Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA
L’ITALIA ALLO SPECCHIO
IL DNA DEGLI ITALIANI
ANNO 2022
LA CULTURA
ED I MEDIA
SETTIMA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
INDICE PRIMA PARTE
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE. (Ho scritto un saggio dedicato)
L’Anti-Scienza.
L’Intelligenza Artificiale.
I Benefattori dell’Umanità.
Al di là della Luna.
Viaggiare nello Spazio.
Gli Ufo.
La Rivoluzione Digitale.
I Radioamatori.
Gli Hackers.
Catfishing: la Truffa.
La Matematica.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il Cervello Allenato.
Il Cervello Malato.
La Sindrome dell'Avana.
Le Onde Celebrali.
Gli impianti.
La disnomia.
La nomofobia.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
I Geni.
Il Merito.
Ignoranti e Disoccupati.
Laureate e Disoccupate.
Il Docente Lavoratore.
Decenza e Decoro a Scuola.
Una scuola “sgarrupata”.
Gli speculatori: il caro-locazione.
Discriminazione di genere.
La Scuola Comunista.
La scuola di Maria Montessori.
Concorsi truccati all’università.
INDICE SECONDA PARTE
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)
Tutti figli di…Neanderthal (nord) e Sapiens (Sud).
Come si usano.
Sapete che…?
Epifania e Befana.
Il Carnevale.
Gioventù del cazzo.
Gli Hikikomori.
La Vecchiaia è una carogna…
Gemelli diversi.
L’Ignoranza.
La Rimembranza.
La Nostalgia.
Gli Amici.
La Fiducia.
Il Sesso.
Il Nome.
Le Icone.
Il Linguaggio.
Il Tatuaggio.
Il Limbo.
Il Potere nel Telecomando.
Gli incontri casuali di svolta.
I Fantozzi.
Ho sempre ragione.
Il Narcisismo.
I Sosia.
L’Invidia.
L’Odio.
Il Ghosting: interruzione dei rapporti.
Gli Insulti.
La Speranza.
Il Dialogo.
Il Silenzio.
I Bugiardi.
Gli stolti.
I Tirchi.
Altruismo.
I Neologismi.
Gli Snob.
I Radical Chic.
Il Pensiero Unico.
La Cancel Culture.
INDICE TERZA PARTE
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)
La P2 Culturale.
Il Cinema di Sinistra prezzolato.
Il Consenso.
I Negazionismi.
I Ribelli.
Geni incompresi.
Il Podcast.
Il Plagio.
Ladri di Cultura.
I Beni culturali.
Il Futurismo.
I Bronzi di Riace e di San Casciano dei Bagni.
I Faraoni.
La Pittura.
Il Collezionismo.
La Moda.
Il Cappello.
Gli Orologi.
La Moto.
L’Auto.
L’emoticon.
I Fumetti.
I Manga.
I Giochi da Tavolo.
I Teatri.
Il direttore d’orchestra.
L’Arte in tv.
La Cultura Digitale.
Dalla cabina al selfie.
I Social.
La scienza, la cultura ed i social. I Divulgatori.
La Capitale della Cultura.
Oscar made in Italy.
I Balbuzienti.
Cultura Stupefacente.
I pseudo intellettuali.
Le lettere intellettuali.
L’Artistocrazia.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)
Achille Bonito Oliva.
Alberto Angela.
Aldo Busi.
Aldo Nove.
Alessandro Baricco.
Alessandro Manzoni.
Alfred Hitchcock.
Amy Sherald.
Andy Warhol.
Andrea Camilleri.
Andrea G. Pinketts.
Andrea Palladio.
Andrea Pazienza.
Annie Ernaux.
Antonella Boralevi.
Antonio Canova.
Antonio de Curtis in arte Totò.
Antonio Pennacchi.
Arturo Toscanini.
Banksy.
Barbara Alberti.
Billy Wilder.
Carlo Emilio Gadda.
Carlo Levi.
Carmen Llera e Alberto Moravia.
Cesare Pavese.
Charles Baudelaire.
Charles Bokowski.
Charles M. Schulz.
Chiara Valerio.
Crocifisso Dentello.
Dacia Maraini.
David LaChapelle.
Dino Buzzati.
Donatello.
Elisa De Marco.
Emil Cioran.
Emilio Giannelli.
Emilio Lari.
Ennio Flaiano.
Ernest Hemingway.
Espérance Hakuzwimana.
Eugenio Montale.
Eva Cantarella.
Ezra Pound.
Fabio Volo.
Federico Fellini.
Federico Palmaroli.
Francesca Alinovi.
Francesco Guicciardini.
Francesco Tullio Altan.
Francisco Umbral.
Franco Branciaroli.
Franco Cordelli.
Franz Peter Schubert.
Franz Kafka.
Fulvio Abbate.
Gabriel Garcia Marquez.
Gabriele d'Annunzio.
Georges Bataille.
George Orwell.
Georg Wilhelm Friedrich Hegel.
Giacomo Leopardi.
Gian Piero Brunetta.
Giampiero Mughini.
Giordano Bruno Guerri.
Giorgio Forattini.
Giorgio Manganelli.
Giovanni Ansaldo.
Giovanni Verga.
Giuseppe Pino.
Giuseppe Prezzolini.
Giuseppe Ungaretti.
Giuseppe Verdi.
Grazia Deledda.
Guido Gozzano.
Guido Harari.
Ian Fleming.
Ignazio Silone.
Indro Montanelli.
Italo Calvino.
Jane Austin.
John Le Carré.
John Williams.
José Saramago.
INDICE QUINTA PARTE
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)
Lawrence d'Arabia.
Leonardo da Vinci.
Leonardo Sciascia.
Luciano Bianciardi.
Luchino Visconti.
Louis-Ferdinand Céline.
Marcel Proust.
Mariacristina Savoldi D’Urcei Bellavitis.
Marcello Marchesi.
Marco Giusti.
Mario Picchi e Aldo Palazzeschi.
Mario Praz.
Massimiliano Fuksas.
Maurizio Cattelan.
Maurizio de Giovanni.
Melissa P.: Melissa Panarello.
Michel Houellebecq.
Michela Murgia.
Michele Rech, in arte Zerocalcare.
Nietzsche.
Oliviero Toscani.
Oriana Fallaci.
Orson Welles.
Pablo Picasso.
Pier Paolo Pasolini.
Pietrangelo Buttafuoco.
Pietro Scarpa.
Renzo Piano.
Riccardo Muti.
Richard Wagner.
Roberto Benigni.
Robert Byron.
Roberto Giacobbo.
Roberto Saviano.
Sacha Guitry.
Saint-John Perse.
Salvatore Quasimodo.
Sergio Leone.
Staino.
Stephen King.
Susanna Tamaro.
Sveva Casati Modignani.
Tiziano.
Truman Capote.
Umberto Boccioni.
Umberto Eco.
Valentino Garavani.
Vincent Van Gogh.
Virginia Woolf.
Vittorio Sgarbi.
Walt Disney.
Walt Whitman.
William Burroughs.
INDICE SESTA PARTE
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)
Siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. La Distrazione di Massa: Propaganda e realtà.
La Sociologia Storica.
Il giornalismo d’inchiesta.
I Martiri.
Se questi son giornalisti...
Il Web e la Legione di Imbecilli.
Gli influencer.
Le Fallacie.
Le Fake News.
Il Nefasto Amazon.
I Censori.
Quello che c’è da sapere su Wikipedia.
Il Nefasto Politicamente Corretto.
Gli Oscar comunisti.
Lo Streaming.
INDICE SETTIMA PARTE
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il Pizzo di Stato.
Mediaset.
Il Corriere della Sera.
Il Gruppo Editoriale Gedi.
Primo: la Verità del Il Giornale.
Alberto Matano.
Alda D'Eusanio.
Aldo Cazzullo.
Alessandra De Stefano.
Alessandra Sardoni.
Alessandro Giuli.
Andrea Scanzi.
Andrea Vianello.
Beppe Severgnini.
Bernardo Valli.
Bianca Berlinguer.
Bruno Longhi.
Bruno Vespa.
Camillo Langone.
Carlo De Benedetti.
Cecilia Sala.
Cesara Buonamici.
Claudio Cerasa.
Corrado Formigli.
Davìd Parenzo.
Diego Bianchi in arte Zoro.
Elisa Anzaldo.
Emilio Fede.
Ennio Simeone.
Enrico Mentana.
Enrico Varriale.
Enzo Biagi.
Ettore Mo.
Fabio Caressa.
Fabio Fazio.
Federica Sciarelli.
Filippo Ceccarelli.
Filippo Facci.
Fiorenza Sarzanini.
Franca Leosini.
Francesca Fagnani.
Francesco Giorgino.
Giacinto Pinto.
Gian Paolo Ormezzano.
Gianluigi Nuzzi.
Gianni Minà.
Giorgia Cardinaletti.
Giovanna Botteri.
Giovanni Floris.
Giovanni Minoli.
Giovanni Tizian.
Giuliano Ferrara.
Giuseppe Cruciani.
Guido Meda.
Ivan Zazzaroni.
Julian Assange.
Hoara Borselli.
Lamberto Sposini.
Laura Laurenzi.
Lina Sotis.
Lucio Caracciolo.
Luigi Contu.
Luisella Costamagna.
Marcello Foa.
Marco Damilano.
Marco Travaglio.
Maria Giovanna Maglie.
Marino Bartoletti.
Mario Calabresi.
Mario Giordano.
Massimo Fini.
Massimo Giletti.
Massimo Gramellini.
Maurizio Costanzo.
Michele Mirabella.
Michele Santoro.
Michele Serra.
Milo Infante.
Mimosa Martini.
Monica Setta.
Natalia Aspesi.
Nicola Porro.
Paola Ferrari.
Paolo Brosio.
Paolo del Debbio.
Paolo Zaccagnini.
Pierluigi Pardo.
Roberto D'Agostino.
Roberto Napoletano.
Rula Jebreal.
Salvo Sottile.
Selvaggia Lucarelli.
Sigfrido Ranucci.
Tiziana Alla.
Tiziana Panella.
Vincenzo Mollica.
Vincenzo Palmesano.
Vittorio Feltri.
LA CULTURA ED I MEDIA
SETTIMA PARTE
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)
Marco Zonetti per vigilanzatv.it il 17 novembre 2022.
Periodo sventurato per la Rai. Dopo il caso Remigi, il caso Di Mare e nell'infuriare dell'affair Montesano, ecco scoppiare un'altra magagna che coinvolge la Tv di Stato. A svelarlo è Pinuccio (alias Alessio Giannone), inviato di Striscia (a Notizia e titolare della rubrica Rai Scoglio 24.
Questa sera su Canale 5, durante il Tg satirico di Antonio Ricci, Pinuccio ha svelato "un gravissimo episodio di presunta concussione sessuale accaduto nel 2021 e che coinvolge un giornalista della tivù di Stato".
Secondo il comunicato stampa di Striscia: "Tutto nasce da un'indagine in Basilicata, nel cui fascicolo di intercettazioni spunta anche la Rai. Alcune si riferiscono all'incontro di una giornalista con un collega Rai che in quel momento lavorava per la Regione, il quale, appena lei è entrata in ufficio, «ha chiuso la porta e si è messo la mano sulla patta. Ma figuriamoci se faccio un …. a uno per portare il pane a casa». In ballo c'era un'eventuale partecipazione della donna a Linea Verde che, in effetti, a un certo punto si concretizza".
E ancora: "Poco dopo però il giornalista le scrive chiedendole di incontrarsi. In una nuova intercettazione, il timore della donna è inequivocabile: «Questo vuole che io gli paghi il conto, ma io non gliela do la mia pa****na e neanche la mia b***a». E non è finita: «A un certo punto la collaborazione tra Linea Verde e questa giornalista si interrompe. Forse perché non è stato pagato il conto? Una cosa è certa: a detta della collega i vertici Rai sono a conoscenza dell'approccio strano che ha questo loro dipendente con alcune ragazze, per farle lavorare»", conclude Pinuccio.
Striscia la Notizia, sparizioni misteriose in Rai: una scoperta clamorosa. Libero Quotidiano l’08 novembre 2022
Pinuccio torna a occuparsi della Rai a Striscia la Notizia, il tg satirico in onda su Canale 5. Questa volta l'inviato del canale inventato "Rai Scoglio 24" si occupa di presunte sparizioni misteriose di opere d’arte e pezzi di design dalle sedi della tv di Stato. In particolare, sarebbero oltre 120 i capolavori che non si trovano più. Tra questi, come fa sapere Striscia, ci sarebbero anche dipinti di De Chirico e Guttuso e opere di design di Gio Ponti.
Ma non è tutto: Pinuccio ha scoperto anche che mancherebbero all’appello scenografie storiche, come quella creata da Mario Ceroli per Orizzonti della Scienza e della Tecnica, programma trasmesso dalla Rai tra il 1966 e il 1973. L’inviato del tg satirico lo avrebbe ritrovato in una libreria di Venezia. "La Rai l’ha venduta? L’ha regalata?", si chiede Pinuccio. Altro punto di domanda riguarderebbe poi un plastico firmato da De Chirico per la stessa trasmissione.
"Scenografie, dipinti e sculture di artisti importanti, dopo essere state usate, venivano regalate ad amici compiacenti o addirittura vendute - questo quanto rivelato a Pinuccio da un ex lavoratore del reparto scenografie della Rai -. Ricordo ancora un personaggio che quando diventò responsabile della scenografia Rai cominciò a cambiare auto in continuazione e a comprare appartamenti".
Rai, il Tg1 vuole far fuori Fiorello: "Sconcerto, totale contrarietà". Libero Quotidiano il 17 ottobre 2022
Clamoroso in Rai. Un clamoroso... "suicidio". O una "follia", così come la bolla Dagospia. Che succede? Succede che il Comitato di Redazione del Tg1 si schieri armi e bagagli contro Fiorello, il quale è pronto a tornare in tv tutte le mattine su Rai 1 con L'edicola, in onda dalle 7.15 alle 8.
Ma come detto, al Tg1 non hanno gradito, affatto, l'invasione dei loro spazi. E così, ecco piovere una durissima nota del Cdr, in cui si parla di "sconcerto totale e contrarietà a un programma satirico di intrattenimento".
Di seguito, la nota integrale del Cdr del Tg1 contro Fiorello
Care colleghe e cari colleghi,
il Comitato di redazione del TG1 esprime tutto il suo sconcerto e la sua totale contrarietà nell’apprendere del possibile approdo di un programma satirico di intrattenimento, guidato da Fiorello, al posto di quasi un’ora di programmazione gestita dal TG1, nello specifico TG1 Mattina.
Sappiamo che l’Usigrai non è stata preventivamente consultata, come deve avvenire in caso di cambio di palinsesto. E per questo ha già notificato all’azienda la mancata informativa.
All'azienda come Cdr del Tg1 chiediamo:
il Consiglio di Amministrazione della Rai è stato informato di tale cambiamento?
I suoi componenti hanno tutti condiviso questa scelta?
Noi come Cdr della redazione del TG1 sottolineamo la battaglia fatta per ottenere quegli spazi e lo sforzo enorme compiuto da tutti noi sul mattino, impegnandoci su un lavoro di ripensamento e valorizzazione di quella fascia.
Ora abbiamo appreso che l'azienda sta pensando di ridurre lo spazio informativo del Tg1. Poniamo anche un'altra domanda: quali sono le motivazioni editoriali di tale scelta? Come si può pensare di interrompere il flusso informativo con un programma satirico, generando confusione nel pubblico a casa?
Non si può ospitare questo nuovo programma nella fascia della rete successiva al tg1 alle 9.00?
Un programma satirico con ospiti come quello che intuiamo dalle notizie circolate inoltre avrà un costo maggiore per l'azienda rispetto alla produzione del telegiornale e del Tg1 mattina. Chiediamo pertanto all'azienda
di rispondere invece alle nostre costanti lamentele e denunce riguardanti le carenze di troupe e zainetti sempre più difficili da trovare.
Chiediamo di conoscere la ratio di tale decisione, senza prevedere una compensazione per il Tg1.
Come Cdr siamo consapevoli che questa decisione semplicemente non può essere accettata, né tantomeno imposta, e rappresenta uno sfregio al nostro impegno quotidiano.
La Direzione, che abbiamo incontrato oggi su questo e altri temi, ha condiviso la nostra preoccupazione sulla riduzione degli spazi editoriali del Tg1. Ci riserviamo di mettere in campo tutte le opportune forme di protesta. Questo tema sarà al primo punto della prossima Assemblea di redazione, che convochiamo il prossimo giovedì 20 ottobre e alla quale sarà presente il Segretario dell’Usigrai Daniele Macheda.
Il Cdr del Tg1
Roberto Chinzari
Leonardo Metalli
Virginia Lozito
Dagospia il 19 ottobre 2022.
Care colleghe e cari colleghi, siamo sconcertati da come la legittima difesa di uno spazio informativo e del proprio lavoro, di fronte ad una decisione sulla quale non c’è stato alcun confronto o informativa con l'azienda, venga trasformato pubblicamente in uno scontro da cortile, tanto più odioso in quanto ci mette in contrapposizione ad un professionista come Fiorello che tutti noi amiamo e stimiamo. Ci piace la sua satira, non ci piace la satira di cattivo gusto che banalizza tutto in dualismo elementare tra buoni e cattivi, che ridicolizza e diffama il nostro lavoro. Chiediamo rispetto per il lavoro di tanti professionisti, che in questi mesi stanno cercando di raccontare al meglio al grande pubblico la quotidianità e gli eventi straordinari, facendo il proprio dovere di giornalisti del servizio pubblico.
Invitiamo i colleghi che criticano la nostra difesa del Tg1 a informarsi prima di vergare i loro commenti.
Dall'azienda ci è arrivata la notizia di un ripensamento sulla collocazione e quindi ha annullato l'incontro di oggi. Di conseguenza la nostra assemblea per ora viene rinviata. Resta la richiesta all'azienda di un incontro su questa tema.
Per quanto riguarda Fiorello, noi teniamo a sottolineare che stimiamo e ammiriamo il suo genio creativo e a lui abbiamo scritto questa lettera che decidiamo insieme di rendere pubblica…
Caro Fiore, Roberto, Virginia ed io ti scriviamo in nome e per conto di tutta la redazione del Tg1, che nutre grande stima per il tuo lavoro e si diverte come tutti, da sempre, con le tue invenzioni televisive. Anche Renzo Arbore ebbe a che fare con un Telegiornale che si frapponeva fra la sua geniale Tv innovativa e l’informazione: era il Tg2 della notte, direttore Alberto La Volpe e il programma era “Indietro tutta” del 1987. La redazione fu avvertita e si trovò presto un accordo, la trasmissione andò subito dopo il Tg2 della notte “accorciato” e per il telegiornale Renzo compose una canzone “Vengo dopo il Tg” per lanciare meglio quella edizione del Tg2, definito "un inno al tg mai pensato prima".
Una sinergia intelligente e proficua per vivere sereni e vincenti. L’azienda era diversa, la Tv aveva un gran peso, tutti furono d’accordo e gli ascolti andarono alle stelle. Fu un grandissimo successo.
Il Tg1 non è in guerra con nessuno, come scrivono i giornali, tantomeno con un artista del quale continuamente racconta le mirabili imprese televisive. Potevamo parlarne diffusamente con l’azienda, fare progetti insieme - come fece Arbore con il Tg2 - lavorando reciprocamente a vantaggio degli ascolti. Forse non sarai stato informato, come noi del resto, che il Tg1 da qui a giugno avrebbe perso quasi 150 ore di informazione. Forse non sai che molti colleghi lavorano per quel prodotto con grande passione nel nuovo spazio concordato con la rete dopo anni di trattative. Ci sarebbe piaciuto condividere con te e con l’azienda queste brevi considerazioni. Il Tg1 ama gli artisti e li promuove da sempre, porte aperte a tutti e nessuno scontro tra professionisti della Tv. I titoli dei giornali non hanno evidenziato questo rispetto per il lavoro reciproco , hanno parlato solo di guerra a Fiorello, per questo ci teniamo a sottolinearlo: Fiorello ci piace, ma con un progetto anche per il Tg1 e i suoi giornalisti.
Roberto, Virginia e Leonardo (Il Cdr del Tg1)
Aldo Grasso per il Corriere della Sera il 19 ottobre 2022.
«Uno sfregio al nostro impegno quotidiano». Com' è possibile che un programma di Fiorello diventi uno sfregio per Viale Mazzini? Alla notizia di un possibile ritorno in Rai di Fiorello il cdr del Tg1 (firmato da Roberto Chinzari, Leonardo Metalli e Virginia Lozito) ha stilato un durissimo comunicato perché un programma satirico di intrattenimento (l'idea era quella simile a Edicola Fiore o Viva via Asiago ) toglierebbe spazi ai giornalisti del Tg1, in particolare a Tg1 Mattina . E poi l'angosciante domanda: «Come si può pensare di interrompere il flusso informativo con un programma satirico, generando confusione nel pubblico a casa?».
Me lo immagino il pubblico a casa che, mentre si fa qualche risata prima di iniziare una dura giornata di lavoro, si chiede: ma perché questa confusione? Non ho mai visto Tg1 Mattina (a quell'ora preferisco la radio) ma non credo, pur rispettando il lavoro di chiunque, sia un programma che lascerà traccia nella storia della tv. All'arrivo di una proposta come quella di Fiorello (al di là del valore altamente pedagogizzante: non è compito del servizio pubblico offrire agli spettatori il meglio che c'è?), qualunque azienda televisiva avrebbe fatto carte false pur di realizzare un progetto così allettante (c'è il bene dell'azienda e c'è il proprio orticello).
Fiorello sceglie la Rai anche per motivi affettivi, di riconoscenza, e invece di trovare le porte aperte riceve uno schiaffo di comunicato. I giornalisti del Tg1, è solo una mia ipotesi, avrebbero potuto mettersi d'accordo con Fiorello per dare un loro contributo all'interno della trasmissione.Adesso resteranno famosi per aver respinto Fiorello: una grande battaglia! Posso capire l'imbarazzo in cui si trova Monica Maggioni, direttrice del Tg1, ma l'ad della Rai Carlo Fuortes, potrebbe chiudere in bellezza il suo mandato lasciando, finalmente, qualcosa di buono al suo successore.
Estratto dell’articolo di Nanni Delbecchi per il “Fatto quotidiano” il 19 ottobre 2022.
Tutta la nostra solidarietà a Rosario Fiorello contro la cui temibile invasione si sono levati i droni del Tg1 per scongiurare la possibilità di un'Edicola Fiore all'interno della fascia oraria di Tg1 Mattina. La semplice ipotesi di un progetto in fase di definizione ha prodotto un duro comunicato del Cdr […]
Come si può pensare di interrompere il flusso informativo con un programma satirico […]? […] il cdr del Tg1 non ha tutti i torti; distinguere tra satira volontaria e involontaria sta diventando sempre più difficile […] in questo caso il Cdr del Tg1 la satira se l'è fatta da solo, con una mossa ridicola ancor prima che masochista.
Avrebbero dovuto stendere un tappeto rosso all'ultimo degli showman […] disposto alle stesse levatacce che il caporedattore Francesco Giorgino aveva sdegnosamente respinto; disposto a dare una botta di vita ai giornali di carta […] Invece sono lì a marcare il territorio con la granitica motivazione che ci sono già loro. E se fosse proprio per questo che a Fiorello andava messo il tappeto rosso? […]
Dagonews il 18 ottobre 2022.
L’Associazione Dirigenti RAI (ADRAI), esprime il più totale sconcerto alle dichiarazioni del CdR del TG1 che ha comunicato la propria contrarietà al rientro di Fiorello con lo spettacolo ‘Viva Asiago 10!' in diretta su Rai1 nella fascia mattutina.
Fiorello è un formidabile showman e si può dire che sia un vero e proprio asset aziendale; solo per citare le ultime apparizioni, “W Raiplay!” del 2019 è stato un riuscitissimo spettacolo multipiattaforma che ha fatto da volano al lancio di Raiplay che anche grazie a quell’operazione oggi è utilizzata da moltissimi spettatori.
Il progetto di spettacolo su cui si sta lavorando sarebbe una grande operazione sia industriale che di marketing per rafforzare la fascia del mattino e di traino della edizione del Tg1 delle 8.
I dirigenti della RAI vogliono una Azienda che sia innovativa, coinvolgente, competitiva, sempre meno ingessata nei processi produttivi, distintiva e riconoscibile nel segno dei valori del Servizio Pubblico. Tutto l’opposto della direzione che il CdR del TG1 vorrebbe imprimere a questo progetto.
L'obiettivo comune del management e dei giornalisti deve necessariamente favorire le occasioni di cambiamento e di rinnovamento come questa evitando di portare avanti logiche di mera difesa corporativa.
L’Adrai ha sempre evitato di esternare polemiche interne. Ma davanti a questa mancanza di visione strategica non è più possibile tacere. I dirigenti hanno la responsabilità di definire le strategie aziendali e di condurle all’obiettivo.
La Rai ha bisogno di grandi iniziative editoriali ed industriali per potersi rinnovare ed essere sempre in grado di assolvere alla propria aspirazione di essere la prima azienda culturale ed informativa del Paese.
I dirigenti RAI sono pronti a supportare il vertice aziendale in queste sfide. I giornalisti RAI da che parte vogliono stare?
Solo remando tutti dalla stessa parte la RAI potrà uscirne vincente.
Giuseppe Candela per Dagospia il 18 ottobre 2022.
"Sconcerto", "contrarietà", "sfregio". Sono queste le parole contenute nella nota del comitato di redazione del Tg1 diffusa ieri, non rivolte ai colleghi di punta (Giorgino, Chimenti, D'Aquino) che hanno rifiutato la conduzione della rassegna stampa delle 6.30. Non indirizzate a Monica Maggioni per il crollo degli ascolti del Tg1-Mattina condotto da Senio Bonini e Isabella Romano. La furia dei giornalisti del Tg1 è tutta riservata a Fiorello, protestano per il suo ritorno su Rai1 (in contemporanea su Radio 2 e RaiPlay) con un morning show: "Viva Asiago 10" previsto dalle 7.10 alle 8, fascia ora in mano al telegiornale, a partire da fine novembre.
Una manna dal cielo per Viale Mazzini, una boccata d'ossigeno sul fronte auditel e milioni di euro in tasca per la pubblicità. Il telegiornale della prima rete è, invece, sul piede di guerra. Nessuno fornisce commenti ufficiali, le bocche sono cucite ma ai piani alti raccontano del fortissimo nervosismo dell'amministratore delegato Carlo Fuortes schierato, comprensibilmente, dalla parte dello showman siciliano, sostenuto dall'intero gruppo dirigenziale. Stupore per i toni utilizzati ma anche per i tempi d'uscita, da settimane la notizia era di dominio pubblico.
"Monica calcola tutto. Non poteva non sapere, sa sempre come cadere in piedi", racconta una voce beninformata a Saxa Rubra. Maggioni maestra nell'arte del barcamenarsi, costretta a vestire i panni di chi "difende un suo spazio anche per non mettersi tutti contro al tg". E Maggioni pesa le mosse, pensa al dopo. Pensa a marzo quando probabilmente dovrà lasciare la poltrona a Gennaro Sangiuliano. Nel futuro si vedrà ma nell'immediato rischia di aprire un fronte con l'attuale governance. Un punto di non ritorno.
L'Usigrai per ora evita affondi, in attesa dell'incontro di domani, ma al Tg1 il problema resta. Lo spazio che apre la giornata ha ascolti disastrosi, una lunga edizione senza appeal che nulla a che vedere con le famose morning news. Per rendere l'idea, ieri Unomattina e Storie Italiane hanno ottenuto ascolti molto alti, il 20% di share, seppur trainati dal pessimo risultato di Tg1-Mattina inchiodato al 14%. Battuto quotidianamente dalla concorrenza. Non a caso il lungo corteggiamento al grande showman capace di stravolgere gli equilibri.
"Può andare alle nove al posto di Unomattina o potevano valorizzare finalmente Rai2", insistono dalle parti di Saxa Rubra. Sottolineano la differenza tra satira e informazione, tra show e notizie. Testo firmato anche da Leonardo Metalli, quello che a Sanremo rincorreva la nave da crociera o i big in pigiama (povero Mollica!). Lo stesso Tg1 che alle 20 ospita i volti dello showbiz in una parte dello studio dedicata (come accade nei contenitori del daytime) e dedica decine di servizi allo spettacolo. Il braccio di ferro sarà vinto da Fuortes o dal Tg1? Il rischio è che perdano entrambi, con il "game over" di Fiorello ancora prima di cominciare...
Fiorello pronto a lasciare? La Rai lavora per trattenere lo showman «inviperito». Renato Franco su Il Corriere della Sera il 18 Ottobre 2022.
Secondo «Dagospia» Fiorello pronto ad abbandonare il progetto «Viva Asiago 10!» dopo le proteste del Cdr del Tg1
Polemiche, rivendicazioni, malumori. Nel mezzo Fiorello che con il suo nuovo programma pensava solo di far ridere e invece si ritrova additato come «sfregio» al lavoro del Tg1. Addirittura. Secondo Dagospia Fiorello sarebbe «inviperito» e «non ha più intenzione di fare il suo show del mattino. Non vuole avere più a che fare né con il tg della Maggioni, ispiratrice della rivolta dei giornalisti, né con Rai1». Voci che al momento non trovano conferma. Di certo lo showman è contrariato, dispiaciuto per un attacco a sorpresa che mai avrebbe immaginato, da quella stessa Rai a cui è fedele da anni. Se questo poi sfocerà addirittura in un passo indietro è da vedere.
Intanto la diplomazia della Rai è già al lavoro. A partire dall’amministratore delegato della Rai Carlo Fuortes: «Ritengo indispensabile precisare che il progetto editoriale è ancora in fase di definizione, compresa la sua collocazione nei palinsesti. Oltre all’approdo su RaiPlay, è in corso la valutazione sul canale televisivo più adatto ad accogliere il progetto innovativo di uno straordinario artista. La Rai avrà cura di comunicare il progetto definitivo non appena verrà ultimato». L’altro giorno il cdr del Tg1 aveva protestato contro l’ipotesi che lo show andasse in onda nell’orario di Tg1 Mattina con un comunicato molto duro, parlando di «sfregio al nostro impegno quotidiano».
Tutto comunque è ancora da definire, dunque. Secondo le ultime indiscrezioni il nuovo show di Fiorello Viva Asiago 10! doveva andare in onda sulla rete ammiraglia Rai, oltre che su Radio2 e RaiPlay, da lunedì 28 novembre, dopo tre settimane di rodaggio sulla piattaforma web con Aspettando Viva Asiago 10! (dal 7 novembre). Quanto alla collocazione televisiva appare molto difficile però che uno show in grado di illuminare tutta viale Mazzini possa non essere ospitato su Rai1. Del tema si parlerà probabilmente anche nella riunione del consiglio di amministrazione in programma giovedì, nella quale sarà approvata anche la semestrale. Il sindacato dei giornalisti resta sul piede di guerra. Dopo il cdr del Tg1, che aveva spiegato che la direttrice Monica Maggioni condivideva la preoccupazione per la riduzione degli spazi, è intervenuto l’Usigrai: «Il problema non è Fiorello, che in passato è sempre stato un valore aggiunto in termini di ascolti, ma il rispetto del contratto e la difesa degli spazi di informazione».
Viva Asiago 10! rappresenterebbe il ritorno di Fiorello in tv dopo il Festival di Sanremo con Amadeus e l’Edicola Fiore trasmessa da Sky. E proprio a quest’ultimo programma si ispira nuovamente Fiorello: mazzetta dei giornali a portata di mano, lo showman vuole dare la sveglia agli spettatori commentando a suo modo le news e i protagonisti dell’attualità. L’idea è quella di trasmettere lo show dal «glass studio», il box trasparente all’esterno della storica sede di Radio Rai.
Il coro prevenuto e stonato dei giornalisti Rai contro il nuovo show mattutino di Fiorello. Il presentatore è campione di ascolti ma Fuortes è costretto a fare retromarcia. Laura Rio il 19 ottobre 2022 su Il Giornale.
Dunque: c'è il più grande showman italiano vivente che accetta di tornare in Rai. Quello stesso showman, per rinfrescarci la memoria, che raccoglie ascolti da urlo ogni volta che appare, lo stesso che regala monete sonanti alla concessionaria di pubblicità, lo stesso che si è tenuto sulle spalle, insieme ad Amadeus, il più d0ifficile Festival di Sanremo di tutti i tempi, in piena pandemia e con la platea deserta. E che succede? I giornalisti della Rai non lo vogliono, eh no, perché il suo show, pensato per la mattina presto (tra le sette e le otto), interrompe il «flusso dell'informazione» ed è «uno sfregio» al loro «impegno quotidiano». Dunque molto meglio raggranellare pochi ascolti (la mattina di Canale 5 batte regolatamente quella di Raiuno) e lasciare a casa il fuoriclasse oppure spedirlo in altre fasce orarie, alle nove (dove c'è Unomattina). Ma ce lo vedete voi Fiorello, che all'alba ha già fatto il giro del suo quartiere, passato per l'edicola di fiducia e letto tutti i giornali aspettare fino alle nove? A quell'ora si è già ammosciato Ma va proprio così: i giornalisti del Tg1, tramite il sindacato interno, fanno sapere che faranno opposizione durissima contro il progetto dell'azienda che prevede, appunto, il ritorno del presentatore con Via Asiago 10!, un morning show in multicasting su Raiuno, Radio 2 (con sede appunto in via Asiago) e RaiPlay. Data di partenza: il 28 novembre con un anticipo di rodaggio sulla piattaforma web dal 7 dello stesso mese. Una protesta arrivata dritta al segno: ieri pomeriggio l'Ad Rai, Carlo Fuortes, ha fatto sapere che la collocazione di Fiorello è «ancora in fase di definizione», quindi potrebbe andare in onda anche sul secondo o terzo canale. Insomma, il capo della Rai ha fatto retromarcia, ma è veramente strano pensare che non avesse messo in conto una reazione veemente dei giornalisti del Tg1.
Questi si sono infuriati perché quello guidato da Fiorello sarà un «programma satirico di intrattenimento», che toglierebbe spazio all'informazione della testata guidata da Monica Maggioni. A parte che una battuta dello showman siciliano è più incisiva di tutti telegiornali messi insieme, Fiore - come ci ha mostrato in tanti anni di Edicola - è in grado di captare le notizie come pochi reporter.
Certo è vero che è stato fatto uno sforzo notevole per distinguere Tg1 e Uno Mattina rispetto a quel pasticcio che era prima lo spazio del mattino che mixava intrattenimento e informazione, è vero che Monica Maggioni sta imprimendo una connotazione diversa, più moderna e prestigiosa, al notiziario del primo canale, ma come si fa a dire di no a uno come Fiore che darebbe un grande slancio a tutto questo lavoro anche solo per il traino di ascolti che porterebbe? E che si sarebbe inserito perfettamente nel «flusso di informazione». Lui è uno che ci pensa cento volte prima di tornare in tv e se vede un clima ostile, si tira indietro. Odia gli scontri. Figuriamoci un intero tg contro. Ora, quando si saprà orario e giorno di collocazione, vedremo se sarà lui ad accettare. O resterà a girare i teatri dove ha fatto il sold out in tutte le date.
Altro che servizio pubblico, la Rai ghettizza il Sud. Ricordiamo che un terzo del canone incassato dalla Rai proviene dalle Regioni del Mezzogiorno. Si torni allo spirito di "Non è mai troppo tardi". PIETRO MASSIMO BUSETTA su Il Quotidiano del Sud il 9 Settembre 2022.
Il maestro Alberto Manzi, con la sua trasmissione "Non è mai troppo tardi" alfabetizzò milioni di italiani
Dal 1960 al 1968 la Rai mandò in onda un programma televisivo per combattere l’analfabetismo tra gli adulti. “Non è mai troppo tardi” si chiamava il programma, e chiamò a condurlo non un qualunque maestro di scuola elementare, ma Alberto Manzi scrittore insegnante e pedagogista romano.
L’esperimento andato in onda sulla Rai per ben otto anni aiutò 1 milione e mezzo di studenti a conseguire la licenza alimentare. Perché ricordare questo progetto? Per dimostrare che la televisione pubblica prima aveva chiaro di avere un ruolo nel nostro Paese totalmente diverso rispetto alla cosiddetta televisione commerciale.
Per tale motivo è previsto il pagamento di un canone, peraltro con la previsione di un prelievo automatico ed in ogni caso ad un costo indipendente dal reddito di ciascuno.
Per cui considerato che ormai il televisore entra in tutte le famiglie si può ritenere, senza timore di errore, che un terzo del canone complessivo, incassato dalla Rai, provenga dal Mezzogiorno d’Italia, come la popolazione.
Questo investimento che il Sud ogni anno fa si può affermare che torni con un servizio corrispondente alle risorse impiegate? In realtà in molti ritengono che la Rai sia funzionale al cosiddetto Partito Unico del Nord, e che si sia posta in modo strabico rispetto ad una parte del Paese.
Ad un occhio attento non può sfuggire il fatto che nella sua programmazione la presenza di opinion leader appartenenti al nord del Paese sia assolutamente prevalente.
Come pure la dimensione delle realtà produttive della stessa, in termini di fiction e di programmi, sia prevalentemente oltre che a Roma come è naturale poi a Milano, mentre tutto ciò che c’è da Napoli in giù è assolutamente trascurato.
In un processo nel quale si insegue, come forse è giusto che sia, lo spettacolo più cool, la mostra più ricca, il festival di successo, l’evento internazionale più importante, la concentrazione di attenzione rispetto al nord del Paese diventa quasi fastidiosa.
Ma anche laddove il tema diventa quello del confronto scientifico su temi riguardanti la medicina, l’economia, la fisica o le scienze varie la concentrazione degli opinionisti fa riflettere molto sullo strabismo della Rai.
Gli ultimi due anni di pandemia ci hanno fatto apprezzare moltissimo i tanti virologi esistenti in Italia. Molto strano è che tutti quanti avessero sede presso un policlinico o un’università al di sopra di Bologna.
E se poteva essere comprensibile, quando i collegamenti via web erano più complicati, che la scelta avvenisse in realtà più servite e più vicine ai centri di produzione, stupisce notevolmente che invece si è continuato a coinvolgere professionalità, pur di rilievo, del Nord, lasciando totalmente marginale tutte le realtà scientifiche che avessero sede a Napoli, Bari, Palermo o Catania ora che la dislocazione geografica diventa indifferente.
In una forma di discriminazione che se fatta dalla televisione commerciale, pur se non condivisibile, può trovare motivazione nelle cordate e nei gruppi prevalenti, ma che non può essere assolutamente condivisa se portata avanti dalla televisione pubblica.
La spiegazione di tale comportamento è molto semplice. Poiché la televisione pubblica è lottizzata dal Partito Unico del Nord, non è strano che esso promuova i propri “aficionados”, dando quei contentini che poi servono a lanciare libri a coloro che sono più vicini, se si tratta di giornalisti ad avere spazi televisivi pagati molto bene, se si tratta di divulgatori ad aver affidate trasmissioni da gestire.
Ovviamente si tratta di un tradimento assoluto degli obiettivi che dovrebbe porsi un servizio pubblico. Che, come fece nel 1960 quando cercò di unificare l’alfabetizzazione del Paese, negli anni 2000 dovrebbe aiutare a rilanciare le realtà marginali, aiutandole a promuovere le loro attività turistiche, i loro grandi concerti, le loro attività culturali che il Paese conosce poco, da quelle che si svolgono al teatro greco di Siracusa, alla Sagra del mandorlo in fiore della Valle dei templi, fino al festival della Taranta. Ovviamente non solo trasmettendole ma, cosa ben diversa, promuovendole.
Un’attenzione particolare dovrebbe essere rivolta anche all’informazione che arriva da queste realtà ed evitare che sia predominante quella che vuole far passare la parte dirigente dominante del Paese.
Le rassegne stampa che danno prevalenza ai giornaloni nazionali, per altro di proprietà degli imprenditori che indirizzano non solo l’economia ma anche il pensiero della gente, diventa una forma di lavaggio del cervello, per cui se un investimento non è congeniale all’indirizzo prevalente viene criminalizzato e coloro che lo sostengono spesso ridicolizzati.
Quello che è accaduto e che accade ancora con il progetto del ponte di Messina è illuminante di come investimenti importanti vengano trattati. Se poi si pone a confronto con la pubblicistica relativa al Mose di Venezia e alla TAV ci si accorge che quando si tratta di indirizzare le risorse per le infrastrutturazione del Sud del Paese tutto diventa assolutamente spesa sprecata.
Per cui il Mezzogiorno, che non ha voci autorevoli nella panoramica nazionale, sia per quanto riguarda la carta stampata che per quanto riguarda le televisioni generaliste, viene assolutamente silenziato nelle pagine regionali di media marginali e periferici.
Per cui mentre i media privati continuano a perseguire gli obiettivi legittimi che si sono proposti, l’unico media pubblico, che dovrebbe equilibrare in parte il rapporto di forza esistente, non fa altro che aiutare quella concentrazione di posizione dominante per cui una parte del Paese non riesce più ad avere voce.
Tale approccio si ritrova anche rispetto al Governo del Paese, per cui anche se vi dovessero essere ministri con provenienza meridionale, e non dovessero allinearsi rispetto alle posizioni dominanti prevalenti, vengono maltrattati quando non capita quello che è accaduto al presidente Leone, napoletano, costretto a dimettersi da un’inchiesta profondamente ingiusta. Mentre l’energia diventa costosissima ed i tassi esplodono potrebbe sembrare quello trattato un problema minore, ma la democrazia è fatta di pesi e contrappesi, di equilibri anche nell’informazione.
La Corte dei Conti campana contesta un danno erariale di circa 5 milioni di euro ai danni della Presidenza del Consiglio, per contributi sull’editoria. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 16 Luglio 2022.
L'attuale testata "BuonaSera" edizione di Taranto è nata nel 2012 e quindi è estranea alle precedenti attività poste in essere da Pasquale Piccirillo ed Antonio Sollazzo con la precedente testata "Buongiorno Campania", infatti i due co-editori campani sono usciti dalla cooperativa Dossier , nei primi mesi del 2012 allorquando si è trasferita a Grottaglie in provincia di Taranto e la testata ha cambiato nome, luogo di pubblicazione ed area di interesse.
I finanzieri dei Nuclei di Polizia Economico-Finanziaria di Taranto e di Caserta hanno eseguito un provvedimento di sequestro conservativo emesso, su richiesta della Procura regionale per la Campania, dal Presidente della Sezione giurisdizionale della Corte dei conti di Napoli, fino alla concorrenza dell’importo del danno erariale accertato, pari a circa 4,2 milioni di euro, nei confronti della Società Cooperativa Giornalistica DOSSIER ed i suoi rappresentanti legali dal 2008 al 2012, per l’illecita percezione di contributi pubblici a sostegno dell’attività editoriale.
Nel comunicato però non si chiarisce qualcosa, e cioè che la cooperativa DOSSIER che aveva sede a Caserta, editava un quotidiano che si chiamava “Buongiorno Campania” per il quale erano stati erogati contributi per l’editoria per gli anni 2008/2011 e non 2012 come erroneamente indicato nel comunicato, in quanto i contributi si ricevono l’anno successivo a quello di competenza. Nel 2012 infatti il quotidiano “Buongiorno Campania” a Taranto non esisteva e tantomeno veniva pubblicato.
L’attuale testata BuonaSera è nata nel 2012 e quindi è estranea alle precedenti attività poste in essere da Pasquale Piccirillo ed Antonio Sollazzo con la precedente testata “Buongiorno Campania“, infatti i due co-editori campani sono usciti dalla cooperativa Dossier , nei primi mesi del 2012 allorquando si è trasferita a Grottaglie in provincia di Taranto e la testata ha cambiato nome, luogo di pubblicazione ed area di interesse.
Il provvedimento reso noto dal comunicato stampa delle Fiamme Gialle consegue ad indagini condotte dalle fiamme gialle nei confronti della società cooperativa Dossier coordinate dai pubblici ministeri della Procura Regionale della Campania della Corte dei Conti, all’esito delle quali è stato accertato che la stessa cooperativa Dossier avrebbe più volte cambiato sede legale e denominazione di testata giornalistica, producendo falsa documentazione attestante un assetto societario diverso da quello reale, inducendo in errore la Presidenza del Consiglio – Dipartimento per l’Informazione e l’Editoria di Roma, ad erogare indebitamente, per gli anni dal 2008 al 2012 contributi pubblici per circa 4,2 milioni di euro. In realtà dal gennaio 2012 la cooperativa che è stata correttamente liquidata con cessazione di attività, non ha mai cambiato sede da Grottaglie (Taranto).
Nel novembre 2011 nella cooperativa Dossier entrarono dei giornalisti pugliesi, e grazie ai contributi dell’anno 2011, soltanto incassati nel 2012 pagarono tutti i debiti contratti dai precedenti amministratori e gestori della Cooperativa.
Sarebbe emerso secondo la Guardia di Finanza che i giornalisti della testata “Buongiorno Campania“, avvicendatisi nella compagine associativa nel suddetto periodo, avrebbero disconosciuto una propria volontaria e sostanziale adesione alla cooperativa in qualità di soci, specificando che in realtà avrebbero svolto esclusivamente attività di lavoratori dipendenti come redattori e che il formale rapporto associativo quali cooperatori sarebbe stato imposto loro dietro minaccia di licenziamento. E quindi anche su questa conclusione d’indagine, l’operato dei soci subentrati che gestiscono la cooperativa che edita il quotidiano “Buona Sera” Taranto non hanno alcuna responsabilità e coinvolgimento.
Quanto reso noto dalle Fiamme Gialle all’esito delle suddette attività, tre persone Pasquale Piccirillo, Antonio Sollazzo e Caterina Maria Bagnardi, amministratori (altresì di fatto) della suindicata società, furono denunziate all’Autorità Giudiziaria Ordinaria per il reato di truffa aggravata funzionale al conseguimento di erogazioni pubbliche, dimenticando di dire che la Bagnardi è stata assolta. Così come Corriere del Mezzogiorno edizione pugliese pubblicata dal Corriere della Sera, non ha raccontato correttamente qualcosa di molto importante, scrivendo e sostenendo che la “ Bagnardi ha un profilo marginale in questa vicenda perché è entrata nella società solo nel 2011 e la sua condotta è stata valutata in relazione alla richiesta di contributi per l’annualità 2012“in quanto questa vicenda riguarda esclusivamente i contributi dal 2008 al 2011. Documentarsi meglio evita di far leggere inesattezze al lettore.
Nel procedimento penale avviato nel 2018 dalla procura di S. Maria Capua Vetere, la giornalista Caterina Maria Bagnardi che era subentrata soltanto a novembre 2011 nel ruolo di amministratore della cooperativa, e che aveva dovuto richiedere quale atto dovuto, i contributi pubblici maturati nel 2011 della cooperativa Dossier, è stato assolta “perchè il fatto non sussiste” con sentenza n. 887/18 depositata l’ 11 gennaio 2019, passata in giudicato.
Quindi non si capisce oggi come possa oggi la giustizia contabile tornare alla carica per gli stessi fatti e presunte responsabilità per i quali la giustizia penale ha ritenuto innocente con sentenza definitiva la Bagnardi non ravvisando alcun suo reato. Quindi se non ha commesso alcun reato penale come può essere responsabile nei confronti dell’ Erario ? Una semplice domanda che la Guardia della Finanza e qualche giornalista avrebbe dovuto porsi.
Tg2, il delirio della sinistra: "Censura, cosa c'è dietro", altro fango contro la Meloni. Giovanni Torelli su Libero Quotidiano il 19 giugno 2022
Certo che ci vuole faccia tosta. Nella Rai più lottizzata di sempre dal Pd, nella spartizione di cariche tra tutti i partiti, esclusi quello di opposizione, cioè Fratelli d'Italia, chi viene accusato di farla da padrone e di proporre contenuti propagandistici in Rai? Ma il partito della Meloni, ovvio. È la tesi del segretario di Commissione Vigilanza Rai, Michele Anzaldi di Italia Viva, che su Facebook si è inalberato perché il Tg2 guidato da Gennaro Sangiuliano avrebbe censurato il comizio ormai celebre della Meloni in Andalusia per non metterla in difficoltà.
«Grave pagina di disinformazione al Tg2 sul caso del discorso di Giorgia Meloni dal palco del partito estremista spagnolo Vox», ha scritto Anzaldi. «Il tg di Rai2 è stato ridotto a megafono della propaganda di un partito. Ha censurato il discorso-autogol della leader di Fdi, non facendolo sentire né vedere». Da qui l'appello a mezzo mondo a porre fine allo "scempio". «Che ne pensano l'Agcom, l'Ordine dei Giornalisti, il Cda Rai, la Fnsi, l'Usigrai, il Cdr? Davvero l'ad Rai Fuortes e il presidente Agcom Lasorella non intendono intervenire?», si chiede Anzaldi.
Al momento fortunatamente nessuno dei soggetti suddetti è intervenuto. Sono intervenuti però i parlamentari meloniani. Il responsabile dell'organizzazione di Fdi Giovanni Donzelli ha notato come Anzaldi «non si sente appagato dal linciaggio mediatico della maggioranza nei confronti della Meloni»; ma «l'emergenza democratica che stiamo vivendo» prevede anche che «se non sei al governo devi essere purgato», al punto che si «chiede la censura dei servizi giornalistici».
A sua volta il deputato Fdi Federico Mollicone ha notato come «Anzaldi continui a fare la voce del padrone» ma «sono finiti i tempi in cui dettava le notizie al Tg2». E quindi ricorda come quello di Sangiuliano sia un tg «che dà voce a tutte le forze politiche, e rappresenta le ragioni del primo partito italiano, dando comunque spazio a partitini come quello di Anzaldi...».
Al di là delle schermaglie politiche, a parlare sono i fatti. Fdi non vanta neppure un esponente nel cda Rai e non ha ottenuto alcuna direzione di genere (nel recente balletto delle nomine c'è solo stato un ricollocamento di esponenti Pd). Anche tra i direttori di tg l'unico che può considerarsi in orbita meloniana è Paolo Petrecca alla guida di RaiNews, peraltro il luogo più egemonizzato dai "rossi".
Per il resto, di area Fdi, solo qualche vicedirezione di genere e di tg, e nulla più. Anche l'unico programma di approfondimento riconducibile al mondo Fratelli d'Italia, cioè Anni Venti, è stato chiuso. E allora di cosa blatera Anzaldi? Si lamenta del fatto che Sangiuliano eserciti la propria libertà editoriale, e che lui e i suoi giornalisti diano diritto di replica alla Meloni (nel servizio del Tg2 contestato c'erano infatti prima le parole di Letta contro di lei)? Ah già, forse la sinistra tutta (Iv non ne è che un'emanazione) non ammette che ci siano spazi di libertà nel servizio pubblico e vuole mangiarsi tutto. Come capita nell'informazione di regime. Democratico, s'intende.
Ottavio Cappellani per La Sicilia il 19 giugno 2022.
Non sono soltanto gli stagionali che non si trovano, non si trova neanche gente che vuole lavorare al TG1. E ci credo: i conduttori preferiscono il reddito di cittadinanza.
Francesco Giorgino, Emma D’Aquino e Laura Chimenti, conduttori e conduttoresse del TG1 delle 20.00, si sono rifiutati di condurre e condurroresse la rassegna stampa delle 6,30 del mattino, con tanto di certificato medico che testimonia come la loro salute non sia in grado di sostenere la levataccia: dice che per fare trucco e parrucco devono essere in Rai almeno alle 5,00. In realtà la levataccia dovevano farla soltanto cinque giorni ogni mese e mezzo, ma i dottori hanno detto no, non li vedete come sono smunti?
Sto scrivendo questo pezzo in un’area di servizio in mezzo al nulla frequentata da contadini in Ape Piaggio armati di zappe e picconi, da queste parti si stanno sfiorando i 40 gradi, anche loro sono molto d’accordo con i tre giornalist*: e che sono pazzi a chiedere loro di condurre la rassegna stampa di mattina?
Giorgino, addirittura, è stato retrocesso al TG1 meno prestigioso, quello delle 13,30, e dice che la faccenda è in mano ai suoi legali. I contadini, al bar, sono scandalizzati: e che si retrocede così Giorgino? E poi si sa che il TG1 delle 13,30 non lo guarda nessuno, a questo punto, ripetono, uno se ne sta a casa col reddito di cittadinanza.
Lo spietratore di orti dice che la colpa è della rotazione, nessuno vuole fare la rotazione, neanche quelli dei Cinquestelle vogliono il limite del doppio mandato, perché è chiaro che se uno si abitua a fare una cosa poi non vuole cambiare, anche se secondo lui sarebbe più giusto il limite e si informa se è possibile avere il limite dei due mandati per fare lo spietratore.
Gli altri lo mandano affanculo perché sta andando fuori tema e tornano a parlare del TG.
Il trattorista dice che è d’accordo sia con i giornalisti sia con la direttrice Monica Maggioni che non ha tenuto in considerazione i certificati medici: il trattorista lavora in proprio e una mattina proprio si sentiva anche lui come i giornalisti, smunto, allora si è fatto fare il certificato medico, se lo è presentato a se stesso e se l’è rifiutato perché ancora deve finire di pagare le rate del trattore, così alle 3,30 del mattino era già a guidare che il tempo che arrivava al campo si facevano le sei perché i trattori vanno lenti sulle strade normali.
Il contadino dice: che c’entra il trattore, anche io mi sveglio alle 3,00 perché la sera quando arrivo a casa alle 20,00 mi addormento di botto. Anche gli altri hanno tutti gli stessi orari, così si fanno due calcoli e capiscono che nessuno di loro guarda la rassegna stampa perché sono già al lavoro, alle 13,30 si mangiano il panino fuori, e alle 20,00 stanno già dormendo. Quindi mandano affanculo Giorgino e compagnia cantando e se ne tornano nei campi e nei cantieri.
I giornalisti del Tg1 Giorgino, Chimenti e D’Aquino e la guerra di certificati medici. Giovanna Cavalli su Il Corriere della Sera il 17 Giugno 2022.
I tre conduttori dell’edizione delle 20 avrebbero rifiutato di occuparsi della rassegna stampa mattutina, come richiesto dalla direttrice Maggioni, per motivi di salute.
Sta tutto scritto nei certificati medici. Quelli che i tre dei quattro conduttori del Tg1 delle 20, Francesco Giorgino, Emma D’Aquino e Laura Chimenti, avrebbero presentato per tempo, prima di essere rimossi dalla prestigiosa conduzione delle 20 - e «retrocessi» sul campo a quella delle 13.30 - per aver declinato l’invito della direttrice Monica Maggioni a condurre la rassegna stampa del mattino presto.
All’alba
Molto presto, visto che per essere in video alle 6.30, senza sfoggiare poco telegeniche occhiaie da panda e capelli scarruffati, occorre prima passare dal trucco e parrucco, nonché aver letto i giornali, per poterne parlare con contezza ai telespettatori. E dunque occorre presentarsi a Saxa Rubra intorno alle cinque, alle prime luci dell’alba. Non sempre, attenzione, ma per 5 giorni consecutivi ogni mese e mezzo. E subito tutti a dire, ad insinuare, a dare per certo che sia stata l’idea della levataccia antelucana a fare inorridire i tre noti e amati mezzibusti della Rai, abituati ad orari più comodi.
I tre ribelli
Soltanto Alessio Zucchini, forse perché ha alle spalle tanti duri anni da precario prima di approdare in Rai, ha accettato senza fare una piega. Ed è rimasto al suo posto. Per i tre «ribelli» invece Monica Maggioni avrebbe disposto uno spostamento a decorrenza immediata, comunicato per lettera senza troppo preavviso. Così come il progetto è partito in tempi ristretti. La direttrice del resto tiene moltissimo a questa rassegna stampa mattutina. Giorgino, Chimenti e D’Aquino sono stati dipinti come lavativi, pigri, viziati (o a scelta, vittime di una direttrice troppo intransigente e volitiva). In realtà ciascuno avrebbe presentato un dettagliato certificato medico che attesta l’impossibilità di affrontare turni troppo faticosi. Insomma il no sarebbe motivato da comprovate necessità di salute. Specialmente nel caso di Giorgino, che la stessa Monica Maggioni ha nominato vicedirettore del TG1, subito dopo il suo insediamento, nel novembre del 2021. E che dopo l’ultima conduzione alle 20 ha salutato il pubblico: «Grazie e arrivederci a tutti».
Rapporti incrinati
Il conduttore, prima ancora di essere selezionato per il compito della rassegna stampa delle 6.30, avrebbe chiesto una riduzione del carico lavorativo per motivi di salute. Su consiglio dei medici. Non per evitare sveglie anticipate, anche perché, nel suo ruolo, ha più volte lavorato di buon’ora e spesso fino a tarda sera , con oltre 400 giorni di ferie arretrate a dimostrare il suo impegno. «Non sono autorizzato a parlare, la vicenda è oggetto di valutazione dei miei legali» si è limitato a dire all’agenzia Adnkronos. Dispiaciuto per essere stato dipinto come un riottoso fannullone o come un vanesio che si sente una star. Nei consueti corridoi di Saxa Rubra si dice poi che da tempo i suoi rapporti con la direttrice fossero incrinati. Divergenze di vedute. E di schieramento: Maggioni assai governativa, Giorgino in generica quota centrodestra. Anche Emma D’Aquino e Laura Chimenti avrebbero motivato il no con certificato medico e sarebbero sorprese e mortificate dal brusco ordine di servizio. Tra i papabili sostituti, in prima fila c’è Giorgia Cardinaletti, molto apprezzata dalla direttrice.
DAGONEWS l'8 giugno 2022.
Da dove nasce l’insofferenza (eufemismo) del Pd verso l’ad Rai Carlo Fuortes? Il suo “peccato originale” va ricercato nella nomina dei direttori dei telegiornali. In modo particolare la scelta di portare Monica Maggioni alla direzione del Tg1. L’ex inviata di guerra (si fa per dire) non è in quota Pd. Non è rappresentativa del mondo dem.
La sua nomina è stata una cambialetta che Draghi ha dovuto pagare a Gianni Letta. L’Eminenza azzurrina, che sente ogni mattina al telefono la sua amica Maggioni, ha chiesto a Mariopio di riconoscere il valore della giornalista con una bella poltrona pesante. In nome dei vecchi tempi (fu il governo Berlusconi, dunque Letta, a fine 2005 a nominare Draghi governatore della Banca d’Italia), la richiesta è stata esaudita con una telefonata a Fuortes.
Il Pd, che ha visto confermato il mal-destro Sangiuliano al Tg2 e la nomina di Simona Sala in quota M5s al Tg3, è rimasto a bocca asciutta (e Orfeo ci ha provato fino alla fine di prendersi il Tg1). Di qui l’incazzatura di Enrico Letta. Di qui il “risarcimento” di Fuortes: il caso Orfeo ha innescato un valzer di incarichi che “premia” il Pd: Antonio Di Bella, ex direttore del Day Time e molto contiguo ai dem, va a guidare gli Approfondimenti giornalistici al posto di Mario Orfeo. Al Day Time, prima diretto da Di Bella, va Simona Sala, che a sua volta lascia la guida del Tg3 a Orfeo che fa felice il Nazareno: a Letta non dispiace, infatti, in vista dei prossimi appuntamenti elettorali, avere un telegiornale amico.
A proposito di Fuortes. Il consiglio di amministrazione della Rai, nonostante i mal di pancia, stamattina ha dato il via libera alle nomine proposte dall’ad, con cinque voti favorevoli (Simona Agnes in quota Forza Italia/Gianni Letta, Francesca Bria in quota Orlando/Pd e Igor De Biasio in quota Lega; oltre alla presidente Marinella Soldi e Fuortes) e due contrari (il pentastellato Di Majo orfano di Simona Sala e Laganà, emissario dei dipendenti Rai).
La presidente Rai Marinella Soldi e la consigliera in quota Pd Francesca Bria hanno lavorato in duplex per calmare gli animi ed evitare un traumatico siluramento di Fuortes, fedeli al vecchio adagio della politica: ora come ora, meglio azzopparlo che mandarlo via.
Comunque, ora sta diventando chiaro il sì del leghista De Biasio: il sito del Fatto Quotidiano annuncia il siluramento della piddina Ilaria D’Amico, posizionata da Orfeo sulla salviniana Rai2, per essere sostituita da Francesco Giorgino….
Giuseppe Candela per ilfattoquotidiano.it l'8 giugno 2022.
Manovre, spostamenti, incontri. Quando mancano venti giorni alla presentazione dei Palinsesti Rai, a Viale Mazzini arrivano nuovi colpi di scena. L’amministratore delegato Carlo Fuortes ha deciso di rimuovere dalla direzione Approfondimenti (tradotto quella che si occupa dei talk show) Mario Orfeo. Ex direttore generale, già alla guida dei tre telegiornali Rai. Renziano ma con referenze trasversali da destra a sinistra.
A differenza di quanto circolato nei giorni scorsi, il Cda Rai ha dato il via libera al nuovo pacchetto di nomine: la “retrocessione”, ma anche il ritorno, di Orfeo al Tg3 sostituito agli Approfondimenti da Antonio Di Bella, quest’ultimo ha ceduto la poltrona del Daytime a Simona Sala. Fino alla fine sono stati bilico i voti di Riccardo Laganà e del consigliere Alessandro Di Majo, rappresentante del Movimento 5 Stelle.
In questo scenario, di fatto con collegamenti inevitabili, sono arrivati altri cambiamenti. Come anticipato dall’agenzia LaPresse è saltato l’arrivo in Rai di Ilaria D’Amico. Nei mesi scorsi il sito Dagospia aveva annunciato lo sbarco a Viale Mazzini per condurre il nuovo talk show di Rai2, destinato al prime del giovedì sera. Notizia confermata e rilanciata da diverse fonti. FqMagazine apprende da fonti qualificate che era tutto pronto ed era stato scelto anche il capoautore, l’ex iena Alessandro Sortino. Operazione voluta con forza dal manager Beppe Caschetto (che assiste la D’Amico) e da Mario Orfeo.
Al suo posto arriva Francesco Giorgino, attualmente impegnato alla conduzione del Tg1 delle 20, oltre che come vicedirettore della testata. Un nome interno apprezzato dall’intero centrodestra, gradito in particolare alla Lega. Al suo fianco o con un ruolo minore potrebbe esserci la giornalista Annalisa Chirico. Non l’unico cambiamento, al posto di Giorgino approda al Tg1 come vicedirettore Francesco Primozich, ora nello stesso ruolo al Tg2, anche lui nome gradito alla Lega.
Franco Bechis per veritaeaffari.it il 4 giugno 2022.
Mario Orfeo? “È il Patriarca Kirill del Pd”. E l’amministratore delegato della Rai Carlo Fuortes, che dopo avere sanzionato il suo dirigente l’ha immediatamente tolto dalla lista dei puniti quasi promuovendolo 24 ore dopo alla direzione del Tg3? “Lui è come Ursula von der Leyen di fronte a Victor Orban”.
È un Paolo Mieli pungentissimo quello che si diverte con il nominificio della Rai chiacchierando in diretta con Radio24. Manca solo l’ultimo paragone: chi è l’Orban in viale Mazzini? Ma naturalmente Enrico Letta che con il suo Pd non si perde mai una nomina, quasi l’occupazione di poltrone pubbliche fosse la missione statutaria del suo partito. “Fuortes”, spiega Mieli, “voleva mandare via da dove era Orfeo per tradimento, perché era inaffidabile. Invece sembra dalla lettura dei giornali che l’abbia rimesso proprio dove lui voleva tornare: alla direzione del Tg3”.
L’ex direttore del Corriere della Sera nota: “Sulle nomine non è mai distratto il Pd, vero? Eh sì, il Pd quando si tratta di nomine fa attenzione…”. Ed è qui che nasce il paragone: “In controluce, visto che le vicende sono contemporanee, direi che Orfeo è come il patriarca Kirill della Rai. E Fuortes è come la von der Leyen. Il Pd? Ha il volto pacioso e concreto di Orban…”
Paolo Mieli massacra Mario Orfeo: "Direi che è come...", il paragone con cui lo annienta. Libero Quotidiano il 04 giugno 2022
Paolo Mieli è entrato a gamba tesa sul caso Fuortes-Orfeo esploso in Rai e soprattutto sul Pd, che “quando si tratta di nomine fa attenzione”. Lo ha fatto dai microfoni di Radio24, dove l’editorialista del Corriere della Sera è stato a dir poco pungente. Innanzitutto Mieli ha palesato il suo punto di vista sulla situazione spinosa venutasi a creare: “Fuortes voleva mandare via Orfeo per tradimento, perché era inaffidabile”.
“Invece - ha sottolineato Mieli - dalla lettura dei giornali sembra che l’abbia rimesso proprio dove lui voleva tornare: alla direzione del Tg3. Sulle nomine non è mai distratto il Pd, vero? Quando si tratta di nomine fa sempre attenzione…”. In pratica i fatti sono i seguenti: Fuortes ha defenestrato Orfeo da direttore degli approfondimenti non avendo più fiducia nei suoi confronti; la faccenda è però diventato un caso politico, con il Pd in prima linea a protestare con vigore in Rai, ma anche a Palazzo Chigi. Finale della storia? Orfeo tornerà a dirigere il Tg3.
Mieli allora si è prestato al gioco dei paragoni, per quanto molto scomodi e per nulla tenersi: “In controluce, visto che le vicende sono contemporanee, direi che Orfeo è come il patriarca Kirill della Rai. E Fuortes è come Ursula von der Leyen di fronte a Viktor Orban. Il Pd? Ha il volto pacioso e concreto proprio di Orban”.
Girano le poltrone, non è la Rai ma tele-Pd. L'ad Fuortes fa fuori all'improvviso Mario Orfeo a capo degli approfondimenti e ci mette Di Bella. Ma poi, passata la nuttata lo fa direttore di Rai3 (e Di Bella è contento). Cosa c'è dietro questi straordinari giri di valzer e di nomine.
Francesco Specchia su Libero Quotidiano il 03 giugno 2022.
Francesco Specchia, fiorentino di nascita, veronese d'adozione, ha una laurea in legge, una specializzazione in comunicazioni di massa e una antropologia criminale (ma non gli sono servite a nulla); a Libero si occupa prevalentemente di politica, tv e mass media. Si vanta di aver lavorato, tra gli altri, per Indro Montanelli alla Voce e per Albino Longhi all'Arena di Verona. Collabora con il TgCom e Radio Monte Carlo, ha scritto e condotto programmi televisivi, tra cui i talk show politici "Iceberg", "Alias" con Franco Debenedetti e "Versus", primo esperimento di talk show interattivo con i social network. Vive una perenne e macerante schizofrenia: ha lavorato per la satira e scritto vari saggi tra cui "Diario inedito del Grande Fratello" (Gremese) e "Gli Inaffondabili" (Marsilio), "Giulio Andreotti-Parola di Giulio" (Aliberti), ed è direttore della collana Mediamursia. Tifa Fiorentina, e non è mai riuscito ad entrare in una lobby, che fosse una...
Ce l’immaginiamo l’Antonio Di Bella che, sdraiato in una spiaggia in provincia di Pescara, paonazzo sotto il primo solleone, con l’amata chitarra in una mano, mentre sfoglia con l’altra l’ultima copia del New York Times; e sogna una futuribile nuotata agli Hamptons. Epperò, in quel momento di massimo relax, l’Antonio riceve una telefonata da un collega dell’Adn Kronos. «Anto’, qui so’ cazzi...».
Il collega dell’agenzia stampa gli chiede lumi sul suo improvviso passaggio alla Direzione Approfondimenti Rai al posto di Mario Orfeo appena fatto fuori dal suo amministratore delegato Carlo Fuortes. Di Bella, sfodera un sorriso invincibile, esce dalla sua trance da romanzo di Noël Coward e gli risponde candidamente: «Io sono al mare, di questa cosa leggo sui giornali. Aspetto comunicazioni formali dall’azienda che non ho mai avuto». E probabilmente è vero. Di Bella sa nulla, sul caso, di più di quanto battano affannosamente le agenzie. In realtà, tutti gli attori –anche quelli chiusi nel buio della propria stanzetta in viale Mazzini- nella commedia del vorticoso giro di poltrone che sta per compiersi in Rai oggi, non hanno una chiara contezza del proprio destino. Né Di Bella che dall’approfondimento del Day Time passerebbe al ruolo di Orfeo; né Orfeo a cui verrebbe assegnata, in un inopinato gioco dell’oca, la direzione del telegiornale della terza rete che ora è della Simona Sala; né la Sala la quale andrebbe ad occupare il posto di Di Bella da direttore del Day Time. Sarebbero queste le soluzioni maturate da Fuortes dopo la decisione –così tranchant<- di eliminare Orfeo in virtù di un «rapporto fiduciario venuto meno», e di più non è dato di sapere. Tra l'altro, stiamo parlando -sereve sottolinearlo- di professionisti stimatissimi.
In mezzo a questa narrazione ci scorre: lo stupore quasi infantile di Orfeo stesso, convinto in cuor suo, di aver toccato nervi delicatissimi nell’equilibrio dei poteri Rai (vedi caso Berlinguer) anche se, della Rai, Mario conosce i picchi d’estasi e gli anfratti più oscuri. Ma, in questa storia ci sta pure lo spiazzamento della politica che ha buon gioco nell’addossare all’ad Rai le colpe di una decisione radicale maturata senza preavviso; «a 24 ore dalla notizia della revoca dell’incarico al direttore Approfondimenti della Rai, ruolo delicato e strategico per il servizio pubblico radiotelevisivo a maggior ragione nel pieno di una campagna elettorale, non c’è ancora neanche un comunicato ufficiale della Rai», afferma il renziano Michele Anzaldi. A cui fanno eco, da destra Maurizio Lupi e Maurizio Gasparri, e Alberto Barachini presidente della Commissione Vigilanza Rai, tanto per riimanere in par condicio. Per non dire della sorpresa per la conseguente riconferma di Orfeo al Tg3, in fondo anelata dallo stesso ex direttore generale, ma abbastanza curiosa; perché, dopotutto, se tu sei un capo plenipotenziario messo lì da Draghi, e vuoi far fuori legittimamente un dirigente di cui dici di non fidarti, be’, non gli dai certo la direzione di un tiggì. Un tiggì importante. Evidentemente, le reazioni dell’azienda da un lato e quelle del Parlamento dall’altra hanno prodotto questo strano cortocircuito.
Il problema è che lunedì prossimo dovrebbe partire la nuova, rivoluzionaria Rai dei “Generi” in cui i palinsesti confezionati da Orfeo avevano, almeno sulla carta, una certa rilevanza nell’ambito del nuovo mosaico del servizio pubblico, assieme ai piani strategici di Stefano Coletta direzione “Intrattenimento Prime time”, di Silvia Calandrelli delegata al “Cultura ed Educational” e dello stesso Di Bella, per capirci.
Ora, qui noi potremmo riempire pagine e pagine di retroscena sul nuovo, ennesimo riassetto della nostra tv di Stato preferita. Ed è del tutto evidente che, qui, ora, si tratti di una partita e di una faida tutt’interna alla sinistra pro e contro Bianca Berlinguer il cui affaire si conclude, alla fine, con una riconferma in palinsesto della sua controversa Cartabianca (ma rimane il nostro stupore sull’immensa influenza di Bianca sulle cose Rai, sia detto con una certa ammirazione…). Ed è altrettanto evidente che i Dem non avrebbero mai lasciato, alle soglie delle elezioni, l’importante direzione di “Approfondimento” di Orfeo a seppur ottimi professionista targati centrodestra come Angelo Mellone, area FdI o Milo Infante area Lega. «Fuortes non ha più il controllo dell’azienda» commentano dalle parti dell’opposizione di Fratelli d’Italia. Ci permettiamo, alla luce dell’esperienza, una garbata forma di dissenso. Tutt’altro. Il controllo di Fuortes rientra nel consolidato schema di potere della Rai dei bei tempi...
Piscialettissimo. I ragazzini sono scemi, ma noi che ci adeguiamo ai loro tic siamo anche peggio. Guia Soncini su L'Inkiesta il 3 Giugno 2022.
La Rai ha deciso di allinearsi allo spirito del tempo mandando in onda programmi sullo scontro generazionale. Ma è una formula già usata da decenni. La generazione dei giovani “che salveranno il mondo” ma che non sanno nulla lo ignora, gli altri fanno finta di nulla.
Quando, venticinque anni fa, ho lavorato per la prima volta in Rai, la frase che sentivo più spesso dire era «I vecchi poi muoiono»: era la motivazione che i dirigenti si davano per il goffo inseguimento del pubblico giovane. Era una motivazione meno fessa di «questa generazione ci salverà» e altre puttanate che noialtri adulti diciamo dei ventenni d’oggi.
All’epoca noialtri ventenni eravamo figli della generazione che aveva inventato la ventennitudine: quelli che avevano avuto vent’anni negli anni Sessanta. Quindi forse eravamo vagamente complessati, vagamente consapevoli di non essere altrettanto rivoluzionari (noi che avevamo sì e no avuto la Pantera, noi che avevamo avuto i paninari), il che mitigava il delirio d’onnipotenza connaturato all’età.
Quelli d’oggi, figli di noialtri disgraziati, sono convinti d’essere i primi e gli ultimi ventenni della storia del mondo, e che ogni cosa che accade a loro sia specialissima, esclusiva, inedita, degna d’attenzione. E noi – i peggiori genitori della storia del mondo – non osiamo contraddirli.
Il risultato è che martedì, tra indiscrezioni e annunci ufficiali, è stata data notizia di ben tre programmi autunnali (tutti e tre della Rai, quindi alla fine saranno di più: vuoi che le altre reti lascino libero il campo?) il cui scopo è contrapporre giovani e adulti.
Solo che gli adulti non sono più adulti: sono boomer, uno dei tic lessicali più sciatti della storia del mondo. Boomer sarebbe chi è nato negli anni del boom (cioè: nel dopoguerra); solo che i ragazzini d’oggi – persino più analfabeti di quanto fossimo noi alla loro età – lo usano indistintamente per chiunque abbia il difetto d’essere più adulto di loro. E noi cosa facciamo? Ci adeguiamo.
E quindi uno dei programmi – condotto dalla mia coetanea Alessia Marcuzzi – s’intititolerebbe Boomerissima, una parola che mi fa venir voglia d’andare a darmi fuoco nell’ufficio di Fuortes. Pensate a un programma degli anni Ottanta in cui i giovani baccagliano con gli adulti, e pensatelo intitolato Matusissimo. Un brivido.
La cosa interessante è che, a furia di non contraddire questi ragazzini che siamo convinti salveranno il mondo (lo salveranno da noi, mormoriamo indossando il cilicio), siamo diventati scemi quanto loro. E quindi parliamo dello scontro televisivo tra generazioni come fosse una novità, un guizzo creativo, un’invenzione di ora. Siamo come loro quando credono che le canzoni degli anni Sessanta siano nuove perché qualcuno le ha campionate su TikTok.
Negli anni Novanta in tv non c’era praticamente altro: quasi più programmi sullo scontro generazionale di quanti ci toccherà scanalarne in autunno. Lo stesso Pierluigi Diaco (che condurrà uno di questi tre nuovi programmi) nasce televisivamente in un programma di metà anni Novanta in cui si confrontava coi grandi. Un programma generazionale fu la prima conduzione di Ambra dopo Non è la Rai. E poi c’era lei, l’unica autrice televisiva italiana degli ultimi decenni: Maria De Filippi.
