dispiace più che altro che si sia creata una polemica: non è mai facile far entrare la politica in una manifestazione come Sanremo, anche se poi ci entra sempre», ha aggiunto.

E, in effetti, incaricare Roberto Benigni di celebrare l’anniversario della Costituzione è stata una scelta politica; non solo per l’impostazione generale della poetica di Benigni («la Costituzione più bella del mondo») quanto piuttosto per una declamazione molto contingente e legata all’attualità; indirettamente anche all’aggressione russa dell’Ucraina.

Se si legge, infatti, solo la prima parte dell’articolo 11 della Costituzione (l’Italia ripudia la guerra) e non si va oltre il punto e virgola, e se non si fa neppure cenno di quanto disposto dal successivo articolo 78 (le Camere deliberano lo stato di guerra), si compie una scelta di campo truffaldina rispetto al conflitto in corso in Ucraina e si valorizzano le tesi immonde dei pacifisti nostrani che da un anno coniugano, come un disco rotto, il verbo ripudiare.

Meloni ha poi insistito su Zelensky: «Credo che fosse comunque importante una sua presenza». Non sappiamo se questa premurosa raccomandazione servisse a sgomberare il campo da un dato di fatto inconfutabile. Sembra un paradosso, ma il presidente Zelensky, ricevuto trionfalmente nelle capitali europee e altrove, sarebbe stato accolto a pernacchie (nella manifestazione annunciata dei farisei pacifisti) soltanto a Sanremo. Ci facciamo sempre riconoscere.

DAGONOTA il 14 febbraio 2023.

L’uscita di Piero Sansonetti in lode di Silvio Berlusconi per l’attacco a Zelensky ha creato non poco caos ai vertici del Pd. L'intemerata del direttore del Riformista avrebbe fatto barcollare il progetto di una nuova Unità (la cui testata è stata rilevata da Alfredo Romeo e affidata a Sansonetti) che vede in Bonaccini lo sponsor politico in pectore e colui che garantirebbe diffusione e protezione con le banche.

 Nella redazione i mugugni sono giornalieri e qualcuno si chiede a che gioco si stia giocando. Anche dopo la proposta (rifiutata) di affidare la direzione del sito della nuova Unità a Michele Santoro.

Estratto da open.online il 14 febbraio 2023.

«Io penso che sulla guerra in Ucraina Berlusconi abbia ragione da vendere». Dopo Vauro, anche Piero Sansonetti – direttore del quotidiano Il Riformista – si schiera a difesa del leader di Forza Italia. Da ieri Berlusconi si trova al centro di una bufera politica, dopo una serie di affermazioni controverse sulla guerra in Ucraina e sul presidente Volodymyr Zelensky. «Se fossi stato premier, io non lo avrei mai incontrato», ha detto il leader di Forza Italia in merito all’incontro tra Giorgia Meloni e il leader di Kiev.

«Bastava che lui cessasse di attaccare le due Repubbliche autonome del Donbass e questo (la guerra, ndr) non sarebbe avvenuto. Quindi io giudico molto, molto, molto negativamente il comportamento di questo signore», ha aggiunto Berlusconi […]

 L’uscita di Berlusconi su Zelensky, infatti, sembra aver ricompattato, almeno in parte, alcuni dei suoi storici antiberlusconiani, tra cui proprio Vauro e Sansonetti, per quanto con sfumature diverse, che hanno difeso il punto di vista dell’ex premier sulla guerra in Ucraina. […]

L'inutile gazzarra sulle sue dichiarazioni. Silvio Berlusconi è l’ultimo pacifista. David Romoli su Il Riformista il 14 Febbraio 2023

Ci si può interrogare su perché Silvio Berlusconi abbia scelto di uscire completamente allo scoperto proprio in questo momento e in modo tanto esplicito. La differenza tra le precedenti esternazioni e quest’ultima sono infatti evidenti: qui non si tratta di frasi pronunciate in un consesso riservato e poi trapelate. Il Cavaliere, stavolta, voleva che la sua posizione fosse nota ovunque.

Le riposte possono essere molte e non incompatibili tra loro. È probabile che il leader di Forza Italia, nel pieno di una prova elettorale il cui risultato era quasi noto in partenza, mirasse a indebolire un’alleata che sta cannibalizzando i suoi consensi colpendola nel punto di forza a livello internazionale, l’immagine di premier capace di garantire lo schieramento atlantista dell’Italia tenendo a bada alleati di tutt’altro avviso. È certo che tenesse conto di sondaggi che registrano una crescente disaffezione degli italiani nei confronti di uno schieramento a sostegno di Kiev che sconfina nella belligeranza. È più che possibile che c’entri molto il rapporto personale con Putin.

Berlusconi, si sa, non ha mai diviso il personale e il politico e tra i suoi difetti, sul piano personale, non figura la slealtà. Ma né le considerazioni tattiche, certamente presenti, né quelle caratteriali implicano malafede. Le cose dette all’uscita dal seggio Berlusconi le pensa davvero e non da ieri. Ed è vero che da premier avrebbe almeno provato a battere un’altra strada, come fece alla vigilia dell’invasione dell’Iraq, quando tentò invano sino all’ultimo di convincere Bush jr. a desistere.

Berlusconi ha riconosciuto le ragioni di Mosca, il che in realtà non equivale affatto a negare quelle di Kiev o a spalleggiare l’invasione. Si tratta, al contrario, dell’unica posizione che possa portare a una soluzione diplomatica, cioè a un compromesso. La distinzione semplificata a confronto tra il bene e il male, tra il torto assoluto e la ragione completa non consente compromessi. Prevede solo la sconfitta senza appello del nemico. L’afasia della diplomazia nella guerra in Ucraina, l’incapacità e forse l’impossibilità anche solo di immaginare un negoziato che non passi per la sconfitta aperta del nemico, dunque nel caso dei Paesi Nato della Russia, deriva proprio dall’impostazione integralista che semplifica quel conflitto dipingendolo come una sorta di ripetizione dal vero di Star Wars: una guerra impari contro l’Impero del Male. Solo che qui i morti e le devastazioni sono vere.

Per quanto dettate anche da un calcolo opportunistico, come l’esigenza di infragilire la premier sul piano internazionale per indebolirla all’interno e forse, al momento opportuno, abbandonarla, le frasi deflagranti di Berlusconi erano pacifiste, non putiniane. Guardavano in faccia la realtà che tutti i leader occidentali si nascondono e nascondono: non c’è soluzione diplomatica senza compromesso e non c’è compromesso senza riconoscere almeno alcune ragioni di entrambi gli antagonisti. In questo senso le note del ministro Tajani prima e di Forza Italia poi sulla determinazione nel continuare a difendere l’indipendenza dell’Ucraina sono meno goffe e ipocrite di quanto possa apparire. Dire che l’Ucraina ha la sua parte di responsabilità nello scoppio della guerra non significa infatti né revocare in dubbio l’indipendenza dell’Ucraina né giustificare l’invasione.

Per Giorgia Meloni è una posizione inaccettabile. Perché l’atlantismo estremo è il suo punto di forza, la carta da calare sul tavolo delle trattative internazionali ma anche perché quella è la sua cultura, compiutamente di destra, più thatcheriana che fascista, convinta della necessità delle prove di forza e poco incline al compromesso. L’aspetto stupefacente è casomai che ogni accenno al compromesso scandalizzi la sinistra. Non si tratta di un fronte tra tanti. Se c’era un elemento costitutivo dell’identità di sinistra, tanto possente da superare ogni differenza era il pacifismo di fondo, la prevalenza della diplomazia sulla forza delle armi. Che questa posizione sia oggi brandita solo dall’uomo che per quasi trent’anni è stato il leader indiscusso della destra italiana, tacciato quasi di fascismo o comunque di pulsioni autoritarie, è tanto eloquente quanto desolante.

Del resto era già successo, su un elemento altrettanto costitutivo dell’identità della sinistra, di ogni sinistra: la giustizia. Qualche decennio fa, in fondo non moltissimi, sarebbe stata inimmaginabile una sinistra disinteressata alle garanzie, ansiosa di delegare ogni protagonismo in materia di giustizia alla magistratura. La sinistra si era ridotta da un pezzo a dover prendere lezioni dal leader della destra su quel fronte. Ma, nonostante la guerra alla Serbia e i bombardamenti su Belgrado, che hanno segnato un vero spartiacque storico, chi avrebbe mai detto che lo stesso copione si sarebbe riproposto sulla guerra e sulla pace? David Romoli

Silvio e Vlad: l’amicizia è più forte di ogni cosa, anche della politica...La vodka, il lambrusco, la Costa Smeralda… Un’anomalia selvaggia avrebbe detto il filosofo, che mette in serio imbarazzo il governo di Giorgia Meloni, scompagina la maggioranza e stressa la stessa Forza Italia, costretta a sposare la linea politica del suo illustre fondatore. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 20 febbraio 2023

C’è qualcosa di commovente nell’amicizia che lega Silvio Berlusconi a Vladimir Putin, un vincolo aureo che supera ogni ostacolo, e che sembra trascendere qualsiasi richiamo ideologico, posizionamento geopolitico o il semplice buon senso. Un’anomalia selvaggia avrebbe detto il filosofo, che mette in serio imbarazzo il governo di Giorgia Meloni, scompagina la maggioranza e stressa la stessa Forza Italia, costretta a sposare la linea politica del suo illustre fondatore. Pensate ai mal di testa che saranno venuti al povero ministro Tajani, vera e propria creatura di Berlusconi e capo della nostra diplomazia, che si deve barcamenare tra la fedeltà all’atlantismo degli alleati e gli input russofoni, del capo.

Il paradosso è che all’interno dell’esecutivo è proprio Fratelli d’Italia che prova a tenere ferma la barra del sostegno a Kiev mentre Lega e Forza Italia rimangono nel limbo dello scetticismo se non della aperta ostilità verso Volodymir Zelensky. «Io con quello non ci parlerei mai» aveva tuonato Silvio la scorsa settimana, parole identiche a quelle che va dicendo da un anno il suo caro amico, per il quale in presidente ucraino non è altro che un burattino nelle mani dell’Occidente. Ma è la stessa narrazione putiniana della guerra che viene spostata senza se e senza ma: «Bastava che Zelensky cessasse di attaccare le due Repubbliche autonome del Donbass e questo non sarebbe accaduto».

L’affetto che il Cavaliere nutre nei confronti del capo del Cremlino è totale e incondizionato. Gli scambi di regali, le bottiglie di vodka e quelle di lambrusco, il “lettone” donato dal presidente russo poi collaudato nelle notti brave di Arcore, il copripiumino di alta sartoria, le vacanze in Costa Smeralda e nella dacia di Sochi, i selfie con il colbacco e così via sono soltanto il contorno, il gossip giornalistico di un rapporto profondo e inattaccabile che dura da oltre 21 anni. Nacque dalla macerie dell’11 settembre, con la nascita della colazione internazionale contro il terrorismo e al Qaeda, con il sostegno alla “guerra infinita” degli angloamericani che all’epoca conveniva anche a Mosca, bersagliata sul suo fronte dal jihadismo ceceno.

Si sono conosciuti e si sono piaciuti a prima vista; in molti sottolineano i tratti in comune, il culto della personalità, le uscite guascone, lo stile informale e poco avvezzo ai protocolli che esibiscono nell’esercizio del potere, Ma si tratta di una lettura superficiale, in realtà i due uomini hanno un carattere molto diverso, Solare ed espansivo Silvio, ombroso e sornione Vladimir, ed è proprio su questa complementarità che si fonda questa intesa speciale, una coppia che funziona e trova affiatamento nelle differenze.

È probabile che alla veneranda età di 86 anni il padrone di Mediaset veda nel presidente russo lo specchio degli antichi fasti, quando era l’uomo più potente e amato di Italia. Che ha avuto il suo momento più alto nel vertice di Pratica di mare del 2002 quando Mosca e la Nato firmarono addirittura un trattato comune per contrastare il terrorismo internazionale. Giorni memorabili di cui l’amicizia a prova di bomba con Vladimir Putin rimane oggi il residuo più tangibile.

L’alleato che imbarazza. Berlusconi torna a fare il filo-putiniano e Meloni deve mettere l’ennesima toppa. su L’Inkiesta il 13 Febbraio 2023.

Il Cavaliere ha detto che «a parlare con Zelensky non ci sarei mai andato», provando anche a convincere la premier a non mettersi in viaggio per Kyjiv. Dura la nota di Palazzo Chigi, che ribadisce ancora una volta la posizione atlantista e di sostegno all’Ucraina del governo

«A parlare con Zelensky non ci sarei mai andato». Silvio Berlusconi, dopo aver votato alle regionali lombarde, ha criticato con queste parole la settimana di incontri europei di Giorgia Meloni, reduce dal Consiglio Ue e dal bilaterale con il presidente ucraino in visita a Bruxelles. «Stiamo assistendo alla devastazione del suo Paese, alla strage dei suoi soldati e dei suoi civili. Bastava che smettesse di attaccare le repubbliche del Donbass e questo non sarebbe accaduto», ha detto il leader di Forza Italia senza freni, tra i volti preoccupati del suo entourage.

Tra i flash dei fotografi e i fan, l’ex premier ha proseguito. «Giudico molto negativamente il comportamento di questo signore», ha incalzato riferendosi a Zelensky che, a suo parere, dovrebbe arrendersi e ricostruire l’Ucraina con Biden. «Se fossi il presidente Usa, gli direi: “Dopo la fine della guerra sarà a tua disposizione un Piano Marshall da 9mila miliardi di dollari per la ricostruzione. A una condizione: che ordini il cessate il fuoco, anche perché non ti daremo più né soldi né armi”. Soltanto una cosa del genere potrebbe convincerlo».

