Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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WEB TV: TELE WEB ITALIA

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L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

ANNO 2022

LA CULTURA

ED I MEDIA

QUINTA PARTE

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

      

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

 

 

LA CULTURA ED I MEDIA

INDICE PRIMA PARTE

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Scienza è un’opinione.

L’Anti-Scienza.

Alle origini della Vita.

L’Intelligenza Artificiale.

I Benefattori dell’Umanità.

Al di là della Luna.

Viaggiare nello Spazio.

Gli Ufo.

La Rivoluzione Digitale.

I Radioamatori.

Gli Hackers.

Catfishing: la Truffa.

La Matematica.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Libero Arbitrio.

Il Cervello Allenato.

Il Cervello Malato.

La Sindrome dell'Avana.

Le Onde Celebrali.

Gli impianti.

La disnomia.

La nomofobia.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

I Geni.

Il Merito.

Ignoranti e Disoccupati.

Laureate e Disoccupate.

Il Docente Lavoratore.

Decenza e Decoro a Scuola.

Una scuola “sgarrupata”.

Gli speculatori: il caro-locazione.

Discriminazione di genere.

La Scuola Comunista.

La scuola di Maria Montessori.

Concorso scuola truccato.

Concorsi truccati all’università.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Tutti figli di…Neanderthal (nord) e Sapiens (Sud).

Come si usano.

Sapete che…?

Epifania e Befana.

Il Carnevale.

Gioventù del cazzo.

Gli Hikikomori. 

La Vecchiaia è una carogna…

Gemelli diversi.

L’Ignoranza.

La Rimembranza.

La Nostalgia.

Gli Amici.

La Fiducia.

Il Sesso.

Il Nome.

Le Icone.

Il Linguaggio.

La Fobia.

Il Tatuaggio.

Il Limbo.

Il Potere nel Telecomando.

Gli incontri casuali di svolta.

I Fantozzi.

Ho sempre ragione.

Il Narcisismo.

I Sosia.

L’Invidia.

L’Odio.

Il Ghosting: interruzione dei rapporti.

Gli Insulti.

La Speranza.

Il Dialogo.

Il Silenzio.

I Bugiardi.

Gli stolti.

I Tirchi.

Altruismo.

I Neologismi.

Gli Snob.

I Radical Chic.

Il Pensiero Unico.

La Cancel Culture.

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

La P2 Culturale.

L’Utopia.

Il Cinema di Sinistra prezzolato.

Il Consenso.

I Negazionismi.

I Ribelli.

Geni incompresi.

Il Podcast.

Il Plagio.

Ladri di Cultura.

Il Mecenatismo.

I Beni culturali.

Il Futurismo.

I Bronzi di Riace e di San Casciano dei Bagni.

I Faraoni.

La Pittura.

Il Restauro.

Il Collezionismo.

La Moda.

Il Cappello.

Gli Orologi.

Le Case.

La Moto.

L’Auto.

L’emoticon.

I Fumetti.

I Manga.

I Giochi da Tavolo.

I Teatri.

Il direttore d’orchestra.

L’Arte in tv.

La Cultura Digitale.

Dalla cabina al selfie.

I Social.

La scienza, la cultura ed i social. I Divulgatori.

La Capitale della Cultura.

Oscar made in Italy.

I Balbuzienti.

Cultura Stupefacente.

I pseudo intellettuali.

Le lettere intellettuali.

L’Artistocrazia.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

Achille Bonito Oliva.

Alberto Angela.

Aldo Busi.

Aldo Nove.

Alessandro Baricco.

Alessandro Manzoni.

Alfred Hitchcock.

Amy Sherald.

Andy Warhol.

Andrea Camilleri.

Andrea G. Pinketts.

Andrea Palladio.

Andrea Pazienza.

Annie Ernaux.

Antonella Boralevi.

Antonio Canova.

Antonio de Curtis in arte Totò.

Antonio Pennacchi.

Arturo Toscanini.

Banksy.

Barbara Alberti.

Billy Wilder.

Carlo Emilio Gadda.

Carlo Levi.

Carlo Linati.

Carmen Llera e Alberto Moravia.

Cesare Pavese.

Charles Baudelaire.

Charles Bokowski.

Charles M. Schulz.

Chiara Valerio.

Crocifisso Dentello.

Dacia Maraini.

David LaChapelle.

Dino Buzzati.

Donatello.

Elisa De Marco.

Emil Cioran.

Emilio Giannelli.

Emilio Lari.

Ennio Flaiano.

Ernest Hemingway.

Espérance Hakuzwimana. 

Eugenio Montale.

Eva Cantarella.

Ezra Pound.

Fabio Volo.

Federico Fellini.

Federico Palmaroli. 

Fernanda Pivano.

Francesca Alinovi.

Francesco Guicciardini.

