Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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WEB TV: TELE WEB ITALIA
NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA
L’ITALIA ALLO SPECCHIO
IL DNA DEGLI ITALIANI
ANNO 2022
LA CULTURA
ED I MEDIA
SESTA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
INDICE PRIMA PARTE
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE. (Ho scritto un saggio dedicato)
L’Anti-Scienza.
L’Intelligenza Artificiale.
I Benefattori dell’Umanità.
Al di là della Luna.
Viaggiare nello Spazio.
Gli Ufo.
La Rivoluzione Digitale.
I Radioamatori.
Gli Hackers.
Catfishing: la Truffa.
La Matematica.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il Cervello Allenato.
Il Cervello Malato.
La Sindrome dell'Avana.
Le Onde Celebrali.
Gli impianti.
La disnomia.
La nomofobia.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
I Geni.
Il Merito.
Ignoranti e Disoccupati.
Laureate e Disoccupate.
Il Docente Lavoratore.
Decenza e Decoro a Scuola.
Una scuola “sgarrupata”.
Gli speculatori: il caro-locazione.
Discriminazione di genere.
La Scuola Comunista.
La scuola di Maria Montessori.
Concorso scuola truccato.
Concorsi truccati all’università.
INDICE SECONDA PARTE
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)
Tutti figli di…Neanderthal (nord) e Sapiens (Sud).
Come si usano.
Sapete che…?
Epifania e Befana.
Il Carnevale.
Gioventù del cazzo.
Gli Hikikomori.
La Vecchiaia è una carogna…
Gemelli diversi.
L’Ignoranza.
La Rimembranza.
La Nostalgia.
Gli Amici.
La Fiducia.
Il Sesso.
Il Nome.
Le Icone.
Il Linguaggio.
Il Tatuaggio.
Il Limbo.
Il Potere nel Telecomando.
Gli incontri casuali di svolta.
I Fantozzi.
Ho sempre ragione.
Il Narcisismo.
I Sosia.
L’Invidia.
L’Odio.
Il Ghosting: interruzione dei rapporti.
Gli Insulti.
La Speranza.
Il Dialogo.
Il Silenzio.
I Bugiardi.
Gli stolti.
I Tirchi.
Altruismo.
I Neologismi.
Gli Snob.
I Radical Chic.
Il Pensiero Unico.
La Cancel Culture.
INDICE TERZA PARTE
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)
La P2 Culturale.
Il Cinema di Sinistra prezzolato.
Il Consenso.
I Negazionismi.
I Ribelli.
Geni incompresi.
Il Podcast.
Il Plagio.
Ladri di Cultura.
I Beni culturali.
Il Futurismo.
I Bronzi di Riace e di San Casciano dei Bagni.
I Faraoni.
La Pittura.
Il Collezionismo.
La Moda.
Il Cappello.
Gli Orologi.
La Moto.
L’Auto.
L’emoticon.
I Fumetti.
I Manga.
I Giochi da Tavolo.
I Teatri.
Il direttore d’orchestra.
L’Arte in tv.
La Cultura Digitale.
Dalla cabina al selfie.
I Social.
La scienza, la cultura ed i social. I Divulgatori.
La Capitale della Cultura.
Oscar made in Italy.
I Balbuzienti.
Cultura Stupefacente.
I pseudo intellettuali.
Le lettere intellettuali.
L’Artistocrazia.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)
Achille Bonito Oliva.
Alberto Angela.
Aldo Busi.
Aldo Nove.
Alessandro Baricco.
Alessandro Manzoni.
Alfred Hitchcock.
Amy Sherald.
Andy Warhol.
Andrea Camilleri.
Andrea G. Pinketts.
Andrea Palladio.
Andrea Pazienza.
Annie Ernaux.
Antonella Boralevi.
Antonio Canova.
Antonio de Curtis in arte Totò.
Antonio Pennacchi.
Arturo Toscanini.
Banksy.
Barbara Alberti.
Billy Wilder.
Carlo Emilio Gadda.
Carlo Levi.
Carmen Llera e Alberto Moravia.
Cesare Pavese.
Charles Baudelaire.
Charles Bokowski.
Charles M. Schulz.
Chiara Valerio.
Crocifisso Dentello.
Dacia Maraini.
David LaChapelle.
Dino Buzzati.
Donatello.
Elisa De Marco.
Emil Cioran.
Emilio Giannelli.
Emilio Lari.
Ennio Flaiano.
Ernest Hemingway.
Espérance Hakuzwimana.
Eugenio Montale.
Eva Cantarella.
Ezra Pound.
Fabio Volo.
Federico Fellini.
Federico Palmaroli.
Francesca Alinovi.
Francesco Guicciardini.
Francesco Tullio Altan.
Francisco Umbral.
Franco Branciaroli.
Franco Cordelli.
Franz Peter Schubert.
Franz Kafka.
Fulvio Abbate.
Gabriel Garcia Marquez.
Gabriele d'Annunzio.
Georges Bataille.
George Orwell.
Georg Wilhelm Friedrich Hegel.
Giacomo Leopardi.
Gian Paolo Serino.
Gian Piero Brunetta.
Giampiero Mughini.
Giordano Bruno Guerri.
Giorgio Forattini.
Giorgio Manganelli.
Giovanni Ansaldo.
Giovanni Verga.
Giuseppe Pino.
Giuseppe Prezzolini.
Giuseppe Ungaretti.
Giuseppe Verdi.
Grazia Deledda.
Guido Gozzano.
Guido Harari.
Ian Fleming.
Ignazio Silone.
Indro Montanelli.
Italo Calvino.
Jane Austin.
John Le Carré.
John Williams.
José Saramago.
INDICE QUINTA PARTE
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)
Lawrence d'Arabia.
Leonardo da Vinci.
Leonardo Sciascia.
Luciano Bianciardi.
Luchino Visconti.
Louis-Ferdinand Céline.
Marcel Proust.
Mariacristina Savoldi D’Urcei Bellavitis.
Marcello Marchesi.
Marco Giusti.
Mario Picchi e Aldo Palazzeschi.
Mario Praz.
Massimiliano Fuksas.
Maurizio Cattelan.
Maurizio de Giovanni.
Melissa P.: Melissa Panarello.
Michel Houellebecq.
Michela Murgia.
Michele Rech, in arte Zerocalcare.
Nietzsche.
Oliviero Toscani.
Oriana Fallaci.
Orson Welles.
Pablo Picasso.
Pier Paolo Pasolini.
Pietrangelo Buttafuoco.
Pietro Scarpa.
Renzo Piano.
Riccardo Muti.
Richard Wagner.
Roberto Benigni.
Robert Byron.
Roberto Giacobbo.
Roberto Saviano.
Sacha Guitry.
Saint-John Perse.
Salvatore Quasimodo.
Sergio Leone.
Staino.
Stephen King.
Susanna Tamaro.
Sveva Casati Modignani.
Tiziano.
Truman Capote.
Umberto Boccioni.
Umberto Eco.
Valentino Garavani.
Vincent Van Gogh.
Virginia Woolf.
Vittorio Sgarbi.
Walt Disney.
Walt Whitman.
William Burroughs.
INDICE SESTA PARTE
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)
Siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. La Distrazione di Massa: Propaganda e realtà.
La Sociologia Storica.
Il giornalismo d’inchiesta.
I Martiri.
Se questi son giornalisti...
Il Web e la Legione di Imbecilli.
Gli influencer.
Le Fallacie.
Le Fake News.
Il Nefasto Amazon.
I Censori.
Quello che c’è da sapere su Wikipedia.
Il Nefasto Politicamente Corretto.
Gli Oscar comunisti.
Lo Streaming.
INDICE SETTIMA PARTE
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il Pizzo di Stato.
Mediaset.
Il Corriere della Sera.
Il Gruppo Editoriale Gedi.
Primo: la Verità del Il Giornale.
Alberto Matano.
Alda D'Eusanio.
Aldo Cazzullo.
Alessandra De Stefano.
Alessandra Sardoni.
Alessandro Giuli.
Andrea Scanzi.
Andrea Vianello.
Beppe Severgnini.
Bernardo Valli.
Bianca Berlinguer.
Bruno Longhi.
Bruno Vespa.
Camillo Langone.
Carlo De Benedetti.
Cecilia Sala.
Cesara Buonamici.
Claudio Cerasa.
Corrado Formigli.
Davìd Parenzo.
Diego Bianchi in arte Zoro.
Elisa Anzaldo.
Emilio Fede.
Ennio Simeone.
Enrico Mentana.
Enrico Varriale.
Enzo Biagi.
Ettore Mo.
Fabio Caressa.
Fabio Fazio.
Federica Sciarelli.
Filippo Ceccarelli.
Filippo Facci.
Fiorenza Sarzanini.
Franca Leosini.
Francesca Fagnani.
Francesco Giorgino.
Giacinto Pinto.
Gian Paolo Ormezzano.
Gianluigi Nuzzi.
Gianni Minà.
Giorgia Cardinaletti.
Giovanna Botteri.
Giovanni Floris.
Giovanni Minoli.
Giovanni Tizian.
Giuliano Ferrara.
Giuseppe Cruciani.
Guido Meda.
Ivan Zazzaroni.
Julian Assange.
Hoara Borselli.
Lamberto Sposini.
Laura Laurenzi.
Lina Sotis.
Lucio Caracciolo.
Luigi Contu.
Luisella Costamagna.
Marcello Foa.
Marco Damilano.
Marco Travaglio.
Maria Giovanna Maglie.
Marino Bartoletti.
Mario Calabresi.
Mario Giordano.
Massimo Fini.
Massimo Giletti.
Massimo Gramellini.
Maurizio Costanzo.
Michele Mirabella.
Michele Santoro.
Michele Serra.
Milo Infante.
Mimosa Martini.
Monica Setta.
Natalia Aspesi.
Nicola Porro.
Paola Ferrari.
Paolo Brosio.
Paolo del Debbio.
Paolo Zaccagnini.
Pierluigi Pardo.
Roberto D'Agostino.
Roberto Napoletano.
Rula Jebreal.
Salvo Sottile.
Selvaggia Lucarelli.
Sigfrido Ranucci.
Tiziana Alla.
Tiziana Panella.
Vincenzo Mollica.
Vincenzo Palmesano.
Vittorio Feltri.
LA CULTURA ED I MEDIA
SESTA PARTE
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)
· Siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. La Distrazione di Massa: Propaganda e realtà.
Shadows of Liberty, il documentario che svela il sistema mediatico americano. Federico Mels Colloredo su L'Indipendente il 3 dicembre 2022.
Shadows of Liberty è un documentario del 2012 della durata di 93 minuti, diretto dal regista canadese Jean-Philippe Tremblay, che attraverso immagini di repertorio e interviste con noti giornalisti e personaggi pubblici tra cui il fondatore di WikiLeaks Julian Assange, l’attore e attivista Danny Glover, la giornalista investigativa Amy Goodman, l’ex conduttore di CBS News Dan Rather e lo scrittore e produttore televisivo David Simon; rivela la straordinaria verità dietro i mezzi di informazione: censura, insabbiamenti, manipolazione e controllo aziendale. Il regista intraprende un viaggio attraverso gli antri più oscuri dei media statunitensi, dove la loro schiacciante influenza ha distorto il giornalismo e ne ha compromesso i valori. Storie dove giornalisti, attivisti e accademici forniscono resoconti scioccanti di un sistema mediatico allo sbando. I media statunitensi sono controllati da una manciata di corporazioni che esercitano uno straordinario potere politico, sociale ed economico. Avendo sempre permesso che le trasmissioni fossero controllate da interessi commerciali, l’allentamento dei regolamenti sulla proprietà dei media, iniziato sotto la presidenza Reagan, continuato con Clinton e proseguito da Bush, ha portato alla situazione attuale in cui cinque mega corporazioni controllano la stragrande maggioranza dei media negli Stati Uniti. Queste aziende non solo non danno la priorità al giornalismo investigativo, ma possono reprimerlo e lo fanno ogni volta che i loro interessi sono minacciati.
Il documentario inizia con tre giornalisti le cui carriere sono state distrutte a causa delle storie che hanno raccontato, come Roberta Baskin giornalista investigativa che negli anni 90, con lo scoop sullo sfruttamento, le cattive condizioni di lavoro e bassissimi salari in una fabbrica Nike in Vietnam, fece infuriare la CBS quando Nike diventò co-sponsor principale dei Giochi Olimpici Invernali dove la CBS aveva investito molto per acquisire i diritti di trasmissione esclusivi. Kristina Borjesson, un’altra giornalista della CBS, che si era spinta troppo oltre nelle sue indagini investigative, fu tempestivamente dimessa dal suo incarico, dopo che la rete ha intensificato le sue ricerche sul disastro del volo TWA 800 nel 1996, intralciando le indagini e mettendo a tacere le teorie secondo cui il volo TWA 800 è stato abbattuto da un esplosivo artificiale, non da un guasto meccanico. Gary Webb, la cui storia collega il sostegno degli Stati Uniti e della CIA ai Contras, gruppi armati controrivoluzionari nicaraguensi e l’enorme diffusione di cocaina e crack negli anni 80, fu screditata e cestinata dal New York Times e dal Washington Post. In seguito risultò che la sua storia era vera, ma Webb perse il lavoro e nel 2004 in circostanze ancora poco chiare si tolse la vita.
Shadows of Liberty è un documentario d’accusa che si mostra come una critica sobria e incisiva del sistema mediatico americano, chiedendosi perché hanno lasciato che una manciata di potenti società scrivessero le notizie, evidenziando in modo efficace come e perché il consolidamento aziendale dei media mina la democrazia. Il titolo del film è ispirato a Thomas Paine, rivoluzionario, politico e filosofo illuminista considerato uno dei Padri fondatori degli Stati Uniti d’America che alla fine del settecento scrisse: ««Quando l’uomo perde il privilegio del pensiero l’ultima ombra della libertà lascerà l’orizzonte». Il documentario è disponibile sottotitolato in italiano su YouTube. [di Federico Mels Colloredo]
Estratto dell’articolo di Nanni Delbecchi per "il Fatto quotidiano" il 2 dicembre 2022.
La tv italiana è soggetta a regime feudale, tutto un invitarsi e uno scambiarsi cortesie tra i feudatari e i loro valvassini, l'ultimo grido è il conduttore oggi opinionista in un altro salotto, domani nel suo salotto dove invita come opinionista il conduttore che lo aveva invitato.
Non avrai altra realtà fuori da quella che il video racconta, eppure qualche record di autoreferenzialità è attingibile: martedì sera su Rai3 Il cavallo e la torre ha piantato la sua bandierina. A questo format di stretta attualità e di tradizione nobile (La cartolina di Andrea Barbato, Il Fatto di Enzo Biagi), Marco Damilano ha dato un tocco di ricettività intima, vagamente sepolcrale. Punta sull'ospite del giorno. E chi era l'ospite del giorno, nel chiaroscuro caravaggesco di Rai3? Lucia Annunziata, conduttrice su Rai3.
E qual era il fatto del giorno? La presentazione del nuovo libro di Lucia Annunziata, L'inquilino, che Annunziata aveva appena presentato a Quante storie, su Rai3. (…)
Non varrebbe la pena occuparsi di questa goccia se non fosse così rappresentativa del mare. La sinistra si stupisce della rovinosa emorragia di consensi, del "Paese consegnato alla destra", ma dovrebbe stupirsi del contrario per come si ostina a vedere solo se stessa, autoreclusa nella propria egemonia terminale. Se il resto del mondo o è fascista o non esiste, perché dovrebbe esistere lei per il resto del mondo?
Aldo Grasso per il "Corriere della Sera" il 2 dicembre 2022.
Comincio a credere che le manifestazioni d'ipocrisia, per quanto nascoste, siano un lubrificante sociale essenziale, non ne possiamo fare a meno, non solo in tv.
Devo ai frammenti di «Blob» alcune riflessioni.
A #cartabianca ennesimo penoso show di Alessandro Orsini: al di là delle sue idee, ha tratti compulsivi, impossibile discutere con lui. Le liti, si sa, nei talk portano ascolti ma è più facile nascondersi dietro l'ipocrisia e sventolare le bandiere del «confronto», della «libertà d'espressione». Sempre meglio che assumersi la responsabilità di invitarlo. Leggo che la conduttrice Bianca Berlinguer ha chiesto scusa all'on. Lupi. Chi ha invitato Orsini?
A «Ballando con le stelle» ormai le liti fra giurati e ballerini sono una componente della trasmissione; adesso anche fra giurati e giurati. Le liti, si sa, portano ascolti ma è più facile dare la colpa al ballo, alle prestazioni, alle barzellette di Iva Zanicchi. Mai che Milly Carlucci si assuma la responsabilità di qualcosa.
Duro sfogo di Paola Ferrari che ha affidato all'Adnkronos la sua amarezza per non essere stata coinvolta nel progetto sui Mondiali di Calcio in corso in Qatar: «Ora ho molta amarezza, sono stata completamente tolta dai Mondiali dalla Rai, mi hanno tolto tutto dalla sera alla mattina senza alcuna giustificazione da parte dell'azienda, che non mi ha minimamente difeso».
Altro che liti fra prime donne! Quest' azienda deve ancora dirci com' è possibile che una dipendente (articolo 2) possa vendere, sia pure in compartecipazione, all'azienda da cui dipende un prodotto televisivo. Non uno che si assuma la responsabilità di dire qualcosa, magari è normale così. Si potrebbe andare avanti all'infinito, quasi ogni spezzone di «Blob» lascia intravedere lo stigma della dissimulazione disonesta, la parente più stretta dell'indignazione.
Amadeus sa bene che un brano diventa popolare solo con la radio. Prima di annunciare il cast al completo, Amadeus ha tenuto a sottolineare ancora una volta che sceglie le canzoni del Festival di Sanremo con un criterio radiofonico. Paolo Giordano il 27 Novembre 2022 su Il Giornale.
Prima di annunciare il cast al completo, Amadeus ha tenuto a sottolineare ancora una volta che sceglie le canzoni del Festival di Sanremo con un criterio radiofonico: «Penso se quella canzone potrà avere un successo radiofonico. Se uno pensa che io mi chiuda in una sala di incisione con le casse, no. Io salgo in macchina e scelgo le canzoni ascoltandole mentre guido e a volte mi faccio anche dei viaggi apposta per ascoltare le canzoni».
E non a caso ha annunciato che il Prima Festival, in onda su Raiuno prima della gara, sarà condotto da nomi essenzialmente radiofonici ossia Andrea Delogu (Radio2), gli Autogol (anche loro su Rai Radio2) e Jody Cecchetto (foto) che anche durante la settimana sanremese continuerà a trasmettere su Rtl 102.5 e Radio Zeta (Suraci dixit). Vedremo che cosa si inventeranno.
Ma nel frattempo loro rappresentano un altro tassello della visione di Amadeus (finora premiata dai risultati). Nell'epoca in cui si parla di piattaforme streaming e del volano Tik Tok come degli unici motori di popolarità della musica, perché Amadeus continua a guardare alla radio? È un nostalgico? I cosiddetti beneinformati dicono che la radio sia alla fine ma lui continua a costruirci sopra le canzoni del futuro? In realtà Amadeus è perfettamente cosciente della distinzione tra quantità (i miliardi di streaming) e qualità (gli ascolti mirati, selezionati, raccontati). I primi fanno quasi soltanto fatturato. Gli altri fanno soprattutto opinione e poi successo e talvolta pure fatturato. E se, partendo dalla radio, si può anche diventare «virali», è meno frequente il percorso inverso. La radio e la tv sono ancora (non si sa per quanto) detonatori del successo trasversale che serve a raggiungere il maggior numero di persone. La cosiddetta «musica liquida» crea il successo «verticale», che ha numeri altissimi ma difficilmente diventa «nazionalpopolare». Ma per essere di tutti, una festa deve essere per forza popolare.
R. Cro. per il “Corriere della Sera” il 16 novembre 2022.
Con il nuovo anno scolastico torna nelle scuole secondarie superiori «Il quotidiano in classe», il progetto educativo promosso dall'Osservatorio permanente giovani-editori. In decine di migliaia di classi gli insegnanti riprenderanno la lezione settimanale dedicata alla lettura critica e comparata di tre diverse fonti giornalistiche, per sviluppare la capacità di pensiero dei ragazzi e fornire quel pluralismo delle opinioni utile a far capire ai ragazzi i diversi punti di vista su uno stesso fatto e di maturarne uno proprio.
In questa edizione partecipano al progetto il Corriere della Sera , La Repubblica , Il Sole 24 Ore , La Stampa, La Nazione, Il Giorno, Il Resto del Carlino, Il Messaggero, Il Secolo XIX, Il Gazzettino, Gazzetta di Parma, L'Arena, Il Giornale di Vicenza, Bresciaoggi, Gazzetta del Sud, Il Giornale di Sicilia, Corriere delle Alpi, Gazzetta di Mantova, Messaggero Veneto, La Provincia Pavese e la Tribuna di Treviso .
L'adesione al «Quotidiano in classe» prevede che l'insegnante interessato possa partecipare a corsi di formazione gratuiti per illustrare i modelli didattici. Terminata questa fase i prof inizieranno le lezioni in classe mostrando agli studenti come la stessa notizia possa esser letta diversamente dalle testate. Un istituto di ricerca monitorerà gli effetti del progetto.
L'iniziativa è da anni sostenuta da 18 fondazioni di origine bancaria, oltre all'Acri. «Crediamo in una scuola che alleni i giovani a ragionare, non semplicemente a memorizzare», commenta il presidente dell'Osservatorio permanente giovani-editori Andrea Ceccherini.
«Abbiamo bisogno di fornire agli studenti strumenti critici senza data di scadenza, metodi e processi intellettuali innovativi che migliorano nel tempo, capaci di far trovare loro le soluzioni ai problemi complessi che affronteranno nella vita, usando la propria testa, l'ultima assicurazione che gli resta se vorranno essere più liberi». «Questo progetto - dice Ceccherini - vuole essere uno strumento in più nelle mani di quegli insegnanti visionari che vogliono cambiare la scuola italiana».
In Italia: i giornalisti non informano; i professori non istruiscono. Essi fanno solo propaganda. Sono il megafono della politica e delle vetuste ideologie e quelli di sinistra son molto solidali tra loro. Se fai notare il loro propagandismo e te ne lamenti, si risentono e gridano alla lesa maestà, riportandosi alla Costituzione Cattomassonecomunista. In natura i maiali, se ne tocchi uno, grugniscono tutti, richiamando il loro diritto di parola.
Scritto tanti anni fa, ma ancora attuale. John Swinton, redattore capo del New York Times, 12 aprile 1893. “In America, in questo periodo della storia del mondo, una stampa indipendente non esiste. Lo sapete voi e lo so pure io. Non c’è nessuno di voi che oserebbe scrivere le proprie vere opinioni, e già sapete anticipatamente che se lo facesse esse non verrebbero mai pubblicate. Io sono pagato un tanto alla settimana per tenere le mie opinioni oneste fuori dal giornale col quale ho rapporti. Altri di voi sono pagati in modo simile per cose simili, e chi di voi fosse così pazzo da scrivere opinioni oneste, si ritroverebbe subito per strada a cercarsi un altro lavoro. Se io permettessi alle mie vere opinioni di apparire su un numero del mio giornale, prima di ventiquattr’ore la mia occupazione sarebbe liquidata. Il lavoro del giornalista è quello di distruggere la verità, di mentire spudoratamente, di corrompere, di diffamare, di scodinzolare ai piedi della ricchezza, e di vendere il proprio paese e la sua gente per il suo pane quotidiano. Lo sapete voi e lo so pure io. E allora, che pazzia è mai questa di brindare a una stampa indipendente? Noi siamo gli arnesi e i vassalli di uomini ricchi che stanno dietro le quinte. Noi siamo dei burattini, loro tirano i fili e noi balliamo. I nostri talenti, le nostre possibilità, le nostre vite, sono tutto proprietà di altri. Noi siamo delle prostitute intellettuali”.
Quindi, oggi, cosa bisogna sapere? Non bisogna sapere, ma è necessario saper sapere. Cosa voglio dire? Affermo che non basta studiare il sapere che gli altri od il Sistema ci propinano come verità e fermarci lì, perché in questo caso diveniamo quello che gli altri hanno voluto che diventassimo: delle marionette. E’ fondamentale cercare il retro della verità propinata, ossia saper sapere se quello che sistematicamente ci insegnano non sia una presa per il culo. Quindi se uno già non sa, non può effettuare la verifica con un ulteriore sapere di ricerca ed approfondimento. Un esempio per tutti. Quando si studia giurisprudenza non bisogna fermarsi alla conoscenza della norma ed eventualmente alla sua interpretazione. Bisogna sapere da chi e con quale maggioranza ideologica e perchè è stata promulgata o emanata e se, alla fine, sia realmente condivisa e rispettata. Bisogna conoscere il retro terra per capirne il significato: se è stata emessa contro qualcuno o a favore di qualcun'altro; se è pregna di ideologia o adottata per interesse di maggioranza di Governo; se è un'evoluzione storica distorsiva degli usi e dei costumi nazionali o influenzata da pregiudizi, o sia una conformità alla legislazione internazionale lontana dalla nostra cultura; se è stata emanata per odio...L’odio è un sentimento di rivalsa verso gli altri. Dove non si arriva a prendere qualcosa si dice che non vale. E come quel detto sulla volpe che non riuscendo a prendere l’uva disse che era acerba. Nel parlare di libertà la connessione va inevitabilmente ai liberali ed alla loro politica di deburocratizzazione e di delegificazione e di liberalizzazione nelle arti, professioni e nell’economia mirante all’apoteosi della meritocrazia e della responsabilità e non della inadeguatezza della classe dirigente. Lo statalismo è una stratificazione di leggi, sanzioni e relativi organi di controllo, non fini a se stessi, ma atti ad alimentare corruttela, ladrocinio, clientelismo e sopraffazione dei deboli e degli avversari politici. Per questo i liberali sono una razza in estinzione: non possono creare consenso in una massa abituata a pretendere diritti ed a non adempiere ai doveri. Fascisti, comunisti e clericali sono figli degeneri di una stessa madre: lo statalismo ed il centralismo. Si dicono diversi ma mirano tutti all’assistenzialismo ed alla corruzione culturale per influenzare le masse: Panem et circenses (letteralmente «pane e [giochi] circensi») è una locuzione latina piuttosto nota e spesso citata, usata nell'antica Roma e al giorno d'oggi per indicare in sintesi le aspirazioni della plebe (nella Roma di età imperiale) o della piccola borghesia, o d'altro canto in riferimento a metodi politici bassamente demagogici.
Oggi la politica non ha più credibilità perchè non è scollegata dall’economia e dalle caste e dalle lobbies che occultamente la governano, così come non sono più credibili i loro portavoce, ossia i media di regime, che tanto odiano la "Rete". Internet, ormai, oggi, è l'unico strumento che permette di saper sapere, dando modo di scoprire cosa c'è dietro il fronte della medaglia, ossia cosa si nasconda dietro le fake news (bufale) di Stato o dietro la discultura e l'oscurantismo statalista.
Un tempo non si buttava niente. Tutto si riciclava. Un tempo si era solo rigattieri senza speranza. Si acquistava e si rivendeva roba vecchia, usata, fuori uso o fuori moda, specialmente vestiti, masserizie e simili. La rigattierìa era ciarpame vecchio senza valore, oggetti di scarto.
Oggi, in nome del consumismo sfrenato, alla faccia dei comunisti desunti, non si butta il vecchio o rotto cialtrame, ma tutto quello che in casa non trova posto o non viene usato. I figli crescono? La tecnologia avanza? I vestiti son fuori moda? Via tutto. Roba nuova, oltretutto ancora imballata, la ritrovi nelle oasi della raccolta differenziata dei rifiuti. A regalarla agli altri, sia mai. Anzi buttata…E poi chi la vuole? A proporla diventa un'offesa. Il consumismo sfrenato anche per chi non ha da mangiare… Dove siamo arrivati. I conformisti e conformati, poi, se ti vedono a razzolare intorno a quei beni buttati, ma utilizzabili, ti prendono per un “Barbone” che rovista nei rifiuti.
Oggi si è solo Antiquari. Il rigattiere, a differenza dell’antiquario, non seleziona e non valorizza; semplicemente, rimette in circolazione dei beni che possono avere ancora una loro funzione. Ed oggi le cose vecchie vanno solo al macero. Vale per le cose; vale per le persone.
È ora di dirselo, l’uomo comune è una merda. Dopo la Teoria della classe disagiata, minimumfax continua ad analizzare la società italiana contemporanea, ma questa volta si parla della Gente, quella variopinta galassia di umanità rabbiosa, che odia la Casta e non si fida più di nessuno, ma che è ormai al centro della politica italiana, scrive Andrea Coccia il 24 Ottobre 2017 su L’Inkiesta. Non è passato nemmeno un mese dall'uscita in libreria di Teoria della classe disagiata, il libro con cui Raffaele Alberto Ventura ha cercato di descrivere la traiettoria e lo scacco a cui è soggetta la classe creativa e intellettuale, minimumfax torna ad affrontare la realtà con un libro che per molti versi alla Teoria di Ventura è speculare. Si tratta de La gente. Viaggio nell'Italia del risentimento e raccoglie l'esperienza di reporter di Leonardo Bianchi, uno che negli ultimi anni si è fatto notare per le sue scorribande pubblicate da Vice, Internazionale, ValigiaBlu, ed è sostanzialmente un ritratto, multiforme e sfaccettato come il soggetto di cui parla, di una parte della società che probabilmente per i disagiati di Ventura è “fuori dalla bolla”, ma che rappresenta una grande parte dell'Italia e non solo. Dal movimento dei Forconi ai neofascisti delle periferie romane, dai complottisti agli anti gender fino ai giustizieri della notte de noartri, difensori improvvisati dell'ordine pubblico e paladini della legittima difesa, ma anche buongiornisti, gonzonauti e boccaloni di ogni tipo: la galassia della Gente — che altri chiamano la Ggente, con la doppia — è dispersa per tutta la penisola, da Nord a Sud, e pure al Centro, non fa distinzione geografiche, né campanilistiche. Il denominatore comune di questa ggente è la rabbia, il risentimento, il richiamo all'autorità — della polizia, delle armi, della legittima difesa — e il rigetto verso qualsiasi cosa c'entri con l'autorevolezza, la conoscenza e l'intellettualità. Attorno ai popoli sono nate le nazioni, che anche se nell'ultimo mezzo secolo stanno dimostrando di essere arrivate al capolinea della loro utilità storica, restano la più grande invenzione politica della modernità occidentale. Attorno alla gente stanno crollando le democrazie. Quello di Leonardo Bianchi è un gran lavoro, ma d'altronde lo è sempre stato. A differenza di quello teorico di Ventura, il suo ha le radici ben piantate nella cronaca, nei volti e nelle vite dei personaggi che mette in scena — e che non di rado racconta in maniera decisamente cinematografica — ma nello stesso tempo riesce a non privarsi della profondità, del tentativo di uscire dall'hic et nuncunendo i puntini e cercando di vedere il quadro complessivo. Per qualcuno la Ggente sarebbe l'ultima evoluzione del Popolo, quell'entità che è entrata a piedi uniti nella politica a partire dall'epoca delle rivoluzioni, ma forse è qualcosa di più complesso. Per cercare di definirlo Bianchi ne traccia tre grandi caratteristiche: il forte risentimento verso la cosiddetta Casta; la rabbia esasperata, indignata, ma soprattutto non imbrigliata in una ideologia di partito; e la tendenza a inventare e a credere a teorie del complotto e versioni alternative nei campi della storia, della geopolitica, della medicina. Eppure, la sensazione che resta dopo la lettura dei reportage di Bianchi è che più che al popolo, questa gente somigli alla folla, quella entità che iniziò ad apparire nell'immaginario collettivo intorno alla metà dell'Ottocento, descritta nel celebre racconto di Edgar Poe, l'Uomo della folla. È probabilmente più da quella massa variegata ma indistinta, da quel flusso che figliò poi nel Novecento la società di massa dell'omologazione e dell'individualismo apolitico che nasce il gentismo e la gente. Attorno ai popoli sono nate le nazioni, che anche se nell'ultimo mezzo secolo stanno dimostrando di essere arrivate al capolinea della loro utilità storica, restano la più grande invenzione politica della modernità occidentale. Attorno alla gente stanno crollando le democrazie. I popoli erigevano monumenti ai propri eroi e ci si raccoglieva intorno al momento delle proprie rivendicazioni politiche, la gente, che non ha nemmeno più grandi rivendicazioni da fare, la strada la teme, la guarda di sottecchi dalle finestre dei piani alti di qualche caseggiato popolare, covando rabbia, rancore, risentimento. Con il popolo una volta si poteva immaginare di costruire delle comunità, con la gente, ora, non si costruisce nulla, ma al contrario, si distrugge.
Orridi conformismi linguistici. Te la do io la narrazione: da Virgilio a oggi come cambia l’arte di raccontare i fatti. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 14 Agosto 2022
Ci fu un’epoca felice in cui la parola “narrativa” non esisteva. E neanche “narrazione” come suo pallido sostituto. Al massimo, la “Narrativa” era la targhetta da libreria per separare i libri di filosofi a dai polizieschi. Poi però a causa del fenomeno Erasmus una generazione ha cominciato a sostituire “obbligatorio” con mandatory e non vi dico i whatever it takes. Ma laggiù, sulle rive del New York Times, si annidava la maledetta “narrative”. Sembra la nostra narrativa, ma è quell’altra cosa che ormai ci impesta. Da un decennio i viaggiatori da e per Bruxelles avevano già scoperto la parola “dossier”, che è francese, ma è passata all’inglese e non puoi più dire argomento, fascicolo, questione. Dossier is a dossier. Amen. E agenda naturalmente. Non la famosa agenda rossa di Borsellino in cui ci doveva essere una massa di informazioni passategli dall’amico-fratello Giovanni Falcone mentre inquisiva il riciclaggio del tesoro russo in Italia che ha portato al trionfo degli oligarchi nell’ex Unione Sovietica. No, l’Agenda che è spuntata in Italia è proprio quel che si intende con il significato latino: “le cose da fare”, e non “come fare le cose”. Quello, semmai, è il manuale delle giovani marmotte. Di qui l’equivoco: Draghi ha una “agenda” segreta? È una palese idiozia. “Di che colore?”, chiedono a destra. “Rosso”, rispondono a sinistra. Avete sbagliato tutti, dice Draghi: l’agenda sono io, perché sono credibile, inutile affollarsi da Buffetti.
La “narrazione”, traduzione italiana di “narrative” (la cui “V” va pronunciata “F” se usiamo l’inglese British) oggi tutti abbiamo capito che cosa sia: non il veritiero ed attendibile racconto dei fatti come accaddero, senza omissioni, aggiunte e manipolazioni. No. La narrazione è una edizione di uno o più eventi, dopo essere stati sistemati in uno “script” (sceneggiatura). La sequenza dei fatti che accadono, delle parole che si dicono e scrivono, delle immagini che si raccolgono ha poco senso finché una parte di questi materiali non è tratta in modo tale da collegare, integrare, accordare alterare forzare, scoraggiare con elementi dubitativi capaci di far vacillare un’opinione formata mettendola in crisi. Questo Covid andava trattato con vaccini e mascherine, precauzioni e disciplina, oppure alla Boris Johnson che se l’è beccato due volte e alla fine ha dovuto dimettersi dopo con una campagna mediatica da molti considerata di scuola russa? Non lo sappiamo. Dipende da come scriviamo, impaginiamo, titoliamo, poniamo l’enfasi del bene e carichiamo lo stigma del male, ovvero glissiamo, deridiamo, omettiamo.
È insieme una artigianalità e un doppio fondo. Il pubblico pagante e la pubblicità che lo insegue chiedono emozioni. I talk show italiani hanno necessità di rissa gridata per far salire l’Auditel e l’importanza degli argomenti o della qualità di quel che viene detto è assolutamente secondaria e anzi spesso di gran fastidio. Quando, dopo molti anni sono tornato a dirigere un giornale di provincia, ho scoperto che da decenni la ricerca delle informazioni è sostituita dai social nutriti da versioni già manipolate. L’operazione più antica e riuscita fu quella di Virgilio che per conto di Ottaviano inventò una storia di Roma che legasse il suo editore alla dea Venere per costruire un passato del suo committente che lo rendesse discendente di Enea e di zia Venere. Il vincitore nella sanguinosa rissa militare che seguì l’assassinio di Cesare, aveva scelto per sé un titolo preso in prestito dal verbo “augeo” che vuol dire aumentare e si battezzò l’aumentatore, Augustus per potersi aumentare patrimoni e un curriculum vitae.
Vladimir Putin sta riscrivendo la storia per quelle migliaia di ucraini che ha catturato e deportato in lontani villaggi, cambiando i loro nomi, lingua e libri di storia. Usando cioè la stessa tecnica sperimentata da Mussolini con gli abitanti del Sud Tirolo. Aveva trovato un accordo con Hitler con cui si consentiva agli abitanti di lingua tedesca dell’Alto Adige di trasferirsi in Germania. Chi rimaneva avrebbe dovuto accettare l’annichilimento dei nomi così come il paesaggio: il lago Carer See sarebbe diventato lago di Carezza e la polizia fascista si sarebbe trasformata in polizia etnica. Per questo i sudtirolesi hanno un ricordo abominevole del fascismo italiano. Si può modificare il ricordo della storia recente? È proprio per questo che serve la narrazione, o narrative, che prima si chiamava “linea editoriale”. La narrazione è la propaganda.
E questo prodotto, la narrazione che diventa propaganda, fu ciò che avvenne a Repubblica, di cui ancora molto si parla in seguito alla morte di Eugenio Scalfari. E poiché oggi sono pochissimi gli antichi protagonisti sopravvissuti di quell’epoca, a discettare Repubblica sono specialmente coloro che non furono tra quelle mura, che non sospesero la loro vita nelle lunghe e straordinarie mattinate, quando tutto l’universo, la storia, la politica, l’arte, l’economia, la cronaca nera, la poesia e la matematica passavano al vaglio di una ciurma capitanata da Scalfari prima che arrivassero trasferimenti a ondate dal quotidiano del Pci Paese Sera, contrattati direttamente a Botteghe Oscure. Avevo parecchi amici in quel giornale che mi raccontavano come si formassero le liste dei candidabili. Fra cui lo staff dei redattori capo, guidato dal livornese Franco Magagnini, che prima cosa – e giustamente dal loro punto di vista – espulse me dal gruppo dei redattori capo, poiché rappresentavo il nucleo iniziale dei socialisti ribelli e degli extraparlamentari.
Cito questo episodio solo per dire che Repubblica, su cui si appuntavano tutti gli occhi dei politici che speravano di orientare questo clamoroso giornale dove volevano loro, vedevano un continuo ondeggiamento politico che durò per anni prima di stabilizzarsi ma di cui una sola cosa era sicura: il giornale dettava legge a tutti gli altri giornali quanto a narrazione, o “narrative” o propaganda. Tutto era confezionato genialmente e in modo orientato, ogni storia aveva senso nel suo senso politico ed era inebriante surfare. Con spregiudicata leggerezza i fatti sui quali i giornali tradizionali avevano i piedi di piombo. Noi eravamo corsari perché di tutto avevano obbligo, fuorché dire la verità. Eugenio Scalfari lo teorizzava: “Noi facciamo campagne: abbiamo un nemico e siamo un vascello da guerra”. Poiché gli anni Ottanta furono quelli dell’orientamento sdraiato sul Pci di Enrico Berlinguer, io mi stufai dopo un po’ e fui mandato a dare una mano a Nello Ajello che guidava il supplemento Satyricon in cui scrissi un pezzo su una ministra dei beni culturali che si dovette dimettere perché diceva seriamente “A ogni Pier sospinto”.
Un esempio recente? Alberto Sordi in versione nobile romano reazionario e antisemita. Che cosa ricordano tutti per immediata associazione? Il celebre verso “Io so’ io e voi nun siete un cazzo”. Quel verso è il marchio del film e dell’epoca e sullo schermo lo declama magistralmente e con disprezzo Sordi. Purtroppo, quel verso non c’entra niente col marchese del Grillo perché fa parte di un sonetto di Giuseppe Giachino Belli sulla Restaurazione: quando il re mandò il suo boia a leggere nelle piazze il nuovo editto dei principi restaurati che diceva “io so’ io e voi non siete un cazzo, sori vassalli buggiaroni, e zitto^ Io la vita nun ve la do: io ve l’affitto… E il popolo chinava la testa mormorando “è vero, è vero”. Non riuscirete a far capire ad inglesi e americani che l’espressione latina “Qui pro quo” vuol dire fischi per fiaschi, lucciole per lanterne, e non vuol dire “io ti do questo, tu dammi quello”, che semmai sarebbe “Do ut des”.
Schiodare dai pregiudizi politici ma anche linguistici o tradizionali di un gruppo è un’impresa quasi impossibile. E riconoscere un prodotto avanzatissimo della manipolazione che è qualcosa di più di una bugia, è quasi impossibile. Una fabbricazione non è una menzogna, ma un’opera giardiniera come i bonsai: non è affatto un diverso punto di vista, una narrazione alternativa o come anche si dice pudicamente in Italia una “linea editoriale”. Una fabbricazione è un fondale di realtà inventata. molto simile a quello vero, ma con alcune correzioni che lo rendono diverso. Come mai? Perché di più in Italia che altrove nel mondo occidentale? L’Italia uscì dalla guerra divisa da zone di influenza: militari, ideologiche e religiose, in bilico sul crinale di una guerra civile che ancora cova sotto le ceneri e che ha dovuto essere costantemente disinnescata attraverso compromessi.
Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.
Gli antimoderni che dicono no a ogni novità. Vincenzo Trione su Il Corriere della Sera il 12 Luglio 2022.
C’è un ampio gruppo di intellettuali di sinistra impegnato a opporre rifiuti ideologici a qualsiasi cambiamento, portato a fare barricate contro ogni riforma e iniziativa che riguardi i beni culturali
Le concessioni dei siti archeologici per i concerti (Circo Massimo per i Måneskin e Caracalla per l’opera lirica)? Il trasferimento della Biblioteca di Storia dell’arte da Palazzo Venezia a Palazzo San Felice (a Roma)? Lo spostamento della Biblioteca Nazionale di Napoli all’Albergo dei poveri? E ancora: il patrimonio dei libri di Umberto Eco diviso tra Brera e Università di Bologna? Il prestito all’estero di alcuni capolavori? L’esposizione delle straordinarie sculture della controversa famiglia Torlonia? E l’arena da costruire al Colosseo? Domande diverse alle quali la risposta è sempre la stessa. «Io preferirei di no», come ripete il Bartleby di Melville.
Potrebbe essere, questa, la battuta utilizzata dai tanti iscritti all’ampio, diffuso e trasversale partito degli antimoderni di sinistra. Nella maggior parte dei casi, si tratta di intellettuali che condividono inclinazioni conservatrici. Da anni questo partito è in azione, impegnato a opporre rifiuti ideologici a qualsiasi cambiamento, portato a fare barricate contro ogni riforma dei beni culturali. Pur indossando la maschera dei progressisti, gli animatori del gruppo sembrano non essere mai usciti dal Novecento.
Mirano a non intaccare lo status quo, attenti a non alterare consuetudini oramai ridotte a ritualità svuotate di senso, afflitti da un passatismo rigido, ostili nei confronti di ogni avanguardia e di ogni contaminazione, interpreti di un’Italia che guarda soprattutto dietro di sé, ancorata al culto dell’antichità e del Rinascimento. I rischi insiti nelle sistematiche e prevedibili interdizioni sono chiari. Incapaci di farsi coscienze critiche, gli antimoderni di sinistra tendono a valutare in modo pregiudiziale iniziative e provvedimenti volti ad alterare l’ordine delle cose, senza entrare davvero nel merito di quelle proposte. Voci di un Paese che troppo spesso vive il presente non come opportunità né come domanda aperta, ma come inciampo della storia.
Gianni Bonina per “Libero quotidiano” il 4 luglio 2022.
Se nell'Ottocento Rubempré di Balzac poteva pensare che per diventare famoso gli fosse necessario scrivere un romanzo, oggi la regola è che per scrivere un libro bisogna essere già celebri. Di conseguenza un autore di talento si vede scavalcato, nelle scelte di editori e agenti letterari, anche da un concorrente di Masterchef che abbia avuto i suoi cinque minuti di notorietà.
In libreria e negli store book arriva perciò ogni piacioneria e faciloneria, per modo che chiunque si sente legittimato a scrivere un libro, non occorrendo più qualità ma corrività. Il risultato è l'inondazione di testi inediti che si riversa su case editrici e agenzie letterarie costrette ad alzare dighe nei modi più diversi e strenui.
La più curiosa è della Laura Ceccacci Agency che gratuitamente accetta solo i primi tre testi inoltrati per email a inizio di ogni mese, cosicché ha qualche labile chance chi è più abile su internet che chi sappia scrivere meglio. A volerne qualcuna in più occorre pagare, così da avere una scheda di lettura da conservare come effimero attestato.
Al pari della Ceccacci operano tutte le agenzie, non più solo letterarie ma soprattutto di servizi editoriali, compresi corsi di scrittura ed editing. Del resto, se incassano non più di 30 centesimi per ogni libro di 20 euro che si vende, quando ne pagano in media 100 al lettore cui affidano un inedito da valutare, farsi pagare equivale a sopravvivere.
Ma avverte Giulio Mozzi, pioniere delle scuole di scrittura: «Le agenzie che campano principalmente con una frazione dei diritti guadagnati dagli autori sono necessariamente serie, quelle che campano con i soldi che prendono direttamente dagli autori sono dubbie». Sono dunque in gran parte dubbie?
Persino la storica Ali, oggi Tila, si fa pagare ed è anzi la più cara. Una sua scheda può costare mille euro se l'inedito supera appena i 350 mila caratteri. Anche se tra le prime in Italia, The Italian Literary Agency è aperta a tutti.
Chiusa invece a chiunque è la Roberto Santachiara, che non ha nemmeno un sito web né una pagina Facebook. Impossibile raggiungerla se non tramite la vecchia posta ordinaria. «Di norma non parlo della mia attività - si schermisce Santachiara. - Il fatto è che non amo molto la pubblicità e in generale preferisco non apparire». Il fatto veramente è che a Santachiara non piacciono gli esordienti e gli sconosciuti. Così fan tutti gli agenti, che forse più degli editori vanno oggi sul sicuro.
«L'autore sicuro non esiste - ribatte Stefano Tettamanti, agente di lungo corso della Grandi & Associati. - Se per sicuro s' intende bravo, allora verso di lui si orientano tutti». Il problema è però che a essere bravo è chi vende, perché a decretare il talento è il mercato. Per arrivare prima a conquistarlo, oggi più di ieri, l'autore si rivolge sempre più non alle agenzie ma agli editori.
Dice Ugo Marchetti, navigato agente della Emmeeerre: «Penso che alcuni esordienti preferiscano inviare le proprie opere direttamente agli editori anche per evitare di pagare i costi dei lavori propedeutici alla presentazione dei testi. Per moltissimi agenti è diventata ormai una consuetudine chiedere un contributo d'ingresso (talvolta sostanzioso e magari non vincolato alla proposta di un mandato di rappresentanza) per le schede di valutazione e le eventuali indicazioni di microediting.
Un agente deve saper ascoltare ma, per esperienza, sa che è difficile lavorare con esordienti che, a detta loro, hanno scritto "un capolavoro che venderà almeno centomila copie».
Ma poi succede proprio questo: che, come per Volevo i pantaloni di Lara Cardella, 100 colpi di spazzola di Melissa P., La solitudine dei numeri primi di Paolo Giordano e per ultimo Le otto montagne di Paolo Cognetti, esordienti abbiano successo per ragioni proprie del mistero dell'editoria e che siano innanzitutto gli agenti a correre loro dietro.
Di regola però succede quanto confessa Tettamanti: «Credo che gli unici a mostrare interesse per gli esordienti siano gli esordienti stessi. Gli agenti letterari se ne infischiano, non parliamo degli editori. I famigliari degli esordienti poi li strozzerebbero, prima e dopo l'esordio». Una boutade che sottende l'allergia degli agenti nei confronti dei principianti.
Chi valuta i testi gratuitamente e non fornisce schede di valutazione (ma lascia che a pagamento l'esordiente possa rivolgersi alla Scuola Palomar che le fa da prima istanza) è l'americana Vicky Satlow che promette: «Per chi sente il bisogno o il desiderio di rivolgersi ad un'agenzia, le mie porte sono sempre aperte».
Una vera rarità nell'attuale scenario, com' è anche nel caso della Piergiorgio Nicolazzini, che valuta testi in generale senza imporre prezzi e condizioni, ma non lascia invero le sue porte sempre spalancate.
A fare pagare ogni servizio, secondo anche la cura dedicata al testo, è la Mala Testa che non ha alcuna remora a proclamare sul proprio sito come la passione di chi lavora nel mondo dei libri non sia di per sé una ricompensa. Lo pensava già negli anni Ottanta anche Pier Vittorio Tondelli, scrittore pronto a parlare dei suoi libri solo se pagato bene.
Gli agenti letterari hanno da allora imparato come si fa e anziché i talent -scout si sono addetti a fare i talent-school. Tettamanti può così, in nome della categoria, lasciarsi sorprendere dalla svolta: «Dice davvero? Ma è sicuro? Non me ne ero accorto, ora però quasi quasi ci penso».
Addio Quarto Potere? Analisi sui fatti più rilevanti della comunicazione politica, fake news, censura. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 20 Giugno 2022.
Il terzo grado della Fox. Chi è James Goldston. Al Washington Post l’inclusione è difficile. Il velo delle grandi narrazioni. Ci pensa Boris. Parità di genere ed evoluzione del giornalismo. La digital transformation di ABC. Il nuovo editoriale di Storyword*, una sintesi ragionata delle notizie più significative apparse sui media, nazionali ed internazionali, sull’informazione e la comunicazione nell’epoca digitale.
“Io sono un’autorità su come far pensare le persone”. Recitava così il celebre personaggio Charles Foster Kane, magnate della stampa, nel film “Quarto Potere” di Orson Welles. Un ritratto di come il mondo dell’informazione fosse in grado di influenzare, muovere l’opinione pubblica portando avanti un modo di pensare e fare giornalismo che faceva della persuasione una delle sue caratteristiche principali. Oggi, però, in un contesto mediatico del tutto rinnovato e digitalizzato c’è da chiedersi quanto il lettore medio di giornali e quotidiani tenga conto delle pagine di opinione.
Una risposta arriva dalla Gannett Co., la più grande catena di giornali degli Stati Uniti, editore di Usa Today e oltre 250 quotidiani, che ha iniziato a ridurre nei propri quotidiani le pagine di opinione che starebbero allontanando i lettori, perdendo il loro potere di convogliare il pensiero e la percezione delle notizie. “I lettori non vogliono che siamo noi a dire loro cosa pensare”, hanno dichiarato i redattori, provenienti dalle redazioni di Gannett di tutto il Paese, secondo quanto riporta The Washington Post.
Oggi i fruitori di notizie vivono in una infosfera in cui ogni giorno si è costantemente bersagliati da input e notizie provenienti dall’utilizzo dei social. Un fattore che ha portato “il pubblico contemporaneo a non essere in grado di distinguere tra notizie obiettive e contenuti di opinione” ha scritto il comitato editoriale di Gannett. Il segnale lanciato si avvicina alla volontà di rimodernizzare un’informazione spesso polarizzata istituzionalmente. Non è la prima volta che The Washington Post affronta il tema di un giornalismo proiettato verso un minor uso dell’opinione ma più di racconto dei fatti senza sfumature (vedi Editoriale 80) che, però, non sempre si concilia con la parte più democratica del mondo della stampa che, come spiegava David Jordan, direttore della politica editoriale della BBC, “dovrebbe rappresentare tutti i punti di vista”, sottolineando l’impegno a diversificare le prospettive (vedi Editoriale 66).
Il terzo grado dell’americana Fox
Il Washington Post ha messo in evidenza che i giornalisti che rivolgono più domande e cercano maggiore confronto con la Casa Bianca sono i corrispondenti di Fox News, con l’intenzione di aprire costantemente dibattiti su argomenti come il Covid-19, l’Afghanistan, l’immigrazione, i posti di lavoro o qualsiasi altra tematica su cui l’emittente basa la sua narrazione. Nonostante l’obiettivo di Fox News sia quello di rafforzare le proprie tesi e convinzioni, come ad esempio le elezioni truccate del 2020, dalla Casa Bianca credono comunque che sia importante per i lettori e i telespettatori avere informazioni complete e concrete sull’attualità che a volte però richiedono un lungo tira e molla con alcuni giornalisti critici. Fox News certamente abbraccia come primario linguaggio quello dello scontro con l’obiettivo di polarizzare il dibattito e dare un’immagine semplice e immediata dei propri messaggi (vedi Editoriale 50, 74 e 81). In un mondo in cui il modo di comunicare è fatto di rapidità, immediatezza e in molti casi anche di superficialità, sembra difficile oggi poter sostenere un confronto e dibattito costruttivo, come vorrebbe incentivare la Casa Bianca. Cosa comporta però dare ampia voce e quindi visibilità a fonti e personaggi che potrebbero sostenere e promuovere fake news e teorie complottiste?
Chi è James Goldston
Le sei udienze sull’assalto al Congresso degli Stati Uniti avvenuto il 6 gennaio 2021 verranno trasmesse in diretta tv dai maggiori canali nazionali e James Goldston, ex presidente della ABC News, è stato assunto come responsabile di rete per presentare al grande pubblico il processo in corso. Goldston come spiega il New York Times, avrà un ruolo cruciale nel rendere il più possibile fruibili le udienze, vagliando e modificando le immagini dalle telecamere del corpo della polizia, i video di sorveglianza del corridoio e i filmati grezzi di un documentarista: ore e ore di registrazioni che hanno ripreso l’insurrezione.
Goldston è entrato nel mondo dei telegiornali come produttore, ottenendo infine il primo posto in ABC News, posizione che ha ricoperto per sette anni fino a dimettersi all’inizio del 2021. Ha lasciato la sua prima impronta importante su ABC News come produttore esecutivo trasformando il programma “Nightline”, il telegiornale della notte, più piacevole e meno incentrato sulla politica. Gli ex colleghi di Goldston hanno affermato che quando ha preso il timone come presidente di ABC News nel 2014 ha apportato diverse modifiche alla rete che hanno segnato un cambiamento culturale. Tuttavia, il suo lavoro ha attirato l’ira dei repubblicani, che si sono chiesti se la Commissione abbia aggirato le regole del Congresso coinvolgendolo senza darne il dovuto preavviso. Il leader della Camera repubblicana, Kevin McCarthy, ha accusato i democratici di aver assunto Goldston per dare un’immagine della rivolta del 6 gennaio totalmente diversa dalla realtà. L’ex presidente di ABC News avrà dunque un compito arduo: aiutare i membri del Congresso coinvolti a raccontare e riformulare gli eventi di quel giorno presentandoli a una nazione sempre più stanca e divisa.
Al Washington Post l’inclusione è difficile
Che cosa porta un giornale come il Washington Post a passare dalle grandi inchieste come il Watergate alle ripicche per battute innocue sui social? È questa la domanda da cui parte un articolo de Linkiesta che rivela lo stato di salute un po’ precario che sta affrontando ultimamente il giornalismo americano (e non solo). Nei giorni scorsi il Washington Post è stato al centro dell’attenzione, non grazie a una buona indagine, ma a causa di un “bisticcio” interno tra colleghi che è poi sfociato nel licenziamento di una cronista, Felicia Sonmez, nell’occhio del ciclone da quando il giornalista David Weigel ha ritwittato una battuta sessista. Il Post aveva sospeso Weigel lasciandolo un mese senza stipendio. Ma il retweet, che Sonmez ha messo in luce per prima, ha poi di fatto sconvolto la vita all’interno della redazione del giornale. Sonmez, che nel 2021 ha citato in giudizio il giornale per discriminazione (la causa è stata recentemente respinta e lei ha intenzione di ricorrere in appello), nell’ultimo periodo è stata schietta su questioni legate all’iniquità in redazione.
Nei suoi commenti pubblici era stata molto critica nei confronti della leadership del Post, inclusa la direttrice Sally Buzbee, insieme a molti dei suoi colleghi. Alcuni dei suoi colleghi sono andati su Twitter per chiedere a Sonmez di smettere di attaccare il Post sui social media. Jose A. Del Real, un giornalista, ha risposto sabato dicendo che il tweet di Weigel era “terribile e inaccettabile. Ma – ha aggiunto – unire internet per attaccarlo per un errore che ha commesso in realtà non risolve nulla”. Buzbee ha tentato due volte di reprimere le lotte intestine pubbliche attraverso dichiarazioni, incluso un severo promemoria rilasciato più volte ai dipendenti. In quel memorandum, Buzbee ha delineato le regole che tutti i membri dello staff dovrebbero seguire: “Non tolleriamo che i colleghi attacchino i colleghi né faccia a faccia né online – ha scritto Buzbee -. Il rispetto per gli altri è fondamentale per qualsiasi società civile, inclusa la nostra redazione”. Poco importa come si risolverà la questione in oggetto, ma occorre forse domandarsi come si è ridotto un giornale che faceva grandi inchieste a farsi notare principalmente per i gossip interni.
Il velo delle grandi narrazioni
Tendenza naturale di una società, anche a seguito dell’emancipazione di una classe sociale (come avvenuto nel dopoguerra con la classe operaia), è quella di proteggere un risultato e un benessere conseguito, inevitabilmente a discapito dell’uguaglianza sociale. Secondo Thomas Piketty, “ogni epoca produce, quindi, un insieme di narrative e di ideologie contraddittorie, finalizzate a legittimare la disuguaglianza”. Soprattutto al fine, scrive la politologa Nadia Urbinati su Domani, di far credere al singolo componente della società che la sua posizione nella scala sociale sia quella che più gli si addica, poiché giusta, proporzionata, meritata, destinata, affinché non minacci i privilegi di chi si trova al gradino superiore. Nella democrazia, la narrativa che giustifica la disuguaglianza tra uguali (per diritto) ha radici nel merito: uguali per legge, diseguali per risultati conseguiti. L’individuo accetta che ciò che possiede è il frutto della sua sconfitta in una battaglia tra pari. Il perdente non merita nulla di dovuto, ma riceve dal vincente per “benevolente” scelta filantropica. In questa narrativa, tuttavia, del merito si considera solo il punto di arrivo, e mai quello di partenza, che cela disuguaglianze sostanziali. In un altro editoriale di Domani, si spiega che, per tali ragioni, rimuovere il velo delle grandi narrazioni (anche se edificanti, e anche in tempo di guerra) è il solo modo per rimanere vigili sugli interessi del potere. Il soft power dello storytelling cela l’hard power dello spazio economico. In queste dinamiche, i media acquistano il ruolo dei partiti, cercando di spartirsi un’audience, e i partiti si “de-partitizzano”, perdono colore, per parlare indistintamente al “pubblico”. I media, rendendosi partigiani di idee, perdono così la loro funzione di monitoraggio delle dinamiche di potere, mentre i partiti, affamati di audience, perdono la funzione rappresentativa di specifici interessi.
Ci pensa Boris Johnson
Nel Regno Unito di Boris Johnson nasce il Centro per le tecnologie emergenti e la sicurezza (CETas), una nuova struttura dell’Alan Turing Institute, con l’obiettivo di monitorare le minacce ibride e la disinformazione russa. L’articolo di Formiche descrive la missione del CETas, una squadra di “cacciatori di bufale” che conterà scienziati, analisti, criminologi ed esperti di cybersecurity. L’obiettivo non è solo quello di stanare la propaganda russa (vedi Editoriale 76 e 85), ma di “produrre ricerca sulla tecnologia emergente e la sicurezza nazionale, sviluppare un network interdisciplinare di stakeholders, supportare direttamente la comunità della sicurezza nazionale inglese”, come si legge sul sito.
Paul Killworth, vice consigliere scientifico per la sicurezza nazionale inglese, in un’intervista alla BBC, ha sottolineato l’importanza della data analysis e delle nuove tecnologie per stanare la campagna di disinformazione russa, che comprende video del presidente Zelensky, prodotti con la tecnologia deep-fake, che invita i suoi concittadini a deporre le armi. Le fake russe non si fermano soltanto all’Occidente, ma si estendono anche a Cina, India, Africa e Medio Oriente. Un’arma vincente per contrastare la propaganda russa si è rivelata il ricorso all’open source. Come dimostra il gruppo di neolaureati della California che, nella sera del 23 febbraio, ha notato per primo su Google Maps il movimento delle truppe russe attraverso il confine e ha twittato la notizia. Quali saranno le frontiere delle nuove guerre? E quale la chiave di lettura fondamentale per comprenderle? Sicuramente l’Osint (Open source intelligence) si è dimostrata centrale nella guerra russa in Ucraina, dagli spostamenti nelle trincee alle batterie di equipaggiamento militare fino alle pattuglie di sabotatori.
Parità di genere ed evoluzione del giornalismo
Se il ruolo di giornalismo e informazione è riuscire a rappresentare la realtà, allora necessita di voci e punti di vista differenti, e, in quest’ottica, la parità di genere non è un obiettivo fine a sé stesso. A sottolinearlo è Rolling Stone, che, prendendo ispirazione dal recente studio sulla leadership femminile nei media di 12 Paesi pubblicato dal Reuters Institute, ha fotografato la situazione italiana, caratterizzata da una media di giornaliste censite pari al 42% del totale ma da numeri decisamente più bassi nei ruoli apicali: per quanto riguarda i quotidiani si contano solo tre direttrici, Agnese Pini (a capo di tutte le testate del gruppo Monrif), Nunzia Vallini (Giornale di Brescia) e Norma Rangeri (il Manifesto), mentre i direttori dei sette telegiornali delle maggiori reti televisive e dei cinque giornali online più seguiti sono, senza eccezioni, uomini.
Alcuni studiosi citati nel report del Reuters Institute hanno sottolineato come le direzioni femminili scelgano le notizie in maniera differente da quelle maschili, dedicando, in generale, maggiore attenzione a diseguaglianze sociali di lunga data, interne ed esterne al mondo dei media. Le testimonianze delle vicedirettrici Serena Danna (Open) e Stefania Aloia (Repubblica) e dell’Head di Chora Francesca Milano confermano la tendenza, già sottolineata dagli accademici, della maggiore sensibilità ad alcuni temi, ed evidenziano come, mentre al di fuori del mondo dei media persistono ancora stereotipi come quello della donna angelo del focolare, all’interno le carriere femminili, almeno fino ai ruoli di vicedirettrice o caporedattrice centrale, siano possibili. Resta necessario, però, quel passo in più verso le posizioni apicali, da riservare non a quote rosa ma a professioniste valide e in grado di togliere, come ricorda Aiola, quelle “incrostazioni mentali su questioni legate alla parità, alla responsabilità della parola. Questioni sulle quali i lettori e soprattutto le lettrici, specie quelli più giovani, ormai sono molto attenti”. Profili sicuramente non rari in quel 42% di giornaliste.
La digital transformation di ABC
Come riportato dal Guardian, gli archivisti e i bibliotecari di ABC sono rimasti spiazzati dopo aver appreso che il management ha deciso di tagliare 58 posizioni, portando i giornalisti a dover fare le ricerche e archiviare le proprie storie autonomamente. Inoltre, alcune fonti hanno confermato al Guardian che ulteriori 17 posizioni negli archivi verranno abolite negli uffici di alcune parti dell’Australia, comprese Sydney e Melbourne. Lo staff della biblioteca di ricerca continuerà a supportare programmi investigativi come “Four Corners” e “Background Briefing”, ma non sarà disponibile per le notizie quotidiane o le coproduzioni. ABC ha dichiarato che dopo aver fatto delle valutazioni, è stato determinato che il lavoro svolto da alcuni lavoratori degli archivi non è più necessario, si è evoluto o può essere affidato ad altri dipendenti che ricoprono altre posizioni. Altre 4 posizioni saranno di troppo nel team di post-produzione, perché alcuni processi verranno automatizzati e ABC ha dichiarato che il ridimensionamento fa parte della transizione verso il digitale e i servizi on-demand, nonché per raggiungere l’obiettivo di aumentare velocità ed efficienza. Alla luce di alcuni dati che certificano la direzione verso il digitale intrapresa, la ABC propone di introdurre 30 nuovi ruoli, tra cui “content navigators” che lavoreranno in redazione per assistere i giornalisti nell’utilizzo degli archivi ABC digitalizzati. Così come gli archivi, nel 2018 sono state smantellate anche le biblioteche dei suoni e dei riferimenti, delle quali i bibliotecari conoscevano profondamente la collezione e suggerivano musica per programmi e documentari programmi.
*Storyword è un progetto editoriale a cura di un gruppo di giovani professionisti della comunicazione che con diverse competenze e punti di vista vogliono raccontare il mondo della comunicazione globalizzato e in costante evoluzione per la convergenza con il digitale. Storyword non è una semplice rassegna stampa: ogni settimana fornisce una sintesi ragionata dei contenuti più significativi apparsi sui media nazionali ed internazionali relativi alle tecniche e ai target di comunicazione, sottolineando obiettivi e retroscena. Redazione CdG 1947
Milano, scandalo comunista: "Bella Ciao", ecco a cosa hanno costretto i bimbi di 2° elementare. Miriam Romano Libero Quotidiano il 05 giugno 2022.
In piazza gli iscritti dell'Anpi, con bandiere tricolore e fazzoletti al collo. Gonfaloni a lutto e i soliti volti noti nel mondo della sinistra milanese. Ieri a Milano si sono celebrate le funzioni funebri per Carlo Smuraglia, presidente onorario dell'Anpi ed ex partigiano, avvocato e parlamentare, morto lo scorso 30 maggio a 98 anni.
La camera ardente è stata allestita a Palazzo Marino, sede del consiglio comunale, per onorare l'ex partigiano con un tributo simbolico del capoluogo lombardo. Una cerimonia che si è svolta, quasi fino alla fine, senza troppi fronzoli. Cuscini di rose rosse sulla bara, qualche biglietto lasciato in ricordo del defunto.
Pochi presenti. Forse per colpa in parte del ponte e del brutto tempo. Ma tutti si aspettavano qualche persona in più. Landini, Camusso, Emanuele Fiano, Pagliarulo, non sono mancati. Tutto è filato liscio, fin quando in piazza Scala, dove alla spicciolata si dirigevano i pochi iscritti all'Anpi, non è arrivata pure una scolaresca. Bambini di seconda elementare di una scuola milanese. Una mattinata che per loro doveva essere dedicata a una gita scolastica. Erano diretti all'acquario civico di Milano, insieme alle loro insegnanti. Ma hanno deviato, in parte, il percorso.
INDOTTRINATI
Si sono fermati davanti alla camera ardente. Un po' confusi i bimbi si sono guardati attorno. Nessuno di loro conosceva Smuraglia. Nessuno di loro, molto probabilmente, della seconda guerra mondiale, di conflitti e della storia del nostro paese, sapeva nulla. Troppo piccoli per capire e per sapere. I programmi scolastici della seconda elementare si fermano molto prima. Eppure, si sono trovati nel mezzo di quella piazza insieme agli iscritti all'Anpi che celebravano la Resistenza. Così i membri dell'Anpi si sono stretti attorno a quella scolaresca e hanno fatto partire a sorpresa il canto Bella, ciao.
I bimbi ancora più confusi.
Al centro dell'attenzione della piazza, di microfoni e telecamere di giornalisti che riprendevano l'evento. Sono diventati protagonisti all'improvviso di quella cerimonia. Qualcuno di loro, conoscendo le parole della canzone, si è unito al coro. Le maestre non hanno esitato a intonare Bella, ciao, pure loro. Hanno eseguito l'intera canzone, tra applausi dei presenti e sguardi ancora più attoniti dei bambini. Per quei bimbi Bella, ciao è un canto come un altro, senza significato.