A stretto giro, è arrivata anche la dichiarazione della portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova: «Non spetta a me giudicare Berlusconi. Mi limito ai fatti: dal 2014 la Russia ha insistito perché fossero applicati gli accordi di Minsk per la pace in Ucraina. Ma questo non era quello che l’Occidente aveva in mente».

Dichiarazioni che in pochi minuti scatenano giustamente il terremoto politico. La prima reazione della maggioranza – racconta il Corriere – è un rumoroso silenzio, telefoni sempre occupati o staccati ad arte per non parlare con i giornalisti. Con la paura che le parole dell’ex premier possano provocare conseguenze sul voto regionale in Lombardia e Lazio.

Meno di un’ora dopo le parole di Berlusconi, Palazzo Chigi dirama una nota in cui il nome di Berlusconi non compare e che rivela la distanza abissale tra la posizione del capo di Forza Italia e quella del capo dell’esecutivo: si ribadisce che «il sostegno all’Ucraina del governo è saldo e convinto, come previsto nel programma e come confermato in tutti i voti parlamentari della maggioranza che sostiene l’esecutivo». Come dire che, se Berlusconi vuole restare dentro il perimetro della coalizione che ha vinto le elezioni il 25 settembre, deve muoversi nel solco atlantista e deve smetterla di strizzare l’occhio a Putin. «La nostra posizione in politica estera non cambia e il governo non è a rischio», rassicura la premier.

Antonio Tajani, ministro degli Esteri e vicepresidente di Forza Italia, chiarisce: «Siamo da sempre schierata a favore dell’indipendenza dell’Ucraina, dalla parte dell’Europa, della Nato e dell’Occidente. In tutte le sedi continueremo a votare con i nostri alleati di governo rispettando il nostro programma».

«Pessimo. Ricomincia con i suoi vaneggiamenti putiniani», twitta il leader di Azione Carlo Calenda. Parole «imbarazzanti», le definisce invece il presidente del Copasir ed ex ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, Pd.

L’ex Cavaliere non è nuovo a simili sortite. Non è il primo incidente. Durante la formazione del governo, lo aveva inguaiato un audio registrato durante una riunione a porte chiuse in cui raccontava la «vera versione» del conflitto secondo cui «Putin era stato costretto a intervenire in Ucraina su richiesta delle repubbliche del Donbass dopo che Zelensky aveva triplicato gli attacchi alle frontiere ignorando i trattati». Pochi giorni dopo quell’audio, aveva raccontato di aver ricevuto come dono di compleanno da Putin «20 bottiglie di vodka e una lettera dolcissima» e di aver ricambiato con del Lambrusco e «una lettera altrettanto dolce», in barba ai divieti internazionali di import-export con la Russia. Dopo aver presentato le candidature per le regionali lombarde, aveva addirittura rimproverato l’Ue per il mancato ingresso della Russia nell’Unione: «Un’Europa forte con l’entrata della Federazione Russa non siamo riusciti a costruirla. Dobbiamo lavorarci».

Secondo quanto riporta il Corriere, la nuova scossa all’unità della maggioranza non arriva del tutto in attesa: per giorni Berlusconi avrebbe provato indirettamente a convincere la presidente del Consiglio a desistere dall’intenzione di mettersi in viaggio verso Kyjiv. Ma a invertire la marcia, rinunciando alla missione, Giorgia Meloni non ci pensa proprio. Ha promesso a Zelensky che andrà in visita nella capitale del Paese martoriato dai russi e vuole fortissimamente mantenere l’impegno di partire «in tempi strettissimi», possibilmente prima del doloroso primo dell’invasione che cade il 24 febbraio.

Sanremo 2023: “Su Zelensky esito salomonico, ora si rifletta su politica e tv”. Marco Follini su Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 12 Febbraio 2023

E’ questo lo sfondo del 'caso' Sanremo. Che non avrebbe meritato tutte le polemiche di questi giorni. Ma che rende ancora più evidente la deriva di una comunicazione politica che non rispetta più i vecchi confini e insiste a mescolare il sacro e il profano in modi che ai più attempati tra di noi suonano lievemente impropri

E’ sembrato quasi salomonico l’esito della presenza di Zelensky al festival di Sanremo. Non più un video per dare voce alla tragedia del popolo ucraino. Ma una lettera più discretamente affidata al conduttore Amadeus. Così da dar soddisfazione a chi riteneva doverosa la sua presenza, sia pure a un evento canoro. E contemporaneamente a chi suggeriva di non far troppa mescolanza tra la guerra e le canzonette.

Ci si potrebbe consolare pensando che le vie di mezzo hanno il merito di accontentare un po’ tutti. Ma è una contentezza del tutto “fasulla”. Salomone infatti in questo caso è stato letteralmente capovolto. Nel senso che alla fine tutti si sono dichiarati insoddisfatti e che il nostro servizio pubblico ha fatto una pessima figura -tirato di qui e di là per giorni e giorni in una contesa che non sembrava avere né troppo capo né troppa coda.

Il fatto è che sono anni e anni che su viale Mazzini si esercita una pressione politica che pretende di farsi sempre più dettagliata e prescrittiva. Chi scrive, sia chiaro, non può professarsi più innocente di tanto, avendo fatto parte in anni lontani del consiglio di amministrazione della Rai in nome e per conto del suo partito, la Dc. Ma temo che da allora ad oggi le cose siano cambiate in peggio, e che magari sia arrivato il momento in cui si possa aprire una riflessione meno ovvia e scontata sul rapporto tra politica e televisione.

Infatti, da quegli anni remoti di perfetta e quasi scientifica lottizzazione (copyright Alberto Ronchey) sono cambiate molte cose. Due in particolare. La prima è che si sono mescolati i generi televisivi fino a farne una gelatina indistinguibile (e anche indigeribile, il più delle volte). La seconda è che l’invadenza dei partiti si è miniaturizzata fino a perdere il senso dei vantaggi che pretende di ricavarne. Così per un verso la politica si è espansa di qua e di là, convinta di ricavare profitto dalle trasmissioni più spettacolari e fantasiose. E per un altro verso la sua influenza si è frammentata in mille e mille schegge rese ingombranti e irrilevanti dalla loro stessa continua e irrefrenabile moltiplicazione.

Un tempo i partiti sceglievano i direttori di rete e di testata. E poi però si affidavano alle loro cure, il più delle volte appagati, qualche altra volta più pretenziosi, talvolta perfino scontenti. Il messaggio politico era scarno, attento a presidiare i confini dell’ufficialità. Poi, pian piano, quei confini si sono dilatati. E la macchina dello spettacolo ha cominciato a macinare argomenti pubblici sempre più vari e sempre più strategici. Se al tempo di Ettore Bernabei la questione poteva essere quella delle gambe delle gemelle Kessler, negli anni seguenti ogni trasmissione di varietà, di fiction, di spettacolo è diventata una sorta di tribuna politica surrettizia. I leader e i loro spin doctor hanno preso atto che la loro influenza faceva meglio a passare attraverso canali inediti. Fino al festival di Sanremo, per l’appunto.

Sono i codici della comunicazione politica moderna, che è sempre più fantasiosa e sempre meno canonica. Un gigantesco e variegato palcoscenico che una classe dirigente più incerta di sé e del suo insediamento nel cuore del pubblico ha preso a calcare con una disinvoltura sempre più intraprendente. Con l’effetto di ampliare ancor più i margini della propria presenza e influenza. Ma senza il ritorno di popolarità che ci si sarebbe aspettati. Il fatto è che quanto meno ci si sente ben accolti nel tinello di casa dei propri elettori, tanto più li si va a cercare con le scuse più varie. E anche magari, con quelle più improprie. Salvo scoprire l’indomani che forse il gioco non valeva la candela.

E’ questo lo sfondo del ‘caso’ Sanremo. Che non avrebbe meritato tutte le polemiche di questi giorni. Ma che rende ancora più evidente la deriva di una comunicazione politica che non rispetta più i vecchi confini e insiste a mescolare il sacro e il profano in modi che ai più attempati tra di noi suonano lievemente impropri. Già, perché tutta quella politica che ai nostri giorni si affanna, e si irradia di qua e di là, e coglie ogni occasione per suscitare la curiosità del pubblico, si rivela infine suo malgrado come un gigante dai piedi d’argilla. Sempre più imponente, ma anche sempre più fragile. Redazione CdG 1947

Il disagio di Meloni per le dichiarazioni di Berlusconi: 90 minuti di tensione, poi Tajani media. Monica Guerzoni su Il Corriere della Sera il 13 Febbraio 2023

Le parole di Silvio Berlusconi su Zelensky — «Da premier non gli parlerei» — sono fonte di tensione per il governo di Giorgia Meloni. Ma la premier assicura che sarà in Ucraina «in tempi strettissimi»

Le pallottole verbali di Silvio Berlusconi contro il presidente ucraino Volodymyr Zelensky piombano su Palazzo Chigi di domenica sera, quando le luci di Sanremo (ma non ancora le polemiche) si vanno spegnendo. La prima reazione della maggioranza è un rumoroso silenzio, telefoni sempre occupati o staccati ad arte per non parlare con i giornalisti. Imbarazzo, tensione, paura che le clamorose parole dell’ex premier possano provocare conseguenze sul voto regionale in Lombardia e Lazio o, ancor peggio, incrinare pericolosamente la stabilità del governo.

Giorgia Meloni è colpita, dispiaciuta a dir poco. A caldo, la premier confida ai ministri che le sono più vicini tutto il disagio nei confronti di un leader della sua maggioranza che sembra, sussurra un esponente di primo piano del governo, «vittima della propaganda di Mosca e delle fake news russe, che riescono a permeare le posizioni di tanti, in Italia e in Europa».

Meno di un’ora dopo che le esternazioni berlusconiane hanno preso a rimbalzare sui siti online, Palazzo Chigi batte un colpo. Una breve nota, in cui il nome di Berlusconi non compare e che in estrema sintesi rivela la distanza abissale tra la posizione del capo di Forza Italia e quella del capo dell’esecutivo. Nel ribadire che il sostegno del governo a Kiev è «saldo e convinto» Meloni mette l’alleato-avversario in fuorigioco, richiamando il programma elettorale e ricordando che la maggioranza si è espressa a favore dell’Ucraina in «tutti i voti parlamentari». Come dire che, se Berlusconi vuole restare dentro il perimetro della coalizione che ha vinto le elezioni il 25 settembre, deve muoversi nel solco atlantista di Washington, Bruxelles e Roma e deve smetterla di strizzare l’occhio a Putin. «La nostra posizione in politica estera non cambia e il governo non è a rischio», rassicura i suoi la premier.

Non è il primo incidente. E a Palazzo Chigi non è certo sfuggito che Berlusconi si era schierato platealmente con Putin già alla vigilia delle elezioni politiche. «Le truppe russe dovevano entrare e in una settimana sostituire il governo di Zelenksy con persone perbene», aveva affermato l’uomo di Arcore il 23 settembre, aprendo una polemica infinita che aveva avuto un’ampia eco anche fuori dall’Italia. Ora ci risiamo. E a quanto rivelano fonti di governo la nuova scossa all’unità della maggioranza non arriva del tutto in attesa: per giorni Berlusconi avrebbe provato indirettamente a convincere la presidente del Consiglio a desistere dall’intenzione di mettersi in viaggio verso Kiev.

A invertire la marcia, rinunciando alla missione, Giorgia Meloni non ci pensa proprio. Ha promesso a Zelensky che andrà in visita nella capitale del Paese martoriato dai russi e vuole fortissimamente mantenere l’impegno di partire «in tempi strettissimi», possibilmente prima del doloroso primo anniversario dell’invasione che cade il 24 febbraio. Affermare, come ha fatto Berlusconi, «io a parlare con Zelensky se fossi stato il presidente del Consiglio non ci sarei mai andato» è uno schiaffo difficilmente tollerabile. Come è difficile per Meloni digerire l’accusa falsa al leader ucraino di aver attaccato il Donbass, la minaccia di non mandare più le armi e la richiesta a Biden di ordinare a «questo signore» (Zelensky, ndr) di cessare il fuoco. «Il nostro sostegno all’Ucraina è granitico — rimarca il sottosegretario Giovanbattista Fazzolari dopo aver affrontato la crisi assieme alla premier —. Chiarissimo è il programma di governo, chiarissima la posizione della presidente Meloni, del ministro degli Esteri e di tutti i membri dell’esecutivo».

L’allarme investe anche i ministri azzurri, i quali non si aspettavano un nuovo attacco così diretto del loro leader al capo della resistenza ucraina e alla presidente del Consiglio. Il trambusto dura novanta minuti. Meloni parla più volte con Antonio Tajani, che certo non può rompere con il fondatore di FI. Il ministro degli Esteri si attiva per ottenere il dietrofront dell’ex premier, chiama Arcore, parla con Berlusconi e lo convince a mettere nero su bianco la rassicurazione che il suo «sostegno in favore dell’Ucraina non è mai stato in dubbio».

La fibrillazione è forte, tra gli azzurri, dentro la maggioranza e nel rapporto con le opposizioni. E la sottolineatura che Forza Italia non è mai venuta meno all’adesione alla coalizione di governo — oltre che alla Nato, all’Europa e agli Usa — è la conferma di quanto ieri sera la coalizione meloniana abbia ballato sull’orlo del burrone. Sanremo, Benigni, Mattarella, Zelensky, Fedez, la tensione con i vertici della Rai. «Non ci facciamo mancare nulla», è la battuta amara di un ministro.

Da lastampa.it il 12 febbraio 2023.