Prima di tutti, lo scontro tra generazioni se l’era inventato lei, trent’anni fa, con Amici. Che non era la gara di balletti di adesso, era un programma del sabato pomeriggio in cui gli adolescenti andavano a raccontare i loro disagi.
Amici era un programma di gente poco più giovane di me, loro erano liceali e io avevo vent’anni, e lo ricordo impagabile nel farmi pensare che per fortuna non ero uno di quei piscialetto che vanno a lamentarsi della vita in uno studio televisivo.
Sono passati trent’anni e i piscialetto hanno tutti fatto più carriera di me, e forse dipende da quello lo sterminato spazio che abbiamo deciso di concedere ai ragazzini d’oggi: certo, ora sono solo dei cretinetti che ci chiamano boomer, ma metti che domani ce li ritroviamo autori televisivi, direttori di giornale, piccoli potenti che possono tornarci utili. Forse questo giovanilismo è una strategia simile a quella battuta di Spike Lee: ricòrdati di me da ricco, io mi ricordo di te da povero.
Ho saltato, nell’elenco giovani/vecchi delle trasmissioni che furono, un altro format degli anni Novanta. Era un programma in cui liceali impegnati politicamente andavano a discutere col ministro dell’Istruzione. Andava in onda su Videomusic, se l’era inventato Flavia Fratello (all’inizio di questo secolo, in Inghilterra, Mtv fece una cosa analoga; fece notizia perché i ragazzini discutevano con Tony Blair: facile fare la tv quando hai lo star system).
Tra le promettenti liceali che la Fratello aveva trovato in giro per scuole e aveva messo in uno studio televisivo intuendone le potenzialità, c’era una certa Giorgia Meloni. Per allora sarò morta di colesterolo e pressione alta, e purtroppo mi perderò la nemesi che arriverà tra una trentina d’anni.
Quando le mie coetanee smaniose di dire che i ragazzi di oggi sono i migliori della storia del mondo, sono migliori di noi, sono quelli che aggiusteranno tutte le nostre nefandezze, quando le mie coetanee di sinistra pronte a inchinarsi a ogni capriccio di gioventù si ritroveranno con una Giorgia Meloni allevata nella tv del senso di colpa, nella tv costruita dalla mia generazione per dar lustro alla loro. E si chiederanno chi sia il responsabile di questa deriva a loro così sgradita, e non si guarderanno allo specchio.
Rai, lo scandalo di tele-Pd pagata con soldi pubblici: dopo Orfeo... ecco chi arriva ai vertici. Francesco Specchia su Libero Quotidiano il 04 giugno 2022
Ce l'immaginiamo l'Antonio Di Bella che, sdraiato in una spiaggia in provincia di Pescara, paonazzo sotto il primo solleone, con l'amata chitarra in una mano, mentre sfoglia con l'altra l'ultima copia del New York Times; e sogna una futuribile nuotata agli Hamptons. Epperò, in quel momento di massimo relax, l'Antonio riceve una telefonata da un collega dell'AdnKronos. «Anto', qui so' cazzi...».
Il collega dell'agenzia stampa gli chiede lumi sul suo improvviso passaggio alla Direzione Approfondimenti Rai al posto di Mario Orfeo appena fatto fuori dal suo amministratore delegato Carlo Fuortes. Di Bella, sfodera un sorriso invincibile, esce dalla sua trance da romanzo di Noël Coward e gli risponde candidamente: «Io sono al mare, di questa cosa leggo sui giornali.
Aspetto comunicazioni formali dall'azienda che non ho mai avuto». E probabilmente è vero. Di Bella non sa nulla, sul caso, di più di quanto battano affannosamente le agenzie. In realtà, tutti gli attori - anche quelli chiusi nel buio della propria stanzetta in viale Mazzini- nella commedia del vorticoso giro di poltrone che sta per compiersi in Rai oggi, non hanno una chiara contezza del proprio destino.
Né Di Bella che dall'approfondimento del Day Time passerebbe al ruolo di Orfeo; né Orfeo a cui verrebbe assegnata, in un inopinato gioco dell'oca, la direzione del telegiornale della terza rete che ora è di Simona Sala; né la Sala la quale andrebbe ad occupare il posto di Di Bella da direttore del Day Time. Sarebbero queste le soluzioni maturate da Fuortes dopo la decisione - così tranchant- di eliminare Orfeo in virtù di un «rapporto fiduciario venuto meno», e di più non è dato di sapere.
NERVI DELICATISSIMI
In mezzo a questa narrazione ci scorre: lo stupore quasi infantile di Orfeo stesso, convinto in cuor suo, di aver toccato nervi delicatissimi nell'equilibrio dei poteri Rai (vedi caso Berlinguer) anche se, della Rai, Mario conosce i picchi d'estasi e gli anfratti più oscuri. Ma, in questa storia ci sta pure lo spiazzamento della politica che ha buon gioco nell'addossare all'ad Rai le colpe di una decisione radicale maturata senza preavviso; «a 24 ore dalla notizia della revoca dell'incarico al direttore Approfondimenti della Rai, ruolo delicato e strategico per il servizio pubblico radiotelevisivo a maggior ragione nel pieno di una campagna elettorale, non c'è ancora neanche un comunicato ufficiale della Rai», afferma il renziano Michele Anzaldi. A cui fanno eco, da destra Maurizio Lupi e Maurizio Gasparri, e Alberto Barachini presidente della Commissione Vigilanza Rai, tanto per rimanere in par condicio.
Per non dire della sorpresa per la conseguente riconferma di Orfeo al Tg3, in fondo anelata dallo stesso ex direttore generale, ma abbastanza curiosa; perché, dopotutto, se tu sei un capo plenipotenziario messo lì da Draghi, e vuoi far fuori legittimamente un dirigente di cui dici di non fidarti, be', non gli dai certo la direzione di un tiggì. Un tiggì importante. Evidentemente, le reazioni dell'azienda da un lato e quelle del Parlamento dall'altra hanno prodotto questo strano cortocircuito.
ARRIVANO I "GENERI"
Il problema è che lunedì prossimo dovrebbe partire la nuova, rivoluzionaria Rai dei "Generi" in cui i palinsesti confezionati da Orfeo avevano, almeno sulla carta, una certa rilevanza nell'ambito del nuovo mosaico del servizio pubblico, assieme ai piani strategici di Stefano Coletta direzione "Intrattenimento Prime time", di Silvia Calandrelli delegata al "Cultura ed Educational" e dello stesso Di Bella, per capirci. Ora, qui noi potremmo riempire pagine e pagine di retroscena sul nuovo, ennesimo riassetto della nostra tv di Stato preferita. Ed è del tutto evidente che, qui, ora, si tratti di una partita e di una faida tutt' interna alla sinistra pro e contro Bianca Berlinguer il cui affaire si conclude, alla fine, con una riconferma in palinsesto della sua controversa Cartabianca (ma rimane il nostro stupore sull'immensa influenza di Bianca sulle cose Rai, sia detto con una certa ammirazione...).
Ed è altrettanto evidente che i Dem non avrebbero mai lasciato, alle soglie delle elezioni, l'importante direzione di "Approfondimento" di Orfeo a seppur ottimi professionista targati centrodestra come Angelo Mellone, area FdI o Milo Infante area Lega. «Fuortes non ha più il controllo dell'azienda» commentano dalle parti dell'opposizione di Fratelli d'Italia. Ci permettiamo, alla luce dell'esperienza, una garbata forma di dissenso. Tutt' altro. Il controllo di Fuortes rientra nel consolidato schema di potere della Rai dei bei tempi...
Giovanna Predoni per tag43.it il 2 giugno 2022.
In Rai, dove già da prima non si respirava una bella aria, ora è guerra totale. La decisione (anticipata da Dagospia) dell’ad Carlo Fuortes di silurare il capo degli Approfondimenti Mario Orfeo, l’uomo più trasversale della Rai vantando nel suo ormai lungo cursus honorum la direzione di tutti e tre i tg di Viale Mazzini oltre che la direzione generale e la presidenza di Rai Way (praticamente non c’è poltrona in cui l’ex giornalista di Repubblica non abbia anche per poco occupato), ha scatenato un putiferio.
Perché è avvenuta alla viglia della presentazione dei palinsesti, che è sempre un momento delicato, perché è stata un blitz di cui il diretto interessato proprio non aveva sentore. Casus belli, il ritardo nella presentazione dei programmi e alcuni interventi che Orfeo volva apportare su Carta Bianca di Bianca Berlinguer e Report che avrebbero trovato l’opposizione del capoazienda.
In realtà non è andata così, o per lo meno questa è solo una parte della storia. A tagliare la testa di Orfeo c’è la classica congiura di palazzo. Primo cospiratore Giuseppe Pasciucco, capo staff di Fuortes, una lunga carriera nella tivù di Stato dove è entrato nel 1993 ricoprendo varie posizioni fino all’ultima, quella di braccio destro dell’amministratore delegato.
Secondo cospiratore Lucio Presta, ovvero il più potente manager dei teledivi, il quale non avrebbe gradito che nei palinsesti della prossima stagione ci fosse una preponderanza di programmi (si parla di nuovi talent) che fanno capo al suo rivale di sempre Beppe Caschetto. I due sono i Coppi e i Bartali dell’etere, o per venire ai nostri giorni i Nadal e i Federer, con la differenza però che non sono per nulla amici.
Pasciucco e Presta invece amici lo sono: si conoscono da una vita, tanto da condividere anche i week end nelle rispettive case in Sabina. I due, di comune intesa, hanno suggerito a Fuortes di estromettere Orfeo. A quel punto il Napoleone di viale Mazzini (così lo hanno soprannominato al suo arrivo) ha preso in mano il telefono e ha chiamato i suoi dante causa a Palazzo Chigi.
Il via libera di Palazzo Chigi per mano di Francesco Giavazzi
A rispondergli non Antonio Funiciello, il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, come qualcuno ha lasciato trapelare, ma Francesco Giavazzi. Il superconsulente economico di Mario Draghi, a Fuortes che gli manifestava le sue intenzioni, ha detto di procedere. A quel punto la vicenda è esplosa. La reazioni dei partiti, Pd in testa, è stata veemente e trasversale (proprio come il curriculum di Orfeo), perché a difendere il dirigente si sono levate anche le voci di Forza Italia e Italia Viva. E anche la Commissione di vigilanza Rai ci ha subito messo becco annunciando al richiesta di chiarimenti.
Ora si strologa sui perché della mossa di Fuortes, il cui rapporto con Orfeo era notoriamente poco idilliaco, ma non si pensava a un punto tale da farne rotolare la testa. Probabilmente il via libera di Giavazzi lo ha convinto di avere le spalle coperte. Difficile invece credere, come qualcuno ha evocato, che l’ad cercasse l’incidente proprio per togliersi da un contesto per lui ingovernabile e fonte di continui grattacapi. Doveva peraltro sapere che andare a dirigere la Rai, l’azienda più litigiosa del mondo, non era un pranzo di gala come poteva essere, soprattutto nell’ultimo periodo, la direzione dell’Opera di Roma. Conseguenze immediate?
Con molta probabilità l’attribuzione ad interim della carica ad Antonio Di Bella, attualmente direttore di Rai Day Time. E qualcuno si spinge oltre, pronosticando l’uscita di Fuortes e la sua sostituzione con l’attuale presidente Marinella Soldi che, sulla vicenda Orfeo, finora si è tenuta in disparte.
Gianrico Carofiglio per “la Gazzetta del Mezzogiorno” il 31 maggio 2022.
Se hai una qualche visibilità è inevitabile che ti facciano delle cattiverie, che dicano di te cose false e offensive. In questi casi torna utile un consiglio di Oscar Wilde: “perdona sempre i tuoi nemici, nulla li infastidisce così tanto”
Da striscialanotizia.mediaset.it il 31 maggio 2022.
A “Rai Scoglio 24”, la rubrica di Striscia la notizia dedicata agli sprechi della tv di Stato, Pinuccio continua a indagare sulle relazioni amorose in Rai ad alto rischio conflitto di interessi. Nella puntata del 13 maggio erano stati accesi i riflettori sul caso del giornalista freelance Gian Micalessin, ex fidanzato della direttrice del Tg1 Monica Maggioni.
E l’inviato del Tg satirico svela altri intrighi di cuore. A Radio Rai, dall’8 maggio Francesca Romana Ceci, moglie di Andrea Vianello, direttore di Rai Giornale Radio e Radio uno, è entrata nell’ufficio centrale di coordinamento dei programmi giornalistici e Gr.
Mentre nel programma Dilemmi (Raitre) di Gianrico Carofiglio (ex senatore del Partito Democratico e autore di best seller come Della gentilezza e del coraggio) lavora come autrice esterna Francesca Santolini, ex compagna di Andrea Romano, onorevole del PD e - soprattutto - componente della Vigilanza Rai. «Carofiglio l’avrà fatto per gentilezza?», commenta Pinuccio. E non è tutto. Anche l’attuale moglie di Romano, Sara Manfuso, è spesso ospite in trasmissioni Rai.
Dagospia l'1 giugno 2022. Riceviamo e pubblichiamo:
Caro Dago, hai ripostato prima e ieri riscritto una notizia falsa, peraltro già rettificata, calunniosa e talmente incredibile, che infatti non è vera. Non ho promosso ovviamente mia moglie, né ne ho cambiato mansioni, ruoli e retribuzione. Francesca Romana Ceci lavora al Giornale Radio Rai dal gennaio 1989, prima che io stesso entrassi in Rai, non ha avuto avanzamenti di carriera dal 1999, conduce e cura lo stesso programma da anni e continua a farlo con lo stesso modo con la mia direzione.
La notizia falsa che hai diffuso e contribuito a diffondere (“Vianello promuove la moglie) non solo offende la mia intelligenza e la mia integrità, ma offende soprattutto una giornalista onesta e professionale solo perché “moglie di”, usanza di altri tempi che sembravano superati, ma che tu evidentemente non riesci a superare, e la cosa, conoscendoti, davvero mi stupisce. Andrea Vianello
Dagospia l'1 giugno 2022. Premetto che ho sempre considerato la riservatezza un valore, di stile ma anche etico. Non ho mai pubblicizzato la mia vita privata, mai cercato qualsiasi tipo di visibilità che non fosse legata al mio lavoro di giornalista specializzata in temi ambientali. È dunque con profondo disagio e un filo di tristezza che mi vedo costretta a formulare i chiarimenti che seguono.
In un pezzo pubblicato su Dagospia (pezzo che riprendeva un servizio del programma televisivo Striscia la notizia) si ipotizza un collegamento improprio fra il mio lavoro e la mia passata relazione con il deputato Andrea Romano. Tale ipotesi è destituita di ogni fondamento, lesiva della mia dignità personale e professionale, lesiva della reputazione personale e politica di Romano.
La mia relazione con lui è cessata nel 2013, dunque da quasi dieci anni. Da allora i nostri rapporti si limitano a quanto necessario per la cura, la crescita e l’educazione della meravigliosa bambina nata dalla nostra unione, che amiamo sopra ogni cosa.
Ripeto conclusivamente che Andrea Romano non ha - e non ha mai avuto -nulla a che fare con le mie scelte professionali; non ha avuto alcuna ingerenza con la vicenda lavorativa in cui il suo nome è stato impropriamente citato. Francesca Santolini
Terremoto a viale Mazzini. Caos Rai, salta la testa di Mario Orfeo: Fuortes gli revoca l’incarico di direttore dell’approfondimento. Carmine Di Niro su Il Riformista l'1 Giugno 2022.
Appena sei mesi e poi la revoca. Tanto è durato l’incarico di direttore della divisione approfondimento della Rai di Mario Orfeo, già direttore generale a viale Mazzini e nel maggio 2020 nominato direttore del Tg3, prima dell’incarico di numero uno degli approfondimenti Rai dello scorso novembre.
La notizia, anticipata dal sito Dagospia, è stata confermata all’agenzia LaPresse da fonti vicine a viale Mazzini. A deciderlo è stato l’amministratore delegato della tv pubblica, Carlo Fuortes. Secondo Dagospia “la goccia di veleno che ha fatto traboccare il vaso tra i due: l’ultimo cda Rai è saltato perché l’ex direttore generale non ha scodellato il suo palinsesto”. In particolare tra i motivi della revoca di Orfeo potrebbe esserci il ‘caso Berlinguer‘, la conduttrice del programma di approfondimento di Rai3 ‘Cartabianca‘, il talk show da settimane nel mirino della critica per il largo spazio dedicato a ospiti considerati “filoputiniani”.
Una scelta che ha subito infiammato i corridoi di viale Mazzini. Il deputato di Italia Viva e segretario della commissione di Vigilanza Rai, Michele Anzaldi, ha subito chiesto spiegazioni all’AD Fuortes per la decisione: “Fuortes chiarisca ai cittadini che pagano il canone e al Parlamento se la notizia risponda al vero, quali siano le motivazioni dietro questa eventuale rimozione e come intenda intervenire a brevissimo su uno dei ruoli più delicati dell’azienda”.
“Parliamo dell’informazione, che rappresenta – prosegue Anzaldi – la missione più importante del servizio pubblico pagato da quasi 2 miliardi di euro dei cittadini: possibile che non ci sia nessuna trasparenza? Peraltro siamo in piena Par Condicio elettorale, a pochi giorni dal voto per il Referendum sulla giustizia e per le amministrative”, aggiunge il segretario della Vigilanza.
Dopo la diffusione della notizia è intervenuto anche il senatore Alberto Barachini, presidente della Commissione di Vigilanza Rai, che ha annunciato che prossimamente lo stesso Fuortes verrà ascoltato per capire le ragioni della revoca.
“La sostituzione della direzione di un settore di rilevanza strategica per l’informazione pubblica, peraltro in periodo di par condicio elettorale, non può avvenire senza che vengano rese note le motivazioni che hanno portato a tale determinazione nonché le azioni che l’azienda intende mettere in atto per procedere rapidamente alla copertura di questa posizione così delicata”, è la posizione di Barachini.
Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia
Giorgio Gandola per “La Verità” il 31 maggio 2022.
Risparmiare spendendo è l'ossimoro preferito sull'immaginifico pianeta della Rai. Dopo le polemiche per il contratto all'ex direttore de L'Espresso Marco Damilano (paracadute pubblico da settembre su Raitre, dieci minuti al giorno, mille euro a puntata per 200 puntate, totale 200.000 euro lordi) dirigenti e sindacato avevano raggiunto un tacito accordo: mai più esterni paracadutati dalla luna.
Con 1.700 giornalisti nelle otto redazioni e 60 milioni di rosso l'azienda culturale più importante e più indebitata d'Italia non dovrebbe potersi permettersi altre leggerezze.
L'accordo è durato un mese. Il tempo di metabolizzarlo e già si parla di un nuovo blitz, questa volta della direttrice del Tg1 Monica Maggioni, determinata ad arruolare un altro esterno pesante: sarebbe Roberto Fontolan con il ruolo di consulente del nuovo Unomattina, che il piano editoriale trasversale prevede come piattaforma Morning News dall'alba all'ora della pastasciutta. Il programma ha scricchiolato per due anni (con perdite di ascolti e di identità a favore di MattinoCinque), di conseguenza Monica Giandotti torna ad Agorà su Raitre, scelta dal neo direttore degli Approfondimenti Mario Orfeo, suo testimone di nozze.
Servono nuove idee e la direttorissima Maggioni ha messo nel mirino una vecchia conoscenza, il responsabile del Centro internazionale di Comunione e Liberazione, che secondo il sito Tag43 dovrebbe sbarcare con un contratto vicino ai 200.000 euro lordi.
I due hanno un'ottima sintonia professionale: nel 2014 hanno firmato insieme il docufilm La strada bella su don Luigi Giussani e il movimento.
Fontolan conosce bene anche le recondite armonie della Rai poiché nel 2000 fu vicedirettore del tg1 nei cento giorni di Gad Lerner; quest' ultimo si dimise dopo lo scandalo della pubblicazione dei siti pedofili.
Si tratterebbe di un ritorno 20 anni dopo, roba da cappa e spada, ma l'Usigrai questa volta è sul piede di guerra, svegliato dalle fibrillazioni continue della rete ammiraglia.
Dopo l'imbarazzante caso delle flatulenze finite in Procura, il Tg1 è di nuovo al centro dell'uragano: lady Maggioni ha infatti ufficializzato la partenza delle Morning News, affidando a cinque conduttori del Tg della sera anche (a turno) la rassegna stampa alle 6.30 del mattino.
La levataccia non è per niente gradita, volti conosciuti dal grande pubblico come Laura Chimenti ed Emma D'Aquino avrebbero già rifiutato, Francesco Giorgino (neo vicedirettore) ed Elisa Anzaldi non hanno ancora detto di no, mentre il più giovane Alessio Zucchini si è allineato.
Il responsabile del coordinamento per il turno dell'alba sarà il caporedattore centrale Mario Prignano, molto stimato all'interno, storico medievalista ed esperto di storia della Chiesa. La lunga estate calda della Rai sta per cominciare, le scosse hanno destato dal torpore anche l'ad Carlo Fuortes che ieri pomeriggio si aggirava di pessimo umore per il settimo piano dopo aver saputo delle manovre della zarina del Tg1.
La stella del «fantasma dell'opera» (soprannome che Fuortes porta con sé dai tempi dell'Opera di Roma) è in precipitoso calo e l'ad sta perdendo per strada anche il suo più ferreo sponsor, palazzo Chigi, nella persona del capo di gabinetto Antonio Funiciello.
Arrivato con toni da Napoleone (e con la solita barzelletta «Fuori i partiti dalla Rai»), ormai nei corridoi è definito «Waterloo». Doveva rilanciare e non ha rilanciato (i conti sono pessimi); doveva riequilibrare e non ha riequilibrato (dominano Pd e cespugli di sinistra); doveva risanare e non ha risanato.
Anzi, in questi mesi di trattative su tutto, Fuortes è riuscito nell'impresa di tagliare l'ultima edizione dei Tg regionali senza tagliare i costi. Messo alle strette dall'Usigrai, ha concesso l'indennità notturna anche senza telegiornale. Più 25 assunzioni, 25 promozioni e la terza edizione del Tg esclusivamente sul web (partirà a fine anno) per un bacino stimato di 10.000 nottambuli. Lo stesso sindacato, che in partenza si era schierato contro l'eliminazione dell'edizione notturna (al grido «Non si può interrompere l'informazione regionale alle 20») una volta accontentato sui privilegi si è dimenticato la battaglia di principio e si è messo comodo.
Un'azienda organizzata in questo modo non può piacere a Mario Draghi, quindi è possibile che l'ad abbia un orizzonte limitato alla prossima primavera quando le elezioni politiche terremoteranno una volta di più viale Mazzini.
Nel frattempo le anomalie continuano a far perdere soldi dei contribuenti, come i buchi nell'acquedotto pugliese. La Rai stipendia un Ufficio stampa con 15 giornalisti ma Fuortes ha nominato suo assistente per la Comunicazione l'ennesimo esterno, Maurizio Caprara, ex portavoce di Giorgio Napolitano e in aspettativa al Corriere della Sera.
A giugno va in pensione il direttore di Raitre, Franco Di Mare, ma continueremo a vederlo in video perché ha ottenuto un contratto di collaborazione per proseguire il programma Frontiere, pur con ascolti residuali (attorno al 3% di share). È benvoluto dal Movimento 5Stelle e nessuno lo tocca. La festa continua.
Marco Zini per tag43.it il 30 maggio 2022.
A Viale Mazzini le polemiche non dormono mai: si parli di talk show con tanto di presenze urticanti, di direttori che fanno da relatori a convention di partito, di flatulenze e altre gastrofagie che impediscono la pacifica convivenza in ufficio. O di nomine e ordini di servizio, che sono un po’ il piatto forte della televisione pubblica specie quando vanno a toccare la posizione (spesso rendita di posizione) degli oltre 1700 giornalisti iscritti sul libro paga della Rai.
Redazione in subbuglio per spostamenti e nuovi incarichi
Quando poi si parla della rete ammiraglia, e del suo telegiornale, il Tg1, lo scontento diventa manifestazione fisiologica del suo corpo redazionale. Con tanto di sindacato interno pronto a imbracciare il fucile.
Succede così che Monica Maggioni, direttrice del Tg1, comunichi al cdr della sua testata (Roberto Chinzari, Leonardo Metalli e Virginia Lozito) spostamenti di ruoli e cambi di conduzione in vista della stagione autunnale, quella che vedrà partire anche i nuovi palinsesti, che entreranno in vigore dal prossimo 6 giugno.
Maggioni non si è risparmiata dando il via a un gran ballo di conduttori e a una vorticosa turnazione dei suoi giornalisti che sicuramente è destinata a far storcere la bocca a più di qualcuno.
Un po’ per cercare di risolvere il caso delle flatulenze in redazione su cui sta indagando la Procura della Repubblica (i protagonisti del gassoso giallo sono stati prontamente separati e destinati ad altre redazioni), un po’ per accontentare le richieste del cdr, la direttrice che in passato è stata anche presidente della Rai, ha comunicato all’interno le sue volontà.
Ai conduttori del Tg delle 20 anche la rassegna stampa del mattino
Prese non molto bene, a occhio, perché malignamente Maggioni ha deciso con un ordine di servizio che i conduttori del Tg1 delle 20, ovvero l’edizione principale del Tg della rete ammiraglia, dovranno a turno occuparsi anche della rassegna stampa alle 6.30 del mattino. Per molti, una inattesa levataccia, che fa a pugni con la comoda e gratificante conduzione serale.
Così che Emma D’Aquino e Laura Chimenti, volti storici conosciuti dal grande pubblico, hanno già detto di no. Cosa che pensa di fare anche un altro dei mezzibusti più noti, Francesco Giorgino, “offeso” dalla proposta ma frenato sulla strada del gran rifiuto dalla qualifica appena conquistata di vice direttore.
Nessun problema invece per l’altro conduttore delle 20, Alessio Zucchini, che è anche il più giovane del gruppo, che si è subito allineato senza battere ciglio al nuovo organigramma.
Sarà Mario Prignano, stimato caporedattore centrale del Tg1 nonché storico medievalista ed esperto di storia della Chiesa, il responsabile del coordinamento anche per il turno dell’alba. Il rapporto con la struttura di Day Time che collabora alla realizzazione della trasmissione, sarà coordinato dal vicedirettore Sabina Sacchi.
Maggioni vuole Fontolan come consulente per Unomattina
L’altro tema che sta facendo discutere nei corridoi delle redazioni riguarda quello che succederà nella nuova edizione di Unomattina, di cui si sa solo che a condurla non sarà più Monica Giandotti, che torna alle origini.
La giornalista dovrebbe infatti conduzione di Agorà, il talk show di informazione del mattino su Rai3. Giandotti verrà sostituita dal 4 giugno per un anno dalla coppia emergente formata da Giorgia Cardinaletti e Senio Bonini, con quest’ultimo che ancora una volta su Rai3 ha battuto con il suo Agorà extra il segmento principale del programma guidato da Luisella Costamagna. Poco si sa invece per la squadra degli autori.
A parte che Maggioni, e la cosa ha scatenato il malcontento a mille, è determinata ad arruolare Roberto Fontolan (responsabile del Centro internazionale di Comunione e liberazione) in qualità di consulente della trasmissione che parte dopo l’estate. Si parla per lui di un compenso di quasi 200 mila euro.
Per i maligni un debito di riconoscenza della direttrice verso il giornalista che nell’ormai lontano agosto del 2015 le aprì le porte del Meeting di Rimini, l’annuale festival di Cl, quando era stata da poco nominata presidente della Rai.
La conduttrice del Tg1: “Per punirmi mi hanno messo in stanza con un collega che soffre di flatulenza”. Indagati per stalking i vicedirettori Rai. Giuseppe Scarpa su La Repubblica il 13 Maggio 2022.
Dopo la denuncia di Dania Mondini, la procura procede contro cinque giornalisti dirigenti. Tra questi il vicedirettore del Tg1 Filippo Gaudenzi e Andrea Montanari, oggi direttore di Radio Rai 3.
Per punirla l’hanno messa in stanza con un collega che ha problemi di flatulenza ed eruttazioni. Questo è ciò che ritiene la conduttrice del Tg1 Dania Mondini. La giornalista ha denunciato i suoi superiori e il caso è finito in procura, a Roma. Il pm ha aperto un fascicolo per stalking mettendo nel mirino i cinque “giornalisti – dirigenti” indicati dalla Mondini.
Dania Mondini e la denuncia ai 5 dirigenti Rai: i nuovi documenti che ampliano l’inchiesta. Giulio De Santis e Ilaria Sacchettoni su Il Corriere della Sera il 14 maggio 2022.
Per i legali della giornalista ci sono altre «vessazioni» a carico del collega che soffre di flatulenza. Per la Procura generale che ora indaga, «lacunoso» il lavoro dei pm di Roma.
Difficile che tutto svanisca aprendo una finestra, come qualche frettoloso commentatore auspica: la denuncia di mobbing aziendale attraverso la forzata esposizione al meteorismo di un collega, presentata dalla giornalista Dania Mondini, rischia di ampliarsi. Il criminologo e i difensori della presunta vittima presenteranno, nei prossimi giorni, un’integrazione alla denuncia nella quale sostengono (in estrema sintesi) che in Rai non esistono veri meccanismi di tutela nei confronti dei propri dipendenti, in balia di umori e arbitri dei vertici.
Anche quando, come in questo caso, si è trattato di condividere la stanza con un collega con un disturbo di flatulenza. Come pure che altri manager, oltre ai cinque già sottoposti a indagine, fossero a conoscenza di un problema mai davvero affrontato.
A fronte della richiesta di archiviazione per Filippo Gaudenzi, Marco Betello, Piero Damosso, Andrea Montanari e Costanza Crescimbeni, iscritti sul registro degli indagati per atti persecutori, l’accusa rilancia: il collega che con la sua flatulenza avrebbe afflitto Mondini ha un profilo professionale controverso e tutt’altro che derubricabile a semplice «asociale» della redazione. Rammentano infatti il criminologo Claudio Lo Iodice che assieme agli avvocati Ruggero Panzeri e Francesco Falvo D’Urso assistono la giornalista afflitta dalle meste problematiche dell’uomo come lo stesso dialogasse di promozioni con l’avvocato Paolo Romeo imputato al processo «Gotha» di Reggio Calabria.
Il collega di scrivania della giornalista, secondo il sito «Il Dispaccio» ora valorizzato dai difensori di Mondini, si sarebbe confrontato con Romeo su come procurarsi una raccomandazione in Rai lamentando la propria emarginazione dalla schiera di quanti stanno facendo carriera nelle testate d’infomazione Rai. Tutto da verificare. Tutto da approfondire ovviamente. Ma Mondini, socia dell’associazione antimafia Caponnetto, si chiede se ciò non configuri un’ulteriore vessazione. Intanto restano le motivazioni con le quali la procura generale ha deciso di avocare a sé l’inchiesta affrontata dalla Procura di Roma. Sintetizzando i magistrati avrebbero ritenuto lacunoso l’approfondimento dei pm romani. E «viziate» le testimonianze raccolte in una prima fase.
Almeno quattro dei testimoni ascoltati avrebbero smentito l’assunto della presunta vittima, la giornalista Mondini e minimizzato i fatti esposti. Eppure un quinto giornalista, ascoltato a suo tempo, avrebbe, al contrario, offerto conferme alla narrazione ricostruita nella denuncia. Ora, secondo la Procura generale i quattro potrebbero aver dato prova di una scarsa autonomia. «La situazione di sudditanza psicologica — scrive la procura generale — che in teoria potrebbe essere stata nutrita dai testi ad opera della dirigenza dell’azienda, di cui fa cenno la querelante, non è stata presa in alcuna considerazione».
Dal “Corriere della Sera” il 17 maggio 2022.
Il presidente della commissione antimafia Nicola Morra chiede alla Rai e alla commissione di vigilanza di intervenire in via precauzionale sulla vicenda di Dania Mondini.
Un'inchiesta per mobbing e stalking nei confronti della conduttrice del Tg1 che è stata recentemente avocata dalla Procura generale. La giornalista sarebbe stata oggetto di molestie (sotto forma di flatulenze soprattutto) da parte di un collega di stanza.
L'uomo era stato anche intercettato al telefono con un imputato dell'inchiesta «Gotha» della dda reggina, l'avvocato Paolo Romeo. Ed è questo il motivo che ha portato Morra a formulare una richiesta di sospensione nei suoi confronti: «Quella subita dalla conduttrice - dice Morra - non è solo una molestia nauseabonda. Responsabile di questi abusi e di queste bassezze c'è un uomo che aveva rapporti con esponenti di assoluto rilievo della 'ndrangheta reggina. L'uomo è ancora in Rai. È giusto che conservi il suo posto? Dovrebbe intanto essere sospeso fino alla fine della vicenda, a meno che non si voglia la 'ndrangheta nella tv pubblica». La Rai, finora, ha scelto il silenzio.
Dagospia il 22 maggio 2022. Riceviamo e pubblichiamo: Caro Dago, più di qualcuno nei “palazzi” ha bisogno di riposarsi, forse anche di un dottore di quelli bravi e pazienti. Ancora non si spegne l’eco del “fare” del COPASIR, Comitato Parlamentare di Controllo sui Servizi di Sicurezza, che si occupa degli “ospiti” nei talk più o meno informativi: se siano o meno prezzolati da Mosca (se poi si scopre che intervengono a titolo gratuito e nessuno li foraggia in rubli?) Per scoprire se sono o no agenti di Putin, intanto andranno in trasferta a Washington. Ora la storia della conduttrice del “Tg1” “punita” (non si è ancora capito per quale motivo) anni fa a “convivere” in una stanza con un collega “colpevole” di emissioni anali sgradevoli; parrebbe che il petomane sia stato “intercettato” mentre chiedeva una raccomandazione a un ex parlamentare colpevole di concorso esterno mafioso. Poteva perdere la ghiotta occasione il presidente della commissione parlamentare antimafia, l’indimenticabile Nicola Morra? Certo che no; e prontamente chiede la sospensione del pestifero giornalista, per adesso è sospetto di inquinamento, si vedrà se mafioso o meno. In RAI ci sono circa tremila giornalisti in servizio, e non parliamo di quelli che collaborano a vario titolo. Un’inchiesta per conoscere se, e da chi sono stati raccomandati, ci sta tutta. C’era una volta una Commissione antimafia: da Girolamo Li Causi, a Gerardo Chiaromonte, Pio La Torre, Cesare Terranova… ora Morra; e non è un gioco. Hai voglia di coltivare l’ottimismo della volontà. Incombe il pessimismo della ragione, dice che davvero tutto finisce. Valter Vecellio
La giornalista Dania Mondini: «Dal collega flatulenze e offese. Contro di me il mobbing della Rai». Giulio De Santis e Ilaria Sacchettoni su Il Corriere della Sera il 15 maggio 2022.
E annuncia di voler depositare nuovi documenti contro i vertici dell’azienda. C’è scarsa tutela della riservatezza e del benessere dei dipendenti a suo dire. Le accuse al petomane di contatti con esponenti della ‘Ndrangheta.
La giornalista Dania Mondini, con i suoi avvocati, è pronta a depositare nuovi documenti che puntano ai vertici della Rai. La conduttrice del Tg1 sostiene di essere vittima, dal 2018, di una serie di comportamenti del collega che lavora nella sua stessa stanza, affetto da flatulenza, poco attento all’igiene personale, ma anche sconveniente sotto il profilo verbale. Condotte messe in fila nelle denunce di Mondini, che costituiscono la base di un’inchiesta delicata su presunti reati riconducibili a un’attività di mobbing: a partire dagli atti persecutori. E ora la giornalista è pronta a suffragare quelle accuse con nuove testimonianze raccolte in azienda.
In un quadro complesso, perché la Procura generale ha deciso di avocare il fascicolo d’indagine, ritenendo «lacunosa» l’inchiesta della Procura romana. Cavalcando la novità, ossia proprio l’avocazione, legali e consulenti di Mondini (il criminologo Claudio Lo Iodice più i penalisti Ruggero Panzeri e Francesco Falvo D’Urso) depositeranno il risultato di una lunga indagine difensiva che testimonia come tutti, nell’ambiente della redazione, sarebbero stati a conoscenza della situazione invivibile, e nessuno avrebbe mosso un dito per risolverla. Una serie di dirigenti (o altri giornalisti di livello, al momento coperti da segreto) avrebbe testimoniato contro l’azienda, descrivendo come perlomeno traballanti i meccanismi interni di tutela dei giornalisti sotto il profilo della riservatezza e del benessere.
Mondini aggiunge un altro passaggio alla propria narrazione, accusando il collega petomane di contatti con presunti esponenti della ‘ndrangheta. Alla presenza della giornalista, che milita nell’associazione antimafia «Caponnetto», il collega in questione si sarebbe rivolto a Paolo Romeo, avvocato imputato per «Gotha», l’inchiesta reggina su ‘ndrangheta e massoneria chiedendogli di procurargli uno sponsor in Rai che mettesse fine alla sua pretesa emarginazione da incarichi e nomine. Anche questo, il filo diretto con un imputato di mafia, configurerebbe una persecuzione in grado di ingenerare nella conduttrice una fibrillazione.
Mondini denuncia un malessere concreto, al punto da essere più volte ricoverata al pronto soccorso (con tanto di referti) per uno stato d’animo a dir poco prostrato: la Procura di Roma minimizza, proponendo l’archiviazione per i dirigenti anchormen Filippo Gaudenzi, Andrea Montanari, Marco Betello, Piero Damosso e Costanza Crescimbeni, inizialmente indagati. Ma se è vero che non vi sarebbero state lesioni sia pure lievi nei confronti di Mondini, è vero anche che, come sottolinea la Procura generale, gli atti persecutori possono configurarsi anche in assenza di lesioni vere e proprie.
Spunta poi, tra le pieghe della avocazione, il tema del silenzio, la riluttanza da parte delle persone ascoltate a denunciare comportamenti illeciti. Quattro dei cinque dirigenti ascoltati dalla Procura di Roma hanno smentito Mondini? Ebbene per la Procura generale potrebbe essere stata una questione di «sudditanza psicologica nutrita dai testi ad opera della dirigenza dell’azienda». Anche qui si nasconderebbe da parte dei magistrati della Procura di Roma una sottovalutazione di questo tipo di dinamiche. Un invito a evitare minimizzazioni viene anche dal consigliere di amministrazione Riccardo Laganà: «Non si ridicolizzi il percorso doloroso di Mondini» dice.
Giuseppe Scarpa per “la Repubblica” il 18 maggio 2022.
«Abbiamo abbandonato la stanza occupata dal collega per il cattivo odore e ci siamo sistemati in quella riservata ai dirigenti della redazione». Ecco la protesta dei colleghi contro il giornalista del Tg1 accusato di emettere flatulenze in redazione. La contestazione ha coinvolto non solo Dania Mondini, ma anche i cronisti Giuseppe Malara e Marco Valerio Lo Prete. Questo è ciò che racconta la stessa cronista in un passaggio della denuncia depositata in tribunale a Roma il 23 novembre 2018. Il mezzobusto del principale tiggì della Rai, si affida al criminologo Claudio Loidice per ripercorre la persecuzione che ritiene di aver subito dai suoi diretti superiori, Filippo Gaudenzi, Andrea Montanari, Piero Damosso, Costanza Crescimbeni e Marco Betello.
Mondini sostiene di essere stata demansionata e quindi costretta a condividere una stanza con un redattore che aveva problemi di igiene personale, molestava le donne e avrebbe avuto rapporti con un dranghetista, il boss Paolo Romeo. Dopo che la procura ordinaria aveva chiesto l'archiviazione, la procura generale ha avocato a sé il caso: ora si indaga per stalking.
La novità, a leggere la denuncia, è che Mondini non è stata la sola a lamentarsi. Un altro giornalista ha bussato alla porta dei vertici Rai per il caso dei cattivi odori.
Questo è ciò che riferisce la mezzobusto: «Lo Prete ha manifestato il suo disappunto al vice direttore Francesco Primotzich che gli ha suggerito di dire al redattore di lavarsi».
È l'11 giugno del 2018, la questione è ormai un problema all'interno del Tg1, tant' è che viene indetta una riunione di redazione. Partecipano 15 giornalisti, tranne quello accusato di flatulenze. Questo, secondo Mondini, il risultato dell'incontro: «La direzione pretende che i redattori ordinari restino in stanza con quella persona che non si lava ed emette maleodoranti rumori corporei, dimenticando anche gli episodi di alcuni anni addietro quando lo stesso aveva costruito un dossier di cento pagine sulle abitudini dei colleghi».
Ma non è tutto. Mondini riferisce che Betello avrebbe detto: «Chi non sta nella stanza con il collega non lavora più». Sempre secondo la mezzobusto, quattro giorni prima Gaudenzi avrebbe affermato che i «redattori che non stanno nella stanza con lui, come ha deciso il direttore, devono essere presi a calci in culo».
I giorni passano e la situazione non migliora, anzi. Mondini sostiene di subire pressioni indebite. Poi il fattaccio. È il 4 luglio, «un'assistente di programma si avvicina al giornalista e quest' ultimo si lascia andare a rumorose, ripetute e maleodoranti emissioni corporee». L'episodio, spiega Mondini, viene raccontato dagli stessi assistenti di programma ai vertici. Dirigenti che, secondo il resoconto, avevano tranquillizzato la redazione dicendo che il cronista avrebbe fatto più attenzione alle flatulenze e all'igiene personale.
«Adesso dicono che si lava e non fa più nulla!», il commento amaro di una dipendente vittima del cronista. «Damosso, Crescimbeni e Betello che hanno ben sentito le proteste hanno fatto finta di nulla e non hanno risposto », spiega sempre la mezzobusto. Adesso anche la Commissione Parlamentare Antimafia, con il presidente Nicola Morra, ha chiesto di sospendere in via precauzionale il cronista.
Giorgio Gandola per "La Verità" il 14 maggio 2022.
«Aprano le finestre e cambino l'aria». Al settimo piano di Rai-Totò sdrammatizzano ma il piano inclinato sul quale si è avviata l'azienda culturale più importante d'Italia sta diventando ripido. Dopo i videogiochi al posto dei bombardamenti, i freelance a Kiev perché il Tg1 di sua maestà Monica Maggioni non aveva l'inviato, le passerelle giornalistiche alle convention di partito e alle feste dell'Unità, le pesanti ingerenze del Pd sui programmi di approfondimento (vedi Cartabianca), il decalogo del bravo conduttore, i mariti direttori che promuovono le mogli (vedi caso Andrea Vianello), il servizio pubblico in salsa draghiana si interseca con il vaudeville: una conduttrice del Tg1 ha denunciato i suoi superiori per stalking. Con una motivazione che neanche Woody Allen prima del Me too: «Volevano mettermi in un ufficio con un collega petomane».
La vicenda con sfumature farsesche risale al 2018 ma anche grazie alle vie della magistratura (che come si sa sono più infinite di quelle di nostro Signore) arriva ora sulla scrivania dell'ad Carlo Fuortes già ingombra di poco invidiabili dossier. La denuncia è partita da Dania Mondini, mezzobusto del telegiornale della rete di punta, che ha messo nel mirino cinque vicedirettori di allora (Filippo Gaudenzi, Marco Betello, Piero Felice Damosso, Costanza Crescimbeni e Andrea Montanari, oggi direttore di Radio 3) in seguito a diatribe professionali sul suo lavoro in redazione.
Secondo l'accusatrice, i suoi capi avrebbero deciso di demansionarla imponendole di cambiare ufficio e di condividerlo con un collega che non riesce a trattenere «flatulenze e rutti».
Il problema gastrointestinale del compagno di stanza diventa vessatorio e dirimente, Mondini si rifiuta di traslocare con un «no motivato all'ordine di servizio» e contemporaneamente apre il contenzioso legale. A quel punto, sempre secondo la denuncia della giornalista, la reazione è molto rigida: le vengono affidati servizi di routine e lei viene presa di mira con contestazioni pretestuose per «piccoli errori nella conduzione del telegiornale» come riporta La Repubblica. Da qui l'ipotesi di stalking. In conseguenza di ciò, Mondini subisce uno stress da demansionamento che certifica con referti medici.
La procura di Roma convoca sei giornalisti indicati come testimoni: cinque smentiscono la persecuzione ma la sesta collega conferma la versione dell'accusa.
Al termine di una valutazione nel merito, la Procura decide di chiedere l'archiviazione: secondo i magistrati non starebbe in piedi l'imputazione per stalking, tutt' al più si potrebbero intravedere i contorni del mobbing. In ogni caso il dossier dovrebbe essere trasferito al tribunale civile. Ma ecco il colpo di scena: la Procura generale riapre l'inchiesta e continua ad approfondire sull'ipotetico reato di stalking. La tortura del peto ci delizierà con nuove, mirabolanti puntate, soprattutto se verrà chiamato a dire la sua in aula il torturatore involontario.
Secondo il legale della querelante, Ruggero Panzeri, «la mia assistita ha avuto il coraggio di ribellarsi a una situazione che tocca soprattutto le donne. Una vicenda che viene fatta passare per un caso goffo, ma che nasconde molto di più». E si inoltra nel ginepraio delle promozioni redazionali, esclusiva facoltà dei direttori. «Resasi conto che le venivano negate promozioni ad altri concesse sebbene a fronte di minori anni di servizio, ha chiesto alla Rai l'accesso agli atti per comprendere i metodi di valutazione. Atti negati, così abbiamo fatto ricorso al Tar e l'abbiamo vinto. Nelle denunce penali ci sono nuovi elementi probatori».
La storia sta creando non pochi imbarazzi al piano nobile della Rai. Sarà un lungo weekend per l'ad Fuortes, preso in mezzo fra l'audizione dal Copasir, le pressioni della Vigilanza e questo caso dalla profonda valenza sensoriale. «Ma lui è bravissimo a scomparire», spiegano a viale Mazzini, fedele al soprannome inflittogli dopo qualche settimana: «il fantasma dell'opera». Dania Mondini è una giornalista di lungo corso, con un'esperienza a più livelli in televisione nella carta stampata.
Classe 1963, romana, si è laureata in teologia alla Pontificia Università Urbaniana. Nel 1995 è stata assunta al Tg regionale del Lazio e dentro mamma Rai ha fatto una carriera di prim' ordine, lavorando da inviata e curando rubriche tematiche per Rainews24 e Raiuno. Poi ecco l'occasione della vita, condurre un telegiornale. Tre anni fa Mondini ha avuto un certo successo come saggista con il libro L'affare Modigliani.
Trame, crimini, misteri all'ombra del pittore italiano più amato e pagato di sempre. Un reportage per smascherare il business di mercanti senza scrupoli (circa 11 miliardi), con interconnessioni fra mondo dorato dell'arte, criminalità organizzata e riciclatori internazionali. Un secolo di segreti, ancora oggi solo un'opera su quattro di Amedeo Modigliani è originale. Qualcosa di aulico e tosto prima dell'inchiesta del peto che riporta tutti al piano terra, in fondo a destra.
Stefano Bartezzaghi per “la Repubblica” il 14 maggio 2022.
Quando a Ugo Fantozzi viene assegnato come compagno di stanza Alvaro Vitali il caso è chiaramente estremo. È peraltro proprio ciò che sarebbe capitato a Roma, alla Rai di Saxa Rubra.
Condizionale dovuto per garantismo: la procura ha aperto un fascicolo e indaga, si immagina tra molti imbarazzi e chissà con che metodi. Una giornalista, Dania Mondini, accusa infatti i suoi capi di averla demansionata e quindi spostata a lavorare nello stesso ufficio di un collega affetto da aerofagia. Costui non sarebbe in grado di trattenere neppure le emissioni aeree orali e si immagina allora che quella (presunta!) stanza tanto inospitale potrebbe essere intitolata, anche in ricordo di un glorioso claim aziendale: "Rai. Di rutto, di più".
Altro che smart working. La giustizia farà il suo corso ma è certo che a qualche mese dal ritorno a ranghi pieni nei luoghi fisici di lavoro, dopo aver assaporato piaceri e fastidi della convivenza domestica, molti hanno ripreso confidenza con quelli della prossimità professionale. Abitudini igieniche, tecniche più o meno sorvegliate del corpo, usanze disinvolte... La casistica è nutrita.
La legge Sirchia ha azzerato per tempo le dispute tra fumatori e non, almeno quello: un passo verso la civiltà. Ma nessun Sirchia ha sinora pensato ai molti altri modi, pur meno tossici, di rendere ancor più difficilmente tollerabile la permanenza già di per sé spiacevole sul luogo di lavoro.
A parte forse il gusto, ognuno degli altri quattro sensi ne può essere colpito. Chi dai colleghi consegue problemi all'olfatto ha qualche ragione a pensare che si tratti della fattispecie più molesta: è il senso più primitivo, più pervasivo, più indifeso. Gli affronti all'udito però arrivano quasi a pareggiare i mali odori, anche perché offrono un ancor più ampio ventaglio di possibilità: telefonate magari in viva voce, zufolate, canticchiamenti, battiti ritmici di dita o di penna biro, intercalari ossessivi, dialettalità incontrollate, masticazioni. Consumare cibo sulla propria scrivania reca noie multisensoriali, può offendere contemporaneamente olfatto, udito e anche vista. In quanto al tatto occorre qui prescindere da pacche e palpeggiamenti sessisti, i quali non sono semplicemente fastidiosi ma molesti in senso grave. Tutto un altro discorso. Veniali ma pure assai disturbanti (e, per fortuna, assai più frequenti) sono i tocchetti sul braccio, sulla spalla, i pelucchi tolti, anche qui senza arrivare agli strizzamenti di guancia inflitti a Fantozzi dall'efferato Calboni.
Abbigliamento inappropriato, ostensione di oggetti di dubbio gusto (gagliardetti di squadra nemica o cimeli mussoliniani) colpiscono il senso della vista, che pur essendo quello ritenuto principale ha almeno il vantaggio di poter essere distolto. Occhio non vede, cuore non duole. La vista è casomai il senso che interviene per ultimo, quando la sommatoria di tutte le noie acustiche, tattili e olfattive patite supera il livello di guardia e porta a varcare una soglia senza ritorno e a esclamare: «Quello non lo posso più vedere». La sentenza è inappellabile, giacché da quel momento del tal soggetto darà fastidio persino il semplice nome, la sagoma, la sconsolata certezza che sia sempre al mondo.
Molestia che timbra il cartellino tutti i giorni, importunità scevra da assenteismo.
Anni fa proprio alla Rai, ma a Milano, si tramandava una leggenda, inverificata, a proposito di un dipendente di rispettabile anzianità aziendale che nel dopomensa esigeva dai colleghi più pivelli un po' di privacy per poter schiacciare un breve ma necessario pisolino in una branda che da tempo immemorabile si era fatto installare a quello scopo nella stanza condivisa. Una pretesa quasi innocente rispetto alla recente notizia delle accuse mosse dalla giornalista.
Se saranno confermate bisognerà, una volta di più, dire che la Rai in certi settori è pura avanguardia. Sì perché a un'allocazione casualmente sfortunata si aggiungerebbe il dolo. E si scoprirebbe così che un ufficio del personale dispone, più o meno formalmente, di una classifica dei dipendenti in ordine di loro potenziale molesto, al fine di assegnarli come vicini di scrivania a chi si vuole fare oggetto di mobbing.
Nell'attuale crisi di disaffezione al lavoro, tanti dipendenti sentono il desiderio di cambiare aria. Alla Rai può non trattarsi di una metafora
Tg1, Dania Mondini fa causa alla Rai: "Chiusa in una stanza col petomane. Rutti e flatulenze, cosa ho dovuto subire". Libero Quotidiano il 13 maggio 2022
Punita dai dirigenti e messa in una stanza con un collega che ha problemi di flatulenza: questa l'accusa che la giornalista del Tg1 Dania Mondini ha rivolto ai suoi superiori. Il caso è addirittura finito in Procura a Roma, come riporta Repubblica. Dopo la denuncia della diretta interessata, infatti, il pm ha aperto un fascicolo per stalking. Sotto la lente delle indagini ci sono i cinque “giornalisti-dirigenti” indicati dalla Mondini. All'epoca - la vicenda risale al 2018 - ricoprivano posizioni di vertice nel Tg di Rai 1.
La Mondini, in particolare, avrebbe raccontato che dopo diversi scontri con alcuni dei colleghi che dirigevano il telegiornale, lei sarebbe stata punita e ridimensionata. In che modo? L'avrebbero messa in una stanza con un collega che, a detta sua, non riuscirebbe a trattenere i peti e nemmeno i rutti. Una situazione piuttosto sgradevole alla quale la giornalista si sarebbe opposta fin da subito con un rifiuto "motivato all’ordine di servizio". Dunque avrebbe deciso semplicemente di non andarsi a sistemare nell'ufficio che le era stato destinato.
La sua reazione però non sarebbe piaciuta ai colleghi-dirigenti che quindi, a quel punto, le avrebbero assegnato solo servizi brevi e banali. E non è tutto. Stando alla versione della Mondini, i colleghi le avrebbero rivolto pure delle violente aggressioni verbali, talvolta motivati da alcuni errori commessi durante la conduzione del tg. Tra i sei giornalisti del Tg1 ascoltati in Procura, cinque hanno negato tutto, mentre una collega ha confermato la versione della Mondini. Alla fine il pm ha deciso di chiedere l’archiviazione. Anche se poi il caso è stato letteralmente ribaltato dalla procura generale, che è intervenuta mettendosi di traverso: il pg ha deciso di avocare a sé l’inchiesta, continuando a indagare per stalking.
Dania Mondini, i peti? "No, ecco cosa puzza al Tg1". La denuncia, ombre sui magistrati: un grave sospetto. Giovanni Sallusti su Libero Quotidiano il 15 maggio 2022.
Tira un'aria pessima nella giustizia italica, ed è sia la battuta che la notizia. La battuta è fin troppo facile, la notizia è fin troppo surrealista per essere riepilogata con senso logico e compostezza, ma ci proviamo. La Procura generale di Roma indaga per stalking cinque giornalisti: Filippo Gaudenzi (vicedirettore del Tg1), Marco Betello, Piero Felice Damosso, Andrea Montanari (direttore di Radio Rai 3) e Costanza Crescimbeni, all'epoca dei fatti contestati tutti al telegiornale della rete ammiraglia Rai in posizioni di vertice.
I fatti contestati sono i seguenti: costoro avrebbero costretto la denunciante, la conduttrice del tiggì Dania Mondini, a dividere l'ufficio con un collega particolare. Scelto con perfidia ad hoc per una caratteristica extra-professionale: la difficoltà a trattenere fisiologiche emissioni d'aria. Soffrirebbe sia di problemi di flatulenza che di eruttazione, il redattore con cui la banda dei cinque voleva serrare la malcapitata (usiamo il condizionale perché anche lui, poveraccio, ha diritto alla presunzione d'innocenza). Tanto che ella non si è piegata alla vessazione, non ha trasferito la sua scrivania a fianco del collega olfattivamente molesto, scatenando la rappresaglia dei superiori: commissioni di servizi brevi e banali e scenate al primo errore nella conduzione del telegiornale.
La Mondini produce referti medici che comprovano lo stress patito a causa dei demansionamenti, il pm indaga e decide di archiviare, con la precisazione semantica che al massimo saremmo di fronte a un caso di mobbing e non di stalking (il peto incontrollato costituirebbe insomma una pressione indebita più che una vera e propria persecuzione), ma il procuratore generale ribalta tutto e avoca a sé l'inchiesta. Bisogna andare fino in fondo: siamo in presenza di flatulenza sistematica e rutto libero, il che giustificherebbe le accuse andando a comporre un quadro di oggettiva premeditazione e volontà di nuocere, o quelli del vicino di postazione sono derubricabili a episodi isolati, per quanto poco edificanti, magari anche frutto di abitudini alimentari errate?
Non è un referto della neurodeliri, bensì il quesito su cui si scervellerà per i prossimi mesi (ma è più facile anni) qualche magistrato italiano. Ovvero, dello Stato ultimo nel continente per durata media dei processi secondo Cepej (la Commissione per l'efficienza della giustizia del Consiglio d'Europa) e che negli ultimi cinque anni ha pagato circa 574 milioni di indennizzi ai cittadini peri ritardi ciclopici. Non esattamente il sistema che parrebbe poter permettersi il lusso di utilizzare risorse, umane ed economiche, per dirimere i contenziosi sullo stalking gassoso (seppur rigorosamente naturale). Invece questo accadrà, e ci piacerebbe (anche se non siamo sicuri sia il verbo adeguato) sapere come, nel concreto dell'inchiesta. Non per morbosità tardo-adolescenziale, ma per focalizzare il dramma fin troppo adulto, oltre che kafkiano, della giustizia all'italiana. Per cui diventa esercizio intellettualmente affascinante immaginarsi l'istruttoria in tutti i suoi passaggi.
Gli interrogatori, ad esempio, della giornalista offesa ma anche del disgraziato offendente malgré lui, incalzato su tempi, modalità e intensità dell'atto colposo. Non osiamo nemmeno addentrarci nel campo delle possibili perizie e controperizie richieste dalle varie parti in causa, ivi compreso il problema nient' affatto secondario della loro riproducibilità tecnica. Le testimonianze dei vari attori in gioco, poi, potrebbero facilmente incorrere nell'oltraggio alla corte, specie di fronte all'eventuale richiesta di riproporre in aula il microclima presente all'epoca dei fatti nell'ufficio condiviso, evidentemente cruciale per individuare la fattispecie del reato. Ci permettiamo solo un consiglio letterario agli inquirenti, che potrebbero trovare utile per districarsi nell'intricata materia il saggio che Jonathan Swift, l'autore dei Viaggi di Gulliver, le dedicò: "Sul beneficio della scoreggia". Il grande autore satirico irlandese sistematizzava tutta una casistica del fenomeno, distinguendo tra la scoreggia morbida, il peto sonoro, la doppia scoreggia. Era sì satira, ma a posteriori impallidisce, di fronte alla cronaca giudiziaria del Belpaese.
Da ferrucciogianola.com il 19 maggio 2022.
Un detto delle mie parte dice che A parlare di c*** e di m**** l’anima si conserva ed è questo detto che mi ha suggerito questa particolare top ten letteraria.
Non c’è nessun fraintendimento nel titolo e nessuna intenzione sarcastica.
Ho cercato di verificare se in letteratura esistono libri e racconti dove gli argomenti trattati sono quelli citati e ne è uscito un post sulle flatulenze.
Magari ne siete già a conoscenza, ma anche questa è letteratura:
1 - Nella celeberrima Divina Commedia di Dante Alighieri, l'ultimo verso del Canto XXI dell'Inferno recita: «ed elli avea del cul fatto trombetta», è in relazione all'atto del diavolo Barbariccia che con una flatulenza dà inizio alla marcia della sua cricca di diavoli.
2 - Il disprezzo de Il giovane Holden di J.D. Salinger, mentre ascolta in una cappella un sermone fasullo di un pastore, viene temporaneamente interrotto quando un ragazzo seduto nella fila davanti a lui, Edgar Marsalla , emette una scoreggia eccezionale.
3 - Nell’Ulisse di James Joyce - Il protagonista del romanzo, Leopold Bloom, è descritto in una scena dove è seduto con calma sopra il suo odore in aumento.
4 - Nella Commedia degli errori di William Shakespeare, nel terzo atto, il personaggio di nome Dromio fa un chiaro riferimento alle scoregge
A man may break a word with you, sir, and words are but wind
Ay, and break it in your face, so he break it not behind.
(secondo alcuni critici, negli atti shakespeariani, le scoregge sono più comuni di quanto ci si potrebbe aspettare).
5 - In Notre-Dame de Paris, Victor Hugo fa emettere rumorosamente una scoreggia a una prostituta.
6 - Nel romanzo di Erich Maria Remarque, Niente di nuovo sul fronte occidentale, un soldato emette rumorosamente un peto: il suo commento? “Ogni fagiolino fa il suo versino”.
7 - Nel Racconto del Mugnaio (uno de I racconti di Canterbury di Chaucer), il personaggio di Nicholas sporge il suo sedere da una finestra ed emette un peto in faccia al rivale Absalom. La reazione di Absalom è quella di marchiare il sedere di Nicholas con un attizzatoio ardente.
8 - Nella novella di De Sade, La filosofia del boudoir, il filosofo e tutore della protagonista pretende che la Marchesa St. Ange emetta una flatulenza su di lui piuttosto che offenderlo facendolo per conto proprio.
9 - Nel saggio The Benefit of Farting, Jonathan Swift, - autore dei Viaggi di Gulliver - dimostra di essere un profondo conoscitore della flatulenza e spiega che ci sono diverse specie di scoreggia, tra le quali: il peto sonoro, la doppia scoreggia, la scoreggia morbida, la scoreggia umida e la scoreggia vento scontroso.
10 - Nel Simplicius di Hans Jakob Christoffel von Grimmelshausen, al protagonista Simplicio viene suggerito di trattenere le flatulenze a tavola spingendo più che si può e pronunciando le parole «je pète, je pète, je pète!», naturalmente accade l’opposto.
Caos in Rai. Dania Mondini, la giornalista del Tg1 messa in stanza col collega che soffre di flatulenza: indagati per stalking 5 vicedirettori. Carmine Di Niro su Il Riformista il 13 Maggio 2022.
Sarebbe stata punita da cinque colleghi, tutti all’epoca figure apicali del Tg1, il più importante telegiornale Rai, con un demansionamento e addirittura costretta a stare in una stanza con un collega con problemi di flatulenza.
È l’incredibile vicenda, finita in tribunale, denunciata dalla conduttrice del Tg1 Dania Mondini, che ha trascinato in aula i suoi superiori. A darne notizia è l’edizione odierna di Repubblica, che ricostruisce anche il tortuoso e complesso iter giudiziario della vicenda.
Mondini nella sua denuncia per stalking tira in ballo cinque persone, giornalisti-dirigenti del telegiornale dell’ammiraglia: Filippo Gaudenzi, Marco Betello, Piero Felice Damosso, Andrea Montanari e Costanza Crescimbeni.
I cinque, nel 2018, avrebbero elaborato un piano per ridimensionare la giornalista con la decisione di metterla in stanza con un collega che non riesce a “trattenersi”. Una mossa che provoca la reazione di Monini, che oppone un rifiuto “motivato all’ordine di servizio”, ovvero non si sistema in stanza col collega.
Da qui ulteriori ritorsioni, denuncia il mezzobusto del Tg1, che sottolinea come da quel momento le vengono affidati servizi brevi e banali, oltre a subire violente aggressioni verbali a causa di piccoli errori durante la conduzione del telegiornale.
Mondini decide di denunciare il tutto alla Procura di Roma, portando a sostegno della propria tesi anche dei referti medici che ne proverebbero lo stress causato dal ridimensionamento subito a lavoro. I pm di Roma sentono sei testimoni, colleghi giornalisti del Tg1, per capire di più sulla vicenda: di questi però solo una conferma la versione di Mondini.
Di fronte alle difficoltà nel provare le accuse, la procura chiede dunque l’archiviazione del caso, chiedendo al massimo di valutare l’ipotesi di mobbing da risolvere nel tribunale civile. Ma, come sottolinea Repubblica, le sorprese non finiscono qui: il procuratore generale Marcello Monteleone avoca a sé l’inchiesta, togliendola di fatto al pm, e decide di continuare a indagare per stalking i 5 giornalisti della Rai.
Dunque il caso di Mondini e del demansionamento nella stanza del collega che non riesca a trattenere le flatulenza continua…
Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia
Dagospia il 5 maggio 2022. Riceviamo e pubblichiamo:
il balzello (a mio parere improprio) del canone Rai che nel 2005 è stato imposto sulle bollette elettriche dall’ex premier Matteo Renzi non convince, giustamente, gli organismi comunitari europei. E l’attuale primo ministro, Mario Draghi, appare intenzionato a cassarlo. Ben fatto.
A Palazzo Chigi, leggo, stanno studiando un nuovo meccanismo di riscossione. Ma Draghi avrebbe potuto fare di più (e di meglio) in tempi del rincaro di tutte le fonti energetiche a causa della guerra in Ucraina. Vale a dire, sospendere per un anno il pagamento dei 90 euro sulle utenze elettriche almeno per le fasce sociali più deboli.
Con la rincorsa del costo dell’energia casalinga, la tassa-Rai (vale 500 milioni di euro per l’erario) di fatto annulla gran parte dei benefici (sconti) annunciati dal governo.
Leggo sul suo sito, non senza meraviglia, l’articolo del giornalista Aldo Fontanarosa della Repubblica che lancia in resta si scaglia in difesa della Rai e dell’attuale pagamento del canone che, bontà sua, ha “funzionato alla meglio e stroncato l’evasione”.
Il giornalista forse ignora che oltre 15 milioni di euro, come denunciato da “Striscia la notizia”, sono ancora nelle casse dei gestori elettrici. Per aggiungere su mamma Rai: ciò ha consentito al servizio pubblico di chiudere in “sostanziale pareggio e di tenere i conti in ordine” il bilancio 2021.
Dunque, nella Rai degli sprechi, delle marchette e delle pubblicità sublimali, delle comparsate, degli investimenti sbagliati, sono i forzati del canone (anche quelli che non hanno un apparecchio tv o sono morti da anni) a tappare i loro buchi aziendali.
Ma all’articolista della Repubblica, sponsor di viale Mazzini, tutto ciò sembra non interessare. Difende l’ultimo monopolio di Stato a prescindere, fingendo che oggi i teleutenti non possano scegliere liberamente i canali e le piattaforme (a pagamento) da vedere. Stiamo corrispondendo ancora una tassa sull’apparecchio tv?
E perché pagare un balzello ad personam e non sul servizio offerto (90 euro) se, non è il mio caso, non voglio più sintonizzarmi con i canali della Rai? Chi scrive ha impiegato due anni per cancellare tra gli abbonati i suoi genitori purtroppo scomparsi grazie proprio all’attuale iniquo sistema di riscossione che non consente di verificare nemmeno su chi ha lucrato, di furto si tratta, tra la Rai e l’Enel. E non si tratta di casi isolati.
Lettera firmata
Marco Zonetti per vigilanzatv.it l'11 aprile 2022.
Come ogni anno sta per tornare il Premio Agnes, il riconoscimento più autoriferito della Storia dell'Uomo; e con esso ricompare la comitiva di personaggi noti, celebrati e illustri del giornalismo italiano che si premiano a vicenda e, talvolta, si autopremiano in un tourbillon di vichiani corsi e ricorsi da far girare la testa.
Un'autoreferenzialità che si origina fin dall'organizzatrice del premio, ovvero la figlia del compianto Biagio ex direttore generale della Rai, la valente Simona Agnes che oggi siede in Consiglio di Amministrazione della Rai; Consiglio del quale fa parte lo stesso Ad Rai Carlo Fuortes che è anche giurato del Premio Agnes. Rai che, come ogni anno, fa la parte del leone nella spartizione dei vari premi, aggiudicandosene nella prossima edizione 2022 ben cinque, fra i quali uno assegnato all'ormai onnipresente Monica Maggioni, Direttrice del Tg1, malgrado il flop di Sette Storie e i non certo esaltanti ascolti del suo notiziario.
Fra gli ulteriori premiati in casa Rai, troviamo l'altro "prezzemolino" Amadeus - che, fermi restando i suoi meriti come conduttore del Festival di Sanremo, non si capisce per quale motivo vada insignito di un "premio di giornalismo e informazione" come si autodefinisce il riconoscimento, ma tant'è. E poi ancora la fiction di Rai1 Bianca; il film I fratelli De Filippo (prodotto da Rai Cinema); Geppi Cucciari e Giorgio Lauro conduttori della trasmissione Un giorno da Pecora di Rai Radio Uno; lo storico regista e autore Rai Michele Guardì, destinatario di un premio speciale.
Il Premio Agnes andrà poi in onda come di consueto su Rai1 presentato come di consueto dagli amici del cuore Mara Venier e Alberto Matano, amicissimi dichiarati anche di Simona Agnes, il cui ingresso in CdA Rai era amichevolmente auspicato da Gianni Letta, Presidente Onorario del Premio Agnes.
Tra i giurati del Premio Agnes, anche Aurelio Regina, importante socio della Egon Zehnder alla quale Mario Draghi aveva affidato il vaglio dei curricula degli aspiranti consiglieri Rai, fra cui quello di Simona Agnes. Perdonateci le tante ripetizioni, ma del resto avevamo preventivato che c'era rischio vertigini.
Lasciando da parte "Mamma Rai", tra i giurati del Premio Agnes c'è anche il Direttore del Corriere della Sera Luciano Fontana assieme a una delle sue firme, Antonio Polito (premiato due anni fa); e la testata di Urbano Cairo si vede assegnare due riconoscimenti, uno ad Angelo Panebianco e uno a Monica Guerzoni. Restando nella grande famiglia RCS di proprietà di Cairo, arriva un premio anche per il Vicedirettore di Oggi Marco Pratellesi. Due premi Agnes gravitano anche nella galassia del Messaggero, il cui Direttore Massimo Martinelli è a sua volta in giuria: uno a Camilla Mozzetti mentre l'altro va all'ex Direttore Virman Cusenza.
Con Alberto Orioli il trofeo approda poi in casa Sole 24 Ore, quotidiano patrocinatore del Premio Agnes attraverso Confindustria e forte di un autorevole rappresentante in giuria, il Direttore Fabio Tamburini, insignito del riconoscimento l'anno scorso racchiudendo in sé il triplice - e mai visto - ruolo di patrocinatore, giurato e premiato. Uscendo dalla carta stampata, quest'anno il Premio Agnes viene tributato alla cronista dell'Adnkronos Ileana Sciarra, e ne sarà contento il Direttore Giuseppe Marra, anch'egli fra i giurati del riconoscimento.
Se quest'anno La Repubblica resta a mani vuote e La Stampa ottiene un solo premio per il giornalismo periodico assegnato a Maria Corbi e Francesca Sforza del settimanale Specchio, per l'ennesima volta sono assenti dal palmares del Premio Agnes quotidiani come Domani, La Verità o Il Fatto Quotidiano, ancorché artefici di varie importanti inchieste nei mesi e negli anni scorsi. Mentre è totale oblio con relativa damnatio memoriae per le testate online, perfino quelle di riferimento come per esempio Fanpage, e soprattutto Dagospia dalla quale i cosiddetti quotidiani "autorevoli" attingono quotidianamente sempre più a man bassa - perlopiù e risibilmente senza neanche citare la fonte, facendo la figura dei copioni e per giunta dentologicamente scorretti.
In ogni modo, senza nulla togliere a capacità e competenze di coloro che si sono visti assegnare il Premio Agnes, anche nell'edizione 2022 il riconoscimento sembra quindi nascere, dipanarsi e morire all'interno di una cerchia alquanto ristretta, nella quale prevalgono Rai e Corriere. E non bastano i riconoscimenti a Mstyslav Chernov, Evgeniy Maloletka e Vasilisa Stepanenko dell’Associated Press e quello alla carriera a David Robert Gilmour dello Spectator, per non evocare - più che un "premio giornalistico internazionale" - la compagnia de "I ragazzi del muretto".
Marco Damilano ripara in Rai, il nuovo programma fa infuriare tutti: rivolta contro Fuortes. Il Tempo il 04 aprile 2022.
Marco Damilano dopo aver sbattuto la porta del settimanale l'Espresso trova una collocazione in Rai, a ridosso della soap opera Un posto al sole, mossa che ricorda le polemiche per il progetto di programma - mai andato in porto - di Lucia Annunziata anni fa che aveva sollevato un vespaio di polemiche. E anche questa volta l'annuncio di viale Mazzini fa indignare mezza Rai e non solo.
Da settembre infatti Rai3 manderà in onda una striscia quotidiana di informazione che sarà curata e condotta da Damilano, già direttore dimissionario dell’Espresso e commentatore in numerosi programmi televisivi. La trasmissione comincerà alle 20.35 e durerà dieci minuti. Andrà in onda, annuncia il servizio pubblico, "da uno innovativo studio nella sede Rai di viale Mazzini a Roma". L’amministratore delegato della Rai, Carlo Fuortes, e il direttore dell’Approfondimento, Mario Orfeo, hanno "espresso soddisfazione e rivolto a Damilano auguri di buon lavoro per la preparazione del programma", ma nelle reti del servizio pubblico monta già la rabbia.
Il comitato di redazione del Tg2, ossia la rappresentanza sindacale dei giornalisti, "esprime stupore in merito alla notizia di una striscia informativa che andrà in onda su Rai3 a partire da settembre, con orario previsto alle 20.35, cioè a due minuti dall’inizio del nostro telegiornale. Stupore perché dall’Azienda ci aspettiamo la difesa e la valorizzazione del nostro prodotto, che è risultato dello sforzo dell’intera redazione, non una ’concorrenza interna' che riteniamo fuori luogo e punitiva. Peraltro affidata ad un giornalista esterno alla Rai", si legge in un comunicato del Cdr. I giornalisti del telegiornale di Rai 2 chiedono "all’ad Carlo Fuortes e al direttore Mario Orfeo di ripensare l’orario di messa in onda della nuova striscia informativa, tenendo nella dovuta considerazione gli orari di trasmissione dei prodotti del Tg2 e il lavoro di tutto il personale che ne permette la realizzazione. A loro ricordiamo anche che una striscia informativa, premiata dagli ascolti, più o meno nella stessa fascia oraria c’è già ed è Tg2Post".
Anche il sindacato Usigrai va all'attacco e non risparmia critiche pesantissime ai vertici: "Ancora una volta l’azienda ricorre ad un giornalista esterno per l’informazione. L’arrivo di Marco Damilano è soltanto l’ultimo caso. In un momento in cui l’ad Carlo Fuortes chiede sacrifici agli interni, ci sembra paradossale che all’improvviso ci siano i soldi per pagare l’ex direttore de L’Espresso, che è un giornalista esterno, quindi con un aggravio di costi per l’azienda. Come si è giunti alla scelta di Damilano? Il direttore Mario Orfeo, prima di ricorrere a un esterno, ha valutato ì curricula degli interni?", si legge nella nota. Il problema è anche di scelte di programmazione: "Non si comprende inoltre la logica di sovrapposizione di palinsesto della striscia di informazione prevista alle 20:35 su Raitre, con il Tg2 che va in onda allo stesso orario -si legge ancora nella nota-. La nuova organizzazione per generi così parte male e invece di migliorare l’offerta apre la strada ad una concorrenza interna che non giova al prodotto di informazione della Rai. Freelance, giornalisti esterni, conduttori esterni, non è questa la strada del servizio pubblico".
Parla di schiaffo ai "più di 2000 giornalisti interni" Lettera 22 che punta il dito sulla "scelta incomprensibile" se non "in una logica di mera lottizzazione". "Un’operazione che ricorda stagioni della Prima Repubblica in cui il servizio pubblico veniva usato come 'ammortizzatore sociale' piazzandovi i giornalisti in uscita dai giornali di partito" con i cittadini "costretti a pagare scelte dettate da logiche di bassa politica".
Giornali "a scrocco" attraverso i social, sequestrati canali e siti. Il Quotidiano del Sud il 24 marzo 2022.