Eppure, viene da chiedersi se i genitori di quei piccoli alunni fossero d'accordo a fargli prendere parte alla cerimonia. E se, addirittura, madri e padri ne fossero a conoscenza. I loro bimbi sono diventati protagonisti della giornata insieme all'Anpi. Bella, ciao, infatti, è sicuramente un inno dei partigiani. Ma è pure una canzone carica di contenuti politici, considerato «l'inno dei comunisti». È dunque giusto che vada per bocca di bambini piccoli e inconsapevoli? La scolaresca è arrivata in piazza Scala ieri mattina guidata dalle maestre. Le insegnanti ci hanno tenuto ad assicurare che i bambini non hanno imparato Bella, ciao a scuola.«"Non siamo state noi a insegnarglielo. Gli alunni che conoscevano la canzone, infatti, non l'hanno imparata tra i banchi di scuola. Ma molto probabilmente l'hanno sentita cantare dai loro genitori. È un canto famoso e semplice da ricordare per i bambini», hanno spiegato. Sempre con Bella, ciao, bandiere di Rifondazione Comunista e il pugno chiuso, saluto comunista, alla fine della cerimonia, la folla ha salutato la salma di Smuraglia fino al carro funebre.
"A diciassette anni fui assunta come cronista in un quotidiano di Firenze. E a diciannove o giù di lì fui licenziata in tronco (…).
Mi avevano ingiunto di scrivere un pezzo bugiardo su un comizio d'un famoso leader nei riguardi del quale, bada bene, nutrivo profonda antipatia anzi avversione(..).
Pezzo che, bada bene, non dovevo firmare. Scandalizzata dissi che le bugie io non le scrivevo, e il direttore (…) rispose che i giornalisti erano pennivendoli tenuti a scrivere le cose per cui venivan pagati. "Non si sputa nel piatto in cui si mangia". Replicai che in quel piatto poteva mangiarci lui, che prima di diventare una pennivendola sarei morta di fame, e subito mi licenziò.
(…). No, nessuno è mai riuscito a farmi scrivere una riga per soldi. Tutto ciò che ho scritto nella mia vita non ha mai avuto a che fare con i soldi". Oriana Fallaci
Vademecum. Come sopravvivere all’era della distrazione di massa. Oscar di Montigny su L'Inkiesta il 31 Dicembre 2021. Se continueremo a distrarci pur di non confrontarci con noi stessi e con le nostre mancanze sicuramente lasceremo spazio ad altri che godranno della nostra superficialità.
Secondo una ricerca effettuata dall’agenzia di analisi Oxford Economics, la piattaforma YouTube, considerando l’indotto, contribuisce alla creazione del nostro Pil per 190 milioni di euro su base annua. Ad averne vantaggi dunque non sono solo i cosiddetti creator, alcuni dei quali divenuti vere e proprie celebrità con platee da milioni di iscritti, ma anche tutto il sistema Paese. Sì, perché ci sono in ballo 15mila posti di lavoro che danno occupazione alle maestranze più disparate che comunque necessitano e concorrono alla produzione dei contenuti video: dagli esperti di montaggio sino agli stylist, passando per la comunicazione e la promozione commerciale.
D’altro canto, sia in termini generali sia a livello europeo, la percentuale dei professionisti che, proprio dall’uso della piattaforma video, ha avuto un booster per il raggiungimento degli obiettivi è piuttosto elevata (il 75% circa), e in effetti su YouTube oggi ci si forma, si impara, si migliora, tant’è che ogni giorno si registra la presenza di 122 milioni di utenti attivi che diventano oltre due miliardi su base mensile.
Cosicché è per soddisfare il bisogno di nuove conoscenze di questo infinito esercito di assetati di sapere che ogni minuto vengono caricate su YouTube 500 ore di contenuti. È un bene? È un male? Dipende da quale prospettiva si sceglie per approcciare l’argomento. Se, per esempio, consideriamo quella del bisogno di apprendimento non possiamo che leggere positivamente il dato tutto italiano che vede 9 utenti su 10 dichiarare di utilizzare la piattaforma per accrescere le proprie conoscenze. Tant’è che diversi tra i canali italiani con un buon seguito in termini di iscritti sono di divulgazione scientifica. Tuttavia, se invece consideriamo che a fronte di questa nostra bulimia di formazione e informazione, ulteriormente stressata dalla pandemia, esiste il non piccolo rischio di accedere a notizie, nozioni e informazioni non obiettive, o peggio false, la prospettiva si capovolge.
E qui sono illuminanti quanto preoccupanti i dati che Censis ha recentemente reso pubblici e che evidenziano le percentuali dei nostri connazionali che hanno adottato l’abitudine di informarsi sui social: il 12,6% lo fa su YouTube (tra i giovani la quota è del 18%), il 3% su Twitter (che diventa 5% tra i più giovani), addirittura 14 milioni e mezzo (il 30,1% dei 14-80enni) utilizzano Facebook, con quote che raggiungono il 41,2% tra i laureati, il 39,5% dei soggetti con età compresa fra 30 e 44 anni, il 33% delle donne. E anche se in genere i social vengono integrati ad altre fonti di informazione, è la formula “in genere” che nasconde il trend: 4 milioni e mezzo di italiani si informano solo su queste piattaforme digitali.
Le tecnologie digitali, che hanno letteralmente rivoluzionato il nostro stile di vita oggi si sono radicate talmente tanto da diventarne egemoni e invece noi, che potenzialmente potremmo accedere a ogni branca del sapere in tempo reale, ci auto-limitiamo l’orizzonte di interazione alle community che la pensano come noi e che ci forniscono notizie adattate alle nostre tendenze e inclinazioni. Nessuna generazione umana ha mai neanche lontanamente avuto a disposizione questo potenziale di conoscenze eppure, la realtà e la nostra percezione di essa non sono mai state così distanti perché le preferiamo il piccolo mondo della sottocultura condivisa a scapito, ovviamente, del potenziamento delle nostre capacità di discernimento rispetto a quello che accade intorno a noi.
Se a questo aggiungiamo poi che gli infiniti stimoli a cui siamo sottoposti in rete hanno naturali ripercussioni anche a livello neurologico, il passo successivo è di consumare tutto “a bassa risoluzione”. Oramai siamo capaci di ascoltare musica mentre scorriamo i social, di seguire un podcast mentre giochiamo online. Il che vuol dire che siamo sì capaci di fare attenzione a tre, quattro anche cinque attività contemporaneamente ma l’attenzione prestata a ciascuna è necessariamente scarsa. E questo pregiudica la nostra capacità di andare oltre uno sguardo superficiale sul mondo, e spesso pregiudica in partenza anche la stessa qualità dei prodotti culturali.
Assecondare l’era della distrazione di massa al punto da foraggiarla è più facile di investire tempo, attenzione e energia per approfondire, per andare al nocciolo delle questioni e acquisire consapevolezze. Tuttavia, se continueremo a distrarci pur di non confrontarci con noi stessi e con le nostre mancanze sicuramente lasceremo spazio ad altri che godranno delle nostre superficialità e insufficienza.
È difficile prevedere l’impatto dell’accelerazione tecnologia sulle nostre vite, eppure alcune analisi, concentrate più sulla funzionalità che sull’effetto sui nostri cervelli, ci riescono. Stiamo sostanzialmente trasformando i nostri processi neurologici da percorsi di natura lineare a percorsi di natura esponenziale. Ma anche se stessimo semplicemente attivando nuove funzionalità già insite nel nostro programma di umani, non possiamo non affermare che, anche se ci vorrà del tempo, la trasformazione della nostra specie e ben più che iniziata. Sta a noi, alle scelte che facciamo o non facciamo ora, renderla evolutiva o involutiva.
Propaganda e realtà. Il 2021 delle fake news in Europa e la cattiva lezione di Putin. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 31 Dicembre 2021. Matteo Castellucci. Secondo il Center for European Policy Analysis, il Partito comunista cinese sta copiando alcuni aspetti della strategia della disinformazione di Mosca, ma ha un controllo dei media più coerentw rispetto al Cremlino, che a volte ha messaggi contrastanti persino rispetto a fonti governative come il ministero degli Esteri. Anche nel 2022, il mondo dovrà fare i conti con un’altra pandemia: la disinformazione. Il progetto Eu vs Disinfo del Servizio europeo per l’azione esterna (EEAS) nel 2021 ha scoperto più di 2.700 casi di fake news da parte della Russia ai danni dell’Europa. Quelli censiti sono solo la punta dell’iceberg. In tempo di guerre ibride come la crisi dei migranti sul confine tra Polonia e Bielorussia, un terzo di quest’offensiva riguarda l’Ucraina, al centro anche delle più recenti manovre militari. Ma il vero problema è che Russia e Cina hanno imparato a vicenda, in alcuni casi allineandosi, nelle tecniche di mistificazione e propaganda, come dimostra uno degli ultimi studi del Center for European Policy Analysis (CEPA).
Il Cremlino, insomma, ha fatto scuola. Si è concentrato soprattutto contro Kiev, in parallelo all’escalation di questo autunno. In particolare, con un ribaltamento della realtà, Mosca sta cercando di deformare l’immagine dell’Ucraina, descritta come un paese aggressivo e abbandonato dagli alleati, tanto per fomentare l’opinione pubblica domestica contro il nemico, sempre nella retorica di una dittatura che si sente una «fortezza assediata», quanto per cercare di legittimare a livello internazionale le sue (prossime?) mosse.
Per dare un’idea della potenza di fuoco pro-Cremlino, ogni settimana lo Ukraine Crisis Media Center di Kiev deve provare a disinnescare sul suo sito nuove, divisive falsità. È un mondo al contrario, di cui non arriva eco nella nostra bolla social, dove è l’Occidente a manovrare minacciosamente vicino alle frontiere, con gli Stati Uniti pronti a provocare un incidente nella regione. Prove? Nessuna.
Confinare con la Russia crea più del «mal di testa» di un meme virale del profilo Twitter ufficiale dell’Ucraina. Una nazione satellite come la Bielorussia ha replicato le strategie della sorella maggiore. Il regime di Lukashenko ha incarcerato più di 260 giornalisti. Oltre a censura e repressione, i media di Stato hanno cominciato a incoraggiare la violenza contro gli attivisti e hanno comprato spazi pubblicitari su YouTube per mandare come «ads» prima dei video della piattaforma le false confessioni estorte ai prigionieri politici, che in totale sono più di mille.
Quasi nessuno, a Minsk, si fida delle notizie ufficiali. Appena il 12,7% della popolazione, secondo le stime. Ma, come spiega il filosofo anglo-ghanese Kwame Anthony Appiah, «la disinformazione russa funziona non perché le diamo credito ma perché ingenera una generalizzata sfiducia tale per cui tutte le notizie possono essere derubricate a fake news, perfino quelle vere» (potete leggerlo nell’ultimo Linkiesta Magazine).
Il dato davvero preoccupante è la convergenza, sempre più organica, tra Russia e Cina. Le prove generali sono state all’inizio nella pandemia, nella primavera 2020, quando le teorie cospirative fatte circolare dalla galassia filorussa facevano comodo pure al gigante asiatico per mettere a tacere l’ipotesi di un’origine cinese del coronavirus. Nel 2021 l’allineamento si è ripetuto, segnala il report di fine anno dello EEAS, che in passato per le stesse accuse era stato modificato dopo le pressioni di Pechino. Entrambe le potenze hanno negato le violazioni ai diritti umani subite dalla minoranza degli Uiguri, entrambe hanno sfruttato il caos in Afghanistan per danneggiare l’immagine dell’Occidente «traditore».
Già nel 2020, anche su Linkiesta, era stata segnalato un mutamento nella linea di Pechino: sta(va) cioè imparando dalla Russia come fare propaganda in Europa. Non era una suggestione. Il fenomeno è stato riscontrato e studiato a fondo dal Center for European Policy Analysis, in una mappatura intitolata «Jabbed in the back» (qui la ricerca completa), letteralmente «Vaccinati alle spalle», un gioco di parole che sostituisce alla «pugnalata» della frase fatta il vaccino. Il cambio di segno, infatti, è avvenuto durante l’emergenza coronavirus.
In passato, il Partito comunista cinese aveva promosso campagne di disinformazione globali centrate su temi specifici e strettamente legati alla Cina, per esempio il Tibet, Hong Kong e Taiwan. Durante la pandemia, si è prima concentrato sul negare che il focolaio numero zero fosse Wuhan (in effetti, questo è un tema che coinvolge in modo diretto il regime e le sue responsabilità), poi sull’efficacia della risposta della repubblica popolare e i suoi successi nel contenere i contagi.
«Anche se ci sono prove limitate di una esplicita cooperazione – si legge nell’analisi del CEPA –, esempi di sovrapposizione delle narrative e di amplificazione circolare della disinformazione dimostrano che la Cina stia seguendo una “ricetta” russa, declinata con caratteristiche cinesi. […] Le operazioni delle due nazioni autoritarie si sono evolute nel corso degli ultimi 18 mesi e continueranno a farlo con la diffusione di varianti, vaccini e inchieste sull’origine del virus».
Non è finita. In realtà, anche il Cremlino ha appreso qualcosa dalla Cina. Oltre a rispolverare parte dell’armamentario di epoca sovietica, Mosca sta aumentando la sua presenza mediatica in regioni strategiche, per puntellare il suo soft power e, in particolare, costruire una reputazione di affidabilità scientifica per la sua formula, il vaccino Sputnik V. Pechino non ha copiato alla Russia le fake news come strumento prediletto, anche perché ha un miglior controllo dei media, più coerenti di quelli del Cremlino, che a volte ha diffuso messaggi contrastanti persino rispetto a fonti governative come il ministero degli Esteri.
Il tono di Pechino è poi rimasto «positivo», con l’obiettivo di mostrare la Cina come parte della soluzione, e non del problema, Covid-19. Non a caso, nella fase iniziale sono stati glorificati gli aiuti e le spedizioni di mascherine e altro materiale sanitario ai paesi in difficoltà, Italia inclusa. Gli sforzi si sono però concentrati sull’Africa, tanto che gli utenti di questo continente hanno reso media cinesi come Xinhua, China Daily, People’s Daily, e il Global Times tra le cinque pagine con più seguito al mondo su Facebook. Riempiendo questo vuoto, la Cina si è comprata credibilità quando ha criticato l’assenza dell’Occidente, che sicuramente non ha brillato per altruismo nella distribuzione di vaccini, da queste aree.
Russia e Cina si completano a vicenda per quanto riguarda le sfere d’influenza. La propaganda cinese sta bersagliando le nazioni in via di sviluppo, anche se fatica ancora ad attecchire in Europa, dove è però più forte quella russa. Mosca, anche sotto l’ombrello del network televisivo RT, si è specializzata nella segmentazione. In un primo momento, i contenuti restano neutri e informativi per creare una patina di affidabilità e capitalizzare un bacino di utenti, poi vengono disseminati messaggi diversi a seconda dell’orientamento del pubblico, di solito anglofono. Viene così coperto uno spettro che va dall’estrema destra alla sinistra radicale. Il paradosso è stato ridicolizzare all’estero le stesse soluzioni, come i lockdown, che venivano adottate in patria dal governo di Vladimir Putin.
Infine, notano gli studiosi, la Cina ha risorse mostruosamente superiori a quelle russe. Eppure, finora il Cremlino ha ottenuto risultati migliori, soprattutto in termini di polarizzazione. Ma sembra che Pechino stia imparando la «lezione» di Putin.
La Sociologia. Estratto dell’articolo di Concetto Vecchio per “la Repubblica” il 15 novembre 2022.
L'avvocato Bruno Kessler nell'autunno del 1962 ha trentasei anni. Fianchi largheggianti. Mani tozze. Robusta facondia. Gran cacciatore. Un democristiano di intelligenza visionaria. È nato povero, a Cogolo di Pejo, in val di Sole, e da due anni presiede la Provincia di Trento, cattolica e contadina, la più arretrata nel Nord in tumultuosa crescita. La Dc vorrebbe farne la sede della facoltà di scienze forestali, sede distaccata della Cattolica: il Trentino non è del resto ricco di boschi?
A Kessler la scelta pare riduttiva. Si batte per una scienza della modernità, che formi i tecnocrati del futuro: una facoltà di Sociologia, la prima in Italia. […]
È solo con il suo coraggio. Persino l'unico consigliere del Pci, Sandro Canestrini, lo osteggia. Piega le resistenze come una furia, in sei mesi la facoltà è istituita: in via Verdi, alle spalle del Duomo. «No al Trentino piccolo e solo» è il suo mantra. Una scommessa. Una grande storia dell'Italia del boom.
Sociologia, questa sconosciuta, è un azzardo anche per gli studenti, alle prese con un titolo di studio che inizialmente non è nemmeno riconosciuto. Ci si può iscrivere dagli istituti tecnici, un richiamo irresistibile per i figli della piccola borghesia. Il primo anno gli iscritti sono 226, espressione di un ceto nuovo.
Giungono dall'America, come Larry e Garry, da Napoli come Paolo Sorbi, da Venezia come Marco Boato e Checco Zotti, alcuni già sposati e con esperienze da operai come il torinese Mauro Rostagno, un Dio della contestazione, che al Covent Garden di Londra aveva scaricato cassette di mele. Bussano perfino i preti, come Piergiorgio Rauzi, il primo di nove sacerdoti- studenti. […]
Kessler ingaggia uno squadrone di docenti: Francesco Alberoni, il suo amico Beniamino Andreatta, i giovanissimi Romano Prodi, Pietro Scoppola, Mario Monti, Chiara Saraceno e il marito Gian Enrico Rusconi. Lo studio della società può iniziare.
Ma poi irrompe il Sessantotto e scompagina i piani. Anche quelli di Kessler. Fino a quel momento si andava in facoltà in giacca e cravatta, ora Trento s' incendia nella contestazione. È un fronte d'impronta cattolica che perciò affascina gli altri movimenti studenteschi. Rostagno conia parole d'ordine che resistono tuttora: «Noi non vogliamo trovare un posto in questa società, ma creare una società in cui valga la pena trovare un posto».
Il rettore Alberoni viaggia in Spider e tiene lezioni a casa sua. Il collegio di Villa Tambosi viene ribattezzato Casa del popolo Rosa Luxemburg. Si contestano l'invasione di Praga e le condizioni di lavoro delle commesse all'Upim. Cattolici del dissenso interrompono le prediche. Femministe d'antan, come Silvia Motta, Giovanna Pompili, Leslie Leonelli, Elena Medi, Marianella Pirzio Biroli, formano l'avanguardia del femminismo nostrano.
[…] I riferimenti sono Charles Wright Mills, Theodor W. Adorno e Max Horkheimer. Va in scena un enorme Carnevale intellettuale. La Dc mormora, i trentini sono a disagio. Come in ogni rivoluzione non mancano asprezze ed eccessi. Andreatta definisce i contestatori «Hitlerjugend». Scoppola, colmo di paura, rinuncia all'insegnamento. Franco Venturi paragona i comportamenti dei giovani a quelli degli squadristi.
Studiano a Trento Renato Curcio e Mara Cagol, i futuri fondatori delle Brigate Rosse, il che nella vulgata fa della facoltà la culla del terrorismo italiano. Ma le Br nasceranno a Milano nel 1970, dove i due studenti innamorati si saranno stabiliti dopo aver abbandonato l'università. Cagol morirà in un conflitto a fuoco nel 1976. Il '68, rivoluzione del costume, quindi spazza via l'Italia delle residue incrostazioni fasciste.
Fino a quel momento sono in vigore leggi come quelle che consentono l'adulterio maschile, purché commesso fuori dal tetto coniugale, e puniscono quello femminile. La pillola è ammessa solo come regolatore dei cicli mestruali. Poi il Sessantotto passa, ma Sociologia resta, confermando l'intuizione di Kessler. Ha cambiato il destino di un luogo, Trento. E questa è un'altra storia nella storia.
La Sociocrazia, da Wikipedia, nota anche come Governance Dinamica, è un sistema di gestione che ha lo scopo di arrivare a soluzioni che creino sia un ambiente socialmente armonioso che organizzazioni ed imprese produttive. Si distingue per l'uso dell' "assenso" piuttosto che il voto a maggioranza nel momento della presa di decisioni, e per il momento di dibattito che avviene, prima del momento decisionale, tra le persone coinvolte che hanno un rapporto di collaborazione, conoscenza e uno scopo comune.
La Sociocrazia (originalmente chiamata: Metodo Sociocratico dell’Organizzazione in Cerchi, in inglese: Sociocratic Circle-Organization Method o SCM) è stata sviluppata in Olanda da Gerard Endenburg, ingegnere elettronico e imprenditore, ed è una revisione dell'approccio originario sviluppato da Betty Cadbury e Kees Boeke, educatori e attivisti pacifisti.
Origini.
La parola Sociocrazia deriva dal latino socius, che significa compagno, collega o associato, e dal greco kratein che significa potere, come riferito nella desinenza usata in diversi termini che specificano dove risiede il potere come in aristocrazia, plutocrazia, democrazia e sociocrazia.
Il termine fu coniato nel 1851 dal filosofo francese Auguste Comte, come parallelo alla sociologia, la scienza che studia come le persone si organizzano in sistemi sociali. Comte supponeva che un governo guidato da sociologi avrebbe usato metodi scientifici per soddisfare i bisogni di tutte le persone, non solo quelli della classe dominante. Il sociologo americano Lester Frank Ward, in un articolo del 1881 per la rivista Penn Monthly, sostenne attivamente una Sociocrazia per sostituire la competizione politica creata dal voto a maggioranza.
Ward ampliò successivamente il suo concetto di Sociocrazia nei libri Dynamic Sociology (1883) e The Psychic Factors of Civilization (1892). Ward riteneva che un pubblico altamente istruito fosse essenziale se un paese doveva essere governato in modo efficace e prevedeva il tempo in cui la natura emotiva e faziosa della politica contemporanea avrebbe lasciato il passo a una discussione molto più efficace, spassionata e scientifica sulle questioni e le problematiche. La democrazia si sarebbe così evoluta in una forma più avanzata di governo, la Sociocrazia.
Sociocrazia nel XX secolo
Il pacifista olandese, educatore e operatore di pace Kees Boeke e sua moglie, l'attivista pacifista inglese Beatrice Cadbury, aggiornarono e ampliarono le idee di Ward a metà del XX secolo, implementando la prima struttura organizzativa sociocratica in una scuola a Bilthoven, in Olanda. La scuola esiste ancora: si chiama “Werkplaats Kindergemeenschap” (Laboratorio Comunitario dei Bambini). Boeke vide nella Sociocrazia una forma di gestione o management che presupponeva l'equivalenza degli individui e si basava sul consenso. Questa equivalenza non è espressa con la legge democratica di "un uomo, un voto" ma piuttosto dal gruppo di individui che, ragionando insieme, arrivano ad una decisione che soddisfi ognuno di loro.
Per rendere operativi gli ideali sociocratici, Boeke usò il processo decisionale basato sul consenso, originariamente impiegato dai Quaccheri, che lui descrisse come una delle prime organizzazioni sociocratiche. L'altra organizzazione era la sua scuola, di circa 400 studenti e insegnanti, in cui le decisioni erano prese da tutti coloro che lavoravano insieme, tramite "dibattiti" settimanali che avevano lo scopo di trovare una soluzione mutualmente accettata. Gli individui di ciascun gruppo, arrivati a quel punto, si impegnavano a rispettare la decisione. "Una qualsiasi iniziativa può essere portata avanti solo quando si raggiunge un accordo comune, e l'atmosfera che si viene a creare è completamente diversa da quella che scaturisce dalla decisione a maggioranza".
Boeke definì tre "regole di base": (1) Gli interessi di tutti i membri devono essere considerati e l'individuo deve rispettare gli interessi della collettività. (2) Nessuna azione può essere intrapresa se non c’è una soluzione che tutti possano accettare, e (3) tutti i membri devono accettare queste decisioni quando prese unanimemente. Qualora un gruppo non riuscisse a prendere una decisione, questa è data in carico ad un gruppo di rappresentanti di “livello superiore”, scelti da ciascun gruppo. Le dimensioni di un gruppo decisionale non dovrebbero superare le 40 persone, con commissioni più piccole formate da 5-6 persone che prendano decisioni più di “dettaglio". Per gruppi più numerosi, viene scelta, dallo stesso gruppo, una struttura di rappresentanti per poter prendere decisioni.
Questo modello dà molta importanza al ruolo che gioca la fiducia. Affinché il processo risulti efficace, i membri che formano il gruppo devono fidarsi l'uno dell'altro e, viene affermato, che questa fiducia si costruisce nel tempo, a condizione che si utilizzi questo metodo decisionale. Quando applicato al governo della cosa pubblica, le persone "saranno portate a interessarsi a coloro che vivono a loro vicine". E solo quando le persone hanno imparato ad applicare questo metodo a livello locale, nei loro quartieri, si può instaurare un livello superiore di gestione sociocratica. A quel punto i rappresentanti sarebbero eletti dai più alti livelli locali per costituire un "Assemblea mondiale di concertazione".
"Tutto dipende da uno spirito nuovo che irrompe tra gli uomini. Può essere che, dopo i molti secoli di paura, sospetto e odio, sempre più uno spirito di riconciliazione e fiducia reciproca si diffonda nel mondo. La pratica costante sia dell'arte della Sociocrazia che dell'educazione ad essa necessaria sembra il modo migliore per far progredire questo spirito, da cui dipende la vera soluzione di tutti i problemi del mondo."
Nella pratica contemporanea
Tra la fine degli anni '60 e l'inizio degli anni '70, Gerard Endenburg, un ingegnere elettronico ed ex allievo della scuola di Boeke, sviluppò ulteriormente e applicò i principi nell’azienda di ingegneria elettronica/elettrotecnica di proprietà dei suoi genitori, che avrebbe poi ereditato. Endenburg volle replicare in un ambiente di lavoro l'atmosfera di cooperazione e armonia che aveva sperimentato nella scuola di Boeke. Inoltre riconobbe che in un ambiente produttivo di tipo industriale, con una forza lavoro varia e mutevole, non ci si poteva aspettare che i lavoratori si fidassero l'un l'altro prima che potessero prendere decisioni. Per risolvere questo problema, Endenburg lavorò per analogia per integrare la sua comprensione della fisica, della cibernetica e del pensiero sistemico con lo scopo di sviluppare ulteriormente le teorie sociali, politiche ed educative di Comte, Ward e Boeke. Attingendo alla sua competenza nei principi di funzionamento di sistemi meccanici ed elettrici, la applicò ai sistemi umani.
Dopo anni di sperimentazione e applicazione, Endenburg sviluppò un metodo organizzativo formale chiamato "Sociocratische Kringorganisatie Methode" (Metodo Sociocratico di Organizzazione in Cerchi) da ora SKM. Il metodo di Endenburg era basato sul processo di feedback (retroazione circolare), quindi fu chiamato "processo di feedback causale circolare", ora definito comunemente come processo di feedback loops. L’SKM utilizza una gerarchia di cerchi corrispondente a unità o reparti di un'organizzazione, ma è una gerarchia circolare: i collegamenti tra ciascun cerchio si combinano per formare circuiti di feedback che collegano tutta l'organizzazione.
Tutte le decisioni sulle linee guida, quelle che riguardano l'allocazione delle risorse e vincolano le decisioni operative, richiedono l’assenso di tutti i membri di un cerchio. Le decisioni operative quotidiane vengono prese dal leader operativo, rispettando le linee guida stabilite nelle riunioni del cerchio. Le decisioni sulle linee guida, che riguardino le aree di responsabilità di più di un singolo cerchio, sono prese da un cerchio più alto, formato dai rappresentanti di ogni cerchio collegato. Questa struttura di cerchi collegati, che prendono decisioni in base all’assenso, mantiene l'efficacia di una gerarchia, preservando l'equivalenza tra i cerchi e tra i loro membri.
Endenburg iniziò a testare e modificare la sua applicazione dei principi di Boeke a metà degli anni '60. Verso la metà degli anni '70, Endenburg iniziò a fornire consulenza ad altre aziende per applicare i suoi metodi e arrivò a collaborare e lavorare con organizzazioni di molti generi.
Negli anni '80, Endenburg e la sua collega Annewiek Reijmer fondarono il Sociocratisch Centrum (Centro Sociocratico) a Rotterdam, e iniziarono ad aiutare altre organizzazioni in Olanda ad adottare l'approccio.
Principi essenziali
Il metodo di Endenburg per prendere decisioni su linee guida fu originariamente diffuso sulla base di quattro principi essenziali, per sottolineare che il processo di selezione delle persone per ruoli e responsabilità era anche esso soggetto all’ assenso. Come spiegato a seguire, adesso è insegnato come Endenburg originariamente sviluppò il metodo su tre principi:
L'assenso governa il processo decisionale sulle linee guida (principio 1)
Le decisioni vengono prese quando non ci sono "obiezioni significative" rimaste, cioè quando c'è assenso informato da parte di tutti i partecipanti. Le obiezioni devono essere ragionate, argomentate e basate sulle competenze di chi lavora proficuamente alla realizzazione degli obiettivi dell'organizzazione. Tutte le decisioni sulle linee guida (dette anche policy aziendali) sono prese con l’assenso, al gruppo è lasciata la possibilità di decidere con l'assenso l'utilizzo di un metodo decisionale diverso. All'interno di queste linee guida, le decisioni operative quotidiane vengono normalmente prese nel modo tradizionale. Generalmente, le obiezioni sono benvenute per aver modo di ascoltare il punto di vista di ogni membro. Questo processo è talvolta chiamato "raccolta delle obiezioni". Viene sottolineato nel metodo, che concentrarsi fin dall’inizio sulle obiezioni conduce a un processo decisionale più efficiente.
Organizzazione in cerchi (principio 2)
L'organizzazione sociocratica è composta da una gerarchia di cerchi semi-autonomi. Questa gerarchia, tuttavia, non costituisce una struttura di potere come accade nelle gerarchie autocratiche, poiché l’area di responsabilità di ogni cerchio è delimitata. Ogni cerchio ha la responsabilità di eseguire, misurare e controllare i propri processi nel raggiungimento dei propri obiettivi. Ha inoltre l’autorità su uno specifico ambito all'interno delle linee guida dell’intera organizzazione. I cerchi sono anche responsabili del loro proprio sviluppo (in inglese) e dello sviluppo di ciascun membro. Viene abitualmente chiamata "educazione integrale" (in inglese), il cerchio e i suoi membri sono tenuti a determinare ciò che devono sapere per rimanere competitivi nel loro campo e raggiungere gli obiettivi del loro cerchio.
Doppio collegamento (principio 3)
Gli individui che agiscono da collegamento sono membri a pieno titolo nei processi decisionali sia del proprio cerchio che del cerchio collegato superiore. Il leader operativo di un cerchio è per definizione un membro del cerchio superiore collegato e rappresenta l'organizzazione nel suo insieme nel processo decisionale del cerchio che conduce. Ogni cerchio elegge anche un rappresentante per rappresentare gli interessi del cerchio nel cerchio superiore collegato. Questi collegamenti formano un circuito di feedback tra i cerchi.
Al livello più alto dell'organizzazione, esiste un “cerchio superiore” ("top circle"), analogo a un consiglio di amministrazione, tranne per il fatto che funziona seguendo le linee guida dell’organizzazione in cerchi invece che imporsi al di sopra di essi. Tra i membri del cerchio superiore sono inclusi esperti esterni, che collegano l'organizzazione al contesto esterno. In genere questi membri hanno competenze di giurisprudenza, governo, finanza, comunità e ciò che riguarda la missione dell'organizzazione. In una società di capitali, potrebbe anche includere un rappresentante selezionato dagli azionisti. Il cerchio più elevato comprende anche l'amministratore delegato (CEO) e almeno un rappresentante del cerchio della direzione generale. Ognuno di questi partecipa pienamente al processo decisionale del cerchio superiore.
Elezioni per assenso (principio 4)
Il quarto principio estende il principio 1. Gli individui vengono eletti a ruoli e responsabilità tramite una discussione aperta e trasparente, seguendo gli stessi criteri dell’assenso usati nelle decisioni sulle linee guida. I membri del cerchio possono nominare se stessi o altri membri del cerchio argomentando le ragioni della loro scelta. Dopo questa fase, le persone possono (e spesso lo fanno) cambiare le loro nomine; la persona che facilita la discussione, a questo punto propone la persona per la quale sono state presentate le argomentazioni più rilevanti. I membri del cerchio possono obiettare a questa proposta e può seguire un'ulteriore discussione. Se per un ruolo ci sono molte persone adatte a ricoprirlo, questa discussione potrebbe richiedere diversi giri di parola. Quando ci sono meno persone qualificate per il ruolo, il processo porterà a convergere più rapidamente su una. Il cerchio può anche decidere di scegliere qualcuno che non è al momento un membro del cerchio.
I "tre principi"
Nelle prime formulazioni dell'SKM (Metodo Sociocratico dell'Organizzazione in Cerchi), Endenburg definiva tre principi e considerava il quarto, elezioni per assenso, non come un principio separato ma come un metodo basata sull'assenso per prendere decisioni quando ci sono più opzioni possibili. Lo considerava quindi parte del primo principio - l’assenso governa il processo decisionale sulle linee guida - ma molte persone fraintendevano il fatto che le elezioni delle persone a ruoli e responsabilità sono allocazioni di risorse e quindi decisioni sulle linee guida. Al fine di enfatizzare l'importanza di prendere queste decisioni con l’assenso durante le riunioni del cerchio, Endenburg lo separò in un quarto principio.
Assenso e Consenso
La Sociocrazia distingue tra i termini "assenso" e "consenso" per sottolineare che non è previsto che le decisioni del circolo producano "un consenso". Assenso non significa accordo o solidarietà. Nella Sociocrazia l’assenso è definito come "nessuna obiezione", le obiezioni sono valutazioni sull’efficacia della linea guida nel realizzare gli scopi dell'organizzazione. I membri che discutono di un'idea, e che si basano sul principio dell’assenso, si chiedono se è "sufficientemente buona per ora, sufficientemente sicura per essere provata". [10] Se la risposta è negativa, vuol dire che c'è un'obiezione da porre, che inizia la ricerca di un adattamento e una evoluzione della proposta originale per risolvere l’obiezione e trovare l’assenso.
Il co-fondatore del Sociocratisch Centrum (Centro Sociocratico), Reijmer, ha riassunto la differenza come segue: "Per avere il consenso, devo convincerti che ho ragione, per avere l’assenso tu ti chiedi se puoi vivere con la decisione".
Interdipendenza e trasparenza
I principi sono interdipendenti tra loro e, per far sì che un'organizzazione funzioni in modo sociocratico, è necessaria l'applicazione di tutti loro. Ognuno supporta l'applicazione e la buona riuscita degli altri. I principi richiedono inoltre trasparenza nell'organizzazione. Essendo il processo decisionale distribuito in tutta l'organizzazione, tutti i membri dell'organizzazione devono avere accesso alle informazioni. L'unica eccezione è la conoscenza di informazioni proprietarie e di tutte quelle che potrebbero mettere a repentaglio la sicurezza dell'organizzazione o dei suoi clienti. Tutte le transazioni finanziarie e le decisioni sulle linee guida sono trasparenti per i membri dell'organizzazione e per i clienti dell'organizzazione.
Oltre ai principi essenziali, le organizzazioni sociocratiche applicano il processo di feedback “pianifica-agisci-misura” nella progettazione dei processi di lavoro e, nelle aziende, la retribuzione si basa su uno stipendio base a livelli di mercato, con pagamenti a lungo e a breve termine calcolati in base ai risultati ottenuti dal cerchio. Le pratiche operative delle organizzazioni sociocratiche sono compatibili con le migliori pratiche della teoria gestionale contemporanea aziendale.
Bevilacqua e la sua visione della «sociatria», ovvero la cura responsabile della società. Antonio Rossello, 14 Giugno 2020 su weeklymagazine.it.
Possiamo affermare di non essere d’accordo. Negare però può dimostrarsi anche in un modo di celare l’evidenza delle cose.
Il coronavirus, nel giro di poche settimane, si è trasformato da problema lontano a minaccia seria e controllabile soltanto con severi lock-down di cui l’Italia si è resa apripista in Occidente, stravolgendo la nostra vita quotidiana. È comprensibile che ci siano state confusione, ansia e paura tra la popolazione.
Sfortunatamente, questi fattori hanno anche alimentato la crescita di una confusione sociale. C’è chi afferma che quanto la politica, corroborata da campioni della virologia militante e sussidiata da immancabili interessi occulti, ha messo in atto sia a tratti illegittimo. Lo starnazzo mediatico assordante intanto confonde vieppiù le idee ad una cittadinanza già prima smarrita, meno attrezzata per un uso critico delle informazioni e della conoscenza. È abbastanza sconfortante il complottismo esasperato che, pregno di tautologie e contraddizioni , ormai ovunque giganteggia.
In antitesi ad una costante del nostro tempo, che è il «coro di bocche chiuse», forgia della distanza dall’impegno, è di pochi una visione risolutiva che passa attraverso un tema inedito per la nostra contemporaneità: interrogarsi su quale sia la cura più efficace per nostra società locale e globalizzata, che sulle questioni più importanti si mostra indifferente e, molto spesso, irresponsabile. Per troppa pigrizia, e per resistenza al cambiamento?
Con un background piuttosto variegato che forse lo ha reso resiliente al punto di essere stimolato da questi tempi foschi, consulente della pubblica amministrazione, ma anche impresario culturale e professore, fiero della sua passione per la lirica e la gastronomia, di cui la sua terra è culla, una vita talora scandita da scelte anticonformiste e originali, ad un passo dall’idealismo di romantica memoria, è quella di Sergio Bevilacqua.
E proprio in questa indeterminazione, il sociologo originario di Reggio Emilia, trova la verve intellettuale per superare un clima in cui non può prevalere l’indifferenza rispetto alle questioni più importanti che coinvolgono le nostre vite. Quindi, ipotizza uno scenario per le scelte pubbliche, attraverso un excursus non banale, e per questo valido, su concetti che nessuna analisi logico-epistemologica dovrebbe permettersi di ignorare. Un processo che può rappresentare la via per nuove forme di responsabilità e partecipazione al governo delle nostre vite, delle nostre società e del nostro destino, espungendo da esso le insidie tanto dovute al crasso materialismo quanto al protervo cinismo.
Bevilacqua, da maestro della versatilità, fuori da un’area sociale conformista, talora capziosa, ha saputo così cucire insieme un significativo spazio di espressione sulla sua pagina Facebook e tra l’altro sulla chat « Il Politico Conservatore», il think tank di cui è fondatore su Whatsapp, aperto a contributi qualificati sulle politiche sociali. Nelle intenzioni si tratterebbe di creare le condizioni per elevare noi tutti dalla posizione di spettatori a un cammino emancipativo, che è allo stesso tempo locale e planetario. Lo scopo è migliorare la cooperazione civile-culturale attraverso un approccio multidisciplinare che combini esperienze e know-how.
E si è rivelato il modo straordinariamente coerente, di chi ha patrimonializzato ogni sua esperienza, anche la più stravagante, in uno strumento chiave per accrescere la propria competenza, per identificare in questo momento di crisi l’opportunità di cambiare finalmente il paradigma economico, trasformando la società dei consumi in una società capace di rispondere ai bisogni reali delle persone. Un’occasione che in pratica ci forzerà a cercare soluzioni più adattive ad alcune necessità che non possiamo ulteriormente ignorare, permettendoci di riattribuire il corretto valore alle cose, di riformulare la nostra gerarchia di valori e priorità.
La leadership che potrebbe essere definita come l’abilità di sfruttare una crisi per ottenere il più grande effetto possibile, e lo è stata se pensiamo a come fu affrontata la Grande Depressione negli anni Trenta con la creazione di efficaci modelli di welfare state, come si pone innanzi al dilemma dell’innovazione sociale? L’imponenza dei mezzi finanziari che, a livello europeo ma non solo, sono in corso di stanziamento fa sì che oggi si possano vedere attorno a noi i germogli di una discontinuità rispetto alle incongruenze dei tempi passati.
Il rischio non sarà di cozzare nei connotati di un’Arcadia ormai perduta e mitica, irriconoscibili in campo economico nella nostra era, in questo impero del digitale, dove ogni cosa è sempre più in funzione dell’immediato utilitarismo? Comunque, Bevilacqua si propone di offrirci la più dettagliata ed attenta diagnosi, attraverso uno studio molto scrupoloso della congiuntura. Esiste dunque un’opportunità in tal senso, senza che essa appaia la fisionomia di un’inguaribile utopia.
Si pone tuttavia una questione di «sociatria», di cura responsabile della società. Infatti, solo la costruzione innovativa di un’impalcatura ortopedica, cioè di una ricongiunzione del legame fra cittadini e forme di governo democratico, può ricostituire la base di una prospettiva di qualità di vita e giustizia sociale. Un humus culturale da ricreare; quello che abbiamo non solo si mostra obsoleto, ma non è più adatto alla contingenza, foriero di un deterioramento, con il quale possiamo prevedere soltanto parossismi sociali di un’intensità mai vista.
Possiamo anche non trovarci d’accordo con tutto questo. Obiettare è pur sempre un gesto compatibile con una nostra presenza attiva. Negare però può dimostrarsi anche in un modo di celare l’evidenza delle cose. Una negazione per svincolarci alle nostre responsabilità. Neghiamo per indifferenza, appunto.
Sergio Bevilacqua e la Sociatria Organalitica. ANTONIO ROSSELLO su Corriere Nazionale.net il 22 agosto 2022.
Perché alcune figure in diversi ambiti si sono intestardite con la Sociatria? Questo non me lo sono mai del tutto spiegato. Forse c’è un elemento indubbiamente metateorico, cioè, detto in parole comprensibili, vogliono qualche cosa di meno astratto della filosofia, della sociologia stessa. Insomma, una prassi?
Non sarà passata inosservata ai lettori la mia intervista esclusiva dal titolo “La sociatria in quanto salute sociale” pubblicata lo scorso 1° agosto. Ne è stato protagonista John Fordham, uno studioso statunitense oggi autonomamente dedito a questo approccio in divenire alle scienze sociali, rientrando in un novero di figure maggiori da me individuate: i sociologi Sergio Bevilacqua e José Luís Zamora e gli artisti Ivan Cuvato e Pedro Reyes. Non mancano però ulteriori interessi emergenti, specialmente in campo artistico, come si evince da tutta una serie di articoli da me curati per queste pagine.
Ad inserirsi nel vivace dibattito in corso sul tema, questa volta è proprio Sergio Bevilacqua, cui avevo già dedicato un pezzo uscito nel giugno 2020 su WeeklyMagazine, il quale risponde alle mie seguenti domande.
D: Bevilacqua, Lei si definisce il padre della “Sociatria Organalitica”: ci può brevemente spiegare di che cosa si tratta? Può ripercorrere alcune fra le principali fasi della sua esperienza scientifica e personale in merito?
R: La Sociatria Organalitica nasce nel quadro della ricerca di un metodo scientifico per l’intervento sul soggetto societario, svolta da me e qualche decina di miei collaboratori dagli anni ’70 ai giorni nostri. Lo scopo è di fornire alla Sociologia una via teorica e pratica di applicazione specifica del metodo sperimentale. Sociatria, dunque, come clinica delle società, e Organalitica come riferimento al metodo dell’organalisi, applicazione alle società umane del metodo lessurgico clinico nato in psicanalisi. Dopo un’applicazione emblematica avvenuta tra il 1979 e il 1981, sono stati trattati col metodo organalitico molte centinaia di casi di società umane, dimostrando efficacia pratica e contenuti teorici coerenti, alla luce della natura di sistemi aperti a razionalità limitata basati su stati stazionari propri delle società umane. È stato così fornito un nuovo fondamento alla Sociologia, che da questa esperienza mutua un più alto grado epistemologico e una maggiore effettività in termini di sapere. L’approccio cerca, come nella fisica, la coerenza tra il livello minimo della sociologia, le unioni duali, con il livello massimo, la dimensione di specie nel suo rapporto con l’ambiente.
Sergio Bevilacqua
D: Sì, d’accordo, intanto però, oltre a Lei e ad altri studiosi di formazione sociologica, altri esponenti, specialmente in campo artistico, si appellano alla Sociatria. Veda, ad esempio, il Maestro Ivan Cuvato, noto influencer, con le sue performance di denuncia sociale, che divengono non solo espressione di libertà civile, ma anche di vita … Che cosa ne pensa?
R: Nell’ambito dell’approccio sociatrico organalitico applicato all’arte, si evidenzia il tema della catarsi artistica quale funzione clinica. Essa è ben conosciuta a livello di clinica individuale, in particolare nell’ambito psichiatrico. Ma si può considerare la catarsi artistica anche una medicina sociatrica? Che la catarsi abbia una funzione di cambiamento di stato nell’umano lo si sa dalla notte dei tempi, dalle Dionisie di Pericle nell’antica Grecia, e anche che ciò possa avvenire a livello di società. È quindi provato un requisito, fondamentale. L’intero ciclo sociatrico deve considerare però anche scopi specifici e risultati. Quindi esiste un percorso molto avvincente per gli artisti che si propongono questa vocazione, come Ivan Cuvato ad esempio.
Ivan Cuvato
D: Almeno fra gli addetti ai lavori, è noto che vi è una branca della Sociologia, denominata Sociologia Clinica, rivolta al miglioramento della qualità della vita delle persone attraverso la valutazione critica delle opinioni, delle idee, dei vissuti e delle esperienze delle stesse. Qual è il rapporto della Sociatria con essa? Vi sono similitudini o sovrapposizioni?
R: Nel campo sociatrico è presente un ambito specifico, che vede l’intervento sulla società umana per risolvere problemi di tipo individuale. Ciò è presente già da tempo nella clinica individuale, con la denominazione istituzionale di Sociologia clinica. L’approccio sociatrico dà il suo contributo su tale argomento vedendo le società umane come soggetti autonomi interattivi e considerando l’intervento sempre nel quadro anche di equilibri di sovra sistema societario.
Sergio Bevilacqua, sociologo clinico ed esperto di psicanalisi, è consulente di grandi organizzazioni pubbliche e private in Italia e all’estero, nonché editore e articolista su varie testate. È autore del volume “Introduzione alla sociatria. La nuova sociologia clinica di società e persone” (Ed. IBUC, Reggio Emilia, ISBN: 8898355300 2018).
La Sociosofia su sociosofia.world
La Sociosofia è la soluzione di tutti i problemi sociali, economici e politici per tutto il mondo.
I tempi sono ormai maturi per un autentico cambiamento.
Informazioni e conoscenze costituiscono le basi del pensiero concreto.
È ormai giunto il momento di svegliarsi, di guardare in faccia la realtà, per comprendere che non siamo vittime di fatalità, e poi di agire di conseguenza. Creare un mondo nuovo, riorganizzando la nostra vita, è possibile.
Tutto dipende dal pensiero. Il pensiero è energia creativa, e se viene nutrito con l'informazione obiettiva e con la conoscenza delle verità e dei retroscena, esso diventa una vera e propria potenza di cambiamento.
E per ottenere appunto questo Mario Haussmann mette a disposizione uno strumento di formidabile efficacia:
Il Manifesto della Sociosofia.
La Sociosofia propone il metodo pratico con il quale diventa facile raggiungere la felicità collettiva.
Che tutti abbiano salute
Che tutti siano in pace tra loro
Che tutti siano realizzati
Che tutti siano prosperi
Lasciate che tutti siano felici
Lasciate che tutti siano liberi dal dolore
Lasciate che tutti vedano dovunque la realtà
Lasciate che nessuno abbia preoccupazioni
(Dal Ramayana)
I Sociosofi
I sociosofi sono il gruppo in crescita di persone che vivono la Sociosofia. Essi conoscono le cause vere delle disfunzioni sociali ed anche il metodo pratico per creare un mondo completamente nuovo in cui la felicità collettiva possa essere stabilita attraverso condizioni generali di vita che favoriscano la felicità degli individui.
Sotto il simbolo della stella arcobaleno si riuniscono le persone che sono convinte che sia assolutamente necessario dar vita a nuovi sistemi sociali, economici e politici in armonia con le leggi della Natura.
I sociosofi sono il popolo della stella arcobaleno, i costruttori del futuro, della giustizia e dell'armonia che tutti sognano. Essi sono i pionieri di un nuovo mondo, le avanguardie di una società libera e prospera. Essi sono coloro che hanno appreso che cosa fare per attuare la grande trasformazione e come farlo.
Predicano unicamente il buon senso e lo mettono in pratica quotidianamente.
I sociosofi stanno attivamente edificando un nuovo ordine sociale in sintonia con le leggi naturali, universali ed eterne.
Sociosofi sono coloro che si sono resi conto che bisogna essere liberi per poter essere felici.
La Sociosofia è il futuro.
E tu? Sei parte del problema o della soluzione?
I sociosofi sono coloro che sono divenuti parte della soluzione.
La Sociosofia è la saggezza della gente. I sociosofi sono la soluzione.
Per essere sociosofi bisogna sapere e conoscere.
Il Manifesto della Sociosofia è la sintesi di tutto quello che bisogna sapere per poter prendere attivamente parte alla grande opera di trasformazione del nostro mondo.
In questo libro vengono svelati i segreti che dotano ogni individuo di potere personale e di libertà d'azione.
Con la conoscenza che si acquista leggendo questo testo basilare della Sociosofia si vedono molti aspetti della vita quotidiana in una prospettiva del tutto inedita, che ci permette di decodificare la realtà in cui viviamo.
Veniamo così dotati degli strumenti che ci rendono autonomi ed emancipati e che ci consentono di adottare comportamenti nuovi e più proficui. Sapere che cosa rende sventurato il mondo e che c'è una semplice via d'uscita da tutte le angustie cambia la vita a chiunque.
Nel Manifesto della Sociosofia sono raccolte tutte le informazioni che ci permettono di essere attivamente parte della soluzione, per questo motivo i sociosofi consigliano sempre vivamente a tutti la lettura del Manifesto della Sociosofia.
Per essere parte della soluzione e non del problema! Intervista al dr. Antonio Giangrande, figura poliedrica, scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’”Associazione Contro Tutte le Mafie” e di “Tele Web Italia”, il quale è autore di un centinaio di saggi che parlano di questa Italia contemporanea, analizzandone tutte le tematiche, divise per argomenti e per territorio.
Viaggio nella Sociosofia: i dintorni di una (eventuale) ancora giovane scienza sociale. Antonio Rossello il 6 marzo 2022 su Weeklymagazine.it ed il 10 marzo 2022 su Trucioli.it
Viaggio nel mondo della Sociosofia: i dintorni di una (eventuale) ancora giovane scienza sociale. Comprendiamo gli autori e le opere che si sono ad oggi occupati di questo neologismo della lingua italiana e spagnola.
Introduzione – In questo articolo, intendo parlare di un termine della lingua italiana, ed anche spagnola, ignorato o, comunque, non sufficientemente trattato sui testi ufficiali: la «Sociosofia», un vocabolo composto ibrido, il quale deriva dal latino societas (società… unione, alleanza, vincolo) e dal greco σοφία (sapienza, saggezza).
Attraverso una ricerca in rete, ho potuto verificato che, invece, le corrispondenti forme inglese, Sociosophy, e francese, Sociosophie, risultano menzionate già nei secoli passati da una pluralità di fonti. Una di esse, il volume in lingua inglese, dal titolo: «Tradition, Modernity, Counterculture: An Asian Perspective» (Ed. Visthar, Bangalore, India, 1998), scritto da Sebastian Kappen, filosofo e teologo della liberazione indiano, riporta la definizione a mio avviso più convincente di Sociosofia: «Saggezza riguardo alla società», che sembra esorbitare l’ambito delle scienze sociali propriamente dette ed insinuarsi in un ulteriore, più profondo, significato.La «Sociosofia» nel mondo ispanico attuale.
José Angel Bergua Amores –
Sullo scenario ispanico, europeo e americano, pare quindi essere soltanto José Angel Bergua Amores, professore di Sociologia, all’Università di Saragozza, ad avvalersi significativamente del termine in sue due pubblicazioni: «Estilos de investigación social : técnicas, epistemología, algo de anarquía y una pizca de sociosofía» (Ed. Prensas de la Universidad de Zaragoza, Saragozza, Spagna, 2011) (NdR– letteralmente: «Stili di ricerca sociale: tecniche, epistemologia, un po’ di anarchia e un accenno di sociosofia») e «Sociosofia» (Ed. Anthropos, Barcellona, Spagna, 2017).
Qui, l’autore sviluppa un punto di vista sociosofico che, superando il trascendentalismo patriarcale, così come l’immanentismo matriarcale, si ispira all’archetipo fratriarcale, che in origine esprime il predominio del fratello maggiore nei confronti delle sorelle ancora nubili, secondo una concezione risalente a 2500 anni fa nella civiltà occidentale. Con questo proposito, egli scrive sopra classici dell’esoterismo come Richard Guénon, Julius Evola, e il «Corpus Hermeticum» (1ª ed. originale: 1050 circa) di Ermete Trimegisto, oltre a flirtare con lo Gnosticismo e lo Sciamanesimo. Con questa (ri)scrittura pone il sociale al posto dell’essere e dispiega un’ampia gamma di concetti destinati a comprendere, in termini riflessivi, e a trasformare, in termini politici, il mondo contemporaneo.
Da queste premesse, la Sociosofia può continuare l’approccio che nella Modernità ha dato origine alla sociologia e assicurare che l’essere è il sociale, aggiungendo che né la società o l’ordine istituito, né le socialità o i poteri istitutivi da soli, rendono conto di ciò che è Sociale.
Il Sociale ha dunque un carattere sacro. Il sociologo Émile Durkheim, nella sua fondamentale opera dedicata a «Le forme elementari della vita religiosa. Il sistema totemico in Australia» (1ª ed. originale: 1913) aveva mostrato che tale sacralità sussiste soltanto da un punto di vista essoterico, nella misura in cui i fenomeni religiosi vengono creati all’interno di una società per conferirle coesione (ovvero, in primo luogo, la religione funziona come una specie di «cemento» sociale). Invece, Bergua Amores la concepisce anche in modo esoterico, a differenza dei pensatori classici e delle teorie dell’esoterismo, secondo cui l’essere era cosmico o naturale ed esclusivamente foriero di conseguenze individuali. Seppur riformulato, in quanto scevro da una pregressa attenzione al sociale, ricevendo solo l’influenza archetipica, l’esoterismo può dunque unicamente consentire di elaborare le conoscenze e la prassi che il nuovo approccio socio-filosofico esige.
La «Sociosofia» in Italia.
Venendo quindi all’ambito italiano, nonostante le assai differenti prospettive teoriche propugnate, ad evocare la Sociosofia nei propri lavori sembrano esservi stati, almeno negli anni recenti, solo i tre intellettuali, che tratteremo secondo l’ordine cronologico di pubblicazione dei relativi lavori.
Francesco Giacomantonio (2012)
Cominciamo con Francesco Giacomantonio, dottore di ricerca in Filosofie e teorie sociali contemporanee, in possesso del Master di II livello in Consulenza etico-filosofica, già docente a contratto in corsi di sociologia presso l’Università di Bari, che annovera un nutrita esperienza nell’ambito della stesura di volumi inerenti scienze sociali, come collaboratore di riviste specializzate. Sulla scorta di studi istituzionali di sociologia teorica e filosofia politica successivi al suo dottorato e alle sue altre specializzazioni, nel 2010 Giacomantonio si accinse alla scrittura della sua opera «Sociologia e sociosofia. Dinamiche della riflessione sociale contemporanea» (Ed. Asterios, Trieste, 2012), poi pubblicata con il patrocinio della fondazione Max Horkheimer di Lugano in Svizzera. Confortato dal parere di colleghi di ambito accademico, scelse di includere nel titolo il termine «Sociosofia», che all’epoca gli risultava ancora inutilizzato in Italia da altri, senza però preludere a implicazioni metafisiche, esoteriche, mistiche o di persuasione politica. È pertanto un testo orientato ad analizzare lo stato della sociologia contemporanea, a seguito delle varie interpretazioni che nel tempo ha dato di sé stessa e degli ambiti e fenomeni di cui si occupa.
In tal senso, ancora in questo inizio di XXI secolo, il suo statuto come scienza non cessa di alimentare discussioni intorno tanto alle ragioni di un politeismo teoretico e della ricerca più avveduta, quanto alla misura in cui sia anche ammissibile elaborare visioni del mondo, della dimensione sociale della realtà umana.
Sorgono interrogativi circa la piattaforma di senso (teorico, pratico, culturale) riflessa dalla sociologia del XXI secolo, dopo le vicende del XX secolo: un tempo problematico ossessionato dalla propria finitezza, incapace di produrre sistemi teorici comprensivi o di credere in essi, governato dalla brutale imposizione di interessi economici, pervaso da visioni apocalittiche, anomia, alienazione ed edonismo insensibile, assordato infine dal suono ruggente di fiumi di parole senza senso.
In particolare, Giacomantonio tratteggia il problema della riflessione sociale – nelle sue dimensioni fenomenologiche, epistemologiche e, in generale, culturali -, confrontando le maggiori posizioni di sociologia, filosofia sociale e teoria sociale nella tradizione del XX secolo, per individuarne un senso rispetto all’evoluzione del mondo attuale, per comprenderne, in modo equilibrato, le dinamiche tra concetti e fenomeni.
L’esito è paradossale: quantunque Karl Marx, .Georg Simmel , Émile Durkheim e Max Weber avessero già ravvisato il malessere dell’età moderna, lo stato di salute della tarda modernità pare addirittura più cagionevole. Tuttavia, difendendo una concezione sociologica fondata sull’articolazione, sull’apertura e sulla cura, l’autore offre una via d’uscita, sebbene provvisoria: una sociologia che si renda, almeno in parte, «sociosofia».
Non bastando soltanto i modelli analitici o funzionalisti, alla base di una simile ispirazione, in contesti sia accademici che pratici, pone il «costruttivismo sociale» de «La realtà come costruzione sociale» di Peter Ludwig Berger e Thomas Luckmann (1966), la «Teoria critica» della «Scuola di Francoforte» e il «Post-strutturalismo» di Michel Foucault.
Si denota, così, una prospettiva consapevole dei propri limiti epistemologici ma tesa a fornire alla mente moderna un minimo di significatività sociale e quindi esistenziale. Si delinea un possibile percorso, lontano dall’apatica indifferenza tra teorie della società e sociologie prive di visione e di autocoscienza. In quest’ottica, «articolazione, apertura e cura» sono dunque i tre pilastri di una possibile declinazione della sociologia contemporanea come «Sociosofia».
Mario Haussmann (2016 e 2019)- Introduciamo, a questo punto, l’autore che pare avere maggiormente puntato sul termine «Sociosofia»: è Mario Haussmann, che si autodefinisce un pioniere sociosofo. Essendo basata sui tre volumi del monumentale «Il Manifesto della Sociosofia» (Ed. Shiva, 2016) e sul più snello «Introduzione alla Sociosofia. La dottrina del -buon senso» (Ed. Verdechiaro, Baiso, RE, 2019), la sua opera configura come un vero e proprio trattato sistematico, i cui lineamenti essenziali sono i seguenti.
La prima considerazione riguarda le riflessioni di Karl Marx tratte da «Le Tesi su Feuerbach» (un suo breve scritto elaborato nell’aprile del 1845, e riportato alla luce nel 1888 dal fido Friedrich Engels dopo la sua morte), il cui motivo dominante è la necessità per la filosofia di passare dalla interpretazione del mondo alla prassi. In quest’ultimo atto sta la missione della filosofia. Il senso ultimo della critica filosofica è quello di contribuire al cambiamento del mondo. Secondo Haussmann, dovrebbe identicamente valere per i sociologi, siccome la sociologia è una scienza strana, la quale, a differenza di tutte le altre, si limita a descrivere i problemi, senza veramente disporsi a risolverli.
A una simile manchevolezza può però rimediare la «Sociosofia», che si pone in quanto «Scienza e Dottrina del Buon Senso». Nel neologismo che la designa, in luogo del suffisso «-logia» (ossia «studio», «trattazione», «dottrina» o «discorso») compare «-sofia» (o anche «sophia»), con il più pregnante significato di «intelligenza», «saggezza» o «sapienza».
Rispetto alla sociologia, la Sociosofia non costituisce una scienza fine a sé stessa, ma una prassi il cui nobile obiettivo è quello di promuovere e affermare tecniche, metodologie e soluzioni di modificazione sociale, di migliorare le condizioni di vita degli uomini, nessuno escluso, agendo direttamente sulla radice economica e politica delle disfunzioni sociali.
In questa ottica, la Sociosofia riconsidera specifici aspetti della civiltà occidentale, ridefinendo in chiave olistica concetti quali: libertà, sfruttamento, coercizione, morale, politica e convivenza civile.
Essa assume a modello di ispirazione la Natura, quale migliore esempio di armonia, si pone come forza ideale in grado di prospettare soluzioni idonee ad evitare ogni imminente disastro sociale, favorendo una evoluzione verso condizioni sociali più eque, più prospere, più stabili, in linea con il desiderio comune sviluppare il proprio potenziale, non tradendo le aspirazioni del cuore.
Ne viene che il filo conduttore nonché l’Essenza della Sociosofia sono riassumibili come: etica nel pensiero; etica nell’azione; etica nella relazione. Da queste premesse, occorre avviare una rivoluzione della Coscienza, cosicché tutti comprendano che un vivere diverso e migliore è non solo possibile ma anche facile da raggiungere. Una simile idea può generare uno tsunami in grado di penetrare ogni resistenza, assicurando le risorse necessarie a realizzare un mondo nuovo in cui l’economia, la politica ed il divenire sociale siano intonati ai principi naturali.
Mirco Mariucci (2019)
Veniamo, infine, a Mirco Mariucci, saggista e fondatore dei blog Utopia Razionale e Animus Flutes, il quale ha all’attivo diverse pubblicazioni. Tra di esse, il «Trattato di Sociologia» (Ed. Youcanprint, Lecce, 2019) – suddiviso in 4 volumi ed in 7 parti: Teoria ed Ecologia; Lavoro; Economia; Società, Utopia ed Esoterismo -, frutto di ricerche durate 7 anni. In quest’opera complessa, dapprima l’autore prende atto che la sociologia è nata come disciplina che ha il compito di analizzare spiegare e interpretare la società, cercando d’individuarne funzionamento, mutazioni ed eventuali criticità, al fine di concepire e proporre soluzioni per migliorare le condizioni di vita di tutti gli esseri viventi che ne fanno parte. Dopodiché, enuclea quanto ritiene esserne le leggi fondamentali, opponendosi ad ogni concezione che si limiti a guardare la società nel modo più possibilmente distaccato ed oggettivo, con la presunzione che spetti ad altri il compito di individuare criticità e soluzioni. Arriva, dunque, a formulare un nuovo paradigma economico ed illustra una sua concezione di società ideale: l’Utopia Razionale. Argomento dopo argomento, l’immaginario collettivo viene decostruito. Analisi, previsioni e soluzioni si susseguono delineando un quadro unitario. Il fine è di donare all’umanità una nuova visione del mondo, da impiegare come motore ideale per trasformare la realtà sociale in senso rivoluzionario.
Venendo agli aspetti che maggiormente riguardano il presente articolo, nel primo capitolo del suo «Trattato», Mariucci ulteriormente ritiene la sociologia sia soltanto una disciplina e non una scienza. Nella sua ipotesi, se si accettano le definizioni correnti di scienza (scienza esatta, dura e molle), la sociologia dovrebbe essere classificata come scienza molle. Cionondimeno, definire una scienza molle non ha alcun senso, aldilà del valore tangibile di cui possono essere anche dotate discipline non scientifiche. Si pensi, ad esempio, alla filosofia che, pur non essendo una scienza, è da porsi al di sopra delle scienze, essendone madre, musa e guardiana. Ma questo è soltanto uno degli innumerevoli, e non meno importanti, compiti svolti dalla filosofia. Pertanto, una sorte analoga dovrebbe spettare alla sociologia, sebbene il suo scopo sia più specifico rispetto a quello della filosofia, e precisamente consista nel prendersi cura della società e dei suoi membri. All’uopo, ci si dovrebbe infine più propriamente riferire alla sociologia, nell’accezione proposta, ridefinendola come «Sociosofia».
Conclusioni- Questo viaggio nel mondo della Sociosofia e dintorni deve necessariamente concludersi qui. La constatazione finale è che, al di là di qualche comune generica afferenza nell’ambito dei saperi sociali e di una coincidenza etimologica, dal punto di vista semantico pare proprio che ognuno degli autori trattati esponga una propria concezione di Sociosofia. In sostanza, fatte le dovute precisazioni in termini euristici, epistemologici ed ermeneutici, emergono differenze tali da rendere del tutto distinte ed indipendenti ogni singola linea di pensiero prima considerata.
Senza dubbio, tutto può essere normale in una (probabile) scienza ancora giovane, obbligata a colmare i vuoti delle proprie conoscenze empiriche con speculazioni teoriche. Seguendo un metodo valutativo razionale di acquisizione elementi che concorrono a formare un giudizio sulle nuove espressioni dell’intelletto umano, una tale assunzione comporta che sarebbe opportuno dare ascolto alle singole voci e valorizzarle in un mosaico di variazioni ontologiche, che sfuggono alle categorizzazioni a priori.
A tal fine il nostro invito ai singoli autori ad illustrare direttamente la propria prospettiva di Sociosofia in una serie di articoli monotematici ad essi dedicati e da pubblicare nel quadro della programmazione redazionale di medio periodo. Il primo sarà a cura di Mario Haussmann. Antonio Rossello
La «Sociosofia» secondo Mario Haussmann. Antonio Rossello il 13 Marzo 2022 su WeeklyMagazine.it
Come anticipato nel mio saggio: «Viaggio nel mondo della Sociosofia: i dintorni di una (eventuale) ancora giovane scienza sociale», recentemente pubblicato su queste pagine, uno degli autori citati, Mario Haussmann, partecipa al dibattito intorno alla «Sociosofia» con un suo contributo.
LA SOCIOSOFIA – di Mario Haussmann (*)
La Sociosofia è stata definita come la «scienza e dottrina del «buon senso». In quanto scienza essa differisce dalla sociologia, poiché questa si limita a studiare e descrivere i fenomeni sociali, mentre la Sociosofia si spinge oltre, nel campo della trasformazione sociale, indicando metodologie concrete per migliorare le condizioni di vita di tutti.
La dottrina della Sociosofia è contenuta nel nome stesso, composto di due parti. La prima, «socio-», si riferisce alla gente, alla sfera sociale, a ciò che riguarda noi tutti, e la seconda, «sofia», significa «saggezza, conoscenza, intelligenza», cioè il «buon senso» appunto. Sociosofia è quello che l’etologia chiama «intelligenza di stormo», il buon senso della gente, la «mente di gruppo», che è chiaramente superiore a quella di ogni singolo membro e che determina e definisce nell’inconscio collettivo la saggezza di un popolo.
Lo scopo della Sociosofia e il suo punto centrale è la Felicità. Infatti, il buon senso ci dice che ciò che ogni essere vivente desidera anzitutto è essere felice, veramente e completamente felice. E la felicità dell’individuo è un fattore concreto, verificabile e misurabile con metodi scientifici come, ad esempio, le analisi sociologiche o le tecniche di diagnosi medica nucleare (PET e MRI). Si può dire, quindi, che l’obiettivo della Sociosofia sia la massimizzazione della felicità per tutti.
A tal fine la Sociosofia si interroga su quali siano i parametri fondamentali perché gli esseri possano raggiungere tale condizione. E le risposte alle quali giunge sono strabilianti, da tanto che sono logiche e semplici. Poiché l’uomo e inserito nel tessuto sociale, dal quale viene plasmato fin dalla nascita e con il quale interagisce per tutta la vita, la Sociosofia ha identificato i punti chiave sui quali bisogna agire per raggiungere il traguardo della massima felicità.