«Io parlare con Zelensky? Se fossi stato il presidente del Consiglio, non ci sarei mai andato perché stiamo assistendo alla devastazione del suo paese e alla strage dei suoi soldati e dei suoi civili. Bastava che cessasse di attaccare le due repubbliche autonome del Donbass e questo non sarebbe accaduto, quindi giudico, molto, molto negativamente il comportamento di questo signore». Lo ha detto Silvio Berlusconi dopo aver votato per le regionali lombarde a Milano.

Guerra in Ucraina, Berlusconi contro Zelensky: se fossi premier non parlerei con lui. Il Tempo il 12 febbraio 2023

Silvio Berlusconi attacca Volodymyr Zelensky. Appena uscito dal seggio elettorale, il presidente di Forza Italia si è lasciato andare a un giudizio negativo sul ruolo del presidente dell'Ucraina. «A parlare con Zelensky? Se fossi stato il presidente del Consiglio non ci sarei mai andato perchè stiamo assistendo alla devastazione del suo paese e alla strage dei suoi soldati e dei suoi civili. Bastava che cessasse di attaccare le due repubbliche autonome del Donbass e questo non sarebbe accaduto, quindi giudico, molto, molto negativamente il comportamento di questo signore». Il leader di Forza Italia Silvio Berlusconi non usa mezzi termini parlando con i cronisti all’uscita del seggio, dopo aver votato a Milano per le Regionali. A pochi giorni dall’incontro tra la premier Meloni e il presidente ucraino Zelensky a Bruxelles, il Cavaliere attacca. E suggerisce: nel conflitto russo-ucraino «per arrivare alla pace penserei che il presidente americano dovrebbe prendersi Zelensky e dirgli che è a sua disposizione dopo la fine della guerra con un piano Marshall per ricostruire l’Ucraina. Un piano Marshall dai 6 ai 9mila miliardi di dollari, a una condizione: che tu (Zelensky, ndr) domani ordini il cessate il fuoco, anche perchè noi da domani non vi daremo più dollari e non ti daremo più armi. Soltanto una cosa del genere potrebbe convincere questo signore ad arrivare a un cessate il fuoco».

Berlusconi: «Da premier non avrei parlato con Zelensky». Berlusconi: «Io da premier non avrei mai parlato con Zelensky. Non doveva attaccare il Donbass». Palazzo Chigi: «Convinto sostegno all’Ucraina». Claudio Bozza su Il Corriere della Sera il 12 Febbraio 2023

Il leader di Forza Italia attacca dopo l’incontro tra la premier Meloni e il leader ucraino. Il governo risponde con una nota immediata: «Appoggio confermato da tutti i voti parlamentari della maggioranza»

Silvio Berlusconi vota a Milano per le Regionali in Lombardia. A sinistra: il presidente ucraino Zelensky saluta la premier Giorgia Meloni

Per porre fine alla guerra tra Russia e Ucraina «penserei che il signor presidente americano, Joe Biden, dovrebbe prendersi Zelensky e dirgli: "È a tua disposizione, dopo la fine della guerra, un Piano Marshall per ricostruire l’Ucraina da 9 mila miliardi di dollari, a una condizione, che tu domani ordini il cessate il fuoco, anche perché noi da domani non vi daremo più dollari e non ti daremo più armi”». Perché «soltanto una cosa del genere potrebbe convincere questo signore ad arrivare ad un cessate il fuoco». Lo ha affermato oggi il leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi, dopo aver votato per le Regionali in via Ruffini, a Milano, rispondendo alle domande dei giornalisti in merito alla situazione ucraina.

E dopo l’incontro tra Giorgia Meloni e lo stesso Zelensky al Consiglio europeo straordinario, il leader di Forza Italia va nella direzione politica opposta: «Io parlare con Zelensky? Se fossi stato il presidente del Consiglio, non ci sarei mai andato, perché stiamo assistendo alla devastazione del suo paese e alla strage dei suoi soldati e dei suoi civili». Il motivo? Berlusconi è categorico: «Bastava che cessasse di attaccare le due repubbliche autonome del Donbass e questo non sarebbe accaduto, quindi giudico, molto, molto negativamente il comportamento di questo signore».

Parole che costringono Palazzo Chigi a una immediata nota di precisazione: «Il sostegno all’Ucraina da parte del governo italiano è saldo e convinto, come chiaramente previsto nel programma e come confermato in tutti i voti parlamentari della maggioranza che sostiene l’esecutivo».

Interviene anche Mosca: «Non spetta a me giudicare e dare i voti a Berlusconi, queste sono cose che riguardano gli italiani. Mi limito ai fatti, e i fatti dicono che per otto anni, dal 2014, la Russia ha insistito perché fossero applicati gli accordi di Minsk per la pace in Ucraina. Ma questo non era quello che l’Occidente aveva in mente», dice all’Ansa la portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, commentando le dichiarazioni di Berlusconi. E poi: Zelensky «è ormai un’immagine usata per una campagna pubblicitaria» allo scopo di «far vedere che la Russia è cattiva e l’Occidente è buono». Sempre la portavoce di Zakharova ha poi concluso: «Ormai è un’immagine che appare ovunque, dalle partite di calcio al vostro Festival di Sanremo. È una cosa assolutamente ridicola».

Dure le reazioni dell’opposizione: «La premier Meloni è d’accordo con le parole inquietanti pronunciate da Berlusconi sulla guerra in Ucraina? — chiede polemicamente Simona Malpezzi, capogruppo del Pd al Senato —. Oggi di fatto si è schierato ufficialmente con la Russia di Putin. Con questi alleati di governo la premier non si lamenti di come viene trattata in Ue». Mentre il leader di Azione Carlo Calenda va giù duro: «Berlusconi ricomincia con i suoi vaneggiamenti putiniani, in totale contrasto con Ue, il governo di cui fa parte e il ministro degli Esteri che è anche espressione del suo partito. Pessimo».

Berlusconi trova anche il tempo per scherzare: «Ho votato per l’Inter», ha detto dopo mentre imbucava la scheda elettorale al seggio elettorale della scuola Giovanni Pascoli di Milano.

Ma a tarda sera serve una nota ufficiale di Forza Italia per provare a tappare la falla, prima che rischi di diventare una voragine politica: «Il sostegno del presidente Berlusconi in favore dell’Ucraina non è mai stato in dubbio. Ha solo espresso la sua preoccupazione per evitare la prosecuzione di un massacro e una conseguente grave escalation della guerra, senza venire mai meno all’adesione di Forza Italia alla maggioranza di governo, alla posizione della Nato, a quella dell’Europa e degli Stati Uniti».

(ANSA il 12 febbraio 2023) - "Non spetta a me giudicare e dare i voti a Berlusconi, queste sono cose che riguardano gli italiani. Mi limito ai fatti, e i fatti dicono che per otto anni, dal 2014, la Russia ha insistito perché fossero applicati gli accordi di Minsk per la pace in Ucraina. Ma questo non era quello che l'Occidente aveva in mente". Lo ha detto all'ANSA la portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, commentando le dichiarazioni di Silvio Berlusconi sul presidente ucraino Volodymyr Zelensky.

"La questione - ha detto Zakharova - non riguarda l'opinione dei politici italiani, ma quelli che sono i fatti. E i fatti dicono che per molti anni l'Occidente, in particolare gli Usa, hanno interferito in Ucraina per i loro interessi, non per l'interesse del popolo ucraino. Questo ha creato un'enorme crisi che è precipitata a partire dal 2014, con il secondo movimento di Maidan". Dopo di allora, ha proseguito la portavoce, l'Ucraina si è divisa tra "una parte filo-occidentale e un'altra che pensava agli interessi del proprio Paese".

 "Noi russi - ha affermato ancora Zakharova - abbiamo cercato di attirare l'attenzione dell'Occidente sul fatto che il Paese si sarebbe potuto spaccare se fossero continuate le pressioni occidentali su di esso. Per otto anni abbiamo insistito per l'applicazione degli accordi di Minsk". La portavoce ha sottolineato che questa però non era l'intenzione dell'Occidente. E a questo proposito ha citato recenti dichiarazioni dell'allora cancelliera Angela Merkel e dell'allora presidente francese Francois Hollande, secondo i quali gli accordi di Minsk furono appunto un modo per dare all'Ucraina il tempo di armarsi e prepararsi a un eventuale conflitto con la Russia.

Berlusconi e le tappe dell’escalation pro Putin: dagli audio alle casse di Lambrusco. Fabrizio Caccia su Il Corriere della Sera il 13 Febbraio 2023

Prima delle Politiche, il leader di Forza Italia disse: «Il presidente russo è stato costretto a questa “operazione speciale”»

Il suo pensiero su Zelensky e la guerra in Ucraina si era già manifestato chiaramente il 20 maggio scorso, a tavola da «Cicciotto» a Marechiaro, il ristorante con splendido affaccio sul golfo di Napoli: «Io credo che l’Europa unita deve fare una proposta di pace, cercando di far accogliere agli ucraini le domande di Putin», disse Silvio Berlusconi rivolto a Marta Fascina e Licia Ronzulli, in una pausa dei lavori della convention napoletana di Forza Italia, tra un piatto di scialatielli alle vongole e un’insalata di calamari.

Il disagio di Meloni per le dichiarazioni di Berlusconi: 90 minuti di tensione

Allora al governo c’era ancora Mario Draghi e il Cavaliere si mise per la prima volta di traverso: «Per portare Putin al tavolo delle trattative non bisogna fare le dichiarazioni che sento da tutte le parti». Salvo poi, scoppiata la polemica, ribadire la sua fedeltà all’Europa, alla Nato, all’Occidente e agli Stati Uniti e dirsi d’accordo sull’invio delle armi a Kiev. Da quel giorno comunque è stata un’escalation, fino alle parole di ieri a Milano.

Il 22 settembre, alla vigilia delle elezioni che portarono Giorgia Meloni a Palazzo Chigi, Berlusconi andò ospite da Bruno Vespa a Porta a Porta e rafforzò il concetto giustificando l’amico Volodia. In quell’occasione fornì per la prima volta la sua ricostruzione «revisionista» del conflitto iniziato un anno fa. «Putin è caduto in una situazione drammatica — disse — perché le due repubbliche filorusse del Donbass sono andate da lui dicendo: Zelensky ha aumentato gli attacchi contro di noi, siamo arrivati a 16 mila morti, difendici.

E Putin perciò è stato spinto a inventarsi questa operazione speciale. Ma le truppe dovevano entrare, in una settimana raggiungere Kiev, sostituire con un governo di persone perbene il governo di Zelensky e poi tornare indietro. Invece hanno trovato una resistenza imprevista poi foraggiata con armi di tutti i tipi dall’Occidente».

Una difesa a spada tratta: del resto, oltre 20 anni di feeling con il capo del Cremlino non si possono cancellare di colpo. Dal vertice di Pratica di Mare, 28 maggio 2002, quando Berlusconi fece stringere la mano a Putin e George Bush, fino alle tante vacanze trascorse insieme tra la Costa Smeralda e la dacia di Zavidovo col colbacco di pelliccia in testa. Ed ecco così che il 18 ottobre scorso, il Cavaliere si mette di nuovo a parlare a ruota libera in una riunione con i deputati di Forza Italia.

Ma l’intervento, che doveva restare riservato, viene registrato da una manina rimasta ignota e l’audio viene poi trasmesso in esclusiva dall’agenzia LaPresse: «Io non vedo come possano mettersi a un tavolo di mediazione Putin e Zelensky. Zelensky, secondo me, lasciamo perdere, non posso dirlo…».

La responsabilità della guerra, secondo lui, ricade tutta sull’uomo di Kiev. E ai deputati confida pure che quel telefono rimasto muto a febbraio, quando provò inutilmente a chiamare Putin dopo l’invasione russa, ora finalmente ha ripreso a funzionare: «Ho riallacciato con Putin che mi considera il primo tra i suoi 5 veri amici», rivela. Poi il dettaglio delle 20 bottiglie di vodka inviate da Mosca per il suo compleanno (il 29 settembre) con tanto di letterina «dolcissima» vergata dal presidente russo in persona. E infine la «dolce» missiva spedita in risposta da Arcore, accompagnata da qualche cassa di Lambrusco.

 

(ANSA il 13 febbraio 2023) - "Berlusconi è un agitatore vip che agisce nel quadro della propaganda russa, baratta la reputazione dell'Italia con la sua amicizia con Putin. Le sue parole sono un danno per l'Italia".

 Lo dice Mykhailo Podolyak, consigliere del presidente ucraino Zelensky, commentando a Repubblica le dichiarazioni di ieri del leader di Forza Italia. "Getti la maschera e dica pubblicamente di essere a favore del genocidio del popolo ucraino", aggiunge Podolyak citato ancora da Repubblica.

Lo scontro diplomatico. Kiev ‘bombarda’ Berlusconi, l’attacco di Podolyak al Cav: “Agitatore per conto di Putin, danneggia l’Italia”. Redazione su Il Riformista il 13 Febbraio 2023

Silvio Berlusconi? Un “agitatore vip che agisce nel quadro della propaganda russa, baratta la reputazione dell’Italia con la sua amicizia con Putin. Le sue parole sono un danno per l’Italia”. Le parole durissime sull’ex premier e leader di Forza Italia arrivano da Mykhailo Podolyak, consigliere del presidente ucraino Volodymyr Zelensky, che commenta così l’uscita di domenica sera del Cav sul numero uno di Kiev.

All’uscita del seggio della scuola milanese dove era andato a votare per le elezioni regionali in Lombardia, Berlusconi aveva attaccato duramente il presidente ucraino e di fatto anche la premier Giorgia Meloni e la sua linea schiacciata su Kiev.