SONO 32 i canali Telegram, Facebook, Instagram, Twitter ed i siti web sequestrati dai finanzieri del Nucleo speciale beni e servizi nel corso di un’operazione – denominata “Black Screen” – di contrasto alla pirateria editoriale online. Lo stop alla diffusione illecita di giornali e periodici ha lasciato con lo schermo vuoto oltre 500 mila lettori “a scrocco”. Le indagini sono partite nel mese di dicembre dalla collaborazione instaurata dal reparto speciale delle fiamme gialle con la Fieg, la Federazione italiana editori giornali, che ha messo a disposizione i suoi esperti per la verifica, unitamente alle case editrici delle testate interessate, dei canali social e dei siti individuati dai finanzieri.
Ultimata l’analisi dei contenuti finalizzata a circoscrivere le pubblicazioni pirata, è stata informata la procura di Roma, che ha aperto un fascicolo ed avanzato richiesta di sequestro al Giudice per le indagini preliminari.
Il provvedimento dell’autorità giudiziaria è stato, quindi, notificato a gestori e provider interessati e l’illecita diffusione di quotidiani, settimanali, mensili e riviste specializzate immediatamente interrotta.
“La pirateria editoriale – sottolineano gli investigatori – sottrae risorse alle case editrici e danneggia la vendita di prodotti digitali, le cui modalità di diffusione consentono di raggiungere un numero elevato di utenti con costi estremamente limitati, senza contare che il rincaro delle materie prime degli ultimi tempi rende più onerosa la distribuzione con metodi tradizionali anche a causa dell’aumento dei costi per la stampa ed il trasporto di giornali e riviste”. Oltre al rischio di sanzioni, “i lettori che si rivolgono ai canali illeciti si espongono alla concreta possibilità di subire il furto dei propri dati mediante ‘pishing’. Infatti, come contropartita alla lettura gratis, taluni canali espongono link che reindirizzano a proposte commerciali a prezzi particolarmente vantaggiosi o di registrazione gratuita a servizi digitali. Utilizzando questi link, l’utente finisce per mettere i propri dati personali e finanziari nelle mani dei criminali oppure per attivare servizi a pagamento non richiesti”.
Aldo Grasso per il "Corriere della Sera" il 24 febbraio 2022.
La vittoria di Achille Lauro a Una voce per San Marino , affermazione che gli permetterà di rappresentare «la Repubblica più antica del mondo» all'Eurovision Song Contest Torino 2022, ci ha ricordato che esiste anche RTV San Marino, visibile sul canale del digitale terrestre al numero 831.
Per buttarci un occhio, mi sono sorbito in prima serata Generazione Z , un colloquio con tre ragazzi collegati via streaming e poi Khorakhanè (è anche il titolo di quella canzone di Fabrizio De André dedicata a una tribù rom di provenienza serbo-montenegrina), un talk serio dove si parlava di disagio giovanile. C'era anche uno spot che preannunciava un programma con il duo Dario Vergassola e David Riondino: portano in tv il loro Corso di recupero per comici televisivi .
Ma l'aspetto più interessante di RTV San Marino è che alla direzione c'è sempre un uomo Rai (ora c'è Ludovico Di Meo), per una convenzione che risale al 1990, quando l'allora presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, fece visita al Titano per sancire la nascita di una società partecipata al 50% dall'Eras (Ente per la radiodiffusione sammarinese) e al 50% dalla Rai. Da allora, Viale Mazzini fornisce direttore e numerosi programmi. Da dove nasce questa scelta?
La decisione da parte della Rai di prendere la guida di RTV San Marino discende dalla paura che qualche importante emittente straniera potesse installarsi «in casa», in una posizione comoda per fare concorrenza. Era l'epoca delle battaglie con TeleCapodistria, con la stessa tv svizzera di lingua italiana, con TeleMontecarlo.
Qualcuno voleva installare persino a Malta un trasmettitore per raggiungere l'Italia. Meglio prendere sotto tutela i trasmettitori del Titano. All'Eurovision Song Contest i sammarinesi non possono votare per Achille Lauro ma possono per Mahmood e Blanco. Gli spettatori italiani possono votare per Achille Lauro (sempre che arrivi in finale).
Antonella Clerici sconvolta, "veramente io ero in linea per...": cosa esce di bocca al concorrente. Libero Quotidiano il 23 febbraio 2022.
Imbarazzo a È sempre mezzogiorno. Nella puntata andata in onda mercoledì 23 febbraio su Rai 1, Antonella Clerici ha come sempre preso le telefonate degli spettatori. Questa volta però è stata diversa: la conduttrice si è ritrovata a parlare con una telespettatrice che aveva sbagliato numero, o meglio, programma. "Veramente io ero in linea per giocare con i Fatti Vostri, perché sono qui?", ha chiesto la signora mentre la Clerici ha tentato di sviare con un sorriso:"Non lo so, adesso chiamo Salvo Sottile e glielo chiedo".
Per la conduttrice non è però la prima volta. Spesso accade che il pubblico da casa vuole partecipare al "gioco del porcellino" su I Fatti Vostri in onda su Rai 2 e invece si ritrovano a parlare con È sempre mezzogiorno. Il motivo potrebbe essere del centralino, il numero unico che smista le telefonate per partecipare ai giochi sui programmi In diretta della Rai.
Dato che Clerici e Sottile sono in onda contemporaneamente capita che qualcuno possa fare confusione. E infatti la spiegazione della conduttrice è stata questa: "Il centralino dei giochi della Rai è unico... Dovremmo risolvere questo problema, così come abbiamo risolto il problema del cellulare". A buon intenditor...
“Rolex e suite di lusso”. L'inchiesta sugli appalti Rai fa tremare i manager della tv pubblica. Andrea Ossino, Giovanna Vitale su La Repubblica il 23 febbraio 2022.
Mazzette e corruzione, arrestato l’ex capo Acquisti della tv di Stato: bracciali banconote e pepite d’oro nascosti nei vasi del giardino a casa della madre. Nell’ordinanza di custodia cautelare si svela “un sistema di irregolarità diffuse”.
«Quella Rai… omissis… ha sempre corrotto tutti, dando soldi a non finire… omissis… e adesso vedrai che scoprono Roma... omissis… eh, gli orologi». Bastano venti omissis per far tremare i piani alti di Viale Mazzini.
L’inchiesta, nata tra le bancarelle del mercato ortofrutticolo di Milano, ha già portato all’arresto dell’ex capo della Direzione acquisti della Tv di Stato, Gianluca Ronchetti.
Lorenzo De Cicco per “la Repubblica” - articolo del 19 febbraio 2022 il 21 Febbraio 2022.
Non chiamatela Frattocchie 2.0, dice Gianni Cuperlo. Ma il suo "corso di politica" che coinvolge oggi e domani quasi un migliaio di attivisti, soprattutto giovani (i relatori saranno al Nazareno, gli altri collegati da pc), richiama il modello figiciotto, aggiornato. Obiettivo: formare le giovani leve del partito e sottrarle al correntismo smanioso di questi tempi.
«Ci sono due modi di selezionare la classe dirigente di una forza politica - ragiona Cuperlo - Si può puntare sulla fedeltà ai capi di turno oppure investire sulle persone, sulle loro capacità. Noi cerchiamo di percorrere la seconda strada».
Meno capibastone, più studio, è il mood, spiega l'ex deputato Pd, che a Frattocchie c'è stato, prima tessera a 15 anni alla federazione dei giovani comunisti. E che ancora ricorda di quando si attovagliava con Pajetta in un'osteria dietro Botteghe Oscure: «Mi spiegava cos' era la disciplina». Ecco allora il ritorno dei seminari, in tutto saranno 5. Titolo del corso "Partecipazione e democrazia".
Mille attivisti col bloc notes, a prendere appunti davanti a Prodi, Gentiloni, Letta, Fassino ma anche Andrea Vianello e Giovanna Botteri. Un mix di politica e comunicazione (perché la politica è anche comunicazione, oggi), con un occhio ai venti di guerra in Ucraina: ne parlerà l'ambasciatore Ferdinando Nelli Feroci. Aprirà i lavori Lucio Caracciolo, direttore di Limes.
Gentiloni parlerà di Europa domattina. Oggi pomeriggio invece lectio di Prodi sul "mondo dopo la pandemia", introduce Enrico Letta. La scuola di Cuperlo è al secondo anno. A colpire il presidente della fondazione Pd, stavolta, è stata la carrellata di adesioni. Mille. In gran parte ragazzi fra i 16 e i 30 anni.
Contrasta con la narrazione dei giovani indifferenti, sfiduciati verso i partiti. «L'antipolitica ha stancato», è convinto Alberto Bortolotti, architetto di 28 anni, segretario del Pd di Porta Venezia, Milano. Cita Berlinguer: «La questione morale, tra i ragazzi, è ancora sentita. Ma la pandemia ha fatto da spartiacque, si è capito che un politico oltre ad essere onesto, deve anche essere competente». Lorenzo Tinagli, 25 anni, consigliere Pd a Prato, si collegherà col tablet. Crede che la «gavetta sia importante». Meglio così «che ritrovarsi catapultati in Parlamento senza sapere nulla».
Delle Frattocchie conosce «la mitologia». «Lascerei stare Frattocchie - riprende Cuperlo - È stata una grande palestra, ma è una stagione chiusa. Il punto è che un partito ha bisogno di definire la sua cultura politica». Le mille iscrizioni? «Confermano il bisogno di qualche tweet in meno e qualche lezione in più».
Andrea Ossino,Giovanna Vitale per "la Repubblica" il 23 febbraio 2022.
«Quella Rai omissis ha sempre corrotto tutti, dando soldi a non finire omissis e adesso vedrai che scoprono Roma... omiss is eh, gli orologi». Bastano venti omissis per far tremare i piani alti di Viale Mazzini. L'inchiesta, nata tra le bancarelle del mercato ortofrutticolo di Milano, ha già portato all'arresto dell'ex capo della Direzione acquisti della Tv di Stato, Gianluca Ronchetti. A cui apparterrebbero le buste zeppe di contanti per oltre 194 mila euro e decine di anelli, bracciali, pepite d'oro e Cartier rinvenuti il 31 gennaio nella casa della madre, nascosti dentro i vasi del piccolo giardino all'Aurelio.
I proventi, secondo gli inquirenti, delle mazzette che stanno seminando il panico nel quartier generale Rai. "Colpa" dei passaggi oscurati nell'ordinanza di applicazione delle misure cautelari anche a carico di due imprenditori lombardi, i fratelli Giorgio e Andrea Gnoli. Segreti che, una volta concluse le indagini, potrebbero inguaiare altri manager del servizio pubblico. Gli omissis riguardano infatti «un sistema diffuso di irregolarità attuate da dipendenti Rai per favorire l'aggiudicazione di appalti ad alcuni operatori del settore dei servizi di facchinaggio e manovalanza per gli allestimenti scenici nei centri di produzione di Milano e Roma», si legge nell'ordinanza.
Frutto dei «mutamenti dell'assetto organizzativo» che ormai impone anche all'emittente di Stato di applicare il «codice dei contratti pubblici». In sostanza: nelle gare che la controllata del Tesoro ha centralizzato ormai otto anni fa c'è qualcosa che non funziona. Da tenere però coperto finché la Finanza non avrà completato il lavoro coordinato dal pm Claudia Terracina. Dai documenti e dalle intercettazioni emergono 190 contratti di affidamento alla famiglia Gnoli fra il 2015 e il 2019. A stipularli era sempre la Direzione Acquisti guidata da Ronchetti.
Il quale - in cambio di soldi, beni di lusso e favori - assegnava gli appalti diretti o con procedure negoziate sotto la soglia dei 40 mila euro per bypassare i controlli. Gli atti dell'inchiesta contengono tutti i cliché tipici della corruzione in salsa romana. Fra i regali compaiono due Rolex Daytona, suite all'Hotel Yard di Milano in occasione della partita Roma-Inter, viaggi a Saint Tropez. Persino la chat di gruppo aveva un nome da B-movie: "Martedì gnocchi".
A farne parte, oltre ai fratelli Gnoli, erano i tre dipendenti della tv pubblica Bruno Bortolotto, Corrado Pirola e Massimiliano Mazzon, responsabile dei contratti, con cui - secondo la procura - gli imprenditori avevano «rapporti diretti ». Sono i due imprenditori a rivelare l'esistenza di fondi neri con cui il padre e lo zio pagavano ogni mese 15 mila euro a Ronchetti e ad altri uomini della Rai di Milano. «Lo stipendio veniva calcolato a misura della importanza del funzionario» e poteva oscillare tra i 1.000 e i 2.000 euro. In questo modo gli indagati avrebbero ottenuto decine di affidamenti, anche per Sanremo Young . Un affare per gli Gnoli e per i dipendenti infedeli. Meno per l'azienda di Stato: «Dal 2014 al 2017 sono stati spesi sempre importi maggiori rispetto a quelli che Rai ha investito per i medesimi servizi nel 2013», scrivono gli inquirenti. Il costo della corruzione.
Estratto dell'articolo di Matteo Pinci per "la Repubblica" il 23 febbraio 2022.
Tremano in sessanta. Dirigenti, amministratori delegati, persino alcuni calciatori: tanti sono i soggetti che in queste ore hanno visto notificare la chiusura dell'indagine della Procura federale sulle plusvalenze gonfiate.
Oltre a 11 società coinvolte nella pratica di scambio di calciatori a cifre che hanno spinto la Covisoc prima e poi il procuratore della Federcalcio Giuseppe Chinè ad approfondire.
L'indagine in ogni caso non avrà lo stesso peso per tutti. Perché tra le società ce ne sono alcune a cui è stata notificata la chiusura indagini ipotizzando un effetto di queste plusvalenze gonfiate sui requisiti per l'iscrizione al campionato.
Una situazione che, se dovesse essere riscontrata dai giudici federali, potrebbe portare a delle penalizzazioni ma anche all'esclusione dai campionati. Sarebbero 3 i club in una condizione simile. Anche uno di Serie A.
Delle 62 operazioni di mercato "segnalate" dalla Covisoc alla Procura - Repubblica anticipò la notizia a ottobre - non tutte sono finite nell'indagine della Federcalcio.
Soprattutto sono state escluse alcune delle 42 che vedevano protagonista la Juventus: ad esempio, non sono più nel dossier gli affari Pjanic-Arthur col Barcellona (scambiati per 60 milioni più un conguaglio di quasi 12 in favore del Barça) e Cancelo-Danilo con il Manchester City (dove invece è stata la Juve a garantirsi un incasso di quasi 28 milioni).
In ogni caso, i bianconeri restano parte attiva in più della metà dei trasferimenti "attenzionati", s'indaga sui dirigenti, attuali o dell'epoca, visto che sono state prese in considerazioni operazioni di mercato dal gennaio 2019 al gennaio 2021.
Discorso che vale però anche per le altre squadre coinvolte: Napoli, per la supervalutazione dei ragazzi delle giovanili e un terzo portiere inseriti nell'affare Osimhen per un totale di 20 milioni, e poi Genoa (gli affari Rovella, Portanova e Petrelli con la Juve), la Samp, l'Empoli, il Parma, il Pescara, il Pisa, la Pro Vercelli, il Chievo (scomparso) e il Novara, che svolge solo attività giovanile.
Carofiglio in onda, Veltroni dice di no. E RaiTre si conferma ancora "TelePd". Paolo Bracalini il 19 Febbraio 2022 su Il Giornale.
Programma all'ex senatore, offerta anche per l'ex segretario.
«I partiti non bussano alla mia porta», diceva. «Il mio piano industriale sarà una rivoluzione, i partiti restano fuori», annunciava. «Il nuovo modello Rai allontanerà l'invadenza dei partiti», giurava. E invece già poco dopo, al momento delle nomine nei tg, spartite con il manuale Cencelli, si era capito che l'ad Carlo Fuortes i partiti li sentiva eccome. «Qualche interlocuzione c'è stata», ammise, minimizzando. Altro che interlocuzione, è finita che i palinsesti dei programmi Rai li decide direttamente il Partito Democratico. E li conduce pure. L'ex segretario del Pd, ed ex ministro dei Beni culturali tuttora influentissimo nel settore, Walter Veltroni, doveva sbarcare in primavera su RaiTre per condurre un programma dal titolo Storie (non originalissimo, ma comunque molto veltroniano), sotto la supervisione del vicedirettore della rete, Ilaria Capitani (che nel 2006 prese un'aspettativa dalla Rai per andare a fare la portavoce del sindaco di Roma. Che era? Sì, proprio lui, Uòlter). Poi però Veltroni ha preferito fare altro, come spiega a Dagospia: «Se ne era discusso nei mesi passati perché mi era venuta un'idea che al direttore di Rai tre era sembrata interessante. Tuttavia già l'otto febbraio ho comunicato al direttore che, per altri impegni di lavoro, non avrei potuto né condurre né partecipare come autore al programma». La Rai gli ha spalancato gli studi tv, ma lui aveva altro da fare. Peccato.
Ma, rivela il Fatto, Veltroni non sarebbe stato l'unico volto Pd a farsi un programmino tutto suo a Mamma Rai. In arrivo infatti sugli schermi del servizio pubblico c'è l'ex senatore Pd Gianrico Carofiglio, magistrato, scrittore, e poi candidato in Parlamento nel 2008 da chi? Ma sì, sempre da lui, Uòlter, che all'epoca faceva il leader e candidato premier del centrosinistra («La Puglia ha bisogno di legalità» lo slogan con cui lanciò il magistrato Carofiglio nelle liste Pd per il Senato, in Puglia).
Per Carofiglio la Rai ha pensato un format apposito, Il Dilemma, in sei puntate. Sempre su RaiTre, rete lottizzata militarmente dalla sinistra fin dalle origini, prima Pci, poi Ds, quindi Pd. È vero che anche Carofiglio, come Veltroni, non siede più in Parlamento, ma l'ex senatore riveste comunque un ruolo nel Pd, chiamato dal segretario Letta per fare l'«osservatore» nel progetto delle Agorà democratiche, «il più grande esperimento di democrazia partecipativa del Paese» (cit). Ma Carofiglio ha risolto in fretta il dilemma se fare la tv pubblica o la politica: entrambe. Un problema che invece non è mai esistito per Walter Veltroni, da sempre uno e trino. Eterno candidato a tutto (Colle compreso), scrittore prolifico, regista premiato, editorialista del Corriere della Sera, sempre con uno spazio riservato nella tv di Stato (e a Sky, che gli produce la qualunque). Recentemente Veltroni ha diretto un documentario per la Rai, qualche tempo fa è stato autore di un programma su RaiUno con Flavio Insinna. In un modo o nell'altro, un posto nel palinsesto Rai per il Pd si trova sempre. Anche senza bussare all'ad Fuortes. Paolo Bracalini
Da striscialanotizia.mediaset.it l'11 gennaio 2022.
Scoop di “Rai Scoglio 24”. Un insider, programmista-regista da vent’anni in Rai, fa rivelazioni scottanti a Pinuccio: nomi, cognomi e magagne della tv di Stato.
«Lavoro per Raiuno, sono un programmista-regista. Siamo almeno un migliaio interni», racconta la fonte. Viale Mazzini, però, anziché affidarsi a loro (dipendenti comunque stipendiati dalla Rai), spessissimo si avvale di programmisti-registi esterni: alcuni addirittura con contratti artistici, che quindi non hanno limiti di retribuzione.
«Io personalmente da interno non facevo nulla», prosegue l’insider. «Sono anche andato dal capo del personale, a cui ho denunciato più volte la situazione, ma mi ha risposto che facevo demagogia. È un sistema consolidato in Rai: gli esterni rappresentano il potere politico, forze lavoro nuove che vengono inserite tramite le agenzie di spettacolo nelle reti Rai. Chi sono le persone colluse con questo sistema? Innanzitutto i direttori…».
Nuove rivelazioni nella prossima puntata di “Rai Scoglio 24”.
Quanto ci costa davvero la Rai? Storia del canone, la tassa più odiata dagli italiani. Stefano Balassone su Il Domani il 9 Gennaio 2022.
In Italia ogni nucleo familiare abbonato paga 25 centesimi per giorno come fonte del finanziamento del “Servizio Pubblico”, mentre per il tedesco ne sborsa €0,58, l’inglese €0,50, il francese €0,38.
Alle sorgenti dell’odio, che si dice maggioritario, per il canone sta la sovrapposizione della fazione allo Stato e il mito della tv gratuita.
Il Presidente del Consiglio, il Ministro dell’Economia e il Ministro dello Sviluppo Economico del 2016 tagliarono il canone e le prospettive di senso del Servizio Pubblico.
STEFANO BALASSONE. Critico, produttore e autore televisivo. Le sue pubblicazioni: La TV nel mercato globale, 2000, Come cavarsela in TV, 2001, Piaceri e poteri della TV, 2004, Odiens, sbirciando l'Italia dal buco de
AIUTARE LA CONCORRENZA. Lo scippo per legge del canone Rai per finanziare tv private e giornali. Daniele Martini su editorialedomani.it il 5 gennaio 2022. Con il pagamento del canone attraverso il bollettino della luce è diminuita l’evasione e aumentato il gettito. Gli incassi aggiuntivi non sono stati però lasciati alla Rai, ma dirottati su un Fondo per il pluralismo e l’innovazione dell’informazione.
In totale sono 110 milioni di euro l’anno con i quali vengono beneficiate centinaia di televisioni e radio locali e un gruppo di periodici e giornali, da Dolomiten a Famiglia Cristiana e Avvenire, Manifesto, Secolo d’Italia, Italia Oggi, Libero e Il Foglio.
L’amministratore della tv pubblica, Carlo Fuortes, vorrebbe poter contare su quelle risorse per mettere a posto i conti della Rai, ma governo e Parlamento non gli hanno prestato ascolto.
Daniele Martini per editorialedomani.it il 5 gennaio 2022. La Rai è l’unica azienda al mondo che finanzia la concorrenza. Lo fa malvolentieri e se potesse si sottrarrebbe al compito, ma non può perché il balzello è imposto per legge. La norma prevede che una parte degli introiti del canone televisivo riscossi attraverso la bolletta della luce siano fatti transitare dalla Rai a un Fondo per il pluralismo e l’innovazione dell’informazione.
Si tratta di 110 milioni di euro l’anno che vanno a finire in larga parte nelle casse delle tv e radio commerciali locali. Nel 2021 la quota versata a queste televisioni e in misura minore alle radio è stata di 66 milioni di euro, quest’anno sarà probabilmente più alta di cinque milioni grazie a uno degli ultimi commi della legge di bilancio la cui formulazione lascia però margini di ambiguità.
La ripartizione delle risorse viene stabilita dal ministero dello Sviluppo economico, in questo momento guidato dal leghista Giancarlo Giorgetti, che periodicamente aggiorna le liste degli aventi diritto e la cifra spettante a ognuno di essi. L’elenco comprende 137 tv e 163 radio commerciali, più 301 tv e 320 radio «comunitarie» (cooperative, opere diocesane, parrocchie, associazioni culturali, eccetera).
La quota restante dei 110 milioni del Fondo per il pluralismo è destinata a una lista di giornali e periodici, 107 in totale comprese otto pubblicazioni per le minoranze linguistiche, beneficiati in base a criteri applicati dal sottosegretario alla presidenza del consiglio con la delega all’editoria, il senatore Giuseppe Moles di Forza Italia, un politico che i giornali presentano come fedelissimo di Silvio Berlusconi.
In pratica i 22 milioni circa di italiani che ogni anno pagano i novanta euro del canone Rai finanziano a loro insaputa con cinque euro a testa anche televisioni locali private che non vedranno mai, radio di cui ignorano l’esistenza e giornali nei confronti dei quali nutrono come minimo indifferenza.
Negli elenchi c’è proprio di tutto. In cima alla lista delle tv c’è Telenorba, televisione molto seguita in Puglia e nel sud, a cui viene concesso un contributo di un milione e 700 mila euro. Per le altre 136 televisioni il sussidio è a scendere fino a un minimo di 25 mila euro per Tlt Molise 1. Per le radio il range degli importi va da un massimo di 247 mila euro per la milanese Radio popolare a un minimo di nove mila euro per la piemontese Radio studio aperto.
In cima alla lunga lista delle tv comunitarie c’è TeleclubItalia (141 mila euro) e poi dal 56esimo posto una sfilza di 256 televisioni beneficiate con 3.778,92 euro a testa. Umbria radio Inblu con 89 mila euro apre la lista delle radio comunitarie che in coda annovera 244 emittenti a cui viene concessa la somma di 3.114,20 euro ciascuna.
Molto più elevati gli importi per i giornali: più di tutti incassa Dolomiten, quotidiano in lingua tedesca di Bolzano, sei milioni e 176 mila euro. I giornali cattolici Famiglia cristiana e Avvenire prendono rispettivamente sei e cinque milioni di euro, poi c’è l’editoriale Libero (5,4 milioni di euro), Italia Oggi (quattro milioni), Il Manifesto (tre milioni), Il Foglio (un milione e 800mila euro).
Tutto ciò è frutto di una riforma approvata ai tempi del governo di Matteo Renzi che aveva come scopo quello di spezzare le reni all’evasione di massa del canone Rai. Un obiettivo che è stato pienamente centrato perché oggi il canone è pagato con la bolletta elettrica da circa sette milioni di italiani in più rispetto a sette anni fa e il tasso di evasione è precipitato dal 27 per cento del totale al cinque per cento. L’importo del canone nel frattempo è diminuito, da 113,50 euro nel 2015 a cento nel 2016 a novanta euro degli anni successivi.
Essendo cresciuta in modo considerevole la platea dei paganti è cresciuto anche il gettito complessivo che in media ora è di circa due miliardi di euro l’anno. Ma tra Fondo per il pluralismo, Iva al quattro per cento, e tassa di concessione governativa, le risorse a disposizione dell’azienda Rai sono rimaste le stesse, anzi, sono addirittura diminuite da un miliardo e 662 milioni di euro del 2013 a un miliardo e 649 milioni.
I quattrini riscossi in più grazie al canone non sono stati considerati dal governo Renzi e da quelli che sono venuti dopo come un recupero dell’evasione da destinare al legittimo destinatario finale della tassa, cioè la Rai. È stata invocata la fattispecie dell’extragettito in base a un ragionamento di questo tipo: è vero che gli incassi aggiuntivi sono frutto di una tassa di scopo e del miglioramento del sistema di riscossione del canone, ma siccome i soldi non hanno colore, allora li diamo ad altri senza però farlo sapere a nessuno.
I vertici Rai si sono sentiti raggirati e sollecitati dal sindacato interno Usigrai hanno presentato sette anni fa un ricorso al presidente della Repubblica. In tutto questo tempo, però, giustizia non è stata fatta e il Consiglio di stato a cui per prassi il presidente ha trasmesso la faccenda, non è stato neanche messo nelle condizioni di poter esaminare la questione per poi esprimere un parere perché dai ministeri e in particolare da quello dello Sviluppo economico non ha ricevuto le carte e le informazioni richieste. A gennaio di due anni fa i magistrati hanno chiesto di nuovo la documentazione idonea agli uffici ministeriali con tre sentenze distinte senza però ottenere risposta.
Arrivato con il compito dichiarato di mettere a posto i conti della televisione pubblica, il nuovo amministratore Rai, Carlo Fuortes, in una delle prime audizioni davanti ai parlamentari della commissione di Vigilanza ha messo in evidenza l’anomalia dei quattrini riscossi per la Rai, ma regalati ad altri.
Di quei soldi aggiuntivi Fuortes avrebbe bisogno come il pane perché dal 2008 in poi i ricavi per la pubblicità si sono dimezzati, da un miliardo e 187 milioni di euro a 557 milioni. Fuortes sperava che governo e partiti gli dessero retta inserendo una qualche modifica, magari un emendamento alla legge di bilancio del 2022, ma non l’hanno accontentato.
È stato confermato il criterio dell’extragettito Rai e reso permanente il Fondo per il pluralismo con annessi i 110 milioni di euro che a suo tempo era stato invece presentato come temporaneo. Sapendo di poter contare senza esitazioni sulla benevola accoglienza dell’informazione Rai, governo e partiti hanno deciso di continuare a coltivare a suon di risorse prelevate dal canone una pletora di televisioni private, radio e giornali che al bisogno possono tornare sempre utili. Soprattutto le tv private, megafoni sempre aperti alle richieste di qualsiasi amministratore locale e fondamentali per i candidati quando ci sono le elezioni.
Vittorio Feltri per “Libero Quotidiano” il 5 gennaio 2022. Si dice (e si constata) che la stampa, non solo italiana, stia attraversando una crisi allarmante. Le copie cartacee di quotidiani e periodici sono molto meno diffuse rispetto ad anni fa. Purtroppo è vero e ciò addolora noi che lavoriamo e ci guadagniamo da vivere nel settore zoppicante. Ma dobbiamo amaramente registrare che anche le televisioni, pubbliche e private, sono in sofferenza. Il problema in parte si giustifica a causa della affermazione di Internet, cioè delle tecnologie grazie a cui la gente rimane in perenne contatto con l'informazione, più o meno di qualità.
I cosiddetti social poi dominano la scena, coinvolgono il popolo, il quale in pochi anni si è convinto che le notizie e i commenti siano gratis e oltretutto lo invitino direttamente a partecipare ad ogni sorta di dibattito.
Questo è noto. Però esiste una aggravante che riguarda proprio i programmi in onda sul piccolo schermo, totalmente scaduti, con qualche rara eccezione. Prendiamo i telegiornali. Sono tutti uguali, ripetitivi, noiosi, punto interessanti. I servizi sono scontati e proposti con scarsa professionalità.
A un certo punto scatta un collegamento con Parigi o Londra. Compare un corrispondente che dice quattro bischerate prive di qualsiasi originalità sul COVID o su una seduta dai contenuti incomprensibili dell'Unione Europea.
Domina sempre la pandemia in qualunque servizio corredato di tabelle delle quali fai a tempo a leggere due cifre, poi scompaiono cosicché non capisci nulla. Ricorrono spesso le immagini di una fabbrica del Sud che chiude i battenti perché in procinto di delocalizzare. Segue intervista lagnosa a un paio di sindacalisti scandalizzati.
Mai un accenno alle ragioni degli imprenditori che in Italia sono sempre considerati mascalzoni, affamatori di operai e relative famiglie. Ed ecco un filmato che documenta l'uso delle mascherine e pone l'accento sugli assembramenti pericolosi ai fini dei contagi.
Due palle vicine all'esplosione. I fatti di cronaca, quelli della vita, sono liquidati in fretta e furia. Quindi la politica: la battaglia per il Quirinale il cui esito preme soltanto ai partiti dei quali non importa a nessuno.
Rapide sequenze su Mattarella e su Draghi, roba dozzinale che non spiega assolutamente nulla. Di quello che succede nella tribolata società italiana, neanche un cenno o solo un cenno.
Questo andazzo accomuna qualsiasi canale. C'è un'aggravante. I conduttori hanno sempre fretta, chiacchierano velocemente e non afferri il senso dei loro discorsi. Insomma una grande confusione e una totale incapacità di comunicare in modo colloquiale.
Quando poi terminano i notiziari, con grande sollievo degli spettatori, attacca la pubblicità, perfino peggiore del resto. Gli spot sono talmente fumosi che non riesci neppure a comprendere quale sia il prodotto reclamizzato. Trionfano materassi e divani, poltrone e utensili di cui si ignora la funzione. I famosi consigli degli acquisti sono pessimi sotto il profilo estetico, più scadenti dei tg che dovrebbero raccontarci il Paese.
Un esempio. C'è una inserzione visiva riguardante una assicurazione che mostra un'auto con tre passeggeri e un cane. Si ode un fragoroso peto. Che serve per invitare gli spettatori a sospettare di chi si frequenta.
Per completare il quadro squallido, un altro spot in cui si accenna alle feci dure da eliminare con un farmaco. Questa antologia di schifezze va in onda durante le ore dei pasti. Siamo a livelli sottoterra.
Gabriele Marchetti: «“Ciao Darwin” e l’incidente che mi ha reso tetraplegico. Bonolis? Non mi ha mai cercato». Giulio De Santis su Il Corriere della Sera il 13 Giugno 2022.
Parla Gabriele Marchetti, il concorrente della trasmissione di Canale 5 «Ciao Darwin» rimasto paralizzato dopo un gioco. «Ora sono senza autonomia e dipendo totalmente da mia moglie e mio figlio».
Con un velo d’imbarazzo, Gabriele Marchetti, il concorrente della trasmissione «Ciao Darwin» rimasto tetraplegico dopo essere scivolato sui rulli durante la prova del «Genodrome», dice di non saper descrivere quello che prova, e invece le sue parole sono un pugno nello stomaco per come raccontano la sua tragedia: «Prima di quel giorno ero un uomo che faceva mille cose. Adesso per me è finito tutto».
Da quel giorno, il 17 aprile del 2019, sono passati più di tre anni, ben 1152 giorni: «Ma Paolo Bonolis non mi ha mai cercato per sapere come sto. Neanche persone a lui vicine mi hanno mai contattato». Tiene a sottolineare Marchetti che «soltanto qualcuno della produzione all’inizio si è fatto sentire per telefono e per mail con la mia famiglia per conoscere la mia condizione fisica. Si sono messi a disposizione per ogni eventuale nostra necessità. Poi però non ci sono stati altri contatti».
La sua seconda vita, quella seguita al drammatico incidente, è un susseguirsi di giornate «noiose e molto lunghe poiché non posso fare niente, nessuna attività – dice Gabriele - Sono completamente privo di autonomia e dipendo totalmente da mia moglie Sabrina e mio figlio Simone per lo svolgimento di ogni atto quotidiano». Nella sua prima vita, Gabriele, un omone dolce e molto coraggioso, rimarca con orgoglio e inconsolabile nostalgia un punto fermo: «Ho sempre lavorato e mi sono dedicato alla famiglia».
Anche il giorno della tragedia aveva lavorato: «Come sempre d’altronde. Poi verso le 11 sono andato presso gli studi televisivi della Titanus per la registrazione della trasmissione». Nel ricordare i giorni precedenti all’appuntamento con «Ciao Darwin», Gabriele non nasconde di essere stato «contento per la novità di poter partecipare a una trasmissione televisiva e fare una nuova esperienza. Avevo condiviso, come sempre, con Simone e Sabrina quest’avventura. «Pensavo di passare una serata diversa e divertirmi» dice Gabriele che nella testa ha marchiato a fuoco ogni frammento degli istanti successivi alla caduta dai rulli: «Ero finito in acqua a testa in giù, con le gambe rannicchiate e le braccia raccolte – ricorda - Pensavo che sarei affogato perché non riuscivo a muovere nulla. Poi ho sentito i soccorritori che sono intervenuti immediatamente».
I rulli sui cui è caduto Marchetti – assistito dagli avvocati Federica Magnanti e Giovanni Ciano - sono al centro del processo a quattro dirigenti, di cui due al vertice di Rti (Reti televisive italiane, società confluita in Mediaset), accusati dal pm Alessia Miele di lesioni gravissime perché la loro superficie sarebbe stata resa «scivolosa» per rendere più difficoltosa la prova. Quando ha riaperto gli occhi, per Gabriele è arrivato il maledetto verdetto: sarebbe rimasto tetraplegico, per sempre. «Per me è stato il crollo totale – confessa Gabriele - Mi sono sentito disperato, come i miei familiari poiché ci siamo ritrovati da un giorno all’altro con la vita completamente stravolta». Cosa gli manca, tra le tante cose che non potrà più fare? «Amavo tanto giocare a calcetto».
"Bonolis non mi ha mai cercato": lo sfogo del concorrente di Ciao Darwin rimasto invalido. Francesca Galici il 13 Giugno 2022 su Il Giornale.
Gabriele Marchetti da 3 anni soffre di una tetraparesi a causa di un incidente occorso durante la prova del genodrome di Ciao Darwin.
Gabriele Marchetti è il concorrente di Ciao Darwin vittima di un incidente durante lo svolgimento di uno dei giochi più amati del programma condotto da Paolo Bonolis, il genodrome. Era una sorta di giochi senza frontiere concentrato in un tempo più limitato e con giochi studiati per mettere alla prova le capacità atletiche dei concorrenti. Ma qualcosa durante la prova di Gabriele Marchetti è andata storta e l'uomo, da quel giorno, deve fare i conti con una tetraparesi.
Quella partecipazione doveva essere una parentesi divertente in una delle tante giornate trascorse da Marchetti tra famiglia e lavoro. "Poi verso le 11 sono andato presso gli studi televisivi della Titanus per la registrazione della trasmissione", ha ricordato l'uomo, intervistato dal Corriere della sera. "Pensavo di passare una serata diversa e divertirmi", spiega ancora ma durante il gioco dei rulli, una caduta ha cambiato per sempre il corso della sua vita. "Ero finito in acqua a testa in giù, con le gambe rannicchiate e le braccia raccolte. Pensavo che sarei affogato perché non riuscivo a muovere nulla. Poi ho sentito i soccorritori che sono intervenuti immediatamente", racconta, con i ricordi ancora vividi di quella giornata.
L'uomo è assistito dagli avvocati Federica Magnanti e Giovanni Ciano ed è in corso un procedimento giudiziario per appurare le responsabilità di quanto accaduto. Il pm Alessia Miele accusa quattro dirigenti di lesioni gravissime perché, in base a quanto emerso, la superficie dei rulli sui quali è caduto Gabriele Marchetti sarebbe stata resa maggiormente scivolosa per aumentare il livello di difficoltà della prova. Marchetti, che è sempre stato un uomo molto attivo e sportivo, oggi ammette di essere completamente dipendente da sua moglie e da suo figlio, che devono aiutarlo in ogni azione delle sue giornate, "noiose e molto lunghe poiché non posso fare niente, nessuna attività".
Durante l'intervista, Gabriele Marchetti ha dichiarato di non aver mai avuto contatti con il conduttore del programma: "Paolo Bonolis non mi ha mai cercato per sapere come sto. Neanche persone a lui vicine mi hanno mai contattato". Ammette che all'inizio ci sono stati alcuni scambi con qualcuno della produzione, che "si è fatto sentire per telefono e per mail con la mia famiglia per conoscere la mia condizione fisica. Si sono messi a disposizione per ogni eventuale nostra necessità. Poi però non ci sono stati altri contatti".
Ciao Darwin, il concorrente paralizzato smentito dalla sua legale: dopo l'incidente, Paolo Bonolis...Libero Quotidiano il 14 giugno 2022
Ha fatto molto discutere l'ultima intervista di Gabriele Marchetti rilasciata al Corriere della Sera. L'uomo era diventato tetraplegico a causa del gioco 'Genodrome' nel talent show televisivo Ciao Darwin condotto da Paolo Bonolis, esattamente il 17 aprile 2019. Durante l'intervista Marchetti ha accusato il conduttore romano di non essersi mai fatto vivo e di non essersi mai interessato sulle sue condizioni di salute. Sulla questione sono subito dopo intervenuti i legali di Bonolis a chiarire le dinamiche.
L'avvocato Federica Magnanti, legale dello stesso Marchetti, ha dichiarato al Corriere della Sera: "Paolo Bonolis ha chiamato una volta la moglie e una volta il figlio di Gabriele Marchetti. Queste due telefonate sono avvenute nei giorni successivi all’incidente. Qualche mese dopo, invece, la moglie di Bonolis ha cercato la moglie di Marchetti, perché interessata a sapere come stesse il mio assistito". La versione sarebbe quindi molto differente da quella rilasciata da Gabriele.
Marchetti, secondo quanto ha aggiunto il Corriere, avrebbe anche ritirato la querela contro i responsabili della trasmissione a fronte di un risarcimento da Rti, la somma erogata dalla società però non è stata resa nota. Procede comunque il processo penale che vede quattro persone imputate e accusate di lesioni, ovvero Sandro Costa e Massimo Porta (della società Rti, confluita in Mediaset), di Massimiliano Martinelli (Maxima) e di Giuliano Giovannotti (Sdl 2005), che si occuparono della selezione dei partecipanti e delle attrezzature per i giochi dello show.
La nascita del Tg5 trent’anni fa, con la promessa di credibilità. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 14 Gennaio 2022.
Dai complimenti di Berlusconi al messaggio d’auguri del presidente Cossiga fino al primo intoppo tecnico: i ricordi del compleanno del notiziario di Mediaset.
Martedì 13 gennaio 1992 andava in onda il Tg5 diretto da Enrico Mentana. Il Corriere ne dà notizia il giorno seguente con due articoli nelle Cronache italiane: la recensione del critico (di tutto il pezzo salverei una frase: «Ci sarebbe ancora un aggettivo per definire la qualità di un Tg, credibile. La credibilità è il bene più prezioso dell’informazione, la sua pulizia: insegna a promettere poco e dare molto. Auguri al Tg5 di Enrico Mentana. Ma il difficile viene ora») e il pezzo di cronaca firmato Corrado Ruggeri. Molto più interessante. C’è il racconto dell’arrivo al centro di produzione Safa Palatino di Cristina Parodi su un’Alfa 164 con autista, «una specie di zucca fatata che la porta, da Cenerentola del 2000, nel mondo dell’informazione miliardaria».
Silvio Berlusconi si materializza su uno schermo per i primi complimenti dopo l’edizione delle 13: «Mi piacciono pulizia, ritmo e scelta delle notizie». Si insiste molto sul fatto che il nuovo tg si rivolge alla gente più che al Palazzo. C’è il commento di Biagio Agnes, ex presidente della Rai: «Copiare per copiare, hai copiato le 13,30 invece delle venti». Spiega Mentana: «Tradotto dal “raiese” vuol dire che secondo Agnes ho scelto la linea popolare». Il presidente Cossiga manda un messaggio di auguri: «Mi auguro che il Tg5 con la sua corretta informazione accompagni i cittadini italiani nel loro sforzo per la rifondazione di una Repubblica fondata sul nuovo patto nazionale all’insegna della democrazia e della libertà». Dal raiese al cossighese. Poi c’è il commento al primo intoppo tecnico, su un delitto di Firenze, con il servizio che dalla regia non parte e, per concludere il primo cicchetto di Mentana «severo ma con garbo». Non si capisce bene però a chi si rivolga: «Non ti preoccupare, anch’io ho sbagliato il primo giorno, ero troppo gasato. Abbassati di un tono, ma non smettere mai di essere entusiasta». Trent’anni fa.
Pier Silvio Berlusconi : «30 anni di Tg5, un punto di riferimento». Renato Franco su Il Corriere della Sera il 12 gennaio 2022.
Clemente Mimun, direttore dal ‘94, traccia il bilancio di questi trent’anni.
«Trent’anni e sembra un soffio. Mi pare ieri che eravamo a casa di Mentana con Lamberto Sposini. Ci facciamo una chiacchierata con un caffè. Enrico mette giù le idee e le scrive a macchina con una Lettera 32 su un foglio giallo, 10 righe di piano editoriale da presentare a Silvio Berlusconi che era il nostro editore. Creammo un tg diverso, dalla parte degli spettatori, fuori dalle logiche del Palazzo». Il 13 gennaio 1992 nasceva il Tg5. «Il primo giorno fu elettrizzante: battemmo il Tg1 di Vespa di tremila spettatori».
Clemente Mimun, direttore dal 2007, traccia il bilancio di questi trent’anni. «Io non amo particolarmente gli scoop, in Italia si riducono a nient’altro che un verbale della Procura e io ne faccio volentieri a meno perché sono un modo per fare il tifo per uno o per l’altro. Il nocciolo è fare bene il proprio mestiere giorno per giorno, raccontare la quotidianità in modo interessante. La mia linea editoriale è sempre la stessa: “informare senza annoiare” (formula cara a Enzo Biagi) e “i fatti separati dalle opinioni”, scelta storica di Lamberto Sechi». Il Tg5 ha avuto solo tre direttori: Enrico Mentana, Carlo Rossella e Mimun appunto. «La continuità è un elemento di grande forza rispetto ai tg Rai che nello stesso periodo hanno cambiato direttore ogni 2-3 anni. Siamo tre persone completamente diverse, ma animate dalla stessa passione, mai divisi da nessuna invidia. Mentana è un fuoriclasse anche e soprattutto davanti alla telecamera, e poi è un grande motivatore; Rossella è apparentemente più pacato, ma il suo gusto sul piano internazionale e del costume ha trasformato il notiziario in un tg brillante, elegante, pieno di cose. Nel tg che faccio io invece c’è sempre molto ambiente, i temi legati alla difesa degli animali, il costume come spinta al made in Italy perché penso che bisogna aiutare il Paese. Siamo i primi sul target commerciale, che è quello che interessa ai pubblicitari, imbattibili da trent’anni».
Pier Silvio Berlusconi ha sottolineato che «il Tg5 è riconosciuto come un punto di riferimento assoluto dell’informazione italiana. Trent’anni di credibilità, modernità, innovazione conquistati grazie al lavoro di tutti i giornalisti del tg, del fondatore Enrico Mentana e alla bravura dei suoi successori Carlo Rossella e Clemente Mimun». Qual è il suo rapporto con l’editore? «Noi fin dal ‘92 sappiamo che ci lascia assoluta libertà. Quando Silvio Berlusconi è sceso in campo, nonostante qualche pretestuosa critica, il Tg5 non è mai stato fazioso. Il lavoro di Pier Silvio è sotto gli occhi di tutti: ha ottimizzato l’azienda sul piano organizzativo e ha fatto di tutto per darci i mezzi tecnologici più moderni, all’altezza dei grandi network mondiali».
"Un miracolo senza numero 0 e grazie a 10 comandamenti". Valeria Braghieri il 13 Gennaio 2022 su Il Giornale.
Dall'esordio con Mentana fino alla lunga era Mimun Storia del notiziario Mediaset, "che partì nel caos..."
«Una simpaticissima situazione, voi potete benissimo immaginare». Quei minuti da riempire in onda, in attesa di lanciare un servizio che non arriva, quello sull'omicidio di Genova, valevano già tutto Enrico Mentana e la sua formidabile tagliola lessicale. A chiunque altro sarebbero salite onde di panico nel petto. «Ancora un attimo... Sentiamo la regia... D'altronde il nostro è un telegiornale neonato e questa prima edizione delle 20 non poteva che iniziare con l'attesa di un servizio...». La cornetta bianca del telefono interno, gli occhiali sistemati compulsivamente, una montagna di riccioli e il disagio raschiato in gola. Non arrivò il servizio sul giallo di Genova, bensì quello sull'omicidio di Firenze. Ma in quel momento lui, Mentana, e Mediaset, e lo studio Palatino «in» Roma, erano dentro, nel centro pieno, di qualcosa di grande e gli imprevisti, valevano l'avventura. Era il 13 gennaio 1992. Ed erano le 20 perché chi gioca nella serie A dei tiggì, gioca alle 20. Bisognava fare ciò che nessuno osava fare: andare contro la corazzata del Tg1 in prima serata, e contro quella del Tg2 all'ora di pranzo. E per questo c'era Silvio Berlusconi. Che lo spiegò bene «ai suoi», ancora prima di cominciare, conquistandoli col suo seducente progetto: se facciamo un notiziario, bisogna sfidare i grossi notiziari. Si andò a piazzare proprio dove tutti gli altri scappavano. E, complice la legge Mammì che aveva appena consentito le trasmissioni in diretta anche per le emittenti private, pretendo in cambio uno spazio di informazione, Berlusconi catapultò sugli schermi il suo Tg5 e l'Italia in avanti di vent'anni. Le sigle, i colori, le luci, i titoli di cronaca, il pastone politico snello, il linguaggio diretto. «Informare senza annoiare» sintetizzò poi Clemente J. Mimun, uno dei direttori più longevi della testata Mediaset (gli altri sono stati Mentana e Carlo Rossella), nonché attuale direttore. Quindi la formazione: Mentana, Parodi, Buonamici. Crederci per essere credibili. Enrico alle 20, Cristina alle 13, Cesara a mezzanotte. E gli spettatori in poltrona, impazienti e inchiodati allo schermo da piccole fitte di aspettativa: era finita la routine della solita tv. Salpava il notiziario dell'ammiraglia Mediaset e presto speronò il servizio pubblico in termini di ascolto e popolarità. Andò a prendersi il target pregiato, assieme alla legittimazione sociale, alla cittadinanza sociale che solo una tv munita di informazione può avere. E che informazione. Scoop, interviste, copertura «totale». Con l'estetica berlusconiana perfettamente incarnata dagli Sposini, dalle Parodi, dalle Buonamici... Dinamica, solare, vincente. Il Tg5 entrava nelle case così: attraente benchè severo. Crescere, senza invecchiare fino ad arrivare ad essere «istituzionali» è stato il mantra del nuovo tg. Improsciuttato tra il quiz della sera e l'access prime time di Striscia la Notizia e dei suoi mostruosi ascolti. «Oggi il Tg5 compie trent'anni ed è riconosciuto come il punto di riferimento assoluto dell'informazione italiana» commenta con orgoglio Pier Silvio Berlusconi.
E Mimun ripercorre la storia della sua creatura «libera e agile»: «Ricordo perfettamente quel primo giorno. Mentana si esibì in uno slalom nello studio perché i pezzi non si trovavano. Pensavamo che sarebbe stato un disastro e invece il giorno dopo scoprimmo che con più di sette milioni avevamo battuto il Tg1. Mentana ci convocò in casa sua. C'eravamo Lamberto Sposini ed io. Prese un foglio giallo, lo infilò nella macchina da scrivere e scrisse i dieci comandamenti del tg da mandare a Berlusconi. Il tutto tra caffè e risate. Andammo in onda senza aver mai fatto un numero zero». Se lo ricorda bene anche Mentana, infatti: «È come una bellissima casa che si è costruita. Poi, come succede nella vita, si cambia casa, ma resta il bellissimo ricordo di averla edificata, lanciata, di averci vissuto a lungo».
L'intervista di Mentana al piccolo Farouk Kassam nello speciale delle 22, quella di Sposini al giudice Paolo Borsellino, o lo stesso Sposini che sbrana un pollo in diretta durante la psicosi per l'influenza aviaria... «Un telegiornale meno paludato rispetto a quello della televisione di Stato, con un carattere più informale, pronto a dare più spazio alla cronaca. Ma anche a caccia di scoop e rigoroso nel racconto delle crisi del tempo, come ad esempio quella di Tangentopoli», è così che lo descrive Emilio Carelli che nel 1992 ha partecipato alla fondazione della testata Mediaset.
Lui e tutta quella squadra di giovani adulti che «fecero l'impresa». Valeria Braghieri
Cesara Buonamici, inquietante sospetto sulla pandemia: "Lo avevo capito sin dal primo speciale". Gianluca Veneziani Libero Quotidiano il 14 gennaio 2022.
In occasione dei 30 anni del Tg5 che cadono oggi (auguri!), arriva la benedizione dell'ad di Mediaset Piersilvio Berlusconi: «Il Tg5 è riconosciuto come punto di riferimento assoluto dell'informazione italiana», avverte. «30 anni di credibilità, modernità e innovazione sono stati conquistati grazie al lavoro dei giornalisti del tg che hanno contribuito a renderlo un vero e proprio servizio per il pubblico». E di quella storia è fondatrice e testimone diretta Cesara Buonamici, la più longeva a livello professionale delle giornaliste del Tg5.
Buonamici, il 13 gennaio 1992 lei condusse la prima edizione della notte. Che ricordi ha?
«Per cominciare, una grandissima ansia. E poi l'immagine di un impegno totalizzante: in quel periodo lavoravamo continuamente. Riguardando la prima edizione, mi chiedo perché indossassi quella giacca di color cammello, un colore che non ho mai più portato. Quasi non mi riconosco (sorride, ndr). Finimmo quella prima giornata stremati, ma l'indomani i risultati ci diedero ragione».
Qual è il motivo del successo perdurante del Tg5?
«Penso che il Tg5 abbia conservato l'anima degli inizi: è un tg serio ma non serioso. Noi non volevamo fare le veci del servizio pubblico, ma stare dalla parte della gente. La protagonista deve restare la notizia: bisogna farsi capire, senza dare messaggi trasversali o parlare in burocratese».
E qual è il segreto che le permette di restare da 30 anni a condurre il Tg5?
«Il mio segreto è non avere segreti. Io sono quella che i telespettatori vedono in tv. Non ho mai pensato di costruire il mio personaggio e alla gente a casa è piaciuto questo modo di fare».
Il direttore Mimun ha detto di lei: «Cesara è la più brava conduttrice di tg in Italia. Non ha bisogno di mettersi di sbieco come la Gruber o di far finta di sapere tutto come la Busi».
«Mi ha fatto piacere leggerlo. Conosco la Gruber da anni. Lei ha il suo stile, io ne ho un altro. Non la critico perché è brava. L'importante è non costruirsi diversamente da come si è».
Non ha mai pensato di poter diventare lei direttrice del Tg5?
«Non ci penso né sono smaniosa di diventarlo. Mimun ha quel quid in più di visione che gli permette di fare da guida. Per essere direttore ci vuole il talento dell'allenatore».
Ha mai avuto offerte da altri Tg?
«Ho avuto in passato due offerte dalla Rai e una da La7. Però ho sempre scelto di rimanere qua perché quest'azienda ti rispetta e ti lascia libero. Mentre in Rai ho sempre visto la politica come un elemento caratterizzante che può portarti in alto ma può anche farti precipitare».
Tra le colleghe chi ammira di più?
«Alessandra Sardoni è bravissima. Ormai nei tiggì ci sono tante donne, abbiamo occupato molti spazi. Nel nostro settore non c'è alcuna discriminazione».
Giusto esibire il crocifisso in conduzione come fa Marina Nalesso del Tg2?
«Io sono molto religiosa, ma non penso abbia senso mostrare il crocifisso al Tg».
Tifa per una donna al Quirinale?
«Non riesco a riconoscermi in questa battaglia. Sono amica delle donne, ma vinca il migliore, non perché donna. Le battaglie per le quote rosa non fanno per me».
Nel febbraio 2020 pronunciò una frase profetica sul Covid: «È più di un raffreddore, non è la peste».
«Sì, ma è qualcosa che non conosciamo ancora perfettamente. Già dai primi speciali che ho fatto in tv avevo capito che non ce ne saremmo liberati rapidamente. Ai No Vax direi: se non ci fosse questa massa di vaccinati, staremmo a contare un numero di morti enorme. Ci riflettano su».
DAGOREPORT il 18 ottobre 2022.
C’è una bella differenza da quando il “Corriere della Sera” consentiva ai suoi lettori di leggere gratis, in anteprima, un capolavoro come “Il profumo” di Suskind e i markettizzati tempi odierni in cui i lettori si ritrovano a dover forzosamente acquistare, a pagamento, il romanzetto di Simona Sparaco per poter leggere il “Corriere della Sera”.
Di sabato, infatti, il “Corriere” costa 3 euro poiché è obbligatorio prenderlo con “Io Donna” e, adesso, pure con l’allegato di “Io Donna”, ovvero il romanzetto di Simona Sparaco, “La vita in tasca”, una storiella di due ragazzini, Mattia e Malik, che ‘’nasce su invito dell’Unicef per sostenere la scuola nei paesi disagiati’’. Il quale, per giunta, è dato in più volumi, così in più sabato si è costretti a queste modalità di acquisto.
A questo punto, a qualcuno, sarà pur venuto il gusto di sapere chi sia cotanta scrittrice. Ebbene, ve lo diciamo noi. È niente po’ po’ di meno che la giovane seconda moglie di Massimo Gramellini, vicedirettore del “Corriere” portato dal patron, Urbano Cairo, in via Solferino, pare con un lauto stipendio. La quale, va detto, è già finita in finale del premio Veltroni-Strega, quello che assegnano al ninfeo di Villa Giulia gli Amici della domenica, essendo Veltroni-officianti più o meno tutti gli scrittori-colibrì utilizzati in via Solferino.
Sparaco, grande sostenitrice del #metoo, è molto cosciente della difficoltà del ruolo delle donne, come disse in una intervista a “Libreriamo”: “La grande sfida di oggi per le donne è essere valorizzate quanto gli uomini. Sono, infatti, troppi i settori in cui sono sottostimate. Non bastano le quote rose per ottenere davvero dei risultati”.
No, per ottenere dell’altro ci vogliono altri mezzi perché “essere donne oggi non è facile”, sebbene, “rispetto a ieri, come donne siamo sicuramente più fortunate e viviamo una condizione privilegiata” (ah ecco!).
Del resto a molte mogli dei vicedirettori del “Corriere” si sono spalancate straordinarie opportunità di scrittura e di successo: perché non sarebbe dovuto accadere anche per quella di Gramellini?
Quella di Giampaolo Tucci è una scrittrice di ricette e diventata responsabile dell’area Food del “Corriere”. Quella di Venanzio Postiglione di salute e benessere (oltreché consigliera di amministrazione di società musicale). Per tutte non mancano foto e pagine. Ci sono poi due doppie coppie interne: lei vicedirettore e lui inviato/scrittore. Un “Corriere” fatto in famiglia, insomma,
Dagospia il 6 ottobre 2022. COMUNICATO SINDACALE
Cari lettori, il Corriere della Sera e il sito Corriere.it oggi e domani non avranno le firme dei giornalisti del vostro quotidiano che, in questo modo, intendono protestare contro la decisione dell’azienda di chiusura del tavolo di confronto sulla flessibilità del lavoro, utilizzata per fare un giornale di qualità anche nei momenti più complessi degli oltre due anni di pandemia, e per il pessimo stato delle relazioni sindacali con l’azienda. I giornalisti del Corriere, inoltre, sono ancora in attesa di conoscere i dettagli industriali della fusione tra Rcs Mediagroup spa e Rcs Edizioni locali che l’azienda, in una comunicazione al Cdr, al momento ha posticipato. Troverete le firme dei collaboratori, molti pagati a pezzo e al minimo contrattuale, che altrimenti perderebbero la loro retribuzione.
Il Cdr
(Domenico Affinito
Gian Luca Bauzano
Giuditta Marvelli
Maria Rosaria Spadaccino)
RISPOSTA DELL'EDITORE
La fusione per incorporazione di Rcs Edizioni Locali in Rcs MediaGroup rappresenta un passo importante di valorizzazione delle edizioni locali che avranno modo di partecipare con maggiore coinvolgimento alla vita della azienda e contribuiranno meglio, con questa nuova organizzazione, alla qualità e alla completezza informativa del Corriere della Sera.
L'azienda ribadisce inoltre che i contenuti indipendenti, autorevoli e di qualità del Corriere della Sera sono il risultato di una tradizione di lavoro in presenza che valorizza il confronto, il dibattito e lo scambio di opinioni tra i giornalisti.
Per questo l'Azienda ritiene che, dopo un periodo di emergenza in cui lo smart working ha funzionato, sia ora il momento di tornare al modello lavorativo in presenza. Infine si ricorda che il Corriere può contare su una redazione di 470 giornalisti dipendenti a cui si aggiunge un parco di collaboratori di oltre 1.700 persone, risorse fondamentali che contribuiscono alla qualità informativa quotidiana, e verso cui l'Azienda nutre il massimo rispetto.
Corriere della Sera condannato: per i giudici inglesi non fa giornalismo. Renato Farina su Libero Quotidiano il 18 agosto 2022
Il giudice inglese ha impartito in 8 pagine secche e ironiche, com' è nello stile della giustizia di Sua Maestà, una lezione di civiltà al Corriere della Sera e ai suoi giornalisti. In sintesi: non si dà notizia di un'indagine su Tizio e Caio, facendone nome e cognome, senza interpellare l'interessato e comunque anticipando in edicola o sul web l'avviso di garanzia, modo sicuro per rovinare la reputazione di una persona. Direte: che c'entra l'Alta Corte di Sua Maestà? Pazienza e vedremo come e perché "Rizzoli Corriere della Sera Group, Fiorenza Sarzanini, Mario Gerevini, Fabrizio Massaro" debbano intanto pagare le spese legali, e saranno chiamati nel prossimo novembre a difendersi in sede civile dall'accusa di diffamazione. Nel linguaggio cinematografico e televisivo quel che abbiamo scoperto sui guai del Corriere della Sera a Londra è uno spin-off, una filiazione della trama principale. Nel nostro caso trattasi di un ramo fiorito per conto suo dal tronco del grande processo del millennio in corso in Vaticano sulle presunte mascalzonate connesse alla compravendita del Palazzo sito a Chelsea, London, numero 60 di Sloane Avenue. Per intenderci, stiamo parlando del processo chiamato impropriamente "Becciu", dal nome dell'imputato più famoso tra i dieci, laici ed ecclesiastici. Impropriamente due volte, perché il cardinale sardo con quel Palazzo non c'entra nulla. È vero che è stato privato da Francesco il 24 settembre del 2020 del diritto ad entrare nel prossimo conclave con una "crocifissione cautelare" ancora in corso. A spulciare però lettere e relazioni rintracciabili tra le 30mila pagine depositate dal Promotore di Giustizia (la Procura vaticana), si evince che il porporato di Pattada, al tempo dei maneggi su 60-Sloane (primavera 2019 e seguenti), non era in condizione di decidere alcunché sul "Palazzo dello scandalo". Ne sapremo di più - si spera - da una fonte giudiziaria indipendente.
Infatti, come ha raccontato in esclusiva Libero lo scorso l'11 agosto, tra poco partirà un processo parallelo sul Tamigi. Ma il sottoscritto che ha firmato l'articolo dev' essere stato anch' egli intossicato dal fumus persecutionis prodotto a tonnellate dai quotidiani del triangolo magico del potere (Torino, Milano, Roma). Così ho attribuito l'imputazione di corruzione a Raffaele Mincione, finanziere che aveva indicato per primo l'investimento nel mattone crimine per cui neppure il professor Alessandro Diddi, pm vaticano, si è mai sognato di chiedere il rinvio a giudizio. Errore di cui mi scuso, tanto più che Mincione, sicuro del suo retto agire, è colui che ha chiamato la Segreteria di Stato della Santa Sede davanti alla "Alta Corte d'Appello civile d'Inghilterra e del Galles" dove è stata condannata a pagare 300mila sterline, aprendo la strada a novità che promettono di essere sorprendenti.
OSSO SEPOLTO La premessa si è fatta lunga, ma necessaria per capire come ci è finito tra le mani qualcosa che se ne stava nascosto come una talpa nel sottosuolo delle notizie che siccome danneggiano la Voce del padrone sono silenziate. Il fatto è che gli avvocati di Mincione, il giorno di Ferragosto, mi hanno via pec preannunciato querela se non mi fossi corretto.
Accertato il mio errore, cui ho appena rimediato, ho cercato di capire se quelli promessi dai legali di Mincione fossero, come spesso capita, tuoni senza fulmini. Ho consultato "Bailii", dove le sentenze inglesi (non le carte segretate!) sono attingibili in totale trasparenza. Ed ecco l'osso sepolto . La sentenza è stata depositata e resa pubblica dal giudice, onorevole Master Davison, lo scorso 12 agosto, al termine del primo round tra le parti, cioè Mincione contro Corriere & C. L'8 novembre del 2019 Fiorenza Sarzanini aveva pubblicato sul Corriere della Sera, cartaceo e web, un presunto scoop: «Roma, la truffa del palazzo venduto al Vaticano con i soldi di Enasarco». In base a «fonti confidenziali» l'attuale vicedirettrice del quotidiano affermava (e afferma ancora: il testo è ancora su Internet) che Mincione è indagato per «associazione per delinquere finalizzata alla corruzione e alla truffa». Segue altro articolo sul web, ad opera di Mario Gerevini e Fabrizio Massaro, in cui si accusa Mincione di essersi «appropriato indebitamente di parte del denaro (200 milioni di dollari) investiti dal Vaticano» sempre in relazione a 60-Sloane. Il giudice manifesta addirittura stupefazione per il costume italiano di pubblicare sui giornali avvisi di garanzia prima che dell'essere indagato sia informato il diretto interessato. Tutto questo mr. Davison se l'è trovato sotto il naso, tranquillamente rivendicato come prassi del rito giornalistico italiano, e perciò impunito e accettato. Questa tesi gli è stata proposta senza alcun rossore nel parere pro-veritate di un avvocato del nostro Paese, nell'udienza del 27 luglio scorso dai legali inglesi dei "defendants". In questa fase del rito civile inglese non siamo ancora al giudizio di merito, se cioè ci sia stata o no diffamazione. Intanto l'Alta Corte della Giustizia di Sua Maestà, sezione Media e Comunicazioni, ha sentenziato che il cittadino italo-britannico Raffaele Mincione, residente a Londra, ha pieno diritto a farsi valere in Inghilterra, ha tacciato di «genericità» le argomentazioni dei «convenuti» (defendants) e toccherà ad essi rifondere le spese legali a Mincione, che saranno quantificate a settembre ma che - ci siamo informati - supereranno le 30mila sterline.
PRASSI INACCETTABILE Davison ridicolizza le tesi corrieriste. Trascrive con un moto di trasalimento le parole dell'avvocato Adam Wolanski: «(Le circostanze da tenere in considerazione da parte del giudice, ndr) "devono, ovviamente, includere gli standard legali e giornalistici applicabili in Italia nel momento in cui gli articoli sono stati preparati e pubblicati". Ha affermato che se la tesi dell'attore (Mincione) era che il giornalismo dei convenuti (Corriere & C) in relazione agli articoli doveva essere giudicato solo con riferimento agli standard legali e giornalistici applicabili in Inghilterra, ciò era "assurdo". Era assurdo perché "ignorava completamente le circostanze più importanti del caso, ossia che gli articoli erano stati scritti in Italia, e in italiano, da giornalisti italiani, per un pubblico italiano"». Ehi, risponde il giudice, assurda è la prassi per cui un giornalista italiano può in base ai costumi giornalistici italiani saltare la legge italiana che pure vieta di rivelare il segreto istruttorio. In Italia facciano quel che gli pare, ma se un articolo sul web è acquistabile a Londra (e lo è) ed offende un inglese, cari miei, usiamo la nostra idea di che cosa valga la reputazione di una persona e come essa sia intangibile. Esiste un giudice a Londra, oltre che a Berlino.
DAGONEWS il 27 gennaio 2022.
Attento Cairo! Le donne del “Corriere della Sera” non ti lasciano dormire sonni tranquilli. Trent’anni fa, al “Corriere”, per contare le donne ti bastavano le dita delle mani.
Raddoppiate, triplicate e quadruplicate incessantemente nell’ultimo decennio, anche grazie a diverse mogli di giornalisti, talvolta vicedirettori, critici e inviati, talvolta grazie a figlie di ex giornalisti o parlamentari, talvolta mogli di ex presidenti del Consiglio…, costituiscono un corpus agguerritissimo della redazione.
La loro qualità ha spinto il giornale a sostenere il blog femminista con borsetta Prada “La 27ma ora”, l’iniziativa “Il tempo delle donne”, ricorrere a una donna per l’ultima nomina in direzione, avere una condirettrice che è anche direttrice di “Sette”, diverse capiredattrici di importanti settori, giovani “scrittrici” tra le collaboratrici, commentatrici di economia, quattro dei cinque membri del comitato sindacale… il tutto in cinque o sei anni.
E’ grazie a loro che giunge forte il favore verso la trasformazione dell’informazione, ad esempio il favore verso lo “smart-working”, che altrimenti quei pitecantropi di maschi resterebbero ancora legati alla vecchia logica di andare in redazione a lavorare.
La loro spiccata capacità critica (anche autocritica?) sta trasformando il paludato giornale borghese e forse “maschilista” e per questo non risparmia la coppia Cairo-Fontana a ogni decisione “non inclusiva”. Prendiamo quelle dell’ultima settimana. A causa dello spostamento di un caporedattore, il direttore ha operato nel modo più tradizionale delle logiche aziendali: il vice è diventato capo, il sottovice vicecapo…
Nessuna nuova iniziativa, niente di particolare: tre uomini spostati di un gradino. Ma le attente giornaliste, non l’hanno mica fatta passare liscia eh! Per una sera intera hanno inondata di email la redazione e il Cdr sottolineando l’assenza di personale femminile in questa operazione, che riguarda, in sostanza, la chiusura notturna al desk.
Poi, causa l’entrata in vigore del Decreto-Legge 7 gennaio 2022 n.1, che prevede l’obbligo per i datori di lavoro di verificare che il personale acceda nei luoghi di lavoro solamente se in possesso di un Green Pass Rafforzato, l’azienda ha chiesto ai giornalisti di trasmettere a un indirizzo di verifica il proprio Green pass.
“Si tratta di documento privato. Perché devo inviarlo? Sono disponibile a mostrarlo a chi di competenza, a entrare in una lista di over 50 con super green pass, ma non mando un mio documento privato”, ha subito attaccato via email la sagace giornalista a tutta la redazione. La stessa che aveva fatto lo sciopero della fame perché la “iniqua” azienda non la assumeva. “Non lo faccio vedere a nessuno”. Cioè, faceva vedere la bilancia, ma non il green pass.
Da iltempo.it il 7 Dicembre 2022.
Tapiro d'Oro a Myrta Merlino. Dopo il comunicato stampa di denuncia del sindacato dei lavoratori di La7 contro i presunti "comportamenti incivili e maleducati" della conduttrice nei confronti dei suoi colleghi, Striscia la Notizia, nella puntata di martedì 6 dicembre, le assegna il famigerato premio. E Merlino, raggiunta da Valerio Staffelli, spiega per la prima volta la sua posizione.
"Davvero lei è un tiranno?", le chiede l’inviato del tg satirico dopo la bufera scatenata dalle accuse del sindacato Rsu il 30 novembre scorso.
"Nelle famiglie ogni tanto esistono buoni umori, cattivi umori, ma sono cose che di solito si gestiscono dentro la famiglia, non fuori", spiega la conduttrice di La7. E riguardo alle indiscrezioni sui presunti massaggi ai piedi da lei richiesti ai suoi collaboratori, la conduttrice afferma: "Non prendete le fonti per buone. Ti sembra una cosa possibile?".
Giulia Turco per fanpage.it il 7 Dicembre 2022.
È un clima caldissimo quello che si respira tra i corridoi di La 7, pochi giorni dopo la "rivolta" dei lavoratori dei programmi esasperati dai comportamenti di Myrta Merlino. Con un comunicato sindacale diversi colleghi hanno lamentato un ambiente sempre più ostile, ormai saturo del disprezzo della conduttrice nei confronti della sua squadra di lavoro.
Nella giornata di giovedì 1 dicembre il testo è stato appeso ai muri della sede di La7, come Fanpage.it ha avuto modo di verificare. Il che avrebbe scatenato, inevitabilmente, l'ira funesta della giornalista.
Le accuse contro Myrta Merlino
La nota sindacale, fuoriuscita tempo record dalle mura di La7 e arrivata a Fanpage.it, sarebbe il culmine di una situazione di disagio che i collaboratori della giornalista subirebbero da tempo.
L'ambiente di lavoro de L'Aria che Tira non godrebbe di ottima fama, almeno stando ai dettagli sui retroscena che diverse fonti anonime riferiscono a Fanpage.it: "Insulta giornalisti e produttori in maniera pesante", racconta chi ha lavorato al fianco di Myrta Merlino. "È il quinto assistente di studio che licenzia in diretta", spiegano. "Gente che lavora in quello studio da 20 anni.
L'ultimo, proprio due giorni prima che uscisse il comunicato". Come confermato anche da Dagospia, che ha spiegato quale sarebbe stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso.
Anche il trattamento nei confronti di assistenti e personale sarebbe discutibile: "Lancia le spazzole in faccia alle parrucchiere", spiega qualcuno, "c'è chi deve occuparsi del suo abbigliamento, dalle scarpe alla biancheria intima". A peggiorare la situazione delle assistenti, sembra che alcune di loro figurino contrattualmente come autrici del programma, così da essere stipendiate direttamente dalla rete.
Chi ha lavorato al suo fianco parla di un vero e proprio “clima del terrore”, spiegando che raramente a contare sarebbe stato il merito di colleghi e assistenti. “Conta quanto riesci ad anticipare i suoi bisogni.
Se non lo fai, se non riesci a tenerle testa lei ti chiama subumano, cretino o battendo le mani come se fossi il suo schiavo”, spiega una fonte a Fanpage.it, confermando anche i racconti sui presunti licenziamenti facili. “Siamo sicuri che si farebbe problemi a licenziare una persona con tre figli che l’ha seguita per anni?”.
Come ha reagito Myrta Merlino
Non devono essere stati giorni semplici per chi si è trovato a gestire la reazione della giornalista. Chi sa, naturalmente, non parla, ma fonti interne alla rete assicurano che c'è un clima di silenziosa soddisfazione tra i lavoratori. Nel frattempo Myrta Merlino è andata in onda regolarmente con le puntate de L'Aria che Tira, allineandosi con la linea condivisa dell'azienda, che è quella del silenzio più totale su tutta la vicenda.
Marco Franchi per “il Fatto quotidiano” il 6 dicembre 2022.
Tutto è cominciato il 30 novembre con un comunicato sindacale, che il giorno dopo è stato affisso nelle bacheche della sede di La7 in via Umberto Novaro, a Roma: "La RSU ha riportato all'Azienda le numerosissime segnalazioni pervenute da parte dei lavoratori sull'atteggiamento della giornalista Myrta Merlino. Il volto di rete frequentemente adotta nei confronti dei colleghi e del personale in appalto comportamenti incivili e maleducati; influenza la possibilità di prolungare contratti di personale specializzato che lavora professionalmente nella nostra azienda e condiziona le turnazioni del personale interno con motivazioni che non possono essere considerate né di tipo professionale e né di tipo etico".
La denuncia della Rsu è stato il lampo, da quel giorno è piovuto un diluvio di assurde, grottesche e quasi comiche denunce - ovviamente anonime - sulle presunte angherie di Merlino e sulle sue bizze da star. Le hanno riportate, giorno per giorno, Fanpage e Dagospia.
Chi lavora con la diva Myrta racconta, per esempio, come pochi giorni fa sia arrivata in sede "tutta infreddolita" e "abbia chiesto a uno degli assistenti di studio di riscaldarle la testa con un phon, salvo poi dare in escandescenze accusando il malcapitato di scompigliarle l'acconciatura".
Tremende, secondo gli anonimi accusatori, le reazioni della conduttrice a inconvenienti o veniali errori di chi lavora con lei: lanci di sgabello, sceneggiate perché il cornetto e il tè della colazione non erano all'altezza delle aspettative, angherie e sfoghi padronali sugli assistenti ("Siete a mia disposizione 24 ore su 24").
A più di qualcuno - scrive Dagospia - sono spettate mansioni non proprio edificanti e in linea con la professione: c'è chi ha dovuto prenotarle la ceretta, chi le ha portato i vestiti in tintoria o persino il cane dal veterinario. Un anonimo lavoratore di La7 ha raccontato al sito di D'Agostino questo retroscena drammatico: "Lei arriva alle 10-10.30 per andare in onda alle 11 e tu devi spiegarle la puntata mentre si lava i capelli e qualcuno le deve spalmare la crema ai piedi".
E ancora, una gola profonda a Fanpage: "Insulta giornalisti e produttori in maniera pesante. È il quinto assistente di studio che licenzia in diretta. L'ultimo, proprio due giorni prima che uscisse il comunicato". E poi "lancia le spazzole in faccia alle parrucchiere e c'è chi deve occuparsi del suo abbigliamento, dalle scarpe alla biancheria intima".
In attesa che Merlino rettifichi o smentisca, o che La7 proferisca almeno una parola su questi scenari da padroni del vapore, se ne può trarre almeno una considerazione di natura quasi psicologica. Pochi mestieri possono sollecitare in chi li pratica un distacco dalla realtà tanto vertiginoso. In altre parole: i giornalisti hanno un drammatico problema di narcisismo.