La metodologia utilizzata per trovare queste soluzioni è stata l’osservazione dei processi naturali, l’identificazione delle leggi di natura che li regolano e l’applicazione di tali principi universali agli ambiti della convivenza civile. La nostra Madre Natura ha trovato evolutivamente le soluzioni più efficienti, durature ed anche eleganti per ogni problema e utilizzando i suoi metodi nell’ambito umano e sociale, possiamo risolvere tutti i problemi politici, economici e sociali in maniera semplice, rapida e indolore.
Come il benessere di ogni creatura che popola un biotopo dipende dallo stato generale dello stesso, il benessere dei singoli cittadini dipende dal bene comune, dal livello di benessere e di civiltà raggiunto da tutta la società in cui vivono. Quindi, in primis, deve essere garantito il bene comune di tutta la società, quale base e fondamento del benessere del singolo. Il concetto di «felicità interna lorda” o FIL indica il metro a cui orientarsi e deve sostituire l’attuale parametro guida del PIL, al quale contribuiscono anche eventi che riducono drasticamente il livello di felicità, come incidenti o catastrofi. E come modo per incrementare la FIL non abbiamo altra scelta che seguire «la via della Natura», adattando il funzionamento dei nostri meccanismi sociali ai suoi principi universali.
Da questo punto di vista appare evidente che l’ostacolo maggiore al raggiungimento del bene comune è costituito da un errore strutturale della moneta, che ne inficia la funzione di carburante dell’economia e perverte tutto il sistema monetario (e quindi tutta l’economia) in direzione opposta alla massima felicità per tutti. La Sociosofia propone un nuovo tipo di valuta, creato in armonia con la Legge Naturale, come prefigurato dal genio monetario misconosciuto Silvio Gesell, che essendo libera da fenomeni usurari e al servizio reale della gente, permette il veloce raggiungimento del benessere economico per tutti e la diffusa prosperità crescente.
Poiché oggigiorno nessuna forza politica sarebbe minimamente in grado di mettere in pratica una riforma monetaria di tale portata, la Sociosofia intende introdurre anche un nuovo sistema politico, studiato in modo da essere in armonia con il funzionamento della Natura e che sia in grado di mantenere tutte le promesse di libertà, autodeterminazione e sovranità dei cittadini, che l’ormai obsoleta democrazia partitica e parlamentare non è mai riuscita a mantenere.
Allo scopo di garantire a tutti la felicità individuale, tutti i sistemi sociali, come giustizia, istruzione, sanità, ecc., necessitano di essere armonizzati con i principi universali. Applicando tali principi ad ognuno di questi campi, la Sociosofia ha elaborato concetti del tutto innovativi per ognuno di essi, che nel loro insieme creano lo scenario di un nuovo mondo, di pace, felicità, salute, benessere e prosperità senza limiti per tutti i suoi abitanti.
Nel campo della giustizia, per esempio, va rifatto tutto. Il diritto non può più essere arbitrario, ma deve essere unitario e basato su solide fondamenta filosofiche e scientifiche. Per garantire la felicità, tutte le leggi devono conformarsi ai principi universali, ai valori umani, essere limpide e comprensibili a tutti, in modo da avere l’approvazione generale. Il diritto penale va sostituito con un diritto “riparatorio”, capace di riaggiustare gli squilibri sociali creati dal crimine.
In un’ottica sociosofica l’educazione non ha la funzione di indottrinare la gioventù, riempire le menti delle nuove generazioni con nozioni funzionali al sistema e preparare i ragazzi allo svolgimento di determinate mansioni professionali, bensì il compito della scuola è quello di sviluppare al massimo le funzioni intellettive e i talenti peculiari di ogni bambino, di mettere in grado gli alunni di soddisfare da soli la loro naturale sete di conoscenza e di risolvere autonomamente i loro problemi, nel rispetto dei fondamentali valori, quali la verità, la rettitudine, l’amore, la pace e la non violenza. Cioè la scuola ha il compito di insegnare a vivere bene, intelligentemente ed eticamente la propria vita.
Prendendo spunto dalla Natura, che è maestra nel creare efficienza, robustezza e sicurezza di funzionamento, la Sociosofia indica una via per ricreare tutti i nostri sistemi sociali in analogia ai sistemi naturali. In altre parole, essa mostra la strada indicata dal buon senso per giungere dalla penuria all’abbondanza, dalla schiavitù alla libertà, dai timori e dagli affanni alla felicità, duratura e generale.
Appare quindi evidente che la Sociosofia non rappresenta semplicemente una generica proposta di miglioramento, che non si tratta di una qualche riforma o innovazione. Essa costituisce il progetto completo per un mondo migliore, più bello da viverci. Si tratta di un programma di semplice attuazione, la cui unica premessa è il raggiungimento di un numero critico di persone informate a riguardo. E con la diffusione della Sociosofia questo numero aumenta costantemente, fino a rendere inevitabile il mutamento storico prospettato.
In sintesi, la Sociosofia rappresenta il passaggio da un mondo che tramonta ad uno che sorge, la transizione epocale dal mondo com’era finora, fatto di potere e della prevaricazione di un essere umano su un altro, ad un mondo di completa libertà e sovranità individuale, nel quale sia possibile la completa fioritura del potenziale creativo insito in ogni essere umano. L’arrivo della Sociosofia rappresenta un evento di una portata inimmaginabile, per il quale non esistono paragoni in tutta la storia.
Letteratura per approfondire l’argomento: 1.) Il Manifesto della Sociosofia – è il testo base, nel quale tutte le tematiche sociosofiche sono esposte dettagliatamente e 2.) Introduzione alla Sociosofia – è una breve panoramica delle suddette tematiche.
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(*) Biografia
Il dott. Mario Haussmann è ricercatore, sociosofo, autore dell’opera monumentale «Il Manifesto della Sociosofia» e soprattutto è un pioniere di un nuovo mondo migliore. Sin da giovanissimo egli percepiva che il mondo in cui viviamo non era come dovrebbe essere e si domandava perché gli esseri viventi su questo pianeta dovessero soffrire, essendo condannati a vivere una vita diversa da quella che vorrebbero.
La ricerca della risposta a questa domanda lo ha condotto a studi approfonditi e a compiere molti viaggi, durante i quali incontrò sciamani di tutto il mondo e autentici precettori di saggezza. Nel 1995 avvenne l’incontro decisivo, quando uno straordinario Maestro gli conferì l’incarico di andare a fondo alla domanda, raccogliere tutte le informazioni che conducono alla risposta e farle conoscere a tutti. Nel 1999 chiuse lo studio di pubblicità e consulenza aziendale che dirigeva da 15 anni per dedicarsi a tempo pieno a questo compito.
In anni di costante lavoro il dott. Haussmann è giunto a risultati concreti. Attraverso i suoi libri fornisce la chiave d’accesso ad un futuro meraviglioso e mette chiunque in grado di collaborare alla nascita di un nuovo mondo armonioso e molto più piacevole in cui vivere di quello attuale. Nel 2016 ha pubblicato il risultato del suo lavoro ne «Il Manifesto della Sociosofia», un libro monumentale che ha avuto immediatamente una profonda risonanza. Su richiesta dei lettori del «Manifesto» e per soddisfare il desiderio dei sociosofi di accelerare la diffusione del nuovo ideale ha infine pubblicato nel 2019 per i tipi di Verdechiaro Edizioni un libro più succinto sull’argomento intitolato «Introduzione alla Sociosofia». Tuttora egli dedica tutte le sue energie a rendere note a quante più persone possibile le innovative tesi sociosofiche, alle quali ha consacrato tutta la propria esistenza.
Igor Belansky e la Sociatria: illustrazione e mondi individuali e sociali. ANTONIO ROSSELLO su Il Corriere Nazionale il 20 agosto 2022.
La particolare prospettiva in cui muove la ricerca espressiva del noto illustratore genovese.
Igor Belansky ha letto con estremo interesse la mia recente intervista, su il Corriere Nazionale, al dr. Antonio Giangrande, figura poliedrica, scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’”Associazione contro tutte le mafie” e di “Tele Web Italia”, il quale è autore di un centinaio di saggi che parlano di questa Italia contemporanea, analizzandone tutte le tematiche, divise per argomenti e per territorio.
E proprio le complesse e sofferte battaglie civili condotte da Giangrande sono state motivo di forte coinvolgimento per il noto illustratore, che ispirandosi ad esse ha realizzato la rappresentazione in anteprima. In essa emergono a tutta forza quel suo tipico tratto poco incline ai virtuosismi, lo stile crepuscolare o grottesco che trasmette dissonanze, senza incorrere nella banalità della provocazione. Vi è dunque, piuttosto, il thauma, l’angosciante stupore, la tensione dialettica tra fascino e turbamento nella destabilizzante indeterminatezza delle cose, che spiana la strada alla domanda più che alle risposte, come quando si sprofonda negli oscuri meandri che conducono fino alle più ignote regioni dell’inconscio. Da qui, la voglia di scuotere l’indifferenza, che rappresenta sempre più il male della società moderna.
Evocativo il titolo: “Potere e moltitudine“. Vi si coglie la contrapposizione tra le figure più grandi dei potenti che, con sicurezza ostentata, sovrastano una folla magmatica, disperata, in cui si scorge l’accenno alla morte. Pare la plastica raffigurazione dell’inconscio collettivo, visto come quell’invenzione di Carl Gustav Jung, prestata poi alla teoria politica e delle scienze sociali italiane tra Otto e Novecento, che è più che mai inibita, gettata nell’inazione, eterodiretta in questo tempo postmoderno. Drammatico l’interrogativo: cosa muove l’imprevedibile azione delle «masse» e quali sono le motivazioni profonde che in alcune, eccezionali stagioni spingono gli individui a compiere atti eroici completamente disinteressati o crimini efferati, all’apparenza del tutto irrazionali?
Igor Belansky – Potere e moltitudine
A parte certi, sempre più pochi ed isolati, impavidi paladini della resistenza sociale, ai nostri giorni per la stragrande maggioranza delle persone diventa sempre più difficile prendere posizione o schierarsi. Oggi si è portati ad indignarsi. A sconcertarsi. Ad esprimere giudizi sommari. Ma subito dopo si è capaci di farsi prendere dall’indifferenza. Subentra a quel punto una voluta ignoranza sui fenomeni che ci circondano. Li minimizziamo. Questo non vuole Belansky.
Non a caso, come ho già avuto modo di affermare in un articolo sul settimanale online WeeklyMagazine, nella particolare prospettiva in cui orienta la sua ricerca espressiva, in condivisione con altri esponenti emergenti delle Arti Visive, l’illustratore genovese punta infatti all’affermazione di un concetto, la «Sociatria» (ossia «la cura della società»), attraverso il quale l’Arte può generare una via di verità, alimentando la mente, rieducare o, quantomeno, scongiurare la crescente e pericolosa carenza di pensiero, oltre che tendere ad avvicinare la persona alla virtù, sino a ritrovare in senso un più ampio un rispetto dell’umanità.
Sulla stessa lunghezza d’onda, pare anche essere il sociatra americano John Fordham, che, dal suo gruppo Facebook Sociatry – for societal health., così commenta la summenzionata intervista a Giangrande:
I loved this. I gained the impression that he does what he does, because it’s his calling in life. It’s a “labor of love” which he’s driven to pursue & construct. (tr.: Mi è piaciuto molto. Ho avuto l’impressione che faccia quello che fa perché è la sua vocazione nella vita. È un “lavoro d’amore” che è spinto a perseguire e costruire).
La Sociologia Storica.
Intervista di Antonio Rossello ad Antonio Giangrande.
1. Dottor Giangrande, Lei nel suo recentissimo volume “ANNO 2022 LA CULTURA ED I MEDIA SECONDA PARTE” menziona l’illustratore, sempre più spesso prestato alla penna su questa ed altre testate online, Igor Belanky per via del suo articolo “Dittatura” pubblicato da Weeklymagazine il 24 Luglio 2022. Da cosa è stato colpito? La sua comunicazione sintetica ed essenziale è più efficace delle più lunghe e forbite concioni di altri redattori?
R. In quelle frasi vi è il sunto del rapporto tra Potere e Povertà. I poveri hanno bisogno di speranza. Il Potere promette di realizzarla. Più i poveri sono ignoranti più è grande il laccio che li lega al Potere. Più i poveri rimangono tali e ignoranti più il Potere padroneggia. Per questo il Potere elemosina i poveri, non li evolve in benestanti.
2. Non trova che in Italia la gente non legga molto ma parli troppo, cosa poco utile quando bisogna scegliere, decide cosa fare e con chi? La colpa è della scuola, del mondo della cultura, della politica o dei media? O di una crescente indifferenza…? Questi mi pare siano gli aspetti che Lei tratta nel summenzionato volume…
R. Il principio del sostentamento dei poveri ha portato questi a pretendere diritti, non a chiedere, ed allo stesso tempo a non sottostare ai doveri. L’ignoranza porta a parlare, ad ostentare ed imporre, non a leggere ed imparare. Si studia per poter migliorare e per poter dire a chi parla: cosa dici?!?
Purtroppo, poi, se qualcuno cerca di leggere, non trova fonti per poterlo soddisfare. La Cultura ed i Media sono in mano al Potere: economico e politico. Si scrive quello che è permesso: dall’editore; dai partiti di potere composte dalle eminenze grigie di mafie, massonerie e caste e lobby.
3. In generale, di cosa si occupa con i suoi saggi?
R. Se Giorgio dell’Arti, con i suoi “Cinquantamila” parla dei protagonisti,
Se Wikipedia riporta la contemporaneità e la storia per argomento o protagonisti.
Se Dagospia, twnews o Msn notizie riportano la contemporaneità per cronologia.
Io con le mie ricerche giornaliere vado oltre ognuno di loro.
Parlo di storia e contemporaneità cronologica, per Tema suddiviso per Argomenti, di fatti e protagonisti.
Mi occupo di tutti gli aspetti del nostro mondo contemporaneo. Racconto il presente ed il passato per poter migliorare il futuro a colui che legge: che sa e parla. Faccio parlare i protagonisti di oggi. Uso fonti credibili ed incontestabili, rapportandoli tra loro in contraddittorio. Uso l’opera di terzi per l’imparzialità. Questo anche per aggirare la censura e le querele.
4. E con la Sua web tv? E’ il tentativo di offrire informazione alternativa rispetto al cosiddetto mainstream?
R. Nei miei saggi parlo degli italiani. La mia web tv è solo rappresentazione dell’Italia, come territorio. L’Italia è bella per quello che è, tramandato dai posteri, che va distinta da chi oggi vi abita.
5. Ci può raccontare come è nata quella che mi pare sia la Sua passione civile?
R. Sono figlio di poveri che ha voluto emanciparsi. Volevo elevarmi socialmente. Ciò nonostante: i poveri dal basso ed il Potere dall’alto mi tirano giù. Per i miei genitori, come per tutti i poveri, non vale essere, ma avere. Ed i figli sono braccia prestati allo sfruttamento. Non mi hanno fatto studiare. A 32 anni dopo l’ennesima bocciatura ad un concorso pubblico truccato, ho deciso di studiare per migliorare. Diploma di ragioniere, da privatista 5 anni in uno presso un istituto pubblico e non privato, laurea in giurisprudenza 4 anni in due, presso la Statale di Milano, lavorando di notte per poter frequentare e studiare di giorno. 6 anni di professione forense non abilitato. Abilitazione cercata per 17 anni e mai concessa in esami farsa. La mia ragione non è stata riconosciuta nella tutela giudiziaria, nonostante ad altri nelle stesse condizioni, sì. La mia colpa? Essermi reso conto che la Giustizia non è di questo Stato e in quei 6 anni volevo porre rimedio alle ingiustizie nelle aule del Tribunale. Mi son reso conto che la mafia era dentro quelle aule e non fuori. Oggi non posso rimediare alle ingiustizie, perché non ho potere. Mi rimane solo che raccontarle ai posteri ed agli stranieri.
6. Qual è il bilancio della Sua attività in tal senso, presente e passata, nei vari ruoli che riveste?
R. Se parlo al presente è fallimentare. Sono un disoccupato presidente di una associazione antimafia che scrive e viene letto tantissimo in tutto il mondo, anche con le anteprime dei miei libri, ma non vende, perché sono relegato in un angolo dalla P2 culturale: ossia da quella eminenza grigia che non vuole che si cambino le cose, informando correttamente la gente e fa parlare chi sa. In ogni caso ognuno pensa per sé, per questo la gente è interessata ai suoi interessi ed a risolvere i propri problemi, anziché cambiare le sorti dei loro figli.
7. Ci può accennare come, dal Suo punto di vista di attento osservatore, appaiono le attuali vicende sulla scena nazionale e internazionale?
R. Da sempre l’essere umano ha sentito l’esigenza di avere la cosa altrui. O compra o ruba. Da sempre vi sono state guerre di conquista. Atti di bullismo nei confronti dei più deboli. A volte si usa l’arma del nazionalismo, altre volte è la religione ad imporre la violenza. La reazione delle forze non schierate è stata quella del menefreghismo e quella dell’utilitarismo. In questo senso tutto il mondo è Italia. Riscontro a mio giudizio delle fazioni.
Quelle che dicono: che me ne fotte a me.
Quelli che dicono: qui ci guadagno.
Pochi sono quelli che per altruismo difendono le vittime dai bulli.
8. Una nota metodologica o, se vuole, concetto. Sui siti internet specializzati, i suoi saggi sono quasi sempre categorizzati nel genere “sociologia”. Mi pare che Lei conduce una ricerca sociologica, per denunciare i mali intrinseci, le dissonanze della nostra società contemporanea… nelle sua formazione e nelle Sue motivazioni, forse generazionali, vi è qualche richiamo alla Scuola di Francoforte, alla sua Dialettica negativa, Horkheimer, Adorno, Marcuse…
R. Il socialismo, radice unica dei regimi comunisti, nazisti e fascisti ha usato le masse per poter egemonizzare il mondo. L’uso della religione per manipolare le masse povere per fini politici è anch’esso socialismo. Lo statalismo è il loro strumento, la povertà è l’arnese.
Io credo che, invece, l’individuo deve essere padrone del proprio destino e deve essere messo in grado di decidere per il suo meglio, senza danneggiare gli altri. Tanti individui ben informati, divenuti benestanti, avranno tutto l’interesse ad intraprendere azioni per tutelare lo status quo. I loro rapporti, tra loro e loro con il Potere, saranno regolati da poche leggi. Credo che i 10 comandamenti siano sufficienti a regolare il tutto.
9. Ed ancora quale ritiene sia oggi lo stato dell’arte della Sociologia? E’ al corrente dell’esistenza in Italia e all’estero di approcci emergenti alle Scienze sociali, quali la Sociatria, la Sociosofia, la Sociocrazia o la Sociurgia, di cui anch’io ho parlato in precedenti articoli? Che cosa ne pensa, sono destinati a superare, o quanto meno integrare, riformare la Sociologia? Se c’è una Sua via autonoma ed innovativa, come la definirebbe o battezzerebbe con termine sintetico?
R. Io mi definisco sociologo storico: Racconto il presente ed il passato, confrontandoli tra loro per evidenziare delle differenze, ove ci fossero, o per indicare la ciclica apparizione dei difetti, ossia i corsi ed i ricorsi storici. Il tutto affinchè si migliori il futuro. L’individuo colto e correttamente informato è il perno centrale, tanti fanno una massa e ne indirizzano le mosse. Il vero senso di “uno vale uno”. Diversa è la massa pecorile o topile che viene guidata da un pastore o da un pifferaio.
10. Ogni fatto è rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria. Abbiamo appreso di Sue molteplici prese di posizione, in differenti occasioni e sedi, sul tema della giustizia. Può parlarcene?
R. La verità storica è quella reale ed imparziale cercata e trovata attraverso tutte le fonti poste in contraddittorio senza influenze esterne.
La verità mediatica è quella verità propinata come tale ma che è influenzata da interessi economici, politici, o di caste, lobby, mafie e massonerie deviate.
La verità giudiziaria è quella che emerge dalle aule dei tribunali, in cui le prove sono tali se permesse e dove vi è piena disparità tra accusa e difesa. I giudizi sono fonti di interesse clientelare e parentale, di colleganza, di retroguardia culturale.
11. Concludendo? Ha dei rimpianti o è contento di ciò che fa?
R. Rimpianti No! Per niente. Contento sì. Da 20 anni scrivo e sono ad oggi circa 350 libri tra tematici ed aggiornamenti annuali.
Da Gesù Cristo in poi, i grandi uomini, che hanno lasciato traccia di loro, non erano riconosciuti tali nella loro epoca. Tantomeno erano profeti nella loro terra.
Io ringrazio la mia famiglia che mi sostiene, affinchè tanto ignorato e osteggiato in vita, tanto sarò ricordato per le mie opere da morto. E si sa, chi si ricorda non muore mai.
La Sociurgia.
La “Zattera della Medusa” e la Sociurgia. Antonio Rossello il 31 ottobre 2022 su Corrierenazionale.net.
Pubblichiamo il testo integrale della relazione del critico d’arte Marco Pennone in occasione dell’inaugurazione della “Sociurgia – dall’Opera d’Arte all’Opera Sociale”, a Bubbio (AT), lo scorso 29 ottobre.
La “Zattera della Medusa” e la Sociurgia di Marco Pennone
Anche chi ha una sia pur sommaria cognizione della Storia dell’Arte, non può non ricordare un’opera che è presente e largamente commentata in tutti i testi scolastici: si tratta de “La Zattera della Medusa”, il gigantesco (cm. 716 x 491) olio su tela dipinto tra il 1818 e il ’19 da Théodore Géricault (1791-1824), conservato nel Museo del Louvre, di cui è una delle più note attrattive; il quadro è diventato un’icona della pittura romantica, arrivando ad esercitare evidenti influenze su artisti del calibro di Delacroix, Turner, Courbet, Monet.
Il mito greco della Gorgone dallo sguardo magnètico non c’entra niente col dipinto: occasione dell’enorme tela fu infatti un episodio di cronaca: il naufragio della fregata francese “Medusa”, nel 1816, davanti alle coste della Mauritania. Molti uomini dell’equipaggio si salvarono sulle scialuppe; altri – quelli della ciurma – s’imbarcarono su una grandissima zattera: di 150 ne rimasero vivi solo 15, dopo giorni e giorni di convivenza forzata in condizioni estreme, inenarrabili episodi di violenza e perfino di cannibalismo. Géricault fece moltissimi disegni preparatori e studiò nei minimi dettagli l’anatomia dei personaggi della zattera, ispirandosi addirittura al “Giudizio Universale” di Michelangelo. Inutile dire che l’opera suscitò una enorme impressione negli spettatori, sia per la sua grandiosità sia per il tragico tema umano e sociale che raffigurava.
Ebbene, questa celeberrima opera mi ha ispirato una metàfora dell’Arte, dei suoi creatori e della “condition humaine”, per citare il capolavoro di André Malraux. Il tutto per fare poi un collegamento con la Sociurgia, intesa come idea e metodo per comprendere tutti gli aspetti della vita, partendo dall’Arte per arrivare ai suoi riflessi sulla Società. Le opere d’Arte (la pittura, la scultura, la ceramica, l’architettura, ma anche le opere letterarie e quelle musicali: insomma, includiamo tutte le Arti, secondo la visione idealistica crociana), i loro Autori ed anche gli spettatori-lettori-fruitori-ascoltatori, cioè tutti noi, sono un po’ come il carico imbarcato su una gigantesca, immensa zattera che solca lo sconfinato Oceano del Tempo e dello Spazio: cioè – come facilmente si può capire – la nostra amata Terra, perennemente in balìa dei flutti e degli eventi atmosferici avversi. Ogni opera – dalle maggiori alle minori o minime, da quelle famose a quelle del tutto ignorate – ha una sua gènesi, una sua storia, un suo messaggio, un racconto di vita vissuta, di pensieri, di sogni: tutte cose ugualmente degne di nota e di attenzione. Alcune opere navigano saldamente, altre vacillano, altre cadono nell’acqua e si perdono. Altre ancora, che sembravano perdute, vengono riportate a galla e restaurate…
Ne abbiamo fatta di strada, da quando i nostri antenati affidavano il loro bisogno di Arte alle pareti delle grotte, musei di pietra. Ci siamo evoluti, siamo cambiati, e l’Arte è cambiata con noi. Dal Figurativo all’Impressionismo; dall’Espressionismo all’Astratto; dall’Informale all’Arte Povera, fino ad arrivare alla “Digital Art”… Ma la funzione dell’Arte resta salda e fedele a se stessa: condividere con gli altri, con la Società, e trasmettere ai posteri, fino ai più lontani pronipoti, la Bellezza, la Cultura, l’Umanità. Senza questi Valori, l’uomo vivrebbe ancora nella Preistoria. Vedere un’opera d’Arte, leggere un libro, ascoltare una musica sono cose che ci fanno crescere, sognare, conoscere i loro Autori e le loro idee, regalandoci in continuazione emozioni e appagando il nostro bisogno interiore di spiritualità. Ogni opera d’Arte racconta il mondo del suo creatore, la sua essenza di uomo o di donna; ci trasmette un contenuto con il linguaggio universale delle immagini, del colore, dei volumi spaziali, delle parole, delle note, dei gesti, della danza… L’Arte eleva l’uomo verso la conoscenza, la riflessione autonoma, il ragionamento, il dialogo e il confronto con gli altri. Per questo ogni opera d’Arte appartiene alla Sociurgia, in quanto è inserita nella Società in cui è stata concepita (anche quelle che rifiutano ogni inserimento o incasellamento, come ad esempio le opere dei Decadenti); solca l’Oceano sconfinato del Tempo e dello Spazio con l’umanità intera, per arricchire ogni singolo individuo dal punto di vista spirituale e – di conseguenza – tutta la Società come insieme di singoli individui.
Tanta acqua è passata sotto i ponti dal 1953, quando Arnold Hauser, influenzato dall’ideologia marxista, scrisse la “Sozialgeschichte der Kunst und Literatur” (trad. it. da Einaudi, 1955, col titolo limitativo di “Storia Sociale dell’Arte). Secondo i dettami della Sociurgia, dall’opera d’Arte si perviene all’Opera Sociale poiché l’Arte ha una sua natura sociale, è capace di suscitare affetti, sentimenti, moti e stati d’animo, sia positivi che negativi (amore, ira, invidia, gioia, solitudine, superbia, imitazione…): l’Arte è un qualcosa di sociale, di “politico”, in quanto – per richiamare Aristotele – inserita in una “pòlis”, in una “città”, piccola o grande che sia. L’Artista Sociale può modificare la realtà delle cose, generando un “miglioramento”, attraverso il concetto estetico – quanto mai soggettivo e dibattuto – di “Bello” (proprio quella Bellezza che salverà il mondo, secondo Dostoevskj) ed influenzando in tal modo l’ambiente circostante. E l’educazione, in questo processo, ha e deve rivestire un ruolo di primaria importanza, affinché le giovani generazioni siano consapevoli dell’immenso patrimonio che ci è stato trasmesso e sentano il dovere, a loro volta, di trasmetterlo.
Rete Sociale un valore relazionale per il BeneComune in “sociurgia”. Antonio Rossello il 3 novembre 2022 su Corrierenazionale.net.
Andrea Tomasi[i], Consigliere delegato alla Comunicazione e PR Comitato di Comunicazione e Pr – dell’“Associazione FareRete – Innovazione Il Bene Comune – Il Benessere e la Salute in un Mondo Aperto a Tutti – Michele Corsaro” – Organizzazione Non Lucrativa di Utilità Sociale[ii], rilascia un’intervista in esclusiva alle nostra testate Corriere Nazionale e Stampa Parlamentare. I temi trattati sono il punto di vista dell’Associazione e lo stato delle sue attività rispetto al concetto di “sociurgia” [iii] , oltre elementi quali le “reti sociali” , ossia in ambito sociale l’ampiamente nota accezione di tutte le relazioni esistenti tra persone, anche se queste non necessariamente si incontrano nello stesso momento e nello stesso luogo, e i “beni relazionali” [iv], come definiti dalla cosiddetta “Sociologia relazionale” (Prof. P. Donati).
Rete Sociale un valore relazionale per il BeneComune in “sociurgia”
D.1) Qual è oggi a parer tuo la funzione della rete sociale? Può esprimere un valore in termini di “sociurgia”?
R.1) Le reti sociali svolgono a più livelli una funzione di “sociurgia”, contrastando l’individualismo e il relativismo, costruendo una cultura inclusiva e attenta alle differenze e promuovendo società aperte e partecipate. In particolare, oggi le reti sociali sono chiamate a svolgere la loro missione in un mondo che è sempre più “connesso” nella realtà tecnologica, dalla quale esse possono ottenere vantaggi sul piano logistico e comunicativo, e rispetto alla quale possono offrire ai partecipanti una modalità profondamente umana di vivere il rapporto tra persona e rete.
Un primo livello è quello di temperare la spinta all’individualismo, che è tra le principali caratteristiche umane del nostro tempo. Il coinvolgimento in una rete sociale supera le tentazioni di logiche competitive, esclusive, narcisistiche, e offre, anche attraverso un uso competente dei social e di internet, un luogo di una vera socializzazione.
L’esperienza comunitaria delle reti sociali è un antidoto alle community virtuali e costituisce una inversione di rotta rispetto alla disintermediazione di internet, che sostituisce la rete ai corpi sociali intermedi.
Un secondo livello è quello dell’offrire ai partecipanti un luogo di maturazione culturale in cui prendere consapevolezza della complessità dei problemi e superare il relativismo. I fenomeni legati alle trasformazioni sociali, digitali e ambientali presentano una complessità che può essere affrontata solo con un vasto coinvolgimento di energie, sia nella fase del comprendere, che in quella del proporre soluzioni, che nel momento della realizzazione. Le reti sociali sono potenti facilitatori di acquisizione di consapevolezza e di mobilitazione di energie.
D.2) Le civiltà tradizionali erano dure, nondimeno esse arrecavano un reale appagamento agli uomini di essenza tenace che avevano il coraggio di accettare quelle dure condizioni. Gli altri, più deboli, acquisivano tuttavia, all’interno di quell’ambiente, il massimo che potevano raggiungere di accrescimento interiore. Da ciò non consegue però che essi ne ottenessero appagamento.
Le civiltà moderne rifiutano tutto ciò che è sofferenza. Esse cercano di togliere dalla vita dell’uomo tutte le difficoltà, tutti i dolori. Le donne – o gli uomini – sono perfino arrivate a non accettare più le sofferenze della maternità. È una bevanda intollerabile. Le civiltà moderne soccomberanno per questo rifiuto di soffrire?
R.2) Il tema della sofferenza è sfidante per la cultura contemporanea. Il mondo occidentale manifesta una pericolosa deriva di negazione della realtà, quando ritiene di poter eliminare la sofferenza, o perfino la morte, superando con la tecnologia i limiti della natura umana. E quando ciò non è possibile, si preferisce la scorciatoia di eliminare chi è portatore di sofferenza, sopprimendo il nascituro nel grembo della madre o rivestendo di pietosa compassione l’eutanasia. Eppure in quest’epoca si moltiplicano le fonti di sofferenza. Accanto alle sofferenze ben note, che appartengono da sempre alla natura umana, le sofferenze della malattia, della morte, della povertà, della solitudine, della perdita dei diritti umani, si sviluppano forme di sofferenza che prosperano in rete, dovute alla violenza che non è solo verbale e virtuale, ma diventa umiliazione, incitamento all’odio, nei confronti di persone e gruppi sociali, e nuove forme di solitudine provate pur nella connessione permanente. Per rompere il cerchio della sofferenza, che può portare alla distruzione di sé, la via d’uscita non è l’indifferenza ma la costruzione di circuiti di incontro e di accompagnamento, favoriti da reti sociali che generosamente mettono a disposizione risorse di persone, di attenzione, di cura.
D.3) Oltre la nostra che è una società ancora capitalista e alla fine questo sistema mi pare NON abbia funzionato, in una società auspicabilmente più equa, le reti sociali possono assolvere una funzione dell’uguaglianza di possibilità e della ridistribuzione di ricchezza?
R.3) Le reti sociali possono svolgere un compito importante sul versante della creazione di opportunità, soprattutto con interventi nell’ambito della formazione, della promozione culturale e della costruzione di reti di sostegno amicale quando ci fossero situazioni contingenti di difficoltà. L’evoluzione tecnologica rappresenta da questo punto di vista una sfida ancora piena di incognite riguardo alle trasformazioni nel mondo del lavoro, ai cambiamenti del welfare e delle attività di cura. Affrontare il progresso tecnologico con un approccio partecipativo e inclusivo può facilitare la maturazione delle soluzioni migliori dal punto di vista dei costi umani e sociali e può contribuire ad attuare i principi della giustizia sociale, pur in un tempo di profondi e rapidissimi cambiamenti.
D.4) Consideri che la relazione possa rappresentare realtà materialmente emergente, tale da restituire veri e propri “beni relazionali”? In tal senso, qual è la tua esperienza nell’ambito del movimento che presiedi?
R.4) In un tempo ricco di connessioni e povero di relazioni autentiche, l’impegno comune in una rete sociale permette di costruire relazioni con un valore concretamente sperimentabile. L’ accoglienza, la solidarietà, la condivisione, la cooperazione, la progettualità, la generatività sono beni squisitamente relazionali che hanno allo stesso tempo un grande rilievo sociale. E atteggiamenti come l’ascolto, l’empatia, il confronto di idee libero e rispettoso, costruiscono relazioni personali senza le quali sarebbe più difficile ogni prospettiva di convivenza civile.
NOTE:
[i] Andrea Tomasi, Consigliere delegato alla Comunicazione e PR Comitato di Comunicazione e Pr – dell’“Associazione FareRete – Innovazione Il Bene Comune – Il Benessere e la Salute in un Mondo Aperto a Tutti – Michele Corsaro” – Organizzazione Non Lucrativa di Utilità Sociale (*), rilascia un’intervista in esclusiva alla nostra testata. Docente dell’Università di Pisa, 69 anni, sposato e padre di tre figli. Ha tenuto vari corsi informatici, tra cui Sistemi Informativi, Progettazione di siti web. Attualmente tiene il Corso di Informatica per le Discipline Umanistiche. Ha diretto importanti progetti nell’ambito dei Beni Culturali e delle iniziative informatiche della Conferenza Episcopale Italiana. Tra le pubblicazioni recenti:
Tomasi. “Intelligenza Artificiale: dall’imitazione alla sostituzione dell’uomo? Prospettive e problemi aperti”. In: A. Fussi, Etica, emozioni, intelligenza artificiale. Ed. ETS, 2021.
Tomasi. “Umanesimo tecnologico: una necessità per l’uomo d’oggi.” PARADOXA, luglio/settembre 2022, pp. 63-76.
Tomasi, “L’ecologia antropocentrica della laudato si’ e l’umanesimo tecnologico di Romano Guardini”, Rivista Idee, Lecce, 2020.
Tomasi. “Una rete per tutti? Abitare la rete per trasformare le community in comunità”, Ed. Pharus, Livorno, 2018.
È membro del Consiglio Direttivo di FareRete InnovAzione BeneComune e di WECA, Associazione Web Cattolici Italiani.
[ii] L’ Associazione FareRete InnovAzione BeneComune, con i suoi progetti e con la sua azione culturale ha sperimentato concretamente nel tempo il valore di operare per il benessere delle persone negli ambiti Salute, Ambiente, Lavoro, Educazione, Diritti e Doveri di Cittadinanza.
[iii] “Sociurgia”. In alcuni ambienti della società civile, culturali ed artistici si sta discutendo e portando avanti la concettualizzazione di un termine innovativo: «sociurgia» (un nome composto ibrido, latino e greco, che da societas, ossia «società», + έργον, ossia «opera», letteralmente significa «opera sociale»). Si denota quindi una funzione sociale attiva, operante, in cui la promozione e la divulgazione costituiscono una dimensione che sul fronte di cultura, arte, tradizione… inferisce tutto il resto, la conoscenza, la curiosità, la relazione, i valori sociali. Quella interdipendenza naturale, necessaria, etica che non concepisce cultura, arte, ossia tutto ciò che attiene lo spazio dello spirito, appunto, come luogo a parte, elitario e autoreferenziale, ma come bene pubblico. Mezzo comune di progresso e civiltà. Forse nulla di sostanzialmente nuovo, ma una rinnovata dialettica tra contenuti e forme, utile a creare movimento per recuperare dal passato insegnamenti, dalla presente nuova linfa e tentare di oltrepassare contraddizioni sotto gli occhi di tutti.
[iv] In Italia il concetto di “Bene Relazionale” è stato introdotto dal Prof. Pierpaolo Donati, esponente della cosiddetta Sociologia Relazionale, autore di numerose pubblicazioni in materia. Vedasi ad esempio il suo articolo divulgativo: Avvenire, 12 settembre 2019, “Società. Beni relazionali che generano beni comuni”
Società. Beni relazionali che generano beni comuni. Pierpaolo Donati giovedì su Avvenire il 12 settembre 2019. Ci sono beni che non sono né cose materiali, né prestazioni: sono i "beni relazionali"
Da alcuni anni le scienze sociali hanno 'scoperto' un tipo di beni che non sono né cose materiali, né idee, né prestazioni, ma consistono di relazioni sociali, e per tale ragione sono chiamati 'beni relazionali'. Gli esempi concreti sono praticamente infiniti, e vanno dalle relazioni a livello interpersonale fino al benessere sociale di una intera comunità. Si tratta di chiarire che cosa siano queste realtà, come nascano e che cosa a loro volta generano. Interessa capire quale sia l’apporto pratico che questi beni possono dare a una 'vita buona' e a una 'società buona'.
Molti, quando parlano di beni relazionali, pensano ai rapporti interpersonali fatti di simpatia, buoni sentimenti e calore umano. In realtà, i beni relazionali sono molto di più, e anche di diverso, da questo. Hanno un valore economico, sociale e politico, così come una valenza morale e educativa. Di quali beni parliamo? Senza dubbio si tratta di beni come l’amicizia, la fiducia, la cooperazione, la reciprocità, le virtù sociali, la coesione sociale, il perdono dato e ricevuto, la solidarietà e la pace quando non sono il risultato di una tregua o di accordi momentanei fra interessi contrapposti ma consistono nel condividere relazioni di mutuo rispetto e valorizzazione. Possiamo però pensare anche a relazioni societarie molto più complesse, come il clima di lavoro nelle aziende, il senso di sicurezza o insicurezza nella zona in cui abitiamo, le relazioni tra famiglia e lavoro. In tutti questi casi, le relazioni sociali possono essere percepite come beni oppure come mali relazionali.
Di solito siamo tentati di attribuire il bene delle relazioni agli individui, dopotutto sono gli individui che sono amici oppure no, che hanno fiducia negli altri oppure no, che cooperano o meno, che contraccambiano i doni ricevuti o non lo fanno, che sono virtuosi o meno, che sanno perdonare oppure sono vendicativi, e così via. La moralità viene di solito imputata alle singole persone. Ma qui è il punto: senza mettere in dubbio l’importanza della moralità individuale, si tratta di comprendere che non possiamo concepire i beni relazionali come prodotti degli attributi morali delle singole persone, perché nel caso dei beni relazionali la moralità è riferita alle relazioni di cui sono fatti. Fare questo passaggio dall’individuale al relazionale non è semplice.
Prendiamo il caso dell’amicizia. Molti la intendono come una relazione che dipende dalle intenzioni soggettive. Ma non è così. Certamente l’amicizia sgorga dalla persona umana, e solo da essa, ma non può essere un fatto soggettivo. L’amicizia fra Ego e Alter è il riconoscimento di qualcosa che non appartiene a nessuno dei due pur essendo di entrambi. Essa è, come la società, di tutti e due, e al contempo di nessuno di essi. Questa realtà dell’amicizia è un prototipo di una forma sociale che, in via generale, costituisce l’essenza di tutti i beni relazionali. È così che i beni relazionali creano beni comuni. I beni relazionali, però, non sono beni pubblici, così come non sono beni privati. Sono beni comuni in quanto sono relazioni fra consociati. I beni relazionali possono essere prodotti e fruiti soltanto assieme da chi vi partecipa su un piano di adesione e impegno personale.
Sia i beni pubblici sia i beni relazionali sono 'comuni' nel senso di non essere divisibili e frazionabili, ma i primi sono basati su una condivisione vincolata (sharing costrittivo), mentre i secondi sono basati su una condivisione volontaria (sharing scelto). Questa distinzione si riflette nella loro differente relazionalità. Nei beni pubblici non è richiesta ai soggetti partecipanti la stessa relazionalità che invece è richiesta e necessaria nei beni relazionali. Questa diversità è decisiva per la qualità della vita sociale. Nel caso dei beni pubblici, poiché la relazionalità non è richiesta, ciascuno partecipa e usufruisce di questi beni individualmente, per conto proprio (pensiamo alle strade, alle piazze o ai mu- sei), e dunque ciò che è comune lascia separati gli individui come tali. Nel caso dei beni relazionali, invece, essendo la relazione necessaria, viene richiesta una cooperazione, con tutte le difficoltà, ma anche i vantaggi che comporta. a categoria dei beni relazionali illumina in modo nuovo il senso e la portata dei diritti umani. Prendiamo, per esempio, il diritto alla vita (umana). Ebbene, la vita umana è oggetto di godimento e quindi di diritti non in quanto bene privato, individuale nel senso di individualistico, né pubblico nel senso tecnico moderno, ma propriamente come bene comune dei soggetti che stanno in relazione. Quando ci appelliamo, per esempio,
Dal diritto del bambino di avere una famiglia, ci appelliamo ad un diritto che non è né 'privato' (o 'civile' nel senso dei diritti civili emersi a partire dal Settecento), né 'pubblico' (o politico nel senso di statuale), ma è essenzialmente umano. Che categoria di diritti è quella dei 'diritti umani' (distinti da quelli 'civili' e politici)? La risposta è che i diritti propriamente umani sono intrinsecamente relazionali, sono diritti a quelle determinate relazioni che umanizzano la persona. I n ogni caso, il bene relazionale consiste nel fatto che due o più soggetti interagiscono fra loro prendendosi cura della loro relazione condivisa dalla quale derivano dei benefici che essi non possono ottenere altrimenti. Prendiamo il caso della relazione di coppia come bene relazionale. Affinché si istituisca una coppia, i partner si devono dare fiducia reciproca. L’evoluzione della coppia nel tempo è segnata dalla stabilizzazione o meno della fiducia come legame (molecola sociale). Se il legame viene vissuto come bene relazionale, esso darà i suoi frutti, quali sono il benessere e la felicità dei partner, gli eventuali figli, e così via. La fiducia come azione reciproca dei partner è un prerequisito per generare il bene relazionale (il legame condiviso). Quando diventa una struttura stabile di aspettative reciproche sostanzia il bene relazionale dei partner. In breve, la fiducia diventa un bene relazionale quando entrambi i partner, al di là degli stati d’animo e delle azioni di ciascuno, si prendono cura della loro relazione senza mettere in dubbio le aspettative reciproche che la costituiscono.
Non si tratta solo di mettere in evidenza il ruolo di 'collante' del tessuto sociale, di integrazione e solidarietà sociale, che i beni relazionali possono svolgere. Si tratta, anche e soprattutto, di vedere come dai beni relazionali dipenda la stessa identità personale e sociale degli individui, correggendo l’idea diffusa secondo cui l’identità delle persone sia frutto solamente delle loro scelte individuali. In una società che tutti definiscono individualista e liquida, assistiamo all’esplosione delle relazioni sociali, alimentata dalle tecnologie digitali. Le relazioni interpersonali vengono svuotate, e però anche ricreate continuamente. Questo processo genera tanti mali relazionali, e però anche nuovi beni, che non solo dipendono dalle relazioni sociali, ma consistono di relazioni sociali.
Giornalismo 3.0. Cosa vuol dire essere giornalisti oggi. Domenico Ferrara il 10 Novembre 2022 su Inside Over.
Cosa vuol dire oggi fare il giornalista? In un’epoca in cui la disintermediazione e i social la fanno da padroni e in cui la rete ha decuplicato le possibilità di accesso all’informazione da parte di chiunque, la risposta non è affatto semplice. E si schianta con una domanda e una passione per il giornalismo che restano comunque molto alte. Ma quali sono i requisiti che deve avere un giovane che nel 2022 vorrebbe intraprendere questo mestiere? Lo abbiamo chiesto a chi di giovani ne ha visti e ne vede passare davanti ogni anno tantissimi. Venanzio Postiglione infatti oltre a essere il vice direttore del Corriere della Sera è anche fondatore e direttore della scuola di giornalismo Walter Tobagi di Milano.
Cosa vuol dire oggi fare il giornalista?
Vuol dire divertirsi. Sperimentare. Provare a coinvolgere i giovani. Immaginare il mondo nuovo. Siamo nel cuore di una rivoluzione: molto faticoso ma anche entusiasmante.
Qual è il percorso migliore per diventarlo?
Frequentare una Scuola di giornalismo. Sono in tutta Italia e a Milano ne abbiamo tre, legate a Statale (la Tobagi), Cattolica e Iulm. Si entra per merito e si impara il mestiere come è adesso. Importanti e interessanti anche i percorsi delle Academy organizzate dalle aziende editoriali.
A livello formativo c’è una laurea o altro che consiglia?
Giurisprudenza e Lettere su tutte. Ma in realtà va bene qualsiasi laurea e c’è anche una grande richiesta di comunicazione scientifica.
Lei è direttore della Scuola di giornalismo Walter Tobagi, quanto è importante il ruolo delle scuole per chi si avvicina alla professione?
Fondamentale. Per tenere alto il senso e il valore della nostra professione e per formare giovani pronti a tutto: web, carta, video, radio, social. Non c’è luogo dove si possa imparare tanto e in tempi rapidi.
Con la nostra Academy stiamo notando che c’è molta richiesta di formazione e di qualità a prescindere dai canali tradizionali, si iscrivono molti. Può essere una strada utile per coltivare talenti?
Sì. Sicuramente si. I cacciatori di talenti sono i veri benemeriti del nostro Paese. La frattura tra competenze e aziende si rimargina anche con le Academy e sempre con la formazione.
È importante saper utilizzare tutti i mezzi di comunicazione o è meglio approfondirne uno?
Tutti. Perché ogni cosa potrà servire. Con il digitale al primo posto.
Lo stesso discorso può valere per le aree di competenza: meglio avere uno spettro più ampio o puntare sulla verticalità?
Il giornalista, il comunicatore deve orientarsi in ogni campo. E poi, certo, una competenza specifica e molto approfondita può fare la differenza.
Dal punto di vista economico è ancora una professione che lei consiglierebbe a un giovane e perché?
Così così. L’aspetto economico non è quello di un tempo. Ma chi è veramente bravo andrà sempre avanti, sono fiducioso.
Qual è lo stato attuale dell’informazione on line secondo Lei?
Una lunga fase di passaggio. Ma il pubblico ha capito che l’informazione digitale di qualità va pagata, e non parliamo di cifre alte. Siamo sommersi dalle informazioni ma abbiamo l’esigenza, vitale, di capire cosa è vero e cosa è falso. Siamo entrati nell’epoca della fiducia. Bene così, senza spaventarsi.
Come immagina il mondo dell’informazione tra vent’anni? Che ruolo avrà internet?
L’informazione autorevole e credibile vincerà. Internet sarà la regina assoluta e i giornalisti professionisti ci saranno. Non semplice. Ma le grandi sfide sono così, si fa una gran fatica.
Pensa che i social network sostituiranno le testate tradizionali e che il giornalista debba puntare solo sul brand personale?
Le testate tradizionali possono farcela se portano avanti tutte le piattaforme, allo stesso tempo, con gli investimenti giusti sul digitale. Il brand personale è un aspetto del mondo nuovo: purché sia giornalismo e non cabaret.
"Il giornalista d'inchiesta come un investigatore". Parola di un ex agente della Digos. Agente e analista per la Digos Gianluca Prestigiacomo, racconta la sua esperienza. E sarà uno degli ospiti della Academy di InsideOver. Gianluca Zanella il 4 Ottobre 2022 su Il Giornale.
Passare oltre trent’anni tra le fila della Digos per poi diventare giornalista. È esattamente ciò che ha fatto Gianluca Prestigiacomo, per certi versi un unicum. Agente e analista per la Digos di Venezia dagli anni Ottanta fino al 2021, nella sua carriera ha attraversato fasi delicate della nostra storia repubblicana. In prima persona, tanto per citarne alcuni, si è occupato di casi particolarmente spinosi come lo scandalo Iran – Contras, che ha visto nell’Italia un importante crocevia; si è occupato del traffico d’armi tra il nostro paese e l’ex Jugoslavia; si è occupato di Brigate rosse e di eversione nera, affiancando il magistrato Felice Casson in importanti inchieste che hanno toccato l’organizzazione semi-clandestina Gladio, la strage di Peteano e quella di Piazza Fontana, nell’ambito della quale, per un certo periodo, si è occupato della custodia di Carlo Digilio, lo “zio Otto”, artificiere dell’ordigno che ha dato il via alla cosiddetta strategia della tensione. In un recente libro, Prestigiacomo ha anche raccontato l’esperienza che più di tutte l’ha segnato nel profondo: il G8 di Genova dove, alla testa del corteo delle Tute bianche di Luca Casarini, ha assistito alla genesi dei violentissimi scontri che hanno portato alla morte di Carlo Giuliani. Una carriera intensa, costellata di importanti successi professionali e di immancabili intrighi da cui ha sempre cercato di tenersi alla larga, operando nel pieno rispetto delle istituzioni e con grande senso del dovere. Eppure Prestigiacomo non ha mai nascosto la sua vera passione: quella per il giornalismo, al punto che, una volta andato in pensione, non ha aspettato neanche un giorno e si è buttato a capofitto in una nuova avventura professionale. Ospite del corso di giornalismo d’inchiesta della Newsroom Academy di InsideOver nella prima giornata, quella del 15 ottobre, gli abbiamo fatto qualche domanda.
Da studente credevi che il tuo destino sarebbe stato quello di lavorare in una redazione, invece sei finito nella Digos. Ci racconti com’è andata?
È stata una decisione maturata nell’ambito delle mie “scorribande” giovanili, o meglio, del mio impegno politico da studente. Ero iscritto alla Figc, all’epoca noi studenti eravamo molto coinvolti da quello che accadeva tutto intorno a noi, dallo scenario politico particolarmente complesso della fine degli anni Settanta. Durante le manifestazioni notavo spesso la presenza di agenti in borghese di quello che prima era l’Ufficio politico e che poi è diventato Digos. Ero affascinato dal ruolo che svolgevano, un ruolo di mediazione per cercare di non far sfociare le manifestazioni in exploit di violenza. Poi un giorno, semplicemente, sono stato avvicinato da uno di loro. Io, studente di sinistra, vengo arruolato da quella branca della polizia da sempre considerata di destra. Sin da subito mi sono accorto di quanto ciò non corrispondesse alla realtà. Nonostante questo non ho mai abbandonato la mia passione per il giornalismo e nel 2007, mentre ero ancora in servizio, mi sono iscritto all’ordine.
Di casi come il tuo non devono essercene molti: un agente Digos impegnato in attività molto particolari che, allo stesso tempo, coltiva la passione per il giornalismo. Nella tua attività, qual è stato il rapporto con la stampa?
Il mio rapporto con i giornalisti è sempre stato un rapporto d’ufficio, più che personale. Nonostante questo ho sempre avuto rapporti cordiali e di stima e ancora oggi sono rimasto in contatto con dei giornalisti con cui ho avuto a che fare negli anni della mia attività. Al di là dei rapporti, in alcuni casi c’è stata collaborazione. Ho sempre sostenuto – e i fatti mi hanno dato ragione – che un buon rapporto con i giornalisti, anche a volte di tipo personale, è importante. O meglio, è importante che almeno un bravo giornalista sia a conoscenza di quello che si sta facendo in ambito investigativo, perché qualora dovesse accadere qualcosa, almeno c’è qualcuno che sa. Chiaramente dev’esserci fiducia, una fiducia costruita nel tempo, dove ciascuna delle due parti – inquirente e giornalista – resti nell’ambito delle proprie competenze, senza forzature e senza che uno dei due venga “usato” dall’altro. Un giornalista può scrivere quello che vuole, anzi, dovrebbe essere la regola, la libertà di stampa dev’essere al primo posto, però nel rapporto tra organi inquirenti e giornalismo intervengono altre dinamiche. Se il giornalista viene a conoscenza di meccanismi investigativi in atto, certamente può fare uno scoop e darne notizia. Ma a quel punto potrà dire addio a qualsiasi collaborazione con gli inquirenti. Se al contrario saprà aspettare il momento giusto, beh, questo è il primo passo verso un percorso fatto di reciproca fiducia e lealtà.
Ti è mai capitato un caso in cui un’attività giornalistica d’inchiesta abbia dato importanti spunti per voi investigatori?
Certo, per ovvi motivi di riservatezza mi avvalgo della facoltà di non rispondere. Quello che posso dire è che ci sono stati degli ambiti specifici in cui l’attività giornalistica è stata importante e anche d’aiuto. I giornalisti e le giornaliste d’inchiesta, almeno quelli e quelle che ho conosciuto io, spesso hanno delle motivazioni talmente forti, una determinazione tale che svolgono un lavoro investigativo quasi alla pari di quello degli investigatori veri e propri.
Tu sei stato in prima fila al G8 di Genova. Essendo in borghese, hai preso anche delle manganellate e hai potuto vedere con i tuoi occhi l’inferno. In quell’occasione, nei giorni e nei mesi successivi, come si è comportato il giornalismo?
La stampa in quell’occasione ha fatto il proprio mestiere. È stato grazie alla stampa se certi fatti sono emersi. Penso alle violenze alla caserma di Bolzaneto. Anzi, se devo dire come la penso, è stata quella una delle ultime occasioni in cui la stampa ha dato davvero prova di libertà. Poi le cose sono cominciate a cambiare.
Cosa intendi?
Sostengo che ci siano due diversi modi di fare giornalismo. C’è chi si accontenta, chi fa l’impiegato e si limita a timbrare il cartellino. E poi c’è il reporter, il giornalista d’inchiesta. Ecco, da dieci anni a questa parte, ma forse anche di più, i primi sono diventati più dei secondi. E questo per una ragione molto semplice: le redazioni non investono più sulle qualità dei singoli, non rischiano più, sono diventate molto spesso pavide. È un male tutto italiano, questo. Le testate sono troppo spesso vincolate a una fazione politica e questo incide pesantemente sulla qualità del giornalismo, ma non solo. Si tratta proprio di una questione economica e legale: le testate non hanno più la voglia o la possibilità di finanziare un lavoro d’inchiesta e, soprattutto, non offrono la necessaria copertura legale. Parlo di questo con cognizione di causa.
Spiegaci meglio...
Il giornalismo d’inchiesta dà fastidio, c’è poco da fare. Spesso il lavoro dei giornalisti è inibito dalla minaccia di querela. A quel punto il direttore impone uno stop. L’ho vissuto sulla mia pelle. Qualche tempo fa ho proposto a un importante giornale un lavoro d’inchiesta piuttosto delicato e molto ben documentato. Inizialmente c’è stato interesse, poi sono iniziati i tentennamenti, alla fine, nel corso di una telefonata, il mio referente mi ha detto “se te la senti, vai avanti”. In pratica mi ha comunicato sottilmente che il giornale non si sarebbe assunto la responsabilità di fronte alle possibili, anzi, più che probabili querele. A quel punto chi me lo faceva fare?
«Un osservatorio su informazione e democrazia per difendere le nostre libertà». Il segretario generale di Reporters sans frontières presenta la nuova iniziativa: «Contro la minaccia delle intelligenze artificiali, per costruire uno spazio digitale che possa liberarci dal controllo delle grandi potenze commerciali private e dei regimi dispotici». Christophe Deloire su L'Espresso il 22 Settembre 2022.
Creare un nuovo Osservatorio potrebbe sembrare una sorta di scappatoia. Quante organizzazioni, istituite cogliendo l’opportunità del momento, non fanno altro che soffermarsi sulla realtà, osservarla con il binocolo o la lente di ingrandimento, per evitare di passare concretamente all’azione? La creazione di un Osservatorio può anche, a volte, rappresentare una manovra tattica per guadagnare tempo, trascinare per le lunghe una questione spinosa, fiaccare volontà e velleità collettive, per evitare, infine, di risolvere un problema. Ma «nessun problema può essere risolto nell’assenza di soluzioni», diceva un politico passato alla storia, e per questo motivo un Osservatorio potrebbe, in realtà, rivelarsi ben prezioso.
Tuttavia, per risolvere i grandi problemi a cui l’umanità è confrontata, non ci servono nuove strutture che girano, infruttuosamente, su se stesse. Dobbiamo, invece, rivelare e spiegare urgentemente la gravità dei problemi che ci attanagliano, per offrire nuovi punti di riferimento e cercare di mettere d’accordo, nella misura del possibile, il maggior numero di attori coinvolti, incitandoli ad agire, se questo è ciò che la situazione richiede. Chi potrebbe oggi affermare che il Gruppo internazionale di esperti sul clima (IPCC) è un organismo inutile? Questo ci offre elementi difficilmente contestabili sull’aumento generale delle temperature e sui possibili scenari che ci attendono, ed è anche diventato il fulcro di una nuova mobilitazione.
Come ha dichiarato il segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, in occasione di una riunione con il Forum sull’informazione e la democrazia e con Reporters sans frontières (RSF), nello scorso mese di dicembre: «Inizio veramente a pensare che vi è oggi una minaccia per l’umanità ancora più grande del riscaldamento climatico…e questa minaccia è l’intelligenza artificiale». Ora, se vogliamo evitare un’accelerazione della perdita del controllo democratico sulle nuove tecnologie, dobbiamo mettere insieme tutte le ricerche effettuate al riguardo nel mondo, produrre, in altre parole, una «meta-ricerca». E creare una sorta di “IPCC del caos informativo”.
L’Osservatorio sull’informazione e la democrazia, la cui struttura sarà presentata questa settimana a New York, e che sarà formalmente istituito nei prossimi mesi, avrà come compito quello di produrre una valutazione periodica dell’universo dell’informazione e della comunicazione, della sua struttura, evoluzione e del suo impatto sui processi democratici. Questo osservatorio potrebbe così diventare un collegamento tra due mondi che, spesso, non parlano la stessa lingua: quello della ricerca e quello della politica. Se necessario, potrebbe anche trasformarsi in un’agenzia di rating delle piattaforme digitali. Questo organismo, concepito da un gruppo presieduto da Angel Gurría, ex segretario generale dell’OCSE, e da Shoshana Zuboff, autore del best-seller Il capitalismo della sorveglianza, e di cui faceva parte anche Maria Ressa, insignita del premio Nobel per la pace 2021, offrirà ai responsabili politici una chiave di lettura comune sullo stato della ricerca attuale e offrirà uno slancio nuovo alla mobilitazione collettiva.
Tutto questo non è, tuttavia, un fine in sé. L’obiettivo non è di sapere in che salsa algoritmica saranno mangiate le nostre democrazie, e non è neanche quello dello scontro. La vera vocazione di questa iniziativa è quella di costruire uno spazio digitale che possa liberarci dal controllo delle grandi potenze commerciali private e dei regimi dispotici. Come? Riunendo i governi dei paesi democratici affinché lavorino insieme all’emanazione di direttive per regolamentare quel vuoto normativo causato dall’incredibile velocità dei processi evolutivi e dei cambiamenti di paradigma. Al di là del diritto, manca la stessa dottrina giuridica, ed è proprio questo vuoto che siamo chiamati oggi a riempire.
In quattro anni, siamo già riusciti ad ottenere l’avvio di un Partenariato sull’informazione e la democrazia, sottoscritto da 45 paesi, a cui si aggiungeranno presto altre nazioni: un testo che definisce alcuni principi generali per lo spazio globale dell’informazione e della comunicazione. Abbiamo, inoltre, creato un organismo di applicazione guidato dalla società civile: un Forum sull’informazione e la democrazia, che ha, appunto, come obiettivo la nascita di un nuovo Osservatorio, e che ha iniziato a fornire ai governi dei paesi democratici le basi normative per una nuova regolamentazione comune.
Le prime 350 raccomandazioni del Forum, che sono servite come base per le nuove disposizioni delle istanze europee, già adottate o che lo saranno presto, saranno discusse a livello internazionale dai ministri degli Affari esteri di numerosi paesi, durante il secondo Vertice per l’informazione e la democrazia (il 22 settembre a New York). Durante questo incontro, organizzato dalla Francia in concomitanza con l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, sarà avviata anche una discussione sulle modalità di contrasto alle “infodemie” e su un “New Deal per il giornalismo”.
Gli Stati saranno sufficientemente proattivi nella ricerca di soluzioni in grado di salvare le nostre democrazie? Ormai, non basta più deplorare o condannare le evoluzioni che stanno mettendo a repentaglio i nostri processi di deliberazione e le nostre libertà. I nostri governi e presto, se questo sarà possibile, anche i nostri parlamenti disporranno di un quadro normativo ad hoc e, grazie all’Osservatorio, anche di un organismo che lo tutelerà. La creazione di “gruppi tecnici”, costituiti dalle amministrazioni competenti, è già prevista. Il caos informativo non è ineluttabile. Ci basta, per contrastarlo, seguire il filo della costruzione democratica, ed imporla anche allo spazio digitale.
Christophe Deloire, presidente del Forum sull’informazione e la democrazia e segretario generale di Reporters sans frontières (RSF)
Giornalisti e procure: l’inchiesta sotto indagine”. Il caso di Paolo Mondani di Report. Roberto Rinaldi su Articolo21 il 27 Settembre 2022
L’acronimo DIG sta a significare Documentari Inchieste Giornalismo, e si riferisce al DIG Festival 2022 “Stay Gold” il più importante festival europeo dedicato al giornalismo investigativo e di reportage che si è tenuto a Modena dal 22 al 25 settembre scorso dedicato a Populismi e democrazie, crisi politica e climatica, libertà di espressione, diritti civili e focus sull’Italia al voto: sono questi i temi su cui si sono concentrati oltre 80 eventi, tra workshop, anteprime cinematografiche, incontri sull’arte e concerti. Nei quattro giorni della manifestazione si è parlato di conflitti, propaganda e giornalismo, delle grandi crisi del tempo in cui viviamo attualmente, di autoritarismo tecnologico.
Un’edizione dedicata alla memoria di Matteo Scanni giornalista, documentarista, a lungo direttore della Scuola di Giornalismo dell’Università Cattolica prematuramente scomparso il 27 gennaio scorso. Alberto Nerrazzini, giornalista investigativo è il presidente di DIG che nella presentazione del programma ha confermato «il supporto al giornalismo investigativo e la crescita della sua grande comunità composta da autori, giornalisti e cittadini che non si accontentano e vogliono essere consapevoli, informati, liberi e incorruttibili»
Di particolare interesse i talk come “My life undercover. Giornalisti sotto copertura” con Mads Brügger, Sacha Biazzo, Alberto Nerazzini, Corrado Formigli, e “Giornalisti e procure: l’inchiesta sotto indagine” con Giorgio Meletti, Giuseppe Giulietti, Alberto Nerazzini, Paolo Mondani, Fabrizio Franchi che già dalla presentazione aveva le caratteristiche di un dibattito incalzante su quanto è difficile per i cronisti che si occupano di inchieste in una nazione dove la ricerca della verità dei fatti viene ostacolata: «La solitudine troppo silenziosa dell’inchiesta in Italia. Partendo dal caso paradigmatico, nel maggio scorso, della Procura di Caltanissetta che ordina ai militari della Dia, nelle ore immediatamente successive alla messa in onda di una nuova inchiesta sulla Strage di Capaci, di perquisire l’abitazione e la redazione di Paolo Mondani, inviato di Report Rai3, sequestrando anche telefonini e computer, un incontro per fotografare e denunciare il declino dell’informazione nel nostro Paese.
Libertà di espressione, tutela delle fonti, segreto professionale. Ma anche indipendenza, autocensura, tutele legali e contrattuali del giornalista». Ad introdurre il dibattito è intervenuto Alberto Nerazzini che ha messo subito il dito nella piaga: «Le Procure non indagano più. Il sistema Giustizia in Italia è allo sbando anche se sulla carta abbiamo il sistema giudiziario migliore». Proiettato sullo schermo in alto al tavolo dei relatori appariva il “Decreto di perquisizione locale e personale e sequestro” della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Caltanissetta. Direzione Distrettuale Antimafia, commentato così dal presidente di DIG: «In poche righe è rappresentato il dramma di mette sotto indagine chi indaga».
Paolo Mondani è giornalista professionista. Ha lavorato per quotidiani italiani e network italiani ed esteri. Per la Rai, nel 1997, ha collaborato agli Speciali di Raidue. Inoltre, tra il 1999 e il 2002, ha lavorato come inviato per Circus, Raggio Verde, Sciuscià, Emergenza Guerra e Sciuscià edizione straordinaria. Nel 2003 è inviato e coautore di Report, su Rai Tre. Nel 2006 collabora, come inviato, ad AnnoZero su Rai Due. Dal 2007 è di nuovo nel Team di Report. Autore dell’inchiesta andata in onda su Report il 30 maggio 2022 “La pista nera” che ha svelato la presenza di Stefano Delle Chiaie, il fondatore di Avanguardia Nazionale, sul luogo della strage di Capaci del 23 maggio del 1992 e i suoi contatti con esponenti mafiosi. «Il 29 aprile, un mese prima che il mio servizio venisse trasmesso da Report, vengo convocato dalla Procura di Caltanissetta e mi viene detto che “sto facendo un lavoro che do fastidio” alla presenza di un gruppo di sostituti procuratori e di uno dell’Antimafia nazionale.
La cosa singolare è che io – racconta Paolo Mondani – non avevo ancora mandato in onda nulla. Mi chiedono cosa io avevo intenzione di far vedere in televisione e mi anticipano, testuali parole che “tutto quello che verrà trasmesso verrà smentito dalla Procura”. Nel servizio si parla di eventuali mandanti della strage di Capaci e nelle indagini che coinvolgevano eventuali mandanti ed esecutori si era trascurato un particolare importante, quello della presenza di Stefano Delle Chiaie, fondatore di Avanguardia Nazionale coinvolto nella strategia della tensione e deceduto nel 2019. Le indagini condotte anche prima della strage in cui perse la vita Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e gli uomini della scorta Vito Schifani, Antonio Montinaro e Rocco Dicillo, presagivano cosa sarebbe poi accaduto. Un collaboratore di giustizia non viene creduto e spariscono le prove. La compagna di questo uomo è la sorella dell’autista di Delle Chiaie e racconta che spesso andava a Palermo dove si incontrava con boss mafiosi».
Nella informativa scaturita da quell’incontro veniva dichiarato il coinvolgimento di Stefano Delle Chiaie nella strage di Capaci del 23 maggio 1992. L’ex brigadiere Walter Giustini ascoltato dalla procura nazionale Antimafia aveva spiegato che sarebbe stato possibile arrestare Totò Rina 13 mesi prima della strage ma una parte della magistratura ha scelto la strada della restaurazione, della sedazione narrativa. Quello che è accaduto a Palermo è una storia di documenti spariti, di nascondimento delle prove. Paolo Mondani racconta con estrema pacatezza quanto è accaduto prima che il suo servizio giornalistico per Report andasse in onda: «Sono stato pedinato, registrato, intercettato».