“Io a parlare con Zelensky, se fossi stato il presidente del Consiglio, non ci sarei mai andato perché stiamo assistendo alla devastazione del suo paese e alla strage dei suoi soldati e dei suoi civili. Bastava che cessasse di attaccare le due repubbliche autonome del Donbass e questo non sarebbe accaduto, quindi giudico, molto, molto negativamente il comportamento di questo signore”, erano state le parole di Berlusconi, che hanno provocato un caso e forte imbarazzo nella maggioranza e in particolare a Palazzo Chigi e alla Farnesina, guidata dal suo fedelissimo Antonio Tajani.

A distanza di poche ore arriva dall’Ucraina la risposta al veleno del fidato consigliere di Zelensky. “Berlusconi deve smetterla di mascherare il suo vero desiderio e dichiarare pubblicamente di essere a favore del genocidio degli ucraini. E di considerare possibile, nel 21esimo secolo, guerre di occupazione in Europa“, il commento di Podolyak a Repubblica.

Secondo il fedelissimo di Zelensky, Berlusconi “chiaramente non comprende il contesto della guerra che la Russia ha mosso in Europa e non ha alcuna influenza sull’agenda politica globale. Inoltre le sue parole ripetono il messaggio chiave della propaganda del Cremlino, che è: ‘non interferite con noi russi mentre uccidiamo gli ucraini’. Ogni persona, incluso Berlusconi, che ha il privilegio di vivere in un Paese europeo libero può ovviamente esprimere la propria opinione, persino sostenere la violenza di massa, la guerra, l’autoritarismo russo. E tuttavia penso che la sua visione misantropica causa danni alla impeccabile reputazione dell’Italia. Perché lui baratta la reputazione del vostro Paese con la sua amicizia col dittatore Putin“.

Alla freddezza della Meloni e di Fratelli d’Italia, che si sta spendendo sul campo internazionale su una posizione di deciso atlantismo, si aggiunge l’agitazione e l’imbarazzo del ministro degli Esteri Antonio Tajani. Il braccio destro di Berlusconi in Forza Italia già domenica sera ha provato a “mettere una pezza” alle parole del suo leader con un tweet pochi minuti dopo le dichiarazioni del Cav.

“Forza Italia – scriveva il titolare della Farnesina – è da sempre schierata a favore dell’indipendenza dell’Ucraina, dalla parte dell’Europa, della NATO e dell’Occidente. In tutte le sedi continueremo a votare con i nostri alleati di governo rispettando il nostro programma”.

Ma gli affondi ucraini su Berlusconi non si fermano a Podolyak. Con le “assurde accuse” del leader di Forza Italia al presidente ucraino Volodymyr Zelensky, Berlusconi “tenta di baciare le mani insanguinate di Putin” come fece con Gheddafi e “incoraggia la Russia a continuare i suoi crimini“. Questo il commento del portavoce del ministero degli Esteri ucraino Oleg Nikolenko, che invece esprime “apprezzamento per la pronta risposta di Giorgia Meloni” a sostegno di Kiev.

Forza Italia! Berlusconi, Zelensky, il concorso esterno in associazione putinista, e noi. Christian Rocca su L’Inkiesta il 13 Febbraio 2023

Le ripugnanti fandonie dell’ex capo del centrodestra contro il presidente ucraino sono il finale tragico di una storia italiana, cui è arrivato il momento di mettere un punto. Un appello ai figli, agli amici e alle badanti del disorientato ex leader di Arcore 

La Russia è il paese che ama. Lì Silvio Berlusconi non ha le sue radici, ma forse le sue speranze e i suoi orizzonti, perché in fondo soltanto gli amici criminali del Cremlino possono ancora fingere di dargli ascolto. 

Gli occidentali che pendevano dalle labbra della propaganda russa, in Unione Sovietica venivano chiamati «utili idioti», oggi il paradosso è che a guidare questo preciso girone di babbei italiani ci sia l’ex imbonitore della rivoluzione liberale, sceso in campo trent’anni fa perché non voleva vivere «in un paese illiberale».

Conoscere le ragioni della grottesca fascinazione berlusconiana per Vladimir Putin è importante (lettone a parte), ma mai quanto evitare che questo flagrante concorso esterno in putinismo possa creare ulteriori danni alla credibilità internazionale dell’Italia e all’incolumità del favoloso popolo ucraino che si difende con coraggio ammirevole dalle tenebre nazibolsceviche di Putin. 

Le oscene dichiarazioni berlusconiane contro il presidente ucraino Volodomyr Zelensky, indicato come il responsabile della guerra in Ucraina e non come la vittima, sono una tragedia nazionale e un imbarazzo perfino per l’attuale, maldestro, governo di destra (senza considerare quanto le parole di Berlusconi siano diventate indistinguibili da quelle di Travaglio, di Santoro e dei pochi nostalgici del comunismo). 

L’Italia è stata certamente contagiata dal putinismo, una patologia che ci espone alle due grandi tragedie del Novecento, ma non è ancora diventata una distopia prodotta dalla fabbrica dei troll di San Pietroburgo.

Oltre a Retequattro, alle agiografie di Putin firmate per Mondadori dall’attuale ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano e alla stravagante università berlusconiana di Villa Gernetto che affida acrobaticamente la lectio magistralis sulla libertà proprio a Putin, esiste anche un’altra Italia. Un’Italia senziente e responsabile che aiuta il governo di Kyjiv a resistere all’aggressione imperialista russa e che lo fa insieme con gli alleati europei e occidentali.

L’Italia non è quella di Berlusconi (o di Salvini o di Conte), l’Italia è quella del ventottenne cantante milanese Tananai che è stato capace di orchestrare una raffinata operazione politica e culturale per portare al Festival che si è reso ridicolo su Zelensky una canzone d’amore dedicata agli ucraini che si battono contro la barbarie russa. «Noi non siamo come loro», canta Tananai in “Tango”. Non siamo come loro, dicono gli ucraini dei russi. Non siamo come loro, come gli «utili idioti» di Putin, nemmeno noi italiani.

I figli, gli amici e le badanti di Silvio Berlusconi intervengano, mettano un punto a questo strazio. Abbiano pietà di lui, e di tutti noi.

Forza Italia!

Estratto da open.online il 17 febbraio 2023.

A cinque giorni dall’uscita pubblica di Silvio Berlusconi contro Volodymyr Zelensky e il sostegno italiano e occidentale al suo governo, arriva la prima concreta reazione del Partito popolare europeo, la “casa” europea del centrodestra di cui fa parte anche Forza Italia. Con un annuncio a sorpresa durissimo.

 «A seguito delle osservazioni di Silvio Berlusconi sull’Ucraina abbiamo deciso di annullare le nostre giornate di studio a Napoli. Il supporto per l’Ucraina non è facoltativo», ha reso noto via Twitter il presidente del Ppe, il tedesco Manfred Weber. Una decisione pensata per dare un segnale e una sanzione politica diretta proprio contro l’ex premier italiano – già in passato inviso a una parte rilevante dello stesso Ppe per gli scandali interni e le gaffes internazionali.

L’annuncio di Weber prosegue infatti separando scientificamente il giudizio su Berlusconi da quello sul governo italiano, sul partito dell’ex premier e sul suo uomo di fiducia numero uno in entrambi. «Antonio Tajani e Forza Italia hanno il nostro sostegno e proseguiamo la collaborazione con il governo italiano sui temi dell’Ue», ha precisato il presidente del Ppe.

 Il convegno annullato

La riunione in oggetto – ricostruisce l’Ansa – era in programma a Napoli il prossimo giugno e prevedeva la partecipazione, tra gli altri, di Berlusconi, della presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen e della presidente del Parlamento europeo Roberta Metsola (tutti membri del Ppe).

Ma questa settimana è montata sempre più l’ira dentro al Ppe, specialmente tra le forze politiche di centrodestra dell’est Europa, contro Berlusconi, “reo” di aver diffuso davanti ai microfoni di tutta la stampa italiana una nuova ricostruzione decisamente “putiniana” delle cause della guerra in Ucraina e del modo di mettervi fine. «Per arrivare alla pace il presidente americano dovrebbe prendersi Zelensky e dirgli: “È a tua disposizione, dopo la fine della guerra, un Piano Marshall per ricostruire l’Ucraina da 6, 7, 8 o 9 mila miliardi di dollari.

 A una condizione: che tu domani ordini il cessate il fuoco, anche perché noi da domani non ti daremo più dollari e non ti daremo più armi”. 

(...)

 Tajani e Forza Italia fanno quadrato attorno al fondatore

Il tentativo di dividere i destini politici di Berlusconi da quelli del partito non è piaciuto però al “co-destinatario” del messaggio. «Berlusconi è Forza Italia. Forza Italia è Berlusconi. Non condivido la decisione di rinviare la riunione di Napoli. Anche perché Berlusconi e Fi hanno sempre votato come il Ppe sull’Ucraina, come dimostrano gli atti del Ppe», è la difesa a spada tratta trasmessa a stretto giro dal vicepremier e ministro degli Esteri Antonio Tajani. Una difesa dell’ex premier cui ha fatto seguito poco dopo quella diramata dal partito stesso.

 «Dentro Forza Italia esiste una sola linea e respingiamo – come abbiamo sempre fatto – ogni maldestro tentativo di dividerci», hanno scritto in una dura nota i capigruppo parlamentari di FI, Licia Ronzulli e Alessandro Cattaneo. «Ci auguriamo, innanzitutto come italiani, il chiarimento del malinteso e un ravvedimento di Manfred Weber, al quale chiediamo di non intervenire più. Il tema non è unicamente l’annullamento degli ‘Study days’, facendo un torto non solo a un partito ma all’Italia, ma anche la volontà di entrare nella vita interna di un partito, imponendo o escludendo i leader dello stesso. Questo è inaccettabile. Gli ‘Study days’ sono una scusa».

Esplode il “caso Ppe”. Berlusconi: “criticato perché voglio la pace”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 17 Febbraio 2023.

Il presidente del Partito Popolare Europeo, Manfred Weber, ha stigmatizzato le affermazioni di Silvio Berlusconi sull'Ucraina e ha deciso di annullare le giornate di studio previste a Napoli a giugno, Lo stupore del Cavaliere che mantiene le sue posizioni e rilancia una via diplomatica

Una vera e propria bomba mediatica esplode su Forza Italia e sul suo leader, Silvio Berlusconi. A scagliarlo è il presidente del Ppe, Manfred Weber. Poche righe, in cui è netta la presa di distanza dalle parole del leader azzurro sull’Ucraina e Zelensky: “Giudico molto, molto negativamente il comportamento di questo signore“. “Se fossi stato premier non lo avrei incontrato” . Poche parole che sono bastate per lanciare l’affondo: “A seguito delle affermazioni di Silvio Berlusconi sull’Ucraina abbiamo deciso di annullare le nostre giornate di studio a Napoli“.

Non si fa attendere la replica di Berlusconi che rilancia: “Con il mondo sull’orlo di una guerra nucleare tra Russia e i Paesi della Nato – scrive Il leader di Forza Italia su Facebook – io vengo criticato perché sto chiedendo che insieme ai sostegni per l’Ucraina, da sempre condivisi e votati da Forza Italia, si apra immediatamente un tavolo per arrivare alla pace. Questo è un dovere per un partito come il Ppe“. 

“Il supporto per l’Ucraina non è facoltativo”, ha scritto Weber. Il leader del Ppe ‘salva’ però Antonio Tajani e Forza Italia, che “nel Ppe hanno il nostro pieno sostegno“. Così come Weber tiene a sottolineare che nulla cambia nei confronti del premier italiano e del suo esecutivo: “Proseguiamo la collaborazione con il governo italiano sui temi dell’Ue“, spiega in un tweet. Insorge Forza Italia, che giudica quantomeno “incomprensibili” le parole di Weber, accolte con stupore dall’ex premier forzista.

Berlusconi viene descritto come molto sorpreso dal tweet del presidente del Ppe. Lo stesso Weber che, solo la scorsa estate, a fine agosto, era stato “ricevuto” da Berlusconi ad Arcore, che il Cavaliere dimentica essere solo una villa privata. Un’opsite si accoglie, non si riceve. Al termine del lungo colloquio il Cavaliere a suo tempo scriveva sui suoi canali social: “Ho ricevuto oggi l’amico Manfred Weber“. Dal canto suo, il leader del Ppe aveva esortato gli elettori a votare “per Forza Italia, per coloro che credono in un forte processo di integrazione europea”. E tutto questo avveniva circa sei mesi fa.

Oggi però il tweet di Weber cambia radicalmente la situazione. “Berlusconi è Forza Italia, Forza Italia è Berlusconi: non condivido perciò la decisione di rinviare la riunione di Napoli“, commenta il ministro degli Esteri Antonio Tajani. aggiungendo che “Berlusconi e Forza Italia hanno sempre votato come il Gruppo Ppe sull’Ucraina come dimostrano gli atti del Parlamento europeo”. Ancor più netto Fulvio Martusciello capodelegazione di Forza Italia al Parlamento europeo, : “Forza Italia aderisce da 25 anni al Ppe e il presidente Berlusconi ne incarna da sempre storia e valori. In Italia è interprete e garante dei valori cristiani ed europei su cui si fonda l’Unione Europea. Riteniamo pertanto inaccettabili le parole del presidente Weber“. 

Puntuali arrivano le critiche dei due capogruppo azzurri di Camera e Senato: “Le parole di Manfred Weber sorprendono e le respingiamo con energia e determinazione“, scandiscono Licia Ronzulli e Alessandro Cattaneo, che rimarcano: “Forza Italia non ha mai lasciato alcun margine di ambiguità sulla crisi ucraina e il presidente Silvio Berlusconi ha chiarito a più riprese che non ha mai inteso venir meno all’impegno preso nel sostenere l’Ucraina, quindi non deviando in alcun modo dalla linea del partito. Dentro Forza Italia esiste una sola linea e respingiamo – come abbiamo sempre fatto – ogni maldestro tentativo di dividerci”. I due non si rendono conto di stare buttando con le proprie dichiarazioni della benzina sul fuoco.