Francesco Tullio Altan.

Francisco Umbral.

Franco Branciaroli.

Franco Cordelli.

Franz Peter Schubert.

Franz Kafka.

Fulvio Abbate.

Gabriel Garcia Marquez.

Gabriele d'Annunzio.

Georges Bataille.

George Orwell.

Georg Wilhelm Friedrich Hegel.

Giacomo Leopardi.

Gian Paolo Serino.

Gian Piero Brunetta.

Giampiero Mughini.

Giordano Bruno Guerri.

Giorgio Forattini. 

Giorgio Manganelli.

Giovanni Ansaldo.

Giovanni Verga.

Giuseppe Pino.

Giuseppe Prezzolini.

Giuseppe Ungaretti.

Giuseppe Verdi.

Grazia Deledda.

Guido Gozzano.

Guido Harari.

Ian Fleming.

Ignazio Silone.

Indro Montanelli.

Italo Calvino.

Jane Austin.

John Le Carré.

John Williams.

José Saramago.

 

INDICE QUINTA PARTE

 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Lawrence d'Arabia.

Leonardo da Vinci.

Leonardo Sciascia.

Leopoldo (Leo) Longanesi.

Luciano Bianciardi. 

Luchino Visconti.

Louis-Ferdinand Céline.

Marcel Proust.

Mariacristina Savoldi D’Urcei Bellavitis.

Marcello Marchesi.

Marco Giusti.

Mario Picchi e Aldo Palazzeschi.

Mario Praz.

Massimiliano Fuksas.

Maurizio Cattelan.

Maurizio de Giovanni.

Melissa P.: Melissa Panarello.

Michel Houellebecq.

Michela Murgia.

Michele Rech, in arte Zerocalcare.

Nietzsche.

Oliviero Toscani.

Oriana Fallaci.

Orson Welles.

Pablo Picasso.

Pier Paolo Pasolini.

Pietrangelo Buttafuoco.

Pietro Scarpa.

Renzo Piano.

Riccardo Muti. 

Richard Wagner.

Roberto Benigni.

Robert Byron.

Roberto Giacobbo.

Roberto Saviano.

Sacha Guitry.

Saint-John Perse.

Salvatore Quasimodo.

Sebastián Matta.

Sergio Leone.

Staino.

Stephen King.

Susanna Tamaro.

Sveva Casati Modignani.

Tiziano.

Truman Capote.

Umberto Boccioni.

Umberto Eco.

Valentino Garavani.

Vincent Van Gogh.

Virginia Woolf.

Vittorio Sgarbi.

Walt Disney.

Walt Whitman.

William Burroughs.

 

INDICE SESTA PARTE

 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

Siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. La Distrazione di Massa: Propaganda e realtà.

La Sociologia Storica.

Il giornalismo d’inchiesta.

I Martiri.

Se questi son giornalisti...

Il Web e la Legione di Imbecilli.

Gli influencer.

Le Fallacie.

Le Fake News.

Il Nefasto Amazon.

I Censori.

Quello che c’è da sapere su Wikipedia.

Il Nefasto Politicamente Corretto.

Gli Oscar comunisti.

Lo Streaming.

 

INDICE SETTIMA PARTE

 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Pizzo di Stato.

Mediaset.

Il Corriere della Sera.

Il Gruppo Editoriale Gedi.

Primo: la Verità del Il Giornale.

Alberto Matano.

Alda D'Eusanio.

Aldo Cazzullo.

Alessandra De Stefano.

Alessandra Sardoni. 

Alessandro Giuli.

Andrea Scanzi.

Andrea Vianello.

Beppe Severgnini.

Bernardo Valli.

Bianca Berlinguer.

Bruno Longhi.

Bruno Vespa.

Camillo Langone.

Carlo De Benedetti.

Cecilia Sala.

Cesara Buonamici.

Claudio Cerasa.

Corrado Formigli.

Davìd Parenzo.

Diego Bianchi in arte Zoro.

Elisa Anzaldo.

Emilio Fede.

Ennio Simeone.

Enrico Mentana.

Enrico Varriale.

Enzo Biagi.

Ettore Mo.

Fabio Caressa.

Fabio Fazio.

Federica Sciarelli.

Filippo Ceccarelli.

Filippo Facci.

Fiorenza Sarzanini.

Franca Leosini.

Francesca Fagnani.

Francesco Giorgino.

Gennaro Sangiuliano.

Giacinto Pinto.

Gian Paolo Ormezzano.

Gianluigi Nuzzi.

Gianni Minà.

Giorgia Cardinaletti.

Giovanna Botteri.

Giovanni Floris.

Giovanni Minoli.

Giovanni Tizian.

Giuliano Ferrara.

Giuseppe Cruciani.

Guido Meda.

Ivan Zazzaroni.

Julian Assange.

Hoara Borselli.