A fronte delle proteste dell’Ordine dei Giornalisti e della Federazione della Stampa, della redazione di Report, il decreto di perquisizione viene ritirato ma resta l’amarezza di vedere come il lavoro di un giornalista che indaga venga osteggiato da chi dovrebbe avere tutto l’interesse di arrivare alla verità sulle stragi di mafia. Giorgio Meletti ha lavorato per numerosi giornali tra i quali Il Secolo XIX, Il Mondo, Corriere della Sera, Tg La7, Il Fatto Quotidiano e, negli ultimi due anni scrive per il Domani. «Mi vanto di entrare nei palazzi di giustizia solo come imputato in considerazione che non mi occupo di cronaca giudiziaria ma di economia. Purtroppo noto che il giornalismo giudiziario tende a sminuire e a non irritare le sue fonti, che non sono altro che i giudici. Ci sono atti giudiziari che erano stati depositati due anni prima che cadesse il ponte Morandi di Genova e solo sul Fatto Quotidiano, dove a quel tempo lavoravo, erano stati pubblicati. Purtroppo c’è una normalizzazione e i giornalisti giudiziari sono allo stesso tempo carnefici e protagonisti».
La parola poi è passata a Giuseppe Giulietti che ha spiegato come si percepisca «l’assenza di dibattito e che prima della Rete esiste l’Agorà. Come dice bene il fratello di Giancarlo Siani (ucciso a Napoli nel 1985, ndr) “bisogna arrivare il giorno prima e non dopo”. Il giornalismo d’inchiesta non è sotto attacco solo in Italia ma è un problema internazionale e penso a Putin, Bolsonaro, Steve Bannon. Una delle cause è quella della disintermediazione perché il mediatore dell’informazione diventa un ostacolo». Il presidente della Federazione nazionale della stampa ha fatto poi una proposta per quanto accaduto a Paolo Mondani: «Un esposto alla Procura per quello che ha subito perché il pedinamento e le intercettazioni a suo carico sono illegali». Il dibattito si è concluso con l’intervento di Fabrizio Franchi consigliere nazione dell’esecutivo dell’Ordine dei Giornalisti. «Noi giornalisti siamo soli e non abbiamo chi ci tutela. Subiamo il peccato originale che deriva dalle inchieste su Tangentopoli. Purtroppo è saltata la politica e subiamo anche le querele temerarie», ricordando che anche nel suo caso aveva subito una querela che si era trascinata per anni in Tribunale.
Il rapporto tra i media e la giustizia? Complicato e non sempre corretto. Gianluca Zanella su Inside Over il 20 settembre 2022.
Spesso si parla del rapporto tra i media e casi di cronaca, interrogandosi su come i primi possano influenzare – in modo tanto positivo quanto negativo – i secondi. Certamente non è un tema semplice, le sfaccettature sono molte e non è possibile delineare uno schema preciso. Ne abbiamo parlato a lungo con tre interlocutori molto particolari, tutti prossimamente ospiti del corso di giornalismo d’inchiesta della Newsroom Academy di InsideOver: Giada Bocellari, avvocato di Alberto Stasi [in carcere con l’accusa di aver ucciso la sua fidanzata, Chiara Poggi, ndr], Gabriele Bardazza, consulente che da 25 anni ricostruisce eventi catastrofici per consulenze tecniche in ambito penale e civile [disastro del Moby Prince, incendio del Norman Atlantic, ecc, ndr] e Massimiliano Gabrielli, avvocato cassazionista del foro di Roma, specializzato in difesa di parte civile in processi sui disastri e mass tort [protagonista, tra gli altri, nel processo penale sulla Costa Concordia, Rigopiano, torre piloti di Genova e Strage di Viareggio, ndr].
Punti di vista spesso convergenti, ma con significative differenze. In ogni caso, molto interessanti per capire come il mestiere del giornalista venga interpretato da attori fondamentali all’interno di un’inchiesta da sviluppare. La prima domanda l’abbiamo posta all’avvocato Bocellari, chiedendole se, dal suo punto di vista, ci sono stati casi in cui i media hanno indirizzato negativamente l’andamento di un processo: “Si. Il delitto di Cogne [l’uccisione del piccolo Samuele per cui è stata poi condannata sua madre, Annamaria Franzoni, ndr] è stato il primo caso che a livello di avvocatura si è studiato in questo senso. È stato il primo caso mediatico per come lo intendiamo oggi, seguito poi dal delitto di Novi Ligure [Il massacro di una donna e di suo figlio da parte degli allora adolescenti Erica e Omar, ndr]. Da lì si è iniziato a capire che certe tematiche potevano interessare il pubblico. Invece che leggere il giallo c’era il caso di cronaca nera da seguire passo dopo passo, soltanto che il problema, secondo la mia personalissima opinione, è che non si riesce a distinguere la cronaca giudiziaria da qualcosa che invece non è cronaca, ma è fiction”.
Un’esperienza, la sua, vissuta in prima persona, da quando – prima lavorando per lo Studio Giarda, poi in autonomia – ha iniziato a occuparsi dell’omicidio di Garlasco. Da quel momento, suo malgrado, anche l’avvocato Bocellari si è vista più volte sotto i riflettori: “Ci sono programmi televisivi, per esempio, che non fanno cronaca giudiziaria, ma qualcosa di diverso. Programmi che hanno iniziato a fare un processo parallelo, pubblico, che è molto più veloce di un vero processo. I tempi della giustizia, che tu faccia l’abbreviato o che tu vada in Corte d’assise, comunque richiedono mesi. Il processo mediatico è immediato, perché innanzitutto i concetti vengono banalizzati, vengono depurati da tutte le questioni che sono tipiche del processo penale. A me è capitato più di una volta di parlare con dei giornalisti e dire “scusate, ma dal punto di vista tecnico quello che dite non è corretto. La risposta è “ma questo la gente non lo capirebbe”. Se tu fai un processo parallelo a quello penale, togliendo però tutte le garanzie che l’imputato può avere, non spiegando i tecnicismi che invece dovresti spiegare, allora cosa stai facendo?”.
“Il tema è molto complesso”, aggiunge l’avvocato Bocellari, “e richiederebbe una tavola rotonda vera, seria e tra più competenze. Parto dal presupposto che io sono profondamente convinta dell’importanza del giornalismo in generale e soprattutto della cronaca. È fondamentale, è un diritto di tutti quello di essere informati di quello che accade nelle aule. Il problema è più etico. I giornalisti dovrebbero capire dove finisce la cronaca e dove inizia qualcosa che è tutt’altro. Mi ricordo che parlando con esponenti di un noto programma televisivo, che è in un certo senso l’emblema della deriva di cui sto parlando, dissi “vi rendete conto che voi di fatto consentite che delle persone vengano condannate ancora prima di essere processate?” la risposta è stata “con il nostro share teniamo in piedi la rete”. Come a dire: dei diritti del tuo assistito non ce ne frega niente. Il problema è informare o tenere alto lo share? Siamo su due piani diversi”.
Sul tema del rapporto media/verità è molto interessante il punto di vista di Gabriele Bardazza che, tra le varie attività di cui è stato importante attore, ha fatto parte dell’ultima Commissione d’inchiesta sul disastro del Moby Prince, fornendo, assieme agli altri membri, un contributo fondamentale per il raggiungimento di una verità reclamata dai parenti delle vittime per 31 anni: “La narrazione dei fatti”, ci dice Bardazza, “qualche volta diventa una narrazione tossica, ovvero una narrazione che introduce degli elementi che – proprio per l’abilità del giornalista – risultano poi essere estremamente suggestivi e che magari in qualche misura possono anche essere veri, ma che poi distolgono da quella che è la verità”.
Si sta parlando, in questo caso, dell’eventualità che un convincimento del giornalista possa influire sul suo lavoro di divulgazione. Una trappola in cui è molto facile cadere e da cui è invece difficile uscire, se non a costo di mettere in discussione il proprio lavoro e fare mea culpa. Gabriele Bardazza porta come esempio proprio quello della narrazione sul disastro del Moby Prince: “Nell’immaginario collettivo, ancora oggi, si è trattato di un evento determinato dalla presenza di nebbia e per la distrazione dell’equipaggio intento a guardare una partita di calcio. Questi due elementi – il primo entrato in qualche misura nel processo, il secondo neanche mai comparso su un documento – hanno influito pesantemente nell’accertamento della verità”.
Soffermandoci su questo punto specifico, abbiamo chiesto al dott. Bardazza se, dal suo punto di vista, certe notizie “depistanti” [e si sottolineano le virgolette, ndr] nascano per caso o se talvolta emerga il sospetto che il/la giornalista di turno si sia prestato a un gioco perverso con consapevolezza: “È un bel tema. Io penso che in alcuni casi possano essere somministrate delle false notizie. Ma nel caso del Moby Prince credo si sia trattato solo di una leggerezza. Nello specifico, il giorno dopo il disastro, un giornalista del Tg1, in chiusura del servizio, disse che al momento della collisione tra il traghetto e la petroliera Agip Abruzzo era in corso una partita di calcio. E pose in forma dubitativa il fatto che, forse, l’equipaggio potesse essersi distratto. Questa supposizione cristallizzò nella mente dell’uditorio un fatto in realtà indimostrabile e del tutto fuorviante rispetto poi all’accertamento dei fatti”.
Ricordiamo, infatti, che il lavoro dell’ultima Commissione d’inchiesta ha stabilito in modo lapidario che a determinare il disastro non è stata né la nebbia né tantomeno la distrazione dell’equipaggio, bensì una manovra disperata per evitare la collisione con un terzo naviglio, al momento ancora non identificato, che il Moby Prince ha trovato improvvisamente sulla sua rotta di navigazione.
“Ci sono tanti altri casi”, aggiunge Bardazza, “in cui la narrazione di alcuni fatti assolutamente veri ha poi oggettivamente allontanato o fatto focus su una verità che in realtà non aveva niente a che fare con la verità vera”.
Anche lui – che del caso si è occupato – cita a esempio il delitto di Garlasco: “Pensiamo alla questione delle impronte latenti delle scarpe di Alberto Stasi nella villetta in cui si è consumato il delitto: Il 5 settembre 2007 [l’omicidio avviene il 13 agosto precedente, ndr] vengono fatti i rilievi sul pavimento per trovare le impronte latenti di Alberto Stasi. Nel momento in cui emerge il fatto che su quel pavimento le impronte non sono visibili, sui giornali la notizia che passa è “non ci sono le impronte di Alberto Stasi”. Sembra un dettaglio, ma cono due concetti profondamente diversi. 1) non le vedo 2) non ci sono. La conclusione che ne viene data è immediata: quindi Stasi non è mai entrato da scopritore in quella casa, ha mentito. Questo passaggio segna il processo in maniera significativa”.
Bardazza però non demonizza la stampa e, nello specifico, il giornalismo d’inchiesta. Tutto il contrario. E per dimostrare quanto esso sia importante talvolta per il disvelamento della verità in casi controversi, cita un altro famoso caso: “Pensiamo alla vicenda di Hashi Hassan, incarcerato per l’uccisione di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin e scagionato grazie a un’inchiesta di Chiara Cazzaniga, che ha svolto una vera e propria attività investigativa, ha messo in fila gli elementi, si è accorta che qualcosa non tornava ed ha approfondito. Ecco, quando il giornalista ha acquisito tutto il materiale su un caso e ha avuto modo di studiarlo, quando dietro un servizio giornalistico c’è un lavoro rigoroso, serio, che non punta al sensazionalismo… allora sì che si può parlare di vero giornalismo d’inchiesta”.
Diventa ancora più interessante, a questo punto, ascoltare cosa pensa l’avvocato Massimiliano Gabrielli sul tema. Interessante perché, nel panorama giudiziario italiano, Gabrielli rappresenta per certi versi un unicum, certamente il precursore di un certo modo di intendere il mestiere di avvocato. Al centro di grossi casi in qualità di avvocato di parte civile, confrontandosi spesso con veri e propri colossi e mettendo in atto non solo una difesa verso i più deboli, ma quasi una battaglia ideologica per punire questi colossi con l’unico linguaggio che conoscono – quello del denaro – Massimiliano Gabrielli ha sperimentato in tempi non sospetti un metodo per unire al mestiere da avvocato nella sua veste classica un’appendice mediatica che, negli anni, gli ha conferito non solo una certa notorietà, ma gli ha permesso di raggiungere dei risultati assolutamente non scontati. “Ho sempre creduto nello sviluppo di nuove forme di comunicazione”, ci racconta, “anche attraverso canali alternativi a quelli troppo spesso addomesticati, e credo che l’allargamento della platea degli addetti all’informazione sia un beneficio per contribuire allo spirito di civiltà che rende più vicina e comprensibile la Giustizia”.
L’avvocato Gabrielli fa riferimento alla creazione di tre blog che, nel corso di altrettanti processi [quello per i disastri della Costa Concordia e della torre piloti di Genova e quello per l’incendio del traghetto Norman Atlantic, ndr], gli hanno consentito di raccontare in presa diretta, ovviamente dal suo punto di vista, cosa accadeva udienza dopo udienza, con un linguaggio semplice e accessibile a tutti. Un attivismo, il suo, più volte censurato dagli stessi colleghi e, in un caso, anche da una procura, ma che nessuno ha mai potuto definire deontologicamente scorretto.
Come intende il rapporto con i media un professionista che in prima persona ha compreso quando la pressione mediatica possa influire sugli esiti di un processo? “Se parlate con un avvocato di parte civile come me, vi confermerà che le cause si fanno e si vincono dentro ma anche, o soprattutto, fuori dalle aule. Questa è la mia esperienza. Il caso Costa Concordia aveva un’attenzione mediatica straordinaria, che ha influenzato a favore nostro anche i tempi del processo. In tutti i casi di cui mi sono occupato in cui c’è stata pressione mediatica, a me ha sempre giovato. Ho sempre avuto un ottimo rapporto con i giornalisti e credo che, nello specifico, il giornalismo d’inchiesta – se fatto bene ed entro i limiti della correttezza – può contribuire ad accendere i riflettori della giustizia su un cold case, come anche a svegliare la coscienza sociale e l’attenzione degli investigatori su prassi e condotte illecite che rischiano di passare inosservate come se tutto fosse nella normalità: un caso tra i tanti è Mafia capitale scaturito anche grazie all’inchiesta di Lirio Abbate”.
In particolare, l’avvocato Gabrielli ritiene importante il ruolo della stampa nei casi di mass tort, ancor più in particolare quando l’attenzione viene focalizzata sulle parti deboli di questo tipo di processi: le vittime.
“Alla base dei grandi disastri come quello dell’hotel Rigopiano, della discoteca di Corinaldo, della stazione di Viareggio, giusto per citarne alcuni, c’è una questione di denaro. Le grandi società spesso risparmiano sui livelli di sicurezza a vantaggio dell’utile, creando il terreno fertile per il verificarsi degli incidenti. Le Procure, spesso, perseguono l’obiettivo più immediato e certo, esercitando l’azione penale sui responsabili in prima linea, evitando di guardare verso l’altro, ai vertici societari. Ed è qui che entrano in gioco gli avvocati di parte civile, nel ruolo di spinta ed allargamento delle visuali, vicariando il lavoro del Pubblico Ministero. Ma per fare ciò bisogna interpretare questo ruolo come quello di accusa privata, in modo attivo e senza limitarsi ad andare in scia al pm restando nelle retrovie delle aule, in attesa della sentenza. Nel processo penale purtroppo però le parti civili sono ancora oggi viste come ospiti scomodi, e spesso un fastidio se interferiscono con l’andamento del processo condotto da giudici e pm contrapposti ai difensori degli imputati. Per avere giustizia vera e completa le parti civili non devono stare nel mezzo, ma sopra le altre parti, la visione delle parti offese e del lato umano della vicenda, in questo tipo di processi, non solo è fondamentale, ma è soprattutto il modo di garantire che si ricordi sempre che alle spalle del fatto reato e delle responsabilità penali, c’è la morte di persone innocenti e oltre il processo resta la sofferenza delle famiglie delle vittime. E nel 99% delle volte, a consentire questa visione è proprio il giornalismo”.
Cosa possiamo dire in conclusione? Certamente emerge – tanto in positivo, quanto in negativo – l’importanza dei media, il peso che possono avere sull’opinione pubblica, ma anche sugli attori dei processi, su chi deve decidere se una persona meriti o meno il carcere o su chi deve decidere se punire un colosso societario per la morte di persone innocenti. Tutto questo dovrebbe far riflettere e non sarebbe insensato aprire una discussione sull’opportunità o meno di regolamentare – e magari porre un freno – alla spettacolarizzazione fine a sé stessa. Di certo ne gioverebbe il giornalismo. Quello vero.
Come muoversi su un campo minato: il giornalismo d’inchiesta secondo gli avvocati Cornia e Milani. Gianluca Zanella il 15 Settembre 2022 su Inside Over.
Il paragone può senz’altro sembrare azzardato, ma rende bene l’idea. Fare giornalismo in generale, ma più nello specifico fare giornalismo d’inchiesta, equivale a muoversi su un campo minato. Ne sono convinti anche gli avvocati Carlotta Cornia e Marco Milani, rispettivamente avvocato civilista e penalista dello studio Sinopoli, che saranno ospiti il 22 ottobre nel secondo appuntamento del corso di giornalismo d’inchiesta della Newsroom Academy di InsideOver.
Cosa accade quando non c’è la possibilità di confermare un fatto di cui si è già scritto? Come comportarsi nel caso in cui si venisse in possesso di documenti che dovrebbero essere coperti da segreto? Chi risponde di un errore che porta a una denuncia per calunnia? Prendendo spunto da casi reali e da situazioni in cui ogni giornalista potrebbe ritrovarsi nel corso della propria attività, i due avvocati spiegheranno quali sono i limiti entro cui è lecito muoversi e cosa accadrebbe nel caso in cui questi limiti venissero superati.
“Difficilmente a una domanda secca, del tipo, «cosa posso fare nel caso che…», c’è una risposta univoca” ci dice l’avvocato Cornia, “bisogna valutare le situazioni caso per caso”.
Poniamo allora un caso se non reale, almeno verosimile. Una procura della Repubblica sta conducendo delle indagini nel massimo riserbo. Quello di cui si sta occupando non deve trapelare, pena: la compromissione delle indagini. Per qualche ragione, documenti riservati (atti d’indagine, trascrizioni d’interrogatori, ecc.) escono fuori dalle segrete stanze e arrivano, per vie traverse, nelle mani di un giornalista, che non può sapere se sia lui l’unico detentore di quei documenti, dunque non può nemmeno sapere se lo scoop è assicurato o se arriverà per secondo. Di una cosa si può essere certi: casi del genere rappresentano il sogno e allo stesso tempo l’incubo di qualsiasi giornalista d’inchiesta. Il sogno di portare a casa la notizia che tutti i colleghi gli invidieranno e l’incubo di muoversi alla cieca e non sapere con chi si troverà a competere.
C’è anche una terza incognita, che spesso viene sottovalutata: in cosa potrebbe incorrere, il giornalista, se pubblicasse quel materiale di cui è venuto in possesso? “Il mio consiglio da avvocato?”, ci dice l’avvocato Marco Milani, “Non pubblicare. Ma mi rendo conto che le dinamiche sono molto più complesse. A questo punto, è necessario fare una valutazione sui rischi e sui benefici. E soprattutto condividere questa valutazione con la redazione, l’editore e, ovviamente, con l’avvocato”.
Per gli iscritti al corso si tratterà di un’occasione preziosa per non muoversi alla cieca in un settore dove non mancano trappole e, perché no, anche le contraddizioni. Pensiamo, per esempio, al rapporto tra il giornalista e la fonte. “Si potrebbe dedicare un intero corso solamente a questo” aggiunge l’avvocato Milani, a conferma della difficoltà di fornire risposte granitiche: “Anche in questo caso, bisogna valutare i singoli accadimenti, ed è quello che cercheremo di fare il 22 ottobre in aula”.
E se bisogna valutare i singoli accadimenti, vale la pena prendere in esame dei precedenti esemplari. Nel suo ultimo libro, La verità sul caso David Rossi, Davide Vecchi [anche lui ospite del corso, nrd] racconta per esempio un episodio unico nel suo genere, ma che riflette plasticamente quanto sostenuto dall’avvocato Milani: il 22 febbraio del 2017, durante il dibattimento nel corso del processo per la morte del manager di MpS precipitato da Rocca Salimbeni nel 2013, il giornalista Augusto Mattioli, che nell’estate del 2013, come molti altri colleghi, era venuto a conoscenza dell’esistenza di una serie di email particolarmente importanti per fare luce su alcuni punti oscuri della vicenda, venne costretto a rivelare il nome della sua fonte, cioè della persona che gli aveva parlato delle email in questione.
Sul fatto che la tutela della fonte sia quasi un aspetto sacro del mestiere di giornalista ci sono pochi dubbi. Dopotutto, chi si fiderebbe più di un giornalista che, ricevuta una notizia, brucia la propria fonte? Ovviamente nessuno. E il giornalista smetterebbe di lavorare. Tuttavia Mattioli era all’epoca giornalista pubblicista e, sebbene numerose sentenze riconoscano la tutela della fonte anche ai giornalisti pubblicisti, in quel caso la procura di Siena fece eccezione, distinguendo i diritti e i doveri dei pubblicisti da quelli dei giornalisti professionisti. Insomma, prima si parlava di contraddizioni. E se non è una contraddizione questa.
Su una cosa, tuttavia, gli avvocati Cornia e Milani sono categorici: al di là delle mille sfaccettature di questa professione e al di là di casi limite e, appunto, delle contraddizioni, la regola aurea del giornalista dev’essere sempre quella di poter dimostrare quanto si è scritto: “prima di pubblicare una notizia”, dice l’avvocato Cornia, “è fondamentale avere a disposizione effettiva e immediata le fonti utilizzate. Questo a tutela propria, della redazione tutta e dell’editore”.
Insomma, il giornalismo d’inchiesta può essere esaltante, ma senza una rete di protezione ad ammortizzare le cadute diventa un gioco pericoloso. Ed è proprio questo che si cercherà di trasmettere nella giornata di corso dell’Academy. Certo sarebbe ingenuo pensare di poter coprire nell’arco di poche ore tutto lo scibile giurisprudenziale, ma certamente saranno gettate le basi per una presa di consapevolezza di quelli che sono i diritti, gli obblighi e le cautele che possono blindare il lavoro giornalistico.
Autore GIANLUCA ZANELLA
“Un lavoro che ti dà la possibilità di fare la differenza”: Alessandro Politi e il giornalismo d’inchiesta. Gianluca Zanella il 9 Settembre 2022 su Inside Over.
Tra i giornalisti d’inchiesta più promettenti nel panorama italiano degli ultimi anni, non può non essere annoverato Alessandro Politi. Milanese, classe 1988, Politi può vantare una carriera di tutto rispetto, costellata di importanti scoop e molti illustri riconoscimenti. Già collaboratore di Oggi e de ilFattoQuotidiano.it, il suo comincia a essere un volto noto con l’ingresso a Le Iene, dove nel 2018 debutta con un’inchiesta sul mondo degli steroidi. Particolarmente abile nell’infiltrazione e nelle tecniche di registrazione e videoregistrazione occulta, Politi s’inoltra sin da subito nel torbido, affrontando di petto casi di cronaca nera come la morte del calciatore Denis Bergamini, l’incendio della ThyssenKrupp, la strage nazista di Fucecchio (sarà proprio lui a individuare e intervistare in Germania l’ultimo nazista protagonista dell’eccidio ancora in vita). Dal 2021 approda a Rai Uno presso il programma Storie Italiane, condotto da Eleonora Daniele. Qui, Alessandro Politi realizza servizi e collegamenti in diretta principalmente su casi di cronaca nera. Ospite il 12 novembre per il corso di giornalismo d’inchiesta della Newsroom Academy di InsideOver, gli abbiamo fatto qualche domanda.
Quando hai deciso – e perché – di fare il giornalista?
Sono figlio di giornalisti e ho scritto il mio primo articolo a 15 anni. Mi verrebbe da dire che non potevo non diventare un giornalista. La passione, però, è esplosa intorno ai 22 anni quando stavo per conseguire la laurea magistrale in giurisprudenza ed ho cominciato ad avvicinarmi al giornalismo d’inchiesta. È stato amore a prima a vista.
Cos’è, dal tuo punto di vista, il giornalismo d’inchiesta? In cosa differisce dagli altri tipi di giornalismo?
Mi sono occupato anche di Moda, di viaggi e Life-style ma niente di tutto questo mi ha mai entusiasmato come il giornalismo investigativo, che, dal mio punto di vista è “il” giornalismo. Si differenzia dalle altre tipologie perché ti permette “di fare la differenza”, ovvero di poter contribuire a migliorare la società in cui viviamo o quanto meno a sensibilizzare il pubblico su questioni rilevanti.
Qual è il confine sottile che distingue il giornalismo dal gossip? Ci sono limiti che nel giornalismo sarebbe meglio non varcare?
Difficile definire il gossip come giornalismo. Io mi considero un purista della professione e, per quanto mi riguarda, al netto del fatto che si dovrebbero rispettare le carte deontologiche sempre e comunque – anche se è un principio spesso disatteso da molti – se la popolazione a cui si propinano contenuti sempre più trash e beceri si sta analfabetizzando, sicuramente la colpa è anche di chi fa il nostro mestiere.
Da giornalista investigativo, prima per le Iene e ora per la Rai, ti sei occupato di molti argomenti complessi e, perché no, pericolosi: ci racconti qualche aneddoto? Hai mai avuto paura?
Chi dice che non ha paura a occuparsi di casi di mafia, pedofilia, omicidi irrisolti o comunque di cronaca nera, mente o non ha mai fatto davvero questo lavoro. Mi è capitato tante volte di lavorare sotto copertura. Probabilmente la volta in cui mi sono più spaventato è stato quando in Turchia mi sono infiltrato all’interno delle fabbriche del falso, aziende che spesso lavorano per le organizzazioni criminali. L’ho fatto per documentare la produzione e il traffico di abiti e prodotti griffati contraffatti, dato che ormai il grosso della produzione del fake Made in Italy ha delocalizzato ad Istanbul per aggirare i tanti controlli fatti in Italia dalle forze dell’ordine. Ricordo che, dopo aver convinto un losco personaggio a permettermi di raggiungere la loro azienda, abbiamo fatto circa 2 ore di taxi arrivando in un sorta di paesino sperduto nel nulla. Sembrava di essere a Beirut, in una zona che aveva subito bombardamenti. Attorno a me e al mio collega soltanto macerie e deserto. Internet non prendeva più bene, ma sono riuscito ad inviare a mio padre una foto del trafficante e la posizione in cui ci trovavamo che la diceva lunga sulla pericolosità della situazione e sul mio stato d’animo: “Papà, se tra due ore non mi senti più manda qualcuno, ti voglio bene”.
O anche quando sono andato in Egitto, pochi mesi dopo la morte di Giulio Regeni, sempre sotto copertura, a documentare il traffico di steroidi anabolizzanti tra quel Paese e l’Italia. Ovviamente sempre utilizzando false identità e camere nascoste. Ricordo che sono dovuto rientrare 3 giorni prima perché le mie numerose domande avevano destato l’attenzione di “qualcuno” e ho ancora ben presente cosa ho provato mentre passavo in fretta e furia davanti al carcere diretto all’aeroporto: guardando fuori dal finestrino del taxi ho avuto un brivido di terrore, pensando che sarei potuto finire lì dentro se mi avessero scoperto a riprendere di nascosto i loro traffici illeciti.
Qual è il servizio di cui vai maggiormente fiero?
Devo essere sincero? Tutti. Io amo profondamente ogni mia singola inchiesta. In ogni mio lavoro metto anima e corpo, per me non è semplice “lavoro”, ma è la mia vita. Ne sono letteralmente affascinato, quasi ossessionato. Se proprio dovessi sceglierne uno tra tutti, probabilmente opterei per il mio lungo lavoro d’inchiesta relativo al caso Thyssenkrupp, dove abbiamo fatto emergere dettagli ed elementi inediti che hanno scosso l’Italia e la Germania. Ho lavorato mesi e mesi a quell’inchiesta e i risultati sono stati clamorosi.
Parlaci degli strumenti indispensabili per un giornalista d’inchiesta…
Passione, sangue freddo e coraggio. Tanto coraggio. Bisogna essere lucidi, preparati a tutto e soprattutto tenere sempre bene a mente che non si deve mai sposare una tesi e convincersi che sia per forza quella giusta, altrimenti si corre il rischio di perdere per strada pezzi fondamentali e dettagli che forse avrebbero permesso di giungere prima e senza fare errori alla verità vera. È poi fondamentale documentarsi con grande scrupolosità e attenzione ai dettagli. Dal punto di vista tecnico invece ovviamente sono fondamentali le micro, cioè i ferri del mestiere. Sicuramente due telefoni cellulari e due Sim e delle telecamere nascoste o almeno registratori facilmente occultabili di alta qualità. Io ho un kit di telecamere nascoste fatto su misura (ve li mostrerò durante la nostra lezione).
L’inchiesta del passato che avresti voluto firmare? Perché?
Mi sarebbe piaciuto indagare sin dall’inizio sulla morte di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino. In effetti poi l’ho fatto, scoprendo i retroscena legati al mancato utilizzo di un dispositivo che forse avrebbe potuto salvare la vita ad entrambi, ma che misteriosamente non gli venne mai installato: il bomb jammer. Non sono un tecnico,ma per bomb jammer s’intende un’apparecchiatura di sicurezza, già in uso da decenni, volta a disturbare le frequenze radio e in grado di bloccare, ad esempio, l’azione dei telecomandi a distanza per gli esplosivi.
Perché hai accettato di partecipare al corso della Academy?
Perché tra i doveri/piaceri di un giornalista c’è anche quello di trasmettere la propria passione e le proprie esperienze e non solo quello di raccontare fatti. Vi svelerò quindi anche alcuni “trucchi del mestiere”, dettagli inediti relativamente alle mie inchieste undercover e qualche curiosità su come utilizzare al meglio le telecamere nascoste.
Dacci ancora un minuto del tuo tempo!
Se l’articolo che hai appena letto ti è piaciuto, domandati: se non l’avessi letto qui, avrei potuto leggerlo altrove? Se non ci fosse InsideOver, quante guerre dimenticate dai media rimarrebbero tali? Quante riflessioni sul mondo che ti circonda non potresti fare? Lavoriamo tutti i giorni per fornirti reportage e approfondimenti di qualità in maniera totalmente gratuita. Ma il tipo di giornalismo che facciamo è tutt’altro che “a buon mercato”. Se pensi che valga la pena di incoraggiarci e sostenerci, fallo ora.
Autore GIANLUCA ZANELLA
“È ora di riscoprire il giornalismo d’inchiesta”: l’intervista a Luca Fazzo. Gianluca Zanella il 26 agosto 2022 su Inside Over.
Parlare di giornalismo d’inchiesta con un giornalista d’inchiesta è sempre stimolante. A seconda dell’interlocutore, di volta in volta emergono punti di vista che magari non sono molto diversi tra loro, ma che lasciano trasparire delle sfumature che sono poi la cifra personale che ciascuno mette nel proprio mestiere, quella caratteristica che rende il lavoro di quel giornalista a suo modo unico.
Ospite del corso di giornalismo d’inchiesta della Newsroom Academy di InsideOver il 5 novembre, con una lezione in cui si parlerà del modo in cui un giornalista deve muoversi all’interno di un tribunale e di come sia possibile ricavare una notizia in breve tempo dagli atti di un processo che magari contano qualche migliaio di pagine, Luca Fazzo, già inviato di Repubblica e dal 2007 cronista di giudiziaria per Il Giornale, e autore di due libri (da Manager calibro 9 è stato tratto il film di Netflix Lo spietato, con Riccardo Scamarcio), ha scambiato con noi qualche battuta su quello che è il giornalismo d’inchiesta dal suo punto di vista: “Il giornalismo d’inchiesta, per come la vedo io, è tutto quello che va al di là delle verità ufficiali. Al di là dei comunicati e delle conferenze stampa, al di là di quello che è in qualche modo propaganda. Il giornalismo d’inchiesta è quello che va oltre le apparenze. Un lavoro difficilissimo”.
In Italia è possibile fare giornalismo d’inchiesta?
Io non credo che ci siano poteri forti in grado di inibire un lavoro di inchiesta verificato. Quello che rende difficile fare giornalismo d’inchiesta in Italia è piuttosto la contiguità, il timore reverenziale che abbiamo come categoria, purtroppo, verso i poteri costituiti. Quando qualcuno ha avuto in questo Paese il coraggio e le capacità di fare giornalismo d’inchiesta, io penso che abbia potuto farlo liberamente. Capacità e coraggio, però, sono doti che nessuno crea da zero.
Qual è stato il periodo d’oro, se c’è stato, del giornalismo d’inchiesta in Italia?
Temo di poter dire che è un periodo lontano. Per trovare forme vere di giornalismo d’inchiesta dobbiamo risalire addirittura agli anni Sessanta o Settanta. Tutto quello che arriva dopo è giornalismo di qualità, piacevole, ecc, però direi che oggi un giornalismo d’inchiesta come quello di allora appare sporadicamente, per cui sarebbe ora che ci si cominciasse a mettere mano.
A livello non solo italiano ma in generale nella storia del giornalismo d’inchiesta internazionale, qual è secondo te una delle inchieste che hanno davvero fatto la storia?
Tutti dicono il Watergate, ma in realtà il tanto celebrato Watergate altro non è se non una storia di rapporti privilegiati tra settori pubblici e settori dell’informazione; io credo che abbiamo, nella contemporaneità, nei tanti mezzi che la modernità offre anche al nostro mestiere, esempi importanti. Penso che tutto il fronte WikiLeaks sia stato veramente condizionante, che abbia davvero costretto i poteri forti – che poi sono le nostre vittime predestinate – a cambiare atteggiamento. Non a emendarsi ma se non altro a stare più attenti.
Quello che sta succedendo a Julian Assange può essere un campanello d’allarme per futuri sviluppi del giornalismo o è una cosa che in Italia non si può verificare?
I colleghi mi ammazzeranno, ma in questi anni ho visto veramente pochi giornalisti, in Italia, pagare prezzi non dovuti per inchieste fatte seriamente. È vero che il giornalista spesso è un uomo solo di fronte a poteri spesso più forti di lui, ma io credo che in Italia – e forse anche nel nostro piccolo mondo di riferimento europeo – un lavoro fatto bene abbia veramente pochi avversarsi in grado di zittirlo.
La tua inchiesta a cui sei più legato e perché.
È una domanda difficilissima. Nella mia carriera professionale è ovvio che il mio marchio di fabbrica sia quello di aver partecipato all’indagine su Mani Pulite, Tangentopoli, all’inizio degli anni Novanta. Fu un’esperienza, oltre che politica e giudiziaria, anche giornalistica. Un’indagine raccontata da un piccolo, ristretto gruppo di giornalisti di cui io ebbi la fortuna di fare parte. Fu un’esperienza profondamente formativa, imparammo a fare i conti con problematiche per noi trentenni assolutamente inesplorate, dopodiché ci si dovrebbe domandare: fu giornalismo d’inchiesta? No, non lo fu. Viaggiammo per mesi e anni a rimorchio dell’indagine giudiziaria. Io vorrei sperare che l’inchiesta più importante della mia vita sia quella che devo ancora fare.
Domanda che abbiamo fatto anche ad altri partecipanti: I corsi come quello sul giornalismo d’inchiesta della Newsroom Academy di InsideOver possono dare un input a qualcuno che ha il sacro fuoco del giornalismo per tirarlo fuori?
Io penso proprio di si, quello che tu definisci il sacro fuoco è una cosa che hanno in tanti, ed è molto bella, molto nobile. Ma il sacro fuoco ha poi bisogno, per viaggiare, di camminare su gambe robuste, con conoscenze tecniche, conoscenza dei contesti in cui ci si muove, quindi, se questi corsi sono in grado di fornire le capacità tecniche a un coraggio insito dentro le persone, perbacco se possono avere utilità.
Il giornalismo d’inchiesta secondo Davide Vecchi: “La parola d’ordine è l’imprevedibilità”. Gianluca Zanella il 19 Agosto 2022 su Inside Over.
Il telefono che non dorme mai, poca differenza tra notte e giorno, un’infinità di informazioni, nomi, dettagli, soffiate. Piste false e piste vere, terreni scivolosi, scalate dall’esito imprevedibile, grossi tonfi e pochi risultati. Presentato così, il giornalismo d’inchiesta ha decisamente poco appeal. Solamente un masochista potrebbe pensare il contrario. Eppure sono in molti a credere in questa professione, a non lasciarsi intimorire dalle difficoltà che a volte si innalzano come un muro. Tra questi molti, alcuni nomi spiccano su tutti. Le ragioni sono diverse e quasi mai nette. E non sempre la notorietà è un bene, se si pensa che il giornalista d’inchiesta dev’essere come un investigatore: invisibile. Ci sono giornalisti che iniziano il loro percorso quasi per caso, macinando chilometri sotto il sole o sotto la pioggia, indifferentemente, per poi ritrovarsi al timone della nave, alla direzione di un giornale. È il caso di Davide Vecchi. Giornalista d’inchiesta prima a l’Espresso, Adnkronos e poi Il Fatto quotidiano, oggi direttore delle testate del gruppo Corriere e de Il Tempo. La si potrebbe definire una carriera da manuale, costellata da inchieste importanti, su tutte – in ordine temporale – quella sullo scandalo MpS e sulla morte di David Rossi. Davide Vecchi sarà ospite del corso di giornalismo d’inchiesta della Newsroom Academy di InsideOver il 19 novembre. Per l’occasione, abbiamo scambiato con lui qualche parola.
Quante vite vive un giornalista d’inchiesta?
Una. La sua. E allo stesso tempo molte altre. Ogni giorno, a seconda degli argomenti, delle inchieste che si stanno portando avanti, si vive una vita nuova. Non è la tua, ma il giornalismo d’inchiesta ti fa entrare nella vita degli altri, ti fa calare in realtà diverse dalla tua. E devi fare attenzione, muoverti con cautela. Devi approfondire, conoscere, provare a comprendere e alla fine, solo alla fine, raccontare.
Questa dicotomia, questo muoversi continuamente tra un piano personale e un piano privato che appartiene alla sfera di un altro individuo, come condiziona l’unica vita del giornalista? Come si fa a “staccare” davvero?
Non si può “staccare”. La parola chiave nella vita di un giornalista d’inchiesta è: imprevedibilità. L’unica vera conseguenza di questa vita è l’imprevedibilità. Ti faccio un esempio: se c’è una procura in giro per l’Italia che sta facendo un’operazione importante e che riguarda un’inchiesta che stai seguendo, appena lo vieni a sapere prendi e vai. Nessuno ti avvisa prima. Non esistono ferie, non esistono compleanni, rimpatriate tra amici. Si va a giornate, a momenti. E in un attimo cambia tutto. La vita del giornalista è all’insegna dell’incognita, anzi, a costo di ripetermi, dell’imprevedibilità. Questo ha ovviamente anche dei lati positivi: non ti annoi mai.
Quali sono le rinunce e quali sono, al contrario, le cose che si ottengono con questo stile di vita?
Personalmente non so a cosa ho rinunciato perché, appunto, avendovi rinunciato non saprei neanche dirlo. Quello che si ottiene… beh, è un lavoro che varia sempre, non è mai ripetitivo. Com’è che si dice? Fare il giornalista è sempre meglio che lavorare. È una verità, per certi versi.
Quando nasce il tuo interesse verso il mondo del giornalismo?
Non saprei… è un interesse nato per caso. Ho iniziato a fare questo mestiere per caso e, sempre per caso, ho iniziato ad appassionarmi agli approfondimenti. Qualsiasi tipo di approfondimenti. Sono sempre stato una persona molto curiosa, mi sono sempre fatto molte domande. A forza di farmi queste domande, ho dovuto trovare anche il modo di darmi delle risposte, ecco forse come nasce il mio interesse verso il mondo del giornalismo.
L’inchiesta a cui sei maggiormente legato?
La primissima. Quella fatta tra il 1999 e il 2000 per l’Espresso dove andavo a indagare sul collegamento tra la morte di Francesco Narducci, il medico trovato morto nel lago Trasimeno, e i delitti del Mostro di Firenze. È un’inchiesta a cui ho lavorato un mese. All’epoca non c’erano i telefonini e ricordo che girai per le campagne toscane per venti giorni con una foto segnaletica di questo medico, che era morto agli inizi degli anni Ottanta, andando casa per casa per verificare alcune notizie. Mi avevano detto che lui aveva un’abitazione da quelle parti. Adesso non ricordo più come sia andata a finire, ma ricordo che riuscii a ricostruire tutti i rapporti e le relazioni che questo medico aveva in quella determinata zona fiorentina. Ne nacque un’indagine fatta dalla procura di Firenze insieme a quella di Perugia, vennero anche arrestate delle persone.
Corsi come quello della Newsroom Academy che ti vedrà ospite hanno la capacità di indirizzare chi voglia avvicinarsi alla professione giornalistica verso una strada giusta o almeno quella di accendere il sacro fuoco della curiosità?
Si, la differenza è sempre quella: il sacro fuoco. Chi pensa di voler fare il giornalista perché lo ritiene un lavoro come un altro, a mio avviso è meglio che cambi idea, che si cerchi una professione diversa. Quello del giornalista – in particolare del giornalista d’inchiesta – non è un lavoro normale. Non ha orari, non ha regole, non ha giorni fissi. Non richiede nulla di specifico salvo un interesse personale, il sacro fuoco, appunto. Una volontà e una curiosità profonda. Sconsiglio vivamente di farlo a chi non è mosso da una volontà ferrea. In questo mestiere serve l’interesse, serve la curiosità, la voglia di raccontare, di scrivere, di instaurare rapporti personali con chiunque, di parlare con le persone. Ma tutto questo deve venire naturale, non può nascere da costrizione.
Cioè non si può insegnare?
È un mestiere che s’impara facendo. Un po’ come fare i falegnami. Certamente è utile avere qualcuno che ti dia un esempio, che ti indirizzi, ma poi sta alla volontà del singolo. Gli errori e le insidie sono tantissime. Noi giornalisti abbiamo un enorme potere, che è quello di distruggere la vita alle persone solo ed esclusivamente con una frase sul giornale, quindi bisogna sempre fare molta attenzione. E per fare molta attenzione bisogna studiare, imparare, conoscere. E questo s’impara con la pratica. Ma i sacrifici sono tanti. Questi sacrifici si sopportano solo se c’è una passione di base. Se non c’è passione, diventa una vita insostenibile.
Parla Giannuli: “Vi racconto i misteri d’Italia”. Gianluca Zanella l'11 agosto 2022 su Inside Over.
La storia d’Italia – come quella di ogni altro Paese – è fatta di luci ed ombre. Più ombre, a dire il vero. E a saperlo bene, perché in quelle ombre si è mosso con il piglio dell’investigatore e la sapienza dello studioso di razza, è sicuramente il professor Aldo Giannuli, docente universitario, storico e analista, nonché consulente per molte Procure in alcuni dei casi più torbidi della nostra storia repubblicana. Nel corso della sua trentennale carriera, Giannuli ha avuto il merito di compiere importanti scoperte, scavando in archivi il cui accesso non sempre è facile, dove muoversi dà l’idea di essersi perduti in un labirinto di minoica memoria. Importanti scoperte che hanno permesso non solo alla giustizia di fare grandi passi avanti, ma che hanno fornito il materiale fumante su cui decine e decine di giornalisti d’inchiesta hanno plasmato le loro storie. Sua, tanto per dirne una, è la scoperta dell’ “Anello”, o “Noto servizio”, un servizio segreto parallelo la cui attività emerge in controluce in numerosi fatti di cronaca (e di sangue) più o meno recenti. Sua è anche la scoperta dell’archivio segreto di via Appia, a Roma, dove Silvano Russomanno, braccio destro di Federico Umberto d’Amato, il ras dell’Ufficio Affari Riservati del Viminale, conservava la documentazione relativa alla sua attività e a quella del suo ufficio. Insomma, Aldo Giannuli l’indole del segugio ce l’ha nel sangue e proprio per questo sarà lui, insieme al giornalista Marcello Altamura, ad aprire il corso di giornalismo d’inchiesta della Newsroom Academy di InsideOver, il 15 ottobre. Per l’occasione, gli abbiamo fatto qualche domanda.
Quali sono i casi di cronaca che hanno innescato le più grandi inchieste italiane?
Quante ore ho a disposizione? In primo luogo io indicherei i grandi processi di mafia degli anni Quaranta, quando iniziano le istruttorie di alcune stragi (nel caso di Portella della Ginestra si va a giudizio negli anni Cinquanta), poi ci sarà il seguito dell’istruttoria sul caso Pisciotta (Gaspare Pisciotta, presunto killer di Salvatore Giuliano, morto avvelenato nel carcere dell’Ucciardone nel 1954, ndr). E altri casi minori. Parliamo sempre di stragi, non di cose leggere. Poi ci sono stati alcuni processi di corruzione che sono stati importanti alla fine degli anni Cinquanta. Tipo il caso il caso Giuffrè, che segna già un passaggio, perché si passa dalla corruzione sporadica a quella frequente, insistente (Giovanni Battista Giuffrè, al centro di uno scandalo sull’utilizzo di fondi che sarebbero serviti alla ricostruzione dei beni ecclesiastici danneggiati nel corso della Seconda guerra mondiale, ndr).
D’accordo, ma nell’immaginario collettivo queste sono storie che appartengono a un passato percepito ormai come lontano. Quali sono, al contrario, i casi (e le inchieste) che ancora oggi fanno tremare i polsi a qualcuno?
Beh, ci sono ovviamente i grandi processi di strage: Piazza Fontana, Brescia, che appunto avranno uno sviluppo fino ai giorni nostri. Processi ripetuti, ecc… Di questo gruppo fa parte anche Bologna.
Su Bologna ci torniamo. Altri grandi casi?
Ripeto: quante ore ho a disposizione? Vediamo: negli anni Settanta abbiamo enormi scandali come quello del Petroli e di Italcasse. Su entrambi lavorò il giornalista Carmine “Mino” Pecorelli, che dalle pagine del suo Op (Osservatorio politico, ndr) non si limitava a fare inchiesta ma anche a lanciare messaggi. C’è poi il grande processo sulla P2, che ha fornito un’infinità di materiale ai giornalisti dell’epoca e, perché no, anche a quelli di oggi. Per non parlare del caso Moro.
Venendo proprio ai giornalisti, in questo calderone dove troviamo di tutto: delitti eccellenti, stragi, servizi segreti, massoneria, mafia e altre amenità, che ruolo ha avuto il giornalismo d’inchiesta?
Dipende. Dipende dai momenti. Per la verità il giornalismo d’inchiesta in Italia si è sempre ridotto a iniziative individuali, per esempio sul caso Pisciotta l’inchiesta che fece l’Europeo fu fondamentale; sui casi di scandali degli anni Cinquanta, fine anni Sessanta, ha avuto un ruolo importante l’Espresso. Sui casi di strage è stata per lo più la contro-informazione ad avere un ruolo molto importante. Mani Pulite è una cosa diversa: in quel caso il giornalismo va al carro di quello che fa la magistratura, negli altri casi tu hai un giornalismo d’inchiesta che sopravanza e spesso stimola le inchieste della magistratura. Su Mani Pulite è un po’ il contrario.
Ci vedi l’inizio di una degenerazione della professione?
Non dico che inizia una degenerazione, ma dico che le iniziative della magistratura condizionano il giornalismo, che si limita a riferire. A fare da megafono.
Nella tua attività di consulente per le Procure, qual è stato il caso dove pensi di aver profuso le principali energie?
Il caso su cui ho lavorato di più è stato sicuramente Brescia (strage di Piazza della Loggia, ndr). Per questa strage ho fatto una cosa come 51 o 52 relazioni. Però per me è stata molto importante anche l’inchiesta del magistrato Guido Salvini, che è la premessa nel processo su Piazza Fontana. Lì sono stato suo consulente. Ultimamente, poi, ho avuto Bologna (la strage della stazione del 2 agosto 1980, ndr) come caso importante.
Dov’è che hai trovato più il torbido? Qual è stato, secondo il tuo punto di vista, il periodo più nero per la storia d’Italia?
Dobbiamo fare la “torbid parade”? Beh, quando si inizia a scavare in un archivio è come immergersi in un abisso oceanico: non sai mai quale mostro marino possa sbucare fuori dal buio. Comunque, se devo dire dov’è che ho trovato il torbido, è nella corruzione. Si è passati dalla corruzione sporadica a quella frequente. Poi a quella diffusa, a quella generalizzata e a quella sistemica, che in parte è rientrata, ma forse ha solo cambiato fisionomia dopo la fine della Prima Repubblica. Nel corso della Prima Repubblica, appunto, lo scandalo tipico era quello delle grandi opere pubbliche, dopo invece hai avuto per lo più una forte insistenza di casi di scandali finanziari. Quindi anche di coinvolgimento delle istituzioni in giochi di questo genere.
Nella corruzione vedi il male endemico dell’Italia?
Si, quello permanente. In qualche modo si tratta di una parabola che fino a un certo punto ha avuto un crescendo, poi si è arrestata ed è un po’ cambiata, ma in realtà mai vinta.
Gli archivi più ostici con cui hai avuto a che fare, le maggiori resistenze, se ne hai trovate?
Ci sono delle resistenze proprio istituzionali, perché ci sono archivi dove c’è il segreto Nato e non vale la normativa italiana.
Su quali?
Alcune segreterie. Le segreterie di Sicurezza, quelle dei rapporti con la Nato, lì non ci puoi entrare. Ci sono alcuni archivi dove proprio istituzionalmente non puoi avvicinarti. Per esempio quello della Corte Costituzionale, che non ha un grande interesse. Però c’è per esempio quello della Presidenza della Repubblica: lì ci fu una procura, quella di Roma, che non è che chiese di entrare, chiese “se noi vi chiedessimo di vedere il registro dei visitatori del presidente della Repubblica” – dovevano vedere quante volte fosse andato Licio Gelli – “voi cosa ci rispondereste?” quindi una pre-domanda. La risposta fu praticamente “che c’avete le pigne in testa”. Il discorso finì lì.
Che presidente c’era all’epoca?
Non è questione di quale presidente ci fosse. Si trattava di un arco di anni che abbracciava tutti gli anni Settanta. E questo, cioè la pre-richiesta della Procura di Roma, accade negli anni Duemila. Poi c’è l’archivio dei carabinieri che ti sfugge tra le mani come un’anguilla; vai al comando generale e ti dicono: “sì, ma questo è un archivio amministrativo, per la direzione informativa dovete vedere a livello di Legione o Regione”. Vai a livello di Regione e ti dicono: “No, ma qui devi vedere a livello di compagnia”, vai a livello di compagnia e ti dicono “vai a vedere le stazioni”. E tu dovresti andarti a vedere qualcosa come 7mila stazioni d’Italia. Quindi in realtà c’è sempre qualcosa che sfugge tra le mani. Buona l’accoglienza nell’archivio della Finanza; discreto quello del ministero degli Interni; già molto più corazzato quello del Servizio segreto militare.
La strage alla stazione di Bologna. Arriveremo mai a una verità indiscutibile?
Intanto ci sono alcune condanne, quindi un po’ alla volta, a livello di esecutori, alla verità ci siamo arrivati. Il problema è che 40 anni dopo cosa vai cercando? È ovvio che più di qualche attuale settantenne, che all’epoca era venticinque/trentenne, cosa vuoi trovare? E infatti l’inchiesta di Bologna ha lambito, con prove documentali, figure come Federico Umberto d’Amato e Gelli, ma che te ne fai? Sono morti tutti e due e da un bel po’.
Però non possiamo ignorare che, al di là della verità di cui parli, ci sono studiosi, giornalisti, scienziati che mettono in discussione gran parte della ricostruzione giudiziaria, puntando il dito verso la cosiddetta “pista internazionale”, che vorrebbe la strage compiuta non dai neofascisti ma, sintetizzando al massimo, dai palestinesi o comunque da un gruppo di persone legate al terrorista internazionale Carlos Ramirez Sanchez, “lo sciacallo”. Al di là di posizioni ideologiche, tu cosa ne pensi?
Quella è una cosa che non sta in piedi. Anche se bisogna dire che i pasticci sono stati molti, anche perché c’è stata manipolazione dei corpi di reato. Certo, dobbiamo vedere se la Cassazione conferma le sentenze cui si è arrivati, ma quello può essere l’ultimo atto. Dopodiché anche a trovarlo un altro iniziato – e forse può venir fuori – comunque si tratterebbe di una figura di secondo piano e, in ogni caso, meno di 65 anni non li avrebbe. Come pretendi dopo mezzo secolo di trovare un testimone che ti dica “sì sì, io il signore me lo ricordo, era all’angolo della tabaccheria e aveva una borsa marrone”. Se te lo dicesse tu dubiteresti sul fatto che sia una deposizione vera?
Dunque bolli come inattendibile sotto ogni punto di vista la pista internazionale? Questo è un terreno scivoloso, saranno in molti a non essere d’accordo.
Assolutamente sì, confermo quello che ho già detto: non sta in piedi da nessuna parte, non è stato mai prodotto nulla di credibile a sostegno. Ogni volta che si è tentato di rilanciare la cosa, è franata miseramente.
Attendiamo su questo le repliche che sicuramente ci saranno e a cui daremo volentieri spazio, ma adesso avviamoci a conclusione: ritieni che corsi come quello di cui sarai ospite possano essere utili a indirizzare le persone verso la professione giornalistica?
Sì, a condizione che si capisca che quella del giornalista è una professione che sta cambiando. I giornali e i mass media più importanti stanno facendo finta di non capire che l’urto forte che è venuto dal web e in particolare da YouTube sta cambiando il mondo della comunicazione. E infatti si comincia a parlare proprio di “comunicazione” al posto di “informazione”.
E non credi che parlando di comunicazione anziché di informazione si rischi una degenerazione o comunque un appiattimento della professione?
Il rischio c’è, certo. Ma il rischio c’è anche se non ti evolvi!
Il giornalismo d’inchiesta secondo Peter Gomez, ospite della Newsroom Academy. Gianluca Zanella su Inside Over il 3 Agosto 2022.
Il 15 ottobre comincia il corso di giornalismo d’inchiesta della Newsroom Academy di InsideOver. Sette appuntamenti presso la sede de IlGiornale.it, iscrizioni aperte già da ora e un limite di 20 iscritti. Un’occasione unica per apprendere le tecniche, conoscere gli strumenti, imparare a muovere i primi passi in un settore dell’informazione affascinante e, perché no, avventuroso. Tanti gli ospiti in calendario. Quello della giornata conclusiva – il 26 novembre – è Peter Gomez, che dopo aver mosso i suoi primi passi proprio a IlGiornale di Indro Montanelli ha avuto una carriera che l’ha portato a essere prima co-fondatore de Il Fatto quotidiano e poi direttore del Fattoquotidiano.it. Abbiamo avuto il piacere di scambiare con lui qualche parola. Ne è uscita un’intervista interessante sotto diversi punti di vista, che non fa che accendere ancora di più la curiosità per quello che condividerà nel corso dell’appuntamento di fine novembre.
Peter, cos’è il giornalismo d’inchiesta? O meglio, quand’è che un giornalista può essere definito un giornalista d’inchiesta?
Il giornalista può essere definito d’inchiesta quando va al di là delle notizie che vengono recuperate dalle fonti ufficiali. Un esempio: arrestano qualcuno, c’è un’ordinanza, se tu ne pubblichi il contenuto fai il cronista giudiziario. Ma se all’interno di quell’ordinanza ci sono dei nomi, delle storie e tu poi le sviluppi per conto tuo parlando con delle persone, facendo delle visure camerali, approfondendo delle piste alternative, ecco, allora diventi un giornalista d’inchiesta. Oppure quando, partendo da qualsiasi altro tipo di notizia, la approfondisci con tutti i mezzi che hai a disposizione. È qualcosa che va al di là della notizia secca che ci offre la cronaca tutti i giorni, è la ricerca che parte da una notizia per arrivare a una storia più grande.
In Italia siamo nelle condizioni di poter fare giornalismo d’inchiesta? Qual è lo stato di salute generale del giornalismo?
Lo stato di salute del giornalismo è cattivo. Ma non parlerò delle questioni politiche, di chi sono gli editori, ecc. Il vero punto è che oggi il giornalista è povero. L’inchiesta ha due caratteristiche: 1) non sai se ti porterà a un risultato; 2) non sai a quale risultato ti porterà. Paradossalmente potresti iniziare a lavorare su un’inchiesta che ti porta sul tuo editore, conosco colleghi a cui è successo. Per un giornale, dal punto di vista economico, l’inchiesta è un problema. Perché tu fai lavorare tanti giorni una persona su una storia e non sempre la storia arriverà a casa. Ed essendo le redazioni povere di persone, povere di soldi, spesso non se lo possono permettere. Tant’è vero che il giornalismo d’inchiesta lo fanno sempre più spesso i freelance. Ma i freelance hanno un problema: anche loro vengono pagati generalmente poco. È dura fare il freelance in Italia e per fare un’inchiesta c’è bisogno di soldi, perché magari devi comprare dei biglietti aerei, devi sostenere spese per portare la gente fuori a cena, spostarti, e se l’inchiesta è su scala nazionale, le spese vive aumentano e questo è un problema.
Corsi come quello dell’Academy di InsideOver o altre iniziative simili sono in grado di fornire gli strumenti o svegliare il sacro fuoco nascosto in chi si iscrive?
Si, secondo me si. Tutti i giornalisti di inchiesta hanno elaborato un proprio metodo. Il metodo può essere suggerito, tante cose possono essere spiegate, per esempio le ricerche d’archivio, quali fonti sollecitare, dal punto di vista tecnico si possono fare tante cose e si possono spiegare anche le cose che non vanno fatte. Se posso citare un episodio che riguarda un fatto molto recente e che mi ha fatto molto arrabbiare: i rapporti dei servizi segreti, in genere, non possono essere utilizzati dai giornalisti. Non perché sia vietato, ma perché i rapporti dei servizi segreti, per chi li ha visti, sono semplicemente delle veline, dei pezzi di carta. Su quel rapporto se c’è scritto che tu che mi stai intervistando sei un noto trafficante d’armi, se io dico che i servizi segreti dicono che tu sei un noto trafficante d’armi, tu mi porti in tribunale e io non avrò che un pezzettino di carta con nessun potere legale, senza un timbro, nulla, praticamente una lettera anonima, e tu vincerai la causa.
Ti riferisci alla notizia lanciata da La Stampa riguardo i possibili rapporti tra la Lega e la Russia?
Anche. Quella notizia poteva certamente essere pubblicata, l’aveva fatto precedentemente La Verità con altre modalità, tralasciando il fatto che è buona creanza tra colleghi, quando la notizia è importante, citarsi. Insomma, siamo tutti giornalisti. Ma al di là di questo, se tu hai mano una velina che ti racconta fatti del genere, quello che mi aspetto da un giornalista è che faccia delle telefonate. Il giornalista, in questo caso, ha chiamato l’ambasciata russa? Ha fatto altre cose che andavano fatte? Non è che siamo dei semplici passacarte. Possiamo esserlo nel momento in cui le carte sono ufficiali: arriva un’ordinanza di custodia cautelare, meglio che ci lavoriamo, ma se pubblichiamo quello che ci sta scritto dentro abbiamo fatto cronaca giudiziaria. Il resto è molto scivoloso. Molto. Mi ricordo che molti anni fa mi ritrovai in mano – perché me li diede un direttore de l’Espresso – dei rapporti dei servizi segreti sulla situazione in Albania. E scrivevano peste e corna del governo allora in carica, parliamo di più di vent’anni fa. Dicevano che il tale ministro trafficava droga, che l’altro aveva a che fare con i contrabbandieri, ecc. Io andai dal mio direttore dicendo “noi questa cosa non la possiamo pubblicare così”. Io avevo in mano dei pezzi di carta che magari erano anche giusti, perché non dubito dei nostri servizi segreti, ma noi dopo quando il ministro albanese tal dei tali ci querela cosa facciamo?
Nel giornalismo d’inchiesta c’è sempre il pericolo che la cosiddetta fonte non dia nulla per nulla, che ci sia sempre un interesse dietro. Come fa il giornalista d’inchiesta a discernere quando si tratta di un gesto di pura generosità e quando c’è dietro un “non detto” che può strumentalizzare il suo lavoro?
Il gesto di pura generosità non esiste. O quasi. Anche quando i carabinieri o la polizia fanno una conferenza stampa, lo fanno non solo per informare, ma per dimostrare che sono stati bravi, che hanno arrestato i ladri, gli spacciatori, ecc. Quando qualcuno ti da una notizia, c’è sempre un interesse dietro. Noi possiamo fare due cose: la prima è verificare che la notizia sia vera. Noi siamo come un Juke box, se la notizia è vera e ha interesse pubblico la diamo. La seconda cosa, se c’è invece un interesse losco dietro, del tipo che io do una notizia sul mio avversario politico perché lo voglio danneggiare politicamente, il giornalista d’inchiesta dovrebbe accendere un faro e al momento giusto (il giornalismo d’inchiesta è come il maiale, non si butta via niente) quel tipo di informazione – ricordarti come ti è arrivata la notizia, in quale momento, ecc. – magari può essere utilizzata in un altro articolo. Ma di base quello che possiamo fare è verificare che le notizie siano vere o meno. Perché l’interesse di qualcuno c’è sempre. E poi succedono delle questioni particolari: magari tu diventi amico di una fonte e anche la fonte ti considera suo amico. Insomma, si instaura un rapporto sincero. Magari ti dirà delle cose chiedendoti di non scriverle, e qui inizia il dramma del giornalista: rovinarti l’amicizia e la fonte dando la notizia o mantenere l’amicizia e non dare la notizia? Qui decide la sensibilità di ciascuno di noi.
Quando hai deciso di fare il giornalista?
Mio padre e mio nonno erano grandissimi lettori di giornali. Lavoravano entrambi in pubblicità. Mio nonno era un grande amico di Montanelli e faceva il pr internazionale. Quindi avevamo la casa sempre piena di giornali. Poi avevo una prozia che aveva lavorato a Radio Londra e che è stata una grande scrittrice storica. Insomma, noi i giornali, la carta stampata, i libri ce l’avevamo nel sangue. Io però non pensavo di fare il giornalista, ma durante il primo anno di università, Giurisprudenza, avevo una fidanzatina, mia compagna di corso. A un certo punto vado negli Stati Uniti un paio di mesi, una vacanza lunga, e le scrivo delle lettere. Quando torno lei mi dice “tu che mi scrivi delle lettere così belle – lettere d’amore – ma perché non fai il giornalista?”. Io risposi qualcosa tipo “boh”. Lei mi disse che vicino casa sua avevano aperto una scuola di giornalismo, era una delle prime in Italia. Io faccio l’esame di ammissione, che era una prova scritta, e arrivo primo su circa duecento persone. L’esame orale era una formalità. All’epoca era molto facile, non era come adesso. Metà della scuola, dopo il primo stage del primo anno, ha trovato posto in un giornale. I giornali erano in ascesa, avevano bisogno di giornalisti. I freelance erano pochi, dopo uno o due anni era sicuro che trovavano lavoro in un giornale. Dovevi essere proprio cretino per non riuscire a fare il giornalista. Adesso è molto diverso.
Qual è l’inchiesta a cui sei maggiormente legato?
Non so se si tratta dell’inchiesta a cui sono maggiormente legato, ma è una delle prime che ho fatto e l’ho fatta proprio mentre lavoravo a Il Giornale. Credo addirittura negli anni Ottanta. Succede che tramite un collega arriva la notizia che era stato trovato all’interno di un albergo un signore morto di overdose da eroina con il buco nel braccio ma senza la siringa. Quindi non poteva essersela procurata da solo. Da lì parte un lavoro fatto da me e dalla redazione e scopriamo che questo signore era iscritto a un club che si chiamava “Club della dolce morte”, un antesignano delle associazioni pro-fine vita, pro eutanasia. Allora c’era a Milano un’amministrazione socialista che affittava a questa associazione uno spazio dalle parti della Galleria a pochissimi soldi. Io a un certo punto prendo una delle due macchine che erano nella disposizione de Il Giornale e vado a parlare con il presidente di questa associazione, che viveva in una villa poco fuori Firenze. Questo presidente era un medico molto anziano. Entro in casa sua e lo trovo al telefono che dice a una tizia: “Signora, le avevo detto che trenta pastiglie non bastano”. Capisco che sta parlando con un’aspirante suicida. Riesco a farmela passare e faccio l’intervista all’aspirante suicida che non era riuscita nel suo intento. Questa è stata fortuna, che in un’inchiesta è elemento fondamentale. Essere al posto giusto nel momento giusto. A quel punto scrivo la storia, sia della donna aspirante suicida, sia del medico, che poi finiscono sotto processo, e io vengo sentito come testimone. Ecco, non è l’inchiesta più importante che ho fatto, però ci sono tutto gli elementi. Partito da una notizia l’ho sviluppata, poi si è aggiunta la fortuna e infine ho portato a casa il risultato.
Nellie Bly moriva 100 anni fa, chi era la prima giornalista d’inchiesta della storia. Chiara Barison su Il Corriere della Sera 26 gennaio 2022.
Dagli inizi al Pittsburgh Dispatch, passando per la prima guerra mondiale, fino al giro del mondo in 72 giorni.
«Non ho mai scritto una parola che non venisse dal mio cuore. Non lo farò mai». Cuore, ma anche testa. È così che Nellie Bly è diventata la prima giornalista d’inchiesta della storia. Scomparsa il 27 gennaio di 100 anni fa, nasce in un'epoca in cui la considerazione che la società ha delle donne non oltrepassa i contorni del ruolo di angelo del focolare. È proprio la sua indignazione per un editoriale di Erasmus Wilson, pubblicato nel 1885 sul Pittsburgh Dispatch e intitolato "What girls are good for?" in cui si dice che «le donne appartengono alla sfera domestica e il loro compito è cucire, cucinare e crescere i bambini: quelle che lavoravano sono una mostruosità», che le permetterà di diventare ciò per cui ancora oggi la ricordiamo. L'articolo è la risposta alla lettera di un padre che – definendosi «ansioso» a causa delle cinque figlie adulte ma ancora nubili – si rivolge al giornale per avere consigli sul da farsi. Le parole di Wilson suscitano lo sdegno di molte donne, ma è la lettera firmata da «una ragazza sola e orfana» ad attirare l’attenzione del direttore del quotidiano George Madden. Entra così a far parte della redazione. Ma chi era Nellie Bly?
Come una canzone
Nellie Bly è in realtà la protagonista di una canzone del 1850 scritta da Stephen Foster, che Elizabeth Cochrane sceglie come pseudonimo per firmare i suoi articoli. Il padre, un mugnaio diventato ricco grazie alla proprietà di alcuni terreni, muore improvvisamente quando Elizabeth ha solo 6 anni. La madre decide di trasferirsi a Pittsburgh, dove sposa un uomo violento con problemi di alcolismo e dal quale divorzia dopo essersi rivolta al tribunale accusandolo degli abusi subiti. Nellie nel frattempo studia per diventare maestra – una delle poche professioni aperte alle donne – ma è poco convinta. Ma quando si presenta l'occasione di entrare a far parte della redazione del Pittsburgh Dispatch la coglie senza pensarci due volte.
Dalla parte delle donne
Il filo rosso che unisce tutti i suoi articoli è un'attenzione spasmodica per le discriminazioni a danno del sesso femminile. Denuncia le condizioni di lavoro che sono costrette ad accettare le donne e mette in luce le storture del lavoro minorile, all'epoca legale anche in tutto l'Occidente. Dà voce alle donne quando lo Stato della Pennsylvania vuole ridurre ulteriormente le possibilità di ricorrere al divorzio. Scava così tanto da diventare un personaggio scomodo: le minacce dei finanziatori del giornale di tagliare i fondi, fanno sì che per un periodo Bly si dedichi alle pagine di moda e giardinaggio, almeno fino a quando non convince Madden a sceglierla come corrispondente dal Messico. Anche nel Paese che confina con gli Stati Uniti però inizia a ficcare il naso dove non dovrebbe, raccontando la storie di povertà e corruzione. Dopo sei mesi la sua attività giornalistica le costa l'espulsione. Una volta tornata a Pittsburgh, siccome viene riassegnata alle pagine di costume, decide di partire per New York.