I due capogruppo augurano “il chiarimento del malinteso e un ravvedimento di Manfred Weber“, al quale addirittura lanciano un avvertimento: “non entri nella vita interna di un partito, imponendo o escludendo i leader dello stesso. Questo è inaccettabile“. Parte il fuoco di fila dei parlamenmtari e esponenti di governo azzurri: il filo conduttore è non solo lo stupore ma soprattutto il ritenere inaccettabili le parole di Weber. Redazione CdG 1947

Emiliano difende la libertà di pensiero di Berlusconi sull’Ucraina. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 17 Febbraio 2023.

Non capita tutti i giorni di ascoltare un magistrato (seppure in aspettativa) esponente della sinistra cha ha l'onestà morale e professionale di dire le cose come stanno al di fuori del proprio collocamento politico.

Il governatore della Regione Puglia Michele Emiliano sull’Ucraina e sul conflitto con la Russia non la pensa come Silvio Berlusconi ma difende la sua libertà di poter esprimere un giudizio senza ritorsioni politiche. Il governatore ospite in collegamento dell’edizione di oggi del programma tv “Tagadà” (La7) condotto da Tiziana Panella, ha commentato le conseguenze delle parole leader di Forza Italia, contestato duramente dal leader del PPE.

“Sono due giorni che sto parlando ‘a favore’ di Berlusconi. – ha detto Emiliano – Ieri ho dovuto spiegare a tutti che l’assoluzione di una persona innocente è la migliore delle notizie che un processo possa dare. Berlusconi è Forza Italia, un partito che non esiste senza di lui, non ha nessuna capacità di entrare nelle case degli italiani e di dare il senso della propria presenza, una cosa evidente a tutti il fatto che Forza Italia non può prescindere da Berlusconi. Il partito popolare europeo ragiona con Berlusconi, non con il governo italiano. Weber, che fa parte di un partito politico e di una federazione di partiti popolari, giustamente ha detto a Berlusconi che sull’Ucraina non è questa la posizione del partito popolare”. 

“Dobbiamo ammettere che Berlusconi ha detto delle cose nell’esercizio della sua libertà – ha aggiunto Emiliano – queste cose vanno criticate sicuramente, io non sono d’accordo con quanto ha detto Berlusconi, ma non lo si può mettere a tacere e chiudere la partita come se avesse commesso un sacrilegio. Ha un punto di vista, lui è un vecchissimo amico di Vladimir Putin, come tutto il centrodestra prima della guerra era legatissimo a Putin, sia Giorgia Meloni, che Matteo Salvini e Berlusconi. I russi hanno sempre molto investito sulle destre in Italia. È evidente che il riposizionamento della destra italiana, anche dovuto alle nostre alleanze nella Nato, è totale, ma Berlusconi continua a pensarla a modo suo. Voi al posto di Berlusconi vi fareste dire che cosa deve pensare? È un uomo che ha fatto tantissimo per il centrodestra, non deve praticare la libertà di pensiero ora?” conclude l’ex magistrato ed ormai ex esponente del Pd.

Emiliano il giorno prima aveva letteralmente gelato il PD, intervenendo a “Stasera Italia“, il programma di Rete 4 in onda giovedì 16 febbraio, sostenendo e spiegando come “L’assoluzione di un imputato innocente è la più bella delle notizie che ci possa essere, perché vuol dire che il sistema funziona sia pure a fronte di alcune distorsioni”, aggiungendo che il vizio su cui si basava il procedimento contro il leader di Forza Italia in realtà è qualcosa di più di un cavillo, come qualcuno ha sostenuto. “Non conosco gli atti del processo però se l’imputazione era quella di avere, in qualche maniera, dato delle utilità a delle persone perché dichiarassero il falso in un processo e queste persone sono state sentite come testimoni anziché come imputati, quindi con la garanzia della presenza del difensore con l’avviso che hanno facoltà di non rispondere, è evidente che le testimonianze di queste persone non sono utilizzabili, come mi pare sia accaduto nel processo“. In poche parole si è trattato di un procedimento finito sin dall’inizio e durato 11 anni in cui la sinistra con il Pd su tutti ha cavalcato “bunga bunga” e le “cene eleganti” per distruggere Berlusconi anche fuori dalle aule . 

Non capita tutti i giorni di ascoltare un magistrato (seppure in aspettativa) esponente della sinistra cha ha l’onestà morale e professionale di dire le cose come stanno al di fuori del proprio collocamento politico.

Redazione CdG 1947

Stasera Italia, Liguori tuona: “Zelensky è un invasato, manda il suo popolo alla rovina". Il Tempo il 17 febbraio 2023

Paolo Liguori non accetta in alcun modo la linea verso la pace delineata da Volodymyr Zelensky. Il direttore di Tgcom è ospite dell’edizione del 17 febbraio di Stasera Italia, talk show di Rete4 condotto da Barbara Palombelli, e approfondisce il futuro della guerra tra Ucraina e Russia: “Zelensky ha detto che l’Ucraina può farcela, ma ha detto per me una frase agghiacciante ‘Finisce tutto solo con la nostra vittoria’. Sulla guerra tra Ucraina e Russia ci sono quattro punti di vista diversi, quello di Silvio Berlusconi, quello di Sergio Mattarella, quello del cinese, eventualmente quello di Antonio Tajani, seppure possiamo trovare una differenza con Berlusconi, sono quattro punti di vista razionali, non da tifosi. Però c’è Zelensky che parla di vittoria col suo linguaggio”. 

“A me - sentenzia il giornalista - Zelensky sembra un invasato, che manda anche il suo popolo alla rovina. È chiaro che è stato aggredito, ma questo avviene in ogni campo di battaglia, puoi anche essere l’aggredito ma c’è sempre un momento in cui si dice che il sacrificio è troppo e bisogna fermare con una trattativa, come dice il più saggio di tutti, il capo del Pentagono. Come sempre - chiosa Liguori - è un generale che dice le cose più chiare. Basta vedere cosa successe ai francesi nella prima guerra mondiale e ai tedeschi nella seconda”.

Durissima la replica del Cavaliere. Il PPE contro Berlusconi: lo mette al bando perché è pacifista. Redazione su Il Riformista il 18 Febbraio 2023

Manfred Weber, il segretario del Partito popolare europeo, ha messo al bando Silvio Berlusconi, per via delle posizioni pacifiste espresse domenica scorsa dal leader italiano. E mettendolo al bando, ha disdetto la riunione del Ppe che avrebbe dovuto tenersi a Napoli nella prossima primavera. Berlusconi ha risposto abbastanza indignato: “Mentre il mondo è sull’orlo di una guerra mondiale si critica me perché propongo un tavolo di pace? Spero che nel Ppe si apra immediatamente una discussione”.

Weber ha spiegato di aver ricevuto le proteste di diversi leader dei partiti che aderiscono al Ppe, soprattutto quelli dell’Est Europa, e di avere stabilito che l’appoggio pieno all’Ucraina non è un optional. Frase che vale una scomunica. Forza Italia ha reagito con dichiarazioni di Antonio Tajani, ministro degli esteri che nei giorni scorsi si era dissociato da Berlusconi, e di Fulvio Martusciello capo della delegazione di Forza Italia al Parlamento europeo.

Ha detto Tajani: “Berlusconi è Forza Italia. Forza Italia è Berlusconi. Non condivido la decisione di rinviare la riunione di Napoli -ha proseguito Tajani – anche perché Berlusconi e FI hanno sempre votato come il Ppe sull’Ucraina”. Fulvio Martusciello è stato ancora più polemico: «Forza Italia aderisce da 25 anni al Ppe e il presidente Berlusconi ne incarna da sempre storia e valori. In Italia è interprete e garante dei valori cristiani ed europei su cui si fonda l’Unione Europea. Riteniamo inaccettabili le parole del presidente Weber. Berlusconi è da sempre uomo di pace, unico leader occidentale capace di mettere al tavolo Stati Uniti e Russia, ponendo fine ad oltre cinquant’anni di guerra fredda».

Bisogna vedere se l’incidente si conclude qui o se avrà sviluppi e se minerà le relazioni tra Forza Italia e il Ppe. E quali ripercussioni potrà avere all’interno della maggioranza di governo. Giorgia Meloni potrebbe essere seccata dell’incidente, perché comunque complica le relazioni tra Italia ed Europa. Oppure potrebbe essere soddisfatta perché pensa che in questo modo è lei a diventare garante della fedeltà europea e Nato dell’Italia.

Chi sicuramente non riesce a nascondere la sua contentezza è l’opposizione. In particolare il Pd e Azione che dichiarano che la sortita di Berlusconi ha danneggiato l’immagine dell’Italia. C’è solo una cosa che non è chiara: ma se un esponente politico assume posizioni non militariste e non guerriste è un traditore? Come quando Mussolini dava del “panciafichista” e del disfattista a ogni socialista contrario alla prima guerra mondiale?

Appoggio convinto e dubbi legittimi. Augusto Minzolini il 18 Febbraio 2023 su Il Giornale.

A volte anche personaggi autorevoli come il capogruppo del Ppe al Parlamento di Strasburgo, Manfred Weber, commettono errori o scadono in polemiche inopportune specie se il tema è una guerra

A volte anche personaggi autorevoli come il capogruppo del Ppe al Parlamento di Strasburgo, Manfred Weber, commettono errori o scadono in polemiche inopportune specie se il tema è una guerra. Annullare con un tweet un vertice a Napoli per le parole di Silvio Berlusconi sull'Ucraina fa non solo un torto al Cavaliere, ma anche a Forza Italia e al nostro Paese. Perché più delle parole contano i fatti e, in questo caso, i fatti sono tutti da una parte. Non c'è un atto del Parlamento di Strasburgo in favore di Kiev che non abbia avuto il voto degli azzurri, come pure tutti i provvedimenti presi in appoggio a Kiev - da quelli diplomatici agli aiuti militari ed economici - prima dal governo Draghi e ora dal governo Meloni hanno avuto il consenso di Forza Italia. E Forza Italia non è altro che Silvio Berlusconi.

Di più: senza questa maggioranza di governo, di cui gli azzurri sono parte integrante, non ci sarebbe una coalizione pronta ad appoggiare, ad esempio, le forniture militari. Perché, come si sa, a quell'alternativa di sinistra verrebbero a mancare i voti dei grillini. Un dato su cui sia Weber, sia il governo di Kiev dovrebbero riflettere. Come pure il capogruppo del Ppe dovrebbe ben sapere che l'Italia è il Paese europeo, insieme alla Germania, che ha pagato di più le conseguenze dell'embargo alla Russia, visto che ha una vocazione essenzialmente manifatturiera per cui i costi dell'energia incidono non poco sulla sua economia. Se poi si sta appresso più alle parole che ai fatti, non va dimenticato che domenica scorsa, a poche ore dalle parole pronunciate davanti ad un seggio elettorale che hanno provocato la polemica, Berlusconi disse al Giornale: «Non sto dalla parte di Putin».

La polemica di Weber, oltre ad essere inappropriata, offre però anche l'occasione per una riflessione. Il Giornale è sempre stato dalla parte dell'Ucraina senza «se» e senza «ma». Ha condannato senza mezzi termini la condotta di Putin e ha appoggiato senza riserve la fornitura di armi a Kiev. Questo non toglie, però, che non sia solo legittimo ma addirittura utile interrogarsi su quali possano essere le vie d'uscita da una guerra che ha già provocato centinaia di migliaia di morti su entrambi i fronti, ha raso al suolo interi territori nel cuore dell'Europa e può trasformarsi in un'apocalisse nucleare. Anzi, sarebbe irresponsabile non farlo, per cui se Berlusconi invoca una tregua, immagina un piano Marshall per l'Ucraina e chiede con un tweet un tavolo per la pace al Ppe, ne ha tutto il diritto. Anzi, svolge una funzione virtuosa.

Appoggiare Zelensky non significa smettere di pensare. E un confronto su questi temi può anche tenere unite le opinioni pubbliche occidentali che di dubbi ne nutrono non pochi, se si pensa che in Italia secondo i sondaggi il 63% dei cittadini non condivide il nostro approccio alla guerra e negli Stati Uniti in pochi mesi i favorevoli alla linea di Biden sull'argomento sono passati dal 70% al 48%. Sono dati su cui dovrebbero meditare tutti quelli, in primis Weber, che hanno a cuore il destino dell'Ucraina. Con un'ulteriore postilla: credere, obbedire, combattere è un lessico adatto ai regimi totalitari come quello russo, non certo alle democrazie occidentali.

LE BRIGLIE SCIOLTE DEL CAVALIERE. IL MURO EUROPEO AL "PUTINISMO MASCHERATO" DI BERLUSCONI E IL CONTO REPUTAZIONALE CHE PAGA L'ITALIA. ROBERTO NAPOLETANO il 19 febbraio 2023 su il Quotidiano del Sud.