Non tutti, certo, ma in ogni redazione - proprio ogni redazione - c'è almeno un esimio portatore di questo virus, di questa patologica percezione di sé. Dev' essere per questo che, almeno fino a oggi, i principali giornali nazionali hanno ignorato il caso: forse per paura di guardarsi allo specchio. O forse perché gli studi di Merlino, di giornalisti, ne hanno ospitati e ne ospitano tanti. O ancora, perché Myrta è frequente e apprezzatissima moderatrice di eventi mondani, presentazioni di libri, piccole e grandi camere di compensazione tra politica, giornalismo e quello che c'è in mezzo.
Le parole forse più lucide, sulla professione, sono dell'immenso Sergej Dovlatov in Compromesso: "Sui giornalisti si è espresso in modo eccellente Ford: 'Un cronista onesto si vende una volta sola'. Ritengo tuttavia che questa affermazione sia idealistica. Il giornalismo ha i suoi punti-vendita, i suoi negozi dell'usato e persino il suo mercatino delle pulci. Cioè è un commercio su larga scala". Dove oltre al potere, la moneta più preziosa e vacua - a volte l'unica considerata - è la reputazione, l'affermazione di sé.
DAGONEWS l’1 Dicembre 2022.
Il comunicato sindacale della Rsu La7, con cui vengono denunciati i "comportamenti incivili e maleducati" di Myrta Merlino, ha riattivato la memoria di chi ha avuto il dispiacere di lavorare con la sanguigna conduttrice. Alcuni sussurrano che pochi giorni fa, arrivata in studio, tutta infreddolita, la vispa Myrta abbia chiesto a uno degli assistenti di studio di riscadarle la testa con un phon, salvo poi dare in escandescenza accusando il malcapitato di scompigliarle l’acconciatura.
Chi è passato sotto la scure della giornalista rivela succosi dettagli del suo caratterino. C’è chi vagheggia del lancio di uno sgabello, chi evoca le sceneggiate perché il cornetto e il the trovati per colazione non erano di suo gradimento, le sfuriate agli assistenti ("Siete a mia disposizione 24 ore su 24!"). Le malelingue somministrano un episodio che svela l’indole para-guru della Merlino. Una volta rivelò che il medico le aveva consigliato di staccare dal lavoro, per almeno un mese, perché rischiava di compromettere la sua salute ma dopo una settimana di buoni ascolti con David Parenzo in conduzione il lunedì successivo tornò magicamente guarita e in forma…
Gli assistenti di studio, pagati da La7, lamentano di essere "invisibili" ai suoi occhi: "Una volta telefonò all’amministratore delegato Marco Ghigliani alle 10.55, poco prima di andare in onda, lamentandosi di essere sola in studio, praticamente abbandonata, mentre c’erano dieci persone che erano lì dalle sette del mattino a guardarla sbigottiti…". I più cattivelli insinuano: "Chissà se la giornalista che fa l’inviata è la stessa che faceva la baby sitter ai figli di Myrta…".
Altri recriminano di essere destinati a compiti non attinenti con le mansioni per cui vengono stipendiati dall’emittente. C’è chi ha dovuto persino prenotare la ceretta alla Merlino e chi doveva portarle i vestiti in tintoria o i cani dal veterinario: "Lei arriva alle 10-10.30 per andare in onda alle 11 e tu devi spiegarle la puntata mentre si lava i capelli e qualcuno le deve spalmare la crema ai piedi…". Alcuni redattori sostengono di essere stati messi a lavorare alle presentazioni degli eventi che la Merlino avrebbe dovuto moderare (remunerata) fuori da La7.
Il "casus belli" che però ha innescato il comunicato sindacale sarebbe il mancato rinnovo del contratto dell'assistente di studio, non particolarmente simpatico alla conduttrice. Già nel 2015, un articolo del "Fatto quotidiano" rivelava gli scazzi di Myrta con il personale dello studio (cameramen, fonici e addetti ai lavori): "La giornalista napoletana si è resa protagonista di un acceso scambio con i tecnici dello studio durante una pausa pubblicitaria, così acceso che sono dovute intervenire le rappresentanze sindacali. Si genera un alterco che degenera con urla da entrambe le parti…"
La RSU, nell’incontro sindacale del 30 novembre, ha riportato all’Azienda le numerosissime segnalazioni pervenute da parte dei lavoratori sull’atteggiamento della giornalista Myrta Merlino conduttrice del programma L’Aria che Tira.
Il volto di rete frequentemente adotta nei confronti dei colleghi e del personale in appalto comportamenti incivili e maleducati; influenza la possibilità di prolungare contratti di personale specializzato che lavora professionalmente nella nostra azienda e, condiziona le turnazioni del personale interno con motivazioni che non possono essere considerate né di tipo professionale e né di tipo etico.
La RSU esprime la sua ferma contrarietà nei confronti del comportamento della conduttrice ed auspica che dopo questa formale segnalazione vengano finalmente adottate le necessarie misure da parte dei vertici aziendali al fine di ripristinare il corretto rapporto individuo - Azienda e di ristabilire il giusto clima lavorativo, ad oggi deteriorato.
RSU La7 Roma, 01 dicembre 2022
Da insider.ilfattoquotidiano.it del 30 novembre 2015
Settimana complicata quella appena trascorsa per Myrta Merlino e la sua l’Aria che tira contenitore mattutino de La7 arrivato alla sua quinta edizione. La giornalista napoletana si è resa protagonista di un acceso scambio con i tecnici dello studio durante una pausa pubblicitaria, così acceso che sono dovute intervenire le rappresentanze sindacali con tanto di comunicato stampa affisso ad ogni piano dello stabile di via Novaro, dove tutti i giorni vanno in onda le edizioni dei Tg di Mentana e i vari programmi di approfondimento da "Omnibus" a "Otto e mezzo". Già da tempo i rapporti tra la Merlino e il personale dello studio (cameramen, fonici e addetti ai lavori) non è idilliaco.
Lunedì mattina, poco prima delle 12, un microfono ha un banale problema di batterie. Pubblicità. Il fonico mentre si avvicina viene apostrofato dalla Merlino con parole poco amorevoli, accusato di "non saper fare il proprio lavoro".
Si genera un alterco che degenera con urla da entrambe le parti. Dopo pochi giorni alle caselle di posta elettronica di tutta la7 viene notificato il comunicato delle Rsu de la7 con questo testo: "Negli ultimi tempi, purtroppo, si sono verificati nuovamente alcuni comportamenti irriguardosi nei confronti di colleghi del settore tecnico e di produzione.
Per la RSU La7 il rispetto e la buona educazione verso ogni collega, che con professionalità e impegno svolge il proprio lavoro quotidiano, sono principi primari inderogabili.
Ricordiamo a tutti, e in particolar modo a conduttori, giornalisti, redattori e produttori esecutivi, che più alto è il livello di visibilità e di responsabilità che si ricopre in Azienda maggiore deve essere la capacità di saper gestire gli imprevisti che possono capitare anche durante le dirette televisive. Pertanto invitiamo, nuovamente, tutti a un maggior rispetto delle persone sia dal punto di vista umano che professionale auspicandoci di non dover più trattare questo spiacevole tema". Da quel giorno il gelo è sceso tra tutti i componenti del gruppo di lavoro della Merlino e lo staff tecnico. Ora tira davvero una brutta aria.
Dagospia l’8 dicembre 2022. La biografia di Myrta Merlino su Wikipedia
Myrta Merlino (Napoli, 3 maggio 1969) è una giornalista, autrice televisiva, scrittrice e conduttrice televisiva italiana.
È figlia di Giuseppe Merlino e della sinologa e professoressa universitaria Annamaria Palermo, già direttrice dell'Istituto Italiano di Cultura di Pechino. Dopo il diploma di liceo classico, consegue la laurea con lode in scienze politiche con una tesi in Diritto internazionale sulla Carta Comunitaria dei diritti fondamentali dei lavoratori, ha lavorato per il Consiglio dei Ministri della Comunità Economica Europea, presso la Direzione Generale del Mercato Interno nell'ambito dei Servizi Finanziari.
La sua carriera giornalistica è iniziata con una collaborazione con la pagina economica del quotidiano Il Mattino, ma fin dal 1994 ha cominciato a occuparsi di televisione. Nel 1995 diviene giornalista professionista.
Ha realizzato inchieste e servizi per il rotocalco Mixer, su Rai 2, ideato e condotto da Giovanni Minoli, occupandosi di tematiche socio-economiche; è stata responsabile economica di Rai 3, autrice del talk show economico del servizio pubblico Italia Maastricht, ma anche dei programmi Energia, Mister Euro (di cui è stata co-conduttrice) e La Storia siamo noi, per cui ha curato anche una serie di 10 puntate, dal titolo Il segno del comando, sulla storia del Novecento vista attraverso l'economia.
Nel frattempo, tra il 2002 e il 2003, è stata responsabile dell'informazione di Rai Educational e l'anno successivo è ospite fissa della trasmissione Casa Raiuno, in qualità di esperta economica. Tra il 2005 e il 2008 è stata autrice e conduttrice del programma di informazione Economix, prodotto da Rai Educational: un'intervista di trenta minuti a un grande personaggio della politica o dell'economia per affrontare i principali temi suggeriti dall'attualità. Nel 2009 approda a LA7, come autrice e conduttrice di Effetto Domino, un approfondimento economico in onda in seconda serata fino al 2011.
Dal 2011 è ideatrice, autrice e conduttrice, sempre su LA7, del programma L'aria che tira, un talk show in onda al mattino dal lunedì al venerdì. Giunta alla quarta edizione, la trasmissione è cresciuta nella sua durata, arrivando a due ore e mezza di diretta al giorno rispetto ai 23 minuti iniziali (anche per via del fatto che in origine, dopo il programma, andava in onda I menù di Benedetta, trasmissione non più in palinsesto dal momento che Benedetta Parodi passò a Real Time), e negli ascolti, con un incremento superiore al 100 per cento solo nell'ultimo anno.
Sull'onda dei suoi successi, nell'estate del 2014 la Merlino debutta in L'aria che tira stasera, quattro puntate in onda il lunedì: il programma arriva in prima serata, mentre prosegue la programmazione del mattino. Nel 2015 pubblica con Rizzoli Madri. Perché saranno loro a cambiare il Paese, una raccolta di storie di mamme famose e no, ma tutte protagoniste di storie importanti. Dal 15 novembre 2020 conduce un altro spin-off della sua trasmissione intitolato L'aria di domenica, in onda la domenica pomeriggio alle 14:00.
Ha lavorato a lungo anche per la radio conducendo, all'interno del programma di Rai Radio 2 Alle otto della sera, una serie di puntate sulla storia della moneta e poi, sempre per Rai Radio 2, una serie di venti puntate dedicate alle biografie degli uomini che hanno cambiato la storia attraverso il denaro, dal titolo Re di Denari. Ha scritto per Il Sole 24 Ore, Il Messaggero, Panorama, International Herald Tribune, Libération, Families in Business, Nord e Sud, Il Secolo XIX, Il Resto del Carlino, La Gazzetta del Mezzogiorno.
È stata autrice di un dizionario dei termini comunitari, distribuito in 250 000 copie con i quotidiani Il Mattino e La Gazzetta del Mezzogiorno. Moderatrice di numerosi convegni e incontri pubblici, nel corso degli anni ha intervistato i principali attori internazionali della vita politica ed economica, tra cui Carlo Azeglio Ciampi, Matteo Renzi, Jacques Delors, Silvio Berlusconi, Massimo D'Alema, Gianfranco Fini, Romano Prodi, Yves-Thibault de Silguy, Karel Van Miert, Jeremy Rifkin, Hans Tietmeyer, Jean-Paul Fitoussi, Gordon Brown, Jean-Claude Trichet, Lawrence Summers, Franco Modigliani, Bill Gates.
Il 16 aprile 2019 diventa ambasciatrice Unicef. Nel febbraio del 2021 riceve l’onorificenza di Cavaliere della Repubblica italiana da parte del presidente Sergio Mattarella.
Vita privata
Ha tre figli: i gemelli Pietro e Giulio Tucci avuti in gioventù e la figlia Caterina avuta da Domenico Arcuri, ex amministratore delegato di Invitalia. Suo attuale compagno è l'ex allenatore ed ex calciatore della Juventus e della Nazionale Marco Tardelli. Si professa cattolica.
In un'intervista al programma TV di Klaus Davi su YouTube del 2013, Merlino raccontò che, durante un'intervista programmata all'allora ministro delle finanze francese Dominique Strauss-Kahn alla fine degli anni novanta a Davos, fu oggetto di un tentato abuso sessuale da parte del medesimo; lo respinse, senza tuttavia dar corso a denunce per evitare il clamore che ne sarebbe seguito.
Nel 2015 è stata processata per abuso edilizio a causa della realizzazione di opere di ristrutturazione nella sua villa di Cala Grande sull'Argentario senza avere richiesto i permessi necessari. La vicenda si è conclusa nel gennaio 2017 con una sentenza di non doversi procedere: i reati sono stati derubricati per «sopraggiunta compatibilità paesaggistica».
Documento approvato all’unanimità dall’assemblea dei giornalisti de La7 l’1 Dicembre 2022.
Da molti anni La7 registra un indiscutibile successo, in termini di ascolti e di raccolta pubblicitaria, con introiti sempre ampiamente superiori ai costi sostenuti.
Un successo che dà incontestabili vantaggi ai conti del gruppo, anche per il valore aggiunto che La7 conferisce all’offerta pubblicitaria complessiva, ma che non lascia tracce nei bilanci dell’emittente, per le modalità con cui la proprietà ha scelto di regolare i rapporti tra la tv e la concessionaria, che dello stesso gruppo fa parte.
Una scelta che penalizza gli investimenti e la crescita ulteriore dell’emittente, i giornalisti e gli altri lavoratori de La7 (persino nella possibilità di percepire i bonus stanziati dal Governo di fronte all’emergenza bollette).
Eppure la chiave di questo successo è proprio la forte connotazione informativa de La7 dall’alba a notte inoltrata, quasi una all news, grazie ai tg e ai programmi di approfondimento, e quindi al decisivo impegno dei giornalisti che hanno garantito la massima produttività, anche nei drammatici mesi del lockdown e della pandemia, non ancora conclusa.
All’unanimità l’assemblea dei giornalisti de La7 chiede:
un immediato riconoscimento economico per tutti per lo sforzo profuso in questi anni;
l’assunzione a tempo indeterminato dei colleghi precari, superando il ricorso strutturale ai contratti a termine nei programmi;
la sostituzione dei colleghi che hanno lasciato la redazione del tg in questi anni, con l’assunzione a tempo indeterminato di altrettanti giornalisti;
il riconoscimento a tutti delle corrette retribuzioni, secondo le previsioni delle leggi, del CNLG e degli Accordi integrativi aziendali;
l’apertura, di fronte a un’inflazione a due cifre che decurta pesantemente il potere d’acquisto degli stipendi, di un confronto per adeguare le retribuzioni, ferme da oltre dieci anni, come le carriere, con gli strumenti previsti dal CNLG e dagli accordi integrativi aziendali;
un confronto sulla cessione a terzi dell’opera dei giornalisti de La7, illegittima senza uno specifico accordo, secondo le previsioni di legge e contrattuali.
La valorizzazione del lavoro dei giornalisti de La7, oltre al superamento dei contenziosi collettivi da troppo tempo aperti, è il presupposto per ogni prospettiva di sviluppo dell’emittente, che deve essere perseguita sulla base di un piano industriale e di un piano editoriale dettagliati, con investimenti e progetti chiari e credibili, nel pieno rispetto di corrette relazioni sindacali, delle regole e delle procedure contrattuali.
Estratto dell'articolo di Marco Grasso per “il Fatto quotidiano” il 3 novembre 2022.
Mi si nota di più se firmo o se non firmo? Le acque a Repubblica continuano a essere molto agitate e dopo lo sciopero dei giorni scorsi, contro il piano annunciato dal direttore Maurizio Molinari a Prima Comunicazione, la redazione si è spaccata sulla successiva lotta sindacale: lo sciopero delle firme. (...)
Mentre il grosso dei giornalisti (supportati dalla totalità dei precari) ha aderito all'iniziativa, firme molto note non hanno ritenuto di farlo: vicedirettori (Carlo Bonini e Francesco Bei); firme storiche in pensione (l'ex direttore Ezio Mauro, Paolo Garimberti, Daniele Mastrogiacomo, Enrico Franceschini) o che continuano a tenere seguitissime rubriche (Michele Serra, Concita De Gregorio).
Molti colleghi impegnati nella battaglia non l'hanno presa bene: "Scrivere su Repubblica o essere di Repubblica sono due cose ben diverse. Noi di Repubblica lo sapevamo già, ma questa grottesca faccenda delle firme/non firme lo ha spiegato meglio - scrive l'inviato Maurizio Crosetti su Twitter - Non sarebbe male se alla fine di questa storia ci si chiedesse quali e quante di queste firme siano davvero necessarie a Repubblica". Da ieri lo sciopero è stato revocato.
La Repubblica, sciopero contro il direttore Molinari. I giornalisti sul piede di guerra. Il Tempo il 28 ottobre 2022
L'indiscrezione di Dagospia sullo sciopero è confermata. Nella redazione de "La Repubblica" tira una brutta aria dopo l'intervista del direttore Maurizio Molinari a Prima Comunicazione. "L'assemblea delle giornaliste e dei giornalisti di Repubblica è incredula e indignata per le dichiarazioni del direttore Maurizio Molinari che costituiscono una grave offesa all’intero corpo redazionale, di cui vengono sminuiti l’impegno e la professionalità", si legge sul sito.
Ai giornalisti non è andato già che il loro direttore abbia parlato prima ad altri che a loro sul piano di riorganizzazione del quotidiano. "Un sommario Piano di riorganizzazione editoriale viene raccontato in un’intervista a una rivista di settore senza che sia mai stato presentato, nei suoi dettagli e nelle sue implicazioni, prima al cdr e poi alla redazione, come invece le corrette procedure sindacali imporrebbero. La richiesta al direttore di esporre in assemblea il suo Piano perché venga poi votato – che ribadiamo - è stata dunque ignorata".
L’assemblea ha indetto una giornata di sciopero che investirà l’intero corpo redazionale e tutte le piattaforme informative. "Il quotidiano non sarà in edicola sabato 29 ottobre e il sito non verrà aggiornato fino alle ore 19 dello stesso giorno".
Dagonews il 28 ottobre 2022.
I giornalisti di Repubblica salgono sulle barricate contro il direttore Maurizio Molinari e entrano in sciopero fino alle ore 19 di sabato 29 ottobre (229 voti a favore, 7 contrari e 14 astenuti: mai vista una disfatta del genere)
Ad accendere la miccia è stata l’intervista a “Prima comunicazione” in cui Molinari annunciava “la spallata digitale” al giornale che non riesce a recuperare con l’edizione di carta i lettori persi negli ultimi anni.
La protesta dei giornalisti è legata alla scelta del direttore di puntare quasi completamente sul digitale, contrariamente a quanto auspicato dalla redazione.
Si contesta, inoltre, a Molinari l’aver presentato il piano di riorganizzazione editoriale non alla redazione, come era stato richiesto, ma a una rivista.
I giornalisti, che non firmeranno i loro articoli, sono furibondi anche per il trasferimento da Roma a Milano della redazione di Affari&Finanza.
Il comunicato dell'Assemblea dei giornalisti di Repubblica:
L’assemblea delle giornaliste e dei giornalisti di Repubblica è incredula e indignata per le dichiarazioni del direttore Maurizio Molinari che costituiscono una grave offesa all’intero corpo redazionale, di cui vengono sminuiti l’impegno e la professionalità. Un sommario Piano di riorganizzazione editoriale viene raccontato in un’intervista a una rivista di settore senza che sia mai stato presentato, nei suoi dettagli e nelle sue implicazioni, prima al cdr e poi alla redazione, come invece le corrette procedure sindacali imporrebbero. La richiesta al direttore di esporre in assemblea il suo Piano perché venga poi votato – che ribadiamo - è stata dunque ignorata.
La richiesta della redazione al direttore e all’editore di dare risposte immediate ai gravi problemi del momento, a partire dal calo di vendite in edicola, è stata ignorata. Questioni cruciali – come il nuovo modello di integrazione tra edizione cartacea e sito, come l’influenza dei trend d’interesse osservate in Rete sulle scelte editoriali – sono presentate in termini non convincenti. La loro esposizione – peraltro con modalità scorrette e irrituali - non risponde ai dubbi e alle inquietudini della redazione di Repubblica.
L’assemblea delle giornaliste e dei giornalisti di Repubblica si oppone categoricamente al trasferimento da Roma a Milano della redazione di Affari&Finanza. L’assemblea indice anche una giornata immediata di sciopero che investirà l’intero corpo redazionale e tutte le piattaforme informative, secondo le modalità decise dal Comitato di redazione. Le giornaliste e i giornalisti di Repubblica non firmeranno i loro contenuti editoriali di qualsiasi tipo e su qualsiasi piattaforma informativa fino a quando non riceveranno risposte concrete e convincenti, in assemblea e nelle sole sedi deputate al confronto.
L'assemblea delle giornaliste e dei giornalisti di Repubblica
Lanterne rosse a via Po: la storia del costume italiano raccontata dalle pagine de L’Espresso. Così il nostro giornale ha descritto le mode e i costumi del Paese. Alessandro De Feo su L'Espresso il 26 Luglio 2022.
Settimanale di Politica, Cultura ed Economia, “L’Espresso” dal suo primo numero del 2 ottobre 1955 è una bussola che orienta anche le mode e il costume degli italiani. E, naturalmente, anche la sfera erotica e sessuale. Nel secondo numero, sotto al titolo “Cugat ha deciso 1955 cha cha cha 1956 tarantella”, Il musicista e marito della prosperosa Abbe Lane, ha dettato la linea: nei night di via Veneto il “vecchio “mambo non è più di moda, dai tavolini nemmeno due coppie si alzano per scendere in pista. Il cha cha cha sarà travolgente, accompagnato da un degno piano bar. Nella pagina accanto, l’articolo intitolato “Cercano clienti disossate”, ci si riferisce ai guru della moda. E allora, in sintonia con la nuova stagione, come deve essere la donna 1955? “Pallore madreperlaceo, sopracciglia inchiostro, capelli catrame”. Il tailleur deve avere “una scollatura a punta sul davanti e sul dietro, per allungare la linea del collo”. Dramma! “La guerra al petto continua. Niente più balie fiorenti, generose scollature, seni sporgenti. Soppresso il busto, la nuova moda asseconda la linea naturale del corpo senza modellarlo artificialmente”. Non basta: “Abolita la cintura, il vestito, per la prima volta dal 1947, dall’accento del new look, è fatto di un sol getto e non spezza più in due la figura femminile”. Veniamo ai fianchi. “Mai più strettamente inguainati. Spoglia e lineare, la nuova moda sembra una reazione al sex-appeal delle dive”. La gonna corta non è di rigore, ma si allunga ben sotto al ginocchio tanto da far apparire le gambe più corte”. Le donne grissino alla Twiggy e le minigonne di Mary Quant sono lontane da venire.
Se il settimanale lenzuolo va contro corrente anche nel campo dell’eros, di pentite del sesso si può parlare. E in una foto di Gina Lollobrigida, la “Bersagliera”, l’attrice indossa una maglietta alla “vestivamo alla marinara”, mostra un décollété fuori taglia e la didascalia recita: “Parigi. In una lettera rivolta ai lettori americani. Gina Lollobrigida ha dichiarato: «Per me è ora di finirla col sesso. Il pubblico penserà che io sappia solo amare. Io intendo dargli qualcosa che mi faccia ricordare indipendentemente dal mio aspetto».
E chi è la “Bella cretina” come la definisce l’attore Anthony Quinn? Andiamo al sommario dell’articolo firmato Oberon, probabilmente uno pseudonimo: “Appena un’attrice italiana si mette a studiare recitazione e impara a parlare, la sua carriera può dirsi finita: conseguenza dei film sesso-dialettali”. Scorriamo l’incipit: “A Cinecittà, a via Veneto, alla Farnesina, alla Vasca Navale, dovunque a Roma si inventi, si produca e si compri del cinema, le dichiarazioni di Anthony Quinn hanno suscitato lo stesso commento: «Poco carine». Perfino Lea Padovani, Giulietta Masina, Kerima e Valentina Cortese, cioè le attrici che Quinn ha definito «serie e brave», si mostrano insoddisfatte: in loro più che il piacere dell’elogio gioca il timore delle nuove gelosie, dei nuovi intrighi che l’apprezzamento potrà provocare”.
Nella puritana America succede anche questo, come racconta la fotografia accompagnata da questa didascalia: “Pasadena (California). Le ballerine Francisca Eyres e Flo Ash Wilson nella stazione di polizia. Sono state fermate per essersi esibite davanti a 150 uomini in uno spettacolo indecente”. Nella foto, Francisca saluta i reporter mostrando - vestita - il sedere.
Il settimanale ha successo e attira locandine e annunci pubblicitari. Si fa notare quella del numero 12 del 18 dicembre. È uno spettacolo con Totò e Gino Cervi. Incorniciati in un salvagente, il titolo è “Il coraggio”. Tra gli altri, Irene Galter, Paola Barbara e compagnia cantante. La Galter appare in una fotografia all’epoca, pensiamo, peccaminosa. Indossa una mini sottoveste nera e nere sono le sue scarpe, mentre con sguardo felino tiene in mano una sigaretta inguainata in un lungo e sottile bocchino. Ancora “peggio” fa la matita di Mino Maccari, vignettista honorem de “L’Espresso”. La didascalia illustra così il disegno: “Questa vignetta raffigurante la Francia, uscì nel “Selvaggio “del 15 dicembre 1933. Il pittore Mino Maccari la commentava con questi versi: “Non quando li prende - Ma quando li rende - Parigi la offende”. La Marianna di turno indossa il tipico cappello della Rivoluzione, gioca facendoli volteggiare i parigini, mostra seni al vento, una lingerie délabré, calze a rete nere tenute d sottili giarrettiere. Le feste di Natale del 1955 celebrano la coppia dell’anno: Xavier Cugat e Abbe Lane (amava farsi fotografare con il suo barboncino) mentre provano i passi di danza del cha cha cha durante le riprese del film “Donatella”. Lui è in frack, lei in un vestito da sera lamé che abbraccia un bel décollété. A proposito di lingerie. In quegli anni e, fino ai Sessanta, la diva sexy la esibisce in tanti film. Uno per tutti: lo strip di Sophia Loren davanti a uno “sbavoso “ e fremente Marcello Mastroianni. Ma ne riparleremo.
1955 - 1960
Nel numero del 5 febbraio 1956 i lettori de “L’Espresso” si eccitano con “I francobolli della castità”, fotograficamente sintetizzati in prima pagina da una sfilata di belle figliole delle Flies-Bergère, in topless e le fatidiche pecette a coprire i peccaminosi capezzoli. La stella delle stelline è Colette Fleuriot, la cui esuberanza si può ammirare all’interno, in un fotomontaggio dove la bella svolazza con piumaggi dalla testa ai fianchi e francobolli da 5 lire a coprire i seni e il pube. Guerrini dà fondo alla sua arte e scrive che “L’Osservatore romano” in un articolo intitolato “Attenzione!” per la prima volta in 96 anni occupava di un music-hall e giudicava lo spettacolo che la compagnia delle Folies-Bergère stava dando a Napoli come “il frutto della fantasia morbosa di un drogato”.
Da un’unione che vorrebbe cominciare senza la santa benedizione a un’altra che naufraga clamorosamente: l’attrice svedese Ingrid Bergman si separa dal regista Roberto Rossellini, dopo sette anni di matrimonio. “L’Espresso” ci gioca su e domanda ai lettori: “L’italiano è un cattivo marito?” (17 novembre 1957). Di certo è sempre stato un po’ puttaniere e a lui è dedicata l’inchiesta di Guerrini, “la sua iniziativa. L’ultima notte della peccatrice di Stato. Persiane aperte” (21 settembre 1958), con foto di una famosa casa di tolleranza di Roma, in via del Leoncino, tra marinai, giovanotti in giacca e cravatta, ragazze non troppo svestite in attesa. Si celebra la chiusura dei casini e l’onorevole socialista Lina Merlin, promotrice dell’omonima legge, , aveva pure organizzato una conferenza stampa per difendere.
Dai tempi delle sabine il sesso è sempre stato un pallino di noi italiani. Ma anche i preti non scherzano. La buon’anima di Pio XII, per esempio, nel suo discusso pontificato aveva trovato il tempo di rivolgere un appello ai parroci, sostenendo che Roma era una città corrotta, dal peccato, dal vizio e dalla pornografia. “L’Espresso” domanda al capo della Polizia dei costumi se Roma è una città viziosa. Ha risposto di no (Gianni Corbi, 17 marzo 1957). Chissà se ci avrà ripensato davanti agli “Scettici blu del Rugantino” e alla “Turca desnuda” (16 novembre 1958) alias Aiché Nanà, la ballerina che nel locale di Trastevere, davanti alla “Ciampino society” Come Salomè si dimenò e si tolse tutti i veli, rimanendo in mutandine nere. Nelle foto del servizio, sia i volti degli spettatori che quello della ballerina (e non parliamo dei seni) erano stati coperti dal triangolino di circostanza.
Se Roma è viziosa, Milan “Alle Maschere”, la cosiddetta capitale morale, non è da meno. Sotto la Madonnina la parola d’ordine è: “Meno sesso signorina” (19 aprile 1959). Camilla Cederna racconta così uno spettacolo di strip-tease al teatro “Alle Maschere” e i dolci vizi di “Milan la nuit”: «Vengono pomposamente annunciate “due signorine inglesi in una loro creazione coreografica (…). In reggipetto e mutandine di lustrini e calze di rete e lustrini perfino nell’ombelico, le signorine inglesi si esibiscono in una breve danza di tipo esotico (…). Le ragazze si slacciano il reggiseno e appaiono decorate da due enormi stelle pensili che coprono tutto quello che sta al di sotto. Quando stanno per togliersi il resto: “Per carità!”, esclama il presentatore (Lucio Flauto, nda.), “basta così” e quindi rivolto al pubblico spiega: “Vedete che manca il sipario?. È stato proibito perché il direttore di scena a un certo punto non abbia a ordinare: “Giù il sipario!”, e ride, ma è l’unico a divertirsi. E’ a questo punto che una certa inquietudine comincia a infiltrarsi negli aspiranti-voyeurs di Milano e dintorni».
Nei campus americani fanno la comparsa “I giacobini dell’amore” (20 ottobre 1963). Sono gli studenti che reclamano la libertà sessuale nelle università. Da noi. Più prosaicamente, è la stagione di “Bovary 1960”, inchiesta a puntate su “La moglie in Italia” (13 gennaio 1960). Così la vede Gambino: c’è «una visione che tende a dividere le donne in due gruppi: le madri-vergini e le prostitute. La moglie rientra nella prima categoria. Il suo tentativo di desessualizzarla comincia il giorno stesso del matrimonio». Ma talvolta anche madame Bovary si prende le sue vendette. Una vittima eccellente è “Il seduttore sedotto” (10 luglio 1960) di Salvatore Bruno: «Il conquistatore degradato a ridicolo strumento della donna: ecco uno dei fatti più clamorosi di questi ultimi anni diu vita italiana. Ora una ragazza dice: “Giovanni è un vanitoso, un debole. Sto con lui perché mi serve”. Prima questo linguaggio spettava a lui, a Giovanni. L’uomo considerato alla stessa stregua di un genere di consumo».
Gli anni ‘50 si chiudono e si apre la stagione della dolce vita. Per tutta la primavera del 195 “L’Espresso” aveva seguito e documentato le riprese della “Dolce Vita” di Federico Fellini. La famosa scena del bagno notturno di Anita Ekberg nella fontana di Trevi con Marcello Mastroianni, viene così descritta: «Per tre notti di seguito alle tre del mattino Anita Ekberg e Marcello Mastroianni hanno dovuto gettarsi nelle acque della fontana di Trevi. La scena, una delle più lunghe del copione della “Dolce Vita”, è stata girata da Federico Fellini 20 volte di seguito. Con le spalle nude e un leggero vestito di mussola, l’attrice disguazzava nell’acqua trascinando dietro di sé il suo partner riluttante. Alla fine delle riprese i curiosi raccolti attorno alla fontana, gli operatori e il regista hanno applaudito l’attrice che si è allontanata in fretta buttandosi sulle spalle, come un accappatoio di spugna la pelliccia di visone». (“Il bagno di Anita”, 19 aprile 1959). Ma come venne accolta la “Dolce Vita” nelle sale? “L’Espresso” racconta (“Protestano i responsabili della dolce vita”, 14 febbraio 1960) che: «A Roma la proiezione è stata seguita senza proteste, ma un silenzio insolito ha sottolineato alcune scene, forse indizio di un accorato stupore. Altrove, e in particolare a Milano, il pubblico ha reagito, uno spettatore, in nome della Patria, ha sputato addosso a Fellini».
1960 - 1965
Se a Roma si riflette sulla dolce vita, a Parigi la scrittrice Simone de Beauvoir teorizza Brigitte Bardot, “La bella incosciente” e “L’Espresso” ne pubblica il saggio (1 maggio 1960), «Brigitte Bardot è l’esemplare più completo di queste ambigue ninfe. Visto di spalle, il suo corpo di ballerina minuta, muscoloso, è pressoché androgino, la femminilità balza esuberante dal suo busto incantevole, sulle sue spalle scende la lunga e voluttuosa chioma di Melisenda, acconciata però con una negligenza da selvaggia; cammina a piedi nudi, se ne infischia di come è vestita, non porta gioielli, non ricorre a busti, non si profuma, non fa uso di nessun artificio, purtuttavia le sue movenze sono lascive, e un santo si dannerebbe soltanto a vederla danzare». Regina di Saint-Tropez, dove vive in una faraonica villa e si treastulla con “giocattoli” italiani, il playboy Gigi Rizzi, e teutonici, Gunther Sachs, è la musa del regista Roger Vadim (“E Dio creò la donna”?). Una sua foto non manca nell’album dell’”Espresso”. La Bardot è immortalata nuda, con il bel sedere a farsi cullare dalle onde del mare.
Telefono a Nicola Carraro, marito di “zia” Mara Venier. Un bon vivant che di cose ne ha fatte e ne ha viste (è uno stimato produttore cinematografico), e gli chiedo: «Come venne raccolta e da chi la “rivoluzione” di Fellini?». «Quel segnale, davvero forte, venne recepito dal grande cinema d’autore italiano di quegli anni, dove gli studios di Cinecittà erano una calamita che portava a Roma il meglio della cinematografia e delle star internazionali. Rimanendo da noi, penso ai film di Rossellini, di Rosi, di Visconti e Germi, la Wertmuller». «Senta Carraro, di grandi stelle e del loro sex-appeal ne abbiamo incontrate già alcune, altre le ricorderemo. Lei, chi ritiene che meriti una nomination?». «Tra le icone di quei Sessanta, ne vorrei citare due molto diverse dalle altre, per eleganza, stile e ironia: Marina Lante della Rovere ed Elsa Martinelli. La top model Elsa Martinelli era di una bellezza sconvolgente, richiesta dai set cinematografici e dalle passerelle internazionali. Fascino prorompente dalle lunghe gambe e alternativo al sex-appeal delle maggiorate, ormai al tramonto. Tanto esposta ai flash dei fotografi, quanto discreta e riservata nella vita privata. Ben diversa Marina: esuberante, trasgressiva, dagli amori tanto travolgenti quanto effimeri. Come quello con il giornalista (“Espresso” e “Tempo illustrato”), che nella sua vita spericolata riempiva di petali di rose rosse l’alcova per la sua Marina. Ma c’è anche l’amore sulla via del tramonto: quello con Carlo Ripa di Meana, soprannominato, immaginiamo con merito, “orgasmo da Rotterdam”.
Poveri ma belli, in Italia ci si consola. Ma la star nazional-popolare del momento non è un’attrice, bensì “La desnuda di New York”, come ci fa sapere Mauro Calamandrei (8 aprile 1962). «La più celebre modella d’America è figlia di un conte italiano», si chiama Cristina Paolozzi, ha 22 anni e tariffe da 40 mila lire l’ora: «Solo una decina di modelle guadagnano di più, con un massimo di 80 mila lire per Suzy Parker». Racconta il corrispondente de “L’Espresso” da New York: «Taluni la chiamano la contessina scalza, altri l’hanno ribattezzata la Maya Desnuda (…). Ma quel che ha fatto di Cristina Paolozzi l’obbligo dei cocktail-party è stata la serie di foto di Richard Avedon apparse nel numero di gennaio di “Harper’s Bazar” che si apre con un nudo».
Nell’estati della dolce vita le italiane si confrontano sulle spiagge a colpi di bikini. “L’Espresso” non è da meno con una galleria di bellezze in due pezzi a illustrare i numeri estivi. Meglio la bionda Elke Sommer che si abbronza a Torvajanica prima di girare “Femmine di lusso” o la bruna Anna Maria Guarneri a Marina Piccola a Capri (10 luglio 1960)? Forse mette tutti d’accordo Jane Mansfield, ammirata a Positano (8 lugli0o 1962) e sulle pagine del settimanale di via Po che la offre nuda ai lettori fotografata in piscina a mostrare uno strepitoso seno.
Se al mare si va in due pezzi, sul set e sui palcoscenici si vorrebbe andare ben oltre. Ma, come racconta Sandro Viola in “Supersexy a Frascati” (24 novembre 1963), non è aria: «Un grido d’allarme, “Attenzione: le coppette non passano più”, si è diffuso in questi giorni negli ambienti dei produttori cinematografici specializzati in film della serie “sexy”. Le coppette sono i minuscoli coni (generalmente di cartone argentato o di velluto trapunto ma di metallo se si tratta della danza del ventre o di ballerina araba) che le strip-teuses portano sui capezzoli nei paesi dove è vietato il nudo integrale, Cosa vuol dire che “le coppette non passano più” è chiaro: la censura ha deciso di sopprimere le inquadrature con le “coppette” e di fermare gli strip-teases al momento in cui la ballerina si toglie il reggiseno». Ma le Giovanne d’Arco del nudo non si lasciano intimorire e perciò “Le attrici si spogliano” e “Il cinema torna all’erotismo” (25 agosto 1963). In un appartamento di piazza Navona, Sophia Loren si spoglia lentamente, davanti a Marcello Mastroianni, togliendosi uno dopo l’altro, il vestito, le calze, la guepière. E’ una scena di “Ieri, oggi e domani” di Vittorio De Sica e Saophia Loren non aveva mai girato una scena così dopo i suoi primi film ambientati nella Roma neroniana (…).
A Dublino per un film tratto dal romanzo di Somerset Maughan, “Of human bondage”, la pudica Kim Novak non ha fatto storie davanti all’obbligo di spogliarsi interamente, proprio lei che è cattolica fervente, che va sul set con un rosario regalatole da una nonna boema e che si è rifiutata di accettare la moda delle gonne sopra al ginocchio. Invece, davanti alla scena della camera da letto non ha voluto controfigure e si è volenterosamente spogliata». E “L’Espresso” ce la fa vedere la volonterosa, in cinque immagini riprese dal set: Kim Novak nuda, ma languidamente e strategicamente avvinghiata a un provvido lenzuolo, riesce nell’impresa di non far vedere nulla di peccaminoso, se non schiena, fianchi e cosce e appena la curva di un seno. Alla povera Rita Renoir non resta così che lasciare lo strip per interpretare i classici del teatro francese (“La Fedra del Crazy Horse”, 12 luglio 1964).
A Roma la premiata ditta Garinei & Giovannini, i padri della commedia musicale all’italiana, va invece controcorrente e sponsorizza 12 compagnie di avanspettacolo in gara sul palcoscenico del Sistina (“Il pomeriggio con Giunone”, 7 giugno 1964): «Nell’ultima serata delle eliminatorie, le compagnie in gara saranno quella di Fredo Pistoni e quella di Rosy Madia. Vediamo di cosa consiste lo spettacolo di questa compagnia. Gli elementi sono nove: un balletto formato da cinque ragazze, un cantante, due generici e la soubrette Rosy Madia. All’inizio dello spettacolo Rosy Madia si presenta in mutandine e reggiseno. E’ una donna non precisamente bella, ma molto procace, coi fianchi larghissimi. E’ appena entrata in scena che uno dei generici le chiede: “Scusi, signorina, lei di dov’è?”. “Di Milano”. “Ah”, riprende il generico guardando ostentatamente alla schiena della soubrette, l’avevo capito “dal panettone”».
1965 - 1970
Me ne vado a prendere un caffè al bar-ristorante sotto la casa di Rino Barillari, “The King of Paparazzi”, il cui mito è celebrato con tanto di sue foto, all’Harry’s Bar di via Veneto. Chiedo a Barillari di ricordarci le star più paparazzate in quegli anni. Barillari: «Premetto che erano tempi pieni di ritrovate energie, di riscossa nazionale. Anni belli e famosi come i divi che spopolavano sul grande schermo e sui fotoromanzi, all’apice del successo: Maurizio Arena e Renato Salvatori, “il povero ma bello”, Cristina Gaioni, la Bardot tricolore, Marisa Solinas, la “fotocopia” di Pascal Petit, Annabella Incontrera, la Sophia Loren dei poveri...”». Ma il cinema italiano profuma anche di donna ed è corteggiato all’estero. Ha, per esempio, il corpo di Claudia Cardinale che “dopo la metamorfosi si è decisa di girare un film in America. La tortora ha messo gli artigli” (di Marialivia Serini, 14 febbraio 1965). «Fu Alberto Moravia a darcene per primo un ritratto diverso, trovò nei suoi occhi di monella “qualcosa di meridionale, di intenso”, nel suo viso “una nobiltà arcaica”, notò “sdegnosa e rustica” della bocca, le mani “dure e secche di ragazzo”. Visconti ha addirittura rovesciato l’immagine di Claudia: il viso coperto da un “font de teinte” scuro, la bocca pallida, gli occhi dilatati, quasi brucianti, ne ha fatto nel suo ultimo film, “Vaghe stelle dell’Orsa” un’Eletta del nostro tempo, avida, spietata, perfino crudele».
Anche Gina Lollobrigida è a una svolta: “Dal cinema erotico a Pirandello. La Gina di Mao (7 marzo 1965). La Lollo è a Parigi per la riduzione per la riduzione cinematografica di un romanzo di Rodolfo L. Fouesca, intitolato “Torre eburnea”, la storia di tre monache violentate dai miliziani di Mao. Scrive Giancarlo Marmori: «Due spesse virgole di rimmel le bordano l’orlo degli occhi, accentuandone il morbido bagliore e certa fissità. Spesse, pastose pure le tracce di rossetto sulle labbra umide. Un profumo forte da alcova fine secolo, impregna il suo corpo, i suoi indumenti e il salotto. L’incarnato del suo viso e delle braccia nude è d’un rosa caldo, mai visto, d’un rosa Thea».
Restiamo con Marmori a Parigi, per un’altra metamorfosi: “Jane Fonda va a scuola da Vadim per raccogliere l’eredità di B. B. La puritana in bikini” (29 dicembre 1963). Dalla penna-pennello di Marmori esce un altro capolavoro: Jane Fonda è una ragazza americana metodica e caparbia, ma da quando vive e lavor a Parigi un tocco di frivo9lezza ha già corrotto in superficie i suoi modi e la sua fisionomia originali (…). Delle ragazze americane di razza ha il tipo “standard” di bellezza energica, sana, un po’ ottusa. Eppure già somiglia a Brigitte Bardot, a Annette Stroyberg, a Catherine Deneuve, queste terribili ragazze attrici sfornate in serie da Vadim, e ci assomiglierà sempre di più quando il parrucchiere Dessanges le metterà i capelli alla rinfusa sulla testa, liberandole le orecchie e la nuca, per fabbricare quel cupolone biondo alla B. B.».
E siamo agli anni Settanta. Si parla di libertà sessuale, di Gay Pride, di cortei e occupazione di scuole e università, di autogestione, di assemblee e di gruppuscoli extraparlamentari. Il Sessantotto francese, con le barricate e gli scontri con i flick è contagioso: in Italia, da Milano a Napoli, sale la febbre della contestazione. I fascisti uccidono a Roma l’universitario Paolo Rossi, e si consuma la famosa battaglia di Valle Giulia. Nelle fabbriche nascono i picchetti, gli scioperi. “La classe operaia va in paradiso” di Lina Wertmuller con Gian Maria Volontè e donna. Ne parlerò nella prossima puntata.
Lanterne Rosse in via Po, la classe operaia va in Paradiso. L’Italia raccontata dalle pagine de L’Espresso. Alessandro De Feo su L'Espresso il 26 Luglio 2022.
L’onda lunga delle estati all’italiana si infrange anche tra le stanze della redazione de “L’Espresso” in via Po. E come un camaleonte, si trasforma in una parola d’ordine: “Le vacanze intelligenti”. Oddio, non che le nostre vacanze fossero cretine, ma un po’ di snobismo sotto gli ombrelloni non guasta. Sempre con impegno e umorismo. E tanta santa trasgressione. Ma prima delle sudate ferie tricolori, l’Europa si concede una stagione, che non sarà breve, di “rivoluzione”.
Il vento della contestazione soffia forte in Francia. Si scatena a maggio. “Nelle strade di Parigi si può decidere il futuro dell’Europa” (2 giugno 1968). A muoversi sono prima gli studenti e poi gli operai. Ma c’est n’est pas qu’un debout, continuons le combat”. Infatti si mobilitano pure i “Cowboy della rivoluzione (23 marzo 1969)”, ovvero la strana coppia formata dal regista Jean-Luc Godard, da Dany Le Rouge e il leader studentesco Cohn-Bendit, per creare un nuovo genere cinematografico: la contestazione western. Da qui nasce il film di Godard “La Chinoise”, tra sesso e barricate, che al cinema d’essay “Nuovo Olimpia”, nel centro di Roma, infiamma i nostri rivoluzionari in erba sulle note della colonna sonora: “Le Vietrnam brule et moi je hurle Maò Maò. Le villes crèvent et moi je reve Maò Maò. Les puteins crient et moi je ris MaòMaò. Le ris est fou et moi je joue Maò Maò…”. Il Movimento studentesco elegge i suoi leader: Mario Capanna a Milano, Oreste Scalzone a Roma.
Il filosofo e scrittore Jean-Paul Sartre, amante delle buone letture e delle sigarette Gauloise, non è da meno. Firma come direttore responsabile il giornale più denunciato di Francia “La cause du peuple”, «organo de la gauche prolétarienne», spiega il corrispondente da Parigi Marmori, «maoista e per auto definizione “giornale comunista, rivoluzionario proletario”». Sulle sue pagine si fanno già le barricate. Un esempio: “All’esercito bianco dei terroristi (…) e dei torturatori basta opporre l’esercito rosso del popolo. Allora, vinceremo, perché il potere è in fondo alla canna del fucile (citazione dal “Libretto rosso” di Mao Tze Tung, ndr.)”.
Dal 12 aprile 1970 “L’Espresso” cambia direzione. A Gianni Corbi succede Livio Zanetti. Con Livio si raggiungeranno picchi di vendita vertiginosi, dalle 300 mila copie in su, grazie a iniziative e supplementi. Cambia la direzione ma non la vena polemica e dissacratoria. “La donna al maschile si dice verme”, rivela il settimanale (16 maggio 1971) e racconta che «le erinni del femminismo francese», ovvero le signorine del Mouvement pour la libération de la femme, «hanno tenuto i loro stati generali e promulgano la loro costituzione. Articolo 1: l’uomo non c’è più».
Dagli Stati Uniti Jane Fonda lancia “Un modo nuovo di fare la donna” (5 settembre 1971). La Pulzella d’America si divide fra set e comizi, spesso al fianco della combattiva leader del black power “rosa”, Angela Davis e al primo convegno indetto a San Francisco dalle femministe americane si proclama «il piano d’attacco al sistema repressivo maschile». Insomma, viene partorito uno slogan universale: “L’utero è mio e lo gestisco io”.
Letta la scandalosa autobiografia di Arthur Miller, uno dei tanti ex mariti di Marilyn Monroe, Romano Giachetti scopre che “L’uomo onesto di mogli ne ha cinque” (6 febbraio 1972). Non solo. Per tenersi in forma la mente e il corpo gioca a ping pong. «Ci si dedica ancora con il vigore d’un ragazzo, due ore al giorno. Spesso gioca con donne di passaggio. A quelle, garbato come un saggio orientale, dice: “Spogliati, per favore, mi aiuta a giocare meglio. E quelle si spogliano. Un documento del libro ci mostra una bionda formosa, completamente nuda; e lui, dall’altra parte del tavolo, mezzo sognante con la racchetta in mano».
Ai maschi sporcaccioni una lezione la impartisce a Parigi la dea del Crazy Horse. Infatti, «per collaborare al riscatto della donna, Rita Renoir lancia uno spettacolo ideologico a tesi. Protagonista il diavolo». E naturalmente, lei, “Nuda come un’arma” (9 aprile 1972). L’inviata Lia Quilici (ricordiamo che è la moglie di Telesio Malaspina, entrambi nom de plum (?) per i giornalisti che non volevano firmare con il loro nome) accorre sul piccolo locale sulla Rive gauche, il Théatre de Plaisance, dove è in programma il bollente “Le Diable”. E annota: «Molti ricordano che durante i suoi primi happening ogni tanto esasperava fino all’esasperazione qualcuno del pubblico e poi lo schiaffeggiava con violenza (…). Rita Renoir entra in scena avvolta con una cappa nera che lascia liberi i seni secondo l’iconografia de “L’Histoire d’O” e qualche attimo dopo è completamente nuda. Durante la prima parte dello spettacolo, ogni tanto Rita Renoir si rivolge agli uomini in sala: “Monsieur, vuol venire qui a toccarmi? E voi due, volete salire sul palcoscenico a far l’amore con me? Chi vuole cominciare?”. Alcuni farfugliano qualcosa fra i denti, i più sprofondano imbarazzati tra i braccioli. Nessuno osa raccogliere l’invito».
A modo suo, l’invito lo raccoglie “L’Espresso”, che oltre a essere un fan storico della Renoir, specie nella stagione 1972 inonda le pagine degli spettacoli con i topless di attrice e attricette: se serve una tetta intellettuale, ecco Adriana Asti e Marilù Tolo; per la tetta zozzetta e un po’ perversa, s’avanzano quella scandinava e lolitesca, ecco Janet Agren; per le tette terzomondiste, le migliori sono quelle di Zeudi Araya. Per la, cronaca, anni dopo l’eredità di Rita Renoir verrà presa al Crazy Horse da Rosa Fumetto. Nuda, immersa in una mega coppa di champagne, delizia senza pudore il pubblico. Inizia la stagione del genere burlesque.
Umberto Eco viene mobilitato in difesa della stampa erotica (“Ma cos’è questa pornografia?”, 2 febbraio 1975). Lo scrittore tira le orecchie a un cavallo di razza scudocrociato: «E se Fanfani avesse la competenza sociologica e quella lungimiranza storica che tutti gli negano, capirebbe che la diffusione della pornografia è un capitolo fondamentale della restaurazione strisciante, uno dei modi per avere un elettorato passivo, lontano dalle polemiche sul divorzio o sull’aborto, e persino disinteressato di fondi neri. Ma lui, pare, non legge». E dopo l’exploit teatrale di Rita Renoir, il settimanale accoglie a braccia aperte quello cinematografico di una sconosciuta Corinne Clery: “Histoire d’O. Così parlò Kamasutra” (4 maggio 1975). Il celebre romanzo diventa film, «fra tonnellate di glutei, cilici e gemiti in puro stile porno-kitsch», si infervora Marmori. E prosegue: «Nel film, “O” verrà interpretata da certa Corinne Clery, una gradevole e ignota bruna di 25 anni. (…) Corinne è tonda abbastanza, non quanto però l’originale, e non è più adolescente. Nasce poi da famiglia agiata e non sembra particolarmente perspicace».
Conosco Corinne Clery da poco più di un anno. Fu lei a contattarmi: amante dei cani, venne colpita dal mio Mario. Corinne vive in una bella e verde tenuta nella campagna di Tuscania, “il Coco”. Ospita turisti nelle stanze che affitta, in cerca di relax, di sole e di bagni in piscina. Un’ora e un quarto di macchina lungo la tranquilla Cassia bis, e torno dalla Clery per chiederle, visto che abbiamo appena ricordato quanto le scrisse “L’Esprsso”, qualcosa di quel film. Corinne è ancora una bella donna, di pochi anni più anziana di me. Vive da sola. I figli sono in Francia. E si occupa direttamente della gestione della sua “impresa” molto familiare ma co n un tocco di ricercatezza molto parisienne.
«Come sei stata scritturata per quel film?».
«Vivevo con i miei a Parigi. Per un po’ ho tergiversato, poi ho accettato di andare a un provino. Vado, ma senza grandi speranze; sapevo che davanti al regista avevano sfilato centinaia di ragazze. Viene il mio turno, non mi chiedono di spogliarmi, vengo prescelta».
D.: «Come venne accolta l’uscita del film in Francia?».
«Riscosse subito un successo enorme. L’assurdo è che venni contestata dalle femministe. Non avevano capito il senso liberatorio del film. Del resto io sono un’attrice, non una suffragetta. E nemmeno un’esibizionista. Mi piace il mio corpo e troppo tardi ho capito la potenzialità della mia fisicità. No, non mi sono mai sentita un sex-symbol. Ti voglio raccontare che mentre in albergo mi preparavo per la prima del film, con un certo spavento spiai dalla finestra della suite della mia stanzao: che impressione! Un mare di folla che dall’avenue des Champs E’lisée fino allArc de Triomphe du Carrousel voleva vedermi».
«Abbiamo detto dei tuoi fans. E la critica, la stampa?».
«Il settimanale politico e culturale “L’Express” mi dedicò una copertina con una delle foto più nude e crude del film. Il suo direttore, Jean-Jacques Servan-Schreiber, politico, scrittore, oltre che giornalista, è diventato un caro amico».
«Nel film, nuda, sei legata e fustigata. C’è molto sadismo. Che impressione ti fa oggi rivedere il film?».
«Bien, ho provato una noia mortale, un film per educande. Naturalmente non ho avuto controfigure. Potrei girare nuda per Tuscania, talmente sono libera da pregiudizi. Quanto alle frustate, erano delle dolci carezze...».
Negli Stati Uniti «due sociologi dimostrano che l’erotismo di gruppo giova all’America» ( “E’ un patriota: dorme in comitiva” , 11 aprile 1971). Lo swinging o sesso collettivo per rivitalizzare la depressione a stelle e strisce, viene teorizzato, scrive Romano Giachetti, dai coniugi Bartell: «Nel trio o nella doppia coppia le cose sono più delicate (…) tanto che perfino il linguaggio è mantenuto allusivo, mai volgare. Così si parla di amore alla francese (orale), alla romana (orgia), alla greca (anale), all’inglese (sadomasochismo), alla tv (travestiti), alla polaroyd (voyeurismo). Il sesso, poi, può essere “chiuso”, tutti in camere diverse, o “aperto”, tutti insieme (…). I Barrell raccontano che quando a una coppia marito e moglie, eccitati da tanto baccanale, cercano di fare all’amore tra di loro, tutti gli altri insorgono e li fermano: “Questo non è permesso, è incesto”».
Il 1975 segna un’altra importante battaglia civile e sociale di cui “L’Espresso” si fa promotore. Dalla mia intervista all’avvocato Oreste Flamminii Minuto leggo:
Domanda: «Quella storica e scandalosa copertina del 1975, intitolata “Aborto: una tragedia italiana”, raffigurava una donna nuda, incinta e messa in croce, suscitò un vespaio. Perché?».
Risposta: «Facciamo un passo indietro, all’anno prima. Il 13 gennaio “L’Espresso”, che era ancora in formato lenzuolo, aveva in primo piano il referendum abrogativo del divorzio, approvato grazie ai deputati Fortuna e Baslini. Una valanga di “No” restituì al paese una legge civile. In copertina il risultato del referendum venne salutato con uno sberleffo: una lingua con sopra la percentuale del voto. Torniamo alla copertina del 1975. Ebbe un impatto visivo enorme e venne denunciata per vilipendio della religione. Finiti al giudizio della Cassazione, il direttore Zanetti e l’autore dell’articolo vennero assolti “perché il fatto non è previsto dalla legge come reato”».
Arriviamo al 1976: Se Zanetti spedisce Sergio Saviane a Uscio (più si caga, più si dimagrisce), ai lettori consiglia di meglio: Vacanze intelligenti. E le vacanze intelligenti, come vedremo, diventa un appuntamento estivo oltre che un tormentone. Vacenze intelligenti come quelle che consigliano un viaggio alla Gohete nell’arte italiana (18 luglio 1976), oppure a contato con la natura italiana (17 giugno 1978). Chi fa vacanze deficienti è l’aspirante re d’Italia, Vittorio Emanuele di Savoia. Il “re di Cavallo” (3 settembre 1978), isolotto vip della Corsica, arricchisce il suo pédigree con «criminali imprese di artigliere marittimo», come le chiama Gabriele Invernizzi.
La stagione dei “mesi intelligenti” viene anticipata con una locandina pubblicitaria: “Le Vacanze intelligenti: l’estate apocalittica: quest’anno si gioca alla sopravvivenza in montagna, al mare, nell’albergo abbandonato. Mostre, spettacoli, festival: calendario ragionato delle più importanti manifestazioni. Itinerari insoliti: quattro viaggiatori stravaganti scoprono la vecchia Europa. I libri del sole: classici e novità da leggere per approfittare dei giorni liberi (li consigliano Umberto Eco, Elio Chinol, Giuseppe Galasso). Italia tecnica e magica: itinerario fra le testimonianze del mondo moderno e le sopravvivenze dell’antico”. Sotto, la foto di una splendida ragazza bionda e nuda, bandana a tenere i capelli, la bocca a sfiorare una fisarmonica, bracciale ai polsi e cavigliera al piede. Quello che colpisce è la ricerca e la raffinatezza dei nudi che propone “L’Espresso”, Tanto erotismo e mai una goccia di volgarità.
Tirano bene anche le “Vacanze orientaliste” (“Cinquemila al giorno, Buddha compreso”, 18 giugno 1978), da trascorrere in “campi di meditazione” e in compagnia, come annota Marisa Rusconi, «di guru, yoghi, professori junghiani e danzatori più o meno seri». Ma la grande questione è un’altra: “La coppia deve dividersi per almeno un mese all’anno?”. Interrogativo amletico che merita la copertina e il proclama: “Vacanze separate” (23 luglio 1978). A illustrare “Le vacanze separate” vengono fotografati due ragazzi. Lei in topless bianco e bianca la sua collana, svolazza felice e a piedi nudi sulla sabbia. Lui, un po’ depresso, si allontana mogio mogio nel suo costume hawajano.
Andiamo a leggere l’articolo. Sommario: Costume / Le vacanze separate. Titolo: “Finalmente sola”. Sì, è davvero sola la ragazza nuda con gli occhi chiusi da sognatrice, distesa al sole accanto a un windsurf. Sui seni e sul sedere risalta il bianco del bikini che si è sfilata. Veniamo all’incipit: “Lui lì / Lei là / E gli altri? Chissà”. E’ il couplet per l’estate: insomma le vacanze separate. Un modo diverso di interpretare la villeggiatura e la vita di coppia? Le vacanze per proprio conto come ricerca di un ménage in crisi? Come ripensamento e addirittura come un’infrazione ai vecchi comandamenti del vivere insieme?”. Seguono le testimonianze dei pionieri di queste vacane. C’è l’avvocato trentacinquenne benestante ed emancipato che legge “Lotta continua”; e l’arredatrice ventinovenne che al lavoro nel suo studio alterna le riunioni del collettivo femminista del quartiere. E gli esperti del settore come la pensano? Il regista Marco Ferreri (“L’ultima donna”, “Ciao maschio”) non ha peli sulla lingua: «Cosa credono queste coppie, che un mese di lontananza le fa tornare differenti? Al massimo si fanno tre scopate in più, se ci riescono, ma questo non ha mai risolto nessun problema». Lidia Ravera, scrittrice (“Porci con le ali” con Marco Lombardo Radice), è anche lei sul fronte del No: «Le vacanze separate mi sembrano un trucchetto a cui ricorrono tutte quelle persone che non hanno mai fatto l’esperienza dell’autonomia: questa si misura nella vita quotidiana, non certo separandosi per qualche settimana». Rileggendo l’articolo ci viene un sospetto. Non sarà che le vacanze separate spaccano le generazioni? I ragazzi e le ragazze intervistati sono tutti del partito del Sì. «Fa bene stare un periodo senza vedersi: Quando torni tutto è più bello di prima, anche lui è più bello», è la voce, fra le tante, di Luciana, studentessa di filosofia. Meno teorica e più pratica è Teresa, una biondina di vent’anni: «La vacanza separata significa libertà in tutto, anche nei rapporti sessuali».
Facile a dirsi, un po’ più complicato il farsi: come, dove, quando, con chi? Già, con chi? Bel problema. Anche perché s’avanza una nuova protagonista della stagione: “E’ la donna del momento. Bella, complicata, fra i trenta e i quaranta” (28 maggio 1978). Lucilla Casucci ce la presenta: «Realizzata ma disperata, emancipata quanto insoddisfatta, ambiziosa e insicura, anticonformista, romantica, impegnata, disillusa (…). E’ lei, la trentenne, che adesso detta le mode, fa notizia, conta». Una tipa anche molto curiosa che, tra l’altro, vuole esplorare le vie della sessualità. Tanto più che lì le cose non è che vadano proprio bene. Dagli Stati Uniti “L’Espresso” diffonde il “Rapporto Hite”, redatto da una studiosa americana Shere Hite, laurea alla Columbia University di New York (Mr. Orgasmo? C’è una signora che aspetta”, 6 novembre 1977).
Nel 1979 le conquiste del femminismo non hanno barriere. Scavalcano anche le corde del ring. “Botte da donne” recita il titolo. Le ragazze sono una francese di origine italiana, Lina Magnani e la fiamminga Cleo Dewert. L’ “evento” si è tenuto al Teatro Tenda di Roma e ad applaudire “Femme catch, le donne sul ring”, spettatori di eccezione: come il regista Sergio Leone e l’attore Giuliano Gemma. Ironico il finale dell’articolo: «Per un’ora, sul ring, Lina, Cleo e altre loro due colleghe, hanno fatto finta di darsele di santa ragione, con discreto spasso di tutti. Forse se gli organizzatori avessero invitato quattro femministe romane di diversa tendenza, le botte si sarebbero viste sul serio». Quattro le foto che accompagnano il match. Nella prima sembra avere il sopravvento la leoapardata Cleo, ma presto finisce alle corde, tra calci e testate nel ventre e la bocca spalancata…
Una possibilità che il formato tabloid dà ai grafici è quella di dividere in due o tre parti la copertina. Prendiamo quella del 13 aprile 1980. Tre le foto. In alto un terrorista che punta una Beretta (“Un mitra si aggira per l’Europa”). In basso un contrasto di gioco e “Il memoriale del super testimone” del calcio truffa. Al centro la splendida Ilona Staller, seni nudi in vista, seduta su un trono dorato dove i braccioli hanno la testa di due capricorni. Collane, bracciale e una corona da regina del porno fanno brillare la sua pelle bianca come il latte. Titolo. “Rai-tv erotica. Ne vedremo delle nude!”.
Dopo aver spogliato attrici e debuttanti, il principe di “Playboy” Hugh Hefner se n’è inventata un’altra: è la volta delle segretarie. Lasciamo perdere i nomi delle ardite, non dicono niente. Molto di più le loro foto: bei seni, lunghe gambe, natiche toste e sguardi malandrini. Il “Playboy” italiano è fedele alla linea dell’eros a stelle e strisce. Con l’obiettivo di Angelo Frontoni inaugura la galleria di “donne qualunque”, come Francesca Guidato, segretaria di una galleria romana: ha un seno scoperto, l’altro coperto maliziosamente dal reggiseno e con unghie delle lunghe mani laccate di rosso. Sia made in Usa o made in Italy, delle ragazze non si deve mai vedere il basso ventre né il suo boschetto. Nella scheda “Miss autoscatto” si dà voce alla protesta risentita dei redattori de “Le Ore”, leader assoluto nel settore più spinto (80 mila copie a numero in media): «Ma cosa credono quelli di “Playboy”, di avere veramente scoperto l’America? Sono anni che noi pubblichiamo solo nudi di donne qualunque». E il successo è tale che “Le Ore” ha perfino lanciato un concorso: in palio il titolo di “Miss Autoscatto”, dalla omonima rubrica Autoscatto dove si celebra il trionfo del porno casareccio.
A essere sinceri, in questa stagione è un’altra l’aria che tira nel paese. “L’Espresso” la sintetizza con una copertina dove un bel sedere femminile diventa l’obiettivo di una freccetta. “Italia volgare” (31 gennaio 1982) è la scritta, contornata da “sederi”, pierini, pernacchie, storielle goliardiche. E a scegliere “Le cronache dell’Italia volgare” è la penna di Dante Matelli. Che dopo aver esplorato “Viva la foca”, film con Lory Del Santo e “Pierino contro tutti del due Alvaro Vitali & Michela Miti, attacca: «Ben cinque minuti al cazzo, durante una tranquilla trasmissione domenicale, in origine, forse, programmata per le famiglie. E’ accaduto a “Blitz”, il 10 gennaio scorso, per iniziativa di Giorgio Bracardi, macchiettista in linea con i tempo. “Ma tu vuoi mettere il pipino di Spadolini con la mazzaferrata di Predappio?”, è stato l’esordio virilnostalgico dell’attore». Il 16 maggio di quell’anno si preparano le valigie e si riorganizzano le idee per l’estate. “L’Espresso” offre un suggerimento: “Vacanze: fatele in Italia”. Bella e un po’ surreale la copertina. Una splendida mulatta corre nuda verso il mare dove biancheggiano le onde. Alla sua sinistra si erge una scala bianca come le onde. A Giorgio de Chirico sarebbe piaciuta. Già: ma dove porterà quella scala, Tirreno o Adriatico?
Stagione di scazzi e stagione di donne con le palle, come suggerisce anche il leghista Roberto Maroni, parlando di una sua dipendente, capo gabinetto. E le “donne con le palle” appaiono anche sulla copertina de “L’Espresso” (23 settembre 1994). Una di loro, Letizia Moratti (“Nelle mani di donna Letizia), era arrivata al vertice della Rai, provocando un terremoto. Il giornale si chiede: “Lottizzata o indipendente? Manager navigata o principiante? Prima o seconda Repubblica? Meriti e segreti della signora Brachetti Moratti)”. Figlia di quell’Angelo Moratti, industriale e presidente della grande Inter di Helenio Herrera, e sorella di Massimo e di Gianmarco, la risposta ai quesiti arriva sulla copertina del 30 settembre 1994, E’ una copertina a due volti: da una parte c’è “Santa Moana”, “Nuovi miti. Vita, morte e apoteosi di una pornostar”, in cui appare Moana prematuramente morta (il suo mito, creato “in società” con Riccardo Schicchi, patron della Diva Futura, sede in campagna, strip estremi nei locali di via Veneto) è talmente vivo ancora oggi che molti suoi fans sono convinti che sia ancora viva e si sia rifugiata in un convento). Dall’altra, ecco la “Letizia tragica”, “Vecchi vizi: la presa del potere di Berlusconi”.
Sul numero del 21 ottobre 1994, il giornale dà notizia che la “Marescialla” chiede 10 miliardi di lire”. La Moratti querela per diffamazione Rinaldi e Pansa. “Tra politica & salotti” impazzano “Le donne delle due Repubbliche” (28 ottobre 1994). Le racconta Denise Pardo e ci fa sapere che «alcune orfane di Bettino, sono approdate da Silvio. Altre annaspano in mezzo al guado. Altre ancora si sono ritirate a vita privata». Seguono «fasti e nefasti di dieci signore-simbolo». Da Marina Ripa di Meana a Maria Pia La Malfa, da Alda D’Eusanio ad Anja Pieroni e via elencando.
Un amarcord d’autore lo offre un inedito di Pier Paolo Pasolini (“Federico”, 19 gennaio !992). E’ il 1965 e in macchina assieme a Fellini parte alla ricerca della “Bomba”, la “mitica battona romana”. Comincia così: «Ricorderò sempre la mattinata che ho conosciuto Fellini: mattinata “favolosa”, secondo la sua linguistica più frequente. «Siamo partiti con la sua macchina, massiccia e molle, ubriaca ed esattissima (come lui), da piazza del Popolo, e di strada in strada siamo arrivati in campagna: era la Flaminia? L’Aurelia? La Cassia? L’unica cosa fisicamente certa era che si trattava di campagna, con strade asfaltate, benzinai, qualche casale, qualche ragazzo in bicicletta un po’ burino e un’immensa guaina verde, imbevuta di sole ancora freddo che rivestiva tutto. Federico guidava con una mano e dava arraffate qua e là al paesaggio, rischiando continuamente di schiacciare i ragazzetti burini o di finire nel fosso, ma dando però l’impressione che ciò, in realtà, era impossibile: guidava la macchina magicamente come tirandola e tenendola sospesa con un filo».
E che ti combina Chicco Testa, allora alla presidenza dell’Enel, primo boiardo diessino dell’era Prodi? E’ l’amante focoso che compare nel fotoromanzo d’antan “Donna di cuori o di denari?”, «pubblicato nel 1985 sul primo numero di “Lucciola”, periodico dalla parte della prostitute diretto dalla saggista Roberta Tatafiore» (“Dalle lucciole all’elettricità”). Più villoso sul cuoio capelluto che sul petto, Chicco sbaciucca la partner , che è proprio la Tatafiore: «Daniela, Daniela, mi piaci… Sei il tipo di donna che può farmi impazzire». E lei, languida: «Me l’hai già detto. Dimmelo un’altra volta». Furono invece “Sgominati da una pernacchia” (23 maggio 1996) i compagni di Servire il Popolo, i maoisti italiani che nel ‘68 fondarono un partitino e un giornale, e si votarono all’integralismo comunista (all’indice l’infedeltà!), fra comuni, matrimoni rossi e collettivizazioni. Per il loro piccolo Mao c’era pure una cantilena: “Viva, viva Meldolesi, il gran capo dei cinesi…”. I più cinici (vedi i “compagni” di Potere Operaio che nel pomeriggio del sabato sfilavano nel centro delle città, terrorizzando gli amanti dello shoppimg, caschi da centauro, mazze di ferro e a proteggere il corteo i katanga foulard sul volto e molotov in mano. La sera si scatenavano ai tavoli del poker ) li soprannominarono Servire Il Pollo…
Che al direttore Claudio Rinaldi piacciono le donne è un fatto (tipologia Jo Champa o Veronica Pivetti). Che ami guardare le belle donne è un altro fatto. Che non perda occasione per sbatterle nude in copertina è una certezza. Al di là di alcune copertine canoniche che un po’ tutti i direttori fanno nei momenti di magra, da come curare il mal di testa alle allergie, dalle coppie in crisi all’adulterio, fino alla diatriba nucleare, per fare un esempio. Rinaldi batte tutte le strade dell’eros. Per cominciare, non butta niente: non solo copertine con star e rockstar (adora il genere coatto-chic-trasgressivo stile Courtney Love & Asia Argento), ma spazia da anonime ucraine al Calendario Pirelli fino ad Alba Parietti. Ma sono le top model le sue fissazioni. Claudio, infatti, adora le sfilate (come le partite della Roma). Claudia Schiffer (“Oh, Claudia”, 3 giugno 1994) Le immortala nude in copertina praticamente tutte: Naomi Campbell (“La dittatura dell’apparenza”, 26 aprile 1992) e Carla Bruni (“Oh, Carla, 22 novembre 1992) e Nadja Auermann (“Nadja!”, 16 settembre 1994). Si risuscitano nudi d’annata, da Jane Fonda a Brigitte Bardot fino a Silvana Mangano.
Fondamentali anche gli interrogativi e le tematiche che dibatte il giornale. “Come fanno l’amore gli italiani”; “Oggetto del desiderio l’alluce” (Una paparazzata estiva di Sarah Fergusson e del suo aristocratico amante sorpreso, appunto, col principesco alluce in bocca); “Come cambia la prostituzione”; “Il Vangelo del nuovo libertino”. Il top Rinaldi lo raggiunge l’8 agosto 1996, con una sfilata in copertina di culi femminili. Titolo: “Il fattore C”, Occhiello: “La prevalenza del didietro”. Sommario: “20 pagine posteriormente scorrette”
C’è un’altra grande notizia che rende felici le pantere canute e i ragazzi della via Po. Il farmaco-miracolo: “Viagra la pillola che guarisce” (27 novembre 1997) e che promette di risolvere i problemi dei maschietti «sette volte su dieci». Se la scienza dà una mano, la tecnologia dà l’altra: “L’amore al tempo di Internet” (10 maggio 1996) è un baedeker dell’eros: «Ricerca di partner, lezioni di sesso, immagini choc». Il giornale offre «una guida esclusiva alle passioni online». E le perversioni? “L’Espresso” le garantisce patinate con i maestri dell’erotismo. Richard Avedon spoglia “L’ultima Madonna”, Courtney Love, vedova del leader dei Nirvana Kurt Cobain (“Le perverse”, 8 gennaio 199(). Poi Helmut Newton svela le grazie e i tatuaggi inguinali di Asia Argento (“Peccato d’argento”, 15 gennaio 1998) che, very hot, sibila: «Mentre scattava quelle foto mi sentivo veramente come una bambina in un bordello. Una baby seduttrice, un manichino in un casino».
Il 15 agosto 1996 “la coscia lunga della sinistra” “L’Alba desnuda” si merita una copertina, firmata dal maestro Helmut Newton. La Parietti si era data al cinema erotico, protagonista del film “Il Macellaio” di Aurelio Grimaldi (“Tutta l’Alba in 3 minuti e 5 secondi”, 19 marzo 1998). La viviseziona l’ultrarecidivo Matelli, cronometrista dell’eros: «Le cose variano quando Alba si masturba sul corpo del macellaio esausto. E’ un assolo da post-femminismo. Alba in questa scena fa pendant col marito che sul podio di Odessa dirige un “Messia”. Lui si sbraccia e lei si mette “a candela”. Lei deve aver toccato in qualche modo il suo punto “G” e il marito, in contemporanea, si contorce sul podio nell’imitazione di Sir Colin Davis». La sceneggiata dell’erotica Alba comunque dura troppo poco, rispetto a quanto promesso: 1 minuto e 19 secondi, secondo il cronometrista dell’eros Matelli. Il problema è grave: eiaculazione precoce.