Dieci giorni in manicomio
Arrivata nella Grande Mela, si rivolge a Joseph Pulitzer per farsi assumere nel giornale da lui diretto, il celebre New York World. «Sono lieta di poter affermare che la Città di New York ha stanziato una fondo annuo di più di 1 milione di dollari per la cura dei malati. Ho così la soddisfazione di sapere che i poveri infelici avranno cure migliori grazie al mio lavoro». Bly commenta così gli effetti provocati dal suo articolo sulle condizioni in cui versano le pazienti del manicomio femminile Blackwell’s Island. Inscenando uno squilibrio mentale, si fa ricoverare per dieci giorni documentando le condizioni disumane in cui si vive all'interno: cibo andato male e violenze sono all'ordine del giorno, così come il ricovero di persone perfettamente sane di cui i familiari si vogliono sbarazzare. Si interessa poi alle carcerate, alle operaie e alle domestiche, guadagnandosi il titolo di "Migliore reporter d'America".
Il giro del mondo
Nel 1889 convince Pulitzer a finanziarle il giro del mondo dando vita a un'esperienza senza precedenti nel mondo del giornalismo. Per 72 giorni il quotidiano pubblica un suo articolo, oltre a dare vita a una lotteria per coinvolgere i lettori a indovinare quando la giornalista sarebbe tornata a New York. Cinque anni dopo l'impresa da record, sposa l'industriale Robert Livingston Seaman e mette da parte il giornalismo fino allo scoppio della prima guerra mondiale. Rimasta vedova, dopo essersi occupata per un breve periodo degli affari del marito, torna a scrivere diventando la prima donna a documentare gli orrori del fronte austriaco. Muore a 57 anni - il 27 gennaio 1922 a New York - a causa di una polmonite.
Giornalisti di tutto il mondo, per favore, non unitevi! Gian Paolo Caprettini – semiologo, critico televisivo, accademico su L'Indipendente il 3 novembre 2022.
Seguo inevitabilmente i quotidiani del mainstream. Mi piace informarmi, c’è stato anche un periodo in cui compravo Il manifesto e La verità, applicando all’estremo la teoria che spiegavo in Università: “in medium stat virtus” (tradotto: La virtù sta nel mezzo). Un motto spesso sbagliato ma nel campo dell’informazione in quel caso quasi perfetto. Se qualcuno è curioso vada a cercare come titolavano La Stampa e L’ Unità ai tempi della guerra in Vietnam, su fronti opposti. In quel caso fare la media non portava da nessuna parte. Dovevi scegliere.
Ai nostri giorni c’è invece una specie di redazione condivisa, il partito unico del giornalismo. Tranne qualche eccezione, anche bella (ad esempio, la testata su cui scrivo), che conferma la regola.
La pandemia ha cambiato le carte in tavola e ha prodotto un generale martellamento, un logorio della paura e dell’allarme che ha condizionato irreparabilmente le coscienze e i sistemi nervosi.
Ora bisogna mantenere alta la guardia, ed evitare il rintronamento, l’oscuramento di qualsiasi visione oggettiva o critica, l’attività manipolatrice di castrazione.
Scovare altre fonti di potenziale contagio di nuovi virus, insistere sul fatto che il Covid non è finito, enfatizzare non le notizie davvero gravi ma i rischi e le tesi più nere: questo il compito di chi vuole il controllo, col sostegno dei media.
Ora tocca alla bomba atomica, l’Armageddon della informazione, non strillato però come ai vecchi tempi, ma fondato sul genere thriller.
Il grande Alfred Hitchcock sosteneva che al cinema bisognava spaventare le donne così gli uomini le abbracciavano. La suspense era il meccanismo di attrazione, sì perché l’attrazione muove la macchina del marketing e del dominio.
Oggi ho letto che si fanno previsioni percentuali sull’uso della atomica da parte della Russia. Siamo al 30 per cento.
La cocacolonizzazione dei consumi ha portato alla necessità di visione alterate, alle enfasi artificiose, agli automatismi nei consumi, all’oblio di qualsiasi visione spirituale, alla difficoltà nei rapporti interpersonali.
Il lavorio ideologico sui luoghi comuni ha fatto sì che tutti parlino di argomenti che non conoscono, che tutti abbiano una idea qualunquista di futuro. La verità è diventata un fatto statistico, l’effetto di sondaggi manipolati.
La vera democrazia ha invece bisogno di tesi opposte, di alternative, di visioni che provochino anche discussioni, contestazioni, facendo piazza pulita delle menate ipocrite degli schieramenti e delle retoriche da parte di chi perde le elezioni.
Il cielo comunque è sempre più blu, anche se le tempeste, i terremoti, gli tsunami, ci raccontano i grandi quotidiani, sono dietro l’angolo.
Sapete che cosa vi dico? Si fa davvero fatica ogni giorno a credere diversamente.
[di Gian Paolo Caprettini – semiologo, critico televisivo, accademico]
Giornata contro i crimini sui giornalisti: quei 30 italiani uccisi per aver raccontato la verità. Dai fotoreport uccisi nelle zone di guerra alle vittime di mafia e terrorismo rosso: dal dopoguerra a oggi sono morti 30 operatori dell'informazione solo in Italia. Rosa Scognamiglio il 2 Novembre 2022 su Il Giornale.
Tabella dei contenuti
La Giornata contro i crimini sui giornalisti
Giornalisti uccisi dalle mafie
I cronisti dell'Ora
Vittime delle Brigate Rosse
Reporter morti sul campo
Fotoreporter uccisi nelle zone di guerra
Il caso di Andy Rocchelli
Inviati e operatori di ripresa
Il mondo non è ancora un luogo sicuro per chi cerca la verità. Ce lo ricorda la Giornata mondiale contro i crimini sui giornalisti che si celebra oggi, 2 novembre, per la nona volta. Una commemorazione che quest’anno, con il conflitto armato tra Russia e Ucraina sul confine orientale dell’Europa, assume ancora più rilevanza. Basti pensare che nel 2022, nella sola città di Kiev, sono stati uccisi 32 reporter (lo ha reso noto il ministro ucraino della Cultura e della politica dell’informazione, Alexander Tkachenko, lo scorso 6 giugno tramite Telegram). Non solo. Secondo i dati diffusi dalla Federazione dei giornalisti (Ifj) durante il general meeting di Mascate (Oman), negli ultimi tre anni sono stati uccisi 203 operatori dell’informazione in tutto il mondo, con il Messico che si conferma il Paese più pericoloso al mondo in cui esercitare la professione: Article 19, l’organizzazione internazionale per "la libertà di parola e il diritto di essere informati", ha registrato 16 vittime da gennaio ad agosto 2022. È una scia di sangue inarrestabile.
La Giornata contro i crimini sui giornalisti
La prima edizione della Giornata mondiale contro i crimini sui giornalisti fu indetta dall’Unesco, nel 2013, in memoria di due giornalisti francesi uccisi in Mali, a novembre dello stesso anno. Secondo quanto riferì, al tempo, la Federazione Nazionale Stampa Italiana, i reporter di Rfi (Radio France Internationale), Ghislaine Dupont (giornalista di 51 anni) e Claude Verlon (cameraman di 55 anni), furono rapiti e poi uccisi da un commando di quattro uomini mentre si stavano recando a Kidal da Bamako, la capitale del Mali, per intervistare un portavoce del gruppo separatista Tuareg, promotore del Movimento nazionale per la liberazione di Azawad (Mnla). I corpi crivellati dei due reporter furono ritrovati a circa 12 chilometri da Kidal accanto a una macchina. Nel 2009, quattro giornalisti avevano perso la vita nel massacro di Maguindanao, nelle Filippine, tutt’oggi considerato "il più grave attacco mortale della storia" agli operatori dell’informazione. In Italia, dal Dopoguerra ad oggi, sono stati uccisi 30 giornalisti, dei quali 11 in agguati mafiosi e attentati terroristici. Vogliamo ricordarli tutti.
Giornalisti uccisi dalle mafie
Giuseppe Impastato
Nato a Cinisi (Palermo), Giuseppe Impastato fondò, quando aveva appena 17 anni, il giornalino L’idea Socialista su cui raccontava le lotte dei disoccupati, dei contadini e degli edili. Nel 1976, attraverso le frequenze di Radio Aut, denunciò i traffici illeciti dei mafiosi nella sua città natale e nella vicina Terrasini. Nel ‘78 si candidò alle elezioni comunali con la lista Democrazia Proletaria. Fu ucciso, all’età di 30 anni, nella notte tra l’8 e il 9 maggio del 1978. Il suo corpo, sopra una carica di tritolo, fu adagiato sui binari della ferrovia e fatto saltare in aria. Il 5 marzo del 2001, la Corte d’Assise di Palermo condannò per il delitto, di matrice mafiosa, il boss Gaetano Baldamenti e il vice Vito Palazzolo a 30 anni di reclusione.
Giancarlo Siani
Nato nel 1959 a Napoli, Giancarlo Siani era un giornalista pubblicista in attesa di assunzione che, purtroppo, arrivò solo dopo la sua morte. Sin da giovanissimo dimostrò di avere una spiccata inclinazione per il lavoro d’inchiesta collaborando con alcuni periodici partenopei. Si interessò di lavoro ed emarginazione ma soprattutto di camorra. Divenne corrispondente de Il Mattino presso la sede distaccata di Castellammare di Stabia. Il 10 giugno 1985 pubblicò un articolo in cui scrisse che l’arresto del boss Valentino Gionta era stato possibile per via di una “soffiata” che il clan dei Nuvoletta aveva fatto ai carabinieri. Fu la sua condanna a morte. Il 23 settembre dello stesso anno, all’età di 26 anni, fu ucciso sotto casa con dieci colpi di pistola alla testa. Il 15 aprile 1997, la Corte d’Assise di Napoli condannò all’ergastolo i tre mandanti dell’omicidio: i fratelli Lorenzo e Angela Nuvoletta, e Luigi Baccanti. La stessa pena fu comminata anche ai due esecutori materiali del delitto, Ciro Cappuccio e Armando del Core.
Mario Francese
Mario Francese era un giornalista di cronaca nera del quotidiano Il Giornale di Sicilia. Si occupò soprattutto delle mafie pubblicando per primo i nomi dei boss corleonesi che, verso la fine degli anni ‘70, scalarono le gerarchie di Cosa Nostra. Fu ucciso la sera 26 gennaio 1979 a colpi di pistola sotto la sua abitazione. Per circa 20 anni, la morte di Francese è rimasta impunita. Fino a quando il figlio Giuseppe riuscì a ottenere giustizia. Il processo ai responsabili, cominciato nel 2001, si concluse in Cassazione nel 2003. Per l’omicidio furono condannati a 30 anni di carcere Totò Riina, Leoluca Bagarella (lo sparatore), Raffaele Ganci, Francesco Madonia e Michele Greco. Al processo bis fu confermato l'ergastolo anche per Bernardo Provenzano.
Giuseppe Alfano
Detto "Beppe", Giuseppe Alfano era originario di Barcellona Pozzo di Gotto. Lavorò come giornalista pur non essendo iscritto all’Ordine (attribuzione che gli fu conferita dopo la morte). Insegnante di educazione tecnica e corrispondente del quotidiano catanese La Sicilia, si occupò di criminalità organizzata avviando un’indagine sul traffico internazionale di armi nella zona del Messinese. La notte del 3 gennaio 1993, fu freddato con tre colpi di pistola calibro 22 mentre era alla guida della sua auto, una Renault 9. Per il delitto fu condannato all’ergastolo il boss locale Giuseppe Gullotti.
Mauro Rostagno
Nato e cresciuto a Torino nel 1942, Mauro Rostagno visse tra l’Italia, la Germania e la Francia. Sociologo, giornalista, si trasferì in India per qualche tempo. Tornato in Italia, nel 1981, fondò a Trapani una comunità per il recupero di tossicodipendenti. Nel frattempo cominciò a denunciare gli intrighi tra la mafia e le amministrazioni locali attraverso le frequenze dell’emittente Radio Tele Cine. Fu ucciso nel 1988 in un agguato mafioso a Contrada Lenzi, all’interno della sua vettura. A 32 anni dalla sua uccisione, nel novembre del 2020, la Corte d’Assise d’Appello di Palermo confermò l’ergastolo per il boss Vincenzo Virga.
Giuseppe Fava
Classe 1925, Giuseppe Fava diventò un giornalista professionista nel 1952 dopo aver conseguito la laurea in Giurisprudenza. Realizzò numerose inchieste giornalistiche collaborando con importanti testate nazionali, tra cui Espresso Sera. Durante la sua carriera maturò una vocazione artistica per la pittura e la letteratura. Vinse due premi letterari: il primo con il romanzo "Cronaca di un uomo"; il secondo con "La violenza". Nel 1980 assunse la direzione del Giornale del Sud, a Catania. La sera del 5 gennaio 1984 fu freddato con 5 colpi di pistola alla nuca mentre stava andando a prendere la nipote al teatro Stabile. Nel 2003, la Cassazione condannò all’ergastolo il boss Nitto Santapaola.
I cronisti dell'Ora
Giovanni Spampinato
Ragusano, classe 1946, Giovanni Spamipinato fu un cronista di spicco dell’edizione palermitana del quotidiano “L’Ora” realizzando numerose inchieste. Nel febbraio del 1972 si occupò dell’assassinio del costruttore Angelo Tumino, avvenuto a Ragusa, finendo così sulle tracce di Roberto Campria, collezionista d’armi nonché figlio dell’allora presidente del tribunale locale. Un intreccio di storie e affari loschi che segnò la condanna a morte di Spampinato. La sera del 27 ottobre del 1972, Campria uccise il giornalista a colpi di revolver. Al processo, l’imputato ammise le proprie responsabilità sostenendo che la vittima lo avesse diffamato in alcuni articoli. Fu condannato a 14 anni di reclusione ma ne scontò solo 8.
Mauro De Mauro
Nato a Foggia nel 1921, Mauro De Mauro era un vice questore di Polizia. Si dedicò al giornalismo a partire dalla fine degli anni ‘40 diventando un cronista d’eccellenza del quotidiano “L’Ora”. Si occupò della tragica morte del presidente Eni Enrico Mattei (avvenuta a Bascapè, 27 ottobre 1962), vicenda di cui tornò a interessarsi l’anno successivo su richiesta del regista Francesco Rosi (l’autore del film Il caso Mattei). La sera del 16 settembre 1970, svanì nel nulla mentre stava tornando a casa, in un quartiere residenziale di Palermo. La figlia di De Mauro, Franca, raccontò agli investigatori di aver visto il padre parlare con alcuni uomini poi, poco dopo, rimettersi alla guida della sua Bmw. L’auto fu ritrovata ma non il giornalista. Negli anni successivi, alcuni pentiti di mafia raccontarono che De Mauro fu ucciso per ordine di Cosa Nostra.
Cosimo Cristina
Anche la morte del giornalista Cosimo Cristina, corrispondente dell’Ora e dell’Ansa, resta un mistero. Giornalista pubblicista dal 1958, collaborò con Il Giorno, Corriere della Sera e Gazzettino di Venezia. Durante il periodo di attività realizzò alcune inchieste sui rapporti tra mafia e politica nella zona delle Madonie. La sera del 3 maggio 1960 uscì di casa e non vi fece più ritorno. Il cadavere venne ritrovato lungo la strada ferrata della linea Palermo Messina, due giorni dopo la denucia di scomparsa sporta dalla famiglia. Gli inquirenti dell’epoca archiviarono il caso come suicidio. Ma il vice questore di Palermo Angelo Mangano, indagando sulle mafie, fece riaprire il fascicolo ventilando l’ipotesi di omicidio. Una pista che, però, naufragò ben presto schiantandosi contro il muro dell’omertà.
Vittime delle Brigate Rosse
Carlo Casalegno
Carlo Casalegno, 60 anni, era il vicedirettore del quotidiano La Stampa. Il 16 novembre del 1977 fu assassinato in un agguato ordito dalla Brigate Rosse mentre stava rincasando: morì dopo 13 giorni di agonia. Nelle settimane precedenti all’attentato, aveva ricevuto una serie di minacce e una bomba al giornale, circostanza che lo aveva costretto a spostarsi con gli uomini della scorta assegnata ad Arrigo Levi, il direttore de La Stampa. Il giorno in cui fu ucciso, per via di alcuni impegni, aveva deciso di tornare a casa da solo. Una scelta che gli costò cara la pelle. Fu freddato con una Nagant 7,62 nell’androne del suo palazzo. A sparare fu Raffaele Fiore, esponente di spicco della colonna brigatista torinese. Con lui c’erano anche Piero Panciarelli, Patrizio Peci e Vincenzo Acella, anch’essi terroristi rossi. Nel 1983, l’omicidio di Casalegno venne inserito in un maxi processo contro le Brigate Rosse. Il 29 luglio dello stesso anno, Raffaele Fiore e Vincenzo Acella furono condannati al carcere a vita. Otto anni al pentito Patrizio Peci mentre Panciarelli era morto durante un’operazione dei carabinieri.
Walter Tobagi
Walter Tobagi cominciò la carriera da giornalista giovanissimo, lavorando come redattore della Zanzara, lo storico giornale del liceo "Parini" di Milano. Si distinse per le sue abilità di scrittura e, subito dopo il diploma, entrò a far parte della redazione del quotidiano "Avanti!". Da lì seguirono altre collaborazioni con quotidiani di rilievo nazionale tra cui il Corriere della Sera. Si interessò di temi sociali e politica ma soprattutto di vicende legate al terrorismo delle Brigate Rosse degli Anni di Piombo. Firmò la sua condanna a morte nella primavera del 1980, quando in diversi articoli iniziò a delineare la crisi del terrorismo rosso. "Non sono samurai invincibili", scrisse delle Br, una frase che suona come un testamento. Tobagi fu ucciso la mattina del 28 maggio del 1980 in un agguato pianificato dal gruppo “Brigata XVIII Marzo”. Ad aprire il fuoco furono Marco Barone, a capo dell’organizzazione, e Mario Marano, che spararono al giornalista in via Salaino a Milano. Aveva 33 anni. Nel 1983, nell’ambito del processo ai componenti del processo al collettivo rosso, Barone fu condannato a 8 anni e 9 mesi di reclusione (era diventato un collaboratore di giustizia) mentre Mario Marano incassò una pena di 20 anni e 4 mesi (poi ridotti a 12 in Appello).
Reporter morti sul campo
Almerigo Grilz
Nato a Trieste nel 1977, Almerigo Grilz è stato il primo giornalista italiano caduto sui campi di battaglia dalla fine della Seconda guerra mondiale. Elemento di spicco del Fronte della Gioventù, e vero punto di riferimento per il mondo culturale di destra italiano, abbandona la politica per occuparsi esclusivamente di gioranlismo come inviato di guerra - "freelance", come amava definirsi - in Afghanistan, Libano, Cambogia, Filippine e Angola. Nel 1983 fondò insieme ai colleghi Gian Micalessin e Fausto Biloslavo Albatros Press Agency, un’agenzia stampa che si occupa di fenomeni bellici nel panorama internazionale. Fu ucciso nel 1987 in Mozambico, colpito da un proiettile mentre stava immortalando con la videocamera gli scontri tra i miliziani del fronte Renamo e quelli del governo. A lui è stata intitolata una strada sul lungomare di Barcola (Trieste).
Maria Grazia Cutuli
Maria Grazia Cutuli fu una delle inviate di spicco del Corriere della Sera, riconoscimento che le venne attribuito dopo la sua morte. Dopo aver esordito come cronista al quotidiano La Sicilia, passò al settimanale regionale Sud collaborando con la rete televisiva Telecor International. Successivamente si trasferì a Milano dove frequentò la scuola di giornalismo. Cominciò a interessarsi di politica internazionale trasferendosi, per circa un anno, in Rwanda. Morì in Afghanistan all’età di 39 anni sulla strada che collega Jalabad a Kabul. Un gruppo di uomini armati bloccò l’auto su cui stava viaggiando Maria Grazia con altri quattro colleghi. I reporter furono dapprima fatti scendere dall’auto e poi uccisi con scariche di Kalashnikov.
Vittorio Arrigoni
Scrittore e blogger, Vittorio Arrigoni lasciò l’impiego nell’azienda di famiglia per dedicarsi alle missioni di cooperazione umanitaria tra i Paesi dell’Est Europa, Perù e Africa. Nel 2002 si trasferì nella striscia di Gaza. Cominciò a scrivere articoli da Gaza per Il Manifesto e altre testate. Ottenne la notorietà internazionale con il blog "Guerrilla Radio" su cui pubblicava i suoi reportage. Il 14 aprile 2011 fu sequestrato all’uscita di una palestra da un commando palestinese jihadista. Un video pubblicato su YouTube testimoniò che era stato bendato e legato. Fu ucciso il giorno successivo al rapimento, all’età di 36 anni. "Restiamo umani" è il motto che accompagna la sua produzione giornalistica.
Antonio Russo
Originario di Francavilla a Mare, Antonio Russo era un cronista freelance con una consolidata esperienza all’estero. Dal ‘95 si occupò della guerra in Kosovo lavorando come inviato per Radio Radicale dove rimase fino al 31 marzo del 1999. Fu ucciso in Georgia, nella notte tra il 15 e il 16 ottobre 2000. Il cadavere fu ritrovato sul ciglio di una strada di campagna a Tiblisi. Addosso i segni di atroci torture. Le attrezzature, i filmati e gli appunti che aveva con sé non furono mai ritrovati. Fu svaligiata anche la camera d’albergo in cui alloggiava. Le circostanze della morte non sono mai state chiarite.
Gabriel Grüner
Era un giornalista italiano (originario della provincia di Bolzano) di lingua tedesca. Sin da subito si affermò come inviato speciale di guerra collaborando con il settimanale tedesco Stern. Divenne esperto dei conflitti nei Balcani ma, durante la sua breve e intensa carriera, fece tappa anche in Algeria, Somalia, Sudan e Afghanistan. Morì all’età di 35 anni il 13 giugno del 1999. Fu ucciso a colpi d’arma da fuoco esplosi da un cecchino al check point di Passo di Dulje, nel Kosovo Occidentale.
Enzo Baldoni
Nato e cresciuto a Città di Castello (Perugia), Enzo Baldoni cominciò a lavorare come giornalista freelance a partire dal 1996 collaborando con Linus, Specchio della Stampa e Venerdì della Repubblica. Si trovava da circa due settimane in Iraq quando nel 2004 fu rapito da un’organizzazione fondamentalista islamica vicina ad Al Qaeda mentre si trovava a bordo di un convoglio umanitario diretto a Najaf. Fu ucciso dopo un ultimatum all’Italia affinché ritirasse le truppe entro 48 ore. La data e il luogo della brutale esecuzione a cui fu sottoposto restano tuttora incerte. Le sue spoglie furono riconsegnate alla famiglia nel 2010.
Marcello Palmisano
Marcello Palmisano era un operatore di ripresa Rai profondamente innamorato del suo lavoro. Aveva 55 anni quando, nel 1995, durante un servizio realizzato dal Mogadiscio per il Tg2 con la giornalista Carmen Lasorella, rimase coinvolto in una sparatoria tra la scorta di cui erano stati dotati i due reporter e un gruppo di uomini armati. Gli undici sparatori furono tutti identificati ma mai assicurati alla giustizia.
Guido Puletti
Nacque in Argentina da padre italiano e madre di origini anglo iberiche. Si trasferì in Italia dove, nel 1981, cominciò a collaborare con il quotidiano Brescia Oggi. Successivamente maturò un interesse per i nuovi assetti politici e sociali nell’Europa dell’Est. La guerra in Jugoslavia diventò centrale nella sua attività giornalistica. Morì in Bosnia, dove lavorava anche come volontario, all’età di 40 anni, il 29 maggio del 1993. Il convoglio su cui viaggiava fu assalito. Nell’agguato persero la vita anche uno studente di 21 anni, Sergio Lana, e l’imprenditore cremonese Fabio Moreni.
Fotoreporter uccisi nelle zone di guerra
Raffaele Ciriello
Raffaele Ascanio Ciriello nacque a Venosa il 2 agosto del 1952. Si laureò in Medicina ma poi si dedicò alla sua grande passione: la fotografia. Cominciò a lavorare come fotoreporter verso la fine degli anni ‘90 documentando il dramma della guerra in Somalia e in altre parti del mondo. Morì il 13 marzo 2002, freddato a colpi di mitra. Lasciò la moglie e la figlia di soli 18 mesi.
Fabio Polenghi
Originario di Monza, Fabio Polenghi morì all’età di 48 anni mentre stava lavorando a un reportage in Thailandia sul movimento antigovernativo delle "camice rosse". Il 19 maggio del 2010, si ritrovò nel mezzo di uno scontro sanguinoso tra l’esercito thailandese e i manifestanti. Nella mischia, fu colpito al petto da un proiettile che non gli lasciò scampo.
Simone Camilli
Simone Camilli nacque a Roma il 28 marzo 1979. Figlio di un giornalista Rai, conseguì la laurea in Scienze storico-religiose, presso la facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università La Sapienza di Roma. Durante gli studi accademici cominciò a collaborare come fotoreporter con varie testate tra cui Asia News e Associated Press (Ap). Si interessò di politica ma soprattutto di guerra e conflitti internazionali: dall’indipendenza del Kosovo (2008) alla Seconda guerra in Ossezia del Sud (2008). Morì il 13 agosto 2014 a Gaza. L’autopsia accertò che il 35enne morì per via delle ferite riportate a seguito dell’esplosione di un ordigno.
Il caso di Andy Rocchelli
Professione fotoreporter. Andrea Rocchelli (altrimenti noto come Andy) faceva parte del collettivo di fotografi "Cesura" di cui era stato egli stesso co-fondatore. Nato e cresciuto a Pavia, dopo la laurea specialistica al Politecnico di Milano, viaggiò moltissimo tra Africa, Russia ed Europa. Le sue foto furono acquisite da agenzie stampa di rilievo internazionale e poi pubblicate su testate di prestigio come Le Monde, The Wall Street Journal e Novaja Gazeta. Morì all’età di 30 anni, il 24 maggio 2014, nelle vicinanze della città di Sloviansk, in Ucraina Orientale, mentre stava filmando il dramma dei civili durante il conflitto in Donbass. Fu ucciso da una scarica di mortaio durante gli scontri tra l’esercito e la Guardia nazionale ucraina. Con lui perse la vita anche il giornalista Andrej Mironov (un giornalista russo iscritto al Partito Radicale) mentre un altro fotoreporter, il francese William Rougelon, rimase gravemente ferito.
Inviati e operatori di ripresa
Ilaria Alpi e Miran Hrovatin
Romana, classe 1961, Ilaria Alpi iniziò la sua carriera di giornalista come reporter dal Cairo per i quotidiani Paese Sera e L’Unità. Successivamente diventò una delle inviate di punta di Rai 3 documentando la guerra in Libano, Kuwait e Somalia. Fu uccisa assieme al cameraman Miran Hrovatin, fotografo e operatore di ripresa, in un agguato. Un duplice omicidio che si consumò il 20 marzo del 1994 a opera di un commando somalo. Al tempo, Ilaria Alpi si stava occupando di traffico internazionale d’armi e rifiuti tossici illegali. Dal 2015 è stato istituito un premio giornalistico che porta il suo nome, assegnato ogni anno alle migliori inchieste realizzate sui temi della solidarietà e della pace.
Marco Lucchetta, Dario D’Angelo e Alessandro Ota
Marco Lucchetta, classe 1952 di origini triestine, aveva ben chiaro che il dovere di un giornalista fosse quello di documentare la realtà. Dopo aver esordito come cronista sportivo, dalla fine degli anni ‘80 cominciò a occuparsi di cronaca entrando a far parte della Rai, nella sede regionale del Friuli-Venezia Giulia. Dal 1991 lavorò come inviato dalla Jugoslavia immortalando il dramma umano che si consumava durante il periodo della guerra. Nel 1994 partì per la Bosnia. Prima di rientrare a Trieste, a gennaio dello stesso anno, decise di fare tappa a Mostar Est per completare un lavoro di reportage che aveva cominciato tempo addietro. Morì durante un bombardamento. Nell’attentato persero la vita anche il tecnico di ripresa Dario D’Angelo e l’operatore Alessandro Ota.
Italo Toni e Graziella De Palo
I corpi di Italo Toni e Graziella De Palo non sono mai stati ritrovati. Entrambi svanirono in circostanze pressoché misteriose da Beirut, dove si erano recati per documentare le condizioni dei profughi e la situazione politico-militare in Libano. La mattina del 2 settembre 1980 uscirono dall’albergo in cui alloggiavano e non vi fecero più ritorno. Fu avviata un’inchiesta che, però, si concluse senza alcun esito.
· Se questi son giornalisti...
Antonio Giangrande: Se questi son giornalisti...
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In un mio saggio sulla mafia mi è sembrato opportuno integrare, quanto già ampiamente scritto sul tema, con una tesi-articolo pubblicato su "La Repubblica" da parte di un'autrice poco nota dal titolo "La Mafia Sconosciuta dei Basilischi". Dacchè mercoledì 16 gennaio 2019 mi arriva una e-mail di diffida di questo tenore: qualche giorno fa mi sono resa conto che senza nessuna tipologia di autorizzazione Lei ha fatto confluire il mio abstract pubblicato da la Repubblica ad agosto 2017, in un suo libro "La mafia in Italia" e forse anche in una seconda opera. Le ricordo che a norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali." NB. In dottrina si evidenzia che “per uso di critica” si deve intendere l’utilizzazione oggettivamente finalizzata ad esprimere opinioni protette ex art. 21 e 33 della Costituzione e non, invece, l’utilizzazione funzionale allo svolgimento di attività economiche ex art. 41 Cost. La sua opera essendo caratterizzata da fini di lucro, (viene venduta al pubblico ad uno specifico prezzo) rientra a pieno in un'attività economica. L'art 70 ut supra è , pertanto, pienamente applicabile al caso del mio abstract, non rientrando neanche nel catalogo di articoli a carattere "economico, politico o religioso", poichè da questi vengono escluse "gli articoli di cronaca od a contenuto culturale, artistico, satirico, storico, geografico o scientifico ", di cui all'art 65 della medesima legge (secondo un'interpretazione estensiva della stessa), la cui riproduzione può avvenire in "altri giornali e riviste, ossia in veicoli di informazione diretti ad un pubblico generalizzato e non a singole categorie di utenti – clienti predefinite." Pertanto La presente è per invitarLa ad eliminare nel più breve tempo possibile il mio abstract dalla sua opera (cartecea e digitale), e laddove sia presente, anche da altri eventuali suoi libri, e-book e cartacei, onde evitare di dover adire le apposite sedi giudiziarie per tutelare il mio Diritto d'Autore e pedissequamente richiedere il risarcimento dei danni.
La mia risposta: certamente non voglio polemizzare e non ho alcun intendimento a dissertare di diritto con lei, che del diritto medesimo ne fa una personalissima interpretazione, non avendo il mio saggio alcun effetto anche potenzialmente concorrenziale dell'utilizzazione rispetto al suo articolo. Nè tantomeno ho interesse a mantenere il suo articolo nei miei libri di interesse pubblico di critica e di discussione. Libri a lettura anche gratuita, come lei ha constatato, avendo trovato il suo articolo liberamente sul web. Tenuto conto che altri sarebbero lusingati nell’essere citati nelle mie opere, e in migliaia lo sono (tra i più conosciuti e celebrati), e non essendoci ragioni di utilità per non farlo, le comunico con mia soddisfazione che è stata immediatamente cancellata la sua tesi dai miei saggi e per gli effetti condannata all’oblio. Saggi che continuamente sono utilizzati e citati in articoli di stampa, libri e tesi di laurea in Italia ed all’estero. E di questo ne sono orgoglioso, pur non avendone mai data autorizzazione preventiva. Vuol dire che mi considerano degno di essere riportato e citato e di questo li ringrazio infinitamente.
La risposta piccata è stata: Guardi mi sa che parliamo due lingue diverse. Non ho dato nessuna interpretazione mia personale del diritto, ma come può notare dalla precedente mail, mi sono limitata a riportare il tenore letterale della norma, che lei forse ignora. Io credo che molte persone, i cui elaborati sono stati interamente riprodotti nei suoi testi, non siano assolutamente a conoscenza di quello che lei ha fatto. Anche perché sono persone che conosco direttamente e con le quali ho collaborato e collaboro tutt'ora. Di certo non sarà lei attraverso l'estromissione (da me richiesta) dalle sue "opere" a farmi cadere in qualsivoglia oblio, poiché preferisco continuare a collaborare con professionisti (quali ad esempio Bolzoni) che non mettono in vendita libri che non sono altro che un insieme di lavori di altri, come fa lei, ma che come me continuano a studiare ed analizzare questi fenomeni con dedizione, perizia e professionalità. Ma non sto qui a disquisire e ad entrare nel merito di determinate faccende che esulano la questio de quo. Spero che si attenga a quanto scritto nella precedente mail.
A questo preme puntualizzare alcuni aspetti. Il mio utilizzo dei contenuti soddisfa i requisiti legali del fair use o del fair dealing ai sensi delle leggi vigenti sul copyright. Le norme nazionali ed internazionali mi permettono di manifestare il proprio pensiero, anche con la testimonianza di terzi e a tal fine fare copie singole di parti di opere per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico.
Molti moralizzatori, sempre col ditino puntato, pretendono di avere il monopolio della verità. Io che non aspiro ad essere come loro (e di fatto sono orgoglioso di essere diverso) mi limito a riportare i comizietti, le prediche ed i pistolotti di questi, contrapponendo gli uni agli altri. A tal fine esercito il mio diritto di cronaca esente da mie opinioni. D'altronde tutti i giornalisti usano riportare gli articoli di altri per integrare il loro o per contestarne il tono o i contenuti. Oppure come fa Dagospia o altri siti di informazione online, che si limitano a riportare quegli articoli che per motivi commerciali o di esclusività non sono liberamente fruibili. Diritto di cronaca su Stampa non periodica.
Che cosa significa "Stampa non periodica"?
Ogni forma di pubblicazione una tantum, cioè che non viene stampata regolarmente (è tale, ad esempio, un saggio o un romanzo in forma di libro).
Stampa non periodica, perché la Stampa periodica è di pertinenza esclusiva della lobby dei giornalisti, estensori della pseudo verità, della disinformazione, della discultura e dell’oscurantismo.
Diritto di cronaca, dico, che non ha alcuna limitazione se non quella della verità, attinenza-continenza, interesse pubblico.
Con me la cronaca diventa storia ed allora il mio diritto di cronaca diventa diritto di critica storica. La critica storica, se da una parte può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506, dall'altra ha funzione di discussione: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera".
Certamente le mie opere nulla hanno a che spartire con le opere di autori omologati e conformati, e quindi non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera altrui. Quindi questi sconosciuti condannati all'oblio dell'arroganza e della presunzione se ne facciano una ragione.
Ed anche se fosse che la mia cronaca, diventata storia, fosse effettuata a fini di insegnamento o di ricerca scientifica, l'utilizzo che dovrebbe inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali è pienamente compiuto, essendo io autore ed editore medesimo delle mie opere e la divulgazione è per mero intento di conoscenza e non per fini commerciali, tant’è la lettura può essere gratuita e ove vi fosse un prezzo, tale è destinato per coprirne i costi di diffusione.
Intervento di Antonio Giangrande, scrittore tarantino, autore di decine di saggi d’inchiesta.
Lo scrittore napoletano, autore di “Gomorra” e “Zerozerozero”, è accusato di aver inserito delle frasi altrui nei suoi libri, tratte da fonti non citate. Saviano si difende: “è cronaca…e la cronaca appartiene a tutti”.
Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.
Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.
Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.
Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che ne disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.
Come far sì che si parli di questioni delicate e pericolose che gli scribacchini non fanno? Come si fa a far conoscere situazioni locali e temporali su tutto il territorio nazionale e raccontate da autori poco conosciuti?
Quello che succede quotidianamente davanti ai nostri occhi è quello che vedono tutti e non ci sono parole diverse per raccontarlo. I racconti sono coincidenti. Possono cambiare i termini, ma i fattori non cambiano. Gli scribacchini, poi, nel formare i loro pezzi, spesso e volentieri si riportano alle veline dei magistrati e delle forze dell’Ordine.
Ergo: E’ una bestialità parlare di plagio.
E poi, l’informazione di regime dei professionisti abilitati alla conformità non è tutta un copia ed incolla?
Si deve sempre guardare il retro della medaglia. Come per esempio: si dice che i soldi vadano ai migranti e ce la prendiamo con loro. Invece i soldi vanno ai migranti tramite le cooperative di sinistra e della CGIL. Ergo: Ai migranti quasi niente; alla sinistra i soldi dell'emergenza ed i voti dei futuri cittadini italianizzati. Ecco perchè i comunisti sono solidali fino a voler mettere i mussulmani nelle canoniche delle chiese cristiane. Quegli stessi mussulmani che in casa loro i cristiani li trucidano. Poi per l’aiuto agli italiani non c’è problema: se sei di sinistra, hai qualsiasi cosa: case popolari, anche occupate, e sussidi ed occupazioni nelle cooperative. Se sei di destra, invece, vivi in auto da disoccupato, non per colpa della sinistra, ma perché quelli di destra ed i loro politici son tanto coglioni che non sanno neppure tutelare se stessi.
A proposito dell’invasione dei mussulmani senza colpo ferire….diamo proposte e non proteste. Se lo sbarco incontrollato dei clandestini è dovuto alla guerra fratricida nei loro paesi: fermiamo quella guerra con una guerra giusta sostenendo la ragione. Per molto meno si è bombardato l’Iraq, l’Afghanistan e la Libia, senza aver un interesse generale europeo, se non quello di assecondare le mire americane. E poi, dalla patria in fiamme non si scappa, ma si combatte per la sua liberazione. Gli italiani non sono scappati in Africa dalla occupazione tedesca. O i comunisti hanno combattuto non per liberare l’Italia ma per consegnarla all’URSS? Se il motivo dello sbarco incontrollato dei clandestini è quello economico, evitiamo di farci espropriare il nostro benessere ottenuto con sacrifici. Per la sinistra è un sistema che vale in termini elettorali, ma è ingiusto. Difendiamoci dall'invasione in pace. Apriamo aziende nei luoghi di espatrio dei clandestini. Imprese finanziate da quei fondi destinati a mantenere gli immigrati a poltrire in Italia. In alternativa tratteniamo i più giovani di loro per dargli una preparazione ed una istruzione specialistica, affinchè siano loro stessi ad aprire le aziende.
E comunque, senza parer razzista…In Italia basterebbe far rispettare la legge a tutti, compreso i clandestini, iniziando dalla loro identificazione, e se bisogna mantenere qualcuno, lo si faccia anche con gli italiani indigenti. Per inciso. Non sono di nessun partito. Non voto da venti anni, proprio perché sono stufo dei quaquaraqua in Parlamento e di quei coglioni che li votano.
La sinistra usa la stessa solidarietà adottata con i migranti come nella lotta alla mafia: farsi assegnare i beni confiscati e farli gestire da associazioni o cooperative vicine a loro a alla CGIL o a Libera, che è la setta cosa.
Io ho trovato un sistema affinchè non sia tacciato di mitomania, pazzia o calunnia: faccio parlare chi sul territorio la verità scomoda la fa diventare cronaca ed io quella realtà contemporanea la trasformo in storia affinchè non si dimentichi.
Io generalmente non sto con Saviano: per il suo essere di sinistra con quello che comporta in termini di difetti ed appoggi. La sinistra, per esempio, non dice che mafia ed antimafia, spesso, sono la stessa cosa, sol perché l’antimafia è da loro incarnata. Ma stavolta io sto con Saviano perché la verità appartiene a tutti e noi abbiamo l’obbligo di conoscerla e divulgarla. Saviano ha raccontato una realtà conosciuta, ma taciuta. Verità enfatizzata e strumentalizzata dalla sinistra tanto da renderla nociva. Può aver appreso da scritti altrui? Può darsi. Basta che sia verità. Se qualche autore vuol speculare sulla verità raccontata, allora la sua dignità vale quanto la moneta pretesa. Se poi chi critica ed aizza mesta nel fango, questi vuol distogliere l’attenzione sulla sostanza del contenuto, anteponendo artatamente la forma. Ed i lettori, in questa diatriba, non guardino il dito, ma notino la luna.
Io, da parte mia, le fonti le cito, (eccome se le cito), per dare credibilità alle mie asserzioni e per dare onore a chi, nelle ritorsioni, è disposto con coraggio a perdere nel nome della verità in un mare di viltà. I miei non sono romanzi, ma saggi da conoscere e divulgare. Perché noi dobbiamo essere quello che noi avremmo voluto che diventassimo. E delle critiche: me ne fotto. Dr Antonio Giangrande
Estratto dell’articolo di Nicola Borzi per “il Fatto quotidiano” il 28 novembre 2022.
Per i lettori o per gli inserzionisti? Per chi scrivono i giornali? Secondo i giornalisti, dovrebbero essere i primi, secondo manager e inserzionisti i secondi. […] Piombati nella spirale del crollo delle vendite, i quotidiani si aggrappano alla pubblicità, finendone ostaggio.
Gli inserzionisti hanno ormai scavalcato "la muraglia cinese" che un tempo separava i contenuti dall'advertising, si infiltrano e occultano negli articoli, perché la pianificazione dei budget pubblicitari comprende sempre più spesso forme "innovative" che i tecnici chiamano "brand journalism" o "native advertising" ma che i vecchi cronisti definivano spicciamente "marchette".
[…] Ossigeno per i conti delle testate che però mette in discussione l'integrità e la residua credibilità del giornalismo. […] Pubblicità occulte vengono inserite in articoli, video, post pubblicati dalle maggiori testate. Ne ha messe in fila molte, negli ultimi anni, la testata specializzata online Professione Reporter […]
L'elenco è sterminato: solo per citare alcuni casi, Repubblica (Gedi), 5 novembre 2019, "Pasta frolla, Nutella e ingegneria, la ricetta del biscotto da 120 milioni"; Repubblica, 24 luglio 2022, "Una carbonara per Ferragni" (con sette pubblicità nell'articolo); Repubblica, 6 febbraio 2020, "Pane e Nutella. La via italiana di McDonald's". La Stampa (Gedi), 15 maggio 2020: "Riaprono gli Apple store". La Gazzetta dello Sport (Cairo), intervista a Federer con sponsor Barilla in vista e domanda sulla pasta preferita, guarda caso quella prodotta dall'azienda di Parma.
Corriere della Sera (Cairo), 10 giugno 2021: "Il Ct Mancini firma una collezione per Paul & Shark". Corriere della Sera, 17 maggio 2022, intero numero "dedicato" alle Ferrovie dello Stato con articoli per due pagine (delle quali una di intervista all'ad Luigi Ferraris) e richiamo in prima, più paginate di pubblicità.
[…] I comitati di redazione, ovvero le rappresentanze sindacali interne delle redazioni di Repubblica, Corriere e altre testate, hanno preso pubblicamente posizione contro il fenomeno, ma sinora non sono riusciti a fermare questa deriva. […]
[…] nel giornalismo, nonostante i tentativi di segnalare questi contenuti, esiste una 'zona grigia' di cui tutti sanno ma che formalmente non viene denunciata in cui i grandi investitori riescono a ottenere dai giornali spazi che sono evidentemente pubblicitari ma come tali non vengono mostrati.
[…] Il brand journalism è un settore che si sta sviluppando velocemente perché le aziende hanno bisogno per i loro uffici comunicazione di cronisti che facciano questo lavoro con ottica giornalistica. […] il native content è un segmento che affonda le unghie nella debolezza della contabilità e dei bilanci delle aziende editoriali italiane […]
Francesco Storace per "Libero quotidiano" il 24 novembre 2022.
Pd, Cinque stelle, Terzo Polo: spazio signori, c'è un quarto partito a sinistra e si chiama Fnsi. È la federazione della stampa italiana, una specie di soviet che ora si è messa in testa di sabotare la premier Giorgia Meloni.
Tutti quei giornalisti che si inchinavano al passaggio di Giuseppe Conte e Mario Draghi; quelli che applaudivano in piedi l'ingresso di SuperMario in conferenza stampa consentendogli di scegliersi le domande a cui rispondere; quelli che obbedivano al premier pentastellato a cui se osavi chiedere conto di ciò che non faceva, rispondeva al cronista: «Venga a farlo lei»; tutti costoro ora si sfogano contro la nuova presidente del Consiglio. Hanno sparso saliva a ondate quando c'erano gli altri premier, adesso fanno gli inferociti. E minacciano: l'altra sera il comunicato delirante della Fnsi.
«Chi ricopre cariche pubbliche ha il dovere di rispondere alle domande. Né può pensare di liquidare con insinuazioni e dietrologie i giornalisti che cercano di ottenere risposte, perché questo in democrazia è un preciso dovere per chi fa informazione. INACCETTABILE Va per questo respinta con forza, perché inaccettabile nella forma e nella sostanza, la reazione della presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, alle richieste dei giornalisti di rivolgerle altre domande al termine della conferenza stampa di presentazione della manovra economica».
Con tanto di avvertimento minatorio: «Non sarebbe male se i cronisti prendessero l'abitudine, come pure talvolta è avvenuto in passa to, di non partecipare o abbandonare i comizi camuffati da conferenze stampa». Insolenza allo stato puro. Il web è pieno di immagini di rettori che si prostrano all'arrivo del ministro della Salute Speranza; di Formigli che dà lezioni alla Melo ni «troppo aggressiva» (lo dice proprio lui...); o di chi leccava il premier Draghi dicendogli «se non ci fosse lei saremmo terrorizzati».
Figuracce su figuracce e ora vengono a fare i duri e puri con il primo premier donna nella storia della Repubblica. Non è che un po' sessisti sono quelli che lo dicono sempre agli altri?
La conferenza stampa dello scandalo è stata caratterizzata da perle inaccettabili. Vogliono fare domande, dicono, e poi quello che esce dalla boccuccia ai signori dei media cani da guardia (prima erano da salotto) è «lei non può fare una presentazione così lunga della manovra di bilancio».
Oppure la polemica con la Francia «non le ha insegnato nulla»? No, queste non sono domande, ma esibizioni di arroganza che non c'entrano nulla con il mestiere dell'informazione. In realtà ci troviamo di fronte ad una stampa che in campagna elettorale tifava apertamente contro la paventata vittoria del centrodestra e adesso pretende, ad un mese dal voto, i miracoli che hanno atteso invano e silenti in undici anni di sinistra al potere senza voti.
Che dire, se il destino è contro di noi, peggio per lui... E adesso i giornaloni non si capacitano di dover raccontare una politica che semplicemente attua il programma elettorale con cui ha conquistato la maggioranza dei consensi nelle urne. Forse la Meloni dovrebbe agire come faceva Conte: apparire all'improvviso su Facebook, pretendere di interrompere la programmazione televisiva alla vista della sua pochette, dare vita - quelli sì - a monologhi interminabili, e concedersi a poche, gradite domande subito dopo (quando era possibile).
Draghi appariva - ma guai a chiedergli un'opinione - più disponibile, ma se gli facevi una domanda sensata - ad esempio sulle sue ambizioni per il Colle - rispondeva nettamente: «Non rispondo». E nessun sindacalista della Fnsi pro poneva il sabotaggio del premier. A proposito: alla Meloni rimproverano persino le querele presentate contro gli la insultava quando stava all'opposizione. Adesso si limita a mandarli al diavolo. Dovrebbero essere contenti anziché piagnucolare.
A.V. per "Libero quotidiano" il 24 novembre 2022.
Anche Rula Jebreal si schiera dalla parte di Roberto Saviano. La conduttrice tv, che in campagna elettorale e subito dopo le elezioni del 25 settembre aveva attaccato pesantemente Giorgia Meloni paventando l'arrivo di un regime in caso di vittoria del centrodestra, ieri è tornata su Twitter ad accusare la leader di Fratelli d'Italia con un post in lingua inglese: «Agendo come un autocrate, il primo ministro italiano coglie ogni opportunità per intimidire e denigrare i giornalisti. I giornalisti che fanno eco alla sua propaganda vengono nominati ministri della cultura e portavoce del governo... mentre i giornalisti che la denunciano vengono minacciati, vittime di bullismo e censurati».
Il tutto corredato dal video nel quale il premier, due giorni fa, critica i giornalisti che l'avevano accusata di non rispondere ad abbastanza domande al termine dell'illustrazione della manovra di bilancio. Subito dopo il voto, Rula Jebreal aveva tirato in ballo una vecchia storia che riguardava il padre di Giorgia Meloni, con cui peraltro il premier non ha più contatti da quando era bambina.
Su Twitter Rula Jebreal aveva raccontato la storia dell'uomo, arrestato per narco traffico quasi 30 anni fa dopo aver abbandonato le figlie: «Meloni non è colpevole dei crimini commessi da suo padre, ma spesso sfrutta i reati commessi da alcuni stranieri, per criminalizzare tutti gli immigrati, descrivendoli minaccia alla sicurezza. In una democrazia ci sono responsabilità individuali, NON colpe collettive». Parole che avevano provocato l'indignazione anche di molti esponenti della sinistra.
Dagospia il 22 Novembre 2022. Da “Un Giorgio Da Pecora”.
Il confronto della premier Meloni coi cronisti al termine della conferenza stampa di oggi sulla manovra? “La sollecitavo a prendere molte più domande, visto che la legge di Bilancio è la principale legge dello Stato. C’è un metodo ormai, l’ho seguita in tutti i viaggi fatti finora e lei tutte le volte ha fatto le stesse cose, dicendo che aveva un impegno e non poteva prendere troppo domande”. A parlare, ai microfoni di Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, è Ilario Lombardo, giornalista de 'la Stampa', che oggi, al termine dell'incontro del governo con i media, ha criticato la possibilità di poter fare poche domande alla premier.
Giorgia Meloni ha sostenuto di non poter rispondere ad altre domande perché attesa da un altro incontro. Questa motivazione è a suo avviso pretestuosa? “Diversi indizi fanno una prova. Ci intravedo un metodo, una strategia, visto che lei fa delle introduzioni più lunghe dei suoi predecessori poi c'è la tagliola dei tempi e finisce che le domande diventano due, tre o cinque, come avvenuto oggi”.
Lei ha chiesto alla premier di tagliare sui tempi l’introduzione. “La presentazione della manovra è durata 75 minuti, un record degli ultimi anni. Il senso della conferenza stampa è fare domande, non è un convegno”. Meloni ha detto “non mi pare che non siamo disponibili, mi ricordo che in altre situazioni siete molto meno assertivi”. A cosa si riferiva secondo lei? “Non lo so ma è gravissimo che un’istituzione come la presidenza del Consiglio si permetta di accusare una categoria che è lì solo per fare domande. Questo trucchetto è assolutamente inaccettabile per un presidente del Consiglio”.
Secondo lei Giorgia Meloni vuole poche domande? “E’ così. Tanto che dopo aver fatto scoppiare la polemica si è messa a braccia conserte, col volto un po’ nervoso, e ha preso altre quattro o cinque domande”.
Giorgia Meloni contro i giornalisti, Ilario Lombardo: "E' il suo metodo". Libero Quotidiano il 22 novembre 2022
Protagonista della conferenza stampa di Giorgia Meloni, oltre che la manovra, il botta e risposta con un giornalista. Non è infatti passato inosservato il rimprovero di Ilario Lombardo al presidente del Consiglio che prontamente ha replicato. "Guardi, fermo restando che non mi pare che non siamo disponibili. Mi ricordo che in altre situazioni siete stati molto meno assertivi - ha tuonato la premier -. Lei dice ‘tagliamo l’introduzione', ma è una legge di bilancio, non penso che lei si aspetti che la presentiamo in quattro minuti. Non vi ricordo così coraggiosi in altre situazioni...".
Parole che non sono piaciute alla firma de La Stampa, che ha ben pensato di rispondere. Sì, ma ai microfoni di Un Giorno da Pecora. In collegamento con Rai Radio1, Lombardo spiega: "La sollecitavo a prendere molte più domande, visto che la legge di Bilancio è la principale legge dello Stato. C’è un metodo ormai, l’ho seguita in tutti i viaggi fatti finora e lei tutte le volte ha fatto le stesse cose, dicendo che aveva un impegno e non poteva prendere troppo domande".
Ma non finisce qui, perché al giornalista non è bastata la giustificazione della leader di Fratelli d'Italia impegnata in un altro incontro. "Diversi indizi - prosegue - fanno una prova. Ci intravedo un metodo, una strategia, visto che lei fa delle introduzioni più lunghe dei suoi predecessori poi c'è la tagliola dei tempi e finisce che le domande diventano due, tre o cinque, come avvenuto oggi". Insomma, Lombardo contesta il fatto che "la presentazione della manovra è durata 75 minuti, un record degli ultimi anni. Il senso della conferenza stampa è fare domande, non è un convegno". Ecco allora la colata di insulti: "Non lo so ma è gravissimo che un’istituzione come la presidenza del Consiglio si permetta di accusare una categoria che è lì solo per fare domande. Questo trucchetto è assolutamente inaccettabile per un presidente del Consiglio". A maggior ragione - conclude - dato che "si è messa a braccia conserte, col volto un po’ nervoso, e ha preso altre quattro o cinque domande".
Meloni, "rissa" coi giornalisti? Retroscena: la frase che ha scatenato il caos. Antonio Rapisarda su Libero Quotidiano il 24 novembre 2022
Giorgia Meloni presenta la prima manovra del suo governo. Gli occhi del mondo sono fissi sul merito di una legge che è già uno snodo cruciale per un esecutivo sorto solo da un mese: l'attenzione degli osservatori internazionali è morbosa sui conti, la tenuta finanziaria, le misure anti-crisi previste. Al netto, ovviamente, della curiosità sul tasso di discontinuità con la precedente gestione Draghi.
Dopo un'ora di presentazione - con il premier affiancato dai ministri coinvolti direttamente nella stesura - giungono le domande della stampa. Tutto fila liscio, con il botta e risposta vivace su questioni inerenti al cuneo fiscale, al reddito di cittadinanza e così via. Spunti e appigli per mettere sotto pressione il governo però non sembrano essercene: del resto né i falchi di Bruxelles né le solite agenzie di rating hanno avuto argomenti per tuonare sulla legge di Stabilità del destra-centro.
A un certo punto arriva la domanda di un cronista del Foglio che mette in mezzo la "pedagogia" sul dossier Ong. Proprio così: ossia, citiamo, se lo scontro con la Francia «le ha insegnato ad avere un approccio meno propagandistico nei confronti dei Paesi partner». Da questo momento la conferenza stampa assume un'altra piega. La risposta del presidente del Consiglio non si limita all'appunto sul modo, discutibile, con cui la questione è stata posta («Guardi è una vita che voi volete "insegnarmi" qualcosa. C'è modo e modo di fare le domande...») ma è stata l'occasione per ribadire la postura - sua, del governo e dunque dell'Italia - rispetto alle questioni internazionali.
«Non mi ha insegnato niente (la reazione francese, ndr) - questa la precisazione -. Perché credo di avere fatto il mio lavoro, come sempre, difendendo gli interessi di questa Nazione. E non mi pare, differentemente da come è stato raccontato per troppo tempo, che stia crollando qualcosa qui intorno da quando è arrivato il nostro governo». Anzi, se «si parla di fare delle riunioni Ue per affrontare il tema dell'immigrazione» è perché l'Italia ha posto il problema «dei suoi diritti». Siparietto concluso da parte della stampa? Al contrario. Dopo aver risposto a un'ulteriore domanda, Meloni ha chiesto di poter andare via perché attesa a un incontro con Confartigianato.
LA PROTESTA - A questo punto è scattata la protesta di alcuni cronisti: la richiesta è di poter fare altre domande. I toni nei suoi confronti del premier tornano a scaldarsi: c'è chi è arrivato addirittura a lamentare i tempi dell'introduzione del suo intervento. Insomma, un altro "insegnamento". La replica di Meloni non si è fatta attendere: «Ma questa è una legge di Bilancio! Penso che nessuno si aspetti che presentiamo la manovra in quattro minuti. Siamo persone seri». «Anche a Bali», ha aggiunto la voce in sala, «c'è stato spazio solo per tre domande». «Avevo un incontro con Xi Jinping», ha risposto a sua volta. E prima ancora Meloni non le ha certo mandate a dire a chi ha avuto da ridire proprio sulla modalità della conferenza stampa: «Fermo restando che non mi sembra che non siamo disponibili... mi ricordo che in altre situazioni siete stati molto meno "coraggiosi" e assertivi. Mettiamola così...».
I RIFERIMENTI STORICI - I riferimenti storici della punzecchiatura di Giorgia - che è rimasta a rispondere ancora alle domande - sono noti. È rimasto celebre, e non proprio da manuale del giornalismo "watch-dog", l'applauso scrosciante degli stessi cronisti parlamentari alla conferenza stampa di fine di Mario Draghi (e lo stesso accadde con Carlo Cottarelli e il suo trolley, quando rimise l'incarico esplorativo dopo qualche giorno). Non si ricordano poi, sempre in riferimento all'ex premier, strali o contestazioni nel giorno in cui SuperMario stabilì a quali domande non rispondere (come quelle sul Quirinale). Andando più indietro con i governi non vi è traccia di gesti plateali - come quello invocato ieri dalla nota della Fnsi contro Meloni, chiedendo la prossima volta di abbandonare la conferenza stampa - quando imperversava il metodo Conte-Casalino. Celebre la battuta dell'ex portavoce dell'allora premier 5 Stelle contro un tweet di un giornalista del Foglio che aveva preso di mira ironicamente la sua gestione di una manifestazione contro i vitalizi: «Adesso che il Foglio chiude, che fai? Mi dici a che serve il Foglio? Perché esiste?». Tutt' altro che morbido, infine, fu lo stesso Conte con un giornalista che in piena crisi pandemica osò chiedergli semplicemente lumi sull'operato del commissario Arcuri: «Se lei ritiene di far meglio», questa la risposta, «la terrò presente».
Maurizio Belpietro per “La Verità” il 23 novembre 2022.
Fino a ieri la principale preoccupazione dei giornaloni e dell'opposizione riguardava la tenuta dei conti pubblici. «Con le loro promesse Meloni e soci ci manderanno in malora», era l'ottimistica conclusione di certi accorati editoriali con cui si invitava la maggioranza a non fare danni.
«Se si tocca la Fornero, anticipando l'uscita dal lavoro di chi ha meno di 42 anni di contributi, si scassa il bilancio dell'Inps», era l'obiezione della sinistra e di alcuni centri studi politicamente orientati. E ora che il consiglio dei ministri ha varato una manovra prudente, senza fare troppo deficit, ma investendo due terzi dei soldi a disposizione in misure che attenuino il rincaro delle bollette?
Adesso che a Palazzo Chigi si è deciso di rinviare la riforma previdenziale a tempi migliori, ritoccando solo il necessario? Nel momento in cui si mette mano al Reddito di cittadinanza, riducendo la platea dei beneficiari? Beh, ovvio: neanche quello va bene.
Così, gli stessi che prima predicavano cautela per evitare che lo spread salisse, adesso accusano l'esecutivo di mancanza di coraggio e scarsezza di visione. In particolare, un assaggio del doppiopesismo di stampa e opposizione lo si è visto ieri, con i commenti a caldo dopo il varo della legge di bilancio.
Con una certa dose di ironia lo ha notato anche Giorgia Meloni, che rispondendo alle domande dei cronisti ha replicato alle contestazioni in conferenza stampa dicendo di non ricordarsi tanta assertività ai tempi del governo Draghi.
Da parte nostra, possiamo aggiungere che altrettanta condiscendenza fu usata quando il premier era Giuseppe Conte, ma anche Matteo Renzi e Paolo Gentiloni dai giornalisti sono sempre stati trattati con i guanti bianchi. Le domande erano felpate, e invece di incalzare il capo del governo, la maggior parte dei rappresentanti della stampa annuiva.
Tutto ciò per dire il clima che ha accolto la Finanziaria: se con Mario Monti la stampa e le forze politiche erano adoranti, scambiando per tagli di spesa perfino le tasse, con Giorgia Meloni improvvisamente giornali e partiti d'opposizione hanno cambiato stile. La trasformazione più clamorosa riguarda il giudizio sul reddito di cittadinanza. Quando fu introdotto, il Pd votò contro e i principali centri studi lo giudicarono una follia che avrebbe creato un buco nel bilancio dello Stato.
Prima che cadesse il secondo governo Conte, anche i grillini si resero conto che la legge aveva bisogno di manutenzione. Ma ora che il governo Meloni ha deciso di cambiare le regole, limitando la misura alle sole persone che non sono in grado di lavorare, apriti o cielo. Il leader grillino, che dopo essere stato avvocato del popolo da qualche mese, per guadagnare consensi, si è trasformato in tribuno della plebe, minaccia di mobilitare la piazza e si dichiara pronto a tutto.
A sollecitare manifestazioni di protesta è anche l'uomo che ha perso qualsiasi cosa poteva perdere, ossia Enrico Letta, il quale dimentico delle posizioni contrarie del suo partito, adesso difende il reddito di cittadinanza.
E Renzi e Calenda? Anni fa spararono a zero contro il reddito di cittadinanza, ma ora che bisogna recuperare consensi, e soprattutto attaccare il governo, la musica è cambiata: adesso urge demolire la manovra per demolire il governo. In conclusione, se si sgombra il campo dalle chiacchiere e dalle polemiche di partito, che cosa resta?
Una Finanziaria fatta in un mese (ricordate quando Draghi fece capire che non aveva alcuna voglia di prepararla e qualcuno ipotizzò il rischio di un esercizio provvisorio?), con pochi soldi perché la gran parte erano già impegnati, ma con obiettivi precisi: le bollette, le pensioni, il cuneo fiscale, la card e l'assegno unico per i nuclei familiari con maggiori necessità, la revisione del reddito di cittadinanza.
A qualche economista colorato tutto ciò ovviamente non piace. Abbiamo sentito con le nostre orecchie Carlo Cottarelli dire in tv che l'intervento sulle pensioni premia interessi particolari. Secondo il professore, che è andato in pensione a 59 anni, chi di anni ne ha 62 e sulle spalle ne ha 41 anni di contributi regolarmente versati, evidentemente ha interessi particolari.
Per lui e quelli come lui forse si devono regalare soldi, con il reddito di cittadinanza, a chi di anni magari ne ha trenta e i contributi non li ha mai pagati. Con il che si capisce quanto strumentali siano le critiche. Per dirla con la Meloni: quanto sono assertivi certi esperti quando non hanno di fronte né Monti né Draghi.
Meloni, porcheria del Fatto in prima pagina: "Mica potete rompere il ca***". Libero Quotidiano il 23 novembre 2022
La stretta del governo sul reddito di cittadinanza proprio non va giù al Fatto Quotidiano. La manovra, illustrata da Giorgia Meloni in conferenza stampa, prevede che i percettori del sussidio considerati “occupabili”, cioè tra i 18 e i 59 anni, potranno continuare a riceverlo solo per i primi otto mesi del 2023, agosto compreso. Poi alla prima offerta di lavoro congrua rifiutata, il reddito sarà tolto. Infine dal 2024 il reddito non ci sarà più.
La misura tanto cara al Movimento 5 Stelle, quindi, sta per essere eliminata del tutto. Al Fatto non l'hanno presa bene, tanto che la prima pagina di oggi ospita una vignetta velenosa contro Giorgia Meloni. Il premier, ritratto come se stesse parlando in conferenza stampa, dice: "Siamo poveri, siamo poveri gne' gne' gne' e mica potete rompe 'r caz*o, tutto il tempo che c'ho da fa' 'o statista io...". A corredo le parole "Under-dog over the top", con chiaro intento ironico rispetto a quanto la Meloni disse nel suo discorso di fiducia in Parlamento. La vignetta in questione ricalca in modo sarcastico anche i botta e risposta che il premier ha avuto in conferenza con alcuni giornalisti.
Il Fatto, insomma, illustra la Meloni come una persona indifferente rispetto ai problemi dei più fragili. Peccato, però, che la manovra sia stata fatta proprio per quelle persone lì. Lo ha scritto lei stessa su Twitter: "Orgogliosa del lavoro di questo Governo e di una manovra scritta in tempi record. Una legge di bilancio coraggiosa e concreta, che bada al sodo e offre una visione sulle priorità economiche. Favorire la crescita, aiutare i più fragili, investire nelle famiglie, accrescere la giustizia sociale, sostenere il nostro tessuto produttivo, scommettere sul futuro: questa la nostra ricetta per ridare forza e visione all'Italia".
Clickbait e segugi. L’operaia morta in fabbrica, le notizie frivole e il giornalismo che non se la passa benissimo
È vero che ognuno vede il suo pezzettino di mondo, ma i siti dei quotidiani generalisti hanno dato pochissimo spazio alla donna stritolata nella vetreria. E invece bisognerebbe evidenziare che è una roba mostruosa, più del gatto di Taylor Swift. Guia Soncini su L’Inkiesta l’8 Novembre 2022
Elenco non esaustivo dei titoli che ieri pomeriggio, sulla homepage del sito di Repubblica, erano più in evidenza dell’operaia d’una vetreria che nella notte, in provincia di Piacenza, era morta stritolata da un macchinario. (È una selezione perché, prima di lei, sulla homepage di Repubblica c’erano più di cento notizie, tutte invero più cogenti, e la lista intera sarebbe troppo lunga).
Greta Thurnberg che cambia carriera; Rihanna che ha l’esaurimento; Checco Zalone dice che Giorgia Meloni sa comunicare; la Champions; gli Europei; Staino in ospedale; il tizio che ha chiesto a Gessica Notaro di sposarlo; il superbonus e il «boom per le villette»; «Torna il caldo»; «L’autunno apre le porte a tre virus: è in arrivo la triplendemia»; «Levante con la figlia al pronto soccorso»; «Re Carlo gela Andrea»; «Disegna una svastica sulla cattedra»; «Un giorno nella vita di Elon Musk»; «Damiano ferma il concerto dei Mäneskin per disperdere la calca»; «Balotelli mostra il dito medio»; «Il gatto amato da Ed Sheeran e Taylor Swift potrebbe essere messo al bando nel Regno Unito»; «Matilde Gioli a Fieracavalli: “Un amore nato sul set, ora cavalcare è una passione”»; subito sopra l’operaia deceduta, un’intervista a Giovanni Malagò sul grave scandalo delle ginnaste che devono essere magre.
Tutti vediamo solo il nostro piccolo pezzo di mondo, lo sappiamo. È la ragione per cui esiste l’espressione, infondata ma diffusissima, «l’unico paese al mondo che». Ha adattamenti locali in tutto il mondo, mica esiste solamente «solo in Italia»: chiunque legga opinionisti americani legge continuamente che l’America è un paese polarizzato; il resto del mondo, invece.
Tutti vediamo solo il nostro piccolo pezzo di mondo e c’illudiamo sia il mondo intero. E quindi, diranno i miei venticinque lettori, il tuo piccolo pezzo di mondo è il sito di Repubblica? Macché. Stavo recuperando un programma televisivo della sera prima, e ho visto un paio di spot incredibili. Uno non ricordo neanche di che prodotto fosse, ma prometteva di fare del «bagnetto» (sì, insomma: del momento in cui lavate i puccettoni di mamma loro) «un momento di espressione del sé». Ho pensato distrattamente: ah, vedi, pensavo fosse un momento di transizione da zozzi a puliti.
Poi c’era uno spot di cibo per cani, e prometteva cibo scientifico ma naturale, e la passatista in me si è detta ma possibile ci tocchi vivere dentro la sacralizzazione di cani e bambini, possibile che adesso neanche coi cani ce la si possa più cavare dandogli gli scarti della carne.