C’è qualcosa di particolare che riguarda solo Berlusconi tra capi e ex capi di governo europei. Si ha la percezione di rivivere con lui su un altro piano un parallelo ardito che ha riguardato il lungo discorso di relazione del Pci italiano con l’Unione Sovietica. Il Pci sapeva bene che sistema era quello sovietico, ma sapeva che la sua storia era legata lì e che se avesse negato quella storia sarebbe saltato tutto. Potremmo chiamarla la maledizione dell’origine. Anche questa dello storico rapporto personale tra Putin e Berlusconi comincia ad assumere oggi la dimensione della maledizione dell’origine. C’è un muro nuovo di consapevolezza e di paura dei Paesi europei dell’Est e del Nord contro il quale il putinismo mascherato di Berlusconi rischia di infrangersi. Sarebbe bene che il ravvedimento avvenisse presto con uno dei suoi soliti colpi di teatro in cui tutti avranno voglia di credere

IL “PROPRIETARIO” di un partito (Forza Italia) che parla con una libertà anche espressiva che non è propria di un capo di un partito e all’altezza del suo passato di premier. Questo è oggi Silvio Berlusconi che, forse, per ragioni anche anagrafiche dimostra di avere perso ancora di più ogni genere di freni inibitori. È stato l’uomo che ha avuto più a lungo di tutti la responsabilità di governo in Italia e ha fatto in politica estera cose importanti, ma oggi si prende la libertà di dire quello che vuole anche su cose delicatissime che minano la stabilità del governo Meloni di cui è il terzo azionista e la posizione internazionale dell’Italia dentro uno scenario geopolitico molto delicato.

Sarebbe tutto più semplice se lui di quel partito non fosse il proprietario. Perché se butta lì cose a vanvera sarebbe facile dire “ci dissociamo” oppure “non possiamo andare dietro un matto”. Però questo non avviene anche quando spara cavolate pro Putin nei confronti del protagonismo di Zelensky che lui non avrebbe incontrato giocando all’uscita del seggio su una stanchezza italiana, solo italiana, nei confronti di questo presunto protagonismo. Però questo non avviene perché Berlusconi è Forza Italia e Forza Italia è Berlusconi. Il vicepremier e ministro degli Esteri, Antonio Tajani, unico erede politico all’altezza del Cavaliere in quel partito, sta facendo al governo un lavoro egregio mettendo a frutto un patrimonio di credibilità costruito alla guida del Parlamento europeo e con una lunga carriera da commissario europeo in posizioni strategiche.

È stato ovviamente anche in questo caso il primo a riaprire il dialogo con Manfred Weber, capogruppo dei popolari europei, che ha preso le distanze pubbliche dalle esternazioni anti-Zelensky del Cavaliere e ad aprire ed ottenere uno spazio di mediazione. Nella situazione data con un vertice di Napoli annullato per questa ragione e nei termini possibili per l’insurrezione reale che attraversa il partito popolare europeo contro Berlusconi si tratta di un capolavoro assoluto. Queste briglie sciolte del Cavaliere cominciano, tuttavia, ad essere un problema serio a livello internazionale per l’Italia e per il governo Meloni. La “messa al bando condizionata” di Berlusconi dai popolari europei e da Weber suo storico alleato mette a nudo un rapporto inconfessabile con Putin dell’ex premier italiano. Un rapporto che evidentemente supera anche le lacerazioni insanabili determinate in Europa con i Paesi dell’Est e del Nord dai comportamenti putiniani e non tiene neppure conto delle incrinature scivolose nei rapporti con il mondo autocratico cinese e turco che quegli stessi comportamenti hanno causato. Supera questo rapporto perfino il conflitto globale di civiltà tra mondo autocratico e Occidente e il nuovo ordine mondiale che ne discenderà. Supera le delicatezze che riguardano la partita che il governo Meloni sta giocando in Europa e non tengono in alcun conto l’interesse italiano che pure dovrebbe venire prima di ogni altra cosa.

C’è qualcosa di molto particolare tra capi e ex capi di governo europei che riguarda solo Berlusconi. Si ha la percezione di rivivere su un altro piano un parallelo ardito che ha riguardato il lungo discorso di relazione del Pci italiano con l’Unione Sovietica. Un partito comunista italiano che da tempo sapeva bene che sistema era quello sovietico, ma sapeva anche che la sua storia era legata lì e che se avesse negato quella storia sarebbe saltato tutto. Potremmo chiamarla la maledizione dell’origine. Anche questa dello storico rapporto personale tra Putin e Berlusconi comincia ad assumere oggi la dimensione della maledizione dell’origine. Lo sanno tutti qual è la situazione autocratica di Putin oggi aggressore manifesto e criminale di guerra non più nascosto con un’economia rasa al suolo e un isolamento crescente all’interno e nelle relazioni storiche con la Cina che ambisce a subentrare in toto alle sue posizioni in Africa, con la Turchia terremotata e insofferente e perfino con l’India che prende sempre più coraggio e rimarca le distanze da Putin sulla scia della nuova presa di posizione cinese che spinge perché cessi la guerra nel cuore dell’Europa.

Tutto ciò ha determinato posizioni nettissime unanimi di tutti i governi europei, ma lascia aperta questa nostra incomprensibile divisione dichiarativa fuori dalla storia, spesso estemporanea, che persiste esclusivamente dentro il governo italiano e è ormai riferibile quasi più solo a Berlusconi che a Salvini. In Europa è cambiato tutto perché gli altri, ormai davvero tutti, non fanno altro che ripetere: ma perché dobbiamo sopportare uno che si crede il nostro papà e vuole solo essere il nostro tiranno? I polacchi, l’Estonia, la Lituania, la stessa Danimarca, la Svezia, la Finlandia, diciamo che tutto l’Est europeo che ha sempre vissuto sotto il terrore del tallone russo è ormai convinto che sia arrivato il momento di liberarsene. Questo stato d’animo comune ai Paesi dell’Est e del Nord è assolutamente egemone nell’area dei Popolari e dei conservatori che vede in Giorgia Meloni un nuovo punto di riferimento strategico e tutto ciò complica davvero il quadro rispetto alle esternazioni fuori registro, ripetute, e senza mai un vero ravvedimento da parte di Silvio Berlusconi.

Oggi in Europa si sta riproponendo qualcosa che assomiglia a quello che è accaduto con la fine dell’impero asburgico. Erano tutti contenti che cadesse perché si riteneva che avrebbe favorito la nascita nell’Europa centrale di una forza che avrebbe unito la Mitteleuropa. La gente dotata di memoria storica si era convinta che l’impero asburgico non era in grado di garantire un sistema federale che rispettasse le loro comunità, che non avrebbe consentito un costituzionalismo occidentale soprattutto in quella parte che difendeva il principio della fiducia parlamentare che non c’era fino al 1918. Oggi nel nuovo scenario mondiale determinato proprio dalla guerra di invasione di Putin in Ucraina si torna a parlare dei due imperialismi che sono quelli del tiranno russo e quello americano con alcuni connotati storici che vengono dal passato. L’imperialismo americano era una cosa a cui tu aderivi su invito perché non c’era una violenta imposizione almeno sull’Europa – il discorso sull’America Latina era un po’ diverso – per cui non eri costretto ad aderire, ma piuttosto la scelta rifletteva l’adesione a un discorso inclusivo sulla base di una condivisone.

Nell’imperialismo sovietico esisteva la dittatura di Mosca e oggi i Paesi europei che sono stati membri di quel sistema sanno o comunque si sono persuasi che non è cambiato quasi nulla. Che il sistema sovietico di allora e quello di oggi dei suoi eredi non è capace di creare un sistema federale di comunità di popoli liberi. Hanno visto e capito tutto. Hanno visto Putin in azione. Hanno visto che prima ha provato a mettere Kiev sotto Mosca corrompendo le fasce filorusse degli ucraini e poi lo hanno visto togliersi la maschera e provare a conquistare quei territori macchiandosi di un genocidio. Temono che la stessa cosa Putin vorrebbe farla in Moldavia e che in parte lo ha già fatto in Bielorussia. C’è un muro nuovo di consapevolezza e di paura diffusi contro il quale il puntinismo mascherato di Berlusconi rischia di infrangersi. Facendo molto male a sé, al suo partito e alla stessa credibilità dell’Italia e del suo governo. Chi è ancora in grado di avere un ascendente su di lui si adoperi perché lo si faccia ragionare e perché questi ragionamenti chiarificatori diventino pubblici.

L’alternativa a questo percorso di ravvedimento pubblico non esiste. Sarebbe anche bene che il ravvedimento avvenisse presto con uno dei suoi soliti colpi di teatro in cui tutti avranno voglia di credere.

Baci sinistri in bocca. Storia di Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 13 febbraio 2023.

Tra i vantaggi del vivere a lungo vi è quello di fare in tempo ad assistere alla propria beatificazione: non da parte degli amici, spesso ingrati, ma dei nemici. Nessuno in Italia ha collezionato più odio di Silvio Berlusconi: a sinistra gli hanno veramente detto e augurato di tutto. Anche la sua amicizia con Putin è stata oggetto di allusioni oscillanti tra l’affaristico e il pecoreccio. Poi è arrivato l’amerikano Zelensky, con quella sua idea assurda di non volersi arrendere alla prepotenza del più forte. E il quadro è miracolosamente cambiato: Santoro, per dire, che contro Berlusconi aveva costruito decine di requisitorie televisive fino a diventarne o comunque a sentirsene una vittima, da quando Silvio fa il portavoce di Putin gli ha riconosciuto un cambio di passo da statista. E l’altra sera, da Giletti, persino un comunista rotto a tutte le intemperie come Vauro, che nelle sue vignette ritraeva Berlusconi nei panni del mafioso, è arrivato a dire che lo avrebbe baciato volentieri sulla bocca come i due cantanti che hanno fatto scandaletto a Sanremo. Ma, almeno nel caso di Vauro, l’amore non c’entra: per lui Zelensky è un nemico di classe ancora più detestabile di Berlusconi. Perciò si fa fatica a vederlo nei panni di Rosa Chemical. Meno a immaginare Berlusconi in quelli di Fedez, trattandosi di due furboni con un talento naturale nel mettersi al centro dell’attenzione pur di oscurare le donne, siano esse la premier o la moglie.

Estratto da liberoquotidiano.com il 13 febbraio 2023.

Vauro, ospite di Massimo Giletti a Non è l'arena, su La7, nella puntata del 12 febbraio, si schiera dalla parte di Silvio Berlusconi: "Tra un po' Zelesnky ce lo troviamo sul citofono. Non perdiamo di vista Berlusconi. Se fosse qui lo bacerei in bocca, perché ha detto la sacrosanta verità. Non so per quale motivo ma ha detto la sacrosanta verità su questa guerra drammatica, tragica.

 Ha detto che sicuramente c'è un invasore da condannare, Putin, ma c'è anche un pupazzo presidente che sta facendo massacrare il suo popolo per gli interessi americani e noi gli andiamo dietro come pecoroni", attacca il vignettista. "E se ci sarà una escalation e si arriverà a usare le armi nucleari tattiche esploderanno nei nostri Paesi", avverte Vauro, "perché noi abbiamo chiuso gli occhi per otto anni sul Donbass". […]

Estratto dell’articolo di Federico Novella per “La Verità” il 13 febbraio 2023.

Fausto Bertinotti, ex presidente della Camera e già segretario di Rifondazione Comunista: che impressione le ha fatto la standing ovation tributata a Zelensky dal Parlamento europeo?

«È stato uno spettacolo un po’ deprimente. L’Europa ha smarrito il senso di sé. Di fronte alla globalizzazione capitalistica, ha perduto quella tensione avuta nel dopoguerra tra l’appartenenza all’Alleanza atlantica e una certa vocazione all’autonomia. Dopo la colpevole invasione russa dell’Ucraina, quest’Europa ha creduto che Mosca fosse isolata, e che il mondo si identificasse nella risposta militare. Ma non è così: tanta parte del mondo la pensa diversamente, e ogni mese si aggiunge un tassello nuovo, nell’area asiatica e in quella africana».

Dunque l’Europa non è autonoma?

«È succube della Nato e della guida americana. Anche questa enfatizzazione di Zelensky la trovo contraddittoria, rispetto a un’istanza di trattativa per la pace che dovrebbe essere il motore dell’iniziativa europea. Insomma, io capisco il tributo di solidarietà a Zelensky: ma questa solidarietà non può trasformarsi in miopia politica. Cioè nell’incapacità di capire che l’unica soluzione possibile in questa contesa è la pace […]».

Però ammetterà che siamo in guerra perché c’è un colpevole: Vladimir Putin.

«[…] Dopo la guerra fredda doveva venir meno la ragion d’essere della Nato. […] è un fatto che la Nato abbia manifestato una tendenza a espandersi fino ai confini della Russia.

Covava nell’impero di Putin un’antica istanza permanente: quella della “grande Russia”, che si esprimeva con la richiesta legittima di essere riconosciuta come una potenza mondiale e non regionale. La strategia del contenimento dettata dall’Alleanza atlantica, invece, generò delle frizioni. Fino alla scelta, sciagurata, di Putin».

[…] Tornando all’oggi: considera il leader ucraino un prodotto mediatico?

«Sì, come tutto, del resto. Zelensky non è l’eccezione, è la regola. Guy Debord parlò tanti anni fa della “società dello spettacolo”. Oggi vi siamo immersi. Persino la tragedia della guerra è raccontata con il linguaggio dello spettacolo».

Sanremo 2023, ecco come la Rai è riuscita a silenziare Zelensky. Daniele Dell'Orco su Libero Quotidiano il 14 febbraio 2023

Chissà quanto volontariamente, il fatto che Amadeus dopo settimane di polemiche e dopo il lento e progressivo ridimensionamento del ruolo svolto dal presidente ucraino a Sanremo (prima doveva comparire in collegamento, poi in video registrato, infine in una missiva letta dal conduttore) abbia riservato a Zelensky la serata finale del festival è stato il modo perfetto per bruciarlo definitivamente. Il suo comunicato è stato letto dopo l’una di notte e soprattutto, come da prassi della finale, soverchiato dalle prodezze dei vari protagonisti che proprio perché all’ultima sera fanno la gara a monopolizzare il dibattito nei giorni successivi.

Lo scettro in questo senso se l’è aggiudicato Fedez e il suo show soft-porn con Rosa Chemical, ancora sulla bocca di tutti. Già di per sé, comunque, seppure fosse stato letto in prime-time, un messaggio scritto trasmesso per interposta persona da un conduttore è molto poco incisivo a prescindere dal contenuto.