La Milano by night si distrae a ritmo di samba sotto la Madonnina con bellezze russe, viados brasiliani e droga a fiumi. L’oggetto del desiderio si chiama Lara Souza De Morais, detta Lara, testimone di Geova nata a Goias, in Brasile, 34 anni fa. E’ sospettata di sfruttamento della prostituzione e detenzione di cocaina (“Sesso, Lara e cocaina”, 24 febbraio 2000). Marco Gregoretti sniffa la pista e incassa verbali a luci rosse. Una delle ragazze dell’allegra banda Lara racconta: «Lara mi chiamò in disparte e mi disse di non chiedere soldi ai clienti perché al termine mi avrebbe pagato lei… Preciso che in quella circostanza percepii la somma di 500 mila lire (250 a testa) per i due rapporti orali consumati in bagno in quanto nella stanza c’erano le sorelle che pregavano». I clienti non sono persone qualsiasi, ma stelle del calcio, famosi attori, rampolli della borghesia meneghina. E’ un giro di feste, festini, orge, ammucchiate, che ha come punto di riferimento la discoteca Hollywood. Un imprenditore confessa il costo della spesa: 30 milioni versati a Lara nel gennaio-febbraio 1998, 80 milioni nel maggio-giugno 1998.
“Monica desnuda” (2 novembre 2000) queste cosacce non le fa. Lei, Monica Bellucci, è la protagonista del film “Malèna” di Giuseppe Tornatore. Il regista la intervista per “L’Espresso” e ne esce un curioso faccia a faccia. Si comincia dal potere della seduzione: «E’ chiaro che la bellezza dà una grande forma di potere», ammette la Bellucci: «Io ho scelto un lavoro basato sul desiderio degli altri. Se faccio un calendario nuda, e dopo 36 ore va esaurito, significa che di un certo potere, minimo se vuoi, posso disporre. D’altra parte è naturale. Biologicamente, se ci pensi, la donna cosa vuole? Sedurre l’uomo, proprio da un punto di vista animale. Proprio come la giraffa con il maschio, lo stesso fa la donna».
La “bona” Samaritana non risparmia i particolari della sua prima volta: «Avevo 14 anni, lui 18: E’ stato bellissimo e molto naturale. Dove? In una Lancia».
Flavio Briatore, mister Formula 1 oltre che mister Cambell e presto mister Gregoracci, non se la passa malaccio. Apre le porte della sua nuova creatura a Enrico Arosio (“Io ballo con Naomi”, 3 agosto 200), il Billionaire, il locale di Porto Cervo più corteggiato da sceicchi e calciatori, commendatori della Brianza e stelline. La formula Briatore è semplice: «Io vivo a Londra da 12 anni ma la Sardegna è sempre il posto più bello e a a Porto Cervo mancava un locale adatto (…) a tutti quelli che la sera stanno chiusi nelle case o sulle barche. Inglesi, americani. Amici che da anni vanno a Saint-Tropez proprio per i locali. Ma cosa c’è a Saint-Tropez oltre ai locali? Il mare no, il mare è qui». Ma niente Sardegna per i lettori de “L’Espresso”. Le sempre più resistenti vacanze intelligenti della direzione Anselmi fanno rotta “Alla scoperta delle due Sicilie dei Borbone” (3 agosto 2000).
Grosso scandalo all’università. La ragazza è bella, ha i capelli lunghi, una camicetta bianca e una voce da fatina. Appena entra nello studio del professore si giustifica perché è venuta con una bambina (…). Di certo la bambina resta fuori. Il professore se ne disinteressa e si lancia sulla studentessa. Prima la sfiora tra le gambe, poi le prende la testa. Vuole un rapporto orale. Lei resiste: «No, professore, non me la sento. La prego, qualsiasi cosa ma questo no». Il professore la stringe sul divano e lei l’accontenta in altro modo. Lui resta immobile sulla sedia. Sembra un filmino stile “Il professore riceve l’allieva” e invece improvvisamente la scena cambia. Lei si ferma e comincia a piangere. Lui resta con i pantaloni calati, sul volto un tragico imbarazzo. Gli exploit erotici del professor Ezio Capizzano (“Ecco a voi il Decamerino”, 14 febbraio 2002), docente di diritto commerciale all’Università di Camerino sono immortalati, a insaputa delle sue allieve, dall’emerito studioso in altrettante videocassette. Una trentina di video hard. Non la passerà liscia.
Un altro film erotico molto gettonato in questa stagione ha per titolo “Milingo & Milinga” (6 settembre 2001). Protagonista maschile Emmanuel Milingo. vescovo, guaritore ed esorcista, detto il padre Pio africano. Interprete femminile: la dottoressa Maria Sung, 43 anni, detta “la Milinga”. E dire che all’apice della carriera, «il vescovo africano è una slot-machine, Tra le offerte per le guarigioni e i diritti dei suoi libri, tira su più di un miliardo l’anno. Nel ‘97 i suoi seguaci organizzano una crociera-pellegrinaggio in Grecia con il vescovo a bordo. Costo del biglietto: 2 milioni a testa».
Il 7 marzo del 2001 cambia la direzione. Giulio Anselmi saluta i lettori e in Largo Fochetti da Milano arriva “la direttora”. La milanese Daniela Hamaui. Sempre di Prada vestita e tacchi a spillo esagerati (la “sciura” a Roma si direbbe che è un tappo…), Daniela detesta il pettegolezzo. E il nudo scompare dal giornale. Le immagini più spinte bisogna cercarle nelle inserzioni pubblicitarie. E anche quando in copertina punta sul sesso, di erotico c’è solo il titolo. Il 25 aprile 2002 la top model Elle McPherson in abito da sera introduce al Porno-chic. “L’orgia chic”, 31 luglio 2003) è illustrata da ragazzetti puritani. Per “Il sesso scatenato” (13 giugno 2002) c’è il faccione di una castissima Laetitia Casta. Insomma, lo scritto osa più dell’immagine. Due esempi: “Caccia al punto G” (25 luglio 2002), dedicata al piacere femminile. E “La predatrice” (7 agosto 2002), la giovane single e spregiudicata che cerca «un maschio per una notte». Ebbene, non ci scappa una tetta nemmeno a pagarla. Il maschilismo di via Po è in rotta. Come le Vacanze intelligenti, ormai una reliquia, La Hamaui propone “L’estate zingara”, dal deserto alla giungla, le vacanze a cielo aperto.
LA RIVINCITA DI BERLUSCONI. La fedelissima di Cosentino entra nel cda dell’Espresso. GIOVANNI TIZIAN su Il Domani il 04 luglio 2022
Per uno strano caso del destino nel consiglio di amministrazione del nuovo settimanale L’Espresso, ormai in mano al nuovo editore Danilo Iervolino, siede Paola Picilli.
Esperta di comunicazione, fondatrice di aziende, collaboratrice di politici e sottosegretari di Forza Italia, il partito di Silvio Berlusconi, che le inchieste dell’Espresso hanno raccontato in ogni sua sfumatura. Picilli è sposata con Luca D’Alessandro, giornalista, ex parlamentare, pure lui in Forza Italia (in passato capo ufficio stampa) fino all’uscita nel 2015.
Picilli è stata soprattutto, però, braccio destro e portavoce di Nicola Cosentino, che è stato il più potente politico di Forza Italia in Campania e sottosegretario all’Economia negli anni d’oro del berlusconismo. E questo ruolo è quello che più imbarazza all’interno della redazione.
GIOVANNI TIZIAN. Classe ’82. A Domani è capo servizio e inviato cronaca e inchieste. Ha lavorato per L’Espresso, Gazzetta di Modena e ha scritto per Repubblica. È autore di numerosi saggi-inchiesta, l’ultimo è il Libro nero della Lega (Laterza) con lo scoop sul Russiagate della Lega di Matteo Salvini.
Giovanni Tizian per editorialedomani.it il 5 luglio 2022.
Per uno strano caso del destino nel consiglio di amministrazione del nuovo settimanale L’Espresso, ormai in mano al nuovo editore Danilo Iervolino, siede Paola Picilli. Esperta di comunicazione, fondatrice di aziende, collaboratrice di politici e sottosegretari di Forza Italia, il partito di Silvio Berlusconi, che le inchieste dell’Espresso hanno raccontato in ogni sua sfumatura. Picilli è sposata con Luca D’Alessandro, giornalista, ex parlamentare, pure lui in Forza Italia (in passato capo ufficio stampa) fino all’uscita nel 2015.
Picilli è stata soprattutto, però, braccio destro e portavoce di Nicola Cosentino, che è stato il più potente politico di Forza Italia in Campania e sottosegretario all’Economia negli anni d’oro del berlusconismo. E questo ruolo è quello che più imbarazza all’interno della redazione. Il motivo è semplice e riporta il giornale in piena epoca antiberlusconiana. “La camorra nel governo” è stato il titolo di una copertina dell’Espresso nel 2008, e ha scatenato il finimondo. Soprattutto perché al centro dell’indagine giornalistica c’era l’allora potente sottosegretario all’Economia, Nicola Cosentino, ras di Forza Italia in Campania e fedelissimo di Silvio Berlusconi.
I verbali pubblicati rivelavano per la prima volta l’esistenza di un’inchiesta dell’antimafia di Napoli sui rapporti molto stretti tra il sottosegretario e il famigerato clan dei Casalesi. Rapporti fondati sull’affare della spazzatura, business attorno al quale la camorra casertana ha costruito un impero, prima avvelenando i terreni con gli sversamenti illegali, poi gestendo con la politica lo smaltimento ufficialmente legale.
«Cosentino oggi produce vini in Campania, è fuori dalla politica», dice Picilli, che replica: «Non capisco cosa c’entra la mia nomina da indipendente nel cda dell’Espresso con le mie collaborazioni che ho avuto con diversi politici da Scajola a Cosentino». Picilli a settembre 2020 gioiva per l’assoluzione di Cosentino in uno dei tanti filoni aperti: «Vorrei solo che i nove anni di vita e di carriera qualcuno li restituisse a Nicola Cosentino, solo chi ha parlato con i suoi figli prova rabbia per un’assoluzione scontata. Povera Italia». Con lei hanno twittato il direttore del Foglio Claudio Cerasa, quello del garantista Pietro Sansonetti e tutti i politici di Forza Italia. Tutti avevano però omesso un elemento rilevante: gli altri procedimenti ancora aperti e le altre condanne ricevute da Cosentino per reati più gravi.
Un anno dopo, infatti, i giudici di secondo grado lo hanno condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, proprio l’inchiesta di cui L’Espresso aveva rivelato l’esistenza nel lontano 2008. Dieci anni di condanna in appello, perché secondo i giudici l’ex sottosegretario berlusconiano era il referente politico nazionale del clan dei Casalesi. Dopo questo verdetto, cui manca solo l’ultima parola della Cassazione, né Picilli né gli altri del partito hanno detto nulla.
«Io condivido sempre la libertà di stampa, soprattutto quando è fatta nel modo più corretto, e quando i colleghi giornalisti hanno onestà intellettuale che sia apolitica e apartitica. Nel 2008-2009 era quella la teoria dei magistrati, dopo le cose sono cambiate e infatti l’Espresso non ha più fatto quella copertina», dice Picilli. Alla teoria dei magistrati, però, hanno creduto sia giudici di primo che di secondo grado. «Ho ancora un ottimo rapporto con Cosentino. Vedremo in Cassazione che succede».
Picilli non è soltanto una consulente esterna che ha prestato la propria professionalità al partito di Berlusconi. Condivide con Forza Italia ideali e la passione per il capo politico di Arcore. E questo è evidente anche dai post pubblicati sui social network meno di un anno fa. Il 17 agosto 2021, commentando un intervento di Berlusconi sull’Afghanistan, Picilli scriveva: «Grazie presidente Silvio Berlusconi, gigante fra nani». Qualche mese fa, prima che Iervolino acquistasse definitivamente il settimanale e chiamasse la Picilli come membro del cda, l’Espresso aveva pubblicato un servizio sull’elezione del nuovo presidente della Repubblica: “Lui No”, titolava la copertina con una foto di Berlusconi.
Chissà che effetto farà a Picilli entrare ora nelle stanze dove sono nate le oltre cento copertine sul leader di Forza Italia: da “Sex and the Silvio”, “Arcore by Night” fino ad “Affari Suoi” e alle inchieste sui rapporti con la mafia, attraverso il fedelissimo Marcello Dell’Utri. Vent’anni di berlusconismo raccontati attraverso il settimanale e di cui la storia di Cosentino è stata una delle inchieste più significative degli ultimi anni. «Io sono solo una consigliera del Cda, non intervengo sulla linea editoriale».
DOPO L’ARTICOLO DI DOMANI. La fedelissima di Cosentino e Berlusconi si dimette dal cda dell’Espresso. GIOVANNI TIZIAN Il Domani il 06 luglio 2022
L’amica di Nicola Cosentino ed estimatrice di Silvio Berlusconi non sarà più dentro il consiglio di amministrazione del settimanale L’Espresso, che proprio a Cosentino aveva dedicato copertine sui legami con la camorra.
Paola Picilli si è dimessa dopo l’articolo pubblicato da Domani sulla sua nomina e sulle sue solide relazioni con l’ex politico di FI.
«Motivi personali», è la motivazione ufficiale.
La fatwa di Fatto e Domani. Travaglio e Feltri si scagliano contro Chiocchetti e Picilli: “Sono mafiosi perché hanno lavorato con Dell’Utri e Cosentino”. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 6 Luglio 2022
Chi sono Paola Picilli e Alessandro Chiocchetti e che cosa hanno in comune? Quali delitti hanno commesso, per meritare di essere afferrati per la gola dai quotidiani di Marco Travaglio e Stefano Feltri? Si diceva un tempo che le colpe dei padri non dovrebbero mai ricadere sui figli. Poi ricadevano, eccome. E uccidevano in culla carriere e ambizioni politiche. Ma arrivarono in seguito anche i giorni in cui cominciarono a piovere sulla testa dei figli le storie di vita di coloro che li avevano messi al mondo, nella buona e nella cattiva sorte. In Italia succede così, nel mondo dell’informazione.
Delle “colpe” dei figli che ricadono sui padri sa qualcosa Matteo Renzi, che ha avuto una sofferenza sincera nel vedere i propri genitori braccati dal meccanismo infernale delle inchieste-gogna su fatti che non avrebbero destato la minima attenzione se non avessero riguardato la famiglia del Presidente del consiglio. Un’operazione politica che ha poi presentato anche il vantaggio di far aprire gli occhi al leader di Italia viva, oggi fiero combattente in nome dei principi dello Stato di diritto. Ma non tutto è politica e non tutti sono Matteo Renzi. Il mondo è pieno di persone “normali” e Paola Picilli e Alessandro Ciocchetti sono tra questi. Esperta di comunicazione la prima, alto funzionario del Parlamento europeo il secondo. Due persone che probabilmente non si conoscono tra loro. Che cosa dunque avvicina le loro sorti? Due colossali sgambetti giornalistici in momenti delicati della loro carriera, tirati dalla furia dell’antimafia militante. Non siamo più alle colpe dei padri che ricadono sui figli né quelle dei pargoli a soffocare i genitori. Il salto di qualità porta a definire come impresentabile, o incandidabile a qualunque forma di carriera o promozione persino chi abbia “lavorato per”. Un “per” grande come una casa, se va a sfiorare Silvio Berlusconi, l’eterno uomo nero.
Paola Picilli “per uno strano caso del destino” è stata nominata dal primo luglio nel consiglio di amministrazione del nuovo Espresso dell’editore Danilo Iervolino. Dovrebbe sentirsi a disagio, pontifica uno che quelle stanze conosce bene, anche se ha traslocato a Domani, perché il settimanale, che nella gestione precedente era ridotto a qualche paginetta omaggio nella versione domenicale di Repubblica, ha pubblicato tante copertine contro Berlusconi. L’ultima, davvero patetica, strillava “Lui no” sotto la sua foto di candidato alla Presidenza della repubblica. Quale è dunque il motivo per cui una professionista della comunicazione come Paola Picilli non dovrebbe sedere (ma ormai c’è, caro Tizian, e non pare a disagio) in quel cda? Perché è “berlusconiana” e ha persino osato lanciare qualche tweet in favore del leader di Forza Italia. Ma soprattutto perché ha lavorato con Nicola Cosentino, ex sottosegretario di un governo di centrodestra e assolto dal reato più grave di cui era accusato dai magistrati “anticamorra” napoletani, anche se poi condannato per il solito reato associativo “esterno”. È chiaro il nesso di causalità? In fondo è come se la giornalista fosse stata contagiata da un virus e diventata un po’ mafiosa. Non può violare la sacralità di quelle stanze dove sono state fatte cento patetiche copertine contro Berlusconi, la “mafiosetta”!
Il caso di Chiocchetti è ancora più grave, perché lo sgambetto arriva mentre la pratica è ancora in corso. Si tratta di un alto funzionario che, scrive il giornalista del Fatto quotidiano, «diverse fonti ci descrivono come ‘una persona molto seria e tecnica, estranea alla vita dei partiti’». Questo funzionario, che oggi è capo di gabinetto di Roberta Metsola, la maltese presidente del Parlamento europeo succeduta a David Sassoli, e che in precedenza ha lavorato con Antonio Tajani, potrebbe diventare il segretario generale dell’assemblea. Ma Travaglio non vuole, e insieme a lui, pare, anche un giornalista del quotidiano gauchiste Liberation. Perché? Perché oltre vent’anni fa fu assistente di Marcello Dell’Utri. Chiaro? Anche lui contagiato dal virus della mafiosità, dovrebbe pagare per le “colpe” dei datori di lavoro. E gli auguriamo di essere promosso, a questo punto.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Nello Trocchia per editorialedomani.it l'8 luglio 2022.
Danilo Iervolino, nuovo proprietario dell’Espresso, chiede due milioni di euro al gruppo Gedi che edita Repubblica, a Ezio Mauro, storica firma e per due decenni direttore del quotidiano nazionale, a Luigi Vicinanza, ex direttore dell’Espresso e a due cronisti (chi scrive e Corrado Zunino).
Dal primo luglio, il settimanale L’Espresso è di proprietà del gruppo di Danilo Iervolino, proprietario della Salernitana, quadra di calcio in Serie A, e fondatore dell’università telematica Pegaso. L’accordo che ha sancito il passaggio da Gedi al Bfc Media spa prevede che il settimanale mantenga un legame con i cugini di Repubblica. Il settimanale, diretto da Lirio Abbate, esce ogni settimana in edicola abbinato al quotidiano, diretto da Maurizio Molinari.
Un matrimonio che rende la separazione societaria meno sofferta, ma sotto la calma apparente c’è una guerra legale da due milioni di euro. I termini del contenzioso legale sono contenuti nel ricorso in appello presentato dall’avvocato Franceco Fimmanò per conto di Danilo Iervolino. Saranno i giudici di secondo grado a stabilire la fondatezza o meno del ricorso.
Luigi Vicinanza ed Ezio Mauro vengono citati in giudizio in quanto direttori all’epoca dei fatti e tenuti a vigilare sul contenuto delle pubblicazioni. Vicinanza, Mauro e i cronisti sarebbero responsabili di aver danneggiato la vita a Iervolino.
«L’impatto mediatico denigratorio delle pubblicazioni è stato devastante per Danilo Iervolino determinando stati di ansia persistenti, perdite di concentrazioni, rinvii di appuntamenti, rinuncia a uscite pubbliche (etc.)», si legge nel ricorso.
Mauro e Vicinanza e, ovviamente i cronisti, sarebbero responsabili «di tali paturnie e dell’assoluto senso di abbandono e solitudine determinati dagli articoli diffamanti de L’Espresso e de La Repubblica, Danilo Iervolino dovrà ottenere un congruo ristoro nella misura non inferiore a 2.000.000,00 euro in considerazione della rete di rapporti professionali intrattenuta, della persistente pubblicazione degli articoli, della defatigante opera di ricostruzione dei rapporti familiari (che ancora oggi risultano compromessi)», si legge nel ricorso.
La materia del contendere sono due articoli, definiti nel ricorso «opera di infangamento». Il primo è un’inchiesta pubblicata a novembre 2014 e intitolata “Pegaso, l’ateneo dove la laurea volta”, il secondo è un lavoro, firmato da Corrado Zunino, nel 2015, dal titolo “Il Consiglio di stato ferma l’università telematica Pegaso”.
Nel ricorso in appello, Fimmanò fa riferimento anche a Domani che ha dedicato un’inchiesta a Danilo Iervolino. Si parla di una «specie di crociata» che il sottoscritto avrebbe mosso contro Iervolino. In primo grado, il tribunale di Napoli ha rigettato la richiesta risarcitoria, pari a 38 milioni di euro, evidenziando la veridicità dei fatti riportati, la correttezza del lavoro svolto e che si tratta di diritto di cronaca e critica, costituzionalmente garantiti, nulla più.
Il ricorso sarà valutato dai giudici d'appello, ma quello che emerge è un contenzioso legale che racconta di due realtà editoriali, Repubblica e L’Espresso, unite in edicola e una contro l’altra in tribunale. I fatti si riferiscono a un periodo antecedente al passaggio del settimanale nelle mani di Danilo Iervolino, ma la situazione che si è generata è a dir poco paradossale con Iervolino contro giornalisti, ex direttore e gruppo Gedi che controlla Repubblica.
Il gruppo che edita l’Espresso è la Bfc Media Spa, una società quotata allo Euronext Growth Milan di Borsa Italiana, fondata da Denis Masetti e controllata da Danilo Iervolino. «(L’Espresso) dispone di un bacino ideale di milioni di italiani e, anche grazie all’abbinamento con il quotidiano La Repubblica, la sua diffusione in edicola supera le centomila copie, oltre ai 50mila abbonati cartacei e digitali, con una readership di oltre un milione di lettori», si legge nel comunicato dell’editore pubblicato sul sito del settimanale lo scorso 28 giugno.
Bfc Media ha acquistato L’Espresso, il periodico Le Guide de L’Espresso e i relativi asset editoriali e digitali, «per un valore complessivo di 4,5 milioni di euro, da corrispondere in due tranche (la prima da 2,8 milioni all’atto del closing, la seconda entro il 31 agosto 2022)».
Nel comunicato veniva anche presentato il Consiglio di amministrazione composto dal presidente Denis Masetti, dall’amministratore delegato Marco Forlani e dai consiglieri Mirko Bertucci, Mario Rosario Miele, Maurizio Milan, Massimiliano Muneghina, Paola Picilli, Alessandro Mauro Rossi.
Un cda che ha subìto, lunedì scorso, un primo inaspettato addio, quello di Paola Picilli. «Il consigliere indipendente di Bfc Media, Paola Picilli, ha rassegnato, nella serata di ieri, le dimissioni per motivi personali. Le dimissioni, su richiesta di Picilli, hanno effetto immediato. Il presidente Denis Masetti, l’amministratore Marco Forlani e la società ringraziano Paola per la dedizione mostrata al gruppo. Picilli non detiene azioni di Bfc Media Spa», si legge in un comunicato del gruppo.
Le dimissioni arrivano poche ore dopo la pubblicazione da parte di Domani di un articolo nel quale si ricordava il lavoro svolto in passato da Paola Pacilli, professionista dell’informazione che aveva collaborato con Nicola Cosentino, l’ex plenipotenziario di Forza Italia in Campania, sottosegretario all’Economia, considerato dalla procura antimafia partenopea referente nazionale del clan dei Casalesi.
Un altro paradosso in questa storia, visto che L’Espresso, nel 2008, aveva dedicato al caso una storica copertina dal titolo “La Camorra nel governo”, raffigurante il volto di Nicola Cosentino, anticipando i verbali del collaboratore di giustizia Gaetano Vassallo che lo indicava come braccio politico del clan.
«Cosentino oggi produce vini in Campania, è fuori dalla politica, non capisco cosa c’entra la mia nomina da indipendente nel cda dell’Espresso con le mie collaborazioni che ho avuto con diversi politici da Scajola a Cosentino», diceva Picilli a Domani poche ore prima di dimettersi.
Picilli a settembre 2020 gioiva per l’assoluzione di Cosentino in uno dei tanti filoni aperti: «Vorrei solo che i nove anni di vita e di carriera qualcuno li restituisse a Nicola Cosentino, solo chi ha parlato con i suoi figli prova rabbia per un’assoluzione scontata. Povera Italia», scriveva. Con lei hanno twittato il direttore del Foglio Claudio Cerasa, quello del Riformista Piero Sansonetti e tutti i politici di Forza Italia.
Nessuno aveva ricordato gli altri procedimenti aperti a carico di Nick ‘o mericano, al secolo Nicola Cosentino, già condannato in via definitiva per aver corrotto un agente penitenziario. Nel 2021, i giudici della corte d’Appello di Napoli lo hanno condannato per concorso esterno in associazione mafiosa a dieci anni di carcere, ora si è in attesa del pronunciamento della corte di Cassazione.
Segreti svelati, cause e minacce: in difesa dell’Espresso nel “porto delle nebbie”. Alessandro De Feo su L'Espresso il 6 giugno 2022.
L’avvocato Alfonso Gatti, Livio Zanetit e Alessandro De Feo nella prima udienza del processo relativo alla Commissione Moro.
Alfonso Gatti e Oreste Flamminii Minuto sono stati i due penalisti che per anni hanno difeso il settimanale in tribunale, con punte di 80 processi l’anno. La loro storia è anche un pezzo di quella della libertà di stampa nel nostro Paese
Alfonso Gatti e Oreste Flamminii Minuto. Ovvero i due penalisti che si sono succeduti nella difesa de L’Espresso. Parlerò di loro, consultando le uniche fonti di cui dispongo. La mia storia de L’Espresso e l’intervista a Oreste, per me un secondo padre. E, naturalmente, la mia memoria.
L’idea del libro mi venne nella redazione di largo Fochetti. L’ora dello stacco, ovvero dalle 13,30 alle 15,30, più di un tramezzino e un’acqua tonica con ghiaccio e limone, non andavo. Meglio passeggiare nello splendido quartiere della Garbatella, animato da villette, ristorantini, inquilini che apparecchiavano per il pranzo nei giardini e insieme consumavano ricche ciotole di pasta al sugo, murales inneggianti a Totti e allo scudetto della Roma.
Bella la Garbatella e belle le passeggiate. Tra le tante cose, pensai che non esisteva qualcosa che racchiudesse la storia dei “ragazzi di via Po”. Nell’emeroteca del gruppo c’era tutta la collezione rilegata de L’Espresso, dal formato lenzuolo a quello tabloid. Ne parlai all’amministratore delegato Marco Benedetto: in pochi cd si potevano registrare tutti gli articoli della collezione. Sarebbe stata una enciclopedia della storia del paese, utile a tutti i redattori e, magari, una strenna preziosa agli amici, invece di mandare quei ricchi pacchi natalizi di champagne e cotechini… Ovviamente Marco mi disse che ci avrebbe pensato. Probabilmente ci sta pensando ancora oggi. E allora ci ho pensato io. Le ore della pausa pranzo le avrei passate in emeroteca. La struttura del libro sarebbe stata su due livelli: la storia de “L’Espresso” e una testimonianza di peso. In pratica, una intervista.
D’estate la redazione di via Po si trasferiva quasi in massa all’“Ultima spiaggia” di Capalbio dei bravi Riccardo, Valerio & C. Una mattina, passeggiando in riva al mare, sotto a un ombrellone vidi Oreste che le estati le divideva tra le sue villette a Capalbio e in Abruzzo. Andai a parlargli. Poteva essere lui la persona da intervistare? L’idea gli piaceva. Tanto più, mi disse, che nei suoi archivi, un caveau nella cantina della sua casa romana vicino a piazzale Clodio, c’era la storia giudiziaria del settimanale e le schede di tutti i redattori portati in giudizio. Rimanemmo d’accordo che appena avrei ultimato la lettura del giornale dal 1955 al 2005, i suoi primi 50 anni, fotocopiando gli articoli che avrei fedelmente riportato, ogni sabato mattina ci saremmo visti nel suo studio-abitazione e avrei registrato le conversazioni. Poi, sbobinate, le avrei spedite via computer a Oreste che le avrebbe rilette e corrette.
Che la vita de L’Espresso l’avrebbe portato a trascorrere molte mattinate a piazzale Clodio, nelle aule del tribunale giudiziario, il famoso “Porto delle nebbie”, era uno dei tanti problemi del nascente settimanale. Il tribunale romano era chiamato così perché il capo della Procura, Achille Gallucci, insabbiava le porcherie della casta politica e imprenditoriale, fino a che nei cassetti non venivano coperte di polvere e cadevano in prescrizione. Flamminii non sapeva esattamente come Adolfo Gatti venne investito dell’incarico di difendere il giornale. Ma il suo curriculum non lasciava dubbi. Laureato a pieni voti in giurisprudenza, era uno dei due o tre penalisti più famosi d’Italia e, di sicuro, l’avvocato più esperto nella difesa dei reati a mezzo stampa. Di idee di sinistra, di quella sinistra liberale che gravitava attorno alle idee di Pietro Calamandrei ed Ernesto Rossi, si lega al gruppo di intellettuali del Mondo di Mario Pannunzio. Amico di Scalfari, fondatore con Arrigo Benedetti de L’Espresso, fu probabilmente Eugenio a cooptarlo per la difesa del giornale.
«L’avvocato Gatti emanava un fortissimo carisma – mi raccontò Flamminii – lo avevo conosciuto in quanto difendemmo insieme il disegnatore di Paese sera Zac, accusato di diffamazione per aver illustrato un opuscolo elettorale del Psi. I testi erano del giornalista Alberto La Volpe, l’editore Giampaolo Sodano, entrambi ovviamente querelati. Entrambi li ritroveremo in Rai. Su indicazione del partito, per la difesa venne chiamato l’avvocato Gatti, che era il numero uno in Italia. E quindi facemmo questo processo insieme e andò bene».
Gatti era un signore elegante e distinto, molto discreto e riservato. Era un modello di rigore morale riconosciuto da tutti i colleghi. Il suo modello era Adelmo Niccolai, un famosissimo avvocato di Roma. E Gatti, che era figlio di un senatore della Repubblica, fece la gavetta nel suo studio. Qui apprese il cosiddetto laicismo della professione. E il laicismo nella professione significava il rigore della prova, l’esposizione scientifica, la capacità di sintesi e, di conseguenza, la capacità di persuasione.
Uomo di grande charme e di cultura illuministica (aveva studiato a fondo la Rivoluzione francese). Me lo ha confermato Oreste. «Andai a Milano per difendere assieme a Gatti il direttore del nostro settimanale rivale, Panorama, Claudio Rinaldi e l’inviato Antonio Carlucci (entrambi li ritroveremo in via Po), chiamati alla sbarra per aver pubblicato un documento sul quale il premier Bettino Craxi aveva posto il segreto di Stato. Rischiavano l’arresto; riuscimmo a farli assolvere. Ebbene, la sera, in un albergo milanese, dopo cena ci accomodavamo in un salottino. Gatti - era tale il suo carisma che non mi sono mai permesso di dargli del tu - in compagnia dell’unico sigaro che si concedeva in tutta la giornata affabulava in maniera simpatica e accattivante, con un insospettabile e raffinato senso dell’humour».
L’esempio che mi fece Oreste fu un processo che Gatti fece a Napoli. Non ricordo di quale processo si trattasse, ma doveva essere molto popolare visto che il nome di Gatti faceva accorrere all’ingresso del tribunale due ali di folla. Tra i tanti, un tormentone dell’avvocato: un venditore ambulante che offriva di tutto, pure il caffè, e inseguiva Gatti urlandogli ogni mattina: «Avvocà, e accattatevene ‘na cosa».
L’ometto lo divertiva e lo metteva di buon umore e ogni giorno gli comprava “‘na cosa”. L’avvocato Gatti amava il mare e la “sua” Capri dove aveva una villa. Non si direbbe, avendolo conosciuto, ma era un provetto sub: con muta e bombola d’ossigeno esplorava i fondali senza sollevare una conchiglia, rispettoso com’era dell’ecosistema e delle bellezze della natura. A Roma lo studio dell’avvocato era nel cuore della Roma storica: in un palazzo di via Condotti, al civico 9, al primo piano sopra le vetrine del gioielliere Bulgari e di fronte al Caffè Greco. Per il mio processo ci andai solo una volta assieme a Oreste. Era un elegante appartamento, con il parquet antico, di quello che appena lo sfiori ti incute rispetto per lo scricchiolio che emette, gli affreschi alle volte, grandi tendaggi che oscuravano le stanze.
Era il primo pomeriggio di un’estate che si preannunciava calda e in ogni casa ci si difendeva dai raggi del sole. «Era l’ambiente classico di un importante studio legale», mi confermò Flamminii. Lo studio, come si è detto, era immerso nella penombra, alla fine di un lungo corridoio una lampada art déco illuminava solo il volto dell’avvocato Gatti, come una buffa aureola che sovrastava la sua chioma grigia dando l’effetto dell’onda che schiumeggia sul mare. Del perché andai in quello studio e del processo che mi ci aveva portato, ne parlerò in seguito. Torniamo al racconto di Flamminii.
«Un giorno del maggio del 1969 Gatti mi chiamò nel suo studio e mi chiese se ero interessato a difendere un giornale». Gatti non gli comunicò subito il nome di quel giornale. «No, né glielo chiesi. Gatti era un avvocato molto serio e riservato: se non aveva ancora l’intenzione di rivelarmi il nome della testata, non stava a me essere indiscreto». Flamminii non aveva la minima idea che potesse essere L’Espresso.
L’unica preoccupazione che Oreste mi mostrò era quella che se veniva chiamato a difendere un giornale che aveva delle idee e una ideologia incompatibili con le sue, avrebbe rifiutato. Ma quando Gatti gli chiese di quali tendenze politiche fosse, Flamminii rispose di area socialista. «Tranquillo, quel giornale ha radici ber radicate nella sinistra italiana» spiegò Gatti. Domandai a Oreste: «Gatti che idee politiche aveva?». «Lui proveniva da Giustizia e Libertà, era quello che oggi si potrebbe definire un liberal-socialista. Sicuramente non era un marxista, era un laico molto attento alle questioni politiche ed economiche».
Il 15 settembre, di quell’anno, dopo la sosta estiva, Gatti telefona a Flamminii e gli chiede se può raggiungerlo nel suo studio. Oreste: «Nell’appartamento un particolare mi colpì: su un piccolo tavolino nella sala d’attesa c’era appoggiato un libro. Era un libro del “nostro” critico televisivo Sergio Saviane, l’ideatore del neologismo “mezzobusto” per i giornalisti del tg della Rai: “I misteri di Alleghe”, una inchiesta di Sergio che aveva rivelato i retroscena di una serie di feroci e inspiegabili delitti».
Fu in quel pomeriggio che Gatti rivelò a Flamminii che il giornale che avrebbe difeso era L’Espresso. Poi lo portò in un’altra sala dove, come in un coup de théatre, aprì una porta e fece entrare uno dopo l’altro Carlo Caracciolo, Eugenio Scalfari, Gianni Corbi e Livio Zanetti. «Ci abbracciammo da vecchi amici, del resto il pallone ci aveva fatto fraternizzare sui campi di calcio dell’Acqua Acetosa». Ridiamo la parola a Oreste.
«Caracciolo non lo conoscevo. Ma mi diede subito del tu. Con lui c’era anche l’avvocato Vittorio Ripa di Meana che era il consigliere delegato del giornale. Con lui avrei discusso il mio trattamento economico. Uscito dallo studio, via Condotti mi sembrava il Paradiso. Ero contentissimo. La mi carriera avrebbe avuto una svolta in tutti i sensi». Un suo amico, l’avvocato Gianni Le Pera, uno degli assistenti di Gatti, gli disse: «Vedi Oreste, prima eri un avvocato abbastanza ricco e poco noto. Da domani sarai, almeno inizialmente, un avvocato meno ricco e molto noto». E infatti il primo stipendio venne stabilito attorno alle 300 mila lire al mese, che all’epoca non era certo una cifra splendida.
In uno degli incontri con Oreste nel suo studio, mi spiegò che nella sua cantina teneva l’archivio dei processi a carico de L’Espresso. Divisi per il tipo di reato, dalla diffamazione alla violazione del segreto di Stato. E il tutto era poi inserito nei fascicoli dei vari redattori. A come Ajello, Z come Zanetti. In una sua agenda annotava il tutto con tanto di data e di chiusura del processo con i relativi atti. Chiesi al nostro avvocato quanti processi svolgeva ogni anno per il settimanale. «Diciamo una sessantina. Poi ci sono le annate “doc”, nelle quali si arriva anche a 80 processi. In proposito ho una mia teoria: all’aumento delle querele corrisponde sempre un aumento delle tirature».
Un sabato chiesi a Oreste: «Ma voi avvocati non vi incazzate mai? Non mi dire che talvolta non vi prende la smania di protagonismo. Insomma, nonostante l’understatement alla Gatti, poi, se ve ne capita l’occasione, vi piace dare spettacolo. In fondo, in aula c’è sempre una bella platea di spettatori». «Siamo uomini e ciascuno di noi ha le sue debolezze. Vinicio de Matteis, un altro grande avvocato scomparso e amico di Gatti, era il difensore di Paese sera. Era coltissimo e faceva grande sfoggio di cultura umanistica in tutti i processi. Alo, elegantissimo, sobrio sia nel vestire che nel parlare, aveva però un tallone d’Achille: le scarpe. Sì, proprio così, le scarpe. Sempre lucidissime e che si ammirava e controllava. L’avvocato Gatti una volta, parlando a un gruppo di colleghi, rivelò: “Se volete vincere un processo contro de Matteis, fate finta di inciampare e pestategli un piede...”».
E veniamo al mio processo. Non perché “mio”, ma per i tanti risvolti giudiziari che ebbe. Nel luglio del 1980 uscì un mio articolo dal titolo: !Io, Generale Dalla Chiesa, dichiaro che”. In pratica, violando il segreto istruttorio della Commissione Moro, sintetizzai la deposizione del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa che in Commissione parlò per 11 ore e, come recita il sottotitolo, “Il comandante della divisione Pastrengo ha illustrato i risultati di due anni di lotta al terrorismo, aprendo i suoi cassetti segreti”. L’aspetto più interessante della sua analisi fu che, dopo aver raccontato da Genova a Torino, da Milano a Padova l’attività dei suoi corpi speciali, sulla Libera Università delle Calabrie, meglio conosciuta come l’Università Cosenza, dove uno dei leader era Franco Piperno, assieme alla sua compagna, Lucia Annunziata, oggi brava giornalista Rai, disse esplicitamente che il rettore di quell’ateneo aveva tollerato il fenomeno eversivo, al punto che l’università si era trasformata in una palestra di attività sovversive. Con la crudezza militare, affermò che l’ateneo calabrese era un covo di terroristi.
Per la speciale legge che la Commissione Moro si era data, la violazione del segreto istruttorio prevedeva il carcere: da sei mesi a tre anni. E dire che fino al giorno prima, lo stesso reato si estingueva con 150-200 mila lire. Direi che all’epoca il settimanale usciva il lunedì. Ma già il sabato, fresco di stampa, veniva consegnato a piazzale Clodio. In edicola il settimanale, l’articolo scatenò un putiferio politico sulla Commissione (ma come, ironizzò qualcuno, la Commissione Moro è un colabrodo…?) che chiese il lunedì stesso il mio arresto. Il martedì, Oreste mi disse che entro l’alba di venerdì, mi avrebbero arrestato. Il clima all’epoca era pesante: già da diversi mesi il collega del Messaggero Fabio Isman era a Regina Coeli per aver pubblicato delle carte riservate dei servizi segreti sulle Br. Tra l’altro la deposizione di Dalla Chiesa quel lunedì del 1980 era stata pubblicata anche sul Corriere della Sera dall’inviato Sandro Acciari, che in seguito sarebbe stato assunto in via Po.
Che fare? Oreste mi consigliò di fare le valigie e di andarmene all’estero: «Se si potesse ragionare con calma assieme ai magistrati, senza la tua presenza, sarebbe meglio». Lo stesso consiglio, seppi da Sandro, era stato dato dai suoi avvocati. Con mia moglie me ne sarei andato “in vacanza” a Londra, dove la nonna di Chiara aveva una di quelle famose casette che si affittano per 99 anni. Ma la sera di giovedì, prima di andarsene a casa, Zanetti mi pregò di aspettarlo. Mi disse che quella sera stessa, l’avvocato Gatti sarebbe andato a parlare con il capo della Procura, Achille Gallucci per trovare un accordo. La mattina dopo Zanetti mi disse di stare tranquillo, era stato raggiunto un compromesso: processo per direttissima e obbligo della mi presenza in aula in tutte le udienze. E così tutti i sabati, il mare me lo vedevo dalle vetrate delle aule di piazzale Clodio.
Quando intervistai Flamminii, gli chiesi: «Ma perché quella deroga così pesante nello statuto della Commissione?». «Perché, in un’epoca in cui il mandato di cattura era facoltativo e non obbligatorio, si voleva dare un segnale forte, un avvertimento a tutta la stampa. Il tuo caso era un’occasione propizia. Ecco il perché ero assai poco ottimista e ti consigliai di diventare uccel di bosco». Una parentesi, tanto per spiegare che a celebrare il mio processo fu Ponzio Pilato. Quando venni interrogato e mi venne chiesto quale fosse stata la fonte dell’articolo, ovviamente mi appellai al segreto professionale e non feci quel nome. Visto l’accordo che c’era con Gallucci, il presidente della Corte glissò. In altri tempi e in altre occasioni, il silenzio del giornalista lo portava dritto dietro le sbarre. Da quel luglio sono passati oltre vent’anni e posso dire che la nostra fonte era Paolo Cabras, un senatore democristiano. I commissari del Pci? Troppo giustizialisti, visto come si erano comportati nel “condannare “ a morte Moro.
Sì, tirava una brutta aria. E quando tutte le parti si erano espresse e si andava a sentenza, Oreste, che in aula sedeva vicino a me, si voltò verso l’avvocato Gatti e gli disse: «Sono convinto che la legge istitutiva della Commissione sia nettamente in contrasto con il codice penale. Per quel reato, il carcere non è previsto. La Commissione non può riscrivere il codice penale. Non era la prima volta che avevo espresso questa opinione a Gatti, ma lui non era d’accordo con me». Gatti, flemmatico, fissò senza parlare Flamminii. Con tutta calma aprì la sua borsa di pelle, estrasse il “famoso” pacchetto di cracker Saiwa salati, ne sgranocchiò un paio e poi: «Avvocato, proceda». Sono convinto che il presidente del Tribunale tirò un sospiro di sollievo a non dover emettere la sentenza. Meglio che la patata bollente la sbucciasse la Corte Costituzionale.
Conservo “religiosamente” la fotocopia della sentenza della Corte di appello di Roma, terza sezione Penale, che arrivò il 28 gennaio 1981 e aveva recepito la delibera della Corte Costituzionale. Sono cinque fogli oggi molto ingialliti e scritti a mano dai cancellieri e con in calce la firma dei “signori Magistrati” dott. Luigi Saragò, presidente, dott. Ottorino Mariano e Luciano Infelisi, consiglieri. Leggo: “Gli stessi concetti (ovvero quelli espressi da Dalla Chiesa, ndr.) riferiti in estrema sintesi nell’articolo dell’”Espresso” colgono in pieno il pensiero del generale Dalla Chiesa… Visti gli articoli - e via con il Codice penale- assolve gli imputati Zanetti Livio e Alessandro de Feo dai reati ascritti loro perché il fatto non costituisce reato”.
Buffo: la Corte Costituzionale non sconfessava quell’articolo giustizialista della Commissione Moro ma, alla Ponzio Pilato, consigliava di non prevederlo più in futuro. Non solo: L’Espresso aveva comunque violato il segreto istruttorio della Commissione, ma mettiamoci una pietra sopra. Un’ultima curiosità. Quella sentenza della Corte Costituzionale, mi spiegò Oreste, fece giurisdizione, nel senso che venne recepita nel Codice di procedura penale con tanto di articolo, numero e sentenza – i termini esatti non li ricordo – catalogata sotto il nome di sentenza “Espresso” - Livio Zanetti.
I ragazzacci di via Po: ricordi preziosi di una vita passata a L’Espresso. Alessandro De Feo su L'Espresso il 12 aprile 2022.
I soprannomi, l’ironia, le partite a scacchi. Le barzellette di Umberto Eco, le visite di Cicciolina, i dibattiti con Moravia. E gli aneddoti tra giornalisti. Come quando Agnelli si lamentò di un articolo. E il direttore de La Stampa dell’epoca Giulio De Benedetti rispose secco: «Avvocato, lei pensi a fare bene le sue automobili. Io penso a fare bene il “suo” giornale».
Raccogliendo l’invito degli amici del Cdr, vorrei dare una mia testimonianza.
A “L’Espresso” sono entrato da collaboratore nel 1976 e ne sono uscito nel 2014 come caporedattore. Il settimanale è più giovane di me di tre anni. Ma dal primo numero è sempre entrato nelle mie case. In quel primo numero del 2 ottobre 1955, l’articolo di spalla sinistra nella prima pagina era firmato da mio padre, Nicola Adelfi (pseudonimo coniato da Giulio De Benedetti, direttore de “La Stampa” di Torino, per distinguerlo dal fratello Sandro). A sua volta, Sandro de Feo, mio zio, da quel primo numero firmava la rubrica di teatro.
Giulio De Benedetti è stato un grande direttore. Onesto quanto indipendente. Un esempio? Quando l’avvocato Gianni Agnelli voleva fare una pazzia per portare alla sua amata Juventus il fantasista Gigi Meroni (numero 7 sulla maglia e ala di diamante del Torino, capelli stile Beatles, calzettoni arrotolati alla caviglia alla Omar Sivori. Morì troppo presto, in una notte piovosa di Torino), De Benedetti chiese a mio padre di scrivere un pezzo per ricordare all’Avvocato che le maestranze della Fiat Mirafiori avevano aperto una vertenza sindacale e che, dalle presse alle catene di montaggio ruggiva gatto selvaggio. “La Stampa” era il secondo quotidiano più venduto in Italia, dopo “Il Corriere della Sera”, molto letto con “l’Unità” dagli operai. Uscito l’articolo, Agnelli fece la prima (e sarebbe stata l’ultima) telefonata a De Benedetti: «Ma quell’articolo… Non mi è piaciuto...». De Benedetti: «Avvocato, lei pensi a fare bene le sue automobili. Io penso a fare bene il “suo” giornale. Se non le sta bene, le mando la lettera di dimissioni». Da persona intelligente qual era, Gianni Agnelli si tenne a lungo quel suo prezioso direttore.
Giulio De Benedetti (anche lui un legame con “L’Espresso” ce l’aveva: sua figlia Simonetta aveva sposato Eugenio Scalfari), Arrigo Benedetti, Carlo De Benedetti, Marco Benedetto… Una sorta di nemesi storica per un giornale davvero molto “benedetto”.
Arrigo Benedetti è stato il primo direttore de “L’Espresso”. Era molto amico di mio padre. E quando Arrigo era tenuto a Roma per lavoro anche per le feste di fine anno, immancabilmente era ospite alla nostra tavola. Poi arrivò a papà una telefonata della dolce Rina, sua moglie: «Arrigo se ne sta per andare. Vieni, gli farebbe piacere. Siamo all’ospedale Fatebenefratelli sull’isola Tiberina». Papà non se la sentiva di guidare. Mi chiese di accompagnarlo. Nel corridoio davanti alla stanza di Benedetti, papà non riconobbe nessun giornalista de “L’Espresso”. Lo salutarono i colleghi di “Paese sera”, l’ultimo giornale diretto da Benedetti.
Entrammo nella stanza, appena illuminata da un lumicino sul comodino. Rina era seduta davanti al letto, dove Arrigo aveva gli occhi chiusi e farfugliava frasi senza senso. Rina aveva nelle mani un taccuino e una penna. Faceva finta di scrivere. Rina: «Quando ancora era cosciente, Arrigo mi ha detto che voleva dettarmi l’ultimo suo editoriale e darmi le sue ultime volontà. E mi ha pregato di alcune cose, le sue volontà. Mi pregò di restare serena e tranquilla: lui mi avrebbe protetta anche da lassù. Quanto al suo funerale, doveva essere sobrio, laico e solo con gli amici più. «Ma quella persona, non fatela venire”, mi disse». Il nome di “quella persona”, ovviamente, non lo posso fare.
A L’Espresso Sergio Saviane mi aveva soprannominato “il Raccomandato”. E non a torto, visto che mi aveva chiamato mio cugino, Gianni Corbi, che è stato uno dei direttore del settimanale. Per dire quanto fosse ironico e disponibile Sergio, una volta Livio Zanetti lo mandò a Uscio, località famosa per una dieta che si faceva soprattutto sul water, a cagare… Livio chiamò Sergio: «Come va? Che aria tira?». E Sergio:«Ghe xè ‘na gran pusa...».
“Arruolato” nella sezione Economia, sotto la guida dell’amico Alberto Statera, il caposervizio (la sua famiglia abitava due piani sotto al nostro appartamento). Il suo vice era Salvatore Gatti, figlio del principale avvocato difensore del giornale, Adolfo Gatti, un principe del Foro.
Se l’avvocato Gatti è stato il primo penalista de “L’Espresso”, in seguito, visto il carico di lavoro, ovvero le querele per diffamazione, venne affiancato da Oreste Flamminii Minuto. Rispetto a colleghi pluridenunciati, io in tribunale sono stato chiamato 17 volte e 17 volte Oreste mi ha fatto assolvere. Abruzzese duro (una volta, con me testimone alla sbarra, ridicolizzo il Pm Luciano Infelisi. Rivolto al Presidente, disse: «Signor Presidente, ha visto il bel décolletée del signor Infelisi...? Fa caldo a luglio a Roma, ma lui sotto la toga si è dimenticato la camicia...»), ma per me come un padre affettuoso e rassicurante. Per dire quanto fosse stimato ovunque fosse chiamato a difendere “L’Espresso”, ricordo un processo nel tribunale di Arezzo. Io, il caposervizio degli Interni, Maurizio De Luca e Sandro Acciari, eravamo stati denunciati da Licio Gelli, burattinaio della loggia massonica coperta P2, per “violazione di domicilio”. Gelli non c’era; aveva mandato suo figlio Maurizio. Il nostro articolo era stato corredato con delle foto della residenza di Gelli, “Villa Wanda”. Quelle immagini erano state scattate da un fotografo, ovviamente, che Oreste si guardò bene di coprire. Fummo assolti. E il giudice si avvicinò costernato a Oreste, gli strinse la mano e gli disse: «Avvocato, ci scusi per il disturbo».
Torniamo a via Po. Avevo 24 anni, pochissima esperienza, ma Statera mi mise subito alla prova e mi spedì a Lecce per uno scandalo di fondi neri della Banca del Salento. Poco prima di tornare a Roma, mi contattò un collega e oggi amico, Lino De Matteis, redattore di un coraggioso giornale locale, “Il Quotidiano di Lecce”, vicino alla sinistra socialista del leccese Claudio Signorile. Lino mi aiutò a fare la cosiddetta quadra dello scandalo che aveva procacciato soldi e affari ai notabili del posto e perfino ad alti prelati. Ma mi fece capire anche che cosa rappresentasse “L’Espresso” in un importante capoluogo di provincia. Un misterioso tam tam aveva fatto sapere in città che era arrivato non certo un giornalista pieno di volontà e alle prime armi, ma “L’ESPRESSO”, il più prestigioso settimanale del paese. Nemmeno fosse arrivato il papa. Il settimanale significava rispetto e rispetto è una delle tante regole che abbiamo imparato a via Po.
L’ironia non ci manca. E nemmeno i soprannomi. “L’Espresso” era “la gallina dalle uova d’oro”. Carlo Caracciolo “il Principe”. Livio Zanetti “Il gran bugiardo” (copyright Oreste Flamminii). Paolo Mieli “Zelig”. Mario Scialoja “Vecchio scarpone”. Arrigo Benedetti “Il Tonno”. Ad Arrigo quel soprannome glielo aveva affibbiato suo fratello Mario che sul giornale firmava Agatoni, visto che di Benedetti ce n’erano fin troppi. Diciamo che Mario non era una penna sopraffina e si dilettava più sulla tavolozza che sulla Olivetti lettera 22. Le sue croste le regalava a tutti, una toccò pure a mio padre. Si favoleggiava che per giustificare lo stipendio del fratello, Benedetti lo inviò a fare un servizio all’estero. Ebbene: Mario non fece avere più sue notizie per due settimane e men che meno mandò il pezzo concordato.
A proposito di ironia. Quel gran signore napoletano, Nello Ajello, condirettore di Zanetti, era una sorta di Vesuvio. Un esempio: a una riunione di redazione per mettere a punto i vari servizi, la responsabile delle Scienze annunciò una clamorosa apertura dedicata alla balbuzie... E Nello “eruttò”: «Che idea…! C’è già il titolo: “Esclusivo: Come vincere la ba...ba...ba...balbuuuzieee!”».
A “Panorama”, il settimanale concorrente, non ci amavano, troppo radical chic, troppo privilegiati. In treno si viaggiava in prima; in aereo in business. E se, per esempio, si scendeva a Napoli, l’Hotel Excelsior ci teneva sempre riservata una camera. Il conto? Veniva spedito direttamente a Milvia Fiorani, il direttore amministrativo, gran signora e sacerdotessa delle note spese. Infine, troppi scoop. Domanda: chi si ricorda uno scoop di “Panorama”? E a proposito di note spese, merita un ricordo anche Paolo Pernici, un cronista di razza un po’ stralunato, impressionante somiglianza con Stan Lauren, e con un punto interrogativo perennemente stampato sul viso. Trovava storie incredibili nelle lande più sperdute della Penisola, ignorate da Dio e dagli uomini. Lui partiva: come, non era un problema. Cosa mangiasse e dove dormisse, un mistero. Non certo desumibile dalle sue ridicole note spese. Una mattina lo vedemmo arrivare in via Po a bordo di una scassata Fiat multipla guidata da un contadino che gli aveva dato un passaggio, e scendere dall’auto facendosi largo tra gabbie di galline e cesti di verdure.
Un altro inviato davvero speciale è stato Mario La Ferla. Giornalista della sezione Economia di Milano, lavorava come un mulo tutta la settimana. Sempre sorridente e cordiale, Mario aveva una passionaccia: il calcio. Meglio, l’amato Potenza di cui, se non ricordo male, era anche uno dei dirigenti. Ogni fine settimana scovava e proponeva, ben accetto, servizi nei capoluoghi e nei comuni del Meridione. Guarda caso, proprio dove la domenica giocava il Potenza. Il bello è che gli articoli che portava a casa erano curiosi come Mario, oggi scrittore di libri colti e ricercati.
In via Po si coltivavano le passioni più disperate. Carlo Caracciolo, l’ultimo editore puro, da aristocratico qual era amava la trasgressione (e di trasgressioni il suo giornale gliene regalava ogni settimana). Frequentava nobil donne e poi si divertiva con le pazzie di Cavallo pazzo, Mario Appignani (una volta i fattorini lo placcarono mentre se ne usciva dalla redazione con un computer sottobraccio… Su Internet ci sono dei video imperdibili), con gli intrighi di Flavio Carboni, faccendiere piduista, compagno di viaggio a Londra del banchiere Calvi, finito impiccato sotto il ponte dei “Black Friars”, e con i giornaletti di Giuseppe Ciarrapico. Non mancavano le attività sportive: dalle sfide al flipper del bar di via Isonzo, alle partite a tressette (i campioni erano Federico Bugno, Franco Giustolisi, Pierluigi Ficoneri e Francesco De Vito), fino agli scacchi con i maestri Luciano Filippi e il venerabile Manlio Maradei, raffinato massone con baffetti e pizzetto, iscritto allo loggia “Lira e spada”. Ma anche le passioni del cuore venivano molto curate. I triangoli si sprecavano, a cominciare dai piani alti. E se Livio Zanetti apprezzava le virtù teatrali di Adriana Asti, Paolo Mieli andava pazzo per le “Cicacale, Cicale…”, di Heather Parisi; nella stanza del caro direttore Claudio Rinaldi si potevano incontrare le attrici Veronica Pivetti e Jo Champa. Tremavano le segretarie quando arrivava Paolo Milano, che certo non era un adone. Lui era il critico letterario del settimanale. E con la scusa che non sapeva scrivere a macchina, ma si serviva solo della penna, si accomodava ben vicino alla disgraziata di turno e via con la mano morta. Se infine si voleva ascoltare un po’ di buona musica classica, bastava appoggiare le orecchie alla porta sempre chiusa di Mario Picchi.
“L’Espresso” di via Po non era solo la redazione di un settimanale, ma un salotto. Venivano Alberto Moravia e Leonardo Sciascia e, magari, ci scappava un dibattito d’autore. E nelle stanze arrivavano gli amici della redazione milanese, all’epoca dislocata in via Cino del Duca 5, ovviamente vicino piazza San Babila. Ecco, per esempio, Umberto Eco che ancora non era diventato Umberto Eco, intrattenerci con irresistibili barzellette degne di Carlo Dapporto. Nei corridoi si incrociavano Ilona Staller e Stefania Sandrelli, una ancora splendida Sandra Milo, di bianco vestita, sotto braccio a Sergio Saviane, anche lui in completo bianco ferragostiano e scarpe da golf: bianche con le bordature marroni. E che dire di Antonio Ligabue. Con quella sua faccia un po’ così, pittore sconosciuto entrò timidamente nelle stanze di via Po. Se ne andò lasciando alcune sue tele appoggiate in un corridoio. Fortunato chi le raccolse.
Dal salotto romano al salotto della redazione milanese in una palazzina tra San Babila e via Montenapoleone. Zanetti mi ci spedì “per farmi le ossa”. Bella Milano e affascinante Camilla Cederna. Quando, raramente, veniva in redazione, i capelli castani cotonati, collo di visone a impreziosirle il cappotto, dal bar arrivavano tartine e bollicine.
Aperto alle scoperte della scienza, alle innovazioni, “L’Espresso” finalmente si aprì anche alle nuove tecnologie. Si materializzarono sulla parete accanto alla stipite della porta del direttore Zanetti con la forma ovale di una piccola spia. Come ai semafori, diventava rossa se Livio premeva un pulsante strategicamente posto sotto la sua scrivania. Guai, dunque, a entrare. E se solo ci si avvicinava alla porta, la segretaria di redazione, Lily E. Marx, uno scricciolo di signorina (guai a chiamarla signora) faceva scudo con i suoi 45 chili. Che cosa facesse Zanetti è uno dei misteri di via Po.
Snob sui campi di tennis e precursori in quelli d’erba dell’hockey, arditi sui campi dell’Acqua Acetosa, nelle sfide contro “Panorama”. Un mio ricordo di una chiacchiera-intervista per quel mio libro sulla storia de “L’Espresso” da vent’anni ancora inedito e di cui possiedo ben due copie rilegate... con uno dei difensori del settimanale, Oreste Flamminii Minuto: «Gambino era un assassino. Era pericolosissimo in quanto metteva una tenacia bottusa e ostinata nel difendere la palla e così, se uno si avvicinava, lui cominciava a tirare calci all’indietro, come un mulo... Zanetti, il “Farfallino” (volava dalla difesa all’attacco), era il regista, in redazione come sul campo. Corbi, poco tecnico ma terribilmente caparbio, era soprannominato il “Lupo marsicano”. Della rosa interclassista facevano parte anche gli amministrativi e i fattorini. Ugo Gazzini, driblomane dal baricentro basso, con Roberto Paris (marito di Milvia Fiorani) e Mario Perosillo erano i corazzieri della linea di difesa. Un’ultima annotazione pallonara. Claudio Rinaldi era un ultras della “Magica”. Una volta un fattorino andò a casa sua per portargli forse la mazzetta dei giornali, e lo trovò seduto davanti alla tv intento a seguire l’amata Roma con tanto di maglietta giallorossa con dietro il numero 23 e il nome del difensore della Roma Alessandro Rinaldi.
Lo sport si praticava anche nelle pagine dedicate al tempo libero, pardon, agli hobby. I muscoli da allenare erano quelli del cervello con il bridge e gli scacchi. Al tavolo verde, a proporre ogni settimana un problema (“in due o tre mosse” Giorgio Belladonna che con Benito Garozzo formò quel formidabile Blue Team che dominò la scena internazionale. Bottino: 10 titoli mondiali, tre ori olimpici, cinque podi europei. Politicamente un po’ destrorsi, tanto che in gara non indossavano la tradizionale maglia azzurra, ma la camicia nera. I quesiti da scacco al re erano di competenza del maestro Giorgio Porreca, più volte campione d’Italia, una laurea in Letteratura e lingua russa e autore di numerosi libri dedicati ai maestri dell’arrocco.
Ma che razza di mestiere è il nostro? Leggiamo nella bacheca del Cdr di via Po quanto vi affisse Antonio Gambino. Il compitino di suo figlio. La maestra delle elementari aveva chiesto ai suoi scolaretti un pensierino sul lavoro di papà e mammà. Il figlio di Gambino “sentenziò”: “Mamma lavora. Mio padre, invece, fa il giornalista”…
Restando in quel lungo e stretto corridoio di via Po, dove quando arrivava sempre incazzato Alberto Moravia, ci ci stringeva alle pareti, in uno stanzino c’erano i correttori delle bozze. Tutti insieme, tutti in famiglia. Una grande famiglia. Anche per i correttori. Erano quattro, ma ne ricordo tre. Una gentile signora, un riccioluto capellone biondo che, si diceva, aveva un doppio lavoro, gestiva un locale o qualcosa di simile e arrivava in via Po a bordo di una Porsche. E Tamaro (chissà come si chiamava) triestino triste e solitario, ma sempre elegante, in giacca e cravatta. Era il padre di Susanna, la scrittrice di “Va’ dove ti porta il cuore”, ma fra loro non c’erano rapporti.
Per chiudere, una lectio magistralis del “maestro” Carlo Gregoretti, al settimanale dal 1955. Giornalista raffinato, lo sono andato a trovare un anno fa nella sua bella casa sull’Aventino dove vive con la moglie. E quando la compagna di una vita, Chicchi, si frantumò un femore lo chiamai per avere notizie. Poi gli chiesi: «E tu come stai?». E Carlo: «Malissimo. Ho una brutta malattia: la vecchiaia».
Con Scalfari, Gregoretti è l’ultimo superstite di quella navicella che, salpata da via Po, diventò presto un vascello. Oggi Carlo non ha perso l’ironia e lo stile di sempre. A lui l’onore di lasciarci un incipit strepitoso. Livio Zanetti e Nello Ajello non erano solo giornalisti di razza, ma “cani da tartufo”. In tempi non sospetti, Livio e Nello “fiutarono” che l’Argentario, all’epoca un villaggio di commercianti, contadini e soprattutto pescatori, sarebbe diventato il buen retiro di “quelli che contano”. Perfino gli Agnelli si sarebbero regalati una villa. Così, per il numero del 16 agosto 1964, spedirono Gregoretti che, sotto al titolo “Le contesse sul promontorio”, cominciò così l’articolo: «Porto Santo Stefano. C’erano le cernie, dieci anni fa, nelle insenature segrete dell’Argentario. E non si vedevano neppure quelle, perché se ne stavano all’ombra delle rocce, o affacciate sulla soglia delle tane, o sospese a mezz’acqua con la testa rivolta verso l’alto, il colore del dorso confuso con quello delle alghe sul fondo, immobili, come rispettose del paesaggio. Oggi c’è il cane nero della contessa Nina Benini, un piccolo Schnauzer, autostoppista e subacqueo, che scende a Calapiccola chiedendo un passaggio alla corriera dell’albergo, si tuffa dagli scogli, nuota a collo dritto, come un cormorano, per non mandarsi il sale negli occhi; poi torna a casa e fa la doccia».
Non c'è pace per L'Espresso dopo il terremoto Damilano: il gran rifiuto di Ferruccio De Bortoli. Il Tempo l'08 aprile 2022.
Porta sbattuta in faccia a Danilo Iervolino: Ferruccio De Bortoli non sarà il nuovo direttore de L’Espresso. L’ex direttore del Corriere della Sera, oggi editorialista del quotidiano di Via Solferino, ha risposto un “grazie, preferisco di no” alla proposta del nuovo proprietario del settimanale e della Salernitana, squadra di calcio che sta lottando per rimanere in Serie A dopo il cambio al vertice. La cessione de L’Espresso dal Gruppo Gedi alle mani di Iervolino ha scatenato, ricorda Dagospia, l’addio di Marco Damilano, che ora condurrà una striscia quotidiana di informazione su Rai3. Dopo le dimissioni di Damilano ha preso il suo posto Lirio Abbate, che ricopriva la carica di vice-direttore.
Sempre il sito di Roberto D’Agostino svela un retroscena fino a qui rimasto inedito: nel momento in cui Damilano aveva deciso di lasciare il settimanale, che fino a marzo 2023 uscirà abbinato a La Repubblica, Gedi ha proposto il nome di Concita De Gregorio come nuova guida. Iervolino ha però scartato l’ipotesi di affidare il nuovo progetto alla giornalista, che attualmente è al timone di In Onda, talk show del weekend di La7, in compagnia di David Parenzo.
Dagospia il 21 maggio 2022. Riceviamo e pubblichiamo: "Gentile direttore, l'ipotesi di una vendita di testate GEDI riportata dall’articolo pubblicato oggi è destituita di ogni fondamento. Le sarei grato se volesse segnalarlo ai suoi lettori. Grazie e Buon lavoro! Andrea Griva Comunicazione GEDI"
DAGOREPORT il 21 maggio 2022.
Lo scenario scodellato dal giornale diretto da Franco Bechis non è per niente una fantasy lisergica. A Torino John Elkann, con il fido Scanavino al fianco, in futuro potrebbe, dopo le vendite di “Micromega” e “Espresso”, sbarazzarsi della “Repubblica” di Molinari (in edicola ormai doppiata dal “Corriere”), tenersi stretta la vispa “La Stampa” di Giannini (in memoria dell’Avvocato) e puntare sull’acquisizione del quotidiano della Confindustria (il “Sole 24 Ore” in Borsa capitalizza intorno ai 35 milioni) per portare così a compimento la joint venture con il settimanale economico inglese di proprietà di Elkann, “The Economist”, e creare così un quotidiano economico europeo.
Le chiacchiere intorno alla Gedi sono tante. Ad esempio, il ritorno alla “Stampa” di Federico Monga come vice direttore, dopo aver diretto “Il Mattino” di Caltagirone, ha innescato la possibilità di un suo up-grade al vertice rimettendo così a posto i cocci di “Repubblica” con Massimo Giannini che torna a Roma a dirigere quello che resta del giornale fondato da Scalfari, con Maurizio Molinari che rimane direttore editoriale del gruppo. Ipotesi e indiscrezioni a cui darà una risposta il 2023.
Tobia De Stefano per “Verità & Affari” il 21 maggio 2022.
Se si vogliono capire davvero le prossime mosse di Danilo Iervolino bisogna partire dall’ultimo contratto che l’imprenditore campano ha chiuso per rilevare L’Espresso dal gruppo Gedi, cifra 4,5 milioni di euro. O meglio, bisogna partire dalla clausola voluta esplicitamente dal venditore con la quale veniva esclusa la possibilità di trasformare il settimanale in un quotidiano fino alla fine del 2023.
Cosa vuol dire? Da un lato che la fame editoriale di mister miliardo - appellativo che Iervolino si e meritato dopo la cessione dell’Università telematica Pegaso per un miliardo, appunto, al fondo Cvc - non si e placata. Secondo le notizie raccolte da Verita&Affari il prossimo obiettivo e quello di acquisire un quotidiano generalista di caratura nazionale.
E dall’altro che la Exor di John Elkann, insomma, la famiglia Agnelli che ha in pancia Gedi, e ben consapevole della volontà di espansione di Iervolino e inserendo dei paletti evidenzia di non avere, almeno per il momento, intenzione di smobilitare sul fronte editoriale. Ma vediamo.
Iervolino e in questo momento uno degli uomini più liquidi di Italia ed e infatti tirato in ballo in tante operazioni anche in un’ottica di diversificazione del business. Si sa per esempio degli investimenti in sanita e cybersecurity, cosi come e emerso da poco che ha messo una fiches anche nel progetto Crazy Pizza di Flavio Briatore. Ma la vera passione dell’imprenditore di Palma Campania e l’editoria, da sempre, e adesso il calcio con la Salernitana. E convinto che entrambi i business siano gestiti con metodi non industriali e quindi che ci siano tanti margini di guadagno aggiuntivi.
Il suo modello e Carlo Caracciolo, l’editore puro che non usa i giornali per proteggere altri business. L’ambizione e quella di ripetere il successo ottenuto con l’università telematica. Anche per scuola e formazione si diceva che rappresentassero fasce di mercato con le quali era tradizionalmente difficile portare a casa grandi profitti, eppure tutti sanno come e andata a finire.
Prima di acquisire il gruppo Bfc (che edita tra le altre cose Forbes Italia e Bluerating), Iervolino aveva trattato con Andrea Riffeser Monti, che tra il serio e il faceto aveva chiesto un milione per una singola azione del suo gruppo, il Resto del Carlino, la Nazione e Il Giorno, e poi e stato a un passo dal chiudere per il gruppo Class, operazione saltata solo per divergenza sulla governance con l’attuale proprietà.
Ma dopo l’Espresso le cose sono cambiate. La struttura che Iervolino ha in mente inizia a prendere corpo e il tassello mancante e rappresentato appunto da un quotidiano generalista di caratura nazionale. Detto che La Stampa risulta in vendita, ma non interessa, sarebbe sicuramente diverso un discorso su Repubblica che pero al momento non risulta sul mercato. Inutile dire che se lo fosse Iervolino un tentativo lo farebbe di sicuro.
Tutte le fonti smentiscono che se ne sia già parlato, ma nulla esclude che a stretto giro le cose possano cambiare o che si tratti di un gioco delle parti per non far lievitare il prezzo. Anche perchè si parla sempre con maggiore insistenza di un lavoro degli sherpa in atto da settimane per organizzare un incontro tra lo stesso Danilo Iervolino e John Elkann.
Del resto, se si esclude Repubblica, di quotidiani generalisti di caratura nazionale, resta solo il Corriere della Sera. Detto che i rapporti tra Iervolino e Urbano Cairo sono ottimi e viaggiano sull' asse calcistico, tutto granata, Salernitana-Torino, e che i due si vedono con una certa continuità.
E anche vero che mezza Italia sta aspettando l’esito della causa tra Cairo e il fondo Blackstone per la vertenza sull’immobile di via Solferino. Se Cairo dovesse perdere a quel punto sarebbe costretto a cedere il Corriere e ci sarebbe la fila. Ma in coda non si intravede nessuno con la liquidita di Mister miliardo.
Fosca Bincher per “Verità & Affari” il 30 maggio 2022.
Il dubbio è legittimo e viene dalla calcolatrice. Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Bruno Tabacci ha chiesto all'apposito dipartimento di palazzo Chigi di comprargli gli abbonamenti online necessari per la sua mazzetta di quotidiani digitali. Ne ha scelti cinque: Corriere della Sera, La Repubblica, La Stampa, Il Sole 24 Ore e Il Fatto Quotidiano.
L'incarico di stipulare gli abbonamenti per un anno è stato affidato alla società Simul News srl di Roma (anche se bastava un clic per farlo sui dispositivi dello stesso Tabacci). Costo del contratto: 1.224,20 euro più 82,58 di Iva per un totale di 1.306,78 euro. E qui entra in funzione la calcolatrice.
Andiamo a fare gli abbonamenti sui siti di ciascuna testata. Corriere della Sera: quotidiano digitale più sito senza limiti a 119,99 euro. La Repubblica: quotidiano digitale, tutto sito, edizioni locali e podcast a 199,99 euro. Il Sole 24 Ore: abbonamento digital base per quotidiano e sito a 299 euro. La Stampa: edizione digitale, sito e approfondimenti: 129,99 euro. In tutto fanno 748,97 euro, e ne mancano ancora quasi 600. Manca anche Il Fatto quotidiano. Che ha tre opzioni per gli abbonamenti. Formula “partner”: 189,99 euro. Formula “partner plus”: 214 euro. E formula “socio” a 500 euro. E allora quella domanda si impone: non è che zitto zitto il nostro Tabacci quest'anno è diventato socio di Marco Travaglio?
Francesca Vercesi per “Libero quotidiano” il 21 maggio 2022.
Le voci girano da qualche tempo: Il Fatto Quotidiano sarebbe in vendita. E, in piena campagna elettorale, certe operazioni sono più comprensibili di altre, se si pensa che il quotidiano fondato da Antonio Padellaro è considerato molto vicino al Movimento 5 Stelle, il quale - da due anni in crisi di consensi e passato dal 34% dei voti a un pallido 13%, secondo gli ultimi sondaggi non può permettersi di fare a meno di una tale cassa di risonanza mediatica.
Sta di fatto che il giornale diretto da Marco Travaglio è un dossier interessante, e soprattutto in salute, per imprenditori che vogliano farsi conoscere sul mercato e nel mondo dell'editoria.
Il gruppo Seif che lo edita è quotato sul listino EGM (ex Aim) di Borsa Italiana dal marzo 2019, ha una capitalizzazione intorno agli 11 milioni di euro e, assumendo un'ipotesi di valorizzazione tra 4 e 5 volte l'Ebitda (che a fine 2021 valeva 5,9 milioni di euro), l'enterprise value potrebbe aggirarsi tra i 23 e i 29 milioni di euro. A fine 2021 è migliorata anche la posizione finanziaria netta, passata da 1,373 milioni a 2,29 milioni, con un miglioramento di 922 mila euro.
Sul bilancio di chiusura 2021, quanto al posizionamento, si legge che "con una tiratura di 65.381 copie e un totale di 24.895 copie, Il Fatto Quotidiano si posiziona al 7° posto per tiratura e al 9° per diffusione cartacea nella classifica dei player di informazione al di sotto delle 100.000 copie di tiratura media giornaliera".
E, sempre nel bilancio, è scritto che il quotidiano in formato digitale, nel corso degli ultimi anni, ha registrato un'incidenza delle copie digitali sul totale delle copie distribuite superiore ai principali player del mercato. "Oggi è la 4° testata in Italia per diffusione di copie in formato digitale e la 3° come incidenza delle copie digitali sul totale", si legge. Volendo però numeri ancora più aggiornati, secondo gli ultimi dati di Ads notizie di marzo 2022, la tiratura del Fatto arriva a 59.727 mila copie.
In ogni caso, nelle ultime ore ha iniziato a circolare, tra i possibili interessati a rilevare Seif, uno degli imprenditori più liquidi del momento: Danilo Iervolino, giovane e intraprendente campano a capo di un nuovo gruppo media costituito da un lato dalla quotata BFC Media e dall'altro dal settimanale L'Espresso e dal periodico Le Guide dell'Espresso.
L'asso pigliatutto dell'editoria, mister miliardo, chiamato così per essere riuscito a cedere a settembre 2021 per un miliardo di euro a CVC Capital Partners la quota rimanente di Wversity, cui fanno capo Multiversity srl (Università Telematica Pegaso e Università Mercatorum) e l'erogatore dei programmi internazionali di certificazione delle competenze digitali Certipass.
Un'operazione che gli ha fruttato, vendendo tutto il suo 49%, circa 500 milioni di euro.
Iervolino, che ha chiuso un contratto da 4,5 milioni di euro per rilevare il settimanale L'Espresso dal gruppo Gedi, sta puntando all'acquisizione di un quotidiano nazionale, e il giornale diretto da Marco Travaglio potrebbe essere un obiettivo da considerare. Del resto, ha per l'appunto oltre mezzo miliardo di liquidità da investire.