Quasi quasi stavo per fare il solito pezzo su questo tempo sbandato, sulla dittatura dei puccettoni umani e di quelli canini, sulla tizia australiana che dice che in quanto «mamma di cane» (non sarò io a tradurre: cagna) ha diritto anche lei ai permessi retribuiti per prendersi cura del suo puccettone peloso, e che non va più fuori a cena perché le dispiace lasciarlo solo a casa.
Avevo anche una vecchia vignetta perfetta del New Yorker, da citare. Nel disegno un infermiere usciva sdegnato da una sala operatoria con un cane al guinzaglio, col tono offeso di quelli che si risentono se gli fai notare che forse il loro cane non dovrebbe spulciarsi vicino al tuo cibo. «Andiamo, evidentemente a certa gente non piacciono i cani», era la battuta della vignetta, prima della quale t’immaginavi chirurghi che gli avessero detto che insomma, la sala operatoria era sterile e il suo puccettone peloso no.
Ma in un sussulto di senso del dovere ho aperto il sito del Corriere: metti che sia successo qualcosa e io come al solito non ne sia al corrente. L’operaia morta sul lavoro stava un po’ sotto, prima di lei c’era una decina di notizie. Quasi tutte notizie che in gergo si dicono «hard», roba seria: la Meloni, Al Sisi, i migranti, le elezioni americane di metà mandato, la flat tax. Ma, subito sopra all’operaia, c’era un tal Ringo. Non il biscotto e non il batterista dei Beatles: un biondo che diceva d’aver avuto molte donne, d’aver sperperato miliardi, e che non gli piacciono i Mäneskin.
È stato allora che ho scoperto sotto quante decine di notizie ce l’aveva Repubblica: quando ho pensato ma che cialtroni questi del Corriere, scommetto che Repubblica l’operaia morta ce l’ha in apertura. Voglio dire: c’è qualcosa di più rilevante, per la politica di sinistra, del fatto che nel 2022 la gente muoia in fabbrica? Usiamo «distopia» per qualunque stronzata e non per il fatto fuori dal tempo e dalla sensatezza e dalla civiltà che, in un’epoca che trascorriamo a cianciare di lavoro in remoto e di oppressione rappresentata dall’iva sugli assorbenti, ci sia gente che muore in fabbrica o nei cantieri o comunque in posti nei quali fa lavori più faticosi e meno remunerati di noialtri che ci sentiamo sfruttati se non ci danno il permesso per andare a casa dal cane?
È stato così che sono andata su Repubblica e l’operaia morta era un titoletto così in fondo che dovevi proprio cercarla per trovarla, e ci saranno certo delle ragioni per questa scelta (banalmente: che i lettori d’un giornale di sinistra cliccano più sui Mäneskin che sull’operaia morta; più sulla crisi di nervi di Rihanna che sull’operaia morta; più sul gatto di Ed Sheeran, sull’ira di re Carlo, sul ritorno del caldo, che sull’operaia morta) – ma.
Ma forse ognuno vede il pezzettino di mondo che vuole vedere ma anche quello che gli fanno vedere. Forse ho sempre sbagliato a credere che il pubblico fosse responsabile e padrone delle sue scelte. Forse l’operaia che nel 2022 muore in fabbrica gliela devi mettere a tutta pagina, devi fargli capire che è una roba mostruosa, devi farlo sentire in colpa se non se ne interessa e se non ci clicca e se non chiede alla politica di occuparsene adesso, subito, ieri. Forse le influencer devono occuparsene almeno quanto dell’iva sugli assorbenti o dell’incredibile renitenza degli allenatori a lasciar ingrassare le ginnaste, forse devono pensare a gesti dimostrativi più efficaci del tagliarsi la ciocca in solidarietà alle iraniane, anche se proprio non so quali. Forse, se la comunicazione siamo noi, sarà ora che siamo all’altezza del compito. Forse, caro giornalismo italiano, se queste cose devo dirtele io, sei messo veramente male.
Da liberoquotidiano.it il 4 novembre 2022.
Prosegue senza soluzione di continuità la guerra tra Franco Di Mare, direttore di Rai 3, e Striscia la Notizia. Di Mare infatti ha annunciato di aver querelato il tiggì satirico ideato da Antonio Ricci per "aver mostrato le sue palpatine in diretta", spiega la redazione di Striscia. E così ecco che proprio Striscia, nella puntata in onda su Canale 5 giovedì 3 novembre, serve la sua vendetta contro Di Mare...
"È un tipetto molto vendicativo, come si evince dalle immagini che vi mostriamo". Ed ecco che Striscia mostra nuovamente le immagini del momento in cui, in televisione, Giovanna Botteri rivelò un aneddoto molto piccante e imbarazzante: quando Franco Di Mare ballò su un tavolo con un paio di slip leopardati. E il direttore, come si nota dalla sua faccia, aveva gradito il giusto la rivelazione.
Tentò di negare la performance, "ovviamente non è vero, non è possibile", disse. Dunque, passò alla controffensiva: per rappresaglia ecco che iniziò a spifferare particolari maliziosi proprio su Giovanna Botteri. "L'hai voluta tu... quando eravamo in Kossovo, in una brutta situazione, avevamo auto e un po' di scorte, ma la benzina finiva. E quando ci serviva qualcosa, benzina o aiuti materiali, bisognava andare da uno dei comandanti. Il quale aveva una passione per Giovanna, che è una bella donna adesso e immaginate che mula era 20 anni fa. Allora lei prendeva la sua migliore camicetta e la sbottonava un po', andava lì e tornava con la benzina. Non avrei mai voluto dirlo, ma...", concludeva Di Mare.
E Striscia, rilanciando il video, rimarca. "Il Di Mare è un tipetto molto vendicativo, come mostra questo video in cui ripesca una vecchia storia con Giovanna Botteri da Mara Venier". Avrà ragione Striscia?
Da striscialanotizia.mediaset.it il 7 novembre 2022.
Questa sera a Striscia la notizia (Canale 5, ore 20.35) Valerio Staffelli consegna il Tapiro d’oro a Sonia Grey per aver “molestato” l’ex direttore di Rai3 Franco Di Mare, che ha definito la palpatina in studio alla sua co-conduttrice di Unomattina (Rai1, 2004) «un banale scherzo fra colleghi» in risposta alle «“molestie” che Sonia mi faceva ogni mattina».
«Hai mai sentito in trent’anni di televisione – dice Sonia Grey, rivolgendosi al tapiroforo Staffelli – che ho il vizietto di molestare? Ti sembra che potessi arrivare in studio all’alba per preparare cinque, sei ore di diretta e andare a palpare tutti i giorni il signor Franco Di Mare?».
«Subivo davanti a tutti. Cercavo di sdrammatizzare, cosa potevo fare? Io giovane donna di spettacolo appena arrivata in Rai. Lui direttore, importante giornalista, tutti gli agganci ai piani alti. Sono stanca di essere tirata in ballo da Di Mare», conclude Grey.
Striscia la Notizia, Sonia Grey: "Di Mare? Subivo davanti a tutti", caos in Rai. Libero Quotidiano l’8 novembre 2022
Prosegue la querelle tra Striscia la Notizia e Franco Di Mare. Nei giorni scorsi, con quanto accaduto a Jessica Morlacchi e Memo Remigi, il tg satirico di Canale 5 è tornato sul caso Di Mare. Peccato però che il direttore di Rai3 non abbia apprezzato il video in cui lo si vede palpeggiare l'ex collega Sonia Grey. E dopo aver ricevuto una denuncia, Striscia va direttamente dalla Grey. È Valerio Staffelli a consegnarle il Tapiro d’oro.
Il motivo? A detta di Di Mare lo avrebbe "molestato". Da qui la "palpatina" in studio alla sua co-conduttrice di Unomattina. "Palpatina" definita "un banale scherzo fra colleghi" in risposta alle ironiche "molestie" che – disse – "Sonia mi faceva ogni mattina". "Hai mai sentito in trent’anni di televisione che ho il vizietto di molestare? - replica lei nella puntata in onda lunedì 7 novembre -. Ti sembra che potessi arrivare in studio all’alba per preparare cinque, sei ore di diretta e andare a palpare tutti i giorni il signor Franco Di Mare?".
Da qui l'accusa: "Subivo davanti a tutti. Cercavo di sdrammatizzare, cosa potevo fare? Io giovane donna di spettacolo appena arrivata in Rai. Lui direttore, importante giornalista, tutti gli agganci ai piani alti. Sono stanca di essere tirata in ballo da Di Mare“.
Sonia Grey accusa Franco Di Mare di molestie. "Subivo tutti i giorni". La Repubblica l’8 Novembre 2022.
'Striscia' tira fuori un vecchio video di 'Unomattina' in cui il giornalista e la conduttrice si danno dei pizzicotti sul fondoschiena. Lui commenta: "Scherzi tra colleghi". Ma la showgirl: "Dovevo fare buon viso a cattivo gioco, ero solo una donna di spettacolo, lui aveva agganci ai piani alti"
"Non era affatto un gioco, non ho mai avuto il vizietto di molestare nessuno, possibile che Franco Di Mare non abbia altre motivazioni?". Sonia Grey commenta così le dichiarazioni con cui il giornalista e attuale direttore di Rai 3 aveva replicato a un video, mandato in onda da Striscia la notizia a pochi giorni dal caso Memo Remigi, protagonisti il giornalista e la showgirl a Unomattina, una edizione di alcuni anni fa, che si danno buffetti sul fondoschiena a vicenda. Di Mare, attualmente direttore di Rai 3, aveva parlato di uno "scherzo tra colleghi" ma Sonia Grey non la pensa così e chiarisce la propria posizione ai microfoni di Striscia che le ha consegnato un Tapiro d'oro.
"Mi sono stancata di questa ricostruzione distorta e mistificata dei rapporti fra me e Franco Di Mare e per questo ho già interessato il mio legale per decidere come procedere" ha scritto Sonia sul suo profilo social. E il post è stato pubblicato in concomitanza con la consegna del Tapiro". Quanto alla spiegazione fornita dal giornalista, "davvero Franco Di Mare non ha altre motivazioni? In trent’anni di carriera si è mai sentito che io, Sonia Grey, ho il vizietto di molestare qualcuno? Direi proprio di no - risponde la showgirl a Valerio Staffelli - Ti sembra che potessi arrivare in studio all’alba per preparare cinque, sei ore di diretta e andare a palpare tutti i giorni il signor Franco Di Mare? Appena vedi uno come Franco Di Mare ti devi trattenere perché c'hai l’impulso? Sono stanca. Ho sempre cercato di fare buon viso a cattivo gioco. Io donna di spettacolo, lui direttore, un importante giornalista di guerra con tutti gli agganci ai piani alti".
Grey aggiunge di aver provato a lungo imbarazzo, di aver cercato di fare buon viso a cattivo gioco ma "una volta ho fatto un errore e mi ha derisa per non so quanto. Io subivo davanti a tutti - aggiunge - alla fine lui era un uomo importante, io una giovane conduttrice appena arrivata in Rai". Perché abbia deciso di dirlo solo adesso? Perché, spiega, "ora sono uscita da quel contesto, faccio tutt’altro e quindi sono in tutt’altra posizione e poi perché sono stufa che questo signore continui a tirarmi in ballo, perché non si fa. Io penso che un uomo la debba smettere di toccare il sedere in pubblico a una donna, soprattutto quando le due posizioni sono così distanti".
Tra i primi commentatori, Salvo Sottile, che ha twittato: "Possibile che esistano ancora credenze mesozoiche secondo le quali toccare il c**o a una donna (per giunta in tv) è 'solo uno scherzo'? Ma che messaggio passa così? Che se scherzi puoi farlo? Io (anche) da telespettatore li trovo 'scherzi' di pessimo gusto".
Il caso del senatore. Molestie, questione troppo seria per il giornalismo italiano. Angela Azzaro su Il Riformista il 23 Settembre 2022
Più si legge sulla vicenda che vede coinvolto un senatore della Repubblica, più la questione – serissima – delle molestie e del potere che si esercita passa in secondo piano. Ciò che prevale non è tanto l’appurare i fatti, ma dare in pasto ai lettori, condita con pruderie e voyeurismo, una storia che avrebbe meritato ben altro rispetto. Sia che le accuse siano vere, sia che le accuse siano false prima di dare il risalto mediatico che in questo caso è stato dato andrebbero vagliate meglio, proprio nel rispetto di tutte le parti in causa. Garantismo? No, buon giornalismo.
Dal Metoo siamo state poste davanti a questo crinale: le sacrosante denunce da una parte, la strada della giustizia dall’altra e in mezzo la narrazione di giornali e tv. Lo abbiamo chiamato processo mediatico. Purtroppo questa logica, se all’inizio è riuscita a scalfire il muro di omertà, via via ha preso la piega della giustizia sommaria, dei processi di piazza e soprattutto delle speculazioni tese, non a denunciare un modello di società, ma a vendere e a fare audience. Le storie che abbiamo letto negli anni, persa la cornice dei diritti che le dovrebbe inquadrare, diventano macchine del fango che poi spesso si ritorcono contro le donne. Certo, non si deve tacere. È compito del mondo dell’informazione raccontare, approfondire, fare giornalismo d’inchiesta. Ma della vicenda di cui abbiamo letto in questi giorni sui giornali non convince prima di tutto il modo e i tempi in cui è stata resa nota. Se proponi il servizio pochi giorni prima delle elezioni diventa molto difficile che non si sollevi la questione di essere un attacco politico, per screditare le persone e i partiti coinvolti. E questo non fa il gioco di chi denuncia, ma semmai la rende meno credibile, meno autorevole.
Poi i fatti. Quelli che andrebbero trattati, sempre, con grande cura e attenzione perché nessuno dovrebbe usare il proprio mestiere per stimolare risposte di pancia, per aizzare la piazza, per chiedere di scagliare la prima pietra. Questo è vero per tanti ambiti della cronaca e della politica. Ma più che mai lo è per un tema così importante, in un Paese dove il numero di femminicidi è sempre altissimo. Dovremmo avere una cura maggiore. Dovremmo sapere che il cambiamento necessario passa in primo luogo dalla capacità che la politica, l’informazione, la cultura hanno nel costruire un discorso pubblico che non faccia nessuna concessione al voyeurismo e alla giustizia sommaria.
Tante intellettuali da anni ci avvertono di questi rischi e continuano a battersi contro le molestie. La scrittrice canadese Margaret Atwood (sta uscendo la quinta stagione della serie il Racconto dell’ancella tratta dal suo romanzo) lo ha detto molto bene: attente a non fare concessioni alla caccia alle streghe perché le streghe siamo e restiamo sempre noi. Lea Melandri, fin dall’esplodere del Metoo, ci aveva avvisate: si tratta di un fenomeno che tende a spettacolizzare il tema delle molestie e della violenza sulle donne. Rispetto al dibattito del passato, l’attenzione mediatica è scemata, ma quando se ne parla si cade sempre nelle stesse trappole e negli stessi stereotipi. Eppure bisogna continuare a denunciare, parlare, chiedere che la politica metta questo tema al centro della propria riflessione e delle proprie proposte. Non lo fa, purtroppo. Ma la strada della spettacolarizzazione, del guardare dal buco della serratura, non genera cambiamento. Non produce consapevolezza. Scrive solo una nuova brutta pagina di giornalismo.
Angela Azzaro. Vicedirettrice del Riformista, femminista, critica cinematografica
Totalitarismo extra-giudiziario. L’affaire Richetti non è un caso di presunte molestie, ma di dossieraggio a fin di bene. Carmelo Palma su L'Inkiesta il 22 Settembre 2022.
Nel tribunale parallelo dell’internet, le accuse al politico, maschio e di potere, diventano credibili (nonostante siano strampalate) proprio per il genere e il ruolo del presunto colpevole
Accettare di discutere del “caso Richetti” come di un episodio scabroso, sospeso del limbo di un futuribile e solo ipotetico accertamento giudiziario, significa di fatto accettare la legittimità della giurisdizione parallela del tribunale dell’Internet.
Di più, significa accettare che qualcuno, anzi chiunque possa essere rapito a mezzo stampa da un’Anonima Sequestri di ricattatori politicamente corretti e costretto a pagare il riscatto della resa e il pegno dell’obbedienza, in cambio della salvezza di quel che resta della vita privata, dopo la distruzione della reputazione pubblica. «Non sei un molestatore? Ma almeno ammetti di essere un porco?».
Soprattutto, accettare di parlare di questo caso con la bocca a culo di gallina dei progressisti doc – «La verità la decidono i giudici, però sono accuse gravi, Richetti deve fare chiarezza e non attaccare la donna che l’accusa» – significa accettare che il dossieraggio finto-femministico, che l’informazione dovrebbe denunciare, non propalare, sia qualcosa di diverso dal vecchio dossieraggio sessuale risciacquato nell’acqua santa dell’indignazione woke, di cui occorre dire che è una paranoia molesta, ma anche una straordinaria rendita mediatica per gli utilizzatori finali – i media, chi se no? – dell’eccitazione voyeuristica e del moralismo pecoreccio.
Per questo, di fronte a un boccone così succulento, come quello cucinato da Fanpage, smerciato sui menu di molta stampa e consegnato all’opinione volubile di amici e nemici, l’unica cosa politicamente e deontologicamente decente è di alzarsi da tavola e lasciare a ingozzarsi del fiero pasto i campioni del cannibalismo mediatico. E dire che quella sbobba è immangiabile e i suoi appetenti sono tossici. Non si tratta di fare gli schifiltosi, ma proprio di non volere e non volersi avvelenare. Non si tratta di non parlarne – infatti ne parlo – ma di parlarne per quello che è, cioè veleno.
Per chiunque faccia il mestiere o abbia l’hobby di scrivere delle cose della politica e del potere, domandarsi, fosse pure in interiore homine, se la storia raccontata sia vera oppure no, pur mancando un qualunque elemento in grado di distinguerla da un esercizio di political fiction, è un errore professionale, oltre che una colpa morale. Già rassegnarsi a percorrere il labirinto delle ombre disegnato dalla denuncia di una vittima senza volto a un carnefice senza nome (ma ovviamente riconoscibilissimo) è cadere nell’abisso della giustizia prêt-à-porter, con codici processuali e sostanziali alternativi a quelli che in uno stato di diritto, con una informazione responsabile, possono credibilmente inchiodare un molestatore o una calunniatrice alla responsabilità dell’abuso o della menzogna.
In un’Italia, in cui è ormai normale sostenere che la presunta innocenza di un accusato, di fronte a un’accusa non ancora dimostrata in giudizio, sia inversamente proporzionale alla gravità del reato e che l’onore della prova sia, per così dire, “a requisiti ridotti” quando c’è da mettere a posto un mafioso, un assassino o un molestatore, i reati sessuali provocano in modo particolare rigurgiti inquisitori. Non si può andare troppo per il sottile e l’accusato, soprattutto, deve stare al posto suo. Infatti, anche in questo caso, il fatto che Richetti abbia protestato la propria innocenza e accusato l’accusatrice di mendacio ha comportato un’ulteriore accusa di intimidazione e protervia maschilista nei suoi confronti. Come si permette di accusare chi l’accusa di un reato così orribile!
Però, anche questo fenomeno, cioè questa relativizzazione del principio di non colpevolezza è a valle del cedimento alla logica del delitto d’autore, per cui un uomo, a maggior ragione un uomo di potere, è sempre un potenziale molestatore o stupratore, come uno zingaro è sempre un potenziale ladro. Si può discutere, insomma, se e quanto la sua “potenza” diventi “atto”, ma non che rappresenti la sua più profonda e insidiosa identità. Così il politicamente corretto straborda nel razzismo e in quella sorta di totalitarismo penale extra-giudiziario del dossieraggio scandalistico a fin di bene, pedagogico e ovviamente dalla parte delle donne e contro il maschilismo cisgender.
Quindi la libera stampa non ha il diritto di indagare e raccontare vicende “sporche” per trarne la morale o per far luce sui delitti nascosti nelle oscure trame del potere? Sì, ma ne ha il diritto solo nella misura in cui ne porta anche la responsabilità, che è quella di tirare il sasso senza nascondere la mano, di far luce sulle vicende oscure, non di ingombrare tutto il cielo della politica con la coltre del sospetto, non di compravendere confessioni ricattatorie e avvertimenti a mezzo stampa, come quelli che l’accusatrice di Richetti – e da quel che dice, di mezza politica italiana – ha iniziato a lanciare da varie testate nazionali, che non sono né meglio né peggio di Fanpage e giocano al medesimo gioco magari pure convinte, oltre che di fare numeri importanti, di fare l’unico giornalismo possibile in questi tempi grami.
Mondo Gabibbo. Il senatore, la tizia-senza-nome e i tre giorni del condor che ci possiamo permettere. Guia Soncini su L'Inkiesta il 19 Settembre 2022
Che abbia ragione Richetti o la sconosciuta che lo accusa di molestie, quello che è certo è che abitiamo un tempo in cui la combinazione di esibizionismo e infantilismo rende verosimile anche ciò che appare del tutto implausibile
Questo è un articolo sui tre giorni del condor, ove per «condor» s’intende l’uccello che gli uomini non sanno evidentemente tenersi nelle mutande, e – data questa caratteristica intrinseca fornita loro dai gameti (assieme all’interesse per le partite di calcio e all’incapacità di distinguere il malva dal pervinca) – il fatto che a quel punto sia molto difficile giudicare un’accusa di molestie a meno che non si ragioni per slogan.
Se si ragiona per slogan è tutto più semplice: le donne non mentono mai (si vede che io sono un uomo), credete alle vittime, e altre amenità. Se si prova a ragionare è in genere impossibile sapere come sia andata (è quel che rende i reati sessuali così complicati da giudicare: è molto raro che ci siano prove inoppugnabili in un senso o nell’altro). Però si può osservare il contorno, che come spesso accade è assai più affascinante del resto.
Riassunto minimo della vicenda per chi, beato lui, vivesse nella capanna di Unabomber e non avesse passato il finesettimana a ricevere (e inviare) centinaia di messaggi sulla vicenda Matteo Richetti vs Tizia di cui non sappiamo il nome.
Giovedì sera Fanpage pubblica l’articolo apparentemente più insensato della storia del giornalismo (ma è lunedì e siamo ancora qui a parlarne, quindi avevano ragione loro). Una tizia di cui non si fa il nome accusa un senatore di cui non si fa il nome d’averla molestata, minacciata, e altre amenità. A corredo ci sono presunti messaggi del senatore: il nome e la foto profilo vengono cancellati dalle foto dei messaggi, ma non abbastanza accuratamente da non far ricevere a tutti noi, nella mattinata di venerdì, decine di messaggi che dicono «Pare sia Richetti». Questo nonostante nella prima versione dell’articolo, poi corretto, si dica che nel 2018 il molestatore recidivo era già nello stesso partito in cui è ora (Azione, che nel 2018 non esisteva).
Poi sui messaggi fotografati nell’articolo ci torniamo, ora passiamo a sabato mattina. Quando Carlo Calenda invia un po’ a chiunque la denuncia che Richetti ha presentato nel dicembre 2021 contro un’ignota. La denuncia, da lui inviata a chi si occupa d’informazione sembrandogli discolpante di Richetti, è un capolavoro di commedia all’italiana che immediatamente attira assai più l’attenzione degli sceneggiatori che dei cronisti.
Sono cinque pagine, tre delle quali consistono nella trascrizione d’un messaggio WhatsApp lungo come un romanzo breve, inviato a Richetti da una che egli dichiara di non sapere chi sia. La signora sembra però sapere benissimo chi è Richetti. Tra i momenti letterariamente migliori del messaggio, quello in cui definisce l’amante (presunta, se garantismo dev’essere) di Richetti «nana» e «mongoloide», e quelli in cui scrive «Amore», sempre e solo maiuscolo. C’è anche il passaggio in cui questa figura a metà tra Adèle Hugo e una bollitrice di conigli dice di sé «io sono un personaggio pubblico, mi conoscono tutti»; purtroppo ciò non rappresenta un indizio, nell’universo in cui siamo tutti famosi per quindici like.
Il direttore di Fanpage pubblica un secondo articolo (questa volta firmato da lui; il primo era firmato dal «team Backstair», giacché senso del ridicolo l’è morto) in cui si costerna s’indigna s’impegna, dice che Calenda ha pubblicato dati sensibili, che non è affatto detto che la tizia (anonima) della denuncia fatta da Richetti sia la stessa tizia (anonima) che hanno intervistato loro, ma non risponde alla domanda che tutti ci stiamo a quel punto facendo da due giorni: Fanpage ha verificato che i messaggi fotografati siano in effetti partiti dal telefono di Richetti? (Due anni fa Ben Smith scrisse sul New York Times un articolo pieno di dubbi sui riscontri e le verifiche fatti da Ronan Farrow, smanioso di scoop, nei suoi pezzi sul MeToo. Ma Ronan Farrow scrive sul New Yorker, e Fanpage è testata d’onore).
Il direttore non risponde alla domanda principale anche perché la curiosa posizione di Fanpage è: ma noi mica abbiamo detto sia Richetti. Curiosa fino a un certo punto, cioè il punto in cui Richetti annuncia una querela contro Fanpage, che a quel punto può replicare: sei tu che ti sei riconosciuto, mica noi che ti abbiamo accusato. (Se il New York Times e il New Yorker avessero pubblicato degli articoli in cui scansavano le querele omettendo il nome di Harvey Weinstein, non sarebbe mai esistito il MeToo).
Tutto il mondo è Gabibbo – le presunte vittime che invece di andare in commissariato vanno dalle testate scandalistiche, i politici che si twittano l’un l’altro «vergognati» – e quindi la domenica la passiamo a osservare lo spettacolo d’arte varia.
La Murgia che usa il solito trucco retorico delle donne che per forza non denunciano perché guarda come le aggrediscono poi (ove accusata di qualcosa che ritiene infondato, sono ragionevolmente certa che Michela Murgia se ne starebbe zitta e buona per non inficiare il diritto del querelante al monopolio delle versioni dei fatti).
Calenda che, nel ruolo di Vito Corleone, twitta teste di cavallo: «Conserviamo quanto hanno scritto non solo i giornali ma anche scrittrici e militanti di partito. A futura memoria di un Paese dove il giornalismo ha perso ogni etica».
Richetti che corregge il tiro e dice che sì, in effetti la tizia l’ha incontrata e sa chi è, e ha presentato ulteriori denunce per precisarlo. Quindi quella che gli scriveva cinquecento righe di recriminazioni sulla loro grande storia d’amore non aveva trovato il suo numero per caso: chi l’avrebbe mai detto.
Osserviamo lo spettacolo d’arte varia al centro della scena, che ci distrae da quel contorno che mi sembra invece molto più importante, se vogliamo capire non chi abbia torto e chi ragione nello specifico caso, ma come funzioni il tempo che abitiamo.
Gli screenshot nel pezzo di Fanpage sono di uno che scriverebbe, a una tizia che avrebbe molestato, che tanto lei non può denunciarlo perché lui ha l’immunità. Non distraetevi col dito del «non è tecnicamente vero»: guardate la luna del «ma chi è il coglione che lascerebbe una prova scritta del genere, nell’era dello screenshot e dell’inoltro?». La risposta è: chiunque.
La ragione per cui la prima reazione di tutti alla lettura di quell’articolo è stata «vabbè, ma allora è scemo» è che quell’incontinenza lì è perfettamente plausibile, nell’epoca in cui uomini politici si sono giocati carriere per aver mandato in giro foto del proprio uccello. È probabilmente anche la ragione per cui Fanpage ha preso per veri quei messaggi: che abitiamo l’epoca che unisce l’immanenza del non sapersi tenere l’uccello nei pantaloni a quella del non capire che non devi lasciare prove in giro.
S’instagrammano i rapinatori, cosa vuoi che abbiano discrezione quelli che non se lo tengono nelle mutande. Non esiste più l’inverosimiglianza. Nel 1992 Jeremy Irons incontrava per dieci secondi Juliette Binoche ed era immediatamente pronto a ferire a morte il figlio, con cui lei era fidanzata, e lasciare la moglie, perché scoparsela diveniva da subito la sua unica ossessione. Noi guardavamo “Il danno” sullo schermo del cinema e pensavamo: sì, vabbè, ma chi ci crede, sei un parlamentare cinquantenne, mica un dodicenne privo di lobi frontali.
Trent’anni dopo, leggiamo che un senatore italiano telefonerebbe a una tizia vista mezza volta singhiozzando «Non riesco a chiudere occhio senza di te, dobbiamo essere felici insieme», indistinguibile da un diciottenne senza inibizioni e raziocinio, e pensiamo che sì, magari verrà fuori che non è vero ma, nella tragica combinazione di esibizionismo e infantilismo che ci caratterizza, mica è inverosimile.
Il Grande Romanzo Italiano. Vi prego, date il premio Strega alla coppia Fittipaldi-Rogati. Guia Soncini su L'Inkiesta il 22 Settembre 2022.
Verso la fine di una campagna elettorale noiosetta è arrivato, inaspettato, il capolavoro. L’intervista su Domani della Mata Hari della Camilluccia tocca e supera i confini della letteratura e ci regala un momento di monomaniacalità condivisa che ci mancava da anni
Ci sono periodi in cui si vive (dovrei dire «si soffre», ma sarebbe insincero) di monomaniacalità condivisa. Sanremo. I mondiali di calcio. Quelle cose che devi proprio essere il tipo che mi-si-nota-di-più per piccarti di non seguirle.
Vorrei quindi farvi un elenco non esaustivo dei periodi di monomaniacalità condivisa della mia vita di lettrice, quelli in cui la mattina prestissimo compulsavo i giornali per leggere cosa scrivessero dell’ossessione stagionale, e per il resto del giorno con chiunque parlassi sapevo che aveva letto le stesse cose e stava seguendo gli stessi avvenimenti. I momenti in cui si congedava la cronaca, ed entrava la letteratura.
La settimana in cui morì Diana Spencer, e tutti gli editoriali erano dolenti, e L’Unità titolava «Scusaci, principessa», e tutti si contrivano sull’averla uccisa noi (ma noi chi? Ah, noi lettori di tabloid che le davamo da vivere), e poi arrivò Arbasino e scrisse che «la solita casalinga di buon senso continuerà a osservare noiosamente che chi si imbarca in una carriera regale – o monacale, o parlamentare, o didattica, o infermieristica, o camionistica – sa benissimo che cavoli si dovrà sobbarcare», e mancavano ancora ventiquattr’ore al funerale e improvvisamente capimmo la settimana di scemenza collettiva che avevamo attraversato.
La settimana in cui morì John Kennedy jr, e i giornali italiani proprio non riuscivano a capire chi fosse la sorella di lui e chi quella di lei, chi morta e chi viva, si confondevano tra le caroline, sbagliavano le vocali, e a Capri («Dov’eri quando finì il Novecento?» «A Capri per il weekend») in piazzetta ero l’unica italiana che arrivava all’edicola presto, tra americani che si facevano tradurre i giornali dai camerieri (abbiamo vissuto un tempo senza la Cnn sul telefono, e i camerieri saranno stati pure fluent ma ti facevano pagare un cappuccino diecimila lire).
L’estate in cui ogni mattina trovavo trascrizioni di «stamo a fa’ i froci col culo degli altri» e altre meraviglie per cui sembrava fosse tornata la stagione dell’oro del grande cinema italiano, e per fortuna ero in un albergo per ricchi dove se pretendevo i giornali all’alba non mi facevano pernacchie così quando arrivavano i primi sms che commentavano le intercettazioni di Stefano Ricucci ero preparata (abbiamo vissuto stagioni senza le foto degli articoli su WhatsApp, noi sì che siamo temprati dalle privazioni).
L’estate di Avetrana, quella che ci fece apparire le nostre famiglie tutto sommato normali e affettuose, quella che ci fece capire che quale grande omologazione, i brutti esistono ancora, i brutti e poveri, i fisiognomicamente proletari, quelli che ti pare non possano che essere cattivi; e quindi quella ragazzina potrebbero averla ammazzata tutti. L’estate seguita da un autunno a dire però hai visto la cugina com’è dimagrita, un po’ di galera farebbe bene anche a noi: oggi ci darebbero il 41 bis per body shaming.
L’autunno del MeToo, quando ogni mattina si correva sul sito del New York Times per scoprire se quel giorno avevano messo in mezzo un altro cretino che faceva l’elicottero con l’uccello davanti a tizie lì per lì allibite e che poi invece di raccontarlo ridendo alle amiche l’avrebbero raccontato contrite a un’intervistatrice; o se invece era il giorno in cui disseppellivano l’ultima molestia perpetrata da Harvey Weinstein: a un certo punto mancava praticamente solo la testimonianza postuma di Lauren Bacall.
L’estate in cui due turisti americani, non si capisce come e perché, ammazzano un carabiniere a Trastevere, e niente ma proprio niente in quella storia torna, ma ogni mattina ci sono nuove foto sempre più inimmaginabili fuori da un film di Fincher di questi ragazzetti che fanno i gradassi sui social, perché nel frattempo sono arrivati i social, e il lavoro dei giornali è diventato perlopiù recuperare dalle nostre bacheche i nostri esibizionismi scellerati.
E poi questa fine estate qui, quella della Rogati, o chiunque sia la tizia che secondo Fanpage sarebbe stata molestata da un senatore. Al cui proposito, ricevo da Striscia la notizia e integralmente trascrivo: «Gentile Guia Soncini, abbiamo letto la sua rubrica L’avvelenata del 19 settembre sulla questione Richetti/Fanpage. Tutto il mondo è Gabibbo, tranne il Gabibbo: la storia delle presunte molestie che coinvolge il senatore Richetti era stata proposta al Gabibbo mesi fa, ma dopo essersi consultato con il Tapiro d’oro, aveva deciso di non dare visibilità televisiva al caso. Siamo affranti per gli sviluppi della vicenda, perché pensavamo che con il Gabibbo si fosse toccato il fondo».
E poi questa fine estate qui, quella di Fittipaldi. Emiliano, ascoltami. Ti devo fare le mie scuse. Io non sapevo tu potessi diventare la mia brama del mattino. Io ti avevo sottovalutato. Io, fino a Lodovica Mairè Rogati, non sapevo che la Sharon Stone delle sciroccate fosse un personaggio che la letteratura italiana – dagli osservatori superficiali scambiata per cronaca, dagli osservatori paranoici scambiata per complotto politico – potesse produrre.
Diceva sempre Arbasino, in un altro articolo micidiale su Diana Spencer, che «in queste faccende, la psicologia delle masse è attentissima anche per istinto animale», ed è il battito animale che all’alba degli ultimi tre giorni ha fatto comparire sul mio telefono commenti agli articoli di Fittipaldi o richieste di foto degli stessi. Un amico a New York mette la sveglia apposta, credo, oppure mi chiede «ti prego mandami l’intervista» prima di andare a dormire, non so, fatto sta che tra le sette e le otto pretende la sua dose di letteratura fittipaldica.
Da quando voialtri a Domani (un giornale che nessuno di noi si era mai filato; certo, c’era Walter Siti, ma lo leggevamo con calma al pomeriggio: aveva a che fare con la riflessione intellettuale più che con l’istinto animale), da quando, dicevo, avete deciso di bullizzare quei poverini di Fanpage, da quando ogni giorno tu (posso darti del tu?), Emiliano, scrivi dieci cartelle che sono diventate il saluto al sole di tutti quelli che conosco, il risveglio è una meraviglia.
Ieri, poi. Ieri tutto si è azzerato. «Rossella O’Hara non era bella, ma gli uomini se ne accorgevano raramente allorché soggiogati dal suo fascino come i gemelli Tarleton». «Chiamatemi Ismaele». «È verità universalmente riconosciuta che uno scapolo facoltoso debba sentire il bisogno di prendere moglie». «Le città di notte contengono uomini che piangono nel sonno, poi dicono niente, non è niente». Tutti gli incipit della storia della letteratura come la conoscevamo fin qui, spazzati via da «Lodovica Mairè Rogati chiama in mattinata».
Ieri, la Mata Hari della Camilluccia parlava. Diceva cose meravigliose, completamente prive di lobi frontali (signora Rogati, è un’iperbole, non mi metta nella lista delle sue querele: ho capito in questi giorni che se le ritirasse tutte i tribunali italiani smetterebbero d’essere intasati). Se una ci prova il senatore mica si tira indietro. E secondo lei la Rogati [in terza persona, nota di Soncini; più volte, sempre nota di Soncini]. Aldo Moro era il padrino di battesimo di mia sorella. Federico Fellini mi ha vomitato sul tappeto.
I blog che si trovano in giro per l’internet, quelli in cui qualche cronista oggettivo che sicuramente non è la Rogati stessa scrive cronache della vita della Rogati in cui ella viene definita come minimo «la bellissima» e si racconta che gli uomini tentano il suicidio per lei, quei blog sono niente in confronto a un’intervista in cui Lodovica Rogati nel ruolo di Lodovica Rogati parla con aggettivi altrettanto alati di una tizia che chiama «la Rogati».
Credevamo che la letteratura fosse morta, credevamo che la campagna elettorale fosse noiosissima, poi è arrivato il capolavoro. Se al prossimo Strega non premiate come coautori del Grande Romanzo Italiano coloro che hanno creato la nostra monomaniacalità di fine estate (e inizio autunno: vi prego, mica vorrete farla finire) 2022, non so proprio cosa organizziate dei premi letterari a fare. Già me li vedo: Lodovica fa il discorso, Emiliano ingolla il liquore. La letteratura è viva, viva la letteratura.
Caccia al nero. Così le trasmissioni populiste costruiscono le notizie sensazionalistiche. L'Inkiesta il 22 Settembre 2022.
Il libro, edito da Chiarelettere, svela i retroscena della propaganda mediatica di destra. L‘autore è un giornalista che ha lavorato al suo interno per anni e che ha deciso di restare anonimo
«Ma qui dentro bisognerebbe buttarci una bomba, cazzo. Mica lavorarci!»
Per un attimo, finalmente, potei godermi il suono limpido della mia voce. Fu una sensazione piacevole, di autentica liberazione. Eravamo in una saletta di montaggio, nel cuore degli uffici televisivi, ma con la porta chiusa dal di dentro.
Manuel si mise a ridacchiare. «Bisognerebbe» concordò, «bisognerebbe…»
Manuel era un giovane montatore assunto con contratto a tempo indeterminato, il che faceva di lui una persona felice. Era nato in Spagna da padre asturiano e madre giamaicana, era mulatto e portava i dread come Bob Marley. Perciò gli volli subito bene. Mi confidò che un suo bisnonno aveva partecipato alla grande rivolta di Oviedo del 1934, quando i minatori avevano preso a fucilate la borghesia in nome del soviet universale. Erano cose che avevo letto sui libri di storia, e a sentirle raccontare lì mi vennero i brividi lungo la schiena. Certo, se la nostra televisione fosse esistita nel 1934, noi saremmo stati tra quelli che si sarebbero presi delle giuste schioppettate.
Manuel era decisamente di sinistra, ma era una di quelle persone che pretendevano di poter scindere la vita lavorativa dalle proprie convinzioni personali. Faceva ciò che gli veniva chiesto, gli sembrava corretto così e tutto filava liscio. Era senza dubbio un gran lavoratore.
Quel giorno mi mostrò alcuni degli ultimi servizi che aveva montato. Uno in particolare mi lasciò di stucco. Era stato girato in un quartiere multietnico di una grande città del Sud Italia. Il giornalista, con la troupe al seguito, si intrufolava in un caseggiato fatiscente, dove alcuni anziani si lamentavano della presenza degli immigrati e della sporcizia. La telecamera indugiava a lungo sui cumuli di spazzatura sparsi nel cortile, poi il reporter iniziava a braccare gli extracomunitari. Li inseguiva fin sulla soglia degli appartamenti, gridando loro domande idiote sullo spaccio di droga e altre presunte attività illecite.
«Questa la chiamiamo musica tensiva» mi informò Manuel stoppando il servizio.
«Eh?»
«Musica tensiva. Serve a sottolineare la drammaticità del pezzo. Qui da noi la usiamo parecchio».
Era la stessa musica inserita nel mio servizio sul reddito di cittadinanza, e somigliava molto a quella che avevo notato nel servizio sui minimarket asiatici del collega Tizio. Evidentemente li producevano tutti con lo stampino.
«Ma che c’è di drammatico in questa roba? Voglio dire, ci sono quattro vecchi razzisti, un po’ di pattume in un cortile e un tizio che tampina la gente su per le scale».
Manuel scoppiò a ridere. «E tu non sai che fatica trovare gli unici quattro razzisti del circondario! Quello lì è un quartiere di compagni, tutta gente per bene. Su dieci interviste abbiamo dovuto buttarne via otto, cazzo. È stato un bordello che non ti immagini».
«E perché?»
«Ma perché la gente difendeva gli immigrati, ovviamente. Il giornalista ha dovuto girare come un matto, con Ginevra impazzita che lo chiamava ogni cinque minuti. Era il servizio d’apertura della puntata, mica poteva saltare».
«E quelle altre voci? Le avete cestinate tutte?»
La mia domanda dovette suonare piuttosto ingenua, perché Manuel mi lanciò uno sguardaccio a metà tra il sorpreso e l’impietosito.
«Ma tu hai capito che televisione facciamo qui?» chiese secco.
«Be’, grosso modo…»
«Questa è televisione politica» sbottò. «Noi cavalchiamo l’elettorato di destra. Gli immigrati sono cattivi, gli zingari rubano e il sindacato si frega i soldi pubblici. La gente che ci guarda questo vuole, e noi questo le diamo».
«Ma è uno schifo» mi lasciai sfuggire.
«E lo dici a me, cazzo, che sono pure mezzo negro?»
Ben presto scoprii che quasi tutti i montatori erano come Manuel, e anche molti tecnici e persino qualche giornalista. Ovviamente non credevano a una virgola di ciò che facevano: crederci sarebbe stato da folli, vedendo ciò che accadeva nel dietro le quinte. Lo facevano e basta, con lo stesso grado di coinvolgimento emotivo di un operaio mentre aziona la pressa. La loro era una forma di sopravvivenza mentale, e il fatto che fosse dichiarata e condivisa rendeva il tutto molto più semplice.
Manuel mi spiegò poi alcune altre cose che dovevo sapere.
Ad esempio la questione delle piazze. Il nostro era un programma che pretendeva di parlare al popolo – qualsiasi cosa ciò volesse dire –, perciò venivano allestite le piazze. C’era un giornalista in diretta e attorno a lui alcuni cittadini ai quali veniva data la parola durante i collegamenti con lo studio. I cittadini erano sempre più o meno incazzati, e in genere prendevano a male parole i politici ospiti della puntata. L’effetto era notevole, sembrava che alla gente comune venisse finalmente data la possibilità di spernacchiare il potente di turno. Di fatto, i confronti con le piazze erano tra i momenti più seguiti dell’intera trasmissione.
«Capirai, è tutto costruito a tavolino» sbuffò Manuel armeggiando col mouse.
«Cioè?»
«Le persone vengono selezionate una per una. Sanno già cosa devono dire, e pure quando».
«Intendi che sono degli attori?»
«Ma no, che attori!» saltò su d’improvviso. «Qui non ci sono attori! La gente è tutta vera, naturalmente. Ma ti pare?»
Ancora una volta Manuel sembrò quasi offeso. Stava sulla difensiva, come se le mie domande avessero il potere di sminuirlo personalmente agli occhi del mondo.
Per un attimo mi fece tenerezza: era chiaro che simili conversazioni gli costavano parecchia fatica.
«Supponiamo» continuò «che ci sia da mettere su una piazza contro l’aumento delle tasse. Hanno un politico di sinistra in studio ed è appena andato in onda un bel servizio commovente su qualche imprenditore del cazzo tartassato dal fisco. Mi segui? Be’, a questo punto ci vuole la piazza. E che fanno? Tirano fuori le loro agende e chiamano un bel po’ di associazioni di negozianti. Si fanno mettere in contatto con i tizi più incazzati, quelli che per pagare le tasse non hanno potuto far operare la madre morente, roba così. Li briffano uno a uno e li convocano nello stesso posto. Poi funziona come un set, con quelli dietro le quinte che danno la parola prima a uno e dopo all’altro, a seconda di cosa va detto. Conclusione: il politico in studio riceve un bel po’ di merda, e come vedi è tutta merda vera».
«Diciamo vera, sì, ma accuratamente selezionata» azzardai.
«Bravo! Cazzo, è questo il punto, no? Perché mentire, quando puoi selezionare le verità che ti piacciono di più?»
Era un principio che si stava riproponendo con una certa frequenza, dovevo appuntarmelo da qualche parte. Manuel scoppiò in una gran risata. Avevamo scoperto l’uovo di Colombo, e la cosa sembrava divertirlo da matti.
Che le piazze funzionassero proprio in quel modo me lo avrebbe confermato direttamente chi le organizzava. Era un gruppo di tre o quattro ragazzi, tutti decisamente in gamba, con un gran pelo sullo stomaco e un immenso bacino di contatti. Erano capaci, nel giro di pochissimo tempo, di mettere in piedi qualsiasi genere di platea addomesticata: professionisti rimasti senza lavoro, comitati anti-immigrazione, cittadini imbufaliti contro il degrado, nazivegani, fondamentalisti cattolici, disoccupati, cassintegrati. Facevano una vita d’inferno, tra sfilze di telefonate e logoranti trasferte in giro per l’Italia. Il copione di puntata era la loro Bibbia quotidiana. Il successo della trasmissione gravava in buona parte sulle loro spalle.
Marco era uno dei veterani del gruppo. Lo conobbi all’uscita dalla mensa. Come tutti lì dentro, aveva un fare straordinariamente simpatico. Sapeva chi ero perché aveva visto il mio primo servizio in tv, e subito mi invitò a prendere un caffè.
«Tu sei quello nuovo, eh?» esordì allungandomi le bustine dello zucchero. Anch’io sapevo chi era lui, Manuel me ne aveva parlato almeno venti volte. Sapevo che si era laureato in Scienze della comunicazione ma non era mai riuscito a diventare giornalista. Ogni tanto scriveva articoletti di costume per qualche testata online, spesso firmandosi con uno pseudonimo. Era un grande appassionato di storia della televisione e di cultura nazionalpopolare. Amava intervistare le vecchie glorie del tubo catodico, di cui conosceva vita, morte, miracoli e un infinito numero di aneddoti. Non scriveva per niente male, mi aveva assicurato Manuel, ma era anche ben conscio del fatto che campare di quella roba era praticamente impossibile. Perciò era finito a fare ciò che faceva.
«Sei finito dentro il più grande bordello della televisione italiana» sorrise. Era la stessa cosa che mi ripetevano quasi tutti, Marco però lo disse con un tono particolarmente compiaciuto. Gli risposi che per il momento stavo solo cercando di ambientarmi e di capire come giravano le cose. Lui continuò a sorridere e a fissarmi negli occhi, con l’aria di chi la sa molto lunga. «Mi hanno detto che ti occupi delle piazze» sorrisi a mia volta. «Già, la rogna peggiore di tutte. E che ti hanno detto delle piazze?» «Be’, che è un gran casino».
Non avevo intenzione di sbilanciarmi più di tanto. A differenza di Manuel, Marco non mi ispirava alcuna simpatia. Doveva avere circa la mia età, ma dimostrava almeno dieci anni in più. Aveva il culo basso, i capelli radi e un paio di occhiali dalla montatura dorata e sottile, decisamente fuori moda. Forse neppure lui era di destra, ma doveva essere una di quelle persone che, dopo aver chiuso la porta di casa, se ne fregano di tutto ciò che accade nel mondo.
«Un gran casino, sì» annuì Marco. «Ma calcola che senza le piazze non saremmo il programma che siamo. La gente devi farla sentire protagonista, non ci sono cazzi. Se no stai a fare il solito salotto di sinistra, con Landini, Cacciari e altri personaggi del genere. La gente è incazzata, no? La gente vuole dire la sua e noi le diamo la possibilità di farlo».
Poi iniziò a parlarmi del suo lavoro. Scoprii che Manuel non aveva affatto esagerato: Marco e i suoi colleghi erano innanzitutto degli ottimi sceneggiatori, in grado di selezionare qualsiasi categoria umana e di ridurla forzatamente al cliché di sé stessa.
«Il grosso lo fai con le telefonate. Devi capire in un attimo chi ti trovi di fronte. Devi capire se è “parlante”, come diciamo noi, cioè se funziona bene davanti alla telecamera. Quelli che parlano lentamente li scarti subito. Scarti anche quelli che tendono ad aprire mille parentesi, o che parlano il politichese e cose del genere. È tutta gente che non va bene. Devono saper esprimere un concetto chiaro, preciso, senza andare troppo in profondità nelle cose. È il popolo, no? Il popolo dice pane al pane e vino al vino, senza fronzoli, come direbbe mia nonna. È questo che ci piace.»
Marco non faceva giornalismo, faceva spettacolo. Il fatto che la realtà potesse spesso rivelarsi complessa sembrava esulare dalle sue preoccupazioni. L’importante era che A dicesse A, B dicesse B e C, se non aveva nulla di chiaro da dire, se ne stesse zitto.
«A volte facciamo fare dei cartelli» mi spiegò. «Anche quelli devono contenere messaggi semplici. Che so? “Basta tasse”, oppure “No all’immigrazione”. La gente deve mostrarli durante le dirette. Poi viene stabilita una scaletta degli interventi. Tizio deve dire questo e questo, Caio questo e quest’altro. Il giornalista si limita a far girare il microfono, ma siamo noi che selezioniamo le storie e decidiamo quali mandare in onda».
Guardai Marco, con quella sua faccia un po’ sfigata da vecchio topo di videoteca, e d’improvviso mi venne in mente il passaggio di un libro che avevo letto tanti anni prima: l’autobiografia di Victor Serge. Quella sera sarei andato a ripescarlo e avrei scovato di nuovo il brano che mi interessava.
Dopo essersi scontrato con Stalin, Serge aveva dovuto abbandonare l’Unione Sovietica ed era tornato in Europa occidentale. Con lui c’era il figlio adolescente, che era cresciuto nel mito della Rivoluzione russa e per la prima volta metteva piede in un paese capitalista. I due erano a passeggio nel centro di Bruxelles e si fermarono di fronte a un negozio di scarpe.
«Allora, questa grande costruzione appartiene a un uomo che può farne ciò che vuole?» chiese il ragazzo.
«Sì, il suo nome è scritto sull’insegna» rispose Serge.
«Questo signore ha probabilmente una fabbrica, una casa di campagna, delle automobili.»
«Per lui solo?»
«Insomma, sì…»
Al giovane sovietico dovette sembrare folle. «Ma per cosa vive quell’uomo? Qual è lo scopo della sua vita?» chiese.
Era una domanda meravigliosa, e io ora la riflettevo su Marco: per cosa viveva quell’uomo? Qual era lo scopo della sua vita? Intanto il bar si era ormai svuotato. Finita la pausa pranzo, quasi tutti i dipendenti del gruppo erano tornati nelle rispettive redazioni. I nostri discorsi riecheggiavano nel silenzio, di fronte al bancone sgombro, mentre i camerieri, in bustina bianca con il logo aziendale ricamato all’altezza della fronte, rimettevano diligentemente a posto tazze e tazzine.
Mi chiesi se avessero origliato qualcosa, che ne pensassero e se si fossero fatti anche loro delle domande su di noi. Ma dalla gentilezza affettata con cui ci sorrisero al momento di pagare dedussi che in fondo non doveva fregargliene granché.
Andati in scena i vizi della sinistra. Tredici interminabili minuti di puro delirio. Tutto in diretta sulla tv di Stato e quindi tutto gentilmente offerto dai contribuenti. Francesco Maria Del Vigo il 21 Settembre 2022 su Il Giornale.
Tredici interminabili minuti di puro delirio. Tutto in diretta sulla tv di Stato e quindi tutto gentilmente offerto dai contribuenti. A sei giorni dal voto Marco Damilano, ex direttore dell'Espresso prontamente arruolato da viale Mazzini con un lauto stipendio, ha pensato bene di ospitare nella sua striscia quotidiana il filosofo francese Bernard-Henry Lèvy, più noto per la chioma grigia artatamente scarmigliata che per la materia (del medesimo colore) sottostante e, da ieri, celebre anche per essere riuscito a infilare un numero enciclopedico di idiozie e insulti in un arco temporale così breve. Ah, un dettaglio non da poco: tutto questo negli ultimi, delicatissimi, giorni di campagna elettorale.
Per il sofisticato intellettuale Salvini è «patetico» e «ridicolo», ma soprattutto è un traditore della patria che tresca con Putin. Ovviamente tutto sostenuto senza lo straccio di una prova e senza un contraddittorio, anzi con l'opera di vassallaggio del conduttore. Ne ha per tutto il centrodestra: la Meloni - dice lui - non la conosce, ma per sicurezza la insulta comunque; Berlusconi è una sua vecchia ossessione e non perde certamente questa occasione per attaccarlo. Ma soprattutto se la prende con quell'aggeggio fastidioso e plebeo che si chiama democrazia. L'intellettuale - più bilioso e stizzito del solito - lo dice chiaramente: l'elettorato non va sempre rispettato. O meglio, va rispettato solo quando rispetta le regole: cioè svolta a sinistra. Altrimenti merita lo sdegno altezzoso di Levy che, per infiocchettare il delirio, ricorda come Mussolini, Hitler e Putin abbiano vinto le elezioni. Il paragone è talmente folle che il conduttore chiede coraggiosamente «il permesso di dissentire almeno sul suffragio universale». Eh, almeno su quello...
Però, tutto sommato, dobbiamo ringraziare Bhl (lui ama farsi chiamare così). La puntata di lunedì del «Cavallo e la torre» è stata un formidabile affresco dei vizi della sinistra più insopportabile e radical chic: snobismo, superficialità di analisi, disprezzo del popolo e della democrazia, odio antropologico nei confronti di tutto quello che gravita al di fuori del salotto della propria abitazione. Un mix, talmente esplosivo, di fronte al quale la piccineria del giornalista che non vede l'ora di far sputtanare l'Italia dal filosofo straniero diventa un peccato veniale. Il problema è che queste pagliacciate le paghiamo noi, cornuti e mazziati, che versiamo il canone per farci insultare. E, per favore, non parlate mai più di par condicio: ieri la Rai la ha fatta esplodere definitivamente.
"Puntata a senso unico", "Dimissioni": bufera in Rai per il caso Damilano. L'intervista al filosofo francese Bernard Henri Lévy su Rai Tre diventa un caso politico. La Lega chiede le dimissioni dell'ad Carlo Fuortes, Fdi invoca l'Agcom. L'Usigrai: "Puntata a senso unico a una settimana dalle elezioni". Alessandra Benignetti il 21 Settembre 2022 su Il Giornale.
"Salvini patetico e ridicolo, un personaggio di una debolezza straordinaria". E ancora: "L’Italia è la culla dell’idea repubblicana e merita di meglio di Salvini, Meloni e Berlusconi". Poi, il paragone con i regimi autoritari e il giudizio sul voto popolare: "Non bisogna rispettare l’elettorato, quando gli elettori portano al potere Mussolini, Hitler o Putin la loro scelta non va rispettata". L’intervista dell’ex direttore dell’Espresso Marco Damilano al filosofo francese Bernard Henri Lévy, andata in onda ieri su Rai Tre durante la trasmissione Il Cavallo e la Torre, è già diventata un caso.
La protesta dell'Usigrai
Un caso politico e un caso anche ai piani alti di viale Mazzini, visto che, a cinque giorni dalle elezioni politiche, il fatto che la striscia di approfondimento serale del terzo canale del servizio pubblico abbia mandato in onda quindici minuti di insulti verso i partiti di centrodestra e i loro elettori senza contraddittorio non è passato inosservato. A protestare è il sindacato Usigrai che parla di "puntata a senso unico". "Il pluralismo nel servizio pubblico – osserva l’organizzazione - deve applicarsi anche alle trasmissioni di rete come Il Cavallo e la Torre. E pensare che il conduttore, scelto all'esterno dell'azienda nonostante si potesse contare fra quasi 2000 profili interni, era stato presentato dall'Ad Carlo Fuortes come ‘il giornalista più adeguato’ per ‘informare, intrattenere, fornire strumenti conoscitivi, restando fedeli al sistema di valori aperto e pluralista che il nostro Paese e l'Europa hanno saputo sviluppare in questi decenni’".
Damilano sotto accusa
"Ci chiediamo dove fosse il valore del pluralismo nella puntata di ieri", protesta il sindacato. Le stesse considerazioni vengono fatte dal senatore di Forza Italia, Alberto Barachini, presidente della Commissione di Vigilanza Rai. Quanto accaduto durante la trasmissione di Damilano, spiega il parlamentare azzurro, "ha rappresenta una palese, plurima violazione della normativa sulla par condicio, in spregio dei basilari principi di pluralismo, imparzialità ed equilibrio che devono orientare il servizio pubblico". Quello del filosofo francese di origini algerine, incalza, è stato un "lungo e violento monologo diretto ad alcuni soggetti politici" e "un grave attacco contro la democrazia italiana, rappresentata come un Paese esposto a derive autoritarie e anticostituzionali".
A far discutere è anche l’atteggiamento del giornalista che, fa notare Barachini, "non solo è stato incapace di arginare la violenza verbale del suo ospite in piena par condicio e di riequilibrare l'evidente faziosità dello stesso, ma ha contribuito alla distorsione del dibattito con la sua premessa e con domande tendenziose". A protestare è anche Lettera22, un’altra associazione di categoria che accusa Damilano di non aver "minimamente arginato l'attacco veemente del filosofo francese, neanche quando è arrivato ad affermare che in alcuni casi, cioè quando il voto non corrisponde alle sue preferenze politiche, bisognerebbe abolire la democrazia".
La Lega chiede le dimissioni di Fuortes
Parallelamente, si infiamma la polemica politica. "Sulla Rai c’è stato un comizio di Damilano, pagato mille euro a puntata, contro la Lega. Vi sembra normale in un servizio pubblico percepire mille euro a puntata? Un operaio li vede in un mese, non in dieci minuti la sera su Rai3. È normale che lo paghino gli italiani? I comizi se li paga chi fa i comizi", aveva protestato stamattina Matteo Salvini ai microfoni di Radio Anch’io. E ora i parlamentari della Lega chiedono le dimissioni immediate dell’ad Carlo Fuortes.
"Pluralismo, imparzialità ed equilibrio del servizio pubblico radiotelevisivo sono stati sfregiati ripetutamente e senza ritegno. Tutto questo, a pochi giorni dal voto. Inaccettabile e imperdonabile in una democrazia", tuona il vicesegretario della Lega, Lorenzo Fontana. A chiedere un passo indietro all’amministratore delegato sono anche i deputati Luca Toccalini ed Elena Maccanti, quest’ultima componente della commissione di vigilanza Rai, il senatore Alberto Bagnai e il vice ministro alle Infrastrutture, Alessandro Morelli.
Fdi: "Ora intervenga l'Agcom"
"Il servizio pubblico italiano ospita (o paga? La domanda è ufficiale) uno scrittore francese - noto qui per aver difeso il pluriomicida terrorista comunista Cesare Battisti dall'ipotesi di estradizione - per spiegarci in due minuti l'idea di democrazia della sinistra e per paragonare un'Italia a guida centrodestra ai peggiori regimi. Consiglio di ascoltarlo, è illuminante. Se invece non vi va, sintetizzo in poche parole: se gli italiani - votando - scelgono Fratelli d'Italia o la Lega non vanno rispettati. Sipario", ha scritto Giorgia Meloni sulla sua pagina Facebook pubblicando il video della "lezione di democrazia" di BHL.
Diversi esponenti di Fratelli d’Italia, tra cui Daniela Santanché, invocano l’intervento dell’Agcom, mentre il vicepresidente della Camera, Fabio Rampelli, dello stesso partito commenta laconico: "In piena campagna elettorale un filosofo socialista francese ospitato in una trasmissione del servizio pubblico ci viene a dire che la democrazia non conta niente. È un paradosso? No è la Rai".
Rai, è bufera sul comizio anti destra. Damilano e Henri Lévy sparano contro Meloni e Salvini. La Lega: Fuortes si dimetta. Laura Rio il 21 Settembre 2022 su Il Giornale.
A furia di cavalcare cavalli imbizzarriti, Marco Damilano ne è stato travolto. L'ospitata di lunedì sera del filosofo francese Bernard-Henri Lévy potrà costare cara al giornalista planato in Rai da La7 per realizzare la striscia quotidiana su Raitre Il cavallo e la torre. Una raffica di reazioni indignate e polemiche di tutto lo schieramento di centro destra, del sindacato giornalisti Rai e della Vigilanza parlamentare per le parole durissime usate dall'intellettuale «liberale» contro Meloni, Salvini e Berlusconi. Una rivolta che arriva a chiedere da parte di molti esponenti leghisti le dimissioni dell'amministratore delegato Rai Carlo Fuortes. E, stavolta, da questo guaio non ne uscirà facilmente.
In sostanza Lévy ha sostenuto che in Italia sarebbe in arrivo una ventata di fascismo che va fermato, che il suffragio può non essere rispettato se il voto è sbagliato, che il leader della Lega è «patetico e ridicolo», un «traditore della patria» e che è stata una «ignominia» il suo viaggio in Russia. Damilano ha cercato blandamente di chiarire che queste sono idee del filosofo d'Oltralpe e di dissentire dalle sue affermazioni sul rispetto del voto popolare, non abbastanza però per fermare la valanga di contestazioni. Soprattutto perché siamo a pochi giorni dal voto e nella trasmissione non c'era possibilità (non è previsto) di contraddittorio. E, per rimediare, ieri sera, ha invitato Giovanni Orsina, politologo, docente alla Luiss, per fargli dire che, naturalmente, non c'è pericolo di fascismo in Italia e che è anti producente gridare «al lupo al lupo». Ma non gli servirà per far dimenticare Lévy.
«L'Italia merita più di Salvini, Meloni o Berlusconi - aveva detto nello specifico il filosofo francese - . C'è una tentazione fascista in Europa e in particolare nei prossimi giorni in Italia. Quando gli elettori portano al potere Mussolini, Hitler o Putin la loro scelta non è rispettabile. Un fascista che arriva alle urne non si converte automaticamente in democratico». Alla domanda sulle responsabilità dell'élite europea e della sinistra per «aver lasciato dilagare il populismo nelle periferie», il filosofo aveva replicato: «Ma smettiamola. È colpa dei tecnici europei se Salvini va segretamente a Mosca e negozia il futuro dell'Italia nel retro bottega con inviati dell'ambasciata russa?».
La reazione della Meloni è lapidaria: «Il servizio pubblico italiano ospita (o paga?) uno scrittore francese noto per aver difeso un terrorista come Cesare Battisti per paragonare l'Italia ai peggiori regimi. Consiglio di ascoltarlo, è illuminante». Tradotto: fa il gioco dei suoi avversari portandogli voti.
Salvini ne approfitta per ribadire che bisogna cancellare il canone Rai, come già fatto a Pontida domenica: «È normale che gli italiani paghino uno mille euro a puntata (per dieci minuti) per fare un comizio contro la Lega?».
Il presidente della Commissione vigilanza Rai, Alberto Barachini, fa notare che «quanto accaduto nella trasmissione rappresenta una palese, plurima violazione della par condicio, in spregio dei basilari principi di pluralismo, imparzialità ed equilibrio che devono orientare il servizio pubblico». Inoltre «il conduttore non solo è stato incapace di arginare la violenza verbale del suo ospite, ma ha contribuito alla distorsione con domande tendenziose». Anche l'Usigrai, il sindaco aziendale dei giornalisti, ha reagito con fermezza: «E pensare - scrive - che Damilano, scelto dall'esterno, era stato presentato da Fuortes come il giornalista più adeguato per informare, intrattenere e fornire strumenti conoscitivi restando fedeli al pluralismo...». Insomma, l'ex direttore dell'Espresso (contrattualizzato in Rai poco dopo essere uscito dal settimanale) è rimasto vittima di se stesso e delle sue ideologie e di una pressione fortissima dal primo annuncio dello sbarco nella tv di Stato. Ora si vedrà come questo passo falso segnerà il suo futuro in azienda. E, soprattutto, come ne uscirà l'ad Carlo Fuortes il cui destino, in caso di vittoria del centrodestra, è segnato. Al galoppo fuori dalla Rai.
Da corriere.it il 24 settembre 2022.
Rissa in diretta a «L’aria che tira» su La7 tra Luca Telese e Alessandro Sallusti. Mentre il direttore di Libero stava parlando Telese lo ha interrotto mandandolo su tutte le furie: «Ma basta! Ma vuoi stare zitto? Io t’ho interrotto? Smettila di essere quello che sei! E che caspita! Fai demagogia, coi comunisti non si può parlare!» ha detto uno scatenato Sallusti prima di abbandonare il collegamento con la trasmissione
Meloni, "Domani" in lutto: la clamorosa rosicata di De Benedetti in prima pagina. Libero Quotidiano il 26 settembre 2022
Il giornale Domani è a lutto. Sulla prima pagina del quotidiano edito da Carlo De Benedetti campeggia un disegno realizzato da Marinella Nardi di Giorgia Meloni in una espressione tra il severo e l'antipatico. Un ritratto inquietante sotto il quale c'è il titolo: "Siamo davvero pronti?", "per vincere ha cercato di rassicurare ma non c'è nulla di rassicurante".
L'editoriale di Curzio Maltese è titolato "In attesa del nuovo governo - Ci tocca già rimpiangere l'Italia di Mario Draghi", un articolo di nostalgia pura per l'ex premier. In un passaggio, si legge: "Draghi ha tracciato un sentiero fondamentale per il nostro paese che alcuni leader proveranno a ripercorrere, anche se lui non ci sarà più a guidarli. Per nostra fortuna, continuerà ad avere un ruolo importante in Europa. Giorgia Meloni ha già detto che batterà i pugni sul tavolo e che 'la pacchia è finita'. Con tutte le crisi che attraversano l'Italia e l'Europa, la presidente di Fratelli d'Italia crede di poter fare la voce grossa. La verità è che avrà difficoltà molto serie a governare".
E ancora: "La scuola italiana cade a pezzi; il paese non ha una strategia per contrastare la crisi climatica; l'immigrazione è un problema serio che la destra pensa di affrontare con i blocchi navali. Figurarsi cosa potrà fare Meloni sul gas con i governi europei. Una leader che ha deciso di non togliere la fiamma dal suo simbolo e che fatica a frenare i suoi militanti nel fare il saluto romano, non ha nessuna credibilità per essere forte nel continente". E conclude: "Sarà un ottobre freddo e buio"
Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 25 settembre 2022.
Vorrei essere governato da una persona che non dà del tu a Barbara D'Urso (ce n'era uno, l'hanno disarcionato). Sarà difficile, perché i leader dei partiti che sono andati nel salotto della D'Urso si sono abbandonati, senza distinzioni, a toni confidenziali, si sono lasciati cullare dal suo tono intimistico, hanno sorriso complici alle sue domande: «Sì, però scusami presidente», «Dicci la verità», «Dimmi, dimmi», «Scusami se mi permetto», «Fai un appello, segretario».
Non è il caso di fare gli schizzinosi o appellarsi a una presunta grammatica politica. D'Urso fa il suo mestiere e lo fa anche bene: esige che l'ospite si rivolga alla sua spettatrice ideale, «la comare Cozzolino di Laurenzana», versione in minore della casalinga di Voghera. Il tu confidenziale diventa così una visione della vita, una morale.
Quando la politica insegue la tv (con l'apporto dei social) succede che anche la politica si trasformi nel trash più collaudato. Come abbiamo potuto constatare in questi anni, il travaso dal populismo televisivo a quello politico è stato immediato e devastante e i programmi che coltivano il populismo e la sua rivalsa sono ormai tanti. Purtroppo, non si governa con il «live sentiment» né con il tu. Si governa solo con il lei, con il senso di responsabilità nei confronti dei problemi reali.
Da iltempo.it il 24 settembre 2022.