MONDO LIBERO - Tra le altre cose, Zelensky ha “fatto dire”: «L’Ucraina sicuramente vincerà questa guerra. Vincerà insieme al mondo libero. Vincerà grazie alla voce della libertà, della democrazia e, certamente, della cultura. Ringrazio il popolo italiano e i suoi leader che insieme all’Ucraina avvicinate questa vittoria. Auguro successo a tutti i finalisti e dal profondo del mio cuore voglio invitare i vincitori di quest'anno a Kyiv, in Ucraina, nel Giorno della Vittoria. Nel Giorno della nostra Vittoria! Questa Vittoria oggi viene creata e ottenuta in condizioni estremamente difficili. Grazie ai nostri difensori! Grazie a loro coraggio, indomabilità, invincibilità». Probabilmente gli autori del festival hanno ritenuto che il pubblico a casa non avrebbe colto fino in fondo il senso del testo, inserito in una serata di intrattenimento e spensieratezza, anche perché è noto che non tutti gli italiani approvino le ragioni di questa guerra né la necessità del supporto italiano e occidentale.

Di contro, anche la manifestazione anti-Zelensky organizzata fuori dall’Ariston è stata un mezzo flop. Segno evidente che l'opinione pubblica italiana non vuole essere affatto battagliera. Un concetto ribadito in modo molto esplicito da Silvio Berlusconi, che ieri a margine del voto, ha addirittura rimproverato il premier Giorgia Meloni. «Se fossi stato il presidente del Consiglio a parlare con Zelensky non ci sarei mai andato perché stiamo assistendo alla devastazione del suo Paese e alla strage dei suoi soldati e dei suoi civili», ha detto. Tanto da costringere Palazzo Chigi a diramare una nota per rbadire «il sostegno saldo e convinto del governo italiano all’Ucraina».

La Rai ha poi lanciato un altro segnale di contenimento, evitanto di sottotitolare l’esibizione della band ucraina Antytila e la canzone Fortezza Bakhmut, il villaggio nel Donbass da mesi nella morsa dei russi. In questo c’è almeno un po’ di coerenza.

PRIMA LINEA - In Italia storicamente all’esercito vengono impedite esternazioni troppo combat nei suoi spot, e per decenni e ancora ogginon è possibile nemmeno parlare della Prima guerra mondiale (vinta) in senso patriottico. La Canzone del Piave non si canta più da una vita e a stento è stata sussurrata in occasione del centenario della vittoria. Il testo di quella canzone, quindi, non fa proprio parte della nostra cultura. E il contesto ancora meno. È stata registrata in prima linea, e mentre gli Antytila cantavano «Lascia che il topo con le spalle al muro salti e il demone insanguinato cadrà in agonia», laddove il topo è ovviamente il soldato russo, nel videoclip c’è un obice occidentale M777 che spara proiettili reali, con i passi del testo scritti sopra, contro obiettivi reali. È la prassi bellica più comune per ogni artigliere: dedicare al nemico messaggi di guerra mentre su di lui piove morte. Insomma, sarebbe stato un inno alla guerra davvero mai visto prima. 

DIRITTO DI REPLICA. Lettera di Enrico Mentana al “Fatto quotidiano”.

 Caro Marco, leggo sul giornale da te diretto un articolo a firma Alessandro Orsini in cui si afferma testualmente che "i media dominanti hanno assecondato la linea estremista di Biden e la narrazione secondo cui la Russia è uno Stato debolissimo con un esercito di cartone. Corriere della Sera, Repubblica, La Stampa, Il Foglio, Libero, Il Giornale, L'Espresso, Radio 24, Enrico Mentana molti altri irresponsabili hanno fatto a gara a sostenere questa rappresentazione grottesca della realtà".

Il signor Orsini sarà chiamato ovviamente a rispondere di questa offensiva falsificazione, da cui mi piacerebbe che il tuo giornale si dissociasse, al di là della paradossale elezione a "medium dominante" del sottoscritto, direttore del tg sulla rete che ben conosci.

Un saluto.

Enrico Mentana

 Risposta di Marco Travaglio:

Caro Enrico, sulla guerra abbiamo pubblicato e continuiamo a pubblicare pareri molto diversi, anche opposti. Il mio è più vicino a quello del professor Orsini che al tuo, anche perché il suo mi pare più aderente alla realtà che sempre più drammaticamente sta emergendo. Ma non vedo motivi per cui questa polemica, sicuramente aspra, debba approdare in un tribunale.

Ps. Non sottovalutare il tuo peso, e non solo quantitativo per le centinaia (o migliaia?) di ore di maratone sulla guerra, nel panorama dell'informazione televisiva: se non sei "dominante" tu, chi mai lo è?

Johnson. Ukraine. Il futuro di Boris Johnson passa dall’Ucraina più che dal Regno Unito. Matteo Castellucci su L’Inkiesta il 26 Gennaio 2023

L’ex primo ministro è un attivista instancabile della causa di Kyjiv, a cui ha dedicato un editoriale strepitoso, ma stavolta è lui ad aver bisogno dell’amico Zelensky. Il viaggio ha obiettivi di politica interna più che internazionale: riprendersi il partito conservatore alle prossime elezioni

Secondo il Telegraph, il 2023 sarà l’anno di Boris Johnson. Di nuovo. Se n’è mai andato? A parte questo, l’ex primo ministro inglese non ha smesso di progettare il ritorno al potere. Meditava di farlo quando è imploso il governo di Liz Truss e conserva mire sul partito. L’«Hasta la vista, baby», pronunciato all’addio da premier, era un intento programmatico. È convinto di poter guidare alle prossime elezioni i conservatori, i cui scandali sono rimasti a Downing Street nonostante la defenestrazione di Boris. Persino il suo viaggio a sorpresa a Kyjiv, non concordato con l’ambasciata, rientra in questa strategia: cercare quanto resta della sua leadership e del prestigio perduto nell’Ucraina che lo ama più della madrepatria.

La stampa britannica ha visto nel blitz del «parlamentare semplice» di Uxbridge un tentativo di delegittimare l’esecutivo di Rishi Sunak. Il capo di governo in carica era stato in Ucraina a novembre, proprio per riaffermare il sostegno di Londra. Con il presidente Volodymyr Zelensky, che lo ha accolto domenica scorsa, Johnson vanta una celebrata «bromance». Nelle foto dell’incontro, quella istituzionale al tavolo, davanti all’ex premier svetta una bandierina del Regno Unito, gemella di quella ucraina di fronte a Zelensky, ma non risultano incarichi ufficiali. Per questo, il viaggio rischia di avere più ricadute sulla politica interna di quante non ne avrà su quella internazionale.

A Kyjiv Johnson ha ricevuto la cittadinanza onoraria. In Ucraina è considerato un eroe. Non a torto. La mobilitazione per il Paese invaso va ascritta nel proverbiale «Ha fatto anche cose buone» di un premierato disastroso. Ha sempre strigliato l’attendismo degli alleati, è rimasto un attivista instancabile della causa ucraina. È volato a Kyjiv a febbraio 2022 e poi è stato tra i primi a tornarci, ad aprile, non appena le colonne russe si sono ritirate dai sobborghi della città. Anche stavolta, ha usato la piattaforma per criticare le titubanze del cancelliere tedesco Olaf Scholz sull’invio di carri armati Leopard 2 (finalmente sbloccato).

Rispetto al passato, o all’ultimo abbraccio di agosto per il Giorno dell’Indipendenza, i rapporti di forza con Zelensky si sono invertiti. Adesso è Johnson ad avere bisogno del presidente, che gli resta grato come si deve a un amico che c’era nel momento del bisogno, e non più il contrario. Cerca di agganciare una leadership fallimentare – la sua – a quella di successo di Zelensky. È una tattica antica. Sarebbe cinico ritenerlo l’unico motivo della comparsata a Kyjiv, ma sono credenziali preziose per un politico in crisi quelle che gli ha tributato il ministero della Difesa ucraino: «Amici come questi valgono più di uno squadrone di tank». Parole tanto più pesanti perché arrivate a ridosso dello stallo di Ramnstein.

Una fonte ufficiale ucraina ha detto che la visita non era «né ufficiale né privata». È proprio così: era una via di mezzo. L’ex primo ministro è stato a Borodyanka e Bucha, nella capitale ha parlato con il presidente di alcune sue «idee». Nei mesi scorsi, era circolata l’ipotesi che lanciasse una fondazione, per raccogliere finanziamenti per armare il Paese oggi e aiutarlo a ricostruire domani. Per ora il progetto è fermo. Tornato a Londra, Johnson ha firmato sul Daily Mail un editoriale che sembra uscito dalla sua vita di prima. Se non da grande giornalista, visto il rapporto creativo con la verità di quand’era corrispondente da Bruxelles, testimonia una straordinaria penna.

«Venite con me tra il fango ocra sul sagrato di Bucha, oltre la chiesa di Sant’Andrea crivellata di proiettili. Passate sulle tombe dei 416 abitanti di questa città, tra i quali nove bambini, che sono stati uccisi dai russi nel tentativo di terrorizzare gli altri. Guardate le foto dei loro cadaveri, con le mani legate dietro la schiena, lasciati per strada a marcire o mangiati dai cani. Unitevi a me sulle macerie annerite di un condominio a Borodyanka, tra le tubature contorte e i giocattoli dei bambini frantumati. Guardate cosa può fare solo una delle bombe aeree di Putin da cinquecento chili. Provate a incrociare gli occhi supplicanti della gente che ha estratto 162 corpi dai detriti, che ne ha cercati altri ventotto mai trovati. Guardate quegli ucraini coraggiosi e rispondete a questa domanda: che cosa diavolo stiamo aspettando?»

Il testo racchiude un appello. «Ciò che è accaduto qui, nei sobborghi di Kyjiv, è ripugnante. Ma sta succedendo in ogni parte dell’Ucraina che Putin continua a occupare: torture, stupri, omicidi di massa – scrive Johnson –. Prima riusciremo a spingere gli ucraini all’inevitabile vittoria, prima finiranno le loro sofferenze e prima il mondo intero, inclusa la Russia, potrà cominciare a riprendersi dalla catastrofe di Putin. Ciò richiede che tutti noi in Occidente, tutti gli amici dell’Ucraina, raddoppino e triplichino i loro sforzi. Tutto ciò di cui loro hanno bisogno sono attrezzature che l’Occidente ha in abbondanza e che in questo momento non potrebbe trovare un utilizzo più morale o strategico che aiutare l’Ucraina».

È il lascito più autentico e importante del viaggio. L’Ucraina comparirà anche nel libro in uscita per HarperCollins sugli anni da premier. Nel 2015 Johnson aveva intascato un anticipo di ottantottomila sterline per una biografia di Shakespeare mai scritta, a differenza di quella dedicata al suo idolo, “The Churchill Factor”, che ha venduto oltre trecentomila copie. Da quando ha lasciato Downing Street, ha guadagnato 1,3 milioni di sterline come conferenziere. Quella dei (ben remunerati) discorsi a pagamento è una tradizione, condivisa con i predecessori David Cameron e Theresa May, ma gli è valsa un gettone da 276 mila sterline solo un’apparizione al Council of Insurance Agents & Brokers di Washington Dc.

Insomma, rintuzzare le finanze serve anche ad alimentare le ambizioni mai sopite. In fin dei conti, il comunicato con cui rinunciava alla corsa per la successione a Truss conteneva un avvertimento: «Penso di essere ben posizionato per realizzare una vittoria dei conservatori nel 2024». Niente ritiro dalle scene, anzi, ha detto agli elettori che si ricandiderà nel suo seggio di Uxbridge e South Ruislip. Nel frattempo, la situazione nell’accampamento Tory è come al solito caotica, confusionaria e alle prese con qualche nuovo ennesimo scandalo da disinnescare. No, quella stagione non è finita.

Gli indici di gradimento di Sunak sono scesi ai minimi dall’inizio del mandato. Se il boss della Bbc, prima di ottenere il lavoro, aveva aiutato Johnson a ottenere un prestito di ottocentomila sterline, l’attuale presidente del partito Nadhim Zahawi ha negoziato un patteggiamento milionario con il fisco mentre, la scorsa estate, era Cancelliere dello Scacchiere, cioè ministro delle Finanze. Cresce la pressione sul premier perché lo cacci, ma il vero punto è se fosse al corrente. Il Partygate resta una saga piccante, ma intanto i sodali di Johnson fanno campagna per cambiare le regole dei Conservatori e consentire ai leader che si sono dimessi di tornare in campo. A uno a caso.

Le notizie sulla guerra in Ucraina del 26 gennaio. Andrea Nicastro, inviato, e Redazione Online su Il Corriere della Sera.

Le notizie sulla guerra di giovedì 26 gennaio. Interrotta erogazione dell'energia a Kiev e in altre tre regioni dopo gli attacchi. Kiev: «Neutralizzati 47 missili su 55. Oltre venti erano diretti contro la capitale»

• La guerra in Ucraina è arrivata al 337esimo giorno.

• Biden: «Daremo 31 Abrams a Kiev. Non è un’offensiva contro la Russia». Ma per vederli in azione ci vorrà del tempo. Poi valuta un viaggio in Europa per il primo anno di guerra.

• Peskov: «Colloqui Putin-Zelensky sempre più improbabili». Il presidente ucraino: «Non mi interessa parlargli».

• Nato:«Ministri della Difesa 14 e 15 febbraio a Bruxelles».

•Mosca: «Giornale Meduza per noi organizzazione indesiderata».