Negli ultimi mesi, l'imprenditore campano è assurto alle cronache anche per aver acquistato la Salernitana Calcio. Piccole operazioni all'insegna della diversificazione, che potrebbero proseguire nei prossimi mesi, a giudicare dalle varie partite a cui viene ultimamente associato. Inoltre, sul dossier L'Espresso esiste una clausola secondo cui è esclusa la possibilità di trasformare il settimanale in un quotidiano fino alla fine del 2023: quindi, secondo le voci che, l'acquisizione di un quotidiano generalista come Il Fatto potrebbe fare al caso suo.
Come potenziali acquirenti del quotidiano è girato nelle ultime ore anche il nome di Cdp, la Cassa Depositi e Presiti controllata dal ministero dell'Economia e delle Finanze. Ma questa non pare un'ipotesi realistica, considerando che lo Stato, secondo la Costituzione, non potrebbe investire né direttamente né indirettamente nell'editoria, o comunque nel settore dei media.
Tornando a Iervolino, il manger ha acquisito il gruppo Bfc (che edita, tra gli altri, Bluerating, Forbes Italia e Robb Report) e inizialmente - stando alle cronache avrebbe cercato anche un accordo per rilevare il controllo di Class Editori. Operazione poi sfumata, anche se chi conosce la questione dice che Iervolino potrebbe comunque avere un ruolo, benché più defilato, nel rafforzamento patrimoniale della casa editrice che edita Milano Finanza.
All'imprenditore non deve essere poi certo sfuggito quanto la casa editrice di Marco Travaglio ha comunicato poche ore fa al mercato. Ovvero il varo di un progetto per l'espansione della società nell'ambito dell'istruzione e della formazione. Guarda caso, proprio il settore in cui lo Iervolino ha fatto fortuna con Università Pegaso...
Gli affari di Mister Espresso, ecco chi è Danilo Iervolino. GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA su Il Domani il 28 marzo 2022
Danilo Iervolino è uno degli imprenditori italiani più in vista del momento. Inventore dell'Unipegaso, l’ateneo online che ha venduto di recente a un fondo inglese incassando più di un miliardo di euro.
Iervolino nelle ultime settimane ha cominciato a investire una parte (minima) dei guadagni. Portandosi a casa prima la Salernitana, squadra di serie A assai cara a Vincenzo De Luca, e poi il glorioso settimanale L'Espresso svenduto dalla Gedi di John Elkann.
Alle inchieste della magistratura, ha scoperto Domani, si sommano i sospetti dell’antiriciclaggio su pezzi del gruppo: una delle ultime riguarda proprio l’acquisizione della Salernitana dal trust che l’ha gestita dopo l’uscita di Claudio Lotito.
GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA
Giovanni Tizian e Nello Trocchia per “Domani” il 28 marzo 2022.
Danilo Iervolino è uno degli imprenditori italiani più in vista del momento. È l’inventore dell’Unipegaso, l’ateneo online che ha venduto di recente a un fondo inglese, incassando più di un miliardo di euro.
Nelle ultime settimane ha cominciato a investire una parte dei suoi guadagni, portandosi a casa prima la Salernitana, squadra di serie A cara a Vincenzo De Luca, e poi il glorioso settimanale L’Espresso, svenduto dalla Gedi di John Elkann.
È un imprenditore creativo e ambizioso che ha fatto crescere l’impero fondato dal nonno. I successi di famiglia corrono paralleli a qualche guaio giudiziario del padre e del fratello, deceduto, con il quale Danilo aveva fondato l’università telematica Pegaso, il brand più noto della formazione privata online.
Iervolino è stato sempre attento a non ostentare affiliazioni politiche. In passato è stato dato vicino al centrodestra, ma lui ha sempre smentito queste voci. Le ultime indiscrezioni lo collocano nell’area del centrosinistra campano dominato da De Luca, il presidente della regione Campania, che lo vedrebbe come perfetto erede politico.
Solo voci, ha ribadito ancora l’imprenditore. Eppure un legame indiretto con De Luca è sicuro: la moglie di Iervolino ha versato il contributo elettorale più alto alla lista Campania Libera, che ha sostenuto la corsa di De Luca alle ultime regionali del 2020.
Alle inchieste della magistratura, ha scoperto Domani, si sommano i sospetti dell’antiriciclaggio su pezzi del gruppo: uno degli ultimi riguarda proprio l’acquisizione della Salernitana dal trust che l’ha gestita dopo l’uscita di Claudio Lotito.
Nei documenti ottenuti è riportata la reale cifra dell’operazione e le modalità di pagamento, poi ci sono alcune anomalie e sono stati inviati alla procura di Napoli in virtù di una richiesta di collaborazione da parte della Guardia di finanza del capoluogo campano.
In uno di questi documenti, del 2021, l’antiriciclagigo scrive: «Le attenzioni sono rivolte alla natura del gruppo Iervolino, costituito da complesse catene societarie caratterizzate dalla presenza di holding spesso inattive e da alcune società con medesima denominazione ma diversa forma societaria. Tali soggetti risultano già ripetutamente segnalati a questa unità».
Tra le operazioni «sospette» ci sono anche quelle effettuate sui conti di una delle aziende della galassia Pegaso sull’asse Italia-Bulgaria.
Iervolino si è accreditato nei palazzi del potere nazionale con l’università Pegaso che lo ha reso famoso a Napoli e dintorni, oltre che ricchissimo. Il calcio gli ha poi aperto le porte dell’olimpo italiano dei presidenti della serie A. Infine il salto nell’editoria, con l’acquisto delL’Espresso. Il veicolo societario usato da Iervolino si chiama Bfc media, la holding che edita l’edizione italiana di Forbes e di cui Iervolino è diventato socio di maggioranza nel 2021.
Tra L’Espresso e Iervolino non è stato amore a prima vista. L’imprenditore campano aveva querelato il settimanale per un’inchiesta giornalistica (a firma Nello Trocchia) sulla Pegaso e aveva chiesto 38 milioni di euro di danni. Iervolino è stato sconfitto sia in sede penale sia civile in primo grado. Le sentenze favorevoli alla testata risalgono a novembre e dicembre 2021, pochi mesi prima della vendita dell’Espresso a Iervolino.
Tra le notizie contestate (ma vere) dal patron dell’università telematica c’è quella dell’indagine per associazione a delinquere nei confronti del fratello Angelo, un procedimento chiuso con la morte dell’indagato, che non ha potuto dimostrare la sua estraneità. L’accusa era di falsi e irregolarità nel settore dell’istruzione privata. I due fratelli erano soci in Pegaso.
A chiedere la collaborazione degli investigatori antiriciclaggio di Banca d’Italia è stata la procura di Napoli nel 2019. Esistono decine di segnalazioni sulla galassia Iervolino inviate dagli istituti di credito all’autorità di Banca d’Italia.
Ce n’è una in cui i detective finanziari evidenziano anomalie nei flussi tra l’Italia e l’estero, in particolare la Bulgaria, relativi a Pegaso Consulting, «società che ha nell’oggetto sociale l’attività di consulenza direzionale con prestazione di servizi di carattere gestionale e amministrativo. Controllata al 100 per cento dall’ente Università telematica Pegaso».
Nel 2018 sui conti della Pegaso Consulting è stata riscontrata una «operatività apparentemente poco trasparente posta in essere su rapporto intestato a una società italiana che gestisce una università con sede in Bulgaria; suscita perplessità che i flussi relativi alla tesoreria dell’università estera vengano gestiti su rapporto di conto in essere presso il nostro paese».
L’istituto che ha inoltrato a Banca d’Italia la segnalazione sottolinea che «pur in presenza di disponibilità e chiarezza da parte dell’amministratore che ha descritto i processi amministrativi adottati, permane l’anomalia della gestione della tesoreria di ente estero mediante utilizzo di conto corrente a nome del tesoriere, società operante in Italia».
C’è poi l’operazione Salernitana. Iervolino ha versato il 31 dicembre, ultimo giorno utile, mezzo milione come acconto. Il 13 gennaio, si legge negli atti, ha saldato con 9,5 milioni.
Rilevare la proprietà della squadra di Lotito è stato per Iervolino un affare. Come riportano gli articoli di quei giorni, la cifra plausibile sembrava potesse essere attorno ai 17 milioni.
Gli esperti dell’antiriciclaggio che hanno studiato la pratica segnalano un particolare: il giorno prima che Iervolino versasse la caparra da 500mila euro, il trust Salernitana aveva ricevuto un’offerta molto più bassa da un notaio salernitano, che aveva versato un acconto di 78mila euro, restituito al professionista dopo la decisione di chiudere con l’imprenditore dell’università privata.
Un’altra segnalazione sospetta risale al 2013 e riguarda l’affitto di un immobile di pregio nel centro di Napoli. A locarlo era stata la fondazione Frontiere internazionali della ricerca scientifica e tecnologica, che faceva capo a Iervolino.
L’affitto da 10mila euro al mese, si legge nel documento, finiva sul conto della moglie dell’imprenditore reale proprietaria dell’immobile, costato alla signora quasi 1,5 milioni pagati con un mutuo che scade nel 2031 e una rata mensile da 7mila euro al mese.
«Appare evidente, in ultima istanza, la distrazione di fondi della fondazione per finalità non congrue con lo scopo sociale della stessa, ma destinati alla soddisfazione di interessi riconducibili direttamente alla signora e indirettamente allo Iervolino».
Gli addetti all’antiriciclaggio della banca aggiungevano che «così come per l’Università telematica Pegaso anche per la fondazione non siamo in grado di valutarne la reale consistenza patrimoniale, nonché le corrispondenze tra i dati fiscali, quelli di bilancio e i volumi transitati sul conto, in ragione della scarsa collaborazione in tal senso dimostrata dallo Iervolino e dallo studio commercialista, che si limita ad affermare che la fondazione non ha alcun obbligo di dichiarazione fiscale».
Di certo il palazzo di via Medina 5 è centrale negli affari di Iervolino: qui hanno avuto sede fino al 2016 gli uffici di Pegaso e della capofila Multiversity.
Sono numerose le movimentazioni sul conto corrente di Iervolino passate al setaccio dai detective dell’autorità antiriciclaggio su richiesta anche della Guardia di finanza. L’analisi ripercorre gli ultimi nove anni di flussi finanziari. Tra questi ci sono 60mila euro alla fondazione socio culturale internazionale Passarelli, che gestisce un istituto paritario al centro dell’inchiesta della procura di Vallo della Lucania sui diplomi fasulli che alla fine del 2021 contava oltre 500 indagati in tutta Italia.
Tra settembre e novembre del 2021 Iervolino perfeziona la vendita del 100 per cento dell’università Pegaso al fondo di investimento inglese Cvc Capital Partner, rappresentato in Italia da Giampiero Mazza. Il prezzo di cessione è stato pari a un miliardo di euro, «1.081.048.297,00», si legge nel documento riservato che sancisce la vendita del polo accademico davanti al notaio Luca Amato. Iervolino tuttavia è rimasto presidente dell’università.
Negli stessi mesi in cui aveva deciso di rilevare Pegaso, Cvc era impegnata in un altro affare miliardario con la serie A: era nella cordata pronta a creare la media company, progetto fallito miseramente per l’opposizione feroce di alcuni presidenti delle squadre, su tutti Claudio Lotito, all’epoca ancora presidente della Salernitana oltreché della Lazio.
Un anno dopo il caso ha poi voluto che Iervolino, diventato ricco grazie al fondo Cvc, rilevasse proprio la squadra campana, nel frattempo promossa nella massima serie. Alla fine Cvc ha portato a termine il progetto della media company con la Liga spagnola e lo sta definendo con il campionato francese.
Il fondo inglese ha versato a Iervolino oltre un miliardo a fronte di una società con capitale sociale di 1 milione di euro, con un fatturato dichiarato nel bilancio 2020 di quasi 166 milioni di euro e un utile decuplicato nello stesso anno, da 6 milioni a 56.
Anche i debiti, però, sono aumentati, da 63 a 85 milioni nel 2020. Gli iscritti nell’anno 2020/21, secondo i report del ministero dell’Istruzione, ammontano a oltre 65mila. Nel 2016 erano poco più di 20mila.
Diversi i risultati operativi della società Multiversity, al vertice della catena societaria e al 100 per cento fino al 2020 di Danilo Iervolino tramite un’altra spa, Wversity. L’ultimo bilancio presentato sotto la proprietà Iervolino fornisce molte informazioni.
La prima è che, a differenza della società controllata Pegaso, ha chiuso l’anno 2020 in perdita di oltre 1,5 milioni. Nella relazione sulla gestione dello stesso anno è riportata anche una sanzione tributaria pari a 2 milioni, ricevuta dall’Agenzia delle entrate sul «maggior carico fiscale seguito alla risposta dell’Agenzia».
La società credeva di poter beneficiare di una sorta di sconto sulle plusvalenze ricavate dalla cessione delle partecipazioni in favore di un partner finanziario. Non poteva farlo e ha dovuto pagare la multa al Fisco.
Iervolino si è ritrovato così all’improvviso a essere il paperone del Mezzogiorno. C’è chi lo ha definito «fuoriclasse», chi un «futuro Urbano Cairo», per altri è «l’immagine migliore del sud».
Il Foglio diretto da Claudio Cerasa gli ha dedicato un ritratto generoso, secondo cui sarebbe figlio del senatore democristiano Antonio. Il vero padre di Danilo si chiama Antonio, ma è deceduto nel 2007 e non è stato parlamentare, bensì l’inventore dell’istituto scolastico privato Iervolino.
Danilo Iervolino ha ricordato il padre e la madre a gennaio scorso, durante l’inaugurazione di una sala dell’accademia militare Nunziatella di Napoli: «Sono felicissimo di aver contribuito alla realizzazione della sala museale di storia, arte e cultura della scuola militare Nunziatella, eccellenza nel settore dell’istruzione militare e fucina di giovani di coraggio e di valore.
Ma soprattutto sono commosso dal fatto che questo luogo è stato dedicato alla memoria dei miei genitori, Giuditta e Antonio Iervolino. Nel ricordo di un grande impegno per i giovani e per il loro inserimento nel mondo del lavoro: democratizzazione dei saperi come unica traiettoria di crescita e di riduzione delle disuguaglianze».
Iervolino, tuttavia, preferisce non ricordare l’inciampo giudiziario del padre all’epoca in cui gestiva l’istituto Iervolino in provincia di Napoli, attivo nell’istruzione privata e che ha fatto diplomare studenti napoletani e anche di altre zone d’Italia.
Era il 1993, 5 ottobre, il quotidiano di Napoli Il Mattino, nelle cronache interne, titolava così: «10 milioni e sarai ragioniere», e poi «in manette il titolare dell’istituto Iervolino».
La foto dell’articolo ritrae Antonio Iervolino, il padre di Danilo, accusato di concorso in concussione aggravata. Si era difeso, aveva affermato con forza di essere estraneo alle accuse. Le cronache riferiscono della chiusura della vicenda con Iervolino senior che ne è uscito con il patteggiamento. Anche su questo punto, come su altri, Danilo Iervolino ha preferito non rispondere alle nostre domande.
Il caso era finito anche in parlamento con il deputato Michele Del Gaudio, un indipendente confluito nel gruppo Progressisti federativi, presieduti da Luigi Berlinguer.
Del Gaudio, ex magistrato, aveva chiesto al ministero dell’Istruzione informazioni sul ritorno in attività delle scuole private Iervolino dopo lo scandalo. L’interrogazione è rimasta senza risposta.
Nell’ascesa imprenditoriale di Iervolino junior hanno contato molto le relazioni che ha saputo coltivare nel tempo.
Le collaborazioni con le istituzioni contribuiscono agli ottimi fatturati di Pegaso. «Gli appartenenti ai ruoli dell’esercito, della marina, dell’aeronautica e dei carabinieri potranno iscriversi ai corsi di laurea dell’Università versando una retta annuale pari ad euro 1.500,00. La medesima agevolazione è estesa anche al personale in congedo (personale in pensione)», è l’annuncio che gli utenti possono leggere sul sito dell’università telematica, presieduta da Iervolino anche dopo la vendita al fondo inglese.
Oltre alle convenzioni con il ministero della Difesa, ci sono quelle con la Polizia di stato, terzo settore e cooperative. Pegaso ha promosso convegni, dibattiti ai quali hanno partecipato magistrati, consiglieri di stato, presidenti emeriti della Corte costituzionale e i vertici dell’antimafia.
Il direttore scientifico di Pegaso è un giurista affermato: l’avvocato civilista Francesco Fimmanò, amico di Iervolino. Fimmanò e Iervolino hanno subìto un’indagine dalla procura di Napoli. L’ipotesi era di corruzione, ma è stata archiviata nel 2021. Già prima il tribunale del Riesame aveva smontato il decreto di perquisizione.
L’avvocato Fimmanò ha inviato in quell’occasione ai vertici di tribunale e Corte d’appello di Napoli una lunga lettera in cui ha contestato, punto a punto, i provvedimenti disposti dalla procura. E ha ricordato il suo percorso prestigioso: «Solo per fare un esempio sono notoriamente legato culturalmente (e coautore di testi, convegni, simposi) al procuratore generale aggiunto della Cassazione in carica, a giudici costituzionali, a tantissimi consiglieri di Cassazione, a presidenti di tribunale e di Corti d’appello.
O ancora, sono l’unico professore universitario italiano ad aver scritto col più grande giurista vivente, Guido Calabresi, già preside di Yale e oggi giudice della Corte federale d’appello degli Stati Uniti (…) Ho formato presso la Scuola superiore della Magistratura di Scandicci (e prima nella formazione della IX Commissione del Csm) centinaia di giudici fallimentari, di tribunali delle imprese e di procure di criminalità economica».
Parole che il professore ha utilizzato per smontare l’ipotesi accusatoria secondo cui alcuni giudici amministrativi avrebbero favorito Pegaso in un pronunciamento perché precedentemente impegnati in un master dell’università, poi neanche svoltosi.
Tra i tanti master proposti dall’università telematica c’è quello di giornalismo con Bruno Vespa che insegna Politica e giornalismo, con Mario Giordano, Telegiornali e informazione in tv, con il deputato ed ex direttore di Panorama Giorgio Mulè, che si è occupato di Informazione e l’evoluzione da testata giornalistica a brand commerciale. Infine quello su Giornalismo d’inchiesta, corso tenuto da Barbara Carfagna, giornalista del Tg1.
Il core business della famiglia Iervolino è stato sempre l’istruzione privata. Prima il padre, poi i due figli, in particolare Danilo che ha fatto dell’università Pegaso un’esperienza di successo. Il punto di svolta è stato nel 2003, grazie al decreto Moratti-Stanca che ha istituito le università telematiche.
Iervolino ha conquistato anche la politica. Nel 2014 Silvio Berlusconi ha scelto la sua università per formare i quadri dirigenti di Forza Italia. Il costo dell’iscrizione al corso “politico”, si legge in un vecchio articolo, era di 650 euro. Berlusconi aveva persino pensato a Iervolino come coordinatore del partito in Campania dopo gli scandali di voti e camorra che avevano travolto l’ex sottosegretario Nicola Cosentino.
Sebbene ci siano stati ammiccamenti con il centrodestra, l’imprenditore campano ha buoni rapporti anche nel centrosinistra. Dai documenti ottenuti da Domani risulta che la moglie Chiara Giugliano ha finanziato con 20mila euro la lista Campania Libera del presidente De Luca, impegnata con successo alle regionali del 2015 e del 2020.
Iervolino è molto amico del deputato di Forza Italia Giorgio Mulè, già direttore di Panorama. Il giornalista nel suo curriculum su LinkedIn scrive che dal 2014 al 2018 è stato docente “straordinario” di Teorie e tecniche della comunicazione. Nel 2017 Mulè da direttore di Panorama ha incluso l’università Pegaso, di cui era professore, nelle eccellenze d’Italia.
Mister Pegaso vanta collaborazioni editoriali pure con l’ex magistrato anticamorra Catello Maresca, candidato a sindaco di Napoli supportato dal centrodestra. Il tema del libro non è la legalità, ma «il presepe napoletano» in una pregiata edizione illustrata venduta su Unilibro.it a 76 euro a copia.
L’elenco degli ospiti alla festa dei dieci anni dell’università telematica è rivelatore di rapporti e amicizie: banchieri, giudici contabili, procuratori, presidenti di tribunali, deputati, senatori, generali della Guardia di finanza, fino a Luciano Chiappetta, capo dipartimento del ministero dell’Istruzione.
In ogni intervista Iervolino ricorda la bellezza delle sedi dove gli studenti possono svolgere le sessioni d’esame. La società capofila Multiversity ha speso 10,1 milioni nel 2020 per acquistare un palazzo storico nel cuore di Roma, a piazza Ara Coeli, a un metro dall’Altare della patria in piazza Venezia.
Il civico dell’immobile prestigioso indicato nel bilancio della società corrisponde al palazzo “Fani Pecci Blunt” del sedicesimo secolo, costato a Iervolino tanto quanto l’acquisto della Salernitana. Una delle ipotesi circolate è che potrebbe diventare la nuova sede dell’Espresso.
Alle nostre domande l’imprenditore non solo ha deciso di non rispondere, ma ci ha avvisati (con una lunga nota che pubblichiamo integrale qui sotto) di aver inviato una denuncia preventiva sui contenuti che pubblicherà Domani. Il motivo?
Le nostre notizie «turbano nel complesso proprio il settore della libertà e del pluralismo dell’informazione, con condizionamenti potenzialmente violativi dei precetti costituzionali». Un ottimo inizio come futuro editore dell’Espresso. Una strana idea di giornalismo per un editore
Giovedì 24 marzo alle 10.36 di mattina abbiamo contattato Danilo Iervolino. Gli abbiamo chiesto se preferiva rispondere via telefono alle nostre domande, «se può scrivermi è meglio, contatti la dott.ssa Mara Andria».
Così abbiamo fatto, Andria ci ha chiesto i quesiti scritti in una mail. Alle 11.35 era già stata inviata, con dieci domande puntuali e con la richiesta di rispondere entro sabato alle 14 (due giorni abbondanti dopo) così da poter chiudere l’articolo con le loro risposte. Sabato arriva una nota inviata da Andria per conto di Iervolino e il tono è decisamente diverso.
Non ci sono le risposte ai dubbi né le repliche alle notizie che stavamo per pubblicare. Ma solo l’annuncio di una denuncia preventiva all’autorità giudiziaria. E le accuse di aver violato numerosi principi etici e giornalistici. Noi, come sempre facciamo, chiediamo conto ai protagonisti delle nostre inchieste, per dare la possibilità di rispondere e ribattere punto su punto.
«In relazione ai quesiti che ci avete sottoposto faccio presente preliminarmente che appaiono connotati da una strumentale capziosità che disvela un chiaro intento diffamatorio tracimante in nuce i canoni di verità, critica e continenza», inizia così la lettera inviata a Domani.
E prosegue: «Ciò renderebbe ogni risposta del tutto inutile e funzionale solo ai vostri malcelati intenti di colorare le stesse con un simulacro di dovere di controllo delle fonti e diritto di replica. Ma ciò che è più grave, e che impedisce persino ogni risposta, è che le stesse domande contengono non solo profili violativi della privacy ma soprattutto possibili violazioni del segreto istruttorio».
«Pertanto non abbiamo potuto far altro che denunciare alle autorità inquirenti i detti contenuti che in parte qua non sono neppure noti al sottoscritto e ai propri legali costituiti nei relativi procedimenti. Ciò che inquieta è che tutto ciò avviene con un tempismo logico-sequenziale ad altre recentissime vicende che appaiono collegate e tali da turbare nel complesso proprio il settore della libertà e del pluralismo dell'informazione, con condizionamenti potenzialmente violativi dei precetti costituzionali».
Dopo l’inchiesta di Domani, L’Espresso attacca Iervolino. Il Domani il 28 marzo 2022
«I giornalisti dell'Espresso vogliono per questo rassicurare i lettori: non smetteremo di fare domande, chiunque sia il nostro editore», scrivono in una nota dopo che l’imprenditore Danilo Iervolino ha minacciato di denunciare Domani per avergli sottoposto delle semplici domande
Dopo l’inchiesta di Domani a firma di Giovanni Tizian e Nello Trocchia sull’imprenditore Danilo Iervolino che ha da poco acquistato l’Espresso, i giornalisti del settimanale hanno scritto un comunicato in cui esprimono preoccupazione per la reazione del loro futuro editore alle domande poste da Domani.
«I giornalisti dell’Espresso hanno appreso con sconcerto il contenuto della risposta fornita da Danilo Iervolino, prossimo possibile editore della nostra testata, alle domande legittime formulate dal quotidiano Domani nell’ambito di un’inchiesta giornalistica. Stando ai resoconti pubblicati, Iervolino avrebbe preannunciato una querela non per l’articolo finale ma per il semplice contenuto delle domande».
La nota dei giornalisti si riferisce alla denuncia annunciata dallo stesso Iervolino nei confronti di Domani dopo che ha ricevuto delle domande formulate da Tizian e Trocchia per garantire il suo diritto di replica. Domande a cui non ha mai risposto.
«Riteniamo che questa reazione non sia compatibile con gli standard minimi dell’attività giornalistica a cui dovrebbe uniformarsi anche un imprenditore che intende pubblicare questo giornale. Che cosa succederebbe se tutti i prossimi interlocutori della nostra testata reagissero nello stesso modo di Iervolino in risposta a semplici domande? Il nostro timore è che si sentirebbero legittimati a querelarci preventivamente», si legge nel comunicato che si conclude con un appello rivolto ai lettori.
«I giornalisti dell'Espresso vogliono per questo rassicurare i lettori: non smetteremo di fare domande, chiunque sia il nostro editore».
Da espresso.repubblica.it il 28 marzo 2022.
I giornalisti dell’Espresso hanno appreso con sconcerto il contenuto della risposta fornita da Danilo Iervolino, prossimo possibile editore della nostra testata, alle domande legittime formulate dal quotidiano Domani nell’ambito di un’inchiesta giornalistica. Stando ai resoconti pubblicati, Iervolino avrebbe preannunciato una querela non per l’articolo finale ma per il semplice contenuto delle domande.
Riteniamo che questa reazione non sia compatibile con gli standard minimi dell’attività giornalistica a cui dovrebbe uniformarsi anche un imprenditore che intende pubblicare questo giornale. Che cosa succederebbe se tutti i prossimi interlocutori della nostra testata reagissero nello stesso modo di Iervolino in risposta a semplici domande? Il nostro timore è che si sentirebbero legittimati a querelarci preventivamente.
Gedi attacca L’Espresso, i giornalisti: «Basta fake news». Il documento dell’assemblea dei giornalisti de L’Espresso il 14 Marzo 2022.
I giornalisti dell’Espresso prendono atto con sorpresa e sconcerto delle recenti dichiarazioni di Maurizio Scanavino, amministratore delegato del gruppo Gedi, un gruppo che, lo ricordiamo per chi si fosse nel frattempo distratto, continuerà a essere l’editore dell’Espresso in attesa che si completi l’annunciata (e non ancora perfezionata) vendita della testata al gruppo Bfc media di Danilo Iervolino.
Un giornale che ha fatto della lotta alle fake news una propria bandiera, con inchieste che in questi ultimi anni hanno avuto risonanza internazionale, non può fare a meno di contestare alcune affermazioni che ci sembrano lontane dalla realtà dei fatti, lesive dell’immagine della testata e della professionalità di quanti vi lavorano.
Andiamo con ordine: secondo quanto si legge nel comunicato diffuso dal comitato di redazione della Stampa, al termine dell’incontro con Scanavino di giovedì 10 marzo, lo stesso Scanavino avrebbe affermato testualmente che L’Espresso ha fatto «registrare ormai da anni perdite estremamente significative”.
Facciamo notare che in base ai dati comunicati dall’azienda, le perdite operative dell’Espresso, oltre a rappresentare una quota più che trascurabile rispetto al passivo del gruppo, sono nettamente diminuite nell’arco degli ultimi tre anni, un trend che, sempre secondo quanto comunicato dai vertici aziendali, era destinato a proseguire anche nel 2022. Tutto questo in una situazione di mercato estremante difficile, che ha penalizzato pesantemente anche il conto economico delle altre principali testate del gruppo.
Ricordiamo inoltre che solo un mese fa, in un incontro con la direzione generale il comitato di redazione dell’Espresso si era sentito rassicurare sul futuro della testata poiché i conti per quanto in perdita erano in miglioramento e le ricorrenti voci di una possibile cessione della testata erano «totalmente infondate». In quell’occasione il deficit dell’Espresso era stato definito «importante ma in miglioramento rispetto al 2020-21» ed era stato assicurato che non «erano previsti tagli di borderò né di altro tipo».
L’Espresso, sostiene Scanavino, avrebbe avuto «la priorità» negli investimenti sul piano tecnologico: un’informazione che non corrisponde assolutamente alla verità se si esclude, pochi mesi fa, l’aggiornamento di un sistema editoriale ormai superato.
Sempre secondo quanto riportato dal comitato di redazione della Stampa, Scanavino avrebbe inoltre affermato che L’Espresso «ha in qualche modo fatto il suo tempo». Rispediamo al mittente le considerazioni sulla morte del giornalismo d’inchiesta e di approfondimento e troviamo quantomeno sorprendente che l’amministratore delegato di Gedi consideri obsoleto un settimanale che, secondo quanto previsto dagli accordi con l’acquirente, continuerà a essere offerto ogni domenica in allegato obbligatorio a Repubblica almeno fino a 31 marzo 2023.
I giornalisti dell’Espresso, a dispetto di quanto affermato da Scanavino, vogliono riaffermare il proprio impegno a difesa della testata che ogni settimana con i propri articoli dimostra di essere viva e vitale. Come ci ha ricordato di recente Corrado Augias, «I giornali hanno una storia e in qualche caso fanno la storia. E vanno maneggiati con cura, bisogna tenerlo presente quando si fa l'editore».
Da calcioefinanza.it il 13 marzo 2022.
Il nuovo editore dell’Espresso, Danilo Iervolino, proprietario di BFC media e patron della Salernitana da inizio anno, è indagato dalla Procura di Napoli per un’ipotesi di evasione fiscale di alcuni milioni di euro. L’accusa – scrive Il Fatto Quotidiano nella sua edizione odierna – risale ad anni e vicende a cavallo della metà del decennio scorso, quando il core business dell’imprenditore era l’università telematica UniPegaso.
Nelle scorse settimane la Procura guidata da Giovanni Melillo ha notificato a Iervolino un avviso di proroga delle indagini. Il fascicolo contesta all’imprenditore una presunta violazione dell’articolo 3 del decreto legislativo 74 del 2.000, una fattispecie di evasione fiscale detta «dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici».
Il fascicolo è nato in seguito all’esito di alcuni accertamenti dell’Agenzia delle Entrate risalenti alle dichiarazioni fiscali di diversi anni fa. L’avviso di proroga fornisce agli indagati pochissimi elementi utili a ricostruire i dettagli dell’accusa. Quasi sempre si limita a indicare il titolo di reato. L’indagato ha la facoltà di opporsi alla proroga e chiedere al Gip lo stop dell’inchiesta, per accelerarne la conclusione: ma lo può fare solo “al buio”, senza poter accedere agli atti.
Iervolino è stato iscritto nel registro degli indagati perché gli inquirenti interpretano sfavorevolmente alcune condotte fiscali dell’imprenditore, finalizzate a ridurre di qualche milione di euro l’imponibile. I legali di Iervolino sono invece sicuri di poterne dimostrare l’innocenza, e la correttezza delle informazioni riportate in dichiarazione.
ANDREA GARIBALDI per professionereporter.eu il 13 marzo 2022.
“Sa che ho scritto sull’Espresso?”.
Notizia clamorosa, visto che viene da Danilo Iervolino, imprenditore napoletano creatore dell’università telematica Pegaso, che ha comprato L’Espresso dal Gruppo Gedi. Suscitando scandalo, scioperi, le dimissioni del direttore Marco Damilano.
Quando ha scritto sull’Espresso?
“E’ un piccolo giornale, si chiama l’Espresso napoletano, in onore del caffè”.
Forse una premonizione.
“Può essere”.
Ha detto che all’Espresso, quello che ha comprato, non farà licenziamenti. Ma il direttore lo cambierà?
“La verità? Non lo so. Stiamo valutando. Prepariamo il progetto industriale. Ancora non è definito l’acquisto”.
Ha parlato con Lirio Abbate, nominato dopo le dimissioni di Damilano?
“No. Ho avuto un incontro con alcuni giornalisti, ma lui non c’era, mi pare”.
C’era il Comitato di redazione, i rappresentanti sindacali?
“Di preciso non lo so”.
Il suo Espresso manterrà l’identità che lo distingue da 66 anni?
“Manterrà identità, valori, indipendenza. La voglia di fare inchieste, di gettare luce sulle cose torbide del Paese”.
Ci metterà qualcosa di suo.
“Sarò un editore in punta di piedi, ma darò entusiasmo e porterò le mie esperienze tecnologiche. Il giornale dovrà spingere anche sull’infotaiment, informazione più intrattenimento, sul coinvolgimento del lettore”.
Ha detto che vuole creare, attorno all’Espresso, una community. Cosa significa?
“Una comunità di lettori che condividono gli stessi valori, la passione per la lettura, la tensione verso la verità. Che siano amici, e abbiano in comune battaglie sociali e hobby”.
L’Espresso resterà nell’ambito della sinistra?
“Non è questione di parte o di partito. Credo in un giornalismo sano, di qualità, che illumini, cerchi la verità. L’Espresso può diventare un punto di riferimento, un avamposto di libertà intellettuali”.
Lo scorso anno doveva fare il candidato sindaco a Napoli?
“Falso. Né Berlusconi, né De Luca né altri politici o partiti hanno mai fatto il mio nome come candidato a Napoli. Sapevano che avrei detto comunque no”.
Berlusconi e De Luca Sono suoi amici e sostenitori?
“Ho relazioni con tutti, vada a vedere le presenze nei convegni di Pegaso”.
Ma per chi ha votato nel corso degli anni?
“Non ha importanza. Sono un imprenditore che vuole una società 5.0, nuove tecnologie per fornire prosperità, nel rispetto del pianeta. Sono per il progresso, la sostenibilità, la pace a tutti i costi, la riduzione delle disuguaglianze, le stesse opportunità per tutti. Chi sposa queste idee mi è vicino”.
L’Espresso si allargherà su altri mezzi?
“Tv e radio”.
Una mediatech industry italiana?
“La prima, non ne esistono altre”.
L’editoria italiana chiede continuamente aiuti, sembra sul punto di affondare”.
“E’ un approccio un po’ vecchio. Sono convinto che con l’editoria si possano fare profitti. L’audience può essere convertita in denaro. Ho comprato L’Espresso per lo stesso motivo per cui ho comprato la Salernitana calcio”.
Cosa c’entrano?
“Calcio ed editoria hanno audience inespresse”.
Si rifà a modelli stranieri?
“Nessuno. Sono un inventore. Fra Archimede e Ray Kroc, l’uomo che ha sviluppato Mc Donald’s nel mondo”.
Dottore Iervolino, perché ha venduto Pegaso?
“Perché ho ricevuto una buona proposta economica. La formazione è stato per me un campo per lavorare sull’ascensore sociale. Ora mi dedico ad altro, sempre nello stesso spirito. Sono un costruttore innovatore”.
Ho letto che ha realizzato una app per proteggere lo smart working.
“Si chiama Duskrise. Lo produce una società di cyber security, abbiamo brevettato hardware e software: salvaguarda i mezzi tecnologici di casa dai malware, gli attacchi informatici”.
Lei ha querelato due giornalisti dell’Espresso, Trocchia e Zunino, per quello che avevano scritto su Pegaso.
“Storia vecchia di anni! Mi sembrò un’aggressione alla modernità. Mi piacerebbe che oggi qualcuno dicesse che avevamo ragione, che la formazione a distanza è valida e importante”.
Il Tribunale civile di Napoli ha rigettato il risarcimento per 38 milioni e avete fatto ricorso. Adesso che è proprietario dell’Espresso, ritirerà la causa?
“Potrei anche, ma la causa coinvolge oltre cento persone, docenti e dipendenti. Deve decidere l’assemblea dei soci di Pegaso. Voglio dire però una cosa: ho grande stima per i giornalisti e la loro professione. Svolgono un decisivo ruolo sociale. Io sono uno di loro, giornalista pubblicista”.
Come ha preso il tesserino?
“Con gli articoli sull’Espresso napoletano”.
Tobia De Stefano per “Libero quotidiano” l'8 marzo 2022.
Presidente, non vorrà mica diventare il Berlusconi del Sud?
«In che senso?»
Prima il calcio con la Salernitana, ora l'editoria con l'Espresso, e domani entrerà in politica?
«Assolutamente no. Non ho nessuna intenzione di fare politica, la mia ambizione è quella di creare posti di lavoro certo, ma restando un imprenditore innovativo...».
Danilo Iervolino è oggi uno degli uomini più liquidi d'Italia. Dopo averla fondata, pochi mesi fa ha venduto al fondo di Private equity Cvc l'università telematica Pegaso, e adesso si sta dedicando a una meticolosa campagna acquisti. Diversificando. Torniamo all'editoria. L'operazione per acquisire l'Espresso è chiusa?
«Guardi, abbiamo firmato una lettera di intenti nella quale c'è convergenza praticamente su tutto. Faremo in esclusiva una due diligence di qualche settimana e se tutto va come deve andare entro fine mese sarà chiusa».
C'è molta curiosità sul prezzo. A noi risulta che si tratti di un'operazione almeno da cinque milioni di euro.
«Abbiamo un'obbligo di riservatezza, mi dispiace non posso dirle nulla...».
Sta di fatto che sarà un'operazione onerosa. L'ha sorpresa la reazione dell'ormai ex direttore Marco Damilano che si è dimesso parlando di un indebolimento del giornale e di conseguenza della democrazia?
«Non sono a conoscenza dei fatti, quindi non voglio far polemiche con un professionista che peraltro stimo».
Beh, se è per questo, con Damilano si è schierata una buona parte della sinistra che sembra guardarla con la puzza sotto il naso...».
«Accettiamo le critiche e cerchiamo di trasformarle in stimolo positivo. Detto questo, mi limito a evidenziare che l'editoria è un settore in stagnazione e mi sarei aspettato maggiore apertura nel giudicare l'impegno di un giovane imprenditore che decide di investire delle risorse per rilanciarlo».
All'Espresso serve un rilancio?
«Certo. Oggi l'editoria è un settore piatto e asfittico che ha bisogno di essere rivitalizzato».
In che modo?
«Resterà il settimanale delle grandi inchieste, resteremo fedeli ai suoi valori e all'indipendenza che lo ha contraddistinto sin dalla fondazione...».
Ma...
«Allo stesso tempo punteremo molto sull'on line, su una maggiore contaminazione e su un linguaggio ibrido».
Nel concreto?
«Potenzieremo la parte digitale con nuovi servizi e una fortissima integrazione con il cartaceo».
I giornalisti possono stare tranquilli?
«Assolutamente sì, la ristrutturazione non riguarderà il personale che anzi in modo graduale sarà rafforzato magari con nuove figure che hanno maggiore dimestichezza con il digitale».
Manca il nome del direttore. O meglio uno nuovo già c'è, Lirio Abbate...
«Non abbiamo ancora deciso nulla, non abbiamo ragionato neanche su un identikit...».
Non le credo, ma passiamo alla Salernitana, le piacciono proprio le imprese impossibili...
«...Guardi, il nostro a prescindere dalla salvezza è un progetto di lungo periodo. Credo che si possa estrarre più valore dal mondo del calcio. Non è ammissibile che l'Italia guadagni dai diritti tv meno soldi non solo dell'Inghilterra, ma anche di Germania, Spagna e Francia».
I fondi avevano fatto una proposta importante, ma sono stati respinti.
«Fondi o non fondi bisogna cambiare le cattive abitudini. Ho trovato un'ambiente divisivo, nel quale prevalgono i personalismi a dispetto dell'unità. Con la crisi post Covid se non ci sbrighiamo a prendere delle decisioni ci sarà una selezione naturale. Anche i giovani si stanno disamorando».
Davvero?
«Lo dicono tutti i dati. Le nuove generazioni snobbano il calcio». Soluzioni? «Dobbiamo puntare sulla qualità dello spettacolo che offriamo e sulle nuove tecnologie. Penso alla possibilità per i fan di allenarsi virtualmente con i propri idoli, di interagire con l'allenatore o di ricevere gli auguri personalizzati. Quando decido di fare un investimento guardo alle potenzialità tecnologiche di quello che sto acquisendo. E penso che nel calcio come nell'editoria ce ne siano molte ancora inesplorate».
Dagonews il 7 marzo 2022.
Plebiscito per l'Espresso. Dopo anni Repubblica torna a scioperare. 223 voti a favore, solo 9 contro e 6 astenuti. Domani niente giornale in edicola e sito fermo. Soprattutto, un pacchetto di altri giorni di sciopero se non viene garantito al giornalista, che non vuole andare sotto Iervolino, di poter restare nel gruppo Gedi.
DAGONEWS il 9 marzo 2022.
A Danilo Iervolino rilevare l’Espresso è costato 5 milioni di euro, quando Torino fino a poco tempo fa l’offriva gratis al finanziere Guido Maria Brera, dopo che era fallito il tentativo di fusione del settimanale con l’Economist (proprietà Exor) per mancanza di giornalisti economici.
Aggiungere che per Elkann la perdita annua del settimanale era di un milione e mezzo annuo, una goccia in un bilancio di 200 milioni, e si comprende che la svendita dell’Espresso giace nelle pieghe di un antico astio verso un magazine, specialmente nell’epoca della direzione di Giulio Anselmi, capace di far imbufalire casa Agnelli.
Ha stupito molti che la solidarietà verso i giornalisti dell’Espresso ‘’venduti’’ a Iervolino sia arrivata solo dai colleghi scioperanti di “Repubblica” mentre “La Stampa” e giornali locali sono usciti in edicola regolarmente. Alcuni dicono per non urtare la proprietà, visto che starebbe per far calare la mannaia degli esuberi, soprattutto in casa “Repubblica”. Altri vedono lo sciopero anche come protesta nei confronti del direttore Maurizio Molinari.
Avrà una nuova sede a Milano la redazione dell’Espresso secondo i progetti del nuovo editore Bfc, che ha formalizzato l’offerta di acquisto a Gedi. La casa editrice di cui Denis Masetti ha venduto la maggioranza ad Danilo Iervolino, continuando però a esserne il gestore (Iervolino ha grandi ambizioni come editore ma non essendo un esperto vuole approfondire bene il business prima dì prenderne la responsabilità operativa) avrà sede in via Melchiorre Gioia all’ultimo piano dì un palazzo prospiciente il quartiere Gae Aulenti.
Secondo Bfc la redazione milanese dell’Espresso avrà molta rilevanza e sarà numerosa. Ancora da decidere dove troverà sede la redazione romana. Bfc oltre all’informazione politica vuole sviluppare la parte legata alla cultura, all’economia legata all’innovazione.
Gli accordi con Gedi per il passaggio di proprietà dello storico settimanale prevedono che tutto l’organico passerà a Bfc, che ha un progetto molto articolato per il nuovo Espresso Media (il nuovo brand) che significa una piattaforma che oltre al settimanale su carta con una potente presenza online, prevede una radio, contenuti video, podcast ed eventi. Insomma la formula dell’editoria moderna che terrà conto della diffusa competenza tecnologica che ha Jervolino.
L’Espresso continuerà ad uscire alla domenica insieme a La Repubblica, la pubblicità, finora un ricavo residuale, dovrebbe essere gestita dalla dinamica organizzazione interna a Bfc.
L'"Espresso" a Iervolino. E "Repubblica" sciopera. Gian Maria De Francesco l'8 Marzo 2022 su Il Giornale.
Adesione massiccia alla protesta contro l'editore. Bfc Media: "Non faremo alcun licenziamento".
Il gruppo Gedi (controllato all'89,6% da Exor) ha accettato la lettera d'intenti per l'acquisizione del settimanale L'Espresso presentata da Blue Financial Communication (Bfc), quotata a Euronext Growth, e dalla Idi srl dell'imprenditore Danilo Iervolino, da poco più di due mesi patron della Salernitana Calcio. Immediata la proclamazione dello sciopero alla Repubblica (che oggi non è in edicola) con maggioranza bulgara (223 sì, 9 contrari e 6 astenuti con il vicedirettore Bonini che ha votato a favore), mentre La Stampa è in agitazione. Il quotidiano romano è nato nel 1976 da una costola del settimanale fondato nel 1955 da Arrigo Benedetti ed Eugenio Scalfari e «salvato» dal principe Carlo Caracciolo (cognato dell'avvocato Agnelli) dopo il disimpegno di Adriano Olivetti nel 1957.
«Abbiamo un'esclusiva per negoziare il closing entro 60-90 giorni» spiega al Giornale Iervolino che, come la controparte, non intende fornire la disclosure sul prezzo della transazione. «Sarà un progetto focalizzato sulla media tech - aggiunge - e almeno per i primi 12 mesi proseguirà l'abbinamento obbligatorio con la Repubblica». Iervolino sarà l'editore dell'Espresso: la società veicolo per l'acquisizione, L'Espresso Media srl, è partecipata al 49% da Idi e al 51% da Bfc di cui Iervolino ha annunciato l'acquisizione del 51% dalla lussemburghese Jd Farrods del fondatore Denis Masetti al prezzo unitario di 3,75 euro per una spesa di 6 milioni. L'imprenditore campano, dunque, avrà direttamente e indirettamente il 75% circa dell'Espresso (o anche di più in caso di massicce adesioni all'Opa obbligatoria su Bfc).
«L'Espresso continuerà a essere una voce critica, aperta e a dedicarsi alle grandi inchieste rappresentando la society 5.0, quella del metaverso, dell'inclusività e della tolleranza», rimarca Iervolino che, pur non avendo individuato ancora il nuovo direttore, assicura che intende mantenere i circa 20 giornalisti impiegati. E proprio per quei redattori che intendono battersi a Repubblica (votato anche un pacchetto di altri 3 giorni di sciopero) chiedendo un «salvagente» per i colleghi che volessero restare nel gruppo Gedi mantenendo anche la retribuzione. A Largo Fochetti si lamenta la perdita di «un patrimonio del giornalismo italiano», ma si teme che la riorganizzazione di Gedi, centrata su informazione real time e contenuti digitali, possa portare in futuro il ridimensionamento dei quotidiani. D'altronde, Gedi ha chiuso il primo semestre 2021 con una perdita di 11 milioni dopo i -166 milioni del 2020. La perdita, però, è soprattutto «affettiva» perché Repubblica e l'Espresso erano le leve con cui il precedente editore, Carlo De Benedetti, condizionava politicamente e culturalmente l'élite radical chic della sinistra italiana. Una filosofia che il presidente di Gedi, John Elkann, non ha mai abbracciato. Ieri in Borsa Bfc ha guadagnato l'1,14% a 3,54 euro, giù Exor (-3,35%).
Comunicato del cdr dell’Espresso il 7 marzo 2022.
Dopo mesi di smentite e astratte rassicurazioni, il gruppo GEDI annuncia infine la vendita dell’Espresso. L’offerta che appena tre giorni fa “non era ancora stata formalizzata” e doveva per questo essere prima valutata, è invece stata formalizzata e accettata in tempi record.
Si demolisce il castello eretto nei mesi scorsi dai vertici del gruppo GEDI, che così confermano la propria serietà e affidabilità. La stessa che ha portato nell’ultima settimana alle dimissioni del precedente direttore, arrecando un ulteriore pesantissimo danno d’immagine alla testata.
La redazione dell’Espresso esprime grande preoccupazione per il futuro di un giornale che ha fatto delle inchieste e delle battaglie politiche, civili e culturali la propria ragion d’essere ed entra in un gruppo editoriale che finora si è concentrato su altri settori dell’informazione.
La redazione esprime la propria ferma protesta per i modi in cui la trattativa sulla cessione della testata è stata condotta, e per il risultato finale di un negoziato che per mesi metterà l’Espresso in una situazione che non ha precedenti nella storia dell’editoria italiana, di fatto una co-gestione sospesa tra due proprietà. Una vecchia proprietà che ha affermato la “non strategicità” della testata e un’altra società promessa acquirente di cui al momento non è dato sapere che tipo di obiettivi si pone per il giornale. Una situazione che rende impossibile il sereno lavoro dell’intero corpo redazionale.
Per questo l’assemblea dell’Espresso proclama lo sciopero a oltranza delle firme, sia sul settimanale cartaceo che online, e conferma l’astensione dal lavoro per impedire l’uscita del prossimo numero. Chiediamo inoltre un incontro urgente con i rappresentanti dei due soggetti giuridici che da oggi avranno competenza sulla pubblicazione della testata.
Dagospia. Dal profilo Facebook di Alessandro Gilioli il 9 marzo 2022.
Nell'apocalisse delle immagini di guerra, nell'uragano di dolori e torti che ci massacrano l'anima già devastata da due anni di epidemia, questa di cui parlo qui è cosa talmente piccola che quasi mi vergogno a scriverne.
Lo faccio quindi con gli occhi del miope, dell'autocentrato: insomma, perché è stato un pezzo importante della mia vita. E, professionalmente parlando, il più importante, fino a meno di due anni fa.
Nel cortile di via Colombo, sede della Repubblica e dell'Espresso, ci sono delle macchinette del caffè. È lì che ci si incontrava tra colleghi e si chiacchierava delle cose ufficiose, quelle che poi - quasi sempre - diventavano vere. Ed è lì che un giorno ho saputo che la Fiat ci voleva comprare.
È un esperienza strana, «essere comprati», chi l'ha provata lo sa. Ti senti un po' una pecora in un gregge che viene pesata e poi passa da un padrone all'altro. Capisci che succedono cose molto più in alto di te, tra miliardari felpati, che impatteranno sulla tua vita senza che tu possa fare assolutamente niente.
In un giornale però c'è qualcosa di più, visto che produce informazione, inchieste, opinioni. Non ti chiedi solo quale sarà il tuo destino personale. Ti chiedi anche quanto sarà più larga o più stretta la mordacchia. Perché, come ovvio, nessun giornale che abbia un padrone è privo di mordacchia; la questione è solo quanto è stretta o larga, insomma qual è il margine di indipendenza e di libertà.
Diciamo la verità: era assai lasca e di fatto impercettibile quella mordacchia quando a capo della baracca c'era il Principe, come veniva chiamato Carlo Caracciolo. Insomma, si era sostanzialmente liberi.
Uomo di mondo, gran viveur, sempre divertente e divertito dalla vita. Il giorno in cui fui assunto all'Espresso – era la fine del 2002 – passai per il vaglio di prammatica del colloquio nel suo ufficio, anche se ormai era cosa fatta, grazie a Daniela Hamaui. C'erano dei quadri alle pareti con cui avrei sistemato un paio di generazioni di Gilioli e questa fu la prima, stolta, cosa che pensai.
Lui guardò distrattamente il mio curriculum e fu incuriosito dai quattro anni alla direzione di un mensile: «Ah lei ha fatto Gulliver. E cosa ne pensa del nostro Viaggi, l'allegato a Repubblica?», mi chiese. Ora, l'allegato in questione era abbastanza pessimo. Con le foto degli uffici stampa, nessun inviato, pezzi scopiazzati dalle guide turistiche, per non dire delle marchette. Ero imbarazzatissimo. Me la cavai con un codardo «Beh, secondo me ci sono margini di miglioramento». E lui: «Ma no! Dica pure che l'abbiamo fatto alla cazzo di cane!». E giù a sghignazzare.
Insomma, decisamente non era il tipo che intimidiva. Il resto del colloquio fu un cazzeggio a ruota libera, con qualche bel ricordo suo di quando era stato partigiano. O di quando un'estate su un taxi accaldato passò per caso da Melito, e lui mezzo addormentato vide il cartello e sobbalzò, «ma io sono il principe di Melito!», e il taxista preoccupato: «Dottò, le accendo l'aria condizionata eh?». Comunque, mi sono sentito accolto. E in una bella squadra.
E sempre più in una bella squadra mi sono sentito pochi giorni dopo, alla festa di Natale in via Po. Che lo stesso Caracciolo faceva ogni anno, ma per me era la prima volta. Nel conoscere i colleghi, avevo la percezione di essere a bordo di quella che Scalfari chiamava “vascello pirata”. Dove noi marinai di vario grado venivamo da tutte le sinistre possibili - liberali o comuniste, moderate o extraparlamentari, laiche o cattoliche e così via - ma eravamo tutti parte di uno stesso progetto, libero e non impaurito da nessun potere politico o economico.
Non voglio raccontare un quadro idilliaco. I cazzi amari poi c'erano, come dappertutto. Così come i brutti ceffi, le guerre di scrivania, le ambizioni personali, le vanità (quelle non mancano mai, nel nostro mestiere di narcisi frustrati, almeno fino a una certa età). Eppure idilliaco sembra, al confronto con quello che è successo poi, senza che questo sia uno scherzo della memoria.
La deriva non è avvenuta in un giorno. Come tutte le derive, in effetti. Il Principe morì nel 2008. L'Ingegnere - cioè Carlo De Benedetti - divenne direttamente presidente, da cauto azionista che era. Le feste di Natale finirono subito e come amministratore delegato arrivò una signora gentile che però sedeva già in tre o quattro importanti consigli di amministrazione. Iniziò insomma l'aziendalizzazione, l'intreccio con i poteri di fuori.
Nel quotidiano, il pass magnetico per entrare e uscire, la polizia privata che in via Po non si era mai vista e che nel palazzo di via Colombo invece è la prima cosa che vedi.
Attorno a noi, intanto, si cominciava a vedere anche un'altra cosa, assai peggiore, cioè il piano inclinato della carta stampata, che iniziava a essere divorata dalla crisi strutturale che ben conoscete - allora non era così chiara a tutti, in verità, specie nella sua velocità. Comunque, servivano nuove strategie - questo era evidente - ma nessuno sapeva dove andarle a pescare.
Non so se è anche per questo che nel 2012 l'Ingegnere regalò il gruppo ai tre figli, tutto passava sempre sulle nostre teste. Ad ogni modo rimase alla presidenza, per un po', anche se noi non se ne aveva più notizia. Poi a un certo punto tutto andò in modo abbastanza rapido, tra ondate di prepensionamenti, voci di cassintegrazione, tagli di borderò ai collaboratori, insomma il senso di paura.
Uscito dal Corriere, il gruppo Fiat entrò con una quota di minoranza, portando in dote La Stampa. Era il 2016. L'anno dopo uno dei figli dell'Ingegnere, Marco, divenne presidente al posto del padre. Un giorno venne a trovarci in redazione, fu cortese nell'ascoltare il lavoro che facevamo, ma era palesemente disinteressato. Alle redazioni, ai giornali, all'editoria.
Nessuno conosceva le sue opinioni politiche, anche se tra noi si scherzava su quelle della moglie, del giro Santanché. Comunque, mai più visto né sentito. Si era in un limbo. Ma la direzione era abbastanza chiara e portava dritti a Torino, al gruppo privato più grosso d'Italia, insomma al cuore dell'establishment economico italiano, all'azienda che da sempre privatizzava i profitti e statalizzava le perdite, che quindi ci avrebbe comprato come merce di scambio con la politica e con il capitalismo di relazione italiano.
E così nel 2019 il “vascello pirata” era già diventato il tender di casa Agnelli.
Torino ho scritto, ma il nostro nuovo padrone tecnicamente era una finanziaria olandese, insomma la cassaforte all'estero per non pagare le tasse. Mica male per noi dell'Espresso, quelli delle battaglie civili.
Scalfari scrisse un editoriale in cui disse che andava tutto bene. Il “Fundador” è sempre stato molto bravo nel convincersi che è giusto ciò che gli conviene - e non gli conveniva far casino, a 95 anni poi. E comunque non poteva disconoscere il figlio anche se questo era diventato il contrario di quello che lui in età meno senile aveva voluto. Ma noi gli si voleva bene lo stesso, in fondo senza di lui non ci sarebbe stato niente di tutto quello di cui sto parlando.
I Fiat boys atterrarono da Torino alla Garbatella con le loro cravatte blu, il profumo di Penhalingon's e l'aria di quelli che “qui non capite un cazzo, ma adesso ci pensiamo noi”.
Come amministratore delegato Elkann mise uno dei suoi yesman, un Carneade dell'editoria ma fedelissimo al sistema di potere Exor.
Poco dopo la nomina, questo tizio convocò le direzioni dei giornali del gruppo nella sala riunioni all'ultimo piano, Elkann non c'era ma intervenne in audio. Non ricordo nemmeno che cazzate disse, ma era il solito aziendalese di maniera, le sfide del futuro, lo sbarco nel digitale e bla bla bla. Ricordo solo tutti questi direttori e vicedirettori - quorum ego, sì - in piedi ad ascoltare il padrone in religioso silenzio. Fantozzi non è stata un'invenzione, diciamolo.
Ah, a quell'imbarazzante cerimonia, a quel bacio della pantofola, non era presente Carlo Verdelli, il direttore di Repubblica, che pure era il più importante tra noi, per ruolo.
Eccellente giornalista e uomo di sinistra, Verdelli era stato chiamato un anno prima dai De Benedetti che sulla direzione di Repubblica avevano già fatto un bel po' di pasticci. Esonerato Ezio Mauro poco prima che superasse Scalfari per anni di direzione - cosa che gli diede un bel po' di fastidio - gli azionisti avevano chiamato in via Colombo Mario Calabresi, proprio dalla Stampa.
Pieno di idee innovative e digitali sul futuro ma assai poco presente in redazione e sull'oggi, Calabresi aveva quindi peggiorato l'emorragia di copie già rotolante per conto proprio. Sicché i De Benedetti a un certo punto pensarono di affiancargli un pazzo creativo che poi era il mio direttore all'Espresso, Tommaso Cerno, a cui non difettavano né le ambizioni né l'intelligenza.
Ma Cerno era convinto di andare lì a comandare, insomma a fare le scarpe a Calabresi, il quale evidentemente non era d'accordo, quindi venne fuori un casino al termine del quale, tre mesi dopo, un bel mattino Cerno lasciò il suo cappotto firmato sulla poltrona di condirettore per scappare in garage da un ascensore laterale e diventare senatore renziano. Oh: non è un'iperbole, il dettaglio sul cappotto abbandonato dalla fretta di andarsene, qualche collega lo fotografò e fece girare l'immagine, tra le nostre risate alla solita macchinetta del caffè.
Comunque, dicevo, fatto il pasticcio Calabresi e poi quello Cerno, a un certo punto i De Benedetti decisero di tagliare la testa al toro chiamando Carlo Verdelli, curriculum straordinario e grande artigiano dei giornali. Però, appunto, era anche uomo di sinistra, e quindi la prima cosa che fecero gli Agnelli appena arrivati fu cacciarlo. Lo fecero nel giorno in cui doveva morire, secondo le minacce che aveva ricevuto dall'estrema destra. Con l'eleganza del padrone senza peli sullo stomaco, lo stile Fiat.
A Repubblica arrivò Maurizio Molinari. Non devo dirlo io, chi sia: lo vedete da soli, se ancora comprate Repubblica. Non mi va nemmeno di raccontare troppo nel dettaglio l'imbarazzo - la vergogna - che provavo nel vedere come stava trasformando un giornale che un tempo era stato aperto a una sinistra plurale e libertina: ogni giorno di più ridotto a megafono del potere economico, con sbandate continue verso le peggiori destre americane e israeliane. E poi: le censure a Bernardo Valli (a Bernardo Valli!), le firme dei neocon e degli ex ministri di Berlusconi, il misto continuo tra cialtroneria e fake news, giù giù fino alle liste di proscrizione di Riotta.
Il tutto nel perdonabile silenzio della redazione, perché quando uno tsunami devasta il tuo settore di mercato i rapporti di forza sono tutti sbilanciati dalla parte del padrone, ognuno è terrorizzato dai suoi destini personali, non è il momento delle battaglie collettive, se siamo in troppi per favore licenziate il mio vicino di scrivania e non me.
Ma a quel punto, per fortuna, me ne stavo già andando. Solo fortuna, nessuno è eroe e abbiamo tutti bisogno di uno stipendio per i figli.
Ogni tanto l'ho sentito, il mio ex direttore all'Espresso, Marco Damilano, in questi mesi. Poche cose e nulla che meriti di essere reso pubblico. È un uomo con la schiena diritta, il suo editoriale di saluto - straordinario - è sul sito dell'Espresso. Cita Aldo Moro, a un certo punto: «Questi giorni hanno dimostrato come sia facile chiudere il mercato delle opinioni. Non solo non troverai opinioni, ma neppure notizie».
Questo è il motivo per cui me ne sono andato, in effetti. Lui invece, quando ero ancora lì, mi diceva che dovevamo provarci: «Perfino Berlusconi, nel mangiarsi la Rai, lasciò il Tg3 alla sinistra», mi diceva. E voleva spiegare ai nuovi padroni che anche a loro conveniva avere una voce dissenziente, anche a loro conveniva coprire un'area di mercato diversa da quella dell'ammiraglia.
“Resistiamo”, mi rispondeva su WhatsApp quando, ormai lontano da Roma, gli chiedevo come andassero le cose. E finché ha potuto lo ha fatto. Ma gli Agnelli si sono dimostrati meno tolleranti o meno furbi di Berlusconi. Oggi anche lui ha smesso di resistere.
Dell'Espresso ora vorrei che restasse almeno il ricordo di un giornale che ha aiutato a emancipare l'Italia. Di un giornale che ha combattuto grandi battaglie civili e sociali per spingere il Paese un po' più in là - e che lo ha fatto finché gli hanno permesso di farlo.
Mauro Della Corte per stylo24.it il 9 marzo 2022.
Sembra non aver più limiti la carriera di Danilo Iervolino da Palma Campania. Il 44enne imprenditore napoletano, dopo l’università telematica Pegaso, venduta a un fondo americano per circa 1 miliardo di euro, sembra aver spiegato le vele e acquisita la squadra di calcio della Salernitana, che si è rivelata un’abile operazione di marketing (almeno per il momento), sembra aver ormai in tasca la proprietà dello storico settimanale «L’Espresso» fondato negli anni ‘50 da Arrigo Benedetti.
Non un giornale qualsiasi ma una testata con un suo peso specifico nel panorama giornalistico e politico italiano, punto di riferimento culturale e anche ideologico della sinistra cara ad Eugenio Scalfari.
In realtà, anche se lui continua a smentire, già in passato ha provato a entrare nel mondo dell’informazione testando se ci fossero le condizioni per compare «il Mattino», il più importante quotidiano del Sud Italia, come riportato proprio da Stylo24.
I rapporti con i partiti politici
In un’intervista concessa al Fatto Quotidiano non ha nascosto la sua volontà di vedersi protagonista pure nell’agone politico. «La misura della mia passione civica è integra e andrà messa alla prova. Politico ma non partitico» ha affermato al giornale diretto da Marco Travaglio.
Tra le righe si può intuire anche lo schieramento che l’imprenditore palmese vorrà occupare. Iervolino ha chiarito di aver intrattenuto rapporti con Forza Italia ma anche con il Partito Democratico. Rapporti che non significano avere una tessera di partito tant’è che l’imprenditore subito corre a specificare di voler volgere «lo sguardo ovunque».
Chi lo conosce assicura che il vulcanico presidente della Pegaso è intenzionato a fondare un suo partito, che si rivolga al centro senza legami con alcuno degli attuali schieramenti.
«D’altronde», spiega una fonte romana vicina al neo editore dell’Espresso, «non ha mai nascosto la sua simpatia verso Renzi, ad oggi il candidato più autorevole per la creazione di una area moderata».
Consigliere regionale o deputato? Troppo poco
Come prototipo – spiega sempre il nostro interlocutore – «ha sempre avuto Silvio Berlusconi e forse, in qualche modo, anche se in piccolo, mira a seguirne le orme ma senza schierarsi a destra o a sinistra».
«È sicuramente una persona molto ambiziosa e ha sempre detto di non volersi candidare come consigliere regionale o deputato ma che puntava più in alto», confida invece un amico napoletano, sentito – dietro promessa di anonimato – dal nostro giornale.
Mire ambiziose che potrebbero concretizzarsi nel momento storico in cui si trova, con ingenti fondi derivati dalla vendita della Pegaso al fondo americano (circa 300 milioni di euro, si vocifera), con la notorietà scaturita dall’acquisto della Salernitana e dell’Espresso.
Ma dove può arrivare un partito centrista a guida Iervolino? «Non si può dire ancora», conclude la nostra fonte romana. «Al momento sembra non avere un grosso appeal sull’elettorato ma tra gli “ambienti che contano” è molto conosciuto». Basterà questo?
Dagonews il 7 marzo 2022.
Danilo Iervolino ha comprato a Capri una delle ville più belle denominata Villa Bismarck che apparteneva a Tonino Perna ex titolare della Ittierre, società che produceva marchi come D&G, Malo, etc. Valore dell’operazione 18 milioni di euro.
La storica dimora di oltre 1600 metri quadri, a pochi metri dal famoso ristorante Paolino detto anche la Limonaia, gode di una magnifica veduta sul golfo di Napoli, conta nove camere, dieci bagni, un giardino di 10mila metri quadri, con discesa a mare privata
Da napolitoday.it il 7 marzo 2022.
Italy Sotheby’s International Realty, tra le più importanti società di intermediazione immobiliare di lusso, propone in vendita la celebre Villa Bismarck a Capri, in via Palazzo a Mare. Costruita durante la seconda metà del 18° secolo, sulle rovine di un imponente palazzo Romano, abitata da artisti di diversa forgia, pittori, musicisti, compositori, la sontuosa Villa Bismarck, prende il nome dalla sua più celebre proprietaria, la Contessa Mona Strader Bismarck.
La villa, tra le più belle al mondo, gode di una posizione privilegiata sull'isola di Capri. Sin dall'ingresso nel curatissimo giardino la vista si appaga grazie ad un susseguirsi incalzante di coste e panorami mozzafiato che partono dal vicino porto di Marina Grande fino a raggiungere il Vesuvio, la baia di Napoli e la straordinaria penisola Sorrentina. Alle spalle il Monte Solaro ed Anacapri rendono ulteriore suggestione alla straordinaria dimora.
La villa conta 9 camere e 10 bagni, lo spazio esterno è di 10mila metri quadri. Il lussureggiante giardino ricco di una grande varietà di piante mediterranee si estende fino al mare su vari terrazzamenti, il primo molto ampio, panoramicissimo circonda la villa, il secondo contiene una comoda piscina con area solarium e attraverso 150 gradini si arriva al mare. L'accesso privato al mare, dotato di ogni comfort dispone anche di un attracco privato e di una piscina idromassaggio incastonata tra le rocce ed adagiata sullo straordinario mare caprese.
La villa domina imponente l'area circostante, un ampio e maestoso salone, ed una panoramicissima sala da pranzo con soffitto a cupola di oltre sei metri, conferiscono importanza alla sontuosa zona di alta rappresentanza. L'incantevole biblioteca circolare ed il salotto adiacente sembrano rievocare la storicità della villa. La zona notte, è divisa su più livelli, al primo sussistono cinque camere matrimoniali con bagni en-suite.
Al secondo piano con accessi indipendenti vi sono altre tre camere con bagno tra cui l'ampia suite principale con due grandi vetrate panoramiche sul porto e sul mare e con bagno en-suite interamente realizzato in marmo prezioso. Al terzo piano un ulteriore suite con salottino gode dell'incredibile vista del Monte Solaro. Un corpo esterno contiene tutta la zona di servizio. La villa in vendita per 24 milioni di euro.
Iervolino ha preso l’Espresso dopo la Salernitana. Chi è il mister miliardo. Fabrizio Massaro su Il Corriere della Sera il 7Marzo 2022.
A quasi 44 anni, Danilo Iervolino ha già fatto l’affare della vita: la vendita dell’università telematica Unipegaso al fondo d’investimento Cvc. Un’operazione stimata un miliardo di euro, anche se non ci sono conferme ufficiali: insomma, una valorizzazione da «unicorno» — così si chiamano le startup che in Borsa arrivano a valere quella cifra — anche se a Piazza Affari il suo ateneo (e l’altro gemello, Mercatorum), non ci è mai entrato. Adesso Iervolino punta una parte della sua ricchezza sui media, dopo essere sbarcato nel calcio rilevando la Salernitana. Da poco ha rilevato la maggioranza del gruppo quotato Bfc Media, società che edita riviste finanziarie e specializzate come Forbes Italia, Bluerating, Private, Forbes Italia, Asset Class e Cosmo, per 6 milioni di euro. Presto lancerà l’opa obbligatoria. Ora ha puntato al bersaglio grosso: L’Espresso, lo storico settimanale fondato da Arrigo Benedetti ed Eugenio Scalfari nel 1955.
L’acquisto de L’Espresso dagli Agnelli
A vendere il settimanale è il gruppo Gedi controllato dalla Exor della famiglia Agneli-Elkann (che una volta era il Gruppo editoriale L’Espresso, venduto a Elkann dai figli di Carlo De Benedetti). L’operazione, si legge in una nota, verrà condotta dalla neocostituita società L’Espresso Media, partecipata al 51% da BFC Media Spa, ed al 49% da Idi srl a socio unico, ovvero il veicolo di Danilo Iervolino. «L’accordo prevede varie forme di collaborazione — spiega la nota sull’operazione — tra cui la prosecuzione dell’abbinamento del settimanale L’Espresso all’edizione domenicale del quotidiano La Repubblica, la promozione congiunta delle iniziative editoriali, dei servizi di distribuzione nelle edicole e di gestione degli abbonamenti». La decisione del gruppo presieduto da John Elkann e guidato da Maurizio Scanavino di vendere ha portato alle dimissioni del direttore del settimanale, Marco Damilano (sostituito da Lirio Abbate) e allo sciopero dei giornalisti, fra l’altro perché — scrive il comitato di redazione del settimanale — passa a un gruppo editoriale «che finora si è concentrato su altri settori dell’informazione» e «di cui al momento non è dato sapere che tipo di obiettivi si pone per il giornale». Anche i giornalisti di Repubblica hanno proclamato lo sciopero per martedì 8 marzo.
Ma chi è Danilo Iervolino?
Il ritratto di Iervolino
La storia di Iervolino parte da Palma Campania (Napoli), paese di origine dei genitori. Il padre è il fondatore delle scuole paritarie «Iervolino», diffusissime a Napoli e in Campania. Nato il 2 aprile 1978, laureato in Economia e Commercio all’università Parthenope di Napoli con una tesi sul franchising, Danilo Iervolino racconta nel suo libro «Now» di come la tesi sia stata un momento di svolta nel suo percorso: «Un docente dell’università di Salerno, che collaborava con mio padre, la lesse e ne rimase colpito. Mi presentò ai responsabili del corso di laurea in Scienze della Formazione del suo ateneo e così cominciai ad approfondire il tema della formazione a distanza nei suoi corsi». Da lì inizia a ragionare sulle università telematiche e su come aprirle in Italia. In un’intervista a Panorama ha raccontato che l’ha maturata a 28 anni, durante un viaggio negli Stati Uniti: «Osservavo realtà come la Columbia, la Fordham University, l’Ucla e altre ancora. Atenei capaci di diventare veri e propri brand del sapere perché, invece di sedersi sulla loro fama e sui loro fatturati, iniziavano a investire sul web come leva per moltiplicare iscritti, competenze e opportunità».
La fortuna con le università telematiche
Nel 2003 il decreto «Moratti-Stanca» aveva istituito le università telematiche. L’Università telematica Pegaso, con sede legale a Napoli, nasce nel 2006. L’inizio è difficile, «avevo sottovalutato il fatto che l’Italia non era pronta», racconterà in seguito Iervolino. Ma a poco a poco il settore prende piede: oggi ha oltre 100mila studenti, che tengono gli esami online, e 92 sedi in Italia per le sedute di laurea. Quindici anni dopo, la cessione. A settembre vende al fondo Cvc metà delle azioni della holding Multiversity, a cui fanno capo le università telematiche Pegaso e Mercatorum (della quale resta presidente) affidate ora a Fabio Vaccarono, ex numero uno in Italia di Google. Due anni prima, Iervolino aveva ceduto il primo 50%, sempre a Cvc.
Lo sbarco nel calcio e l’acquisto della Salernitana
A fine 2021 anche entra nel mondo del calcio rilevando la Salernitana, per la prima volta in Serie A, il 31 dicembre scorso, per 10 milioni di euro. Appena in tempo per evitare l’esclusione dal massimo campionato. Ma non sono finite le mire di Iervolino: guarderebbe anche ad altri settori di espansione, come la sanità — ha provato a rilevare il Policlinico Gemelli di Campobasso — e la cybersecurity.
Stefano Marrone per true-news.it il 10 marzo 2022.
“Mi sono battuto in ogni modo, fino all’ultimo giorno, all’ultima ora”. Con queste parole, “dopo mesi di stillicidio sulla vendita” e in aperta polemica con la decisone dell’editore – il gruppo GEDI, della famiglia Agnelli – Marco Damilano ha deciso di dimettersi da direttore de L’Espresso.
Sul “mestiere” e sulla “coscienza” da lui citati nella lettera di congedo ai lettori c’è poco da discutere. Qualcosina invece sulla strategia adottata nel dirigere la rivista, forse si può eccepire.
Anche Propaganda Live, la trasmissione di La7 di cui è ideatore e ospite fisso ogni venerdì aveva iniziato a fare ironia sull’esorbitante numero di ospitate televisive del direttore.
Il video è scherzoso, ma tocca una questione che potrebbe avere pesato sulle recenti vicende de L’Espresso: quando il direttore va perennemente in tv, il giornale ne risente. In questi mesi di palinsesti da riempire causa pandemia, Quirinale – sul tema Damilano ha fatto un libro e un podcast – e infine guerra in Ucraina, il direttore si è prodigato. Forse a spese della rivista che dirige dal 2017.
Nel mandato quinquennale di Damilano i dati di vendita de L’Espresso sono impietosi: al suo arrivo, dopo un biennio di crescita (203mila copie vendute nel 2016 e 269mila nel 2017), la rivista ha iniziato a ridurre le copie vendute, fino a scendere sotto le 175mila copie vendute – con crollo ulteriormente aggravato negli ultimi mesi del 2021, secondo Informa.
Il nesso causa effetto è da dimostrare, ma l’importanza del “fattore opinionista” sull’efficacia di una direzione per una rivista o un giornale, può essere corroborata dal dato che L’Espresso ha raggiunto l’apice delle vendite nel 2007, sotto la direzione di Daniela Hamaui, un’autentica Carneade delle ospitate tv.
Compagni di sventura
La deriva “opinionistica” della direzione di una testata ha sconvolto il percorso di due ex compagni di redazione di Damilano: Concita De Gregorio e Piero Sansonetti, anche loro provenienti da L’Unità.
Sansonetti è poi approdato a Liberazione, di cui è stato direttore per cinque anni fino all’allontanamento nel 2009. Incurante dei un deficit di oltre tre milioni e mezzo di euro accumulato dal giornale, Sansonetti è stato a più riprese ospite di varie trasmissioni televisive: Porta a Porta e soprattutto i vari programmi Mediaset di Giordano e Del Debbio, dove continua ad apparire, in qualità di direttore de Il riformista.
Delle ultime turbolente vicende del giornale fondato da Gramsci è stata protagonista Concita De Gregorio, direttrice dal 2008 al 2011.
La sua direzione a L’Unità si conclude tra le polemiche sui dati di vendita del giornale: calato da 60mila a 35mila copie vendute. Per l’ex direttrice inizia un difficile periodo di controversie legali, dovute al fallimento della società editrice, che non ha però inficiato – anzi – sulle sue comparse televisive: da Ballarò a Rai3.