Non finisce bene l’intervista di Enrico Mentana a Marco Rizzo. A due giorni dalle elezioni del 25 settembre il giornalista e direttore del Tg di La7 ospita i leader della politica per un faccia a faccia e quello con il fondatore di Italia Sovrana e Popolare scatena un parapiglia e una pesante lite nel corso della puntata de L’ultima parola. A scatenare la rissa è una battuta al veleno di Rizzo:
“È la prima volta che vengo invitato da lei e dal Tg di La7 prima delle elezioni e sono qui solo perché lo prevede la legge”. Mentana non ci sta: “Non lo prevede la legge e comunque lei è stato invitato varie volte nei programmi di La7”.
Da la7.it il 24 settembre 2022.
Giuseppe Conte: "Abbiamo studiato questa riforma, gliela dico qui in anteprima". La battuta del Direttore Mentana: "La fermo prima che tiri fuori le pentole"
Giampiero Mughini per Dagospia il 21 settembre 2022.
Caro Dago, premesso che l’apparizione sugli schermi televisivi deve essere garantita a tutti e vi devono essere rappresentate tutte le opzioni politiche, confesso di non avere visto la puntata della striscia televisiva di Marco Damilano in cui lo scrittore francese Bernard-Henry Lévy ha tuonato contro le destre italiane e contro la loro probabile vittoria politica.
Naturalmente non mi associo alla polemica dell’Usigrai che non perde occasione per vantare che di geniali giornalisti “interni” alla Rai ce n’è caterve e che non c’è alcun bisogno di invitare degli “esterni”. Vorrei ben vedere che la Rai fosse una specie di Fort Alamo che nessun giornalista o intellettuale proveniente da fuori può violare. Ben vengano i Bernard-Henry Lévy se hanno qualcosa da dire e da aggiungere. Ovvio che poi dovrà essere chiamato un altro - possibilmente di pari grado - che testimoni posizioni opposte a quelle di Lévy.
Solo che il punto è proprio questo. Non c’è nessuna prova tangibile che Lévy conosca bene la situazione italiana. Lo dimostra a tutta forza il fatto che lui sia stato tra gli intellettuali “parigini” più accaniti nel difendere il destino di un criminale pluriomicida quale il terrorista rosso Cesare Battisti, uno che ai loro occhi splendeva di luce propria per avere scritto un paio di romanzi gialli non cattivi da leggere.
Quegli intellettuali francesi non sapevano nulla di nulla, credevano che Battisti fosse un martire della causa del proletariato che la polizia e la magistratura italiano perseguitavano. Del resto è così che in Francia hanno accolto (con il padrinato di François Mitterrand) un bel po’ di assassini del terrorismo rosso che nel frattempo hanno i capelli bianchi, corpi malandati, e che forse a questo punto andrebbero lasciati dove sono: e questo perché nella fattispecie la magistratura italiana non sta perseguitando nessuno ma solo facendo il proprio dovere.
C’è stato un tempo nei caffè intellettuali parigini in cui a credere che in Italia il centro del mondo fosse “Il Manifesto” (il quotidiano di cui sono stato uno dei dodici fondatori e da cui mi sono dimesso dopo tre mesi) e i suoi (notevoli) intellettuali. Così come l’Italia politico-intellettuale spiava ogni mossa di Jean-Paul Sartre e niente affatto di Raynond Aron (che in fatto di analisi del reale lo sovrastava), così a Parigi era grande il risalto intellettuale di una Rossana Rossanda (che qui ricordo con affetto), non certo di Norberto Bobbio di Renzo De Felice tanto per citarne due.
Tutto questo per dire di non cadere nel provincialismo di andare a cercare fuori dai nostri confini qualcuno che non ha assolutamente nulla da dire sulle nostre vicende e sui nostri guai. Che sono tanti.
Antonella Baccaro per il “Corriere della Sera” il 21 settembre 2022.
L'ultima parola spetterà oggi all'Autorità per le comunicazioni (Agcom). Ma il duro attacco al centrodestra italiano, accusato di fascismo dal filosofo francese Bernard-Henri Levy nella puntata di lunedì scorso de Il cavallo e la torre , condotto su Rai3 da Marco Damilano, ha già prodotto un tentativo di riequilibrio nella puntata di ieri.
Levy, intervistato sul tema della legittimità del voto popolare, aveva definito il leader della Lega, Matteo Salvini, «patetico e ridicolo» e i suoi «traditori della patria che negoziano il futuro del Paese nel retrobottega con inviati dell'ambasciata russa», mentre lo stesso leader «prepara segretamente un viaggetto a Mosca per andare a negoziare il suo futuro politico». Per il filosofo «c'è una tentazione fascista in Europa, in particolare in Italia, e bisogna prenderla di petto». Levy ha sostenuto che l'Italia merita di più di Salvini, Meloni o Berlusconi. E ha detto che «non bisogna sempre rispettare l'elettorato: un fascista che arriva al potere non si converte automaticamente in democratico».
«Sono sue parole» ha preso le distanze Damilano, dissentendo sul suffragio universale: «Qui la campagna elettorale non è in mano a un partito che vuole cancellare la democrazia». Un concetto ripetuto dal conduttore a fine puntata: «L'Italia non è la Russia di Putin».
Precisazioni che non hanno convinto Alberto Barachini (FI), presidente della commissione di Vigilanza Rai, che ha denunciato «una palese, plurima violazione della normativa sulla par condicio, in spregio dei basilari principi di pluralismo, imparzialità ed equilibrio». Damilano è stato accusato di «non aver arginato Levy», mentre la rete è stata criticata per «l'assenza di controllo editoriale». «Insulti, nessun confronto, dieci minuti di invettiva verso Salvini, la Lega e il centrodestra, pagata con i contributi di tutti gli italiani» ha rincarato Andrea Crippa, vice di Salvini. Giorgia Meloni ha postato l'intervista su Facebook: «Il servizio pubblico italiano ospita (o paga? La domanda è ufficiale) uno scrittore francese - noto qui per aver difeso il pluriomicida terrorista comunista Cesare Battisti dall'ipotesi di estradizione - per paragonare un'Italia a guida centrodestra ai peggiori regimi. Consiglio di ascoltarlo, è illuminante. Se invece non vi va, sintetizzo in poche parole: se gli italiani, votando, scelgono FdI o Lega non vanno rispettati. Sipario». Dai partiti sono giunte richieste di dimissioni dell'ad Carlo Fuortes. E mentre l'Usigrai è insorta contro l'assenza di pluralismo, ieri Damilano, ribadendo di aver preso le distanze da alcune affermazioni del filosofo, ha ospitato il docente Luiss Giovanni Orsina. Che ne ha confutato le tesi, definendo «ridicola» l'affermazione che il fascismo sia alle porte. Sul finale il conduttore, citando Brecht, è tornato sul dovere di rispettare il voto.
Le elezioni e la par condicio. “Con l’intervista a Henry Lévy, Marco Damilano ha fatto il suo lavoro” parla Michele Anzaldi. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 22 Settembre 2022.
Onorevole Anzaldi, la destra ha attaccato la Rai per l’intervista di Marco Damilano a Bernard-Henry Lévy, arrivando a chiedere le dimissioni dell’Ad Fuortes. Che ne pensa?
Damilano ha un curriculum giornalistico di tutto rispetto e ha fatto semplicemente il giornalista: ha invitato un grande intellettuale di caratura internazionale per parlare delle impressioni dall’estero in vista delle elezioni italiane. Difficile pensare che, anche alla luce del collegamento e della traduzione simultanea in diretta, avrebbe potuto comportarsi diversamente. D’altronde il format della trasmissione prevede un unico ospite e infatti il giorno dopo è avvenuto il bilanciamento con l’intervista ad un intellettuale di diversa area culturale. Addirittura ad avere l’ultima parola in una data più vicina al voto è stato l’ospite ritenuto più vicino al centrodestra, quindi a lamentarsi dovrebbero essere gli altri.
Secondo lei, quindi, non c’è stata violazione di Par Condicio?
Vedendo come questa Agcom sta applicando le regole in questa campagna elettorale, una eventuale sanzione contro Damilano sarebbe davvero incomprensibile, a maggior ragione avendo bilanciato il giorno dopo. Nei tg Rai, in particolare nelle prime settimane di campagna elettorale, abbiamo assistito a violazioni plurime e conclamate, senza che l’Authority abbia fatto nulla, e anzi ha dato alle tv un’ulteriore settimana per mettersi in regola, arrivando quindi di fatto alla fine della campagna. Da inizio agosto avevo chiesto all’Authority di garantire il pluralismo fin da subito, facendo rientrare dalle ferie chi doveva vigilare, ma non è stato fatto nulla. Per settimane il Terzo Polo è stato oscurato, mentre al centrodestra è stato garantito il 50% degli spazi, ma l’Agcom non è intervenuta per chiedere il rispetto vero della Par Condicio.
Ad attaccare Damilano è stata anche l’Usigrai, che fin da subito ha contestato l’assunzione esterna. Su questo ha condiviso il sindacato dei giornalisti Rai?
La Rai in questi anni ha assunto una miriade di collaboratori esterni con curriculum discutibili se non totalmente inesistenti, addirittura senza alcuna esperienza televisiva. Assunzioni di chiaro stampo politico, sulle quali molto spesso sono stato lasciato solo a denunciare. Damilano, invece, ha una professionalità indiscutibile, è un giornalista autorevole e un personaggio televisivo affermato da tempo. Dopo tanti anni di scippi da parte della concorrenza, per la prima volta è stato la Rai a sottrarre un volto alle tv commerciali. Un’operazione di successo, tanto è vero che in Vigilanza ho fatto i complimenti all’azienda e nessuno ha obiettato nulla.
Crede che la richiesta di dimissioni a Fuortes sia l’antipasto di quello che succederà se la destra vincesse le elezioni?
La destra in Rai ha 5 direttori su 8, la Lega è il primo partito negli spazi televisivi nei tg, Rai1 ha addirittura tentato di organizzare il faccia a faccia Meloni-Letta esaudendo i desiderata della leader di Fdi e del segretario Pd: vogliono ancora di più? Mi pare che Fuortes li stia già accontentando in tutto. La Lega ha avuto il presidente per tre anni con Foa, ha un consigliere in Cda e i direttori di alcuni tg fanno la corsa a farsi i selfie con Salvini, ben visibili in rete. Direi che i partiti di destra abbiano ampiamente partecipato alla lottizzazione selvaggia di questi anni in Rai, basta leggere cosa scrive oggi il Foglio proprio sulla Lega e su Isoradio”.
Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.
Antonella Baccaro per il Corriere della Sera il 23 settembre 2022.
Il Pd insorge il giorno dopo la decisione dell'Agcom (Autorità per le comunicazioni) di sanzionare la trasmissione Rai Il cavallo e la torre , condotta su Rai3 da Marco Damilano che ha ospitato le esternazioni del filosofo francese Bernard-Henri Levy.
Per il Nazareno la delibera «è grave e incomprensibile nei modi e nei tempi, colpisce la libertà di espressione e completa una gestione profondamente insoddisfacente della materia da parte del Consiglio Agcom, alla prima prova importante nazionale di applicazione della Legge 28/2000».
Per il partito di Enrico Letta, «poteva essere sufficiente la misura rimediale del messaggio di avvenuta violazione», mentre andrebbe sanzionata «l'informazione parziale, scorretta e non veritiera in alcuni telegiornali dell'emittenza privata contro il Pd e il segretario». Il Pd si riserva ogni azione utile contro la «disparità di trattamento» e proporrà al nuovo Parlamento una riforma della legge e del ruolo di Agcom, a partire dai meccanismi di nomina. Che oggi spetta al Parlamento per quanto riguarda i quattro consiglieri. E al premier, d'intesa con il ministro dello Sviluppo economico, per il presidente. L'ultimo, Giacomo Lasorella, è stato scelto dal premier Giuseppe Conte, insieme con il ministro grillino Stefano Patuanelli.
Michele Anzaldi, membro della commissione di Vigilanza Rai (Iv), condanna «il passaggio diretto di due esponenti politici dal Parlamento all'Authority» (Antonello Giacomelli, Pd e Massimiliano Capitanio, Lega, ndr ). Il partito di Salvini, con il deputato della Luca Toccalini, contrattacca: «Caro Pd, la Rai non è cosa vostra, ma di tutti gli italiani. Dopo la puntata vergognosa e a senso unico andata in onda nella striscia di Damilano contro Salvini e la Lega, la decisione dell'Agcom di sanzionare Il cavallo e la torre è sacrosanta».
Spiega così il proprio voto contrario alla delibera dell'Agcom su Damilano la consigliera Elisa Giomi: «Non si è tenuto conto del fatto che il conduttore nel corso della stessa puntata ha preso ripetutamente le distanze dalle affermazioni del suo ospite» e «che anche in apertura della puntata immediatamente successiva ha nuovamente preso le distanze dalle affermazioni di Levy».
Lo “scusone” di Marco Damilano per l’intervista “anti-destra”: ira sul volto e aria da offeso. Marta Lima su Il Secolo d'Italia il 23 settembre 2022.
Dallo “spiegone”, specialità della casa quando faceva l’ospite fisso a “Propaganda Live” su La 7, allo “scusone” che ieri sera è stato convinto a fare su Rai Tre per le clamorose sviste nella conduzione nel suo programmi. Più cieca ideologia che sviste, in realtà, quelle di Marco Damilano, costretto a fare pubblica ammenda per la sua intervista a senso unico al filosofo francese Bernard Henry-Lévy, a spese dei contribuenti, autore di una invereconda sequela di insulti e accuse al centrodestra a pochi giorni dal voto.
La censura dell’Agcom e lo “scusone” di Marco Damilano
Il richiamo e la censura dell’Agcom, dopo la puntata di lunedì de Il Cavallo e la Torre, imponeva scuse e ammissione della “faziosità” di quella puntata, ed ecco che ieri sera Damilano, piuttosto che compiere un gesto eroico da paladino della libertà dimettendosi dal lauto contratto, ha pronunciato la formula richiesta con la faccia contrita, prezzante e l’aria da offeso. “Non è stato assicurato il rispetto dei principi di pluralismo, obiettività, completezza, correttezza, lealtà, imparzialità dell’informazione nel corso del programma andato in onda su Rai 3 il 19 settembre 2022″, ha letto imbarazzatissimo in apertura del programma l’ex direttore dell’Espresso, paracadutato in Rai e sistemato in prima serata a fare da megafono alla sinistra a pochi giorni dal voto, tra i malumori dei validissimi giornalisti che da anni fanno informazione a Viale Mazzini.
La Costituzione e la libertà di informazione a senso unico
Damilano ha poi chiuso con un motto garibaldino. “Questo l’Agcom, con delibera numero 33522, ordina di comunicare. Fatto, andiamo avanti!”. La puntata si è poi chiusa con un commovente richiamo di Marco Damilano alla Costituzione, da pelle d’oca. “Libertà di informazione e di espressione del pensiero. E almeno su questo, credo, non ci sia par condicio“. Intanto, il giornalista aveva incassato la solidarietà del Pd, a proposito dell’autonomia giornalista e della libertà di stampa.
Marco Damilano, come ha letto le scuse su Rai 3: l'ultima vergogna. Francesco Storace su Libero Quotidiano il 23 settembre 2022
Stavolta Marco Damilano era rosso anche in faccia. Gli è toccato leggere, con arroganza, l'umiliante (per lui) decisione dell'Autorità per le comunicazioni davanti ai telespettatori di cui si vanta. La carnevalata messa in scena contro il centrodestra assieme a Bernard-Henri Levy è stata una vergogna. E l'Agcom lo ha punito.
Lui, stizzito, ha dovuto dirlo agli ascoltatori, aggiungendoci la parolina libertà. Ma pretendeva lui le scuse? Il servizio pubblico radiotelevisivo non può permettersi di fare quello che gli pare, e soprattutto a una manciata di giorni dal voto del 25 settembre. Ci sono norme che regolano la par condicio e con la sua trasmissione Damilano le ha violate tutte. Lo dice proprio l'Agcom, che non è una pericolosa centrale della destra eversiva. Il conduttore de Il Cavallo e la Torre ha dunque dovuto fare ammenda pubblicamente. Quelle sei parole le ha pronunciate inghiottendo amaro: pluralismo, obiettività, completezza, correttezza, lealtà e imparzialità. Sono i requisiti principali della par condicio, violati in maniera clamorosa. Noi tutti paghiamo il canone, ieri sera chi li ha messi da parte lo ha dovuto ammettere in tv. E ci voleva perché proprio il canone è una delle tasse più odiate dagli italiani, paghiamo per far parlare male di noi, dice la maggioranza dei cittadini che col voto di domenica certificherà l'orientamento prevalente nel nostro Paese.
Ma non è mica finita, perché c'è l'altra parte della commedia. Inscenata dal Pd, a conferma che i giornalisti rossi non si toccano, soprattutto nel fortino Rai. La delibera dell'Agcom che ha ordinato a Damilano di riparare alla pessima figura, è stata votata da tutti i consiglieri, tranne quella nominata dal Parlamento come membro dell'Authority proprio dal Movimento Cinque stelle, Elisa Giomi. «Bisogna dire di no», è stato l'ordine del Nazareno nonostante lo spettacolo osceno andato in onda su RaiTre. Ed è stata dimostrata l'obbedienza politica a Enrico Letta. Abbastanza pittoresco, potremmo dire. Il lavoro sporco lo devono fare gli ex alleati...
Non pago, il Pd è andato addirittura oltre. Arrivando al ricatto, per vendicarsi comunque dell'Agcom che ha osato punire la Rai. «Il Partito Democratico si riserva ogni azione utile per la valutazione complessiva della possibile disparità di trattamento, in questa competizione elettorale, e proporrà al nuovo parlamento una riforma della L. 28/2000 e del ruolo di Agcom, a partire dai meccanismi di nomina». Cioè, quei commissari dell'Authority vanno cacciati, come si permettono di sanzionare un compagno, la Rai, il nostro fortino? È la commedia dell'assurdo, è la rappresentazione plastica di un metodo partitocratico che pretende ancora di mettere la mani non solo sulla Rai, ma persino sull'autorità di garanzia. Il Pd sarà in minoranza nel prossimo Parlamento e tutti lo sanno. Il suo ricatto resterà lettera morta e serve solo a far vedere di saper alzare la voce. Ma resta grave il tentativo di intimidire chi sta semplicemente facendo il mestiere di controllo che gli assegna la legge. Che volle proprio la sinistra nel 2000, su input dell'allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. «Vogliamo le regole». «E se poi non stanno bene cambiamo chi le deve far rispettare».
Ma è una musica stonata. Già avevano steccato malamente, al Pd, contro la proposta salviniana di abolizione del canone Rai, e ora pretendono di fucilare sul campo l'Autorità. Non va affatto bene, ribattono dalla Lega, perché il servizio pubblico radiotelevisivo "non è cosa vostra": «Dopo la puntata vergognosa e a senso unico andata in onda nella striscia di Damilano contro Salvini e la Lega, la decisione dell'Autorità garante nelle comunicazioni di sanzionare Il cavallo e la torre è sacrosanta. Il fatto che ora i signori del Nazareno pretendano la riforma della stessa Agcom e, udite udite, addirittura il sistema delle nomine - arte in cui proprio i Dem sono maestri assoluti - è il sintomo più evidente di un partito terrorizzato dalla sconfitta elettorale. Scacco matto in arrivo». A parlare è un giovane deputato leghista, Toccalini. Ma il Pd è già vecchio...
Laura Rio per “il Giornale” il 23 settembre 2022.
Alla fine Marco Damilano ha recitato il «mea culpa». Ieri sera, in apertura del suo programma Il cavallo e la torre di Raitre ha detto - come stabilito dall'Agcom - che l'ospitata di Bernard Henry-Lévy ha violato «i principi di pluralismo, obiettività, completezza, correttezza, lealtà e imparzialità dell'informazione» necessari durante la campagna elettorale.
Ha recitato l'ordinanza dell'Autorità con un'aria un po' sprezzante, velocemente, chiosando: «Fatto. Andiamo avanti». Come a dire: caso chiuso. E poi, alla fine della puntata, ha ricordato l'articolo 21 della Costituzione sulla libertà di pensiero, per dire insomma che ha sì ubbidito, ma che non ritiene di aver sbagliato.
Il filosofo francese - lo ricordiamo - intervistato lunedì da Damilano aveva detto che in Italia corriamo il rischio del ritorno del fascismo, che Salvini è un «traditore» vicino ai russi e che il voto popolare non sempre va rispettato. Parole che hanno scatenato le ira del centrodestra e che hanno portato l'Authority a esprimersi contro la trasmissione.
Il caso, comunque, non è così chiuso. Prima di tutto perché questa faccenda rimarrà una macchia nella - finora - breve carriera dell'ex direttore dell'Espresso in Rai e ogni suo passo futuro sarà messo sotto la lente d'ingrandimento, figuriamoci poi se vince il centrodestra. In secondo luogo perché ha scatenato il dibattito sulla par condicio, la legge che obbliga le tv e le radio a garantire parità di trattamento e rappresentanza all'interno delle trasmissioni.
In una nota il Partito Democratico sostiene che «la decisione di Agcom è grave e incomprensibile nei modi e nei tempi, colpisce la libertà di espressione e completa una gestione profondamente insoddisfacente della materia da parte del Consiglio Agcom. L'Authority ha emanato, a maggioranza, una sanzione su una singola trasmissione in ragione delle opinioni liberamente espresse e chiaramente attribuibili ad un ospite. Al tempo stesso non è ancora intervenuta su palesi e gravi casi di informazione parziale, scorretta e non veritiera in alcuni telegiornali dell'emittenza privata contro il Partito democratico e il segretario Letta».
Il Pd proporrà al nuovo Parlamento «una riforma della legge 28/2000 e del ruolo di Agcom, a partire dai meccanismi di nomina». Risponde la Lega con le parole di Luca Toccalini, responsabile Giovani del partito: «Caro Pd, la Rai non è cosa vostra, ma di tutti gli italiani. La decisione dell'Autorità è sacrosanta. Il fatto che ora i signori del Nazareno pretendano la riforma della stessa Agcom è il sintomo più evidente di un partito terrorizzato dalla sconfitta elettorale».
Il fatto paradossale è che a chiedere la riforma della legge è il Pd che, all'epoca, quando si chiamava Pds, ne fu artefice insieme all'Ulivo. Però, ora che viene fatta rispettare per un giornalista che sta dalla stessa parte politica, non va più bene. Quando ci si riferisce ai «meccanismi» di nomina, si intende che gli attuali commissari sarebbero tutti di parti politiche non vicine al Pd. E anche questo ha del paradossale perché la delibera ha avuto un solo conto contrario (su 5 componenti, di cui un ex esponente del Pd): quello di Elisa Giomi, professoressa di sociologia, secondo cui «il conduttore ha preso efficacemente le distanze dalle dure affermazioni dell'ospite».
Da codacons.it il 16 settembre 2022.
Il giornalista di RaiSport Alessandro Antinelli e la stessa Rai finiscono denunciate ad Antitrust, Agcom e Commissione parlamentare di vigilanza per la possibile fattispecie di pubblicità occulta. A presentare oggi un esposto il Codacons, che segnala una presunta indebita pubblicità ad un marchio di abbigliamento – di cui lo stesso Antinelli sarebbe testimonial – nel corso di alcune trasmissioni della rete.
Antinelli avrebbe indossato in più occasioni e vistosamente giacche ed abbigliamento recante il logo del marchio dell’azienda di abbigliamento “Manuel Ritz” durante le proprie apparizioni in tv, come ad esempio nel corso delle partite Italia-Germania del 4 giugno 2022, Italia–Ungheria del 7 giugno e Inghilterra–Italia dell’11 giugno – scrive il Codacons nell’esposto – Il giornalista, oltretutto, risulterebbe essere stato testimonial e protagonista di campagne e spot pubblicitarie proprio per l’azienda di abbigliamento Manuel Ritz.
Come noto al servizio pubblico Rai è da sempre assolutamente vietato ogni tipo di pubblicità occulta, poiché volta a inficiare il rapporto di fiducia tra i cittadini-telespettatori e il fornitore del servizio di informazione; il divieto di pubblicità occulta riguarda tanto le trasmissioni quotidiane che gli appositi spazi giornalistici.
Singolare appare la circostanza secondo cui il Direttore del programma, Alessandra De Stefano, e la responsabile del team di RaiSport, Donatella Scarnati, non sembrerebbero avere effettuato i dovuti controlli omettendo di verificare la giusta e corretta condotta del giornalista.
Una tale forma di pubblicità occulta potrebbe essere idonea a modificare indebitamente il comportamento economico dei consumatori – si legge ancora nell’esposto del Codacons – e a restringere l’ambito del mercato della libera concorrenza, in violazione anche della tutela coordinata con la libertà di iniziativa economica, realizzando la possibile fattispecie prevista dagli articoli 20, 21, 22 e 23 del d.lgs. n. 206/2005.
Per tale motivo il Codacons ha denunciato il giornalista Alessandro Antinelli e la Rai ad Antitrust, Agcom e Commissione di vigilanza Rai, chiedendo di aprire un procedimento sul caso e, se riscontrate violazioni o illeciti, procedere alle sanzioni previste dalla legge.
Nella RAI i giornalisti non perdono il vizietto delle pubblicità occulte. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 16 Settembre 2022
Come noto al servizio pubblico Rai è da sempre assolutamente vietata ogni tipo di pubblicità occulta, poiché volta a inficiare il rapporto di fiducia tra i cittadini-telespettatori e il fornitore del servizio di informazione; il divieto di pubblicità occulta riguarda tanto le trasmissioni quotidiane che gli appositi spazi giornalistici. Ma in Rai nessuno controlla...
Il giornalista di RaiSport Alessandro Antinelli e la stessa Rai sono stati denunciati all’ Antitrust, Agcom ed alla Commissione parlamentare di vigilanza per la possibile fattispecie di pubblicità occulta. A presentare oggi un esposto il Codacons, che ha segnalato una presunta indebita pubblicità ad un marchio di abbigliamento – di cui lo stesso Antinelli sarebbe testimonial – nel corso di alcune trasmissioni della rete.
Antinelli avrebbe indossato in più occasioni e vistosamente giacche ed abbigliamento recante il logo del marchio dell’azienda di abbigliamento “Manuel Ritz” durante le proprie apparizioni in tv, come ad esempio nel corso delle partite Italia-Germania del 4 giugno 2022, Italia–Ungheria del 7 giugno e Inghilterra–Italia dell’11 giugno – scrive il Codacons nell’esposto – Il giornalista, oltretutto, risulterebbe essere stato testimonial e protagonista di campagne e spot pubblicitarie proprio per l’azienda di abbigliamento Manuel Ritz.
Come noto al servizio pubblico Rai è da sempre assolutamente vietata ogni tipo di pubblicità occulta, poiché volta a inficiare il rapporto di fiducia tra i cittadini-telespettatori e il fornitore del servizio di informazione; il divieto di pubblicità occulta riguarda tanto le trasmissioni quotidiane che gli appositi spazi giornalistici.
Appare singolare la circostanza secondo cui il Direttore del programma, Alessandra De Stefano, e Donatella Scarnati la responsabile del team di RaiSport, non sembrerebbero avere effettuato i dovuti controlli omettendo di verificare la giusta e corretta condotta del giornalista.
Nell’esposto del Codacons si legge che una tale forma di pubblicità occulta potrebbe essere idonea a modificare indebitamente il comportamento economico dei consumatori e a restringere l’ambito del mercato della libera concorrenza, in violazione anche della tutela coordinata con la libertà di iniziativa economica, realizzando la possibile fattispecie prevista dagli articoli 20, 21, 22 e 23 del d.lgs. n. 206/2005. Per tale motivo l’ associazione di consumatori ha denunciato il giornalista Alessandro Antinelli e la Rai alle Autorità Antitrust ed Agcom ed alla Commissione di vigilanza Rai, chiedendo di aprire un procedimento sul caso e, se riscontrate violazioni o illeciti, procedere alle sanzioni previste dalla legge.
Lo scorso 9 settembre la direttrice di RAI SPORT Alessandra De Stefano ha inviato una lettera di chiarimento sulla vicenda: ” Non esiste nessuna sponsorizzazione e nessun accordo pubblicitario riguardante il collega Antinelli che mi ha spiegato nel dettaglio tutta la vicenda che risale al 2015/2017. Antinelli mi ha riferito inoltre di aver informato, seppur solo verbalmente, l’allora direttore di Rai Sport Gabriele Romagnoli. Il collega non ha percepito neanche un centesimo e mai preso parte a campagne pubblicitarie del marchio”. “Ho chiesto ad Antinelli di non apparire più in diretta indossando simboli – continua la De Stefano – anche minimi, che possano fare riferimento ad un qualsivoglia brand e mi riservo nelle prossime ore di ricordarlo a tutti i giornalisti della testata “.
la direttrice di RAI SPORT Alessandra De Stefano
“Il collega ha commesso un errore in totale buona fede. Ha capito. Si è scusato” spiega la De Stefano che però racconta qualcosa di incredibile ” Questa mattina al telefono ho chiamato un membro dell’attuale CDR per invitarlo a non indossare più un capo sponsorizzato con il quale è andato in onda durante le dirette anche ieri. L’immagine di Rai Sport va tutelata sempre per questo già da mesi con l’Azienda stiamo lavorando per fornire capi d’abbigliamento con il marchio Rai a tutti i colleghi che vanno in video soprattutto quando si trovano in trasferta. Lo faremo anche per i prossimi Mondiali di Calcio a Doha e per lo Sci”.
In passato altri giornalisti RAI erano stati sanzionati per le loro pubblicità ingannevoli. Uno di loro Franco Di Mare, venne sanzionato con la “censura“ dal Consiglio dell’Ordine dei Giornalisti del Lazio nella riunione dello scorso 21 febbraio 2011, incredibilmente in seguito è stato nominato persino direttore rete (RAITRE). A raccontare la vicenda da cui partì il procedimento fu Beatrice Borromeo su Il Fatto Quotidiano.
L’Ordine dei Giornalisti del Lazio aveva appiedato nel 2005 Marco Mazzocchi, conduttore all’epoca dei fatti della Domenica Sportiva: due mesi di sospensione dalla professione per alcuni spot pubblicitari. Mazzocchi si difese: “E’ un’ingiustizia”. Ed il Cdr Raisport invece di associarsi alla decisione deontologica dell’ Ordine commento incredibilmente: “Si guardi a casi analoghi“
Leggete cosa scrivevano i giornalisti sindacalisti del servizio pubblico radiotelevisivo: “Il Cdr di Raisport in una nota prende atto della sospensione di Marco Mazzocchi, ma richiama anche l’attenzione degli istituti di categoria su casi analoghi di colleghi che operano nell’emittenza privata nello spirito di una reale ‘par condicio’. ”Il Cdr di Rai Sport, d’intesa con l’Usigrai, prende atto della sospensione dalla professione per due mesi a carico del collega Marco Mazzocchi dopo che il Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti ha deciso di non accogliere la richiesta del collega di sospendere la sanzione comminata dall’Ordine regionale del Lazio. Un errore, ammesso dallo stesso Mazzocchi, che ha comunque devoluto in beneficenza il compenso ricevuto, sanzionato in maniera assai severa in base al principio, in cui chi lavora a Rai Sport si riconosce pienamente, che i giornalisti non devono fare pubblicità”. A tale riguardo conclude il comunicato: ”respingendo ogni tipo di strumentalizzazione della vicenda, il Cdr di Rai Sport richiama l’attenzione degli istituti di categoria su altri casi analoghi di colleghi che operano nell’emittenza privata, non per spirito di delazione, ma per un’ovvia par condicio nel rispetto di un principio basilare per i giornalisti italiani”. (ANSA). Della serie: così fan tutti…!
L’ Antitrust aveva già condannato la Rai per pubblicità occulta, oltre ad una sanzione amministrativa di 57.100 euro, per comportamenti reiterati di ingannevolezza ai danni dei consumatori. Il 18 novembre 2005, l’ associazione di consumatori Adusbef,a seguito di diversi interventi di “Striscia la Notizia” denunciava all’ Antitrust una fattispecie di pubblicità non trasparente all’ interno del programma “Isola dei famosi 3” andato in onda su Raidue,in merito alle immagini del marchio “Gatta ci Cueva” marchio ideato e promosso dalla moglie del giornalista, impresso sugli indumenti del giornalista Massimo Caputi, ripreso durante i collegamenti con l’ isola di Saman (Santo Domingo),diffuse il 26 settembre 2005. In seguito Massimo Caputi è passato al quotidiano IL MESSAGGERO dove per 7 anni è stato a capo dello Sport del quotidiano romano del gruppo Caltagirone Editore, salvo venire licenziato “per giusta causa”.
La Rai era stata condannata a pagare 25 mila euro di multa per il programma “Occhio alla spesa” in onda su Rai 1 condotto da Alessandro Di Pietro. L’accusa è precisa: il conduttore aveva fatto pubblicità occulta alla pasta Aliveris. Le puntate sotto accusa erano 3, quella del 9 gennaio 2012 intitolata “I cibi della salute”, quella del 23 aprile, “La salute vien mangiando”, e quella del 28 maggio intitolata “Alimentazione. Salute. Benessere. Cibi e salute”. Nel corso dei programmi, recitava la sentenza, “vengono ripetutamente descritte in modo estremamente enfatico tutte le caratteristiche benefiche della pasta, vengono intervistati i professori Carlo Clerici e Kenneth D.R. Setchell direttori scientifici degli studi e clinici e soci della stessa società, vengono trasmessi servizi interamente registrati presso lo stabilimento di produzione della pasta Aliveris”.
Nel 2019 Michele Anzaldi, deputato di Italia Viva e segretario della commissione di Vigilanza Rai, ha attaccato Monica Setta, la conduttrice di “Uno Mattina in famiglia” in onda su Rai 1, sempre presente in prima alle manifestazioni leghiste ad applaudire Matteo Salvini. L’accusa anche in quel caso er di pubblicità occulta. Ecco il post del politico apparso su Facebook che sta creando polemiche, non solo sui social: “È normale che una conduttrice del servizio pubblico faccia pubblicità occulta agli indumenti, i gioielli e le scarpe che indossa in una trasmissione Rai, attraverso le sue pagine ufficiali sui social network?” si chiedeva Anzaldi ?
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Michele Anzaldi continuava: “Monica Setta, conduttrice di “Uno Mattina in famiglia” su Rai1, nelle sue pagine Instagram e Facebook fa promozione alle aziende che le forniscono scarpe, gioielli, vestiti, facendo esplicito riferimento con foto e hashtag alla trasmissione di Rai1“. Il post prosegue con alcune domande: «É stata autorizzata dalla Rai? C’è un accordo economico con la Rai o è una sua questione personale? Ci sono eventuali altri accordi economici di altro tipo? Se fosse in vigore il codice sui social, già votato all’unanimità dalla commissione di Vigilanza Rai e sul quale la Rai è ancora inadempiente, Monica Setta avrebbe potuto comportarsi così? Nelle aziende private cosa succederebbe di fronte a situazioni del genere?». Michele Anzaldi conclude: «È opportuno che la Rai e l’amministratore delegato rispondano».
Ricordate il vecchio slogan: “Rai di tutto di più” ? Forse sarebbe il caso di cambiarlo in “Rai di tutto di peggio”....! Redazione CdG 1947
Fabrizio Roncone per il Corriere della Sera il 16 settembre 2022.
Arrivano le linguine all’astice. Vassoio di grande impatto cromatico tenuto a mezz’aria tipo feretro da Angelito e Dolores, la coppia di domestici filippini. Scatta un applauso. Il padrone di casa stappa una magnum di Louis Roederer.
Adesso, immaginate: un finestrone spalancato sui tetti del ghetto ebraico, il riverbero delle luci giallastre di Portico d’Ottavia, cena seduta con sedici persone, tra cui un paio di architetti, un manager, un prete di quelli con l’abito nero di sartoria, un direttore della Rai, un vice-direttore della Rai, un inviato speciale della Rai.
Linguine squisite.
«Stavamo dicendo…» (il prete riattizza le chiacchiere).
«Dicevo — risponde pronto il direttore — che se un po’ conosco Giorgia…». S’infila subito anche il vice-direttore: «Guardate: a me Giorgia sta molto simpatica, è una tipologia umana che mi ispira… poi, se dobbiamo proprio raccontarcela bene, è una donna che ce l’ha fatta da sola…».
E insomma è tutta una Giorgia di qua, Giorgia di là, andiamo avanti a parlare di elezioni e di quanto potrebbe accadere nel Paese e quindi pure a viale Mazzini e a Saxa Rubra, e loro — tipi che prima avevano confidenza stretta con nomi come Paolo (Gentiloni), Matteo (Renzi) e Dario (Franceschini) — adesso per nome chiamano la Meloni, e la chiamano per nome lasciando intendere stima certa, forse amicizia, sospetta complicità. Il prete sorseggia champagne, poi soffia nell’orecchio: «Sbaglio, o le pecorelle della Rai, anche stavolta, hanno già scelto il nuovo pastore?».
Non sbaglia, don.
È così che va. I segnali sembrano precisi. E, del resto, hanno una prateria.
L’altro giorno, su Libero, un articolo firmato da Francesco Storace è stato letto riga per riga, copiato, conservato su mille cellulari (Storace è un mitico personaggio della destra italiana: deputato, senatore, ministro, governatore del Lazio, profondo conoscitore delle dinamiche Rai e per questo soprannominato, quando fu il temuto presidente della Commissione di vigilanza, Epurator; adesso si è rimesso a fare il giornalista e non scrive mai niente per caso).
Informa: in Rai, a destra, c’è praticamente il deserto. Aggiunge: «Basti pensare che nelle posizioni apicali — sono 25 — solo cinque non sono di marca Pd». Segue elenco: Gennaro Sangiuliano, direttore del Tg2; Paolo Petrecca, direttore di RaiNews; Alessandro Casarin direttore della Tgr; Marcello Ciannamea, direttore dei Palinsesti; Antonio Preziosi, direttore Rai Parlamento. Altre posizioni: Angelo Mellone, vice-direttore di Rai DayTime; Nicola Rao, vice al Tg1; Paolo Corsini, vice all’approfondimento.
Intanto, qui a cena, siamo al secondo: rombo con patate (un filo salate). Diamo per scontato che per gli otto elencati da Storace siano pronti salti importanti. Sangiuliano è rimasto in azienda, e non sarà senatore di Fratelli d’Italia, perché devono avergli promesso o il Tg1, o persino qualcosa di più.
Uno dei commensali, vecchio amico dell’amministratore Carlo Fuortes, conoscendone il carattere, pensa non sia il tipo da accettare troppi compromessi. Così finiamo a parlare di Giampaolo Rossi: lui sì che può chiamarla Giorgia. Consigliere personale, marinettiano, vero esperto di tv, uno che vuole bene alla Rai, potrebbe diventarne o amministratore o presidente (Marinella Soldi sa già tutto). Pettegolezzo: gira voce che la Meloni sia rimasta dispiaciuta di essersi ritrovata sul sito Dagospia la foto di Petrecca abbracciato a Salvini dopo un comizio a Cosenza (era considerato in quota Fratelli). Cena divertente. Uno ricorda di quando Piero Vigorelli festeggiò la prima vittoria di Berlusconi camminando nei corridoi della Rai avvolto in una bandiera di FI. Allora racconto quello che mi ha detto Bianca Berlinguer: e cioè che, dopo ogni ribaltone, «la Rai resta comunque, pur con qualche conflitto, un’azienda dove resistono spazi di autonomia. A patto, ovviamente, di volerne usufruire».
Il punto è questo. Michele Anzaldi, da dieci anni segretario in Vigilanza, prima rutelliano, poi renziano, severo e implacabile, spiega sempre che in Rai, in realtà, esistono solo «tipi da Margherita e tipi da Udc. Che, in due minuti, con un saltino, diventano o di sinistra, o di destra».
Ridono tutti. La padrona di casa ha fatto arrivare le sfogliatelle da Napoli. I tre della Rai smettono di parlare della Meloni, e concordano sul fatto che i più bravi giornalisti dell’azienda siano Antonio Di Bella e Mario Orfeo. Il manager aggiunge Andrea Vianello. Giro di Calvados (Christian Drouin, roba seria). Quello della Rai più giovane mi si siede accanto, voce di velluto: «Amico mio, senti… ma avresti per caso il cellulare di Giorgia?».
Da ansa.it il 5 settembre 2022.
Il gup di Roma ha rinviato a giudizio l'imprenditore Renato Soru, ex governatore della Sardegna, ed altri nell'ambito del procedimento relativo al fallimento del quotidiano l'Unità. Il processo è stato fissato al prossimo 13 febbraio.
Nei confronti di Soru ed altri l'accusa è di bancarotta per distrazione e per dissipazione. Soru, difeso dall'avvocato Fabio Pili, compare nel procedimento per il suo ruolo di socio svolto dal 2008 al 2015 in relazione alla gestione del quotidiano.
Dagonews il 6 settembre 2022.
C’è qualcosa di stonato nella valanga di inviti a ritirarsi rivolti dai giornali italiani a Plácido Domingo, ufficialmente nato a Madrid il 21 gennaio 1941, ma in molti sostengono qualche anno prima. L’atto di nascita è andato perduto fomentando la leggenda. Comunque, a quasi 82 anni (forse cinque in più), con moglie, figli, nipoti e una valanga di iniziative potrebbe darsi a quelle senza appannare la straordinaria carriera.
Ma, si sa, sono in molti a non riuscire a smettere e temere l’horror vacui e, tra questi, vanno annoverati più o meno tutti i giornalisti e commentatori che negli ultimi giorni, specie dopo il flop di Verona, hanno scritto articoli invitando Domingo a smettere “perché è venuta l’ora”.
Lo scrittore Ferdinando Camon (Urbana, 14 novembre 1935) giovedì primo settembre 2022 tuona dalle pagine di “Avvenire”, dove non cessa di inviare pezzi alla redazione Cultura: “Deve ritirarsi. Ma sarebbe stato meglio se si fosse ritirato prima”.
Per una volta “il Giornale” e “Il Fatto quotidiano”, quasi sempre di opposto parere, sono d’accordo. A unirli è Katia Ricciarelli (Rovigo, 18 gennaio 1946) che interviene consigliando a Domingo di smettere (“Ad una certa età meglio smettere”). Esatto, peccato che l’abbiamo vista l’anno scorso protagonista in tv nel “Grande Fratello vip”: appanna maggiormente la carriera Domingo in Arena o la Ricciarelli che canticchia nell’arena del Grande Fratello?
Al Corriere, a scrivere due articoli è la giornalista Giuseppina Manin, in pensione da circa dieci anni ma incapace di lasciare la “penna” ai più giovani: “Domingo, l’incapacità di dire basta”, appunto, basta. Simile “La Stampa”, dove il 31 agosto a parlare del “Tragico Domingo, fine di un mito” è Egle Santolini, anch’essa collaboratrice in pensione.
Il primo settembre, su “la Repubblica”, interviene Francesco Merlo (Catania, 8 aprile 1951), anche lui formalmente in pensione da anni, ma editorialista: “più la voce è stata grande più merita il riposo”. Amen. Sebbene, va detto, Merlo stigmatizzi, giustamente, la mancanza di rispetto verso una leggenda.
Insomma, visto da che pulpito vengono le prediche a Domingo non resta che continuare in buona compagnia, almeno in Italia, di giornalisti, scrittori e portieri come Buffon…
Giovanna Predoni per tag43.it il 7 settembre 2022.
Si respira una brutta aria nei corridoi che contano di Repubblica, dopo la tirata d’orecchie subita dal direttore Maurizio Molinari e arrivata direttamente per mano del padrone, John Elkann. Motivo del contendere, il trattamento riservato dal quotidiano fondato dal compianto Eugenio Scalfari a Giorgia Meloni, presa di mira con una campagna stampa ad hoc iniziata in concomitanza con l’avvio dell’altra campagna, quella elettorale.
Mentre si agita lo spauracchio fascista, la Meloni vola nei sondaggi
Il continuo sventolio dell’imminente spauracchio fascista che si materializzerebbe con la vittoria del centrodestra a trazione Fratelli d’Italia ha stufato l’editore, che avrebbe chiesto un cambio di linea.
Del resto la Repubblica ha persino sorpassato a sinistra, almeno in tema di anti-melonismo, l’altro giornale del gruppo Gedi, La Stampa del direttore Massimo Giannini. Una presa di posizione considerata prevenuta ed eccessiva da parte di Elkann, non fosse per altro che la battaglia è destinata a essere persa: la Meloni vola nei sondaggi e secondo le fresche rilevazioni di Swg per La7 ha appena raggiunto picchi mai toccati, veleggiando intorno al 25,8 per cento.
La lezione dell’Avvocato Gianni Agnelli: «Noi siamo sempre filo governativi»
Pare inevitabile insomma che Fdi prosegua col vento in poppa per diventare l’azionista di riferimento della futura maggioranza di destra che guiderà l’Italia, a prescindere dall’eventualità che Giorgia riesca a ricoprire in prima persona la carica di premier.
E allora, qual è il senso di inimicarsi così tanto il prossimo esecutivo? John si ricorda bene gli insegnamenti che ascoltava in famiglia da giovane e che provenivano dal nonno: Gianni Agnelli ha sempre rivendicato con orgoglio la pragmatica filosofia di casa Fiat, ricordando: «Noi siamo governativi e istituzionali per definizione».
E pazienza se oggi Fca è diventata a trazione francese, il discorso può essere esteso all’altro business di famiglia, quello dei giornali. Senza considerare che molti degli stabilimenti automobilistici strategici per Fca sono ancora in Italia e potrebbero aver bisogno di incentivi e sostegni…
La linea aspra: inchieste sul passato, pericolo di deriva autoritaria, foto estreme
Da quanto è caduto il governo Draghi, Molinari ha picchiato duro sulla Meloni, ospitando anche in prima pagina la firma di Paolo Berizzi, giornalista da sempre molto attivo sul tema dei rigurgiti neofascisti, e srotolando inchieste sul passato della leader di Fdi, tra «anime nere, uomini della fiamma e impresentabili».
Il pericolo, secondo il quotidiano, sarebbe quello di una svolta autoritaria sul modello orbaniano, con una «internazionale reazionaria al lavoro per piegare le regole delle democrazie occidentali e trasformarle in autocrazie». Addirittura una foto pubblicata in apertura di giornale, con il faccione di Giorgia e il titolo “Il diktat”, è stata accusata di bodyshaming e di contenere allusioni sessuali.
In edicola le cose non vanno bene: netta crisi di copie rispetto al 2021
Che dietro questa profonda riflessione del nipote dell’Avvocato sulla linea editoriale ci sia anche la questione della crisi delle copie vendute? Non è un mistero che la Repubblica da tempo vada male: secondo i dati Ads, a giugno 2022 la direzione Molinari garantiva una diffusione, tra cartaceo e digitale, di 134 mila copie, con un inquietante -15 per cento rispetto ai dati di un anno prima.
Guardando le sole vendite in edicola, le cose vanno pure peggio, con 83 mila copie e un -20 per cento alla casella del confronto con giugno 2021. Una strategia che insomma sembra essere lose-lose: non frena l’emorragia di lettori e ha l’unico risultato di inasprire i rapporti con la donna che dal 25 settembre potrebbe governare il Paese. Ecco perché Elkann vorrebbe aggiustare la rotta. Prima che sia troppo tardi.
Le regole dell’ Ordine per i giornalisti candidati e l’informazione in campagna elettorale. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 2 Settembre 2022
Si legge che un giornalista evitare di assumere posizioni politiche di parte e di palesare in ogni modo le proprie simpatie e i propri orientamenti elettorali. E quale legge lo prevede ?
L’Ordine dei giornalisti ha pubblicato sul suo sito un vademecum destinato ai cronisti alle prossime elezioni. In una serie di faq (frequent answer e question) , l’Ordine fornisce indicazioni su come il giornalista deve comportarsi in campagna elettorale, in particolare se candidato, “al fine di rispettare il principio del pluralismo e dell’equilibrio nell’informazione”. Norme però non regolamentate da alcuna Legge.
Ad esempio si legge che un giornalista candidato può continuare a svolgere la sua attività, senza occuparsi di politica né andare in video o radio; se è un direttore responsabile, è opportuno che durante la campagna elettorale venga sostituito dal vicedirettore nelle funzioni di guida della testata. Ed ancora il cronista dovrebbe poi astenersi dal condurre eventi a favore di un singolo candidato e in ogni caso chiarire che si tratta di una prestazione professionale. O evitare di assumere posizioni politiche di parte e di palesare in ogni modo le proprie simpatie e i propri orientamenti elettorali.
Lasciatecelo dire: siamo alla follia ! Un giornalista a parere nostro è un cittadino come gli altri, ed è quindi tenuto a rispettare solo la Costituzione e le Leggi. Non delle norme anticostituzionali e quindi illegittime. Ecco l’elenco completo delle faq.
Un giornalista candidato alle prossime elezioni politiche può continuare a svolgere la sua attività? Il giornalista candidato può continuare a svolgere la propria attività lavorativa a condizione che non si occupi di politica e in particolare di argomenti che possano avere riflessi e ricadute sul voto. Tuttavia, la prestazione del giornalista sui servizi di media audiovisivi di cui alla legge 28/2000 deve essere sospesa durante la campagna elettorale anche nel caso in cui si riferisca a materie non attinenti. Infatti, l’apparizione in video (o audio, nel caso della radio) costituisce di per sé un indebito vantaggio per il giornalista-candidato.
Un direttore responsabile, candidato alle elezioni per il rinnovo del Parlamento, può continuare a svolgere il suo ruolo? E’ opportuno che dal momento della candidatura e sino alla conclusione delle elezioni la direzione della testata sia affidata al vice direttore. Il giornalista potrà ottenere gli stessi spazi sul giornale, televisione, radio o sito web degli altri candidati.
Un giornalista invitato a presentare una serata elettorale organizzata da un candidato, come si deve comportare? Il giornalista dovrebbe astenersi dal condurre eventi a favore di un singolo candidato. Nel caso dovesse accettare l’incarico dovrebbe comunicare in modo evidente e chiaro che si tratta di una prestazione professionale e non di una presa di posizione personale.
Un giornalista che entra in possesso di una notizia “sensibile” su un candidato alle elezioni a pochi giorni dal voto come si deve comportare? Il giornalista è tenuto a rivelare le notizie nel momento in cui ne viene a conoscenza. Nel periodo elettorale dovrà fare in modo, nel caso si tratti di una notizia negativa che potrebbe danneggiare il candidato, che l’interessato abbia la possibilità di replicare nei tempi previsti dalla campagna elettorale.
Un deputato uscente, e nuovamente candidato, organizza un incontro per illustrare l’attività svolta nel corso del mandato a pochi giorni dalle elezioni. Il giornalista come deve comportarsi? Il giornalista dovrà riportare l’attività svolta dal deputato/candidato in modo professionale e senza eccessi e sensazionalismi per quanto riguarda l’attività svolta riportando eventualmente in modo sobrio gli aspetti inediti della campagna elettorale.
Un giornalista può esternare le proprie simpatie politiche partecipando a meeting o eventi nella veste di semplice cittadino? Il giornalista durante la sua attività, e in particolar modo nel corso della campagna elettorale, mantiene un atteggiamento professionale ed evita di assumere posizioni politiche di parte, anche quando presenzia ad eventi a titolo personale.
E’ opportuno che un giornalista mostri le proprie simpatie politiche indossando o esibendo gadget elettorali? Il giornalista evita di palesare in ogni modo le proprie simpatie e i propri orientamenti elettorali.
Una testata organizza un confronto elettorale tra i vari candidati di un Collegio elettorale. Come comportarsi in caso di rinuncia da parte di uno dei candidati? Il moderatore dell’incontro all’inizio del confronto elettorale ricorderà che tutti i rappresentanti candidati alle elezioni sono stati invitati e che il tale candidato di quell’area politica ha preferito non intervenire al confronto.
Le varie testate hanno da tempo profili social propri. Il silenzio elettorale vale anche per le piattaforme web? Le norme che regolano la diffusione di notizie relative alle prossime elezioni e ai vari candidati valgono anche per i profili social delle testate stesse. Va specificato che si deve trattare di testate giornalistiche ricomprese nell’ambito di applicazione delle norme che disciplinano il silenzio (art. 9 della legge n. 212 del 1956 e s.m.i. e art. 9 bis del d.l. n. 807/1984, convertito in legge 4 febbraio 1985, n. 10), da cui sono esclusi quotidiani e periodici. La violazione del silenzio ai sensi di queste norme esula dall’ambito di applicazione della legge n. 28/2000, e dunque dalla competenza dell’Autorità, risultando invece suscettibile di valutazione, ai sensi dell’art. 9 della legge n. 212/1956, da parte delle Autorità prefettizie.
Diritto all’oblio: può venir meno nel momento in cui un cittadino decide di candidarsi? Il giornalista dovrà valutare con attenzione la notizia che in condizioni normali non dovrebbe essere pubblicata bilanciando il diritto all’oblio all’eventuale interesse pubblico con riferimento alle elezioni.
Un giornalista può schierarsi politicamente sui propri profili social privati? Il giornalista rispetta sempre e comunque le regole deontologiche anche sui social e piattaforme personali, come previsto dal Testo unico dei doveri del giornalista.
Un giornalista può svolgere il ruolo di addetto stampa di un candidato o di un gruppo politico? Il giornalista che sceglie o accetta di svolgere il ruolo di addetto stampa per un candidato alle elezioni sospende la sua attività di giornalista presso testate giornalistiche o comunque interrompe la scrittura di articoli di politica elettorale per testate giornalistiche.
Come regolarsi in ordine alla diffusione dei risultati di sondaggi? Con riferimento ai sondaggi, oltre al Testo Unico dei doveri del giornalista, va applicato il regolamento allegato alla delibera 256/10/CSP di AGCOM, che ne costituisce una specificazione. Inoltre, con riferimento ai sondaggi politico elettorali nel corso della campagna elettorale, trova applicazione la legge 28/2000. Per cui, oltre ai doveri di trasparenza da rispettare nella diffusione sui mezzi di comunicazione (nel caso dei sondaggi, AGCOM ha competenza sia sugli SMAV che sulle testate giornalistiche in generale), va rispettato il divieto di diffusione nei 15 giorni antecedenti al voto.
Come effettuare le segnalazioni relative alle violazioni di competenza dell’Autorità? La legge 28/2000 stabilisce, all’art. 10, che solo i soggetti politici interessati sono legittimati a segnalare le violazioni all’AGCOM, all’emittente privata o all’editore presso cui è avvenuta la violazione, al competente comitato regionale per le comunicazioni, al gruppo della Guardia di finanza nella cui competenza territoriale rientra il domicilio dell’emittente o dell’editore. Le segnalazioni all’Autorità vanno inoltrate all’indirizzo di posta elettronica certificata agcom@cert.agcom.it. L’Autorità procede anche d’ufficio a valutare le presunte violazioni della legge 28/2000 e delle delibere attuative.
Come segnalare eventuali violazioni deontologiche dei giornalisti? Eventuali violazioni deontologiche possono essere segnalate ai Consiglio territoriale di disciplina istituito presso la sede di ogni Ordine regionale dei giornalisti.
I primi cronisti parlamentari erano dei "Capitan Fracassa". Arnaldo Vassallo concepì un giornale corsaro assieme ad amici. Da quella redazione passarono D'Annunzio e Trilussa. Giancristiano Desiderio il 26 Agosto 2022 su Il Giornale.
Le testate giornalistiche di fine Ottocento erano più affascinanti e fresche, addirittura ironiche bisogna pur riconoscerlo delle attuali: Capitan Fracassa, Don Chisciotte della Mancia, Folchetto, Il Torneo. Non sono esempi presi a caso e sono stati scelti da Adriano Monti Buzzetti Colella per svolgere la sua ricerca sulle origini del giornalismo parlamentare con il lavoro, insieme istruttivo e divertente, Reporter col cilindro (Giubilei Regnani). Giulio Andreotti, che con uno scritto del 2008 firma la Prefazione del testo, osserva che si tratta di una «particolarissima storia d'Italia» e nota che con una «documentazione inedita» si dà rilievo a un metodo di lavoro giornalistico che ancora oggi può risultare utile per riconsiderare e migliorare il giornalismo che si aggiunga con l'avvento dell'informazione in «tempo reale» e «irreale» ha visto prima il declino e poi la scomparsa della nobile figura del cronista parlamentare.
Come diceva l'Ariosto aprendo il suo gran poema? Le donne, i cavallier, l'arme, gli amori, le cortesie, l'audaci imprese io canto. E la stessa cosa ha fatto Adriano Monti Buzzetti Colella, che ha un nome che sembra una marcia d'orchestrali, che ha raccontato amori, duelli, penne, sfide, maneggi, imprese e fallimenti dei giornali e dei giornalisti italiani che hanno la stessa data di nascita dell'Italia tutta unita, senza l'esclusione della stessa Roma dei Papi che con l'ingresso dei bersaglieri il 20 settembre 1870 diventò di fatto la nuova capitale del Regno. Il lavoro di Adriano Monti sia concessa l'abbreviazione che è un noto problema giornalistico che è di stanza al Tg2 come vicecaporedattore della Cultura, ricopre un quindicennio circa di storia giornalistica e parlamentare: dal 1876, quando la Sinistra storica va al governo, al 1892 quando esplode lo scandalo della Banca Romana. Il protagonista di questi anni non è né Francesco Crispi e nemmeno l'inventore del trasformismo Agostino Depretis, che pure fu ben otto volte presidente del Consiglio, bensì Luigi Arnaldo Vassallo. Chi è? Il pioniere del giornalismo moderno. Un genio. Sa usare la penna e la matita, scrive e disegna, titola, critica, fustiga, inventa e con Capitan Fracassa, concepito e finanziato nel caffè-birreria Morteo in via del Corso a due passi da Palazzo Chigi, trasforma il giornalismo del tempo in un'attività insieme professionale e letteraria. Le cose andarono così. Si ritrovarono una sera, come spesso accade tutt'oggi, quattro amici al bar ed erano tutti giornalisti o praticavano l'insana abitudine di frequentare redazioni e altri postriboli: Federico Napoli, Gennaro Minervini, Peppino Turco e, appunto, Vassallo che veniva da Genova ma si era ambientato bene nella nuova Roma in cui si incrociavano le penne e le spade. Luigi Arnaldo Vassallo, che firmava un po' ovunque con lo pseudonimo di Gandolin ossia vagabondo, tirò fuori l'idea fissa di ogni giornalista di razza: «Facciamo un giornale tutto nostro». E così misero giù il progetto: redazione, sede, battaglie e nome geniale: Capitan Fracassa. Dove si fermarono? Dove ci si ferma sempre: i soldi. Ma in quel momento entrò il banchiere Moisé Bondi. Gli esposero l'idea e il banchiere, che si era trasferito da Firenze a Roma, che non era fesso, altrimenti non poteva essere banchiere, prese a volo l'occasione di avere un giornale: «Ecco diecimila lire». Una cifra enorme per l'epoca e della quale non volle mai la restituzione.
È il caro vecchio problema del finanziamento dei giornali che genera come scrisse una volta Vittorio Feltri nella Prefazione al libello di Tito Giliberto Penne Sporche l'omissione, la distrazione, l'autocensura, il conformismo, la vigliaccheria. Tutti difetti del giornalismo nostrano (non solo nostrano) che, però, non furono di Gandolin e del suo Capitan Fracassa che finì per fracassare non poco l'anima ai potenti di turno. Perché, in fondo, il mestiere del giornalista, come disse una volta un decano dei cronisti parlamentari come Guido Quaranta, consiste «nel rompere i coglioni a tutti».
Vassallo fu il direttore del giornale e il Fracassa, con i suoi articoli e con i suoi «pupazzetti» oggi diciamo vignette divenne «il centro intellettuale della nuova Roma». Non a caso per la redazione passarono, per citarne solo alcuni, Gabriele D'Annunzio, Edoardo Scarfoglio, Edmondo De Amicis, Matilde Serao, Cesare Pascarella, Trilussa mentre lo stile, lo pseudonimo, i «pupazzetti» vennero letteralmente copiati dagli altri quotidiani romani. Tutti lo cercano e tutti lo vogliono dirà il Vate di Luigi Arnaldo Vassallo perché «sa cogliere il lato ridevole degli uomini e delle cose e in un sol gesto o in sol motto o con un segno solo della matita rappresentarlo». Appunto, un genio.
Che più? Molto, molto altro perché il libro, di cui qui si è dato un piccolo assaggio, è una miniera d'oro di notizie e di disegni su un tempo lontano ma non troppo della nostra storia patria, politica e giornalistica, che come avvertiva l'avvertito Giulio Andreotti scrivendo all'autore andrebbe riscoperta per rinfrescare l'aria delle stanze del giornalismo contemporaneo, così conformista, così «corretto», così privo della santa ironia del Capitan Fracassa.
Luca Di Carmine per tag43.it il 25 agosto 2022.
Una paginata di Libero piena di elogi per Veronica Gentili, intervistata sui temi della politica, e non solo. Che poi da quel quotidiano uno non se lo aspetta: proprio la Gentili non aveva dato dell’ubriaco a Vittorio Feltri? Striscia la notizia la beccò mentre affermava: «È talmente ubriaco che non riesce a parlare. Dice cose da sussidiario con il delirio. Che spettacolo, ma quanto ha bevuto?», ricevendo come risposta da Feltri una serie di frasi indimenticabili, a partire da «Veronica Gentili è simpatica come una zanzara tigre sullo scroto».
Nel testo, la conduttrice Mediaset parla di Silvio Berlusconi, certo in toni molto diversi da quelli utilizzati quando lei scrive per il Fatto Quotidiano di Marco Travaglio: «Lui è stato il re della televisione, ora ha scoperto la potenza dei social e la sta sfruttando. Forza Italia deve connotarsi e gli spazi sono pochi». Non mancano considerazioni critiche per Enrico Letta: «La demonizzazione del nemico è un po’ un tic a cui ciclicamente si aggrappa la sinistra.
Ma la verità è che la legittimazione di Giorgia Meloni, come avversario credibile, è arrivata proprio dal Partito democratico in questi anni. La strategia può avere un senso solo in chiave esterna, facendo perno sui temi che spaventano di più i partner europei e internazionali. Dai tempi dell’asse gialloverde si è capito una cosa: se non sei accreditato all’estero, non governi in Italia. Meloni sta facendo tesoro di quella esperienza altrui e si sta comportando di conseguenza».
La fatica però si sente, anche nei comodi studi del Cavaliere: «Dire che l’estate sia un periodo tranquillo per l’informazione politica è un luogo comune. Tutto è un po’ cambiato. Dall’anno del Papeete e del crollo del governo gialloverde. Agosto è diventato un mese impegnativo». Però si occupano gli spazi, se gli altri stanno in ferie durante i mesi estivi. Vero Veronica?
Clemente Pistilli per repubblica.it il 24 agosto 2022.
Più che tirare il Carroccio, caricandolo di voti, Antonio Angelucci sembra essercisi accomodato sopra per farsi trasportare nuovamente in Parlamento, dove non mette quasi mai piede ma dove ha un seggio garantito da 14 anni. L’ex portantino dell’ospedale San Camillo di Roma, diventato poi imprenditore della sanità, editore e immobiliarista, dopo tre legislature con Forza Italia è stato candidato nel plurinominale dalla Lega, al primo posto sia in Lazio 1 che in Lazio 2.
Un posto sostanzialmente blindato, su cui a quanto pare non hanno potuto proferire verbo gli esponenti regionali del partito e su cui ha deciso in autonomia Matteo Salvini. I rapporti tra il ras delle cliniche e Denis Verdini sono annosi e sarebbe bastata al “Capitano”, fidanzato con Francesca Verdini, una parola del “suocero” per assicurare altri cinque anni da parlamentare al 77enne di Sante Marie.
Angelucci da parlamentare ha un record: quello dell’assenteismo. Nella scorsa legislatura si è presentato solo al 3,2% delle sedute a Montecitorio. Non si ricordano suoi particolari interventi in aula. Non presenta atti di sindacato ispettivo e, fatta eccezione per una proposta di legge sull’ippoterapia, non sembra particolarmente interessato neppure al fronte legislativo.
In quattordici anni nel Lazio sicuramente non è stato uno dei portatori di voti per Forza Italia e non si ha memoria di un suo improvviso impegno per quella Lega che da partito del Nord ambisce, o forse ambiva, a diventare il primo partito di centrodestra a livello nazionale. Ma per Salvini ora come per Silvio Berlusconi prima tutto questo non conta e il seggio per Angelucci, editore dei quotidiani Libero e Il Tempo, è garantito.
Il parlamentare è imputato per tentata corruzione, relativamente a una mazzetta da 250mila euro che nel 2017 avrebbe offerto all’assessore regionale alla sanità Alessio D’Amato, per ottenere il via libera al pagamento dei crediti alla clinica San Raffaele Velletri, alla quale la Regione aveva già revocato l’accreditamento. Sempre per quella clinica è stato processato e poi assolto dall’accusa di una maxi truffa al sistema sanitario.
L’onorevole è stato inoltre condannato in primo grado a un anno e quattro mesi per falso e tentata truffa, relativamente ai finanziamenti pubblici ricevuti nel 2006 e nel 2007 da Libero e dal Riformista, ed è infine in corso una delicata indagine sui tanti morti, durante la prima ondata del Covid, al San Raffaele di Rocca di Papa.
Nel 2011 Angelucci concesse un prestito milionario a Denis Verdini, in difficoltà per i debiti contratti con il Credito Fiorentino. L’ex uomo forte del centrodestra in Toscana sarebbe stato inoltre l’artefice dell’incontro a Montecitorio tra l’onorevole imprenditore e il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti, per discutere di sanità. Tra una cena da PaStation e una colazione al bar Ciampini, i rapporti tra Angelucci e Verdini sarebbero stati sempre intensi e avrebbero pesato nella candidatura.
Licenziata perché non si tinge più i capelli. Scoppia il caso alla tv canadese. Novella Toloni sabato 20 agosto 2022 su Il Giornale
Sui social network la foto di Lisa LaFlamme dietro al bancone del CTV News, il telegiornale del più grande network televisivo canadese privato, è diventata l’emblema di una battaglia contro la discriminazione, che sta infiammando il Canada da giorni. Da dodici anni la giornalista e conduttrice 58enne era il volto delle tg dell’emittente CTS, ma il suo contratto è stato rescisso di punto in bianco - a due anni dalla scadenza - sembra per colpa dei suoi capelli grigi. E apriti cielo.
LaFlamme non è riuscita neppure a salutare i telespettatori, onore che era spettato invece ai suoi predecessori e ai colleghi di altre emittenti. Lo ha fatto privatamente, attraverso un videomessaggio pubblicato su Twitter, dove ha espresso il suo rammarico per l’addio improvviso: "Sono scioccata e rattristata. A 58 anni pensavo ancora che avrei avuto molto tempo per raccontare storie che hanno un impatto sulla nostra vita quotidiana".
Secondo i tabloid canadesi, l’arrivo del nuovo direttore del telegiornale, Michael Melling, avrebbe generato uno scossone all’interno della redazione del CTS News e i rapporti con LaFlamme si sarebbero fatti subito complicati. La giornalista, 58 anni, aveva alle spalle anni di servizio come inviata e corrispondente e avrebbe avuto da ridire su alcuni tagli e cambiamenti apportati da Melling, il quale - per contro - avrebbe iniziato a puntare l’attenzione sul colore dei capelli della storica anchorwoman canadese.
Da un paio di anni, infatti, Lisa LaFlamme ha smesso di tingersi i capelli, apparendo in video con il suo naturale colore grigio. Una scelta dettata dalla pandemia, che le aveva reso impossibile recarsi dal parrucchiere, ma che lei aveva definito liberatoria: "Alla fine ho detto: 'Perché preoccuparsi dell'età? Sto diventando grigia'. Onestamente, se avessi saputo che poteva essere così liberatorio, l'avrei fatto molto prima".