Ore 23:55 - Zelensky agli alleati: «Ci servono jet e missili a lungo raggio»

«È molto importante che ci siano progressi in altri aspetti della nostra cooperazione in materia di difesa. Ho parlato oggi con il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg. Dobbiamo anche aprire alla fornitura di missili a lungo raggio all'Ucraina, espandere la nostra cooperazione nell'artiglieria, pensare alla fornitura di aerei per l'Ucraina». Lo ha detto il presidente ucraino Volodymyr Zelensky nel suo videomessaggio serale. «Maggiore è il sostegno alla difesa che i nostri eroi al fronte ricevono dal mondo, prima finirà l'aggressione della Russia e più affidabili saranno le garanzie di sicurezza per l'Ucraina e tutti i nostri alleati dopo la guerra», ha aggiunto.

Ore 02:15 - Casa Bianca, «molti mesi» prima dell’arrivo degli Abrams

I carri armati tedeschi Leopard arriveranno sul terreno in Ucraina più velocemente dei carri armati americani Abrams, per i quali occorrerà attendere «molti mesi»: lo ha detto John Kirby, portavoce del Consiglio di sicurezza nazionale della Casa Bianca. Parlando con la Cnn, Kirby non ha specificato la tempistica su quando gli Stati Uniti saranno in grado di consegnare i carri armati Abrams all’Ucraina, ma ha specificato che ci vorranno «molti mesi».

Ore 03:22 - Usa-Russia: è arrivata a Mosca la nuova ambasciatrice Tracy

È arrivata a Mosca la nuova ambasciatrice statunitense, Lynn Tracy. Lo ha annunciato l’ambasciata Usa nella Federazione Russa su Twitter, postando una foto della diplomatica in uno degli aeroporti della capitale. «Bentornata in Russia, ambasciatrice Tracy!», si legge nel messaggio scritto in russo. Il Senato degli Stati Uniti ha approvato a fine dicembre la nomina di Lynn Tracy ad ambasciatrice in Russia. Tracy -che parla il russo e ha già lavorato a Mosca (tra il 2014 e il 2017 è stata il «numero due» della missione diplomatica) - è la prima donna nella storia a ricoprire questa posizione. Il precedente ambasciatore degli Stati Uniti in Russia, John Sullivan, aveva lasciato l’incarico prima del previsto, dopo quasi tre anni, a causa della grave malattia e della morte della moglie.

Ore 03:20 - Kiev, Occidente darà anche missili a lunga gittata

All’indomani dell’annuncio che l’Occidente consegnerà a Kiev i carri armati Abrams e Leopard, il governo ucraino chiede missili a lunga gittata; e Mikhailo Podolyak, stretto consigliere del presidente Volodymyr Zelensky, si dice certo che l’Occidente troverà «un accordo» anche sulla consegna di questi missili, in grado di colpire per centinaia di chilometri le retrovie russe. Lo ha detto al quotidiano britannico The Telegrah, sostenendo che in Occidente c’è già «un’intesa» sul fatto che il timore che i missili porteranno a un’escalation sia mal riposti. «In questo momento stiamo assistendo a un netto mutamento nelle posizioni delle è lite politiche dei Paesi europei, che capiscono che devono trasferire (a Kiev) tutte le attrezzature, compresi i carri armati da combattimento. E raggiungeremo, ne sono certo, senza dubbio, un accordo sui missili a lunga gittata».

Ore 03:30 - Usa: settimane tensione, poi Biden riluttante ha dato ok a tank

La decisione americana di inviare tank all’Ucraina è seguita a Usa: settimane tensione, poi Biden riluttante ha dato ok a tank, risolte poi da Joe Biden che ha optato per l’invio degli Abrams M1 per mostrare un fronte unito della coalizione. Lo riportano i media americani ricostruendo le intese trattative dietro le quinte per sbloccare i tank. Biden alla fine ha ceduto, seppure con riluttanza, al dare il suo via libera, che ha sbloccato l’invio dei Leopard da parte della Germania e di altri Paesi.

Ore 06:42 - Filorussi: lanciati otto missili di Kiev sul Lugansk

Otto missili supportati dai lanciarazzi Himars sono stati lanciati dalle truppe ucraine contro le città di Kreminna e Rubizne, nel Lugansk, secondo quanto riferito dalla missione della LPR presso il Centro congiunto di controllo e coordinamento (JCCC) sul suo canale Telegram. Secondo la missione, a Rubizne sarebbe stato distrutto un albergo, a Kreminna colpite tre scuole, un edificio amministrativo e un caffè. Lo riferisce la Tass.

Ore 07:19 - L’allarme aereo su tutta l’Ucraina

La reazione russa agli annunci sui carri armati in arrivo dai Paesi occidentali potrebbe non farsi attendere.

Le autorità di Kiev hanno diramato l’allerta aerea sull’intero territorio nazionale: le forze armate russe si apprestano a lanciare un nuovo massiccio attacco missilistico.

Come già annunciato dalla società energetica Dtek, nelle regioni di Kiev, Odessa e Dnipropetrovsk verranno effettuate interruzioni d’emergenza delle forniture di energia elettrica.

Ore 07:52 - È iniziato l’attacco missilistico russo

Le forze russe hanno iniziato un nuovo attacco missilistico contro l’Ucraina e l’esercito di Kiev ha già abbattuto i primi razzi: lo ha reso noto su Telegram il capo dell’ufficio del presidente, Andriy Yermak, come riportano i media ucraini.

Ore 07:58 - La reazione furiosa della Russia, che cita Kruscev: «Vi seppelliremo»

(Marco Imarisio) La Russia non l’ha presa bene, e come potrebbe. «My vas pochoronim!». Molti utenti di Tsargrad, il sito di informazione ultranazionalista, fanno ricorso al celebre «Vi seppelliremo!» usato nel 1956 da Nikita Kruscev durante un discorso agli ambasciatori del blocco occidentale.

Ma qui ormai siamo ben oltre la Guerra fredda, almeno a giudicare dai toni. E non da ieri, anche se la decisione quasi congiunta dell’invio di carri armati da parte di Usa e Germania viene letta e presentata come la prova definitiva di un conflitto contro i «poteri forti» americani ed europei, i nemici di sempre, con l’Ucraina che rimane sullo sfondo, quasi fosse un dettaglio. In ordine temporale, la prima reazione è arrivata da Washington.

L’ambasciatore russo Anatolij Antonov, già viceministro della Difesa e poi degli Esteri, ha scritto sul suo canale ufficiale Telegram che «gli Usa stanno continuamente alzando l’asticella del soccorso militare al loro governo fantoccio (…). Persino molti loro esperti riconoscono che stanno combattendo una guerra per procura contro il nostro Paese. A questo punto dovrebbe essere chiaro chi è il vero aggressore nell’attuale conflitto».

Fuori dalla Russia appare come un capovolgimento dei ruoli, ma al suo interno è un argomento che invece ha molta presa.

Quando si passa dalle parole ai fatti, a quel che l’invio dei carri armati potrebbe cambiare nella strategia russa, la prudenza sembra prendere il sopravvento. All’insegna dell’aspetta e vedi. Secondo l’esperto militare Andrej Frolov, gli annunci di ieri sono fumo negli occhi dei media. «La decisione definitiva verrà presa nel prossimo mese e mezzo, partendo dalla situazione sui campi di battaglia. Se l’esercito ucraino si troverà vicino alla capitolazione, Kiev non riceverà niente».

Anche il generale a tre stelle Vladimir Chirkin, ex comandante in capo delle truppe terrestri russe, non ha fretta. «Servono almeno sei mesi per preparare gli equipaggi di quei carri armati. A meno che non abbiano intenzione di mandare soldati americani e tedeschi. Ma allora sarebbe la Terza guerra mondiale, di cui loro hanno così tanta paura».

Nel caso, il noto conduttore televisivo Vladimir Solovyov si è portato avanti con il lavoro, sostenendo in prima serata che bisogna bombardare Berlino. «Vi seppelliremo». Dice che bisogna farlo subito, però. Senza aspettare neppure un attimo.

Ore 08:11 - Droni «fuori sacco» e sistemi satellitari: l’aiuto che arriva dall’Italia

(Francesco Verderami) È cambiata la parola d’ordine tra i partner dell’Occidente: da «aiutare per salvarli» si è passati ad «aiutarli per vincere».

Ma è evidente che il conflitto in Ucraina era e resta una guerra di attrito il cui esito non è scontato.

A quasi un anno dall’invasione russa «non si vedono ancora spiragli per una soluzione diplomatica» secondo il ministro della Difesa Guido Crosetto, che entro due settimane formalizzerà il sesto decreto di sostegno a Kiev, illustrato ieri per grandi linee al Copasir.

Il governo ha deciso di inviare alle Forze armate ucraine un’unità del sistema terra-aria Samp-T dotato di una ventina di missili, insieme a pezzi di artiglieria pesante, carri di movimento e gruppi elettrogeni.

Ma nel pacchetto di aiuti ci sarebbe anche una spedizione «fuori sacco», non direttamente riconducibile alla lista stilata dall’esecutivo. Fonti accreditate raccontano infatti che a Zelensky verrebbero consegnati «droni originati dal progetto israeliano e assemblati in Italia», più utili a contrastare i droni di fabbricazione iraniana che vengono usati da Mosca.

Più utili e soprattutto più economici, dato che ogni missile lanciato dal sistema Samp-T costa circa un milione di dollari. Insomma Roma fa quel che può per sostenere Kiev in vista di un «inasprimento del conflitto da parte di Mosca — come dice Crosetto — con massicci attacchi di cielo e di terra».

Ore 08:43 - Il sindaco di Kiev: «State nei rifugi». 15 missili sulla capitale, tutti abbattuti

Il sindaco di Kiev, Vitali Klitschko, ha riferito di un’esplosione nella capitale ucraina mentre è in corso un attacco missilistico russo su larga scala in diverse zone del Paese.

Le forze armate ucraine hanno riferito di aver abbattuto 15 missili da crociera sparati dalle truppe di Mosca, e che - dall’inizio del raid, questa mattina — sono stati sparati da parte della Russia «più di 30 missili».

Ore 09:56 - Il primo bilancio dell’attacco missilistico di oggi

Iniziano a emergere i danni dell’attacco missilistico lanciato dalla Russia questa mattina sull’Ucraina: due infrastrutture energetiche — ancora non meglio identificate — sono stati colpite dagli attacchi russi nei pressi di Odessa.

A Kiev, secondo quanto dichiarato dal sindaco, almeno una persona è morta, e due sono rimaste ferite.

Ore 10:02 - «L’Occidente è direttamente coinvolto nella guerra»

Che la Russia — con una acrobatica inversione delle responsabilità — consideri ormai l’«operazione speciale» in Ucraina una guerra dichiarata dall’Occidente contro la Russia era evidente dalle reazioni emerse ieri alla notizia dell’invio di carri armati dagli Stati Uniti e dai Paesi europei.

Oggi, però, è il Cremlino a prendere posizione, con una nota ufficiale. Secondo la presidenza russa, la promessa di invio di carri armati a Kiev dimostra «il coinvolgimento diretto» degli Stati Uniti e della Russia nel conflitto — un coinvolgimento che «sta crescendo».

Ore 10:25 - Peskov chiude al dialogo: «Qualsiasi colloquio tra Putin e Zelensky ora non sarà più possibile»

« Il presidente russo Vladimir Putin non considera più possibili colloqui con il suo omologo ucraino Volodymyr Zelensky, che da molto tempo si preparava alla guerra e quindi non risulta un interlocutore credibile». Queste le parole del portavoce del Cremlino Dmitry Peskov citato dalle agenzie russe, che allontana ulteriormente la prospettiva di un confronto per la pace nel breve termine.

Ore 10:35 - Energia elettrica interrotta a Kiev e in altre tre regioni. Colpite strutture a Odessa

«Ci sono informazioni sui danni arrecati a due infrastrutture energetiche critiche a Odessa. Non ci sono feriti. Le forze di difesa aerea stanno lavorando sulla regione di Odessa», ha scritto sui social media il capo dell'amministrazione militare della regione, Yuriy Kruk. Le autorità hanno anche dichiarato che è stata interrotta l'erogazione dell'energia elettrica nella capitale Kiev e in altre tre regioni. Il commento di Zelensky: «I russi non si sono mai preoccupati delle vittime provocate dai loro attacchi».

Ore 10:42 - Inizio addestramento per i Leopard programmato a fine di gennaio

Il ministro della Difesa tedesco Boris Pistorius ha annunciato che i soldati ucraini inizieranno il loro addestramento sui carri armati Leopard 2 in un sito di addestramento in Germania entro la fine di gennaio. Il ministro ha detto che prevede che i carri armati arriveranno in Ucraina entro la fine di marzo, al massimo i primi di aprile.

Ore 10:47 - Papa Francesco: «Guerra terribile, ma non si deve perdere la speranza»

«La guerra è terribile. Non bisogna però arrendersi, da quelle ceneri può germogliare qualcosa di nuovo, da quel fallimento possiamo trovare una lezione di vita». Lo ha sottolineato Papa Francesco ricevendo in udienza una delegazione dell'Istituto de Estudios Internacionales de Salamanca, in Spagna. Il Pontefice ha rimarcato, nel suo discorso in spagnolo, che viviamo la terza guerra mondiale e ha precisato che «la tecnica delle armi è arrivata al punto che con una sola bomba si può arrivare a distruggere l'intera umanità».

Ore 11:05 - Nato: «Ministri della Difesa 14 e 15 febbraio a Bruxelles»

Il Consiglio Atlantico è stato convocato a Bruxelles per il 14 e 15 febbraio prossimi per discutere della situazione in Ucraina. Lo ha reso noto la stessa Nato precisando che la convocazione del Consiglio riguarda i ministri della Difesa. La riunione sarà presieduta dal segretario generale dell'Alleanza Jens Stoltenbergs.