Anche i grandi piangono
Il sito di Palazzo Chigi ha calcolato un finanziamento pubblico dal 2013 superiore ai 60 milioni di euro per Unità, con un ammontare annuo superiore ai 5 milioni.
Al posto della morente Unità, il partito democratico ha dato vita alla rivista Democratica, sotto la direzione del deputato dem Andrea Romano. L’avventura editoriale non ha certo contribuito a ridurre il dissesto economico ed è durata poco più di un anno – fino al 2020. Nonostante ciò, Romano si è speso in partecipazioni televisive a reti diversificate. Una situazione rivista in piccolo – per tiratura del giornale e per numero di apparizioni – con il Manifesto.
Lo storico giornale comunista, fondato nel 1969 come rivista e due anni dopo come quotidiano, ha conosciuto una profonda crisi, culminata con la liquidazione coatta del 2012. Direttrice a quei tempi era già Norma Rangeri, la più televisiva delle direttrici del quotidiano, anche grazie alla sua formazione da critica – è autrice di Chi l’ha vista? Tutto il peggio della tv da Berlusconi a Prodi, uscito nel 2007; opera di notevole spessore bibliografico, ma che ben poco ha avvantaggiato il giornale diretto da Rangeri.
“Sono ancora sotto choc, è un pugno nello stomaco – ha detto -. Mi mandano via, senza un perché…” così Mario Calabresi commentava il suo allontanamento da Repubblica nel 2019, dopo tre anni di direzione. Di perché, in realtà, se ne potrebbero trovare: su tutti la costante emorragia nelle vendite del quotidiano che negli anni ha perduto il primato – in realtà sempre contestato – di più venduto e più autorevole. All’inarrestabile crollo di Repubblica potrebbe aver contribuito il “presenzialismo” – non redazionale – di Calabresi: convegni, eventi, presentazioni e festival. Oltre, ovviamente, all’immancabile televisione: Formigli, Mentana, Porro, Giordano, Gruber e Vespa hanno sempre potuto contare sul direttore, ospite fisso.
Se la sinistra piange, la destra non ride
L’effetto opinionista ha colpito anche quotidiani e riviste di destra e centrodestra. Non sembra essere un caso che la crisi del Secolo d’Italia, culminata con il passaggio dal cartaceo all’online nel 2012, sia coincisa con la direzione di Flavia Perina: la più multitasking dei direttori del quotidiano organo prima del Msi e poi di An. Politica (per due legislature), scrittrice (anche di romanzi) e ovviamente opinionista televisiva. Perina è stata una presenza costante negli studi Rai e di La7 negli anni del suo mandato, conclusosi a fine 2011.
Lodo Mondadori, riassetto di Mediaset e declino del Cavaliere, ma dietro la clamorosa cessione di Panorama nel 2018 ha inciso anche la picchiata delle vendite della rivista fondata nel 1962, e dal 2009 diretta per quasi un decennio dall’attuale sottosegretario alla Difesa del governo Draghi, Giorgio Mulé: un habitué dei salotti televisivi, su tutti quello di Bruno Vespa.
Il nuovo proprietario e direttore di Panorama, Maurizio Belpietro, potrebbe rappresentare la prova del nove dell’effetto opinionista. Potrebbe non essere un caso che la drastica riduzione delle sue comparsate televisive – complice anche il recente ostracismo delle reti Mediaset, di cui è stato conduttore oltre che opinionista – sia coinciso con il momento positivo delle testate del gruppo che porta il suo nome. Su tutte La Verità, che ha da poco completato il sorpasso delle copie vendute sugli altri e più storici quotidiani dell’area del centrodestra: a dicembre 34mile copie, contro le 33mila de Il Giornale, diretto da Augusto Minzolini, e le 20mila di Libero di Vittorio Feltri e Alessandro Sallusti – tre direttori che al contrario non si sono certo risparmiati quanto a presenze in tv.
Con l'indebolimento de L'Espresso in Italia democrazia più fragile: il veleno di Marco Damilano a Propaganda Live. Il Tempo il 04 marzo 2022.
“Da oggi non sono più il direttore de L’Espresso, mi sono dimesso” Così Marco Damilano, ospite della puntata di venerdì 4 marzo di Propaganda Live su La7. Dal salotto di Diego Bianchi, Damilano confida ai telespettatori le ragioni che l’hanno portato a dimettersi dal prestigioso incarico nel settimanale: “Mi sono dimesso per difendere il settimanale in cui ho lavorato per 21 anni, perché penso che L'Espresso non sia solo un pezzo di storia del giornalismo ma sia anche un pezzo di storia del nostro Paese. E se tu indebolisci un giornale, rendi più fragile la democrazia” spiega il giornalista. “Se per dirlo bisogna fare un gesto, io questo gesto l'ho fatto” conclude, a suon di applausi.
Lirio Abbate sostituisce Marco Damilano alla direzione dell'Espresso. Il Tempo il 04 marzo 2022.
Sarà il giornalista Lirio Abbatte a prendere il posto di Marco Damilano alla direzione dell'Espresso. Damilano oggi stesso aveva annunciato le sue dimissioni in un lungo editoriale sull'edizione online del settimanale, motivando il gesto come atto di rottura nei confronti della proprietà che sarebbe ormai in procinto di vendere la storica testata al gruppo che fa capo all'imprenditore Danilo Iervolino, patron dell'università on line Pegaso e recentemente anche della Salernitana Calcio.
Lirio Abbate era già vicedirettore dell'Espresso e dovrebbe ricoprire la carica pro-tempore in attesa delle decisioni del nuovo editore. Nel frattempo la redazione ha annunciato uno stato d'agitazione e ha condiviso la posizione di Damilano.
Marco Giusti per Dagospia il 5 marzo 2022.
Ieri, per disperazione, mi sono visto tre puntate di “Inventing Anna”, la serie del momento. Funziona solo quando entriamo più dentro alla storia e si configura il personaggio di Anna, misteriosa russa che si costruisce una personalità da socialite finto miliardaria psicopatica che sa riconoscere però un Cindy Sherman. Serie bizzarra e snob quanto basta (di questi tempi).
Ma la giornalista che deve fare lo scoop della sua vita insieme a tutti i suoi amici vecchi giornalisti che sembrano i fantasmi dell’Espresso che fu è quasi insopportabile. Certo quando un direttore ti dice: hai tre settimane per scrivere l’articolo, anche io mi ricordo che ci fu un tempo che gli articoli non si facevano come si fanno oggi, scritti-e-pisciati senza pensare, diciamo. In tutto questo Marco Damilano lascia un Espresso da anni abbandonato a se stesso e nessuno, ovviamente, che gli dica Torna a bordo, cazzo! Non tutti sono Zelensky, si sa.
E non tutti i direttori dell’Espresso sono stati all’altezza della situazione. Ma ricordo che scrivere sull’Espresso, negli anni ’80, era la massima aspirazione per un giornalista. “Sto come un topo nel formaggio” mi diceva Giovanni Buttafava quando venne assunto più di quarant’anni fa. Oggi il formaggio si è spostato tutto nei talk della 7 di Cairo, mi sa. Curiosamente, i ricchi di “Inventing Anna” leggono “Forbes”, la testata che si dovrebbe comprare L’espresso. Brutto segno.
Abbate nuovo direttore de L’Espresso "Ho accettato per i lettori e i colleghi”. “Mai avrei pensato che tutto ciò accadesse in queste condizioni, ma occorreva dare continuità al lavoro svolto da Damilano”. Lirio Abbate su L'Espresso il 6 marzo 2022.
È per una scelta di responsabilità che ho accettato l’incarico di direttore de L’Espresso. Per senso del dovere e di rispetto nei confronti del gruppo di lavoro di cui mi onoro di fare parte da tredici anni.
Mai avrei pensato che tutto ciò avvenisse in queste condizioni, dopo le dimissioni del mio amico Marco Damilano che ringrazio per tutto quello che ha fatto in questi anni di direzione. Occorreva adesso dare seguito e continuità al lavoro svolto fino ad ora. Per rispetto alla redazione, ai poligrafici e ai collaboratori. Ma soprattutto ai lettori.
Prendo il timone di una nave che si muove in un mare in tempesta, ma non è nel mio dna sottrarmi davanti alle sfide e alle situazioni difficili e non lo farò nemmeno questa volta.
L’Espresso si è sempre caratterizzato per le inchieste, che lasciano il segno, disturbano i potenti, ledono interessi consolidati. È il connotato tipico di questo giornale con le sue rivelazioni taglienti, intese come assolvimento d’un compito civile. E questo voglio continuare a fare.
Puntando sulla difesa di chi è più debole, proseguendo la battaglia sui diritti, e contro la corruzione e il malaffare. Perché “la stampa serve chi è governato e non chi governa”. L’obiettivo è quindi di conservare e rafforzare la dignità originaria de L’Espresso.
Giampiero Mughini per Dagospia l'8 marzo 2022.
Caro Dago, beninteso dopo avere espresso la mia più fraterna solidarietà a Marco Damilano, l’ex direttore dell’ “Espresso” che si è dimesso perché contrario alla vendita del settimanale a un imprenditore privato (di cui non sappiamo che identità gli darà), vorrei dire due o tre cose sul come sono morti editorialmente i settimanali d’attualità che per lungo tempo erano stati centrali nel panorama dell’informazione italiana.
Ne parlo con cognizione di causa, dato che ho lavorato poco meno di trent’anni in due di quei settimanali, “L’Europeo” e “Panorama”, e per giunta la buona parte del tempo sotto la direzione di Claudio Rinaldi, il più grande direttore della mia generazione, quello che di certo avrebbe sostituito Eugenio Scalfari alla guida della “Repubblica” non fosse quell’atroce malattia che lo stroncò quando era ancora nel pieno delle sue forze e del suo destino.
Più ancora di questo, sono stato un italiano di quelli - sessant’anni fa - che era un giorno della settimana diverso da tutti gli altri quello in cui prendevamo in mano “L’Espresso” nel formato gigante. Ogni numero di quel giornale, e successivamente “L’Espresso” nel formato piccolo e il ”Panorama” diretto prima da Lamberto Sechi e poi da Rinaldi, facevano di noi lettori un essere diverso, uno che ne sapeva di più, uno che ne capiva di più, che connetteva meglio e più a fondo le cose della cronaca della politica della cultura che gli stavano tutt’attorno.
Fu una bella giornata della mia vita quella dell’autunno 1987 nella cui mattinata mi telefonò Rinaldi a dirmi che mi avrebbe assunto a “Panorama” che in quel momento vendeva 600mila copie contro le 420mila copie dell’ “Espresso”, cifre entrambe da urlo. Alla Mondadori ante-Berlusconi dicevano di “Panorama” che fosse “la gallina d’oro”, 600mila copie vendute ogni settimana al pubblico migliore che ci fosse in Italia, quello che ci teneva ad essere aggiornato sulle cose del mondo e che aveva dei bei soldoni da spendere nel comprare le merci offerte sulle pagine pubblicitarie del settimanale.
Copie vendute. Pagine pubblicitarie che erano meglio dell’oro. Influenza morale e culturale sul migliore comparto della società. Che ne è restato di tutto questo quaranta o cinquant’anni dopo? Niente di niente di niente. “Panorama” è stato regalato dalla Mondadori al bravissimo Maurizio Belpietro che mi pare riesca a venderne 20-25mila copie, “L’Espresso” è accluso la domenica al quotidiano “Repubblica” e io stesso confesso che ne leggevo un articolo al mese e non perché fossero dei cattivi articoli (non lo erano affatto) ma perché sono cambiati i tempi e i meccanismi dell’informazione.
Beccheggiano i quotidiani, figuriamoci i settimanali. Quando ero a “Panorama”, facevamo la riunione di redazione al lunedì mattina, entro martedì venivano assegnati i pezzi per il numero successivo, al massimo li consegnavamo al giovedì pomeriggio, il sabato mattina il settimanale era in edicola.
Adesso viviamo un tempo in cui le notizie/commenti che appaiono su Dagospia alle dieci del mattino sono invecchiati e fuori uso alle prime ore del pomeriggio, e laddove i quotidiani si sono “settimanalizzati” nel senso che fanno il lavoro che un tempo facevano i settimanali, e questo dopo le cure che avevano fatto ai quotidiani prima Eugenio Scalfari e poi Paolo Mieli, per dire di due figli della storia dell’ “Espresso”.
Quanto a copie vendute non se ne parta nemmeno, striminzitissimo il mercato dei quotidiani di carta, nullo il mercato dei settimanali. Nullo. Nullo. E non c’è altro da aggiungere. Se non da augurare fraternamente ai colleghi che ci lavorano ancora di conservare il proprio stipendio. Altro da dire purtroppo non c’è.
L’Espresso, il direttore lascia. «Questione di dignità». Fabrizio Caccia su Il Corriere della Sera il 4 Marzo 2022.
Addio di Damilano dopo le voci di vendita della testata da parte del gruppo Gedi a Bfc Media di Danilo Iervolino (fresco patron della Salernitana calcio).
Marco Damilano, 53 anni, romano, ha lasciato ieri la guida dello storico settimanale L’Espresso (andò in edicola per la prima volta il 2 ottobre 1955) e la redazione, entrata in stato di agitazione, ha annunciato la proclamazione delle «giornate di sciopero necessarie per impedire l’uscita del numero in lavorazione». «Non è una buona notizia — twitta il ministro del Lavoro, Andrea Orlando —. Le ragioni di questa scelta devono far riflettere sull’assetto dell’editoria italiana e sul futuro dell’informazione. La democrazia si nutre anche di questo».
È stato lo stesso direttore, ieri, in un lungo editoriale pubblicato sul sito del settimanale fondato da Eugenio Scalfari e Arrigo Benedetti, a spiegare le ragioni delle dimissioni. Una decisione presa dopo le voci di vendita della testata da parte del gruppo Gedi a Bfc Media di Danilo Iervolino (fresco patron della Salernitana calcio). Un editoriale amaro, quello di Damilano: «Questa mattina ho scritto una mail all’ingegnere John Elkann, presidente del gruppo Gedi, per comunicare la mia decisione di lasciare la direzione dopo 4 anni e mezzo. Non è una questione privata. Ho cercato sempre di fermare una decisione che ritengo scellerata. Mi sono battuto in ogni modo, fino all’ultimo giorno, all’ultima ora. Ma quando il tempo è scaduto e lo spettacolo si è fatto insostenibile, c’è bisogno che qualcuno faccia un gesto, pagando anche in prima persona. Lo faccio io».
Gli era sta offerta la possibilità di restare, ma Damilano pur ringraziando ha tirato dritto: «L’Espresso è sempre stato la mia casa. Ma se la casa viene cambiata, dall’arredamento alle suppellettili, fino a venderla, non resta altro da fare che prenderne atto. É una questione di dignità». Al suo posto ieri Gedi ha nominato direttore Lirio Abbate, 51 anni, siciliano di Castelbuono, già vice di Damilano. E di fronte alle richieste del Comitato di redazione, l’ad Maurizio Scanavino ha risposto che l’azienda non ha ricevuto «alcuna proposta formalizzata» di acquisto.
Nel suo duro pezzo di commiato, Damilano racconta però di aver appreso della decisione della Gedi di vendere «da un tweet di un giornalista, mercoledì pomeriggio» e di aver «chiesto immediati chiarimenti all’ad come ho sempre fatto in questi mesi. Mesi di stillicidio continuo». Il Cdr ieri ha espresso «solidarietà» al direttore: «Recidere L’Espresso, la radice da cui è nato il gruppo, mette a rischio la tenuta di tutta l’azienda — avverte il sindacato interno dei giornalisti —. Siamo consapevoli dello stato di difficoltà in cui versa il giornalismo, ma Gedi è nel cuore di questa crisi, come dimostrano i numerosi avvicendamenti al suo vertice e alla guida delle sue principali testate. Un’assenza di strategia che ora si vuole far pagare all’Espresso».
«Giù il cappello e buon vento per il futuro», il tweet affettuoso rivolto a Damilano dal segretario del Pd, Enrico Letta. «Non possiamo vedere il giornalismo spegnersi», avverte Carlo Calenda di Azione. «Siamo preoccupati per le sorti de L’Espresso», afferma Marco Di Maio, vicepresidente di Italia viva alla Camera. E preoccupato si dice pure il leader di Sinistra italiana, Nicola Fratoianni: «Continua l’opera di dissoluzione del gruppo Repubblica/L’Espresso che ha segnato decenni di battaglie civili e politiche del nostro Paese. Una nuova brutta pagina per il pluralismo e la qualità dell’informazione».
Marco Damilano per espresso.repubblica.it il 4 marzo 2022.
Questa mattina ho scritto una mail all’ingegnere John Elkann, presidente del gruppo Gedi, per comunicare la mia decisione di lasciare la direzione dell’Espresso, dopo quattro anni e mezzo. Sento in questo momento di dover dare qualche spiegazione ai lettori, che per un giornalista sono i veri padroni. Per un debito di gratitudine nei vostri confronti, per senso di responsabilità, per un dovere di verità.
Lascio la direzione del settimanale dopo quasi quattro anni e mezzo di direzione e esattamente dopo ventidue anni di servizio prestato nella testata più importante del giornalismo italiano, un mito per chi fa il nostro mestiere. Fui assunto, infatti, il primo marzo 2001. Entrai con emozione nella mia stanza, nella vecchia sede di via Po, la palazzina liberty affacciata su villa Borghese, con il parquet ai pavimenti, nelle stanze si fumava e si rideva, c’erano Guido Quaranta, Edmondo Berselli e il mio adorato Giampaolo Pansa. Il direttore era Giulio Anselmi, dopo Claudio Rinaldi. Uno squadrone, la redazione più forte d'Italia, in un Paese dominato da Silvio Berlusconi che di noi aveva paura.
Per arrivare alla mia stanza, ogni mattina, percorrevo un lungo corridoio al secondo piano dove quasi sempre incontravo una figura alta e magra, Carlo Caracciolo, il principe-editore. A volte lo incrociavo che si faceva il caffè nella piccola cucina di servizio, altre volte con il cane. Era lì con noi, in mezzo ai giornalisti e al giornale che aveva fondato e che amava più di ogni altra cosa. L'Espresso.
Tutto era partito da lì, in effetti: via Po 12, quattro stanze, più una toilette e un altro stanzino, nel 1955. «Eravamo agitati, emozionati, felici, impauriti allo stesso tempo. Sembrava di partecipare al varo d'una nave, della quale nessuno conosceva con esattezza forma, dimensioni e strutture», ha scritto Eugenio Scalfari che con Caracciolo partecipò alla fondazione. Omaggiando, dieci anni dopo, il pubblico «giovane, moderno, privo di tribù ma anche privo di cinismo, pessimista forse sul presente ma profondamente fiducioso nell'avvenire del Paese».
Da quella nave Espresso è partita una flotta di modernità, di progresso, di costruzione della democrazia italiana: prima con la nascita di Repubblica, nel 1976, poi con la rete dei giornali locali, infine con il gruppo Gedi, dopo la fusione con la Stampa. L'Espresso ha segnato la storia del giornalismo italiano. I diritti civili, le grandi inchieste, la lotta contro le mafie, le massonerie e tutti i poteri occulti, la laicità dello Stato, l'ambiente, la tenuta della democrazia italiana. Siamo sempre stati schierati, a volte sbagliando, ma mai venendo meno al nostro codice genetico.
Sono le stesse battaglie che abbiamo portato avanti in questi quattro anni e mezzo. L'Espresso ha raccontato l'Italia che cambia, con l'inizio della nuova legislatura, nel 2018, il governo dei sovranisti e dei populisti e poi l'incubo della pandemia, dal 2020. Abbiamo dato voce a un pezzo di Italia, l'Italia migliore, come scrissi nel mio editoriale di presentazione nel 2017: le donne, i giovani, gli stranieri migranti, i territori. Abbiamo combattuto con intransigenza contro chi voleva chiudere e isolare il nostro Paese.
Abbiamo rivelato, con inchieste che hanno fatto il giro dei media mondiali, i legami tra la Lega di Matteo Salvini e il regime di Vladimir Putin, abbiamo anticipato il processo in Vaticano nei confronti di un cardinale costretto a dimettersi. Abbiamo tenuto fede al nostro patto con i lettori: essere una testata libera, accogliente, indipendente.
L'indipendenza è uno dei valori contenuti nella carta Gedi, accanto alla coesione. Con la redazione dell'Espresso abbiamo difeso questi valori, in anni difficili, sul piano editoriale e industriale. In una situazione di crisi del mercato editoriale e con la difficoltà di far decollare la transizione digitale sempre annunciata e mai praticata. Mentre i giornali tradizionali perdono copie, lettori, peso politico, credibilità, fiducia.
La categoria dei giornalisti fatica a parlarne, si attarda nella difesa di quote di mercato sempre più ridotte. Gli editori tendono a scaricare le colpe della crisi sui costi industriali della produzione. Il mondo imprenditoriale, intellettuale e politico non riesce a inquadrare il tramonto della stampa italiana all'interno di una questione più importante, perché tocca da vicino la tenuta delle istituzioni democratiche.
«La stampa in Italia costituisce un enorme problema sia per quanto riguarda il suo ordinamento e sviluppo, sia per quanto riguarda la sua indipendenza... la gestione giornalistica è talmente costosa da essere proibitiva... Il Paese è così dominato da cinque o sei testate. Questi giorni hanno dimostrato come sia facile chiudere il mercato delle opinioni. Non solo non troverai opinioni, ma neppure notizie. Forse è questo un aspetto particolare di una crisi economica, che non può non essere anche una crisi editoriale. Infatti, su 20-25 seri giornali è difficile bloccare; su 5 o 6 sì».
Non solo non troverai opinioni, ma nemmeno notizie: lo scriveva Aldo Moro, nel suo memoriale dal covo delle Brigate rosse, nel 1978. Si pensa di risolvere la situazione rincorrendo le nuove opportunità offerte dal digitale, come in altri parti del mondo. Anche in Italia ci sono imprese che stanno dimostrando di saper affrontare con successo le sfide della transizione. Ma non si può farlo immaginando di perdere la propria identità. L'anima, il carattere di una testata.
È una scorciatoia che disorienta il pubblico e che prima o poi si dimostra illusoria. Gedi è nel cuore di questa crisi. In un gruppo che aveva sempre fatto della solidità, della stabilità e della continuità aziendale e editoriale il suo modo di essere, soltanto durante la mia direzione si sono alternati due gruppi proprietari, due presidenti, tre amministratori delegati, tre direttori di Repubblica. E ora si vuole far pagare al solo Espresso l'assenza di strategia complessiva.
Ho appreso della decisione di vendere L'Espresso da un tweet di un giornalista, due giorni fa, mercoledì pomeriggio. Ho chiesto immediati chiarimenti all'amministratore delegato Maurizio Scanavino, come ho sempre fatto in questi mesi. Mesi di stillicidio continuo, di notizie non smentite, di voci che sono circolate indisturbate e che hanno provocato un grave danno alla testata.
Non mi sono mai nascosto le difficoltà. Ho più volte offerto la mia disponibilità in prima persona a trovare una soluzione per L'Espresso, anche esterna al gruppo Gedi, che offrisse la garanzia che questo patrimonio non fosse disperso. Ma le trattative sono proseguite senza condivisione di un percorso, fino ad arrivare a oggi, alla violazione del più elementare obbligo di lealtà e di fiducia. La cessione dell'Espresso, in questo modo e in questo momento, rappresenta un grave indebolimento del primo gruppo editoriale italiano.
È una decisione che recide la radice da cui è cresciuto l'intero albero e che mette a rischio la tenuta dell'intero gruppo. È una pagina di storia del giornalismo italiano che viene voltata senza misurarne le conseguenze. Di più: L'Espresso è un pezzo di storia dell’intero Paese. Un Paese che rischia di diventare ancora più fragile in una funzione essenziale, la libertà di stampa, l'autonomia del giornalismo dai poteri, il ruolo critico di controllo verso chi governa le strutture politiche, economiche, finanziarie.
Ogni volta che c'è un cedimento, una cessione, è un pezzo che viene meno. E di questa storia L'Espresso non è comprimario, ma protagonista. Per questo non c'è nulla di personale in questo mio saluto. L'Espresso è sempre stato la mia casa e Gedi ha garantito il lavoro del nostro giornale. Ma se la casa viene cambiata, dall'arredamento alle suppellettili, fino a venderla, non resta altro da fare che prenderne atto. È una questione di coscienza e di dignità. Lo devo ai lettori che ci hanno sempre seguito in modo esigente.
Lo devo alle giornaliste e ai giornalisti che costituiscono la straordinaria redazione dell'Espresso, alla rete dei collaboratori e delle firme eccezionali di questo giornale. Mi è stata offerta la possibilità di restare, ringrazio, ma non posso accettare per elementari ragioni di dignità personale e professionale. Non è una questione privata, spero che tutto questo serva almeno a garantire all'Espresso un futuro e ad aprire un dibattito serio sul ruolo dell’informazione nel nostro Paese.
Ho cercato sempre di fermare una decisione che ritengo scellerata. Mi sono battuto in ogni modo, fino all’ultimo giorno, all’ultima ora. Ma quando il tempo è scaduto e lo spettacolo si è fatto insostenibile, c’è bisogno che qualcuno faccia un gesto, pagando anche in prima persona. Lo faccio io. Lo devo al mestiere che amo, il giornalismo. E soprattutto lo devo alla mia coscienza.
Dagospia il 4 marzo 2022. Comunicato.
La redazione dell’Espresso condivide pienamente le motivazioni delle dimissioni del direttore Marco Damilano, a cui esprime la sua totale solidarietà e che ringrazia per questi quattro anni insieme.
Esponendosi in prima persona, Marco Damilano ha dato risalto a una “decisione scellerata” che impoverisce il gruppo Gedi e l’intero panorama dell’informazione italiana. Recidere L’Espresso, la radice da cui è nato questo gruppo editoriale, mette a rischio la tenuta di tutta l’azienda.
Siamo consapevoli dello stato di difficoltà in cui versa il giornalismo, ma Gedi è nel cuore di questa crisi, come dimostrano i numerosi avvicendamenti al suo vertice e alla guida delle sue principali testate. Un'assenza di strategia che ora si vuole far pagare all’Espresso.
Noi giornalisti continueremo a difendere l’identità, l’anima e il ruolo civile, politico e culturale della nostra testata. Per questo la redazione è da oggi in stato di agitazione, e proclamerà le giornate di sciopero necessarie per impedire l’uscita del numero dell’Espresso attualmente in lavorazione.
Graziella Di Mambro per articolo21.org - 3 dicembre 2021
Tra Davide e Golia, alla fine, ha vinto Davide. L’ottava sezione del Tribunale civile di Napoli ha rigettato la domanda risarcitoria pari a 38 milioni di euro avanzata dal Presidente dell’Università Telematica Pegaso contro i giornalisti Nello Trocchia e Corrado Zunino con il Gruppo Editoriale L’Espresso.
Una vicenda iniziata in sede civile ad aprile 2018 e ancor prima davanti al giudice penale. Si chiude così quella che era apparsa dal primo momento come una causa esorbitante oltre che infondata e che è diventata, adesso, l’ultima prova, la più schiacciante, dell’esistenza di azioni legali temerarie contro i giornalisti, pur legittimate dall’ordinamento vigente.
“Me lo ricordo ancora il giorno che ho letto quel fascicolo – ha commentato Nello Trocchia – e ricordo ancora meglio le cose che su di me erano scritte per sostenere la tesi che quella mia inchiesta valesse una causa risarcitoria da 38 milioni di euro. 38 milioni di euro!
Perché i giornalisti quelli bravi e famosi, non i cronisti di provincia come me, lì andavano a tenere un corso di giornalismo per le nuove leve, mentre io facevo il collaboratore a pezzo. Ricordo tutto, solo che io lo sapevo che non avevo fatto niente di eccezionale, ma neanche niente di sbagliato, avevo fatto il mio lavoro”.
La citazione per danni ha riguardato i due giornalisti (Trocchia e Zunino), i rispettivi direttori, la società editrice e a presentarla era stato Danilo Iervolino in proprio e quale presidente della Pegaso spa; oltre a Iervolino erano firmatarie della domanda risarcitoria altre 137 persone tra dipendenti e docenti della stessa università.
L’ipotesi era quelle del danno che sarebbe stato procurato tra tre articoli di cui non è stata mai accertata la portata diffamatoria, anzi all’esito di uno dei due giudizi cautelari, relativamente all’articolo del giornalista Nello Trocchia era già stato riconosciuto dal Tribunale di Napoli che i fatti descritti in esso erano tutti corrispondenti al vero. ma intanto sempre nella fase iniziale uno degli articoli contestati dall’Università Pegaso e dagli altri attori fu tolto dalla rete per ordine di un giudice.
Alla base di tutto c’è stata un’inchiesta giornalistica di Nello Trocchia sul fenomeno delle università telematiche e dunque anche sulla Pegaso. Il Consiglio di Stato, chiamato a decidere sul punto in altro procedimento, ha negato per le università telematiche la possibilità di fornire i cosiddetti TFA, ovvero i percorsi di tirocinio formativo attivo per l’abilitazione all’insegnamento nella scuola secondaria di primo e secondo grado. L’inchiesta giornalistica era allargata al complessivo fenomeno delle università telematiche e ricostruiva anche la storia dei fondatori della Pegaso.
“Ogni tanto una buona notizia – ha detto in merito alla sentenza il Presidente della Fnsi Giuseppe Giulietti – ma questa storia come tante altre ci spinge a ripetere ciò che diciamo ormai da troppi anni, ossia che non è più rinviabile una riforma legislativa contro le azioni bavaglio”.
Cristiano Vella per ilfattoquotidiano.it il 4 marzo 2022.
43 anni, (quasi) un “millennial” Danilo Iervolino: l’uomo che, salvo imprevisti a questo punto clamorosi, ha salvato la Salernitana dall’esclusione del campionato. Napoletano di Palma Campania, giovanissimo eppure con una storia imprenditoriale già ricca alle spalle: ha fondato l’Università telematica Pegaso, centrando un business milionario e in un certo senso proseguendo, innovandola, una tradizione di famiglia, visto che il padre aveva fondato le scuole paritarie Iervolino, molto diffuse in Campania.
Il business l’aveva annusato a soli 26 anni, dopo un viaggio negli States e cogliendo l’opportunità fornita dalla legge Moratti-Stanca che istituiva le università telematiche in Italia: la struttura fu immaginata nel 2003 in un locale piccolissimo, pochi anni dopo Unipegaso aveva 10 corsi di laurea e 58 sedi e circa 60mila studenti passati per le lezioni online.
Poi le quote della Pegaso le aveva cedute a un fondo inglese, Cvc, per un miliardo di euro: di lì l’investimento nel mondo dell’editoria acquisendo il gruppo Bfc Media, che edita tra le altre le riviste Forbes Italia, Bluerating, Private e canali televisivi come Bike, ma gli interessi sono molteplici e legati spesso alla tecnologia e alla sua evoluzione.
Giovane, italiano e per certi versi visionario: un profilo che pare essere in controtendenza rispetto a quelli delle proprietà dei club di Serie A che oggi vanno perlopiù verso fondi o presidenti stranieri (Inter, Milan, Roma, Genoa, Spezia, Venezia, Fiorentina) o a imprenditori più “esperti” (Napoli, Lazio, Udinese, Atalanta, Torino).
Del suo interesse per l’acquisizione della Salernitana si era parlato già nei mesi scorsi, tanto da spingerlo a uscire con una nota di smentita: “Non sono interessato, ma auguro ogni bene al club”, il succo del comunicato di novembre scorso. Ieri invece è spuntato il suo nome quasi a sorpresa, quando i rumors attorno al club granata puntavano decisamente in altra direzione.
La sua offerta, come anticipato ieri, è di circa 10 milioni di euro per l’acquisizione del club più una ventina per la gestione della squadra a partire dal mercato: dopo aver salvato la Salernitana dall’esclusione dalla Serie A, infatti, a Iervolino toccherà provare a conservare la categoria sul campo, impresa non facile visto che il club è ultimo con soli 8 punti totalizzati nel girone d’andata.
E oltre al mercato e alla difficile impresa che ha di fronte sul campo, le difficoltà per Iervolino si profilano anche fuori, visto l’annuncio di un fondo svizzero interessato all’acquisizione del club Granata di presentare un esposto alla Procura della Repubblica sulla cessione al giovane imprenditore napoletano.
Ma Iervolino parla da presidente, e ai tifosi dice: “E’ con grande emozione che annuncio l’acquisizione della Salernitana 1919. Salerno e i suoi tifosi meritano una squadra competitiva. Credo fortemente che il progetto di rilancio della squadra che stiamo predisponendo garantirà equilibrio e stabilità alla società.
Assicuro il massimo impegno per costruire un futuro duraturo e ricco di soddisfazioni per la città e per la sua straordinaria tifoseria. E’ con questi auspici che, insieme, accogliamo con fiducia il nuovo anno. Auguri a Salerno, evviva i granata”.
E parlando di se e dei suoi punti di riferimento, Iervolino ama citare Don Milani: “Bisogna che ci sentiamo tutti parte del cambiamento e della speranza, contribuendo ognuno secondo le proprie possibilità e le proprie inclinazioni a ricostruire laddove qualcosa si è spezzato. Perché, come diceva don Milani ‘non serve avere le mani pulite se poi si tengono in tasca’” e lui ha deciso di contribuire, diventando (buona) parte delle speranze dei tifosi della Salernitana.
Lo strappo con GEDI. Marco Damilano si dimette da L’Espresso, strappo con Elkann per la cessione del settimanale: in pole c’è Iervolino. Carmine Di Niro su Il Riformista il 4 Marzo 2022.
Un terremoto, l’ennesimo, nel gruppo editoriale GEDI della famiglia Elkann-Agnelli. Il direttore de L’Espresso Marco Damilano ha annunciato oggi, in un editoriale pubblicato sul sito web del settimanale, le dimissioni dal suo incarico in aperta polemica con l’editore.
Una decisione che arriva per la scelta di GEDI di vendere la testata, una mossa che segue un periodo di continua ‘ristrutturazione’ dei giornali del gruppo. In realtà, come sottolineato dallo stesso Damilano nella sua lettera di commiato dai lettori de L’Espresso, le voci su una cessione del giornale andavano avanti ormai da tempo, senza essere smentite dall’editore.
Tornando a Damilano, il direttore usa toni sferzanti contro l’editore, accusandolo di aver appreso della decisione di vendere L’Espresso “da un tweet di un giornalista, due giorni fa, mercoledì pomeriggio”, un riferimento a quanto pubblicato da Claudio Plazzotta martedì.
Una situazione che è precipitata dopo “mesi di stillicidio continuo, di notizie non smentite, di voci che sono circolare indisturbate” che secondo Damilano hanno provocato “un grave danno alla testata“.
Il direttore de L’Espresso nella sua lettera ai lettori ha anche rivelato di essersi speso personalmente nel tentativo di trovare soluzioni alternative per il gruppo GEDI, trattative che “sono proseguite senza condivisione di un percorso” fino ad arrivare “a oggi, alla violazione del più elementare obbligo di lealtà e di fiducia”.
Parole al vetriolo sono destinate alla strategia editoriale del gruppo ora di proprietà della famiglia Elkann, con Damilano che ricorda come “soltanto durante la mia direzione si sono alternati due gruppi proprietari, due presidenti, tre amministratori delegati, tre direttori di Repubblica. E ora si vuole far pagare al solo Espresso l’assenza di strategia complessiva”.
Una decisione, quella del gruppo GEDI, che per Damilano è “scellerata” ma “quando il tempo è scaduto e lo spettacolo si è fatto insostenibile, c’è bisogno che qualcuno faccia un gesto, pagando anche in prima persona. Lo faccio io. Lo devo al mestiere che amo, il giornalismo. E soprattutto lo devo alla mia coscienza“.
Futuro con Iervolino?
Quanto al futuro della storica testata fondata da Eugenio Scalfari e Carlo Caracciolo, le voci sempre più insistenti parlano di una cessione del settimanale al gruppo editoriale Bfc Media, controllato dalla famiglia Iervolino.
Daniele Iervolino, 43enne imprenditore napoletano originario di Palma Campania, ha fondato l’Università telematica Pegaso (venduta Fondo Cvc per 1 miliardo di euro) ed è da pochi mesi proprietario della Salernitana, club di Serie A. Recentemente è entrato nel mondo dell’editoria, acquistando il 51% di Bfc Media, azienda che opera nel settore dell’informazione, editrice di Forbes Italia.
I problemi di GEDI ed Espresso
La scelta di GEDI di cedere la testata non sorprende. L’Espresso negli ultimi anni, così come gli altri settimanali di informazioni in Italia, ha vissuto un periodo travagliato fatto di perdite economiche e cali di vendite.
Damilano era stato nominato direttore nel 2017, dopo due anni da vicedirettore, e in più occasioni non aveva fatto mancare critiche alla proprietà sui pochi investimenti sul settimanale.
Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia
Giacomo Amadori e François De Tonquédec per “la Verità” il 9 novembre 2022.
L'Istituto nazionale per la previdenza sociale presieduto da Pasquale Tridico dopo anni di prudenza ha deciso di prendere provvedimenti nei confronti dei prepensionati del gruppo Gedi, che avrebbero ottenuto anzitempo l'assegno previdenziale in modo truffaldino. La lentezza dei provvedimenti potrebbe essere stata dettata dall'idem sentire di alcuni dirigenti e giornalisti della casa editrice e dei vertici dell'ente nominati dalla sinistra, a partire da quel Tito Boeri che del quotidiano La Repubblica è anche apprezzato collaboratore.
Il 24 maggio scorso il pm romano Francesco Dall'Olio ha firmato l'avviso di conclusione delle indagini nei confronti di 101 persone e di cinque aziende del gruppo Gedi coinvolte in una presunta truffa aggravata ai danni dell'Inps che avrebbe erogato 22,2 milioni di euro di assegni pensionistici non dovuti, mentre, grazie alla frode, la casa editrice e le sue collegate avrebbero risparmiato 38,9 milioni di euro di costi del personale.
La notifica dell'atto è in fase di completamento. Ma a settembre, l'Inps in una riunione in Procura ha annunciato di aver deciso di sospendere in autotutela i trattamenti contestati. Non conosciamo il numero di quelli già bloccati dato che all'Inps sostengono di non poterlo rivelare «essendo il procedimento penale aperto e non essendoci ancora stato un formale giudizio».
Anche se la decisione è arrivata pochi mesi dopo la chiusura delle indagini e quindi con fatti finalmente cristallizzati a livello giudiziario, in via Ciro il Grande erano al corrente da anni di questa complessa vicenda.
Le indagini sui prepensionamenti irregolari sono partite da una mail recapitata all'ente previdenziale nel maggio del 2016 in cui veniva svelato il sistema truffaldino per accedere ad ammortizzatori sociali come pensione anticipata e cassa integrazione. Già nel 2012 un anonimo aveva segnalato anomalie, ma l'allora direttore dell'Inps della Lazio, Gabriella Di Michele, aveva riferito che «il controllo effettuato a livello amministrativo sulle posizioni dei dipendenti del gruppo L'Espresso (oggi Gedi, ndr) è risultato regolare e, pertanto, non sembrano esserci elementi tali da suffragare la segnalazione anonima».
Quattro anni dopo, un ex controller di Elemedia, la società che raggruppa le emittenti radiofoniche del gruppo Gedi, aveva annunciato a Boeri che avrebbe presentato «formale esposto alla Guardia di finanza» e si era detto fiducioso del fatto che Boeri avrebbe fatto «le dovute verifiche» e proceduto «senza esitazione, a differenza di quanto ha fatto la Cgil, per riportare giustizia». Il dg Massimo Cioffi ordinò un'ispezione e nel 2018 la Procura aprì un procedimento.
Quattro anni fa, però, venne revocata solo una pensione, avendo l'Inps effettuato «un'analisi suppletiva che ha portato a non riconoscere come validi i periodi riscattati». Con Tridico sembra che tutto sia rimasto fermo sino a settembre, quando la notizia dell'avviso di fine delle indagini aveva iniziato a girare e il governo appoggiato dal Partito democratico, grande sponsor (ricambiato) del gruppo Gedi, era caduto.
Dopo la vittoria del centrodestra alle elezioni, anche se potrebbe essere una semplice coincidenza, sono partite le lettere con le revoche di altre pensioni. Noi abbiamo intercettato «il provvedimento di annullamento in autotutela del provvedimento notificato in data 18 novembre 2009 in materia di "contributi-rendita vitalizia"» indirizzato all'ex archivista del gruppo Anna Piludu, andata in pensione nel 2010 a 53 anni.
Il prepensionamento sarebbe stato reso possibile grazie a una copia falsificata dell'attestato sostitutivo del suo libretto di lavoro da cui risultavano 160 settimane di marchette pagate da una ditta per cui non aveva mai lavorato e che neanche conosceva. Un artifizio che ha permesso di colmare un periodo contributivo ancora mancante di tre anni e di raggiungere con questa «rendita vitalizia» i requisiti per la prestazione pensionistica.
La motivazione della decisione della revoca è la seguente: «A seguito di verifiche effettuate sulla pratica di rendita vitalizia in oggetto, sono emerse incongruenze nei documenti presentati a supporto dell'istanza stessa, che ne inficiano la validità e ne determinano la revoca in autotutela».
Non sfuggirà che non vengono citate le indagini della Procura e della Guardia di finanza e che questo tipo di rilievo, forse, poteva essere avanzato già nel 2012 o almeno tra il 2016 e il 2018. Ma, forse, all'epoca, il gruppo Gedi non era aggredibile dall'istituto con serenità.
L'annullamento della rendita vitalizia e della collegata pensione è stato disposto non essendo «decorso un periodo di tempo eccessivamente ampio dall'emanazione dell'atto stesso» ed essendo stato «rilevato sussistente e prevalente [] l'interesse pubblico». Nell'avviso di chiusura delle indagini inviato dalla Procura le accuse vanno, a vario titolo, dalla truffa aggravata ai danni dello Stato all'accesso abusivo a sistema informatico alla responsabilità amministrativa da reato (per cinque aziende della holding), ai sensi del decreto legislativo 231, nei confronti del gruppo Gedi, della concessionaria pubblicitaria Manzoni, della Elemedia, della Gedi news network e della Gedi printing.
Nel documento sono elencate 101 persone a cui è contestata la truffa: 79 prepensionati (altri due sono deceduti), di cui 16 dirigenti; 17 manager (compresi due prepensionati), quattro sindacalisti della Cgil (di cui due prepensionati), due funzionari Inps (a cui, insieme con 16 dirigenti, è contestato anche l'accesso abusivo) e altre due figure minori.
I quattro principali indagati sono considerati l'ex amministratore delegato del gruppo Monica Mondardini, attuale ad del gruppo Cir, la cassaforte della famiglia De Benedetti (vecchi proprietari di Gedi), il capo delle risorse umane Roberto Moro, il suo vecchio vice Romeo Marrocchio, il direttore generale della divisione Stampa nazionale Corrado Corradi.
Le frodi, come abbiamo scritto a gennaio, sarebbero state sostanzialmente di quattro tipi: fittizi demansionamenti di dirigenti a quadro per fargli ottenere i requisiti previsti dalla normativa di settore per i prepensionamenti; illeciti riscatti di annualità (a spese dell'azienda) «asseritamente» lavorate, come nel caso della Piludu, con la complicità di funzionari Inps e la falsificazione dei libretti di lavoro; utilizzo in veste di collaboratori esterni, nelle stesse società del gruppo, di dipendenti prepensionati in quanto falsamente indicati come esuberi; trasferimenti di personale eseguiti (in svariati casi solo sulla carta) per poter accedere «indebitamente» agli scivoli previsti per la sede/società di destinazione.
A dicembre il gip Andrea Fanelli ha ordinato di «congelare» il presunto corpo del reato ovvero l'illecito profitto per Gedi, quantificato dai pm, come detto, in 38,9 milioni di euro. Il giudice ha, invece, rigettato la richiesta di sequestro preventivo degli assegni previdenziali indebitamente erogati. Infatti Fanelli ha chiesto il ricalcolo del «profitto illecito percepito dai singoli dipendenti» che, a suo giudizio «e pari all'importo netto della pensione» e non a quanto sborsato dall'Inps. Nove mesi dopo, contemporaneamente all'arrivo al governo del centrodestra, l'istituto ha iniziato, in autonomia, a bloccare le pensioni degli indagati e a chiedere la restituzione degli assegni che sarebbero stati indebitamente incassati.
Giacomo Amadori e François de Tonquédec per “La Verità” il 14 novembre 2022.
Una gola profonda aveva provato a denunciare alla Cgil la presunta truffa milionaria che il gruppo editoriale Gedi avrebbe perpetrato ai danni dell'Inps e per riuscire nell'intento si era rivolta a più uffici della Confederazione generale italiana del lavoro, compreso quello dell'allora segretario Susanna Camusso, da ottobre parlamentare del Pd. Ma nessuno dei destinatari dei messaggi di posta avrebbe risposto o preso provvedimenti.
In compenso tre ex rappresentanti aziendali proprio della Cgil (Danilo di Cesare, Stefano Graziosi e Maria Fidalma Mazzi) sono tuttora indagati con l'accusa di aver dato il loro contributo alla presunta frode dei prepensionamenti illeciti ottenuti da Gedi, azienda che nel dicembre scorso è stata oggetto di un sequestro preventivo da 38,9 milioni di euro.
A riferire agli investigatori della Guardia di finanza la notizia dell'alert indirizzato al sindacato è stato il supertestimone dell'inchiesta. Il quale, il 23 agosto 2017, ha impresso una svolta alle indagini con le sue accuse, raccolte in un verbale di sei pagine che oggi La Verità può rivelare in esclusiva.
Quel mercoledì, verso le 8,30, Giovanni Dell'Acqua, quarantottenne originario di Taranto, ma residente a Milano, è entrato nella sede del Nucleo di polizia economico finanziaria della Guardia di finanza di via Talli, periferia Nord di Roma. L'uomo, nel dicembre 2006, era stato assunto dalla Elemedia - azienda che gestiva le radio del Gruppo l'Espresso e a partire dal settembre 2012 era stato distaccato presso un'altra società del gruppo, la Manzoni spa.
In entrambe le aziende aveva ricoperto il ruolo di quadro all'interno di una struttura che si occupava di controllo di gestione. Nell'agosto del 2017, in caserma, precisa quale fosse il suo ruolo: «In sostanza mi occupavo della verifica dei costi delle società per le quali lavoravo. Venivo pertanto a conoscenza anche dei costi relativi al personale e dei vari spostamenti di personale che venivano effettuati da e per le società per le quali lavoravo».
Nel maggio del 2016 aveva iniziato a scrivere all'allora presidente dell'Inps Tito Boeri per raccontargli quanto a suo giudizio non tornasse nei prepensionamenti ottenuti da Gedi con la complicità del sindacato. In un'intercettazione agli atti Marco Benedetto, ex ad del gruppo, dice di lui: «È uno che loro hanno trattato male e lui si e vendicato». Un altro dirigente, Alessandro Rocca, conferma: «Esatto e ha rotto le scatole scrivendo questa mail a Boeri».
Nei messaggi inviati all'allora presidente dell'Inps erano contenute le storie di sette dirigenti dell'azienda editoriale, in particolare del comparto radiofonico e della concessionaria pubblicitaria Manzoni, i quali sarebbero stati demansionati e successivamente trasferiti da società sane a società in crisi per poter usufruire della cassa integrazione e delle agevolazioni per i prepensionamenti garantite ai poligrafici dalla legge sull'editoria. Un sistema che ha portato all'iscrizione di 101 persone e cinque società sul registro degli indagati della Procura di Roma.
In una delle sue mail a Boeri, Dell'Acqua aveva specificato: «Ho già segnalato tutto alla trasmissione Report che spero approfondisca e presto farò formale esposto alla Guardia di finanza, ma sono fiducioso che lei farà le dovute verifiche e che procederà senza esitazione, a differenza di quanto ha fatto la Cgil, per riportare giustizia». Per questo i finanzieri, nell'agosto di cinque anni fa, hanno chiesto a Dell'Acqua con chi avesse parlato di quei fatti oltre che con il presidente dell'Inps.
Con le sue dichiarazioni il testimone chiama in causa i piani alti della Cgil: «Ho inviato alcune mail relative alla vicenda ai seguenti soggetti: alla segreteria della Camusso; alla segreteria nazionale Slc (Sindacato lavoratori della comunicazione, sempre della Cgil, ndr); a Massimo Bonini, responsabile della Cgil di Milano; a Francesco Auferi e Mimma Agnusdei, entrambi responsabili della Slc-Cgil di Milano; a Massimo Luciani e Walter Pilato entrambi firmatari di decreti e membri di Slc-Cgil nazionale; a Paolo Puglisi della Cgil Lombardia».
Di fronte alle Fiamme gialle l'uomo ha ricordato di aver cercato sponde non solo nel sindacato per far deflagrare lo scandalo: «Rappresento anche di aver inviato alcune mail a Mediaset, al Corriere della Sera, a Report e a numerose altre testate giornalistiche a cui ho rappresentato il meccanismo, ma i miei interlocutori non hanno successivamente più avuto interesse sulle vicende, infatti non mi hanno più ricontattato e non hanno mai pubblicato qualcosa in merito. Aggiungo che solo Report ha trasmesso una puntata di approfondimento sulla vicenda di Cioffi senza parlare dei fatti da me segnalati anche se collegati».
Il 23 agosto 2017, Dell'Acqua ribadisce quanto denunciato nei messaggi a Boeri. Racconta di dirigenti che «venivano demansionati a quadro senza mai però variare la tipologia di attività svolta e mantenendo il medesimo trattamento stipendiale e i vari benefit acquisiti nel tempo»; riferisce di dipendenti trasferiti «da società che non avevano diritto all'accesso ai regimi agevolativi a società che invece ne avevano diritto, senza mai, però trasferirsi materialmente e mantenendo il medesimo ufficio e funzioni».
Dell'Acqua fa nomi e cognomi e cita anche il caso di un suo vecchio superiore che avrebbe «mantenuto le proprie funzioni di dirigente anche da quadro» e che, quando a novembre 2016 la vicenda dei prepensionamenti Gedi finisce sui giornali, sarebbe stato «reintegrato in Manzoni», grazie a «una clausola di reintegro in caso di mancata erogazione del trattamento pensionistico» contenuta nell'accordo con cui aveva lasciato anticipatamente l'azienda. Un escamotage che sarebbe stato utilizzato anche in altri casi.
Dell'Acqua ricorda agli investigatori che il suo scambio epistolare con Boeri, nel 2016, era stato citato dal Fatto quotidiano e dal nostro giornale, gli unici due mezzi d'informazione a ragguagliare i propri i lettori sull'inchiesta: «Sulla Verità addirittura erano presenti anche le mie iniziali» sottolinea il teste. Che continua: «In merito credo che la fuga di notizie sia dovuta ad una sorta di guerra interna all'Inps che vedeva contrapposti Boeri a Cioffi (Massimo, ex dg dell'Inps, ndr), tra l'altro riportata anche da notizie stampa in merito.
Cioffi accusava Boeri di avere un conflitto di interessi sulla vicenda segnalata in quanto lo stesso in precedenza aveva ricoperto un ruolo all'interno della fondazione De Benedetti. Boeri a sua volta rispondeva accusando e chiedendo le dimissioni di Cioffi il quale in precedenza aveva ricoperto un ruolo di vertice in Enel, successivamente sottoposta a controllo da parte dell'Inps». Dell'Acqua collega la presunta faida all'uscita degli articoli sui giornali e conclude: «Quindi credo che le mie mail siano state trasmesse al Fatto Quotidiano da qualcuno dell'Inps per gettare discredito sull'operato di Boeri accusandolo di aver insabbiato le attività di indagine».
DAGOSPIA FLASH! il 3 gennaio 2021. - COME MAI NESSUNO SCRIVE CHE I PREPENSIONAMENTI DI “REPUBBLICA” E “ESPRESSO”, ALLA BASE DEL SEQUESTRO PREVENTIVO DI 38 MILIONI DI EURO SUBITO DAL GRUPPO “GEDI”, VENNERO FATTI COME ULTIMO ATTO DEL GOVERNO LETTA? IL TUTTO MENTRE TITO BOERI (COLLABORATORE DI “REPUBBLICA”) ERA A CAPO DELL’INPS…
La Procura di Roma sequestra 38 milioni di euro al gruppo editoriale Gedi (famiglia Agnelli). Il Corriere del Giorno il 3 gennaio 2021. Come giustamente evidenzia il quotidiano La Verità né dalla Gedi, né dalle agenzie di stampa o da altri organi di informazione era stato diffuso alcun comunicato sulla vicenda resa nota dal quotidiano diretto da Belpietro. Legittimo chiedersi quali siano state le cause che hanno portato alla clamorosa autocensura. Il sequestro preventivo da oltre 38 milioni subito dalla società editrice Gedi (di cui fanno parte tra l’altro i quotidiani La Repubblica, La Stampa, Il Secolo XIX) vigilia delle feste natalizie è un’iniziativa della Procura di Roma che con l’avallo del gip, ai sensi della legge 231 del 2001, quella che punisce la responsabilità amministrativa delle società, ha bloccato una somma equivalente al massimo che l’accusa ritiene essere stata sottratta al bilancio dell’INPS per delle presunte irregolarità nelle procedure di prepensionamento di una settantina di dipendenti , operazione effettuata quando però la società editrice era ancora controllata, dalla Cir cioè la holding degli affari della famiglia De Benedetti.
Come giustamente evidenzia il quotidiano La Verità né dalla Gedi, né dalle agenzie di stampa o da altri organi di informazione era stato diffuso alcun comunicato sulla vicenda resa nota dal dal giornale diretto da Maurizio Belpietro. Legittimo chiedersi quali siano state le cause che hanno portato alla clamorosa autocensura. Ieri Andrea Griva direttore della comunicazione del gruppo Gedi , parlando con i colleghi de La Verità ha sottolineato una dimenticanza del loro articolo pubblicato il 31 dicembre : “Non ci sono commenti se non forse che poteva essere un servizio al lettore ricordare con maggiore precisione che si tratta di una vicenda originata dalla precedente gestione del gruppo Gedi (quando la proprietà era in capo ai De Benedetti, ndr) e quindi la fotografia dell’ingegner Elkann non sembrava essere in linea con la verità storica di questa vicenda. Posso aggiungere che la società continua a collaborare con gli inquirenti“.
Nonostante uno dei tre indagati, Monica Mondardini, ha lasciato il gruppo Gedi, in cui ha ricoperto il ruolo di amministratore delegato e vicepresidente, per passare alla Cir dell’ingegner Carlo De Benedetti, gli altri due manager sotto inchiesta, il direttore delle risorse umane Roberto Moro e il capo della divisione Stampa nazionale Corrado Corradi, in realtà sono ancora in carica.
Il fascicolo è in mano all’aggiunto della Procura di Roma Paolo Ielo e al pm Francesco Dall’Olio in relazione ad una presunta truffa ai danni dell’Inps legata al prepensionamento di dirigenti e altri dipendenti di Gedi e della concessionaria pubblicitaria Manzoni che non avrebbero avuto diritto al beneficio e che per questo sono stati demansionati o trasferiti per ottenere lo scivolo. La notizia del sequestro della Procura di Roma, seppur tacitata e nascosta, ha fatto rapidamente il giro di tutti i giornali. Compresa La Repubblica, edita dal gruppo Gedi. In passato il gruppo Gedi in quanto quotato in Borsa sarebbe stato costretto a rendere pubblica la notizia . Ma dopo l’acquisizione dalla Cir l’89 per cento delle azioni della casa editrice, la Gedi per decisione della nuova proprietà del gruppo cioè la Exor della famiglia Elkann-Agnelli) è stata “delistata” cioè è uscita dalla Borsa italiana di Piazza Affari. Per questo motivo l’obbligo delle comunicazioni al mercato è venuto meno in quanto non dovuto.
L’avvocato della società editrice, l’ex ministro della Giustizia Paola Severino, si sarebbe affrettata a far aprire un conto bancario vincolato su cui Gedi avrebbe già versato i fondi oggetto del sequestro, evitando in tal modo che venissero colpiti i patrimoni personali degli indagati.
Alla vigilia del maxi sequestro subito dalla Gedi , il quotidiano La Repubblica lo scorso 15 dicembre aveva dato ampio risalto alla notizia di un altro sequestro preventivo di 600.00 euro effettuato dalla Procura di Milano ai danni di “alcune sigle sindacali” della Cisl lombarda. Una somma sessanta volte inferiore all’importo bloccato sotto sequestro dalla Procura di Roma al gruppo Gedi, notizia che sino a questa mattina, i lettori del quotidiano romano, non hanno ancora potuto leggere. Grazie al complice silenzio della direzione e redazione.
Giacomo Amadori e Fabio Amendolara per “La Verità” il 2 gennaio 2021. Per due giorni abbiamo atteso un comunicato del gruppo editoriale Gedi (che edita La Repubblica, L'Espresso, La Stampa e Il Secolo XIX, tre radio e una serie di testate locali), di proprietà della famiglia Agnelli, sul sequestro preventivo da oltre 38 milioni subito dall'azienda alla vigilia delle feste natalizie. Si tratta di un'iniziativa della Procura di Roma che ha congelato, con l'avallo del gip, una somma equivalente al massimo che l'accusa ritiene essere stata sottratta al bilancio dell'Inps per presunte irregolarità nelle procedure di prepensionamento di una settantina di dipendenti ai tempi in cui la società era controllata, attraverso la Cir, dalla famiglia De Benedetti. Purtroppo, sino a ieri sera, né dall'azienda, né dalle agenzie di stampa o da altri media era stato diffuso alcun dispaccio sulla spinosa vicenda che confermasse e arricchisse di particolari lo scoop della Verità.
Anche su Internet la notizia è stata quasi censurata, trovando pochissimo spazio. Tra i principali siti di informazione è stata ripresa solo da Affari italiani. Distrazione, superficialità, solidarietà, gelosia? Possono essere molte le motivazioni che hanno portato al clamoroso black out. Ieri il direttore della comunicazione del gruppo, Andrea Griva, ci ha risposto con garbo e ha sottolineato una dimenticanza nel nostro pezzo del 31 dicembre: «Non ci sono commenti se non forse che poteva essere un servizio al lettore ricordare con maggiore precisione che si tratta di una vicenda originata dalla precedente gestione del gruppo Gedi (quando la proprietà era in capo ai De Benedetti, ndr) e quindi la fotografia dell'ingegner Elkann non sembrava essere in linea con la verità storica di questa vicenda. Posso aggiungere che la società continua a collaborare con gli inquirenti».
È vero che uno dei tre indagati, Monica Mondardini, ha lasciato il gruppo, in cui ha ricoperto il ruolo di amministratore delegato e vicepresidente, per trasferirsi alla Cir dell'ingegner Carlo De Benedetti, ma gli altri due manager sotto inchiesta, il direttore delle risorse umane Roberto Moro e il capo della divisione Stampa nazionale Corrado Corradi, sono ancora al loro posto.
Siamo riusciti a parlare, nonostante la giornata post veglione, anche con l'avvocato di Gedi, l'ex ministro Paola Severino, la quale una decina di giorni fa si è affrettata ad accendere il conto su cui far confluire i quasi 40 milioni che la Procura ha ordinato di sequestrare ai sensi della legge 231 del 2001, quella che punisce la responsabilità amministrativa delle società.
Ma anche la Severino non è stata particolarmente loquace: «Dovreste sapere che non rilascio mai dichiarazioni sui processi che seguo» ci ha detto, confermando di essere il legale incaricato della vicenda. «Inoltre» ha aggiunto, «mi pare che abbiate già delle fonti dirette». E ha concluso con un festoso saluto: «Io posso solo augurarvi buon anno». Buon 2022 anche a lei.
Ha inserito lo stesso disco l'aggiunto Paolo Ielo che, contattato dalla Verità, si è schermato dietro alla riforma della giustizia messa a punto dal Guardasigilli Marta Cartabia: «Come sa esiste una legge che vi impedisce di avere rapporti con persone diverse dal procuratore, quindi, mi dispiace, ma non mi resta che farvi gli auguri di buon anno».Il fascicolo è in mano a Ielo e al pm Francesco Dall'Olio e riguarda, come detto, una presunta truffa ai danni dell'Inps legata al prepensionamento di dirigenti e altri dipendenti di Gedi e della concessionaria pubblicitaria Manzoni che non avrebbero avuto diritto al beneficio e che per questo sono stati demansionati o trasferiti per ottenere lo scivolo. La notizia del sequestro, seppur silenziata, ha fatto rapidamente il giro di tutte le redazioni. Anche della Repubblica.
Qui ci risulta che alcuni esponenti del comitato di redazione si siano sentiti telefonicamente per valutare quali azioni intraprendere e avrebbero concordato di scrivere una nota all'azienda per chiedere lumi, visto che nessun aggiornamento era arrivato ai membri del Cdr e che le ultime informazioni conosciute risalivano al 2018. Non è escluso che successivamente venga diffuso anche un comunicato indirizzato alle redazioni. Ma tutto è rinviato alla giornata di domani.
Salvo che in queste ore l'azienda non scelga una linea di maggiore trasparenza comunicativa. In passato al gruppo Gedi sarebbero stati costretti a dare la notizia in quanto società quotata in Borsa. Ma quando la Exor della famiglia Elkann-Agnelli ha rilevato dalla Cir l'89 per cento delle azioni della casa editrice, quest' ultima è stata «delistata» ed è uscita da Piazza affari.
Per questo l'obbligo delle comunicazioni al mercato è caduto. E così, per uno strano scherzo del destino, il 15 dicembre, alla vigilia del maxi sequestro, La Repubblica aveva dato ampio spazio a un altro sequestro preventivo effettuato dalla Procura di Milano ai danni di «alcune sigle sindacali» della Cisl lombarda. Peccato che si parlasse di 600.00 euro. Una cifra sessanta volte inferiore al tesoretto prelevato al gruppo Gedi dalla Procura di Roma, notizia che, però, i lettori quotidiano romano, non hanno ancora potuto leggere. Almeno sino a questa mattina.
Giacomo Amadori per “La Verità” il 2 gennaio 2021. Nelle scorse ore finalmente i siti di due giornali, Il Tempo e Il Fatto Quotidiano, hanno ripreso la notizia della Verità sul sequestro preventivo da circa 38 milioni di euro ordinato dalla Procura di Roma nei confronti del gruppo Gedi.
L'azienda editoriale è accusata di aver organizzato una truffa ai danni dell'Inps, perché avrebbe prepensionato numerosi ex dipendenti privi dei requisiti necessari, in particolare dirigenti che, non avendo diritto al beneficio, erano stati demansionati. All'inizio dell'indagine si parlò anche di cassa integrazione guadagni straordinaria (Cigs) ottenuta trasferendo lavoratori da rami sani della holding a società in difficoltà. Ma da Gedi ci fanno sapere che la «Cigs è stata erogata correttamente e che non risultano addebiti a questo proposito».
La Procura ha iscritto almeno tre persone sul registro degli indagati, tra cui due importanti dirigenti del gruppo: il direttore delle risorse umane Roberto Moro e il capo della divisione Stampa nazionale Corrado Corradi.Ma i lettori di Repubblica, Stampa, Secolo XIX e alcune testate locali di Gedi continuano a non essere informati della vicenda. Tranne quelli che hanno ricevuto da qualche benefattore il nostro articolo del 31 dicembre che ha svelato il clamoroso provvedimento degli inquirenti.
È il caso dell'ex presidente dell'Inps Tito Boeri, citato nel nostro scoop di tre giorni fa. Infatti, prima di contestare la nostra ricostruzione in una lettera al direttore, ha precisato: «Non essendo un lettore del suo giornale, ho ricevuto lo stralcio di articolo dal dirigente Inps cui a suo tempo avevo chiesto di seguire la vicenda».
Il manager in questione, Luca Sabatini, avrebbe informato del sequestro il suo vecchio presidente in modo encomiastico: «Le voglio dare una buona notizia: grazie al suo intervento siamo riusciti a smascherare una truffa ai danni dell'Inps; c'è voluto del tempo, ma ci siamo riusciti». Insomma l'intervento della Procura sarebbe merito di Boeri, collaboratore di Repubblica dai tempi in cui l'azienda era guidata dalla famiglia De Benedetti.
Ma nel 2020 la proprietà è cambiata: sarà per questo che oggi l'economista cerca di appuntarsi la medaglia? Chissà. Comunque l'ex presidente dell'Inps proprio non si è ritrovato nella nostra descrizione dei fatti: «Leggo l'articolo, ma mi trovo di fronte ad una ricostruzione distorta e maliziosa del mio operato, volta a insinuare che io abbia voluto insabbiare la vicenda».
Quindi spiega come avrebbe scoperchiato il presunto marciume dentro al gruppo Gedi: «Come posso documentare, dopo avere ricevuto un messaggio criptico da una persona a me sconosciuta (non era un messaggio anonimo) riguardo a potenziali frodi ai danni dell'istituto, fui io stesso a sollecitare il mittente perché mi offrisse i dettagli della vicenda.
E il giorno stesso in cui ricevetti una mail più circostanziata incaricai il direttore centrale della direzione centrale ammortizzatori sociali (Sabatini, ndr), struttura competente in materia (e non certo un "dirigente di seconda fascia" come riportato dal vostro giornalista) di approfondire la vicenda».
Ma Boeri porta anche altre prove del suo lavoro di implacabile segugio anti Gedi: «Posso documentare che anche successivamente a questa mia prima segnalazione sollecitai la direzione ad andare a fondo, lasciando poi al direttore generale, una volta appurato che ci potevano essere gli estremi di una frode, il compito di seguirne l'evoluzione».
L'ex presidente dell'Inps sottolinea anche: «Se avessi voluto davvero insabbiare la vicenda, lo avrei potuto fare in un'infinita di modi, a partire dall'ignorare il messaggio di una persona a me sconosciuta tra le centinaia di mail che ricevevo ogni giorno».
Quindi adesso l'Inps potrebbe recuperare 38 milioni di euro grazie alla tenacia investigativa del suo ex presidente detective. Però dal nostro archivio abbiamo tirato fuori un comunicato del sindacato Usb che, cinque anni fa, metteva fortemente in dubbio la versione di Boeri, dopo che quest' ultimo aveva fatto pubblicare sul sito dell'Inps il carteggio interno riguardante le segnalazioni dell'ex dipendente del futuro gruppo Gedi.
Scriveva il sindacato: «Se l'obiettivo di Boeri era di smarcarsi da eventuali accuse di ritardi nella trasmissione agli uffici competenti delle informazioni ricevute [], le mail pubblicate di certo non lo aiutano. Innanzitutto il presidente non ha sentito il bisogno di coinvolgere da subito il direttore generale, che è il responsabile della gestione dell'Inps.
Il carteggio è cominciato il 10 maggio di quest' anno (2016, ndr) e Cioffi (Massimo, l'allora dg, ndr) ne viene a conoscenza solo il 4 luglio, perché» Sabatini «gli gira per conoscenza una mail indirizzata al presidente, che lo aveva incaricato di approfondire la vicenda. Bisogna arrivare al 12 agosto perché siano interessate (anche questa volta dal dc degli ammortizzatori sociali, ndr) della vicenda le direzioni centrali Entrate, Pensioni, Vigilanza e Informatica».
Nelle settimane successive, il direttore generale Cioffi dà indicazione di coordinare l'attività ispettiva con il ministero del Lavoro, all'epoca guidato dal renziano Giuliano Poletti. Nel comunicato il sindacato evidenzia che ci vollero ben cinque mesi perché dall'Inps partisse una lettera indirizzata al dicastero di via Veneto, quello che autorizza le Cigs. «Perché tanto ritardo?», si chiedevano i sindacalisti, intravedendo «molte zone d'ombra».
A loro giudizio Boeri nelle mail invitava Sabatini «ad approfondire, ad andare fino in fondo alla vicenda», ma al tempo stesso non ravvisava quali potessero «essere le violazioni». Per questo si domandavano: «Ma è regolare demansionare a quadri dei dirigenti d'azienda per poter usufruire di prepensionamenti a carico della collettività?». E aggiungevano: «Se le circostanziate accuse dell'ex dipendente del gruppo Espresso (oggi Gedi, ndr) sono veritiere, siamo di fronte a illegittimità che vanno sanzionate».
Interrogativi accompagnati da una frecciata finale: «Il conflitto d'interessi a carico di Boeri è fuori discussione. Legato professionalmente al gruppo editoriale che fa capo a De Benedetti, il presidente dell'Inps si trova nella necessità di dover indagare su presunte illegittimità commesse da quel gruppo e a niente vale scaricare la patata bollente sul ministero del Lavoro». Cinque anni dopo, in modo un po' ardimentoso, Boeri si vuole prendere tutti meriti del sequestro alla casa editrice per cui scrive.
Fabio Amendolara e François De Tonquédec per “La Verità” il 4 settembre 2022.
Le brutte notizie per il gruppo Gedi non finiscono mai. Mentre i suoi giornalisti sono impegnati a cercare di esorcizzare la vittoria annunciata della destra alle prossime elezioni, la magistratura è pronta a chiedere il rinvio a giudizio per i suoi dirigenti e per la stessa società.
La Procura di Roma ha notificato nelle ultime settimane avvisi di chiusura delle indagini a decine di dipendenti o ex dipendenti di Gedi, editore, tra gli altri, della Repubblica, della Stampa e del Secolo XIX, quando era guidato dalla famiglia De Benedetti (sino a fine 2019, quando è stato ceduto alla Exor della famiglia Agnelli-Elkann).
Le accuse sono pesantissime ed erano state anticipate tra dicembre e gennaio da questo giornale: si va, a vario titolo, dalla truffa aggravata ai danni dello Stato per aver indotto in errore l'Inps, all'accesso abusivo a sistema informatico alla responsabilità amministrativa da reato (per cinque aziende della holding), ai sensi del decreto legislativo 231.
Per «massimizzare i profitti» l'azienda avrebbe mandato in pensione dipendenti che non ne avevano diritto, anche sotto i 55 anni. Il 9 dicembre scorso il gip di Roma Andrea Fanelli, ha ordinato di «congelare» il presunto corpo del reato ovvero l'illecito profitto che Gedi avrebbe conseguito grazie all'abbattimento del costo del personale quantificato dai pm in 38,9 milioni di euro.
Denari che il giudice ha fatto cercare nelle casse di Gedi (12,8) e di altre aziende della holding (la concessionaria pubblicitaria Manzoni -8,7-; Elemedia -3,6; Gedi news network -6,4-; Gedi printing -7,4-). All'epoca il gruppo ha aperto in tutta fretta un conto ad hoc per evitare l'aggressione ai beni immobili dei quattro principali indagati: l'ex ad del gruppo Monica Mondardini (attuale amministratore delegato del gruppo Cir), il capo delle risorse umane Roberto Moro, il suo vecchio vice Romeo Marrocchio (poi passato al Sole 24 ore), il direttore generale della divisione Stampa nazionale Corrado Corradi (ora, stando al suo profilo Linkedin, ad e direttore generale di Gedi news network).
Nel decreto di sequestro erano elencati i 101 indagati (due nel frattempo erano deceduti), tra presunti prepensionati a sbafo (80, compresi 16 dirigenti), manager accusati di truffa (17), sindacalisti ritenuti complici (almeno sei, per lo più della Cgil), funzionari Inps sospettati di infedeltà (due) e altre figure minori (due). Dall'avviso di chiusura delle indagini si capisce che le accuse non sono cambiate e adesso tutti i personaggi coinvolti rischiano il processo. Dopo aver ricevuto la notifica gli indagati hanno tempo 20 giorni per farsi interrogare o presentare memorie.
Ma visto il periodo estivo i termini si sono allungati. Al termine di tutte le notifiche il procuratore aggiunto Paolo Ielo e il pm Francesco Dall'Olio chiederanno, salvo cataclismi, il rinvio a giudizio per la maggior parte delle persone coinvolte.
Le frodi sarebbero state, stando alla ricostruzione degli inquirenti, fondamentalmente quattro: fittizi demansionamenti di dirigenti a quadro per fargli ottenere i requisiti previsti dalla normativa di settore per i prepensionamenti; illeciti riscatti di annualità (a spese dell'azienda) asseritamente lavorate, per le quali non risultavano i relativi versamenti contributivi (i libretti di lavoro sarebbero stati truccati); utilizzo come collaboratori esterni, nelle stesse società del gruppo, di dipendenti prepensionati in quanto falsamente indicati come esuberi; trasferimenti di personale eseguiti (in svariati casi solo «cartolarmente») per poter accedere «indebitamente» agli scivoli previsti per la sede/società di destinazione.
Nello specifico, «le investigazioni della polizia giudiziaria», sostiene l'accusa, avrebbero consentito di raccogliere «gravi indizi» nei confronti di 83 presunte posizioni illecite, così distinte: 16 dirigenti fittiziamente demansionati; 44 dipendenti che hanno illecitamente riscattato periodi contributivi; 20 dipendenti fittiziamente trasferiti/transitati; tre dipendenti prepensionati che hanno continuato il rapporto di lavoro come collaboratori esterni.
L'innesco ai prepensionamenti considerati illeciti era stato raccontato agli inquirenti da Michela Marani, responsabile del controllo di gestione del gruppo: «Intorno al 2007/2008, in concomitanza con una progressiva riduzione dei margini del gruppo, gli azionisti De Benedetti (ingegner Carlo e Rodolfo) hanno chiesto all'allora vertice aziendale [] di individuare una serie di interventi, prevalentemente sui costi, volti a preservare la marginalità del gruppo». La decisione finale «di procedere con i prepensionamenti veniva presa direttamente», sempre secondo la teste, «dalla Mondardini».
E in occasione della discussione finale del documento di budget, raccontò la testimone, «era presente anche la proprietà». In quell'occasione sarebbe stato illustrato l'intero piano di ristrutturazioni: compresa la parte sulla riduzione del costo del lavoro, compresi i prepensionamenti. Ma i De Benedetti, che non risultano indagati, non sarebbero stati messi a conoscenza degli escamotage illeciti.
Per i magistrati a inchiodare la Mondardini ci sarebbe un'intercettazione ambientale del 12 luglio 2018, captata all'interno di un ristorante romano. Al tavolo, oltre all'ex ad di Gedi, ci sono anche il direttore generale Corradi, il capo del personale Moro e l'ex direttore di Repubblica Ezio Mauro. L'analisi degli investigatori è questa: «È sembrata proseguire la direzione, di fatto, del gruppo Gedi, da parte della Mondardini, eseguita per il tramite del direttore generale Corradi e del responsabile delle risorse umane Moro, anche dopo la nomina del nuovo amministratore delegato Laura Cioli». È Mondardini a raccontare la genesi del parere pro veritate redatto dal professor Arturo Maresca e depositato insieme alle memoria difensiva di Gedi e della stessa Mondardini.
Stando a quanto riportò ai commensali Mondardini, Maresca avrebbe affermato: «Dottoressa questi sono artifizi... alcuni sono artifizi... perché voi dovevate trasferirli fisicamente». Mondardini continuò a raccontare come si svolse la conversazione con il prof: «Gli ho detto: professore, la magistratura prudente, a tal punto che se non c'è proprio nulla... mobilitano 103 finanzieri?».