La sua decisione non sarebbe, però, piaciuta al neo direttore, il quale in più di un'occasione avrebbe manifestato il suo disappunto sia davanti a lei sia di fronte ai colleghi. Così la rescissione del suo contratto - a due anni dalla naturale scadenza - ha scatenato la polemica. Sui social network il suo licenziamento è stato visto come un abuso, ma soprattutto come una discriminazione sessista e di età. Come era prevedibile, le critiche hanno travolto l'emittente, che ha motivato la scelta come una "decisione aziendale" ma poi, per salvarsi dalla bufera, ha offerto a Lisa LaFlamme altre forme di collaborazione. Dalla Bell Media, la società madre di CTV, però, hanno fatto sapere di avere aperto un'indagine interna per accertare l’eventuale discriminazione.
Sergio Carli per blitzquotidiano.it il 16 agosto 2022.
Le vendite in edicola dei giornali quotidiani italiani nel mese di giugno confermano la crisi.
Un altro dieci per cento del mercato si è dileguato. Se continua così, a colpi di 100 mila copie perse ogni anno, nel giro di una dozzina d’anni non ci sarà più una copia di carta in circolazione.
Che fine farà la più o meno libera ma abbastanza variegata informazione professionale nella nostra cara Italia? Resteranno le varie “Bestie” e i social network, roba buona per gli zombie di Beppe Grillo.
Forse alla masnada di incapaci che affolla destra e sinistra senza soluzione di continuità va meglio così. Da come si sono comportati Governi e Parlamenti da Berlusconi in giù si direbbe che questo è il destino riservato dal Potere Politico alla stampa italiana. Una lenta e inesorabile morte per inedia.
Un po’ i giornalisti se la sono cercata. Hanno esultato è un po’ contributo alla morte della Democrazia Cristiana sognando un futuro comunista guidato da gente come Massimo D’Alema che teorizzò: guardate la tv, non leggete i giornali.
Il rapporto fra politici e giornali è difficile da sempre e sotto tutte le latitudini L’unico che in questi ultimi 20 anni ha provato a fare qualcosa fu, ai tempi del primo governo Prodi, Arturo Parisi, che fu sottosegretario all’editoria. Il frutto del suo lavoro fini come l’Okawango per la secolare litigiosità dei toscani. Poi di peggio in peggio.
Se non c’era Draghi ai poveri giornalisti avrebbero portato via anche le pensioni.
Sarebbe invece indispensabile in questo momento di tragica crisi un duplice intervento pubblico. Uno finalizzato a una drastica riduzione del costo del lavoro, fiscalizzando gli oneri sociali.
L’altro con una gestione coordinata, centralizzata della innovazione tecnologica. Non con soluzioni improbabili come la Netflix italiana. Come ieri la forza dei giornali erano le rotative e i furgoni della distribuzione, acciaio e ferro e motori, domani tutto dipenderà da quell’impalpabile, misterico, indefinibilmente arcano regno del software.
I risultati di questa auspicabile evoluzione sembrano purtroppo modesti. A fronte di poco più di 1,1 milioni di copie vendute in edicola nel giugno del 2022, gli abbonamenti digitali sono stati 439 mila, appena 25 mila in più sul 2021. Cioè: l’edicola vende un 10% in meno di copie di carta mentre quelle digitali non prendono momento, crescendo solo del 6%.
A fronte dei 25 mila abbonamenti in più, ci sono 126 mila copie perse in edicola. All’interno del numero ci sono miglioramenti e peggioramenti ma qui mi limito al dato complessivo.
Negli anni ‘60 e ‘70 i giornali erano dati per spacciati. Poi arrivò la legge 81 del 1981, che inaugurò un ventennio glorioso, si arrivò a vendere sette volte il numero di copie di oggi.
Ma allora c’erano gli odiati democristiani. E c’era Giovannini.
Giampiero Mughini per Dagospia il 20 agosto 2022.
Caro Dago, il tuo sito registra puntualmente come da un anno all’altro continui a precipitare verso il basso il numero di copie vendute dei quotidiani di carta. Lo fa non senza una vena di sadismo, la tua rivalsa alla supponenza con cui la buona parte dei giornali di carta accolsero vent’anni fa la nascita del tuo sito online. Sta via via succedendo ai giornali di carta e ai giornalisti che ci lavorano quel che tra fine Ottocento e metà del secolo scorso accadde alle zolfatare e alla caterva di operai che ci lavoravano, che l’intero loro segmento produttivo sparisse nel nulla.
“I giornali sono morti e sepolti”, mi dice l’edicolante dal quale compro ogni mattina i miei cinque quotidiani e che pure si trova in una posizione commercialmente eccellente. Dirimpetto alla Stazione Trastevere, un sito dove il pubblico di passaggio è tanto. Ebbene se c’è qualcuno che la mattina mi sta precedendo nel rivolgersi a quell’edicola, non è che sta comprando i giornali e bensì i biglietti della metropolitana. Nell’albergo di Procida dove ho trascorso una settimana di vacanze, un albergo atto alla buona borghesia le cui 15 stanze erano tutte occupate, io ero l’unico ad aver chiesto di procurarmi i quotidiani ogni mattina.
Trent’anni fa, ai tempi in cui lavoravo al Panorama che vendeva settimanalmente oltre mezzo milione di copie, se mi trovano sul vagone di un treno ad alta velocità un passeggero su due stava sfogliando il Panorama o l’Espresso. Oggi nessuno, la più parte sta cliccando chissà che. E del resto sarà anche quella una delle ragioni della crescente semi analfabetizzazione del prossimo con cui ci imbattiamo ogni giorno e di cui è un sintomo allarmante il degrado del nostro discorso pubblico corrente. Un discorso dove impazzano, nelle piazze e persino nei talk-show televisivi, quelli che le sparano più grosse di tutti
Fermo restando che online c’è una quantità enorme di materiale utile e talvolta indispensabile _ a cominciare da questo sito di cui mi sto avvalendo _, stiamo assistendo all’agonia di un intero segmento produttivo. Non credo di sbagliare quando dico che sui giornali italiani sono stati radi gli accenni al fatto che l’istituto pensionistico dei giornalisti italiani, l’Inpgi, è tecnicamente fallito ed è stato dunque assorbito dall’Inps.
Detto in parole più prosaiche, d’ora in poi sarà il contribuente italiano a pagare almeno in parte le pensioni di noi giornalisti in pensione. Com’è noto sono i giovani giornalisti al lavoro che con i loro contributi pagavano le pensioni dei giornalisti ultrasessantacinquenni andati in pensione.
Ebbene, oggi un giovane giornalista al lavoro paga il più delle volte dei contributi che attengono a stipendi miserrimi con i quali andrebbero pagate le pensioni di quelli che sono andati in pensione dieci o venti o trent’anni fa, e che nella buona parte dei casi avevamo stipendi più che decenti. Semplicissimo, un sistema pensionistico siffatto non è sostenibile. Se non è un’agonia questa.
Quando io sono arrivato a Roma all’alba dei Settanta, i giornali di carta mi hanno assicurato dapprima due pasti al giorno cui aggiungere più tardi un po’ di companatico e più tardi ancora del vino di qualità. Oggi leggo di ragazzi che collaborano a siti online e che vengono pagati tre o cinque euro al pezzo.
Avessi un figlio le cui intenzioni sono quelle di scrivere su un giornale di carta (quello che per me resta il lavoro più ambito), mi lancerei giù dal balcone dalla disperazione. Non oso guardare negli occhi chi mi si avvicina a dirmi che quello, il lavoro nei giornali di carta, è il suo sogno. Lo sta dicendo uno che se non avesse al mattino la carta dei quotidiani da sfogliare e da stropicciare, si sentirebbe morire. E’ forse questo il sintomo più vero nell’indicare quanto sono vecchio e decrepito.
Perché diffidare delle donazioni ai siti e del giornalismo a gettone. Redazione Rec News il 15 agosto 2022
Da decenni si dibatte sui danni causati al settore dell’informazione d proliferazione dei fondi per l’Editoria. I temi sono tra i più svariati: con che criteri vengono assegnati? Ricevere finanziamenti non pone le testate in condizione di sudditanza che finisce con l’impattare sull’imparzialità del lavoro svolto? Si tratta di un problema mai superato, che avrà soluzione solo con il taglio questo tipo di contributi che ormai non provengono solo dal governo e dalle sue ma anche dall’Ue, dalle big tech, dalle big pharma e da presunti filantropi, dalle multinazionali.
In teoria le piccole testate digitali (quelle che non hanno un quotidiano cartaceo a distribuzione collegato, per intenderci) dovrebbero essere al riparo da queste infiltrazioni, ma non è così. Anzitutto perché molti siti sono finanziati direttamente da partiti vecchi e nuovi, senza che ci sia – allo stato – alcun obbligo di indicare in gerenza il loro legame con la politica. Il che è un bel problema: il lettore inconsapevole si trova spesso sui siti che si dicono “indipendenti” o che fanno gli gnorri con frasi tipo “non siamo una testata giornalistica” o “siamo solo un blog”, per poi trovarsi di fronte a un prodotto aggiornato giornalmente che è diretta e calcolata emanazione di gruppi di pressione, di think-thank e di piattaforme finanziatrici.
Racket editoriale
La situazione peggiora quando questi siti – compresi quelli mainstream – si prestano a una sorta di racket editoriale portato avanti tramite la richiesta insistente e incessante di donazioni. C’è chi chiede di essere pagato in nome della “libertà”, chi per far fronte a costi crescenti” e chi chiede soldi mentre racconta di essere “senza padroni”. Ci sono quelli che “non vogliamo chiudere” e quelli che “siamo gli unici a regalarti il nostro giornalismo indipendente”. Frasi roboanti e slogan da imbonitori che hanno lo stesso obiettivo: convincere i lettori a mettere mano al portafogli. Farli “donare” a tutti i costi mentre nel quotidiano combattono contro il carovita, l’aumento delle bollette e, in molti casi, la disoccupazione. Il culmine arriva nei casi in cui ci si richiama alla Verità, all’obiettività, all’oggettività, all’indipendenza per giustificare la richiesta di denaro: pecunia non olet, dicevano i romani, ma un po’ di olezzo quando si mischiano valori alti a commerci da mercanti nel tempio, si inizia a sentire.
Se le donazioni servono a finanziare nuovi partiti ed attività di propaganda elettorale.
Qualcuno potrà obiettare che questa situazione è causata dalla crisi dell’editoria e dalla precarietà che affligge molti comunicatori e colleghi. In parte è vero, ma che succede se il giornalista chiamato a essere obiettivo e ricettivo, subordina la propria attività alla ricezione o meno di una donazione, ovvero di una cifra in denaro? Che si verifica lo spettacolo indecoroso a cui molti stanno assistendo in questi giorni di campagna elettorale: giornalisti “a gettone” che si prestano a questo o a quel partito in base ai foraggiamenti ottenuti, o che – al contrario – si rifiutano di coprire determinati eventi o di fare un’intervista se prima non gli si dà una rinfrescata al (già gonfio) conto corrente. Si tratta di siti che spesso gestiscono flussi di denaro da centinaia di migliaia di euro, completamente al riparo dal Fisco perché si tratta, ufficialmente, di “donazioni”. Per le Elezioni Politiche del 25 settembre, poi, molti comunicatori stanno rivelando il loro vero volto, con il supporto diretto di determinati soggetti politici per conquistarsi un seggio in Parlamento e il conseguente inganno svelato: le donazioni non servivano a finanziare testate che si auto-dichiaravano indipendenti, ma a perseguire obiettivi politici e finanziare attività di propaganda elettorale.
Il vero giornalista è come il buon medico
Niente di più lontano, insomma, dal lavoro di giornalista. Che può – chiaramente – candidarsi e fare politica, ma ha il dovere di comunicare con chiarezza e senza sotterfugi la sua aspirazione. Molte volte pubblicamente ci è capitato di ricordare che questa professione non è diversa da quella del medico. Un dottore, fosse anche uno specialista privato, no può rifiutarsi di curare una persona o di offrire assistenza a chi ne ha bisogno, perché dal suo lavoro dipende la preservazione della salute degli individui e in alcuni casi la loro vita, un bene supremo che va sempre tutelato. Allo stesso modo il vero giornalista non può tapparsi orecchie e bocca perché non è arrivato il bonifico o la donazione è in ritardo: se lo fa non è credibile e non merita la fiducia che gli viene accordata. Va liquidato, perché l’indipendenza, piaccia o meno, non ha davvero nulla a che vedere con il monitoraggio del proprio conto corrente, anzi.
Indipendenza per un giornalista significa anche e soprattutto non avere nessun legame diretto con le proprie fonti di finanziamento, se queste non coincidono con i ricavi della testata con cui lavora: chi pretende “donazioni” da un’intervistato o da chi cura una rubrica, non è indipendente. Chi minaccia di chiudere un sito in risposta al ritardo di una donazione non è indipendente e non è la persona giusta per lotte politiche di ampio respiro, perchè tradisce obiettivi prevalentemente commerciali che mal si conciliano con determinati ideali e con piani di rinnovamento sociale. Rec News dir. Zaira Bartucca
"Sarà l'editore a nominare il direttore: spero scelga me". L’Unità torna in edicola, la sinistra secondo Sansonetti: “Libertà, uguaglianza e garantismo”. Redazione su Il Riformista il 4 Dicembre 2022
L’Unità tornerà in edicola nei primi mesi del 2023, a un anno dal centenario della fondazione, e il direttore del Riformista, Piero Sansonetti, commenta in collegamento con il Tg4 la rinascita dello storico quotidiano della sinistra che verrà rilanciato in edicola e sul web dall’editore Alfredo Romeo.
“La modernità per me è libertà e garantismo – precisa Sansonetti -. Due colonne, due temi sui quali la sinistra è sempre stata molto prudente, molto impaurita, raramente è riuscita a farli suoi. Penso che una sinistra moderna può rinascere e credo che ce ne sia un enorme bisogno Italia anche per la destra, che ha bisogno di una sinistra per crescere”.
Sansonetti, un po’ scaramanticamente, spiega che “al momento non sono il direttore dell’Unità. Sarà l’editore Romeo a nominare il nuovo direttore, devo dire che spero che nominerà me ma questo si vedrà successivamente”. Ma “quello che posso dire è che torni in edicola un giornale che abbia tutta la forza del passato: la forza di rappresentare la sinistra, i più poveri, anche quello che è rimasto (perché è rimasto tanto) della classe operaia”.
“La sinistra può crescere solo se riesce a tenere fortissimo il tema dell’equità sociale e dell’uguaglianza” conclude.
Da primaonline.it il 22 novembre 2022.
L’Unità, giornale fondato da di Antonio Gramsci nel 1924, da luglio scorso nelle mani del curatore fallimentare del Tribunale di Roma ha trovato un nuovo editore.
Si tratta del Gruppo Romeo, già publisher de Il Riformista, che fa capo all’imprenditore napoletano Alfredo Romeo, e dello stesso direttore del Riformista, Piero Sansonetti (che a L’Unità ha lavorato per 30 anni).
Romeo e Sansonetti hanno infatti vinto la “gara” del curatore fallimentare offrendo 910 mila euro – superando i 900mila messi sul tavolo da Silvio Pons, presidente della Fondazione Gramsci – e assicurandosi la titolarietà della testata. L’operazione non prevede obblighi verso la corposa ex redazione del quotidiano che dal fallimento ha ancora delle pendenze sospese.
Sansonetti sta già cercando un direttore per la “nuova” Unità. Romors riferiscono che dovrà essere di area Calenda o zone politiche limitrofe.
L’intenzione è riportare il giornale in edicola all’inizio del nuovo anno.
Claudio Bozza per il "Corriere della Sera" il 24 novembre 2022.
«Lo slogan sarà questo: "Torna Gramsci, torna l'Unità "», annuncia solenne Piero Sansonetti, che sarà il direttore di questa «resurrezione» (la quarta) del giornale fondato dal padre del Pci, 98 anni fa. Alfredo Romeo, re degli appalti inciampato in più di un'inchiesta (Consip compresa), ha appena acquistato la testata all'asta fallimentare, dopo il tracollo dell'era Renzi. L'offerta vincente? Circa 910 mila euro, all'ultimo tuffo. Visto il profilo politico dell'editore, più d'uno ha ipotizzato una rinascita in versione liberal.
«Ma non diciamo idiozie - ribatte il direttore in pectore -. È l'Unità e sarà l'Unità .
Sarà un giornale di sinistra, che in questo momento manca in Italia». A metà gennaio, nei piani di Romeo, il quotidiano tornerà in edicola: carta (12 o 16 pagine) e sito, con una decina di giornalisti; mentre il Cdr della vecchia Unità richiama l'attenzione sui 21 tra giornalisti e poligrafici che dall'1 gennaio sono rimasti senza ammortizzatori sociali.
La gestione non può che essere quella dei «piccoli passi», specie vista la voragine lasciata dal precedente editore. La sede sarà in via della Pallacorda, a Roma, nell'immobile dell'editore dove c'è anche Il Riformista , oggi diretto sempre da Sansonetti e che avrà una nuova guida.
Per Sansonetti, a 71 anni, «è il sogno della mia vita che si avvera», perché lui a l'Unità ci ha lavorato per più di 30 anni, coprendo tutti i ruoli possibili: da cronista a condirettore. E a chi gli chiede perché si è lanciato in questa affascinante, quanto rischiosa, avventura, replica così: «Il Pd sarà il nostro partito di riferimento, ma state certi che ne rivendicheremo autonomia. E avremo rapporti con tutti i partiti del centrosinistra».
Quindi anche con il M5S?
«Macché: i 5 Stelle sono di destra, non c'entrano niente con la sinistra. Sono qualunquisti e populisti: hanno approvato con la Lega i decreti Sicurezza, una cosa che più di destra non si può». La parola chiave sarà «socialismo», tanto che «il nostro principale editorialista sarà Michele Prospero, filosofo marxista: il Pd non si può salvare se non torna al socialismo».
Faro dell’informazione italiana per quasi un secolo intero. A 98 anni dichiarato il fallimento de l’Unità, come faceva ad esistere senza una sinistra? Piero Sansonetti su Il Riformista il 30 Luglio 2022.
Il giudice ha dichiarato il fallimento dell’Unità. Aveva 98 anni. Era sopravvissuta al fascismo, all’imprigionamento dei suoi giornalisti e dirigenti, alla guerra fredda e alla fine del comunismo. Era stata fondata da uno dei maggiori intellettuali italiani del novecento, Antonio Gramsci. Aveva avuto grandi direttori, Come Ingrao, Alicata, Pajetta, Reichlin, Chiaromonte e Macaluso, tutti rami di quell’albero formidabile che fu il Pci. Ha formato e lanciato giornalisti tra i più celebri in Italia. E poi ha avuto collaboratori fantastici, come Calvino, Moravia, Natalia Ginzburg, Sibilla Aleramo, Caffé, Balducci. Ha resistito, impavida, a tutte le intemperie, ed è stata un faro nell’informazione italiana per quasi un secolo intero.
Alla fine è caduta: perché? Penso che sia caduta perché è scomparsa la sinistra, le sue idee, la sua forza, la sua liberalità, la sua tradizione. Il Pd non è stato mai in grado, da solo, di riprendere in mano quel gigantesco filone culturale della sinistra italiana. Ha finito persino per accodarsi, recentemente, al movimento qualunquista dei 5 Stelle. Come fa l’Unità ad esistere senza la sinistra? Soffoca. È successo così. E poi – come oggi denunciano il Cdr e il sindacato dei giornalisti – la sua agonia è stata protratta ogni oltre limite, a danno dei lavoratori. Questo è un requiem? Speriamo di no.
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
Fabio Castori per ilrestodelcarlino.it il 24 giugno 2022.
"I licenziati livorosi, che triste categoria". Aveva scritto sui social la giornalista Selvaggia Lucarelli, riferendosi alla collega fermana Sandra Amurri. Una battuta al veleno che aveva scatenato uno scambio di ficcanti frecciatine finito ieri in tribunale. A Fermo, oltre all’imputata, la Lucarelli, e la parte offesa, la Amurri, anche due testimoni illustri: Marco Travaglio, direttore de "Il Fatto Quotidiano" e l’amministratrice delegata dello stesso giornale, Cinzia Monteverdi.
Il primo citato dalla difesa, la seconda dalla persona offesa. Ne è scaturita una bella commedia all’italiana dove sono volate battutine ironiche ma anche parole grosse, persino in strada. Insomma nessuno si è fatto mancare nulla. A difendere la Lucarelli, citata in aula per diffamazione, l’avvocato Lorenzo Puglisi. A rappresentare la parte offesa, invece, gli avvocati Francesco De Minicis e Simona Cardinali. Ma andiamo per ordine.
Tutto inizia nell’agosto 2020 quando la Murri commenta sui social un articolo a firma della Lucarelli sulla storia d’amore tra l’ex compagna di Berlusconi, Francesca Pascale, e la cantautrice Paola Turci, citando anche l’omosessualità della cantante Fiorella Mannoia: "Satira convergente da Novella 3000. Trionfo dell’eleganza! Povero il mio ex giornale".
Quindi la replica della Lucarelli: "I licenziati livorosi, che triste categoria. Peggio però sono quelli che fingono di non capire una battuta e strumentalizzano il femminismo e la solidarietà femminile per attaccare qualcuno (la Mannoia che è parecchio più intelligente di te l’ha capita senz’altro). Peggio ancora sono quelli che se ne stanno zitti finché prendono il loro stipendio in un giornale, poi quando vengono mandati via si scoprono improvvisamente coraggiosi e sputano veleno su ex colleghi. Amurri, fatti una vita".
La controreplica dell’Amurri: "Sappi che di ciò che hai scritto qui, essendo totalmente falso e diffamatorio, ne risponderai nelle sedi competenti, così avrò il piacere di conoscere le tue autorevoli fonti".
E così è stato. Il nodo legale da sciogliere la questione che la Amurri non è mai stata licenziata da Il Fatto Quotidiano, quindi sarebbe diffamatorio l’appellativo "licenziata livorosa" e dannoso tanto da far richiedere alla parte offesa 30.000 euro di risarcimento. Arbitro della contesa il giudice Maura Diodato, che dovrà tenere conto delle due testimonianze. Travaglio suo malgrado ha dovuto ammettere: "L’avrei voluta licenziare, ma non ho potuto".
La Monteverdi alla domanda del giudice: "La Amurri è stata mai licenziata?", ha risposto in modo secco "no". Non licenziata livorosa 1 – Lucarelli 0. E palla al centro. Manco a dirlo. Fuori dal tribunale ancora frecciatine. "Girerai le foto a Dogospia? Mi raccomando passagli un resoconto della giornata", ha commentato la Lucarelli. "Vedi sei famosa, sono venuti qui per fotografarti. Stammi bene, ma non troppo. Bye bye", la risposta della Amurri. Finito qui? Neanche a parlarne. Si replica a novembre con altri testimoni e la seconda punta di questa infinita commedia all’italiana.
Da corriere.it il 29 maggio 2015.
Emergono nuovi elementi sul «caso» dei vip spiati violando le loro credenziali di accesso al server di posta elettronica. Sotto accusa Selvaggia Lucarelli, Guia Soncini e Gianluca Neri alias Macchianera, tre tra i più noti blogger italiani, a processo con decreto di citazione diretta per concorso in intercettazione abusiva, detenzione e diffusione di codici di accesso (unica non contestata a Lucarelli), accesso abusivo a sistema informatico e violazione della privacy, tutti reati aggravati dall’aver tentato di guadagnarci.
Tra le celebrities più monitorate da Gianluca Neri, attraverso l’utilizzo di dati sensibili, ci sarebbero anche il regista Paolo Virzì, Emanuele Filiberto di Savoia, l’ex calciatore Stefano Bettarini, il giornalista Paolo Guzzanti, la showgirl Melita Toniolo e la conduttrice Paola Perego. Dagli atti delle indagini risulterebbe, inoltre, che in alcune cartelle nella disponibilità di Neri erano contenuti anche dati di carte di credito.
In uno scambio di sms con Gianluca Neri la blogger Selvaggia Lucarelli si sarebbe espressa così sul contenuto della posta elettronica della conduttrice Mara Venier e sulle 190 immagini relative alla 32ma festa di compleanno di Elisabetta Canalisi, all’epoca fidanzata di George Clooney: «Mara è noiosissima, mentre invece le foto di Clooney sono spettacolari», avrebbe commentato Lucarelli.
Questo e altri messaggi dimostrerebbero, secondo la Procura, lo «spionaggio» effettuato dagli indagati ai danni della conduttrice televisiva e della showgirl Federica Fontana, nella cui posta c’erano le immagini scattate al party a Villa Oleandra, residenza di George Clooney. Anche Mara Venier è stata ascoltata dagli inquirenti, ma ha poi deciso di non presentare querela a differenza di Canalis e Fontana.
(ANSA il 29 maggio 2015) - "Habemus Scarlett". Così in un sms dell'ottobre 2010 Gianluca Neri, noto blogger col nome di 'Macchianera', si rivolgeva a Guia Soncini, anche lei imputata a Milano, assieme ad un'altra blogger, Selvaggia Lucarelli, con l'accusa di essere riuscita ad accedere "abusivamente" agli account di posta elettronica di alcuni personaggi del mondo dello spettacolo.
L'ipotesi dell'inchiesta è che i tre blogger siano riusciti a entrare in possesso del contenuto di e-mail e dei dati sensibili di volti noti del piccolo e grande schermo come Mara Venier, Scarlett Johansson e Sandra Bullock, ma anche del regista Paolo Virzì e di Emanuele Filiberto di Savoia, e abbiano anche acquisito illegalmente 191 foto della festa di compleanno di Elisabetta Canalis del 2010 che si è tenuta nella villa di George Clooney. "Siamo su Paris Hilton", scrive sempre Neri nel dicembre 2010.
Nelle circa 600 pagine di atti depositati dal pm di Milano Grazia Colacicco sono contenuti una lunga serie di sms che i tre blogger si sarebbero scambiati (non ci sono, però, messaggi tra Lucarelli e Soncini). "Mara è noiosissima, mentre invece le foto di Clooney sono spettacolari", scrive Lucarelli in un sms a Neri. E la stessa blogger in un altro messaggio scrive: "Mi faccio paura da sola a volte".
Secondo le indagini, dopo aver acquisito le foto della festa della Canalis usando codici e password dell'account della modella Federica Fontana, Lucarelli avrebbe cercato di vendere le immagini ad Alfonso Signorini di 'Chi', passando per il giornalista Gabriele Parpiglia e per un fotografo (entrambi non sono coinvolti nell'inchiesta, perché non erano consapevoli dell'acquisizione illecita degli 'scatti')
Maria Corbi per “la Stampa” il 29 maggio 2015.
Complici senza conoscersi. Le giornaliste Selvaggia Lucarelli e Guia Soncini non si sono mai viste, mai telefonate, mai messaggiate. Non si stanno per niente simpatiche, ma avrebbero rubato, in concorso con il blogger Macchianera (alias Gianluca Neri) i segreti di Sandra Bullok e Scarlett Johansson, ma anche di Mara Venier e le foto del compleanno di Elisabetta Canalis a villa Oleandra quando era la fidanzata in carica di George Clooney.
«Foto che mostrano gli interni della villa e la festeggiata che soffia sulle candeline», dice Neri. E chi le ha viste assicura che il vero scoop sarebbe nella tristezza degli arredi della villa più ambita del gossip. «Mai tentato di vendere nessuna foto, mai entrata nell’account di nessuno, faccio fatica anche con il mio», dice Guia Soncini. Anche la Lucarelli cade dalle nuvole: «mai fatto niente di quello che mi si accusa».
A spiegare come siano andate le cose e come questa trama di una fiction il cui titolo potrebbe essere «imbranati», sia arrivata nelle aule di giustizie, lo spiega Macchianera: «Quando la polizia bussò alla mia porta, ormai 4 anni fa, spiegai subito che parecchi mesi prima trovai quelle foto in un file zip condiviso da qualcuno sul sito 4chan, dove vengono postate e-mail, documenti e foto di svariate personalità hollywoodiane “hackerate” in qualche modo».
«E il link in questione era parte di una e-mail che la show girl Federica Fontana aveva inviato alle amiche allegando 191 foto scattate presso la villa Oleandra in occasione del compleanno della sua amica Elisabetta Canalis».
Macchianera manda queste foto a Selvaggia Lucarelli, che sbadiglia mentre le guarda. «Foto di interni di una casa banale, di una che spegne le candeline», ricorda la blogger. Ma quando a cena con un giornalista del settimanale «Chi», Gabriele Parpiglia, gliene parla, questo si eccita. Le vuole portare al direttore Alfonso Signorini. Spiega alla Lucarelli che valgono un sacco di soldi perchè nessuno ha ancora visto gli interni di villa Oleandra. «Io ho rifiutato ovviamente», spiega la giornalista.
«Ma lui se le è scaricate comunque. Cosa avrei fatto io? Dal mio computer non è stato trovato nessun accesso a mail di altri. Non ho mai violato un account in vita mia, neanche quello di ex fidanzati». A questo punto però Signorini vuole pubblicare le foto. «E allora insiste inutilmente con la Lucarelli e attraverso di lei con me», ricorda Macchianera. «Ma ovviamente ho rifiutato anche io».
Così, racconta nel suo blog il giornalista, i contatti per l’acquisto delle foto, passaggio necessario per la pubblicazione continuano in altre sedi tra altre tre persone. Ma mentre Soncini, Lucarelli e Macchianera vengono rinviati a giudizio, i tre che trattavano i 120mila euro vengono archiviati.
«Non lo capisco», dice Macchianera che racconta come il computer che gli è stato sequestrato in quanto possibile corpo del reato all’epoca dei fatti neanche esisteva. «Ad oggi, dopo quasi cinque anni, non mi è stato ancora restituito. La motivazione è che rappresenterebbe il corpo del reato. Reato che sarebbe avvenuto nei giorni immediatamente precedenti e successivi al 13 ottobre 2010. Peccato che la fattura di acquisto sia del 1° luglio 2011. Per non dire che quel modello di Mac a quell’epoca ancora non esisteva, forse solo nella mente di Steve Jobs».
E poi c’è Guia Soncini che non conosce la Lucarelli e che con Macchianera ha rapporti fatti per lo più di sms. «Non so perchè sono imputata io non ho mai tentato di vendere nulla e non ho mai tentato di fare scoop di nessun tipo in vita mia. Chi mi conosce sa che non cerco notizie ma le commento. E comunque non ho mai rubato niente a nessuno».
Dagotraduzione da The Hill il 22 giugno 2022.
Dire che c’è distanza tra molti giornalisti e il pubblico a cui si rivolgono è un grosso eufemismo, secondo un nuovo sondaggio del Pew Research Center, un centro studi statunitense indipendente. Secondo il Pew, il 65% dei quasi 12.000 giornalisti intervistati crede che i media facciano un ottimo lavoro nel «coprire le storie più importanti della giornata» e nel riportare le notizie in modo accurato.
Ma una solida maggioranza del pubblico americano la pensa in maniera opposta, e solo il 35% degli intervistati si è detto d’accordo con queste affermazioni. È un divario di percezione di 30 punti!
E non finisce qui. Alla domanda se i giornalisti si comportino bene nello «svolgere il ruolo di sorveglianti dei leader eletti», il 52% dei giornalisti ha risposto sì. Ma questo numero è sceso precipitosamente quando a rispondere alla domanda sono stati i lettori: meno del 30% si è detto d’accordo.
Ancora: il 43% dei giornalisti ha confermato di gestire e correggere la disinformazione in modo coerente, ma solo il 25% del pubblico la pensa allo stesso modo. Quasi la metà dei giornalisti (46%) ha affermato di sentirsi in contatto con i propri lettori, mentre solo un quarto del pubblico afferma la stessa cosa.
Allora perché questa disconnessione? Forse è una questione di posizione. La maggior parte dei media nazionalli si trova in due luoghi: New York e Washington Dc.
Durante le elezioni del 2020, solo il 9% degli elettori di Manhattan ha votato per Donald Trump. A Washington, il sostegno per Trump è stato del 5,4%. Chi vive in queste città o nelle sue vicinanze probabilmente è liberale. È naturale che la percezione dei problemi da parte di un giornalista sia conforme ai luoghi e alle persone con cui lavora e vive.
Il giornalista di lunga data Bof Schieffer si è buttato su questo argomento alcuni anni fa, spiegando quanto siano isolati oggi i giornalisti. «Nel 2004, un giornalista su otto viveva a New York, Washington o Los Angeles» ha scritto Schieffer nel suo libro “Overload: Finding the Truth in Today’s Deluge of News”. «Oggi quel numero è diventato a uno su cinque».
Schieffer ha individuato un altro problema: la massiccia diminuzione dei giornalisti locali a causa della riduzione dei budget. «Anche se non ci sono soluzioni al problema, c’è una specie di consapevolezza generale in tutto il settore sul fatto che se i giornali locali chiudono e nessuno prende il loro posto nel sorvegliare i governatori locali, sperimenteremo la corruzione a livelli che non abbiamo mai visto».
Dal 2004, circa 1.800 giornali hanno chiuso a causa del crollo della pubblicità e dei lettori che si sono rivolti al web. Un minor numero di giornalisti ed editori ha portato una minore fiducia perché la raccolta di notizie diventa sempre più confinata a due o tre città.
Complessivamente, secondo Pew, solo il 29% degli adulti statunitensi afferma di avere almeno una discreta fiducia nell’informazione che riceve. Nel 1976, nell’era post-Watergate, la fiducia nei media era del 72%, 43 punti in più!
Un perfetto esempio della disconnessione tra alcuni giornalisti e il pubblico è quello che è successo con il giornalista della Cnn Don Lemon. «Alla CNN, non esprimiamo opinioni, pubblichiamo la storia e cerchiamo di rimanere in mezzo alla strada», ha detto di recente mentre era in onda. Ma durante lo stesso segmento, Lemon ha espresso questa opinione: «C'è un partito, in questo momento, che di fatto non sta operando, che ha fuorviato il popolo americano, ed è il Partito Repubblicano».
Nulla cambierà a breve. I giornali locali stanno tagliando sempre di più il personale mentre i profitti diminuiscono. Il risultato è che le testate giornalistiche online con sede quasi esclusivamente nell'azzurro di New York o di DC continuano ad espandersi.
Un altro risultato dello studio del Pew potrebbe essere il più rivelatore: quando è stato chiesto di caratterizzare l'industria del giornalismo in una parola, il 74% dei giornalisti ha utilizzato una parola con una connotazione negativa, tra cui "caos" e "lotta". Altre parole citate includevano "di parte", "partigiano" e "stressante". Nonostante queste descrizioni, il 77% dei giornalisti intervistati ha affermato che sceglierebbe di nuovo la stessa carriera.
Uno studio del 2013 realizzato dai professori di giornalismo dell'Università dell'Indiana Lars Wilnat e David Weaver ha rilevato che solo il 7% dei giornalisti si identifica come repubblicano. Nel 2002, quel numero era del 18%.
Quindi, se sei un repubblicano che fa un colloquio per un lavoro al New York Times, un giornale che non sostiene un candidato presidenziale repubblicano da 66 anni, o al Washington Post, che non ha mai sostenuto un candidato presidenziale repubblicano, è un pessima idea condividere la tua affiliazione al partito.
Questo è lo stato dei media nel 2022, dove le bolle nella Grande Mela e nella capitale della nazione sono sempre più insonorizzate, e lasciano fuori il resto del mondo.
Da “Pulci di notte” di Stefano Lorenzetto da “Anteprima. La spremuta dei giornali di Giorgio Dell’Arti” e pubblicato da “Italia Oggi” (stefanolorenzetto.it/) il 27 luglio 2022.
Editoriale di Massimiliano Panarari sulla Stampa: «Non stiamo parlando di cinghiali (di quelli ce ne stanno anche troppi in carne e ossa)». Professore, lei risulta nato a Reggio Emilia: anche se insegna alla Luiss, lasci perdere questi orribili romanismi.
Più avanti: «E su Youtube cala il carico da novanta». Ne deduciamo che lei fu militesente e che non gioca a briscola: si cala il carico da undici (l’asso, che vale 11 punti), non da novanta.
Da novanta è il pezzo di chi nella mafia gode di grande autorità o, tutt’al più, il pezzo di artiglieria del cannone contraereo utilizzato dall’Italia durante la Seconda guerra mondiale (90 ovviamente era il calibro).
Dagospia il 27 luglio 2022. Riceviamo e pubblichiamo:
Caro professor Panarari, temo che lei sia un lettore frettoloso. Sono stato io a farle notare che 90 si riferisce tutt’al più al «pezzo di artiglieria del cannone contraereo utilizzato dall’Italia durante la Seconda guerra mondiale».
Quindi la sua precisazione a Dagospia in che cosa consiste?
Nell’aver copiato da Wikipedia che il cannone contraereo fu adottato dal Regio esercito italiano?
Resta il fatto che le si contestava: il carico da 90 non si «cala», come lei hai scritto.
Si calano le carte, non i proiettili.
Alla prossima.
Stefano Lorenzetto
LETTERA DI MASSIMILIANO PANARARI A DAGOSPIA il 27 luglio 2022.
Caro Dottor Stefano Lorenzetto, buonasera, è un onore rientrare tra coloro a cui lei fa le pulci (ma non "pulciari", però, in questo caso, a proposito del romanesco). Il "ce ne stanno" riferito ai cinghiali nell'articolo su "La Stampa" richiama appositamente la lingua della città che si trova assediata dagli ungulati, diventati un problema quotidiano di cui si discute nella lingua comune di una città che amo profondamente (oltre a lavorarci, come lei ricorda: in UniMercatorum, in primis, e in Luiss).
Il "carico da novanta" non rimanda alle carte da briscola, infatti, né men che meno alla criminalità organizzata, ma ha a che fare con l'esercito, seppure non con lo scomparso servizio militare di leva. Ovvero alla potenza di fuoco dell'allora moderno cannone calibro 90 che negli anni Quaranta venne adottato dall'artiglieria del Regio esercito italiano.
Un saluto molto cordiale (e molto rispettosamente guardingo e attento per riuscire a parare o schivare possibili errori e refusi) Massimiliano Panarari
Fuga dalle notizie. Tra la guerra e la pandemia gli italiani si fidano sempre meno dell‘informazione. Benedetta Barone su L'Inkiesta il 16 giugno 2022.
Il report annuale del Reuters Institute evidenzia gli andamenti del giornalismo in tutto il mondo. Nel nostro Paese, di fronte a un flusso di notizie maggiore sono tutti più stanchi e scettici.
È consultabile da mercoledì 15 giugno il Digital News Report 2022, il report annuale del Reuters Institute di Oxford sull‘andamento dell‘informazione, online e non, in Europa, Asia, America Centrale, America Latina e Africa.
L’analisi ha coinvolto oltre 93mila persone in 46 diversi paesi e chiarisce i nuovi flussi di tendenza nel modo in cui cerchiamo, leggiamo e vogliamo le notizie, ma delinea anche di quali notizie abbiamo più bisogno.
Il dato più rilevante, per quanto riguarda l‘Italia, è l‘evidenziato passaggio al digitale a scapito delle testate giornalistiche cartacee. La rivoluzione in questo senso è stata più lenta che altrove, e per molti anni lo stesso mercato online continuava a essere dominato dai canali nazionali tradizionali. Nel 2022, per la prima volta, un organo di origine digitale, Fanpage, ha ottenuto la più ampia diffusione online tra i media coinvolti nel sondaggio (21%), superando un’agenzia di stampa tradizionale come l‘ANSA.
L’impatto della transizione digitale risulta anche dalla struttura del mercato. I ricavi pubblicitari online rappresentano ormai quasi la metà (49%) dei ricavi pubblicitari complessivi. Si tratta di una svolta in un sistema mediatico tradizionalmente caratterizzato da un settore televisivo particolarmente forte. Al tempo stesso, il calo del 31% del numero totale di copie cartacee e digitali vendute in quattro anni è una spia sempre più eloquente delle perdite dell‘editoria italiana. Millecinquecento edicole italiane (il 10% del totale) hanno chiuso nei primi sei mesi del 2020, mentre molte altre si sono ramificate e differenziate iniziando a fornire l’accesso a servizi pubblici o la vendita di cibi e bevande.
Insomma, l‘informazione si sposta su smartphone e pc. Ma questo, lungi dal rassicurare, è in realtà fonte di disagi e diffidenze, che gli ultimi tre anni di eventi catastrofici e mediaticamente ridondanti – il Covid e la guerra in Ucraina, per esempio – hanno accumulato e acuito.
Secondo il report, in tutto il mondo si registra una news avoidance, una fuga dalle notizie: il 38% della popolazione le evita. Il 43% accusa il sovraccarico di informazioni sull‘andamento della pandemia e questo rende il 36% di loro tristi o umorali ed esausto il restante 29%. Da altri punti di vista, non sono invece abbastanza imparziali (29%).
Nel nostro Paese, in particolare, solo il 13% considera le testate giornalistiche libere da influenze politiche e appena il 15% le considera affrancate da ascendenti di natura economica. La fiducia italiana nei confronti dell‘informazione è scesa del 5%. È un trend piuttosto sorprendente, considerando che durante i mesi più difficili della pandemia da coronavirus la credibilità nei confronti dei media e del loro ruolo sociale era molto cresciuta nella popolazione.
Sembra che il giornale a cui ancora si attribuisce maggior credito sia l‘agenzia ANSA, seguito da Il Sole 24 Ore e da SkyTg24, che pure perdono entrambi una posizione rispetto all‘anno precedente. L‘ultimo posto nella scala della fiducia spetta a Libero, mentre il Corriere della Sera si aggiudica il quarto.
Lo scorso anno, ultimo era Fanpage che pure raggiunge la copertura settimanale più ampia.
La parola d‘ordine sembra quindi smettere di faticare per ottenere notizie, dato che il paywall è sempre meno popolare e vincono le testate che consentono una registrazione gratuita ai propri contenuti. Ma contemporaneamente, forse proprio a causa dell‘eccessiva fluidità informativa, nessuno sembra davvero contento: oltre ai problemi di fiducia prima citati, emergono anche numerosi crucci a proposito della privacy e del trattamento dei dati personali che accettiamo ogni volta che ci presentano dei cookie. Solo il 33% dice di essere a proprio ago a proposito degli e-commerce e appena il 25% a proposito delle piattaforme social.
Quotidiani orrori “A stretto giro” e altre insopportabili frasi fatte del giornalistese. Maurizio Assalto su L'Inkiesta il 30 Maggio 2022.
Luoghi comuni, espressioni trite e ritrite, scorciatoie linguistiche: la sciatteria della scrittura trova la sua massima espressione nella stampa. E i tempi stretti o la necessità di fare correzioni dell’ultimo minuto non sono una scusante.
“Lo chiameremo Andrea”. No, non è l’imitatissimo titolo del film girato da Vittorio De Sica giusto cinquant’anni fa: al posto di Andrea potete metterci qualsiasi altro nome, maschile o femminile; oppure potreste omettere “lo chiameremo” e far seguire Andrea o l’altro nome maschile o femminile dall’inciso “il nome è di fantasia”. Stiamo parlando di una delle più logore, insulse e inutili formulette a cui fa ricorso il giornalismo scritto e radiotelevisivo per tacere il nome vero del protagonista di un fatto di cronaca quando lo suggeriscono motivi di opportunità, in genere (ma non sempre) in quanto si tratta di un minorenne.
Logora perché ripetuta con compiaciuta disinvoltura ogni qualvolta se ne presenti l’occasione (alla faccia della fantasia…), come il doveroso ritrovamento della appagante frase fatta in cui ci si riconosce membri della medesima consorteria, tutti ugualmente capaci di padroneggiare gli arrugginiti strumenti del mestiere. Insulsa perché il fantasioso nome proprio potrebbe benissimo essere sostituito da nomi comuni come l’uomo, l’anziano, il ragazzo, il bambino, lo studente, l’operaio, il professionista (e relativi femminili). Inutile perché il bello (bello?) è che nella maggior parte dei casi, una volta fantasiosamente battezzato, quel tale Andrea o chi per lui non viene più nominato neppure per sbaglio.
Il lavoro del giornalista non è così semplice come i (non pochi, per lo più prevenuti) detrattori della professione tendono a credere: tempi stretti, notizie dell’ultimo momento, aggiornamenti e ribattute sono spesso all’origine di una prosa poco sorvegliata (nonché inzeppata di refusi; ma in questo caso non si può dire che non ci sono più i correttori di una volta: non ci sono e basta, per esigenze di bilancio). Nulla però obbliga all’uso compulsivo di formule trite, stucchevoli luoghi comuni e figure retoriche di imbarazzante banalità, che talvolta hanno pure la colpa grave di contagiare il linguaggio comune.
Tra queste ultime una delle più infestanti è senz’altro “a stretto giro”, che di per sé non vuol dire nulla, ma diventa (un po’ più) comprensibile in quanto versione ellittica della locuzione “a stretto giro di posta” che ci riporta ai tempi andati delle carrozze trainate dai cavalli, quando la risposta a una lettera urgente, per fare prima, veniva affidata allo stesso postiglione con cui la lettera era giunta.
Curioso il ricorso a un’immagine così obsoleta nel mondo ipertecnologico del real time, dove la posta cartacea è cannibalizzata da quella virtuale (rispondere “a stretto giro” a un’email non fa un po’ ridere?); e quanto meno discutibile l’estensione di questo uso figurato ai casi in cui la risposta avviene a voce, di persona o per telefono. Si dirà: è una frase idiomatica. Ma non sempre le frasi idiomatiche mantengono una reale efficacia comunicativa, a volte, come nel caso dello “stretto giro”, risultano gratuite e fastidiose.
Non sarebbe più lineare rinunciare ai barocchismi malacconci e dire semplicemente che la risposta è arrivata o arriverà “prontamente”, “immediatamente”, “sollecitamente”, “tempestivamente”, “non appena possibile”, “nel più breve tempo possibile”, “il prima possibile”?
È noto che molti giornalisti si sentono scrittori mancati. Ma ci sono anche quelli che covano una vocazione poetica inespressa e vedono rime ovunque: ovviamente, dove non ci sono. Amor fa rima con cuor nelle melense canzonette d’antan, ma che senso ha – mettiamo, parlando di calcio – dire che “bel gioco non sempre fa rima con risultati”? Dov’è la rima? Un uso traslato, d’accordo: infatti trasla il linguaggio nel dominio del ridicolo.
Rivelano invece insospettabili premonizioni patofisiologiche quelli che parlano di “cifre da capogiro”. Ma fortunatamente l’allarme è infondato: si è mai visto qualcuno colpito da vertigini davanti a un numero a nove, ma anche a diciotto cifre? Tutt’al più avrà qualche difficoltà a leggerlo, ma avvertire un malessere proprio no. Ammettiamo pure il capogiro, in funzione enfatica-superlativa, nei contesti espressivi ostentatamente “caricati” – ad esempio il lessico “esagerato” di Villaggio-Fantozzi – ma per il resto potremo lasciarlo tranquillamente alle premure terapeutiche di neurologi, otorinolaringoiatri e compagnia curante.
E che dire di certi incipit che regolarmente si ripresentano, come estenuati revenant linguistici, ogni volta con la presunzione dell’originalità? Come quello (un classico) che parte enumerando una serie di situazioni incresciose – relative a un luogo, a un ambiente di lavoro o altro – e dopo il punto, o i due punti, amaramente (ritualmente) ironizza: “benvenuti a… (o nel…)”.
Oppure (altro evergreen) quello che esordisce con un virgolettato – di solito una dichiarazione forte, o almeno impegnativa, quando non addirittura polemica – seguita, dopo la chiusura delle virgolette, da “parola di…”: reminiscenza forse delle letture dal Vangelo ascoltate a messa, se non degli spot televisivi di Francesco Amadori. Con variante cantautorale: “parole e musica di…”. E sub-variante luciobattistiana: “pensieri e parole di…”.
Ma il momento in cui la prosa giornalistica da involontariamente comica sprofonda nella sciatteria è quando dalla sacca degli attrezzi si cava l’avverbio “già”. Isolatamente preso, serve a esprimere assenso o constatazione, spesso accompagnati da rassegnato disappunto (“Te l’avevo detto che scrivere non è il tuo mestiere”. “Già…”); negli articoli più raffazzonati si presenta spesso, invece, in una impropria funzione di raccordo tra due periodi, interposto tra due parole identiche, per mediare il passaggio a un nuovo sviluppo. Così (inventiamo): “… qualcuno ha notato l’assenza di Renzi. Già, Renzi. Il leader di Italia viva ieri si è recato…”. Una sorta di anadiplosi, ma in questo caso non è una finezza stilistica, è il grossolano artificio di chi non si cura di “costruire” (di “articolare”) l’articolo e si limita a affastellare le informazioni così come gli vengono in mente.
Pare di vederlo, il tipo, con le dita sul mento, pensoso, sentenzioso, sussiegoso, magari financo burbanzoso, mentre pronuncia il suo “già”. Non si può sentire questo “già, Renzi” (o già qualunque altra cosa). Eppure tocca leggerlo. Lo chiameremo giornalistese (e non è un nome di fantasia).
Soncini si fa dei nuovi amici. In Italia ci sono ancora i giornali di una volta, approssimativi oggi come allora. Guia Soncini su L'Inkiesta il 2 Maggio 2022.
Pretendiamo un’informazione rigorosa sulla pandemia o sulla guerra ma non si riesce ad avere un rigore minimo nemmeno parlando di Jennifer Lopez e Ben Affleck. Rispetto alle testate che pago e che copiano da periodici spagnoli ancora più cialtroni che citano come fonte degli immaginari «medios americanos», Commenti Memorabili punto it è il Wall Street Journal
Il sesso vende? Nel 2022, col porno sul telefono senza neanche pagare, la vita sessuale degli altri ci procura ancora un frisson? È questa la ragione di quel che ho passato due giorni a cercare di capire, cioè come mai i giornali italiani siano così fessi?
Questo è un articolo in cui mi faccio nuovi amici nei giornali italiani. Questo è un articolo (un altro) su Jennifer Lopez e Ben Affleck. Questo è un articolo sulla scemenza di pretendere un’informazione rigorosa sulla pandemia o la guerra quando non si riesce ad avere un rigore minimo nemmeno parlando di temi meno complessi quali le vite degli attori.
Questo è un articolo sul fatto che, come quando le storie d’amore finiscono, non è colpa di nessuno. Non di chi commissiona gli articoli italiani, non di chi scrive gli articoli italiani, non di chi non è disposto a pagare per gli articoli italiani. Non è colpa di nessuno, è colpa di tutti, è colpa del sistema, del caso, delle cavallette, ormai è andata così, e la situazione non è recuperabile.
Solo che forse “ormai” non è l’avverbio giusto. Sono tre anni che non dico più che la qualità dei giornali italiani è precipitata. Da quando, nel 2019, dovendo scrivere del ventennale della morte di John Kennedy jr. e Carolyn Bessette (e pure di Lauren Bessette, la sorella di cui nessuno si ricorda mai: uno degli svantaggi quando tua sorella sposa il più figo del mondo e morite assieme), ho recuperato dal disordine la cartellina coi ritagli dei giornali dell’epoca.
Se all’epoca non vi eravate appassionati all’incidente, magari non ve ne ricordate: l’aereo guidato da John Kennedy jr cadde e risultò disperso quando qui era la notte fonda del venerdì, il che significa che i giornali italiani non fecero in tempo a scriverne il sabato. Non erano anni di internet: il pubblico apprese del mancato atterraggio dell’aereo dai tg del sabato, e le grandi firme dei giornali, scomodate a scrivere della maledizione dei Kennedy, ebbero tutto il tempo d’informarsi.
I giornali della domenica hanno intere pagine sulla questione, firmate dalle migliori menti che allora correvamo in edicola per leggere, e sono così pieni d’imprecisioni che passa la voglia di lamentarsi di quel che leggiamo oggi. Se gli unici articoli che abbiate mai letto sull’aereo caduto di Kennedy sono quelli pubblicati in Italia il 18 luglio del 1999, magari siete ancora convinti che Caroline Kennedy sia morta: in un giorno e mezzo, i nostri editorialisti non erano riusciti a capire neanche di chi era sorella e di chi era cognata la sorella e cognata che si trovava sull’aereo.
Tutto questo per dire che quando sabato alcuni rispettabili giornali italiani si sono sognati che ci fosse un accordo prematrimoniale tra Jennifer Lopez e Ben Affleck, e che in quell’accordo prematrimoniale ci fosse scritto che dovevano fare sesso almeno quattro volte a settimana (altrimenti? multa? divorzio?), e che di ciò valesse la pena far scrivere scrittrici d’un certo calibro, io mi sono fatta venire meno crisi isteriche di quelle che mi sarei fatta venire fino al 2019, quando ancora credevo d’aver da giovane abitato nella giornalistica via Gluck.
La prima cosa di cui mi sono ricordata è stato un tizio che fa i giornali con cui l’anno scorso stavo chiacchierando d’un altro tizio, uno che un tempo scriveva tantissimo e ora non si legge quasi mai. Quello con cui parlavo mi disse che certo, nessuno gli chiedeva articoli, perché quando lo chiami quello ti dice che la cosa di cui hai pensato di farlo scrivere è una stronzata, e quando riattacchi ti senti più scemo di quando hai chiamato, e nessuno vuol sentirsi scemo.
All’epoca avevo pensato a me (strano), e sempre a me (sempre strano) ho pensato sabato. Agli anni trascorsi a sentirmi proporre da capiredattori di scrivere di qualcosa che era evidentemente una stronzata, e a trasecolare perché a loro non pareva tale. Forse dovrei chiamarli e chiedergli retrospettivamente scusa per averli fatti sentire scemi: mica è colpa loro, se sono scemi. Mica è colpa loro, se avevano un buco in pagina e non gli veniva in mente un’idea più brillante per riempirlo.
Forse è come essere intonati: non capisci come si faccia a essere stonati, ma mica è un merito, t’è capitato di nascere intonata. T’è capitato di saper riconoscere le stronzate, ti sembra una dote che è ovvio avere. Se una tizia racconta che l’ex fidanzato cantante l’ha fatta abortire riempiendola di botte, riconosci nei dettagli del racconto gli indizi della stronzata, nel modo in cui ne scrive i segni dello squilibrio, e dici a chi ti chiede l’articolo: no, guarda, non è il caso. Quando un po’ di tempo dopo il cantante viene scagionato, chi di mestiere dovrebbe riconoscere le notizie ti chiede con gli occhioni sgranati: ma tu come facevi a saperlo? E tu, anni dopo, ancora ti domandi come avesse fatto lui a non capirlo subito, che non era vero niente. Tu che neanche sai cantare.
Ma il caso di sabato fa più ridere perché c’è una regola abbastanza ovvia riguardo alle celebrità anglofone: se c’è una notizia su di loro, ci sono testate anglofone che se ne occuperanno. Lo sa chiunque scriva in Italia di celebrità americane, anche perché quelle sono le testate da cui in genere scopiazza il proprio pezzullo. Se sabato, andando in giro per tabloid, cercavi di capire da dove avessero ripreso questa evidente stronzata, non trovavi niente: non un rigo su People, o su Us, o sul Mail. Nemmeno sul National Enquirer, che sarebbe stato grave (allora non sapete selezionare le fonti) ma almeno spiegabile.
Era un’esclusiva italiana? Qualcuno citava come fonte Esquire, che nell’edizione anglofona è uno dei giornali più belli del mondo e non poteva essere vero. E infatti l’articolo era, una settimana prima, sul sito di Esquire spagnolo, che a sua volta rimandava a Cosmopolitan spagnolo, che quanto a fonti fantasticava di «muchos medios americanos». I giornali americani immaginari.
Poiché gli spagnoli saranno pure più cialtroni di noi, ma Esquire scriveva questa puttanata una settimana prima, Cosmopolitan pure, persino Marca (un giornale di calcio) si era inventato la clausola prematrimoniale una settimana prima, mi sono andata a leggere tutti i siti italiani che avevano ripreso la scemenza del giorno, alla ricerca della risposta a «perché oggi».
E a un certo punto sono arrivata a commenti memorabili punto it, che non so bene cosa sia, un sito di meme, una di quelle cose moderne, un posto in cui le puttanate sarebbero fisiologiche.
E invece loro, al terzo paragrafo, scrivono: «La notizia continua a diffondersi a macchia d’olio attraverso tutti i social media […]. In realtà si tratta di una clausola che J. Lo e Ben Affleck avrebbero concordato nel 2002, quando si fidanzarono per la prima volta».
E i giornali che pago da decenni l’hanno ripescata per festeggiare il ventennale, o per consolarci dicendoci che anche i ricchi piangono e considerano scopare una cosa per cui stabilire i turni come per buttare giù l’umido. Ma soprattutto per dire a me, che mi ostino a pagare degli abbonamenti, che in confronto a loro Commenti Memorabili è il Wall Street Journal.
Da leggo.it l'1 maggio 2022.
Giorgia Meloni, nel discorso di chiusura della tre giorni della conferenza proframmatica di Fratelli d'Italia a Milano non ha risparmiato qualche frecciata alla stampa. La leader di FdI, ad un certo punto, dopo aver raccontato un aneddoto su una domanda di un cronista ad un delegato ha allargato le braccia, guardando incredula il pubblico in platea.“Domande lunari" le ha etichettate, mentre - quasi come una consumata attrice - faceva intuire ai delagati il suo sgomento.
«Un giornalista - ha raccontato - ha chiesto a un delegato, “ma questa maglietta scura è un omaggio alle camicie nere?”... Ma cosa vuoi rispondere? Vi rendete conto che siete lunari: lo dico per la vostra professionalità. Mi vergogno a fare sta domanda, gli risponderei io. Pensano che con questi argomenti che fermeremo la guerra e la crisi? E che tutto questo interessa la gente? C'è chi fa riunioni di redazione per trovare qualcosa per non raccontare quello che sta succedendo».
«Voi sognate una destra sfigata - ha incalzato Meloni - cupa, invece siamo una destra vincente, rispettata, che ha al vertice una donna, mentre a sinistra le donne si devono accontentare dei ruoli che gli uomini danno loro. Non vi va giù. Voi raccontate le favolette, noi facciamo la storia»
Dall’account instagram di Giuseppe Candela il 29 aprile 2022.
Archiviato per infondatezza della notizia di reato.
Dopo due anni e mezzo, ora che la giustizia, come si suol dire, ha fatto il suo corso, parlo io. Parto da un ringraziamento, sentito e doveroso, all'avvocato Piergiorgio Assumma, la cui professionalità è stata per me fondamentale in questi anni.
I fatti.
A ottobre 2019 sono stato denunciato dalla signora Caterina Balivo:
- per diffamazione aggravata;
- per diffamazione aggravata a mezzo stampa, con conseguente responsabilità di direttore ed editore (ipotesi di reato decaduta già all'arrivo in Procura);
- per molestie (ipotesi di reato decaduta già all'arrivo in Procura).
In precedenza mi era giunta una diffida, a cui il mio legale aveva risposto sottolineando l'assenza di ipotesi di reato. In Procura sono stato interrogato, ho risposto per oltre tre ore a tutte le domande. Il Pm ha rilevato che le espressioni utilizzate e contestate dalla parte offesa "non appaiono lesive della reputazione di quest’ultima e appaiono rientrare nei limiti del diritto di critica giornalistica", con la successiva richiesta di archiviazione. Il Giudice per le indagini preliminari "condivise le argomentazioni del Pm e rilevato che le espressioni utilizzate, seppur aspre, non hanno travalicato i limiti della polemica giornalistica", ha disposto l'archiviazione. Le stesse deduzioni erano state chiarite dal mio legale ben prima, in una fase pre processuale, quando per buona parte degli stessi fatti avevo ricevuto una diffida.
Potrei scrivere fiumi di inchiostro, invitare a riflessioni sulla critica televisiva, ragionare su certe querele ma conosco gli effetti collaterali del mio lavoro. Non mi interessano scuse o polemiche. Ho le spalle larghe e ognuno potrà farsi la propria idea.
Ho fatto solo il mio lavoro. Correttamente. Lo sostenevo prima e oggi lo conferma la legge.
Mi basta questo.
"Tempi difficili, a volte tragici. Bisogna crederci e non arrendersi", canta Jovanotti in Viva Libertà.
È il caso di dirlo: Viva la Libertà.
Fabio Amendolara per “La Verità” il 29 aprile 2022.
Gad Lerner si sentiva diffamato per gli articoli pubblicati dalla Verità tra l'1 e il 5 giugno 2019, nei quali venivano approfonditi i costi del talk show L'Approdo, che andava in onda su Rai 3, e i suoi compensi da conduttore. E aveva chiesto 80.000 euro di risarcimento.
Che i giudici della prima sezione civile del Tribunale di Milano hanno respinto.
Lerner si era risentito, oltre che per gli articoli firmati da Giorgio Gandola, anche per un editoriale del direttore Maurizio Belpietro (3 giugno 2019), nel quale era stato «falsamente», secondo Lerner, «prospettato un fatto deprecabile»: l'esistenza di una lobby che favorirebbe i compagni o i radical chic di cui l'esponente avrebbe beneficiato.
Inoltre, Lerner ha dedotto «di essere stato tacciato di faziosità, laddove si asseriva che il suo obiettivo sarebbe stato non quello di fare ascolti ma "la narrazione marcatamente antileghista"».
Il conduttore si era piccato anche per quelli che durante la causa civile sono stati definiti «epiteti volutamente irridenti e spregiativi»: «Comunista col rolex, commentatore radical chic, conduttore con il pedigree di sinistra ma il portafoglio posizionato molto a destra».
La Verità, Belpietro e Gandola, costituiti tramite l'avvocato Claudio Mangiafico, hanno confermato in udienza che «le informazioni veicolate dagli articoli corrispondevano, nella loro essenza, al vero».
Lo stesso Lerner, d'altra parte, non si era premurato di dimostrare la falsità di quelle affermazioni. Ed ecco le valutazioni dei giudici: «Seppure traspare la critica per gli elevati costi del programma, il fatto attribuito all'attore non è illecito né disdicevole, riguardando la percezione di un compenso derivante dal legittimo esercizio della sua attività professionale».
Secondo i giudici, poi, proprio Lerner aveva «espresso in più occasioni idee contrarie alle politiche della Lega» e in alcuni tweet aveva «espresso apprezzamenti marcatamente negativi nei confronti di Matteo Salvini».
Tutti elementi che, è scritto in sentenza, «possono rendere plausibile, nella visione dell'autore dell'articolo, l'intenzione di esprimere nel programma tali posizioni contrarie».
Quanto alla lobby, secondo i giudici, «il senso del brano sembra, piuttosto, quello di esprimere una censura rispetto a una supposta politica aziendale degli organi della televisione pubblica di dare spazio a giornalisti provenienti da giornali vicini alla sinistra, indipendentemente dal successo dei programmi». Diritto di cronaca e di critica, insomma, sono stati rispettati in pieno.
Sergio Carli per blitzquotidiano.it il 12 aprile 2022.
Giornali quotidiani, le vendite in edicola nel mese di febbraio 2022 sono solo un altro chiodo sulla bara. Il mercato ha perso un altro 11% rispetto al mese corrispondente di un anno prima. Il trend è lo stesso di gennaio e dei mesi precedenti. Le vendite sono di poco sopra il milione e 200 mila copie al giorno bei tempi quando la Federazione degli editori tromboneggiava, forse esagerando un po’, di un mercato da 7 milioni di copie. Si avvicina il momento in cui i giornali non si stamperanno più con le rotative ma con le fotocopiatrici. Guardate la tabella e piangete se avete a cuore la democrazia come ce la godiamo dal 1945. La stampa moritura ne è pilastro. Che ne sarà se i giornali moriranno?
La tabella con le vendite dei giornali nel mese di febbraio 2022
Nella terza colonna di cifre la percentuale indica quanto è rimasto delle vendite dell’anno prima. Per calcolare la percentuale di perdita, basta sottrarre il numero qui riportato da 1. Ad es. Il mercato (ultima riga) si è ridotto all’89% dell’anno precedente, 1-0,89=11.
Quotidiani |
Febbraio 2022 |
Febbraio 2021 |
2022 su 2021 |
L’Adige |
8.536 |
9.892 |
0,86 |
Alto Adige |
4.038 |
5.192 |
0,77 |
L’Arena |
16.525 |
19.220 |
0,85 |
Avvenire |
5.416 |
5.421 |
0,99 |
Il Centro |
8.061 |
9.345 |
0,86 |
Corriere Adriatico |
8.194 |
9.076 |
0,90 |
Corriere della Sera |
152.593 |
162.127 |
0,94 |
Corriere delle Alpi |
3.692 |
4.153 |
0,88 |
Corriere dello Sport |
37.197 |
37.087 |
1,00 |
Corriere dello Sport lun. |
45.401 |
46.405 |
0,97 |
Corriere Umbria |
4.627 |
4.879 |
0,94 |
Dolomiten |
4.839 |
6.284 |
0,77 |
L’Eco di Bergamo |
14.661 |
17.005 |
0,86 |
Editoriale Oggi |
2.564 |
3.007 |
0,85 |
Il Fatto Quotidiano |
23.094 |
30.499 |
0,75 |
Gazzetta Mezzogiorno |
—– |
8.387 |
— |
Gazzetta del Sud |
9.851 |
11.492 |
0,85 |
Gazzetta di Mantova |
11.313 |
12.653 |
0,89 |
Gazzetta di Modena |
5.243 |
5.443 |
0,96 |
Gazzetta di Parma |
12.441 |
14.791 |
0,84 |
Gazzetta di Reggio |
5.693 |
6.276 |
0,90 |
Gazzetta dello Sport |
83.094 |
76.097 |
1,09 |
Gazzetta dello Sport lun. |
88.657 |
92.203 |
0,96 |
Il Gazzettino |
31.794 |
36.219 |
0,87 |
Il Giornale |
31.357 |
38.721 |
0,80 |
Giornale di Brescia |
14.464 |
16.443 |
0,87 |
Giornale di Sicilia |
5.856 |
7.016 |
0,83 |
Giornale di Vicenza |
14.782 |
16.806 |
0,87 |
Italia Oggi |
3.431 |
7.716 |
0,44 |
Libero |
19.321 |
22.418 |
0,86 |
Libertà |
13.554 |
14.722 |
0,92 |
Il Manifesto |
7.103 |
7.549 |
0,94 |
Il Mattino |
16.483 |
18.338 |
0,89 |
Il Mattino di Padova |
11.345 |
12.635 |
0,89 |
Il Messaggero |
49.166 |
52.383 |
0,90 |
Il Messaggero veneto |
26.373 |
30.489 |
0,86 |
La Nuova Venezia |
4.902 |
5.964 |
0,82 |
La Nuova Ferrara |
4.360 |
4.850 |
0,89 |
La Nuova Sardegna |
19.233 |
21.345 |
0,90 |
Nuovo quotidiano Puglia |
7.769 |
6.273 |
1,23 |
Il Piccolo |
12.253 |
14.293 |
0,85 |
La Provincia Co-Lc-So |
12.740 |
14.288 |
0,89 |
Provincia di Cremona |
9.377 |
10.430 |
0,89 |
La Provincia Pavese |
7.297 |
8.477 |
0,86 |
Il Giorno |
19.272 |
21.766 |
0,88 |
Il Resto del Carlino |
63.463 |
71.138 |
0,90 |
La Nazione |
42.430 |
47.692 |
0,88 |
Repubblica |
94.009 |
117.275 |
0,80 |
Il Secolo XIX |
22.176 |
27.258 |
0,81 |
La Sicilia |
6.552 |
7.275 |
0,90 |
Il Sole 24 Ore |
25.698 |
34.316 |
0,74 |
La Stampa |
71.513 |
74.785 |
0,95 |