E sempre riferendosi alla chiacchierata con Maresca, aggiunse: «Si siede e mi dice: "Beh certo dottoressa, bisognerebbe dimostrare che tutto questo personale sia trasferito". Ho detto: "Perché, lei crede che io sarei qui se fossero trasferiti realmente?"». Parole che devono essere apparse agli inquirenti come una confessione.
Giacomo Amadori e François De Tonquédec per "La Verità" il 4 Gennaio 2022. Al gruppo Gedi sono stati presi in contropiede dal sequestro preventivo del valore di circa 38 milioni di euro ordinato dalla Procura di Roma. Questo nonostante il 21 marzo 2018 avessero subìto una perquisizione e nel decreto fosse già chiaro dove sarebbe andata a parare l'inchiesta per truffa aggravata ai danni dell'Inps.
Alcuni giornali (tra cui La Verità) raccontarono con precisione la vicenda. Scrissero che il danno presunto per l'ente previdenziale era di una trentina di milioni e spiegarono che decine di dirigenti, durante le ristrutturazioni all'interno del gruppo e della concessionaria pubblicitaria Manzoni, erano stati retrocessi a quadri in modo che potessero andare in cassa integrazione e successivamente essere prepensionati a spese dell'Inps.
Ma nel bilancio 2020 di Gedi, depositato nel maggio 2021, c'è un riferimento all'indagine della Procura di Roma, in cui si spiega perché, tre anni dopo la perquisizione, non fosse ancora stato predisposto nessun tipo di accantonamento.
Nella nota Gedi ammette di essere stata informata il 21 marzo 2018 «dell'esistenza di un procedimento penale» per l'ipotesi di truffa aggravata in concorso «nei confronti dell'amministratore delegato pro tempore, del direttore centrale delle Risorse umane e del direttore generale Stampa nazionale», nonché della contestazione nei confronti della società e di alcune delle controllate della responsabilità amministrativa ai sensi della legge, «a seguito di illecito commesso da persone fisiche nell'interesse o a vantaggio dell'ente».
L'appunto prosegue: «L'indagine condotta dalla Procura di Roma riguarda una presunta truffa ai danni dell'Inps in relazione all'accesso, asseritamente irregolare, da parte di alcuni dipendenti nel periodo fra il 2012 e il 2015, alla cosiddetta Cigs (Cassa integrazione straordinaria, Ndr) finalizzato al prepensionamento».
Ma Gedi spiega anche perché non abbia messo da parte un tesoretto per coprire eventuali sequestri e confische: «Nella convinzione di aver sempre agito nel rispetto della normativa vigente, circostanza che risulta corroborata anche da verifiche interne finalizzate all'esame del rispetto dell'iter procedurale previsto dalla normativa di riferimento e da un autorevole parere legale giuslavorista, la società rappresenta che allo stato attuale non si trova per ragioni oggettive nelle condizioni di potere valutare né le specifiche condotte che asseritamente integrerebbero le ipotesi di reato, né il numero degli ex dipendenti che avrebbero avuto illegittimamente accesso al pensionamento anticipato, né conseguentemente l'eventuale danno erariale risarcibile.
Non risultano, infatti, pervenuti atti giudiziari e/o notifiche integrative o modificative di quelle ricevute in data 21 marzo 2018. Tale situazione rende pertanto allo stato impossibile la valutazione del grado di rischio e la conseguente quantificazione dello stesso».
I 38 milioni «congelati» su ordine degli inquirenti capitolini si vanno a sommare a un monte di debiti: 135,7 milioni di euro nel bilancio 2020, in forte crescita rispetto al precedente, che vedeva Gedi in rosso per 106,2 milioni. La fetta più consistente dell'indebitamento, che ammonta a 89,7 milioni, è verso «imprese del gruppo», a fronte degli 80,7 dell'anno precedente. I debiti in conto corrente verso le banche sono di 39,7 milioni, mentre nel 2019 erano di 19,5. Numeri che potrebbero consentire ai pm di fare istanza di fallimento.
L'immobilismo di Gedi è forse collegato al fatto che per quasi 4 anni (dal marzo 2018 al dicembre 2021) l'indagine sembrava finita nel dimenticatoio. Il decreto legislativo 231 del 2001 prevede che gli illeciti amministrativi delle società si prescrivano dopo 5 anni dalla commissione dei fatti.
Tuttavia il reato non si estingue se, nel frattempo, vengono applicate misure cautelari interdittive o se le persone fisiche che sono accusate del reato presupposto (cioè quello che costituisce la premessa della contestazione alla società) vengono mandate alla sbarra. Il reato di truffa si prescrive in 7 anni e mezzo e per questo, se non ci sarà il rinvio a giudizio entro la prima metà del 2022, il procedimento rischia di finire nel nulla, con conseguente restituzione delle somme sequestrate.
Sarà per questo che nel bilancio del 2020 Gedi aveva precisato, a proposito della ipotizzata responsabilità amministrativa, che «a tutt' oggi non è stato formalizzato alcun atto nei confronti delle società o di attuali amministratori e dipendenti delle stesse». Anche in caso di prescrizione all'Inps resterà, però, la possibilità di agire in sede civile per avere ristoro dei danni patiti.
In una lettera, scritta nel novembre 2016 dall'allora direttore generale dell'Inps, Massimo Cioffi, e indirizzata al ministero del Lavoro, erano sintetizzate le ipotesi di irregolarità commesse dal management di Gedi, che sono poi diventate oggetto dell'indagine della Procura capitolina. Nel documento Cioffi spiega che «le segnalazioni riguardano il gruppo editoriale L'Espresso (oggi Gedi, ndr) e nello specifico la società Manzoni Spa (concessionaria del gruppo).
L'azienda, secondo queste segnalazioni, avrebbe posto in essere due operazioni di ristrutturazione, la prima conclusasi nel 2012 e la seconda nel 2015, gestendo nel contempo 117 esuberi, attraverso l'assunzione di personale che aveva maturato requisiti di anzianità (30/35 persone) nei mesi precedenti la richiesta dello stato di crisi, personale proveniente da tutte le società appartenenti al medesimo gruppo e, in taluni casi, proveniente dall'esterno rispetto alle stesse aziende del gruppo».
Quindi aggiungeva: «Viene, altresì, segnalato che il trasferimento nell'azienda beneficiaria dei trattamenti di Cigs e successivo prepensionamento non era sempre realmente avvenuto». Nella nota Cioffi elenca anche i decreti del direttore generale del ministero del Lavoro che hanno scandito la gestione delle crisi, 7 per la Manzoni e 12 per Gedi.
I decreti a favore della «ristrutturazione» della Manzoni attraversano tre governi: tre con Monti (gennaio 2012-aprile 2013), uno con Letta (dicembre '13), tre con Renzi (aprile '14-ottobre '15). Quelli riguardanti Gedi vengono firmati durante gli stessi gabinetti: due con Monti (febbraio-luglio '12), tre con Letta (maggio-dicembre '13), sei con Renzi (giugno '14-maggio '16). Nel database dell'Inps, nei periodi delle ristrutturazioni aziendali, per la Manzoni risultano 372 «comunicazioni Unilav», che, spiega il sito del ministero, riguardano «instaurazione, proroga, trasformazione, cessazione di un rapporto di lavoro», mentre quelle per Gedi sono 290.
Cioffi conclude: «Dalla documentazione sopra enumerata, pertanto, risulta evidente, per entrambe le aziende, la presenza di un rilevante numero di assunzioni nel periodo precedente l'adozione dei decreti di Cigs e successivo prepensionamento. Eventuali profili di elusione delle norme sarebbero comunque da accertare con una più articolata e dettagliata indagine ispettiva».
La missiva di Cioffi arrivò al ministero del Lavoro, all'epoca guidato dal renziano Giuliano Poletti. Successivamente ci fu una riunione al dicastero con quattro dirigenti dell'Inps. Che compilarono un'accurata nota. Secondo l'appunto il direttore generale del ministero Ugo Menziani avrebbe, «in via preliminare», rimarcato «con fermezza il preminente ruolo del ministero del Lavoro, in quanto organo vigilante sull'Istituto (l'Inps, ndr)» nell'«azione di vigilanza» e avrebbe «fatto presente che le verifiche, aventi cadenza semestrale [] compiute sul gruppo Manzoni/Espresso []» sino a quel momento «non avevano fatto emergere anomalie». Irregolarità, invece, riscontrate dalla procura di Roma.
Giacomo Amadori per "La Verità" il 5 gennaio 2022. L'inchiesta sui prepensionamenti dei dirigenti di Gedi potrebbe presto diventare una piccola bomba sociale. Infatti la Procura di Roma, dopo aver ordinato il sequestro preventivo di oltre 30 milioni di euro al gruppo editoriale di proprietà degli Agnelli, sarebbe pronta a prelevare all'incirca la stessa somma anche agli ex dipendenti che sarebbero, secondo gli inquirenti, andati in pensione senza averne diritto.
Una presunta truffa ai danni dello Stato aggravata dal numero dei partecipanti e dall'entità del danno patrimoniale. Nel fascicolo sarebbe contestato ad alcuni indagati anche l'accesso abusivo a sistema informatico.
La cifra congelata all'azienda corrisponde all'ipotizzato illecito profitto garantito dal non aver dovuto pagare per anni lauti stipendi e contributi ai manager, prima demansionati e anche trasferiti (a volte fittiziamente) in aziende del gruppo che usufruivano della Cigs (cassa integrazione guadagni straordinaria), quindi prepensionati.
Ma sarebbe pronto un ulteriore provvedimento di sequestro nei confronti dei dipendenti che hanno usufruito della Cigs e percepito pensioni illegittime. La Guardia di finanza starebbe completando i calcoli per stabilire a quanto ammontino esattamente gli assegni erogati a partire a partire dal 2012 a decine di dipendenti di Gedi e in particolare della controllata concessionaria pubblicitaria Manzoni.
Tra il 2012 e il 2015 il gruppo realizzò due costose (per lo Stato) ristrutturazioni aziendali, quando la proprietà era in mano alla famiglia De Benedetti e il presidente era l'ingegner Carlo. Nel 2020 la casa editrice è passata agli Agnelli. In base alle ultime stime la truffa ammonterebbe a circa altri 30 milioni di euro. Basti pensare che ci sono pensionati che percepiscono 7.000 euro al mese.
Fonti della Verità riferiscono che le persone finite nel mirino sono una settantina e che buona parte di queste rischiano di subire il prelievo forzoso. Gli ex dipendenti ritenuti consapevoli dell'uso distorto degli ammortizzatori sono stati iscritti sul registro degli indagati, come detto, per il concorso nella truffa aggravata.
Si tratterebbe in particolare di ex dirigenti demansionati, ma dovrebbero far parte della lista nera anche i lavoratori che hanno riscattato periodi contributivi in modo illecito.
Gli investigatori inizieranno a sentire i pensionati sotto inchiesta nei prossimi giorni. A ognuno di loro verrà sequestrata la quota percepita dell'intera somma erogata, ma qualora questi non fossero capienti, gli inquirenti sarebbero pronti a cercare il denaro sottratto indebitamente allo Stato sui conti di coloro i quali hanno stipulato gli accordi per i prepensionamenti, che verrebbero obbligati in solido.
Stiamo parlando dei manager Gedi (almeno tre sono indagati) e dei sindacalisti che hanno firmato gli accordi per i prepensionamenti, conoscendone bene la sostanza. Come fa chi difende i diritti dei lavoratori ad accettare un demansionamento del proprio assistito? È stata seguita la procedura di conciliazione davanti all'ispettorato del lavoro, passaggio praticamente obbligato quando un dipendente va a stare peggio?
Se ciò non fosse accaduto sarebbe l'ulteriore prova di un patto scellerato tra azienda, sindacato e lavoratori. Del resto se accettare di essere «degradati» per mantenere il posto in un'azienda in crisi è comprensibile, farsi trasferire (a volte solo sulla carta) da società sane a ditte in difficoltà e declassare per poter usufruire della cassa integrazione e della pensione anticipata è considerato dagli inquirenti un gesto di correità.
Rischiano qualcosa anche i dirigenti Inps che hanno ratificato l'accordo ed erogato le pensioni. Non è chiaro se a livello penale o erariale nel caso in cui la Corte dei conti dovesse riconoscere un danno alle casse dell'Inps causato da dolo o colpa grave.
Ricordiamo che nell'aprile 2012 all'Inps arriva la prima denuncia anonima sul presunto comportamento scorretto di alcuni manager dell'Istituto, i quali avrebbero inserito contributi mai versati a favore di dipendenti del gruppo L'Espresso, all'epoca guidato dalla famiglia De Benedetti, per favorirne il prepensionamento.
Dopo diversi solleciti da parte delle direzioni centrali competenti l'allora direttore regionale del Lazio, Gabriella Di Michele, rispose che «il controllo effettuato a livello amministrativo sulle posizioni dei dipendenti del gruppo l'Espresso è risultato regolare e, pertanto, non sembrano esserci elementi tali da suffragare la segnalazione anonima».
Anche il direttore generale degli ammortizzatori del ministero del Lavoro Ugo Menziani nel novembre 2016 avrebbe fatto presente, a detta di quattro dirigenti dell'Inps, durante una riunione sul tema, che «le verifiche, aventi cadenza semestrale [] compiute sul gruppo Manzoni/Espresso []» sino a quel momento «non avevano fatto emergere anomalie».
Successivamente la vigilanza di Inps e Inail sono confluite nell'ispettorato del lavoro ed è stato proprio quest' ultimo a dare il via all'inchiesta inviando un'informativa alla Procura in cui denunciava l'ottenimento da parte dei dirigenti di Gedi e Manzoni del beneficio del prepensionamento mediante la fruizione di periodi di Cigs nel settore dell'editoria (non spettante alla categoria dei dirigenti) mediante «l'artificioso demansionamento a livello di "quadro"».
Le indagini sono state condotte proprio con il supporto dell'ispettorato e hanno fatto emergere irregolarità relative anche ad altri dipendenti «trasferiti/transitati da sedi/società del gruppo non aventi diritto al particolare ammortizzatore sociale a sedi/società beneficiarie dello stesso».
Il 21 marzo 2018 uomini del Nucleo di polizia economico-finanziaria della Guardia di finanza hanno eseguito decreti di sequestro di documentazione presso le sedi di nove società appartenenti o appartenute al gruppo Gedi, nonché presso due sedi dell'Inps di Roma.
Le attività vennero eseguite a Milano, Livorno, Udine, Bolzano e nella Capitale. Successivamente i militari hanno proceduto al sequestro di ulteriore documentazione presso la sede capitolina del gruppo Gedi e ha notificato un ordine di esibizione finalizzato all'acquisizione presso gli uffici del ministero del Lavoro e delle politiche sociali di documentazione utile alla prosecuzione delle indagini.
In tale occasione le Fiamme gialle non diramarono nessuna comunicazione agli organi di stampa, una decisione del tutto inusuale.
A quanto risulta alla Verità la notizia venne gestita a livello mediatico direttamente dalla Procura (all'epoca guidata da Giuseppe Pignatone, mentre il fascicolo era ed è rimasto in mano all'aggiunto Paolo Ielo e al pm Francesco Dall'Olio) e, dopo le perquisizioni del marzo 2018, uscirono solo pochi e sintetici lanci di agenzia. Il decreto di sequestro non circolò nelle redazioni. La palla fu lasciata a Gedi costretta a diffondere una nota essendo allora società quotata in Borsa.
Ma alla vigilia di questo Natale è andata persino peggio: non solo non sono stati diffusi comunicati riguardanti il sequestro preventivo monstre di oltre 30 milioni di euro, ma non è uscita neppure un'indiscrezione, sino allo scoop della Verità del 31 dicembre.
Nulla di nulla. E questo buco nero informativo non è addebitabile solo alla riforma Cartabia che obbliga le Procure a contingentare le informazioni da dare ai giornali, visto che nelle stesse ore sui media sono apparse cronache dettagliate su altri sequestri.
Qui al contrario è complicato persino risalire alla data in cui sia stato eseguito il sequestro. Fonti qualificate riferiscono che sarebbe avvenuto il 18 o il 19 dicembre. Ma si trattava di un week end. Se fosse vero ci troveremmo di fronte a un'altra scelta singolare. Perché la Procura di Roma è così blindata sul sequestro milionario a un potente gruppo editoriale?
C'entrerà quel Sistema descritto dall'ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati Luca Palamara nel suo libro? Leggiamone un passo: «Magistrati e giornalisti - lo dico anche per esperienza personale - si usano a vicenda, all'interno di rapporti che si costruiscono e consolidano negli anni.
Il giornalista vive di notizie, ogni testata ha una sua linea politica dettata dall'editore, che ha precisi interessi da difendere. Il pm li conosce bene, e sa che senza quella cassa di risonanza la sua inchiesta non decollerà, verrebbe a mancare il clamore mediatico che fa da sponda con la politica». Fatto sta che la notizia sul gruppo Gedi è stata oscurata. Ma il black out del sistema informativo si potrebbe spiegare anche diversamente.
La risposta è forse in un nostro articolo dell'ottobre del 2018, quando svelammo che l'audit interno dell'Inps aveva preparato una relazione conclusiva sul danno provocato all'istituto dall'erogazione di circa 3,8 milioni di euro di assegni pensionistici non dovuti a ex poligrafici e altri lavoratori del settore editoriale con la complicità di una decina di funzionari dell'ente.
E l'indagine aveva coinvolto non solo dipendenti del gruppo Gedi, ma anche di altre testate. Inoltre nel 2016 la Dg dell'Inps Di Michele aveva condizionato il proprio benestare a una relazione destinata al ministero del Lavoro sul caso Gedi all'allargamento dell'ispezione agli altri gruppi editoriali.
Partirono così le verifiche istruttorie per Sole24ore e Rcs che non sappiamo, però, se abbiano portato all'apertura di fascicoli penali. Ma il rischio che il sistema dei prepensionamenti illeciti non coinvolga solo il gruppo Gedi è un'ipotesi avvalorata dalla cappa di silenzio che i principali organi d'informazione hanno fatto calare sulla notizia del sequestro.
Fabio Amendolara e François de Tonquédec per la Verità il 6 gennaio 2022. C'è un documento riservato trasmesso nel 2016 dall'allora Dg dell'Inps Massimo Cioffi al ministero del Lavoro che, già cinque anni fa, svelava artifici della truffa ai danni dello Stato contestata dalla Procura di Roma al gruppo editoriale Gedi. In quel documento, salvato come «Nota informativa su Cigs e prepensionamenti Gruppo editoriale L'Espresso», insieme alla ricostruzione di tutte le segnalazioni arrivate all'istituto, erano contenute le storie di sette dirigenti della casa editrice, in particolare del comparto radiofonico e della concessionaria pubblicitaria, la Manzoni. Quello che sconcerta è che questi manager, alcuni dopo essere stati trasferiti da società sane a società in crisi e dopo essere stati demansionati per poter usufruire della cassa integrazione, sono stati mandati ai giardinetti (si fa per dire) con la qualifica di grafico, una delle categorie nel settore editoriale più facilmente rottamabili. I sette sono andati tutti in pensione tra i 53 e i 61 anni, ma con una maggioranza di cinquantenni (due avevano 55 anni, uno 57 e uno 58).Insomma un bel giochino per scaricare sulle casse dello Stato i costi dei dirigenti assunti dall'azienda all'epoca guidata dalla famiglia De Benedetti.
Oggi a pagare il conto sono gli Agnelli: infatti la Procura ha sequestrato al gruppo Gedi oltre 30 milioni di euro ai sensi del decreto legislativo 231 del 2001, quella che punisce la responsabilità amministrativa delle società. La cifra congelata all'azienda corrisponde all'ipotizzato illecito profitto garantito dal non aver dovuto pagare per anni lauti stipendi e contributi ai manager, prima demansionati e anche trasferiti (a volte fittiziamente) in aziende del gruppo che usufruivano della Cigs (cassa integrazione guadagni straordinaria), quindi prepensionati.
Il recupero. Ma presto potrebbero pagare il conto proprio i prepensionati a cui la Procura è pronta a sequestrare le somme illecitamente percepite. E per loro si tratterebbe di un vero è proprio salasso.
C'è, infatti, chi intasca da anni assegni da 7.000 euro al mese. Gli ex dipendenti ritenuti consapevoli dell'uso distorto degli ammortizzatori sono stati iscritti sul registro degli indagati per il concorso nella truffa in danno dello Stato aggravata dall'entità del danno patrimoniale.
La maggior parte dei prepensionati sotto inchiesta sono ex dirigenti «degradati», ma dovrebbero far parte dell'elenco anche i lavoratori che hanno riscattato periodi contributivi in modo ritenuto illecito.Ma vediamo le storie dei sette dirigenti finiti nella lista di Cioffi.Ad esempio, per A.R., nato nel 1958 e dipendente della Manzoni, la nota racconta che nel «flusso Uniemens (denuncia obbligatoria inviata mensilmente all'Inps dai datori di lavoro del settore privato che svolgono le funzioni di sostituti d'imposta, ndr)» risulta «nell'agosto 2011 un cambio di qualifica da dirigente a quadro che non risulta in Unilav».
Due anni dopo, nel 2013, l'uomo percepisce per una settimana, dal 24 al 31 agosto, la Cigs. Dall'1 settembre, per A.R. entra il vigore il suo prepensionamento, chiesto «come grafico», che l'ex dirigente della Manzoni aveva richiesto il 6 agosto.Il Cda Per B.R., nata nel 1957, e che risulta anche essere stata, per un breve periodo, nel cda di Gedi e in quello della stessa Manzoni invece i tempi sono più stretti. Il cambio di qualifica, sempre da dirigente a quadro, risale al maggio 2014. Sei mesi dopo, il 14 novembre, l'ex consigliere di amministrazione ed ex dirigente presenta «domanda di prepensionamento come grafico», che viene accolta con decorrenza dal primo gennaio 2015. Ma il caso più curioso è forse quello di D.U., approdato alla Manzoni come quadro il primo maggio 2014, proveniente da un'altra società del gruppo, la Elemedia, che controlla le tre radio del gruppo Gedi: Radio capital, M2O e Radio deejay, dove sembra che l'uomo si occupasse di programmazione. D.U. è l'unico degli ex dirigenti a non aver ottenuto il prepensionamento. La nota di Cioffi infatti su di lui dice: «Ha percepito dal 21 maggio 2015 al 28 maggio 2015 (data di licenziamento) Cigs.
In data 26 febbraio 2015 ha presentato la domanda di prepensionamento come grafico, ma non è stata concessa». Se degli ex dirigenti citati finora non c'è traccia di curriculum disponibili in rete, gli altri invece raccontano la loro storia. A.S., classe 1960, dirigente Manzoni che dalla sua pagina Linkedin risulta laureato in economia, viene demansionato a quadro nel gennaio 2014, per poi andare in pensione anticipata, «come grafico», il primo luglio 2015, dopo aver trascorso i dieci giorni precedenti in Cigs. Per il periodo da quadro Manzoni il suo profilo Linkedin non riporta nessun incarico, con un salto dal precedente incarico dirigenziale, che risulta terminato a dicembre 2013, a quello successivo al pensionamento anticipato.
A soli 53 anni, essendo nato nel 1960. E forse non è un caso se, pur formalmente pensionato, l'uomo è l'unico che risulta essersi ricollocato rapidamente come manager. Secondo il social network infatti A.S. risulta ricoprire, da settembre 2015 un incarico di Direttore relazioni esterne e istituzionali di un importante gruppo di centri scolastici dal modello educativo ispirato al pensiero di San Josemaría Escrivá, fondatore dell'Opus Dei. le Tracce social M.B. da Novara, invece, su Linkedin si presenta subito come «pensionato Inps» dal 2016.
Ha lasciato il mondo del lavoro come «grafico». Ma stando al profilo professionale che ha affidato alla rete è stato in Manzoni per 15 anni e 11 mesi. Era entrato nel 2000 nel colosso della pubblicità, dopo esperienze da credit manager alla Gft spa e alla Barilla. Sulla piattaforma per professionisti non risulta attivo da tempo. E ha solo 29 collegamenti.
Al pensionamento deve essersi ritirato, perché anche su Google non ha lasciato tracce. S. M., classe 1962, si presenta come consulente di vendita di Teamradio. L'esperienza precedente è nella Manzoni come direttore vendite (occupandosi di budget control dei piani di vendita, target di divisione e target forza di vendita.
Ma anche di accordi quadro centrali tra media e clienti). Sul suo profilo Linkedin dice di aver studiato economia alla Cattolica. Entrato in Manzoni nel 2009 (dalla quale è uscito come grafico), si è sempre occupato di pubblicità: dal 2006 al 2009 per la Publishare e prima ancora era direttore clienti di Radio e Reti. Nel 1996, con una socia e 2 milioni e mezzo di lire pro capite versati, ha aperto anche un'impresa, la New media sas con sede a Settimo Milanese. le conferenze M. S., 68 anni, già direttore commerciale della divisione Radio e Tv di Manzoni, nelle informazioni di Linkedin si presenta come in pensione. E omettendo che la fuoriuscita dal colosso pubblicitario è da grafico, dettaglia le sue esperienze professionali: «Entrato nel mondo del lavoro dopo il diploma e il servizio militare sin dal primo incarico nella rete di vendita».
Dopo sette anni è già direttore commerciale di Sper, concessionaria radio del Gruppo Espresso (poi sostituita da Manzoni). Poi in Spe e Radio e reti, per rientrare in Manzoni nel 2009 come direttore commerciale per Radio e Tv. Ma alla fine scrive: «Dopo una breve parentesi come amministratore delegato di Publishare (storica e importante venditrice di spazi pubblicitari delle Tv locali italiane che trionfò con Michele Santoro, ndr), oggi in pensione». Anche se per l'Inps è un grafico pensionato, va in giro per accademie per conferenze e per incontrare gli studenti. Per i suoi 30 anni di storia tra le radio, ha tenuto una conferenza su «vita e opere di un direttore commerciale radiofonico». Nel frattempo ha avuto il tempo di aprire e chiudere ben due società: la Max media sas e la Gamma media.
E ha fatto parte di altre quattro imprese: la Audiradio srl, la C&g srl, la Gamma media pubblicità e la Publishare. Contattato dalla Verità, ha spiegato di aver «sottoscritto gli accordi nelle sedi competenti». Poi, seccato, ha chiuso il discorso: «Preferisco non parlarne».
Dago FLASH il 6 gennaio 2022. CARLO DE BENEDETTI, IN MERITO ALLA VICENDA INPS, COMUNICA A DAGOSPIA CHE "NON AVEVA DELEGHE OPERATIVE ED ERA TOTALMENTE ESTRANEO ALLA VICENDA, DI CUI VENNE A CONOSCENZA SOLO DOPO LA VISITA ISPETTIVA"
Giacomo Amadori per "La Verità" il 7 gennaio 2022. Le indagini presso il gruppo editoriale Gedi (che hanno portato a un sequestro preventivo da oltre 30 milioni di euro) sono una sorta di progetto pilota che presto sarà seguito da ulteriori accertamenti da parte degli specialisti dell'Inps e dell'Ispettorato nazionale del lavoro (Inl) in altri gruppi editoriali, a partire da Rcs e gruppo Sole 24 ore.
Del resto le investigazioni della Procura capitolina sono partite nel 2018 proprio da una segnalazione dell'Inl che aveva riscontrato un'ipotetica truffa ai danni dello Stato aggravata dall'entità del danno patrimoniale per decine di prepensionamenti e accessi alla Cassa integrazione guadagni straordinaria (Cigs), attraverso trasferimenti e demansionamenti fittizi, di cui approfittarono una ventina di dirigenti e una cinquantina di dipendenti che non avevano diritto al beneficio.
Alla vigilia delle feste natalizie, a quattro anni dalle prime perquisizioni in nove aziende del gruppo, il Gip ha autorizzato il congelamento del tesoretto. Adesso potrebbe arrivare la richiesta di rinvio a giudizio per i dirigenti Gedi che risultano indagati. I nomi di tre di loro sono stati confermati alla Verità nei giorni scorsi: si tratta del direttore delle risorse umane Roberto Moro, del capo della divisione Stampa nazionale Corrado Corradi e dell'ex amministratore delegato Monica Mondardini, rimasta con la famiglia De Benedetti come ad della Cir Spa dopo che Gedi è stata ceduta alla Exor degli Agnelli.
Gli inquirenti dovrebbero a breve iniziare a interrogare gli ex lavoratori considerati complici della presunta truffa e sequestrare loro le pensioni illecitamente percepite.Fonti interne dell'Inps ci riferiscono che l'istituto e l'Inl stanno attendendo la conclusione delle indagini preliminari sui presunti imbrogli di Gedi e alla fine di questa fase di osservazione, quando la situazione sarà più definita, dovrebbero partire ulteriori ispezioni su Milano, e Torino nei confronti di altre case editrici, come Rcs (che edita, tra le altre testate, Il Corriere della sera) e il Sole 24 Ore.
Il nuovo capitolo si aprirà nel 2022, quando gli ispettori avranno cognizione di quali saranno stati gli ulteriori accertamenti effettuati dalla Procura e dalla Guardia di finanza e quindi avranno ulteriori elementi per fare controlli ancora più mirati, anche in considerazione delle contestazioni che avranno trovato accoglimento in Tribunale.
Con un precedente tanto significativo e il conseguente ulteriore bagaglio di conoscenze gli ispettori andranno nelle varie aziende a prendere visione della documentazione d'interesse, di quelle che una fonte definisce «le carte giuste». In questa fase due se gli ispettori riscontreranno reati avranno l'obbligo di segnalarli alle Procure eventualmente interessate, altrimenti concluderanno il lavoro con un verbale di addebito laddove saranno riscontrate (quasi sicuramente, ci dicono, alla luce dei controlli preliminari) delle irregolarità dal punto di vista contributivo.
Ieri Il Fatto quotidiano ha annunciato che ci sarebbe già un fascicolo aperto sui prepensionati di Rcs a Milano. Ma le nostre fonti escludono che l'Inps abbia completato accertamenti in Lombardia e che quindi abbia fatto segnalazioni in Procura, che vengono trasmesse solo all'esito delle ispezioni. Anche dalla Finanza hanno confermato che non ci sarebbero fascicoli su Rcs. Il procuratore meneghino facente funzioni Riccardo Targetti ha chiuso il discorso in serata: «Ho controllato con i miei aggiunti. Allo stato non c'è nessun procedimento contro noti o ignoti, né nessuna indagine in corso su Rcs. Non posso escludere che ci sia da qualche parte un esposto parcheggiato a modello 45, ma certo non c'è niente di operativo».
Anche perché Inps e Inl non hanno trasmesso i loro accertamenti. Le indagini sui prepensionamenti che hanno portato al sequestro milionario di dicembre sono partite da una mail arrivata all'Inps nel maggio del 2016.
Allora G. D., controller di Elemedia, la società che raggruppa le emittenti radiofoniche del gruppo Gedi scrive all'allora presidente dell'Inps Tito Boeri questa mail: «Poniamo per assurdo che qualche azienda nel paese dei furbi dicesse che ha oggi 3 esuberi di personale, però 1 dei 3 è stato assunto ieri proprio per poter usufruire di vantaggiosissimi ammortizzatori sociali, qualcosa del tipo pensione anticipata o cassa integrazione. Guarda caso questo assunto ieri, arriva (ironia della sorte?) da una azienda perfettamente in utile dello stesso gruppo. Questa potrebbe essere considerata una truffa?».
Quattro anni prima un anonimo aveva segnalato altre anomalie, ma l'allora direttore dell'Inps della Lazio, Gabriella Di Michele, aveva riferito che «il controllo effettuato a livello amministrativo sulle posizioni dei dipendenti del gruppo L'Espresso (oggi Gedi, ndr) è risultato regolare e, pertanto, non sembrano esserci elementi tali da suffragare la segnalazione anonima».
Ma torniamo a G. D.. Un mese dopo la sua prima mail svela a Boeri che la sua ipotesi «per assurdo» è ben radicata nella realtà: «Presto farò formale esposto alla Guardia di finanza, ma sono fiducioso che lei farà le dovute verifiche e che procederà senza esitazione, a differenza di quanto ha fatto la Cgil, per riportare giustizia».
Quando viene informato il Dg Massimo Cioffi ordina l'apertura di un tavolo tecnico sulla questione, che viene avviato a settembre; i dirigenti coinvolti decidono di informare il ministero del Lavoro subito dopo aver fatto partire l'ispezione. A novembre, di fronte alla bozza di relazione da inviare al governo, tutti gli altri dirigenti coinvolti danno il loro assenso per iscritto tranne la Di Michele, la stessa del «controllo regolare» del 2012, la quale offre un «concordo» informale e condiziona il suo benestare a un allargamento dell'ispezione agli altri gruppi editoriali.
Cioffi accoglie la proposta di estendere l'attività. Dopo qualche giorno viene dato mandato ufficiale di controllare il gruppo L'Espresso, ma contestualmente partono le verifiche istruttorie nei confronti di Rcs e Sole 24 Ore.
Intanto ieri Carlo De Benedetti ha fatto sapere al sito Dagospia che ha ripreso i nostri articoli sull'affaire Gedi, che lui «non aveva deleghe operative ed era totalmente estraneo alla vicenda, di cui venne a conoscenza solo dopo la visita ispettiva». Come abbiamo già scritto, all'epoca dei fatti, De Benedetti era presidente di quello che allora si chiamava Gruppo editoriale L'Espresso (l'attuale denominazione risale al 2017, anno in cui, De Benedetti ha lasciato la presidenza al figlio Marco), ma nessuno lo ha mai coinvolto nella vicenda giudiziaria.
Ai figli De Benedetti aveva già ceduto, nel 2012, anche le quote di controllo delle attività di famiglia, gestite attraverso la Cir Spa. Infine ieri abbiamo raccontato alcune storie di manager della concessionaria pubblicitaria del gruppo Gedi demansionati e mandati in pensione come grafici. Su uno di questi ex dirigenti ci è arrivata una segnalazione anonima via email. D. U., approdato alla Manzoni come quadro il primo maggio 2014, proveniente da Elemedia, dove sembra che l'uomo si occupasse di programmazione radiofonica, è l'unico degli ex dirigenti a non aver ottenuto il prepensionamento nella tornata del 2015, quella sotto esame della Procura capitolina.
Ma stando all'anonimo, D.U. «non riuscì a uscire in quel prepensionamento, ma in quello successivo sì!». Quindi il nostro lettore commenta: «Diciamo che senza pudore è stato reinserito il suo nome nel prepensionamento dell'ottobre 2020». Il misterioso informatore aggiunge anche: «Adesso dico, se il suo trasferimento e contestuale demansionamento nel 2015 era una montatura, perché riprovarci nel 2020?». L'anonimo, che sembra avere le idee chiare, una risposta se l'è data: «Erano certi che sarebbe stato tutto insabbiato». Ipotesi che non si è verificata.
Fabio Amendolara e François De Tonquédec per “La Verità” il 10 gennaio 2022.
Cominciano a saltare fuori i primi nomi di chi risulta coinvolto nelle attività investigative sui prepensionamenti con demansionamento messi a punto dal gruppo Gedi. Tra questi ci sono personaggi di primo piano dell'azienda un tempo guidata dalla famiglia De Benedetti.
Gianni Dotta, per esempio, un tempo vicinissimo all'avvocato Gianni Agnelli: una vita trascorsa nel mondo dei giornali come manager. La Stampa, Il Secolo XIX, Il Tirreno e poi il gruppo editoriale L'Espresso. Sul sito web della Nexto, associazione che si occupa dello sviluppo sociale ed economico di Torino, si presenta come «consulente in ambito gestionale, organizzativo e della comunicazione».
Ma anche come «curioso della vita e del mondo, insaziabile lettore» e, infine, «velista». In foto si mostra in una posa da vero manager d'altri tempi, giacca scura e cravatta. Su Linkedin, invece, elenca le sue esperienze professionali che abbracciano un arco temporale che va dal 1978, quando era addetto alle relazioni sindacali della Fiat (probabilmente non un caso in questa storia), al 2013, quando è arrivato a ricoprire il ruolo da consigliere delegato del quotidiano Il Tirreno e altri incarichi nelle società del gruppo Espresso.
Contattato dalla Verità, dice subito di non aver ricevuto nulla che riguarda l'inchiesta. E se in prima battuta afferma che «non saprebbe cosa dire», alla fine taglia corto con un «non ho nulla da dichiarare sull'argomento».
Dotta adesso, come una altra ventina di manager del gruppo e una cinquantina di dipendenti, rischia di dover restituire la propria quota dei circa 30 milioni di euro che l'Inps avrebbe erogato in pensioni giudicate dai pm illegittime. Intanto, dalle carte recuperate dalla Verità, emerge che il piano del 2013 per i prepensionamenti all'interno della Manzoni, la concessionaria di pubblicità del gruppo, era stato benedetto da tutti i sindacati.
Il «verbale di accordo» sottoscritto al ministero del Lavoro il 5 agosto di quell'anno infatti oltre alla firma del rappresentante della società contiene anche quelle degli esponenti di «Slc Cgil, Fistel Cisl, Uilcom Uil nazionali», che approvarono «l'ammissione di un massimo di 53 unità lavorative al trattamento di pensionamento anticipato», riassunte in un piano che, per le sedi di Genova, Udine e Napoli, prevedeva l'esubero di tutto il personale.
L'inchiesta della Procura di Roma sta ricordando al mondo come i vertici del gruppo Gedi, progressisti e illuminati fuori, quando si trattava di confezionare Repubblica, Espresso e giornali locali come Il Tirreno e Il Piccolo di Trieste, fossero duri e spregiudicati dentro, quando si trattava di gestire i dipendenti con lo stesso piglio sabaudo di casa Fiat, da dove casualmente sono sempre arrivati tutti i top manager del gruppo editoriale fondato da Eugenio Scalfari e dal principe Carlo Caracciolo (cognato di Gianni Agnelli).
Un colosso finito prima nelle fauci di Carlo De Benedetti (1990) dopo la famosa guerra di Segrate con Silvio Berlusconi, per poi ritornare nelle mani degli Agnelli Elkann (fine 2019). L'inchiesta sui presunti falsi prepensionamenti svelata dalla Verità, costata alla Gedi il sequestro cautelativo di oltre 30 milioni, al momento riguarda solo il periodo 2012-2015, quando gli azionisti di riferimento del gruppo L'Espresso erano l'Ingegnere di Dogliani e i figli, il capo del personale era Roberto Moro, il direttore generale della divisione Stampa nazionale era Corrado Corradi, il capo della concessionaria di pubblicità Manzoni (che ha registrato gran parte dei prepensionamenti farlocchi) era Massimo Ghedini.
Moro e Corradi sono rimasti ai loro posti anche con il passaggio di Gedi alla Exor di John Elkann. Il capo del personale era entrato nel gruppo editoriale nel 2000, dopo 15 anni al personale della Fiat. Corradi era arrivato nel 1991 dalla Stampa di Torino. Entrambi, al pari di un altro uomo Fiat come Ezio Mauro, erano stati assunti dall'allora ad Marco Benedetto, a sua volta ex capo ufficio stampa della casa automobilistica e poi amministratore delegato del quotidiano torinese.
Benedetto è stato per anni non solo un mastino, ma anche un abile trait d'union tra Caracciolo e De Benedetti, diversissimi tra loro e con il primo accusato dal secondo di essere uno spendaccione troppo innamorato dei giornalisti. Benedetto, classe 1945, di editoria capiva parecchio, ma nel 2008 fu sostituito con un manager delle assicurazioni come Monica Mondardini, che era quindi il numero uno dell'Espresso all'epoca dei prepensionamenti e dei demansionamenti sospetti.
Chi tra il 2000 e il 2020 ha avuto l'ardire di fare il sindacalista nel gruppo ha sperimentato sulla propria pelle che cosa volesse dire trattare con manager forgiati alla scuola muscolare della Fiat di Cesare Romiti e nella palestra del sorridente cinismo dell'Avvocato.
Durante l'era in cui era la famiglia De Benedetti ad avere in mano le redini del gruppo editoriale, con la nomina della Mondardini, nonostante bilanci sempre in utile ci fu una raffica di prepensionamenti di manager, giornalisti, grafici, venditori di pubblicità. I sindacati interni avevano pochi spazi di manovra perché quando le vertenze s' inasprivano venivano immediatamente richiamati all'ordine dai loro vertici nazionali.
A cominciare, come ci ha rivelato un ex sindacalista del gruppo, da Franco Siddi, ex presidente della Fnsi, poi deputato del Pd e naturalmente giornalista del gruppo L'Espresso in perenne distacco sindacale. Oppure dai capi del sindacato dei poligrafici, la cui disastrata cassa previdenziale (il fondo Casella) veniva periodicamente «aiutata» con operazioni immobiliari.
Tra i giornalisti che si candidavano per i vari comitati di redazione (il sindacato interno dei giornalisti) del gruppo c'era la poco edificante consuetudine di entrare con un grado e uscire dal mandato sindacale con un altro.
Più alto, ovviamente. E negli anni sui quali indagano ora magistratura e Guardia di finanza, i giornalisti più giovani del gruppo hanno assistito senza quasi fiatare allo spettacolo di decine colleghi più anziani, spesso inviati o vicedirettori, che uscivano con ricchi scivoli a spese della cassa dei giornalisti (l'Inpgi, nel frattempo saltata per aria e salvata dall'Inps) a soli 55-56 anni, per poi rientrare come collaboratori a fare le stesse identiche cose che facevano da dipendenti.
Chi ha vissuto in prima linea la gestione del personale di quegli anni ricorda che la madre di tutti i guai fu il ritiro della quotazione in Borsa di Kataweb, nel 2000, al termine di una lotta di potere tutta interna al gruppo L'Espresso. All'epoca di Kataweb, vinse il Partito Fiat che oggi, curiosamente, è sotto inchiesta per la gestione del personale.
Unicredit comprò prima della quotazione abortita il 5 per cento del portale Internet per 300 miliardi di lire, ovvero stimando la società la folle cifra di 6.000 miliardi, a fronte della realizzazione di una trentina di portali locali con il marchio Vivacity. Strangolata nella culla Kataweb, con i 300 miliardi di Unicredit, Mondardini, Corradi e Moro coprirono le perdite di Kataweb e la piazzarono dentro Elemedia insieme alle radio del gruppo, in modo da dedurre le perdite del portale Internet dai ricchi guadagni delle radio e abbattere anche l'imponibile.
E proprio un dipendente di Elemedia, per una sorta di contrappasso, è quello che in una mail inviata all'allora presidente dell'Inps Tito Boeri ha svelato il presunto giochetto dei prepensionamenti arrivati con demansionamenti mirati di dirigenti e trasferimenti per poter avere accesso alla cassa integrazione. Adesso, il tema dei prepensionamenti eccellenti è destinato a esplodere laddove, a fronte di poche grandi firme prepensionate, e riprese in collaborazione con articoli strapagati, nei giornali locali si pagavano e si pagavano i collaboratori pochi euro a pezzo. Il resto dell'italian job di Repubblica è gravato sulle spalle di Inps e Inpgi, nel silenzio pressoché assoluto di dipendenti e sindacati.
Fabio Amendolara e François De Tonquédec per "la Verità" l'11 gennaio 2022.
La gola profonda che ha fatto nascere l'inchiesta sui prepensionamenti di Gedi, il gruppo editoriale oggi di proprietà di Exor, la cassaforte degli Agnelli/Elkhan sembra essersi trasferita in Brasile.
Dove ha preso la residenza nella città di Fortaleza e dove, allo stesso indirizzo di casa, ha fondato, nel 2018, una società di servizi insieme ad una cittadina brasiliana. La Verità si è messa sulle sue tracce.
E ha scoperto che Giovanni Dell'Acqua, controller di Elemedia, la società che raggruppa le emittenti radiofoniche del gruppo Gedi, è la fonte che aveva inviato nel 2016 all'allora Dg dell'Inps Massimo Cioffi le notizie poi confluite in un documento che il top manager dell'istituto previdenziale trasmise al ministero del Lavoro.
Una nota che, già cinque anni fa, svelava artifici della truffa ai danni dello Stato contestata dalla Procura di Roma al gruppo editoriale Gedi. Nel file erano contenute le storie di sette dirigenti della casa editrice, in particolare del comparto radiofonico e della concessionaria pubblicitaria, la Manzoni.
Di cui alcuni dopo essere stati trasferiti da società sane a società in crisi e dopo essere stati demansionati per poter usufruire della cassa integrazione, sono stati mandati ai giardinetti (si fa per dire) con la qualifica di grafico, una delle categorie nel settore editoriale più facilmente rottamabili.
Il lavoro in Italia
Le cose in Italia, dopo lo strappo con Gedi, non devono essere andate nel migliore dei modi per Dell'Acqua, visto che tra il 2018 e il 2020 ha dichiarato circa 5.000 euro di reddito in tutto. Dall'8 maggio 2016 al 19 aprile 2018, peraltro, risultano contributi figurativi Naspi, segno che ha percepito l'indennità mensile di disoccupazione.
Il suo rapporto di lavoro all'interno di Elemedia Spa, cominciato l'1 gennaio 2006, si è concluso proprio a maggio, il 31 per l'esattezza. E lui proprio a maggio si è trasformato nella gola profonda dell'inchiesta, scrivendo a Boeri, alla Cgil e a Report. Quello con Elemedia è stato un ritorno nel mondo della pubblicità e dei media. Perché tra il 2013 e il 2015 è stato il rappresentante legale della My7lives limited, con sede in Purley place Islington Londra, azienda del settore dei viaggi e dell'intrattenimento.
Prima, invece, dal 2002 al 2006 è stato dipendente di Rcs quotidiani Spa. A Milano non ci sono tracce ormai da tempo. I vicini dei quattro appartamenti di sua proprietà, forse per discrezione, dicono addirittura di non ricordarselo. Così come non ricordano nei parcheggi attorno agli appartamenti la sua Opel Corsa o il ciclomotore che usava come mezzi di locomozione.
Nel luglio del 2021, però, era in patria, visto che a Seregno ha denunciato ai carabinieri lo smarrimento del portafogli. Ma c'è anche un'altra denuncia recente: il 29 luglio 2018, ovvero, quando uscirono le prime notizie sull'esposto inviato anche all'Inps, qualcuno entrò nel suo appartamento. Dell'Acqua si presentò in Questura a Milano per mettere nero su bianco di aver subito un furto molto sinistro.
Anche il gruppo Sole 24 Ore, almeno nel periodo tra il 2103 e il 2016, avrebbe utilizzato in modo irregolare la cassa integrazione straordinaria e i prepensionamenti dei suoi dipendenti, con il pieno consenso dei sindacati e alle spalle degli enti previdenziali. E' quanto emerge dai bilanci del giornale della Confindustria consultati dalla Verità, oltre che dagli ultimi accordi interni per sfoltire le redazioni.
Meccanismi molto simili a quelli scoperti dall'Inps per il gruppo Espresso ma a differenza dei concorrenti di Repubblica, nel 2018 al Sole avevano affidato un audit a una società esterna, hanno accantonato 1,8 milioni di euro per sanare le irregolarità commesse e hanno restituito almeno mezzo milione all'Inps.
I dati nei bilanci
Le informazioni sui rischi per gli azionisti (il gruppo è quotato in Borsa) legati all'utilizzo degli ammortizzatori sociali sono state pubblicate nei bilanci della casa editrice a partire dal 2017, dopo un ribaltone dei vertici. Va detto che per ora non si sa nulla del periodo 2011-2015, ovvero quello che è oggetto d'indagine per il vecchio gruppo Espresso. Nel 2016, Confindustria dà il benservito a Benito Benedini e Donatella Treu travolti, insieme all'ex direttore Roberto Napoletano, dallo scandalo delle copie digitali gonfiate.
Tra giugno e novembre di quell'anno, l'amministratore delegato è Gabriele Del Torchio, che lascia dopo gli scontri con lo stesso Napoletano e con l'uomo forte di quel consiglio di amministrazione, l'editore Luigi Abete. A fine anno gli subentra Franco Moscetti, che poi a fine 2018 lascia il posto a Giuseppe Cerbone.
E allora, nel bilancio 2018 si legge che «nell'ambito dell'attività di verifica avviata dal nuovo management a valle del proprio insediamento, la Società ha conferito nel secondo trimestre 2017 ad una primaria società di consulenza l'incarico di effettuare un assessment in ordine alla gestione e all'applicazione degli ammortizzatori sociali».
I risultati, prosegue il documento contabile, «hanno evidenziato che, nel periodo maggio 2013-aprile 2016, presso l'area manutenzione dello stabilimento di Milano è stato previsto, con accordo sindacale, lo svolgimento di attività aggiuntive durante il periodo di applicazione del contratto di solidarietà difensiva, nella misura di 12 ore/mese pro capite, per il quale è stata corrisposta un'indennità non portata in compensazione con l'integrazione salariale». Insomma, c'erano dipendenti a orario e paga ridotta per i contratti di solidarietà, che però venivano poi impiegati (e pagati) «a parte».
Come riconoscono gli amministratori, «ciò costituisce un'irregolarità che espone la Società all'obbligo di restituire all'Istituto erogatore un importo corrispondente al trattamento di integrazione salariale riconosciuto e non dovuto, relativamente all'orario di lavoro effettivamente non ridotto rispetto al contratto di solidarietà, oltre alle maggiorazioni previste per sanzioni amministrative ed interessi di mora che saranno determinate, nei limiti delle prescrizioni di legge, dallo stesso Istituto e successivamente comunicati alla Società».
La mossa del Sole
Il Sole ha dunque presentato una richiesta di regolarizzazione spontanea all'Inps che risulta accolta. Sempre nella stessa paginetta di bilancio, si legge che «la Società non può escludere che l'anomalia riscontrata si sia verificata anche in altre aree aziendali del Gruppo».
E così ha provveduto ad accantonare 1.850.000 euro. Nel documento del 2019, si aggiunge una nuova puntata: «Il 21 ottobre 2019 la società ha provveduto al versamento dell'onere di regolarizzazione». Il fondo rischi però viene mantenuto con la somma di 1.379.000 euro.
Da ultimo, la relazione al 30 settembre 2021 ricapitola ancora la vicenda e stanzia al fondo rischi «un valore residuo pari a 1.252.000 euro». Insomma, gli ultimi quattro bilanci del gruppo della Confindustria non raccontano che cosa sia successo nel periodo per cui è sotto inchiesta il gruppo Espresso-Gedi e non dicono quanto sia stato pagato di preciso all'Inps. Però sembrerebbe che il Sole abbia riparato il torto con almeno 481.000 euro, che è la differenza tra il primo e l'ultimo accantonamento.
E a proposito di accordi sindacali tutti da rivedere, il 4 febbraio del 2017 sempre al Sole 24 Ore viene firmata con il comitato di redazione una modifica a un accordo biennale sullo stato di crisi per stabilire che i giornalisti con i requisiti del prepensionamento (all'epoca, 58 anni compiuti) sarebbero stati messi in cassa integrazione forzata a zero ore dal primo marzo 2017 fino al 31 gennaio 2018 se non avessero accettato di dimettersi.
Eppure, secondo la legge (416 e successive modifiche) il prepensionamento è un atto volontario, che discende dalle dimissioni, ma con la clausola della cassa forzata viene puntata una pistola alla tempia dei giornalisti e con l'assenso dei loro sindacalisti. L'accordo è stato poi confermato al ministero del Lavoro con il via libera della Fnsi, il sindacato unico dei giornalisti, ed è diventato efficace. Chi non ha accettato di dimettersi è stato messo in cassa fino al 31 gennaio 2018.
Le nuove uscite
In questi giorni, al Sole, azienda e cdr stanno di nuovo discutendo come obbligare al prepensionamento chi ha 62 anni con l'obiettivo, annunciato in un'assemblea di redazione il 3 dicembre scorso, di mandare via 25 giornalisti entro il 31 luglio 2023.
Chi non dovesse dimettersi «spontaneamente» verrebbe messo in cassa a zero ore fino al 31 luglio 2023. Ma dopo quell'assemblea è calato il silenzio, forse anche perché il sequestro ai danni di Gedi sta consigliando ai grandi editori maggior prudenza. E la paura di nuove indagini, dopo l'imbarazzante salvataggio dell'Inpgi a spese dell'Inps, si fa sentire.
Giacomo Amadori per "la Verità" il 13 gennaio 2022.
Il gruppo Gedi, editore della Repubblica, della Stampa e dell'Espresso, quando era guidato dai De Benedetti (sino a fine 2019, quando è stato ceduto alla Exor della famiglia Agnelli-Elkann), per «massimizzare i profitti», ha conquistato un record che fa impallidire quota 100: mandare in pensione un'ottantina di lavoratori con un'età media, a un primo conteggio, di 54 anni.
Ex dipendenti finiti nel mirino del procuratore aggiunto di Roma Paolo Ielo e del pm Francesco Dall'Olio. Infatti nel decreto di sequestro preventivo, firmato il 9 dicembre dal gip di Roma Andrea Fanelli, sono elencati ben 101 indagati (due nel frattempo sono deceduti), tra presunti prepensionati a sbafo (80, compresi 16 dirigenti), manager accusati di truffa (17), sindacalisti ritenuti maneggioni (almeno 6, per lo più della Cgil), funzionari Inps tacciati di infedeltà (2) e altre figure minori (2).
Qualcuno di questi soggetti compare in più di un elenco. Le accuse, a vario titolo, sono di truffa aggravata ai danni dello Stato, accesso abusivo a sistema informatico e responsabilità amministrativa da reato (per cinque aziende della holding), ai sensi del decreto legislativo 231.
Fanelli ha ordinato di «congelare» il presunto corpo del reato ovvero l'illecito profitto che Gedi avrebbe conseguito grazie all'abbattimento del costo del personale quantificato dai pm in 38,9 milioni di euro. Denari che il giudice ha fatto cercare nelle casse di Gedi (12,8) e di altre aziende della holding (la concessionaria pubblicitaria Manzoni - 8,7 -; Elemedia -3,6 -; Gedi news network - 6,4 -; Gedi printing - 7,4 -).
Se fossero state vuote, gli investigatori avevano l'ordine di aggredire i beni immobili dei quattro principali indagati: l'ex ad del gruppo Monica Mondardini, il capo delle risorse umane Roberto Moro, il suo vecchio vice Romeo Marrocchio, il direttore generale della divisione Stampa nazionale Corrado Corradi.
Il gip ha, invece, rigettato (come aveva già fatto a ottobre) la richiesta di sequestro preventivo di 22.282.000 euro di assegni previdenziali indebitamente erogati da prelevare dai conti dei prepensionati indagati e di manager, sindacalisti e funzionari Inps compartecipi del reato. Se è vero che la cifra corrisponde al danno subito dall'ente previdenziale, però, la toga ritiene che questa «non corrisponda al profitto illecito percepito dai singoli dipendenti, che e pari all'importo netto della pensione» e per questo ha chiesto alla Guardia di finanza un ricalcolo della somma da prelevare.
Per Fanelli, comunque, il fumus dei reati contestati c'è tutto, come confermerebbero, a suo giudizio, intercettazioni e testimonianze. «I sistemi illeciti»
Le frodi sarebbero state fondamentalmente quattro: fittizi demansionamenti di dirigenti a quadro per fargli ottenere i requisiti previsti dalla normativa di settore per i prepensionamenti; illeciti riscatti di annualità (a spese dell'azienda) «asseritamente» lavorate, con la complicità di funzionari Inps e la falsificazione dei libretti di lavoro; utilizzo come collaboratori esterni, nelle stesse società del gruppo, di dipendenti prepensionati in quanto falsamente indicati come esuberi; trasferimenti di personale eseguiti (in svariati casi solo sulla carta) per poter accedere «indebitamente» agli scivoli previsti per la sede/società di destinazione.
Le investigazioni della polizia giudiziaria hanno consentito di «raccogliere gravi indizi di reità nei confronti di 83 posizioni illecite» (su 137 attenzionate tra il 2009 e il 2015), così distinte: 16 dirigenti fittiziamente demansionati; 44 dipendenti che avrebbero illegalmente riscattato periodi contributivi; 20 lavoratori falsamente trasferiti/transitati; 3 dipendenti prepensionati che hanno continuato il rapporto di lavoro come collaboratori esterni. Il giudice nota anche che, dopo le perquisizioni del marzo 2018, l'azienda non avrebbe cambiato rotta. Tutt' altro.
Per il gip, addirittura, «è sembrata proseguire la direzione, di fatto, del gruppo, da parte della Mondardini», tramite Corradi e Moro, «anche dopo la nomina del nuovo ad Laura Cioli» e il passaggio della manager indagata alla Cir dei De Benedetti. Moro, del resto, avrebbe «mostrato di voler proseguire con i comportamenti censurati» anche in alcune conversazioni telefoniche, intrattenute pure con la Cioli (non indagata).
Inoltre alcuni dirigenti dell'azienda si sarebbero «prodigati per rendere difficili i controlli [], ponendo in essere azioni tese a "evitare problemi" in caso di controlli» e l'Organismo di vigilanza, sottolinea il Gip, «ha omesso di intervenire nonostante gli avvisi di garanzia notificati nel marzo del 2018 e, addirittura, ha individuato, quale "amministratore incaricato della istituzione e del mantenimento di un efficace sistema di controllo interno e di gestione dei rischi", la stessa Mondardini» che si sapeva indagata. Non è finita.
I soci di minoranza
Di fronte ai quesiti posti da un gruppo di azionisti di minoranza, che chiedeva se non fosse opportuno l'allontanamento degli indagati dai posti di comando per scongiurare eventuali arresti, l'azienda era stata netta: «Non sono state prese in considerazione misure come quelle sopra prospettate né da parte degli interessati né degli organi sociali» e «nel Gruppo non e stato fatto alcun artificio o raggiro».
L'innesco ai prepensionamenti illeciti e alla vicenda penale che sta coinvolgendo Gedi lo ha raccontato agli inquirenti Michela Marani, responsabile del controllo di gestione del gruppo: «Intorno al 2007/2008, in concomitanza con una progressiva riduzione dei margini del gruppo, gli azionisti De Benedetti (ingegner Carlo e Rodolfo) hanno chiesto all'allora vertice aziendale [] di individuare una serie di interventi, prevalentemente sui costi, volti a preservare la marginalità del gruppo».
La decisione finale «di procedere con i prepensionamenti veniva presa» dalla Mondardini, ma, in occasione della discussione finale del documento di budget, «era presente anche la proprietà, a cui veniva illustrato l'intero piano di ristrutturazioni, ivi compresa la parte relativa alla riduzione del costo del lavoro, quindi anche la parte legata ai prepensionamenti».
I conti del gruppo
I De Benedetti, che non risultano indagati, non sarebbero, però, stati messi a conoscenza degli escamotage illeciti con cui sarebbero stati raggiunti gli obiettivi da loro prefissati. E brillantemente realizzati: se tra il 2008 e il 2016 il fatturato si è dimezzato, passando da 1 miliardo a 540 milioni, l'azienda «ha registrato tutti gli anni un risultato sostanzialmente positivo, contraddistinguendosi nel settore come unico gruppo editoriale che ha saputo salvaguardare la sostenibilità finanziaria» si legge nel decreto.
Per garantire questa sostenibilità gli addetti sono passati da 3.344 a 2.185 negli otto anni in esame. Il costo del personale, nello specifico, e stato ridotto del 35%, passando da 331 milioni a 214 milioni. Fanelli puntualizza: «Negli anni di maggior flessione del fatturato del settore editoria [], si rileva comunque un consistente utile» e tra il 2010 e il 2011 «il gruppo ha proceduto a distribuire utili agli azionisti per 54 milioni di euro».
Il giudice, infine, per completare il quadro, cita un'intercettazione tra Mondardini e Moro: «I due confermano [] che la collocazione in pensione anticipata dei dipendenti era finalizzata alla massimizzazione dei profitti» e non era collegata al presupposto necessario dello stato di crisi. Perché, come si diceva un tempo, certi imprenditori amano socializzare i costi, ma privatizzare i guadagni.
Fabio Amendolara per “La Verità” il 14 gennaio 2022.
I furbetti della truffa previdenziale ritenevano di poter contare su una rete di relazioni. A partire dall'ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega all'editoria Vito Crimi, che poi si è trasformato nel capo politico dei Cinque stelle.
Il 2 settembre 2018 Monica Mondardini, ex presidente e ad di Gedi e già presidente del Cda della Manzoni spa, attende notizie da Francesco Dini, capo della direzione Affari generali di Cir spa, che aveva appuntamento con Crimi.
La conversazione, annotano i magistrati, tocca prima temi di carattere generale legati a finanziamenti per l'editoria. Ma l'argomento che in quel preciso momento sta a cuore a Mondardini è il taglio dei costi. Dini riferisce l'esito dell'incontro e, riferendosi al sottosegretario, sostiene di «averlo convinto a parlare di lavoro, ristrutturazione, ammortizzatori sociali e pubblicità».
Crimi deve aver mostrato una certa apertura nei confronti degli uomini della struttura del gruppo editoriale che fino a poco tempo prima aveva dedicato paginate alle inchieste giudiziarie sulle sindache pentastellate Chiara Appendino e Virginia Raggi, visto che Dini riferisce che «la cosa è andata straordinariamente».
Inoltre, come se i manager facessero parte di una centrale di spionaggio, Dini dice alla collega di ritenere di essersi «organizzato per conto suo», si legge nel decreto firmato dal gip di Roma, «in modo da avere un vantaggio anche competitivo sulle informazioni da ottenere attraverso Marina Macelloni (presidente del cda dell'Inpgi, la cassa di previdenza dei giornalisti), Mimma Iorio (direttore generale dell'Inpgi) e Ferruccio Sepe (capo dipartimento per l'Informazione e l'editoria della presidenza del Consiglio dei ministri, ovvero l'uomo macchina dell'ufficio nel quale passano le istruttorie per i prepensionamenti) «per cercare di capire quando arrivano le risorse in dotazione sulla 416 che secondo me 2019, secondo la Iorio 2020».
La 416 è la legge del 1981 che prevede la possibilità, per i giornalisti dipendenti di società editoriali in stato di crisi, di accedere al trattamento di pensione anticipata. Gedi con molta probabilità, dopo aver mandato a casa con quelli che la procura definisce «artifizi e raggiri» non pochi manager demansionandoli per finta, puntava al finanziamento della 416 per togliersi davanti, tramite i prepensionamenti, anche un po' di giornalisti.
Il gip, infatti, sottolinea: «In proposito, è di rilievo evidenziare che la possibilità per le aziende di accedere ai prepensionamenti nel settore editoria non è assoluta, ma dipende dalla quantità dei fondi stanziati periodicamente dal governo, quantomeno per il personale giornalistico. Da qui la conseguenza che non tutti possono beneficiarne, ma solo le aziende che a tali fondi riescono ad accedere, per il tramite del ministero del Lavoro, che autorizza le istanze».
Mondardini e Dini, quindi, secondo l'accusa, «si stavano attivando, attraverso organi istituzionali, al fine di ottenere i fondi necessari per una nuova procedura di prepensionamento da adottare nel gruppo Gedi».
D'altra parte, la legge permette alle aziende di liberarsi di giornalisti che abbiano almeno 58 anni d'età e 18 anni di contributi. Caratteristiche che avrebbero permesso a Gedi di individuarne un bel fascio. Inoltre, hanno scoperto gli investigatori acquisendo gli elenchi del personale dipendente delle società del gruppo, tra grafici e poligrafici (in alcuni casi ex manager spacciati per tali) sarebbero stati collocati in pensione sfruttando la 416 circa 590 lavoratori tra il 2008 e il 2016.
Tra questi sono state individuate 137 posizioni di dipendenti distinte nelle diverse tipologie di comportamenti indicati come «truffaldini», tra demansionamenti, trasferimenti, transiti e riscatti, che, al mese di ottobre 2017, avevano già causato all'Inps un danno di circa 18 milioni di euro.
Ma oltre a Crimi il futuro di Gedi, stando a una chiacchierata tra Danilo Di Cesare, ex rappresentante sindacale interno al gruppo Gedi, indagato, e il collega Vincenzo Di Martino, ex dipendente dell'agenzia di stampa Ansa, rappresentante sindacale anche lui, avrebbe destato la curiosità anche di Nicola Morra, altro pentastellato, a capo della commissione parlamentare Antimafia.
È il 17 luglio 2018 quando i due sindacalisti fanno riferimento a un incontro «da tenersi al ministero (presumibilmente, stando alle carte dell'inchiesta, il ministero del Lavoro e delle politiche sociali, in quel momento guidato da Luigi Di Maio, ndr)» per trovare una soluzione per i poligrafici.
I due usano il termine «sanare», con particolare riferimento a «quelli che j' hanno mandate», da intendersi verosimilmente a coloro i quali l'Inps aveva inviato le lettere di sospensione delle pensioni, per illeciti riscatti contributivi.
Ed è a questo punto che Di Martino afferma di sapere che di questa faccenda «si stava interessando anche l'onorevole Nicola Morra». E infatti, il 19 luglio 2018, quindi solo due giorni dopo l'ultimo riferimento a un incontro al ministero, quando l'ex sindacalista indagata della Cgil Fidelma Mazzi parla con una certa Paola, le due fanno riferimento a un incontro da tenersi proprio al ministero del Lavoro, definito dalla Mazzi «un po' aumma aumma».
A settembre, però, Mazzi viene convocata dalla polizia giudiziaria. E al telefono con Di Cesare esprime non poca preoccupazione. I due prima dell'interrogatorio cercano di immaginare cosa possa volere la pg. Di Cesare prova a dare un'interpretazione: «Mi viene in mente 'na cosa del genere, che la signora del ministero veniva a fare le... le, le, le, le, le, le verifiche e poi ce le facevano firmare a noi... e però noi non è che eravamo presenti eh, perché le verifiche le faceva 'sta signora del ministero».
Secondo gli investigatori si tratta delle visite ministeriali per verificare lo stato delle procedure di prepensionamento del gruppo Gedi. I due sindacalisti, è annotato negli atti dell'inchiesta, ammettono «che non erano presenti [...] pur avendo sottoscritto i relativi verbali». Fatto sta che in una ulteriore conversazione, tra Di Cesare e Di Martino, torna il tema delle relazioni nei palazzi che contano.
I due, a proposito dei «riscattati» ai quali è stata sospesa la pensione, fanno riferimento a una possibile soluzione da trovarsi «a livello politico» o per «l'interessamento del boss dell'istituto», ovvero, secondo chi indaga, «il presidente dell'Inps». Ma anche questo appare come un terreno scivoloso. È proprio Di Cesare ad ammettere che «gli interessati», però, «non conoscono il nominativo dell'azienda relativamente alla quale sono stati riscattati i periodi lavorativi». Probabilmente era solo un altro dei tanti trucchetti.
· Primo: la Verità del Il Giornale.
Da leggo.it l'8 settembre 2022.
A quasi tre anni dalla denuncia per diffamazione da parte di Selvaggia Lucarelli, arriva il rinvio a giudizio per Alessandro Sallusti, all'epoca direttore del quotidiano Il Giornale (ora a Libero), per una vicenda di cui si occuparono tutti i giornali e che alla giornalista non andò giù, per via dei termini utilizzati, a suo avviso decisamente forti.
Il caso dei commenti sessisti
Il caso nasce dall'ospitata a Non è la D'Urso di Sergio Vessicchio, il giornalista prima sospeso e poi radiato dall'Ordine dei giornalisti per via di alcuni commenti sessisti contro un arbitro donna. La Lucarelli sui suoi profili social aveva ripreso alcuni passaggi della sua intervista, ironizzando sulle sue parole (in cui definiva «becera» la tv della D'Urso) e aggiungendo «ridategli il tesserino da giornalista».
A quei tweet, Sallusti aveva replicato duramente in un editoriale sul Giornale, definendo Selvaggia con l'epiteto «esperta di zoccolaggine» e sostenendo che Selvaggia avesse «preso le parti di Vessicchio, dando di fatto e in diretta delle zoccole a Barbara D'Urso e alle sue ospiti».
Infine Sallusti tirò fuori uno dei cavalli di battaglia dei critici della Lucarelli, cioè l'accusa di «aver messo in circolo un video hot privato di una giovane Belen». Nel documento in cui si rinvia a giudizio Sallusti, i giudici sottolineano su quest'ultimo punto che la giornalista è «totalmente estranea a tale condotta penalmente rilevante, e in più non risulta essere mai stata indagata su quei fatti». Ora, a distanza di tre anni, dovrebbe partire il processo, come confermato anche dalla stessa Lucarelli sul suo profilo Facebook.
Da “il Giornale” il 15 gennaio 2022.
La Verità, in spregio al suo nome, da qualche giorno continua a estrarre numeri dal cilindro per giustificare un ipotetico sorpasso di copie sul nostro quotidiano.
La matematica non è un'opinione, mai numeri evidentemente si possono interpretare.
Noi teniamo ai nostri lettori e forniamo loro un'informazione corretta sul Covid e sui vaccini.
Magari loro hanno anche guadagnato qualche lettore (meno di quello che dicono), ma rischiano di averne spedito qualcuno al Creatore.
Da “La Verità” il 14 gennaio 2022.
I colleghi del Giornale si sono risentiti perché abbiamo pubblicato i dati ufficiali che certificano il sorpasso della Verità nei loro confronti. Ma c'è un equivoco: noi ci riferivamo alle copie (cartacee e digitali) vendute. Per quelle regalate, in effetti, al Giornale sono sempre i numeri uno.
Da “il Giornale” il 13 gennaio 2022.
C'è un quotidiano che sostiene di essere «il primo dell'area di centrodestra», ma per ora dà solo i numeri. Perché il calcolo delle copie cartacee e digitali è sbagliato, perché ci sono ancora almeno 300 copie di differenza tra Il Giornale e quest' altro quotidiano (molte di più in edicola, ma tant' è...), almeno stando alle fonti ufficiali di riferimento - i dati pubblicati da Prima Comunicazione, tanto per intenderci - e ci sarebbero molti altri perché, ma è meglio soprassedere per non tediare il lettore.
Anzi, no: se sorpasso deve essere, che sia. Quello che ai nostri competitor mancherà per sempre è la nostra storia e la nostra credibilità, costruita in quasi 50 annidi vita controcorrente. È questa la verità...
Da “La Verità” il 13 gennaio 2022.
Ottime notizie per La Verità: consolidando un trend già in corso da diversi mesi, il nostro quotidiano ha fatto registrare, secondo i dati Ads pubblicati dal sito di Prima comunicazione nella giornata di ieri, un importante sorpasso in termini di vendite. Stando ai numeri divulgati, infatti, per la prima volta dalla nostra fondazione, che risale al settembre 2016, sommando le copie cartacee e quelle digitali i nostri lettori ci hanno scelto per 34.311 volte al giorno nel mese di novembre, superando - questo è il fatto inedito - quelli del Giornale, a quota 33.654 nella casella delle «vendite individuali».
A consentire questo risultato storico è l'ottimo andamento sia delle vendite in edicola sia di quelle online: se le prime si sono attestate a 27.699 copie (contro le 31.886 del quotidiano diretto da Augusto Minzolini), il digitale continua un percorso di forte crescita che attesta il totale di novembre a un livello di poco inferiore alle 7.000 copie.
La somma arriva così appunto a 34.311 unità di «venduto», che consente alla nostra testata di staccare di diverse centinaia di copie il giornale fondato da Indro Montanelli, meno performante rispetto alla Verità sulle copie online. Particolarmente significativo anche il dato che vede protagonista il nostro quotidiano nei confronti di Libero.
Si approfondisce infatti il divario di preferenze che i lettori hanno voluto accordarci rispetto al giornale oggi diretto da Alessandro Sallusti.
Sempre secondo le tabelle diffuse da Prima comunicazione, infatti, sono 18.928 le copie cartacee di Libero che, sommate al digitale, arrivano a quota 20.175: circa 14.000 in meno rispetto alle nostre.Stando a questi dati, La Verità, a poco più di cinque anni dalla fondazione, al momento si consolida quindi come prima testata nell'alveo dei giornali con un pubblico di riferimento nell'area moderata e di centrodestra.
Un dato che, ove confermato nei prossimi mesi, avrebbe conseguenze potenzialmente rilevanti nel mercato editoriale e della raccolta pubblicitaria.
Un risultato che soprattutto premia, grazie ai lettori, lo sforzo della redazione e degli azionisti che hanno accompagnato l'avventura di questi anni.
Durante i quali ai successi del giornale che state leggendo si sono aggiunti l'acquisizione di un marchio storico come Panorama, in breve ricondotto a risultati economici confortanti, e di diverse altre prestigiose testate del gruppo Mondadori.
Ai lettori ovviamente il grazie più sentito per aver sostenuto in modo tanto generoso il nostro tentativo di dare vita a un giornalismo indipendente.
Alberto Matano compie 50 anni: dall’addio commovente al Tg1 al matrimonio con Riccardo Mannino. Federica Bandirali su Il Corriere della Sera il 9 Settembre 2022.
Il conduttore e giornalista è uno dei più amati del piccolo schermo e il suo programma “La Vita in diretta” riscuote quotidianamente successo di pubblico. E’ molto amica di Mara Venier e racconta fiabe al telefono ai nipotini
Il percorso
Alberto Matano compie 50 anni il 9 settembre e si conferma uno dei volti noti della tv italiana più amati dal pubblico tanto che il suo programma “La vita in diretta” è spesso leader di ascolti nella fascia pomeridiana di riferimento. Nato da papà biologo e mamma un’insegnante, ha sin da bambino coltivato il sogno di diventare giornalista. Dopo il diploma al Liceo Scientifico e, nonostante la sua propensione per il mondo della comunicazione, ha intrapreso inizialmente un percorso di studi diverso. Ha infatti frequentato la Facoltà di Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Roma La Sapienza ma, nel corso dei suoi studi, ha iniziato a collaborare con una rivista e – dopo la laurea – ha deciso di iscriversi alla Scuola di Giornalismo di Perugia.
L’amica Mara Venier
Una delle amicizie più care e sincere di Matano è quella con Mara Venier: la conduttrice infatti lo ha sposato il 12 giugno 2022 con Riccardo Mannino in un resort fuori Roma.
L’addio emozionante al Tg1
Ad agosto del 2019 Alberto annuncia in diretta che “per un po’ non condurrà più il telegiornale delle 20 su Rai1”. Dopo tanti anni Matano, con grande emozione, ha annunciato al pubblico l’allontanamento (temporaneo) dalla carriera di mezzobusto. A lui e Lorella Cuccarini, quell’anno era stata affidata la conduzione de “La Vita in diretta”.
Il marito
Il marito di Matano è l’avvocato cassazionista Riccardo Mannino, sei più del giornalista. L’avvocato ha una grande passione per lo sport: va in palestra quotidianamente ma non solo. E’ un grande sciatore e in inverno non rinuncia a sciare sulle Dolomiti.
In libreria
“Innocenti. Vite segnate dall'ingiustizia” è il titolo del libro di Alberto Matano: una serie di racconti di presunti colpevoli (e spesso condannati dall’opinione pubblica) riconosciuti poi innocenti.
Bullismo
«Ho sofferto il bullismo. Mi isolavano dai giochi, mi prendevano in giro, mi sentivo ai margini della vita. Ma ho combattuto, non mi sono piegato» ha detto Matano in un’intervista al Corriere «Ma se incontrassi il 16enne che ero lo abbraccerei e lo ringrazierei. La sua sofferenza e la sua forza sono state la condizione della gioia che provo ora»