Lamberto Sposini.

Laura Laurenzi.

Lilli Gruber.

Lina Sotis.

Lucio Caracciolo.

Luigi Contu.

Luisella Costamagna.

Marcello Foa.

Marco Damilano.

Marco Travaglio.

Maria Giovanna Maglie.

Marino Bartoletti.

Mario Calabresi.

Mario Giordano.

Massimo Fini.

Massimo Giletti.

Massimo Gramellini.  

Maurizio Costanzo.

Michele Mirabella.

Michele Santoro.

Michele Serra.

Milo Infante.

Mimosa Martini.

Monica Setta.

Natalia Aspesi.

Nicola Porro.

Paola Ferrari.

Paolo Brosio.

Paolo del Debbio.

Paolo Zaccagnini.

Pierluigi Pardo.

Roberto D'Agostino.

Roberto Napoletano.

Rula Jebreal.

Salvo Sottile.

Selvaggia Lucarelli.

Sigfrido Ranucci.

Tiziana Alla.

Tiziana Panella.

Vincenzo Mollica.

Vincenzo Palmesano.

Vittorio Feltri.

 

 

 

 

LA CULTURA ED I MEDIA

QUINTA PARTE

 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Lawrence d'Arabia.

L'Odissea di Lawrence d'Arabia. Fuggì dalla gloria (con Omero). Davide Brullo il 3 Giugno 2022 su Il Giornale.

Il guerriero scrittore, ormai stanco di intrighi e compromessi politici, scappò in India. Per tradurre le avventure di Ulisse.

Nell'agosto del 1928, Charlotte Shaw, ricca, irlandese, consorte del Nobel per la letteratura George Bernard Shaw, femminista, socialista radicale, per lo più anarchica, gli regalò un grammofono, per sollevarlo dal tedio orientale. Lo spedì da Londra, con una manciata di dischi per lo più Brahms e Schubert, insieme alla quinta di Mahler. La scena è icastica: Thomas Edward Lawrence, nei recessi dell'Impero britannico, a Miranshah, al confine con l'Afghanistan, che ascolta musica da un grammofono, in quel luogo lunare, crudele, dominato dal marrone, dove il sole è un predatore in agonia, un leone senza denti.

Esattamente dieci anni prima uno scaltro giornalista americano, Lowell Thomas, grazie a qualche fotografia carismatica e un reportage sensazionalistico, aveva creato il mito di Lawrence d'Arabia. Su Lawrence, tra l'altro, scrisse diversi libri, il più noto s'intitola With Lawrence in Arabia (1924), ma non va oltre una vasta cioccolateria di aneddoti.

Da allora, disgustato dagli esiti della conferenza di pace di Parigi e dalla politica europea e, in generale, dagli uomini, Lawrence, ostaggio della stampa patria, farà di tutto per distruggere il proprio mito, per annientare il proprio nome.

Nel 1922 si era arruolato nella RAF come John Hume Ross; quando scriveva sui giornali si firmava Colin Dale, a volte si faceva chiamare T.E. Smith, per gli amici era semplicemente T.E. Violento e aggraziato, come gli animi lunari, sprezzante, generoso, ingenuo, odiava essere diventato una leggenda, sulla bocca di tutti; più che altro, quel cognome, Lawrence, simboleggiava un'infamia, un esilio, lo stigma tarlato dal tradimento. Figlio della relazione extraconiugale di Sir Thomas Robert Tighe Chapman, barone angloirlandese, con la governante Sarah Junner, Lawrence era un cognome fittizio, per proteggere i parenti dagli scandali. Era partito per l'India l'8 dicembre del 1926, diretto a Karachi; il 26 maggio del 1927 viene mobilitato a Peshawar. Lavora, con acribia, a The Mint, arcano e grigio resoconto del servizio nella Royal Air Force, e a una edizione ridotta dei Sette pilastri della saggezza, che esce come Revolt in the Desert. Nella biografia pubblicata nel 1927, Lawrence and Arabian Adventure, Robert Graves, il grande poeta-sciamano, scrive che T.E. è «una personalità complessa fino all'esasperazione». Lawrence, che ambiva alla fama per fuggirla, la prese male: «Se qualcun altro scriverà un libro su di me, lo ucciderò senza dolore, ma molto velocemente» (così a Ralph David Blumenfeld, editore del Daily Express). In realtà, le biografie di Lawrence, irriverenti quella di Richard Aldington, amico di Pound, poeta difforme, Lawrence of Arabia: a Biographical Enquiry, ne ridimensiona il mito svelandone mitomania e omosessualità radicale o devote la più bella? Démon de l'absolu, il capolavoro postumo di André Malraux , diventarono un genere.

Il viaggio nel cuore di tenebra dell'Asia, nei gangli dell'attuale Pakistan, travolge Lawrence, che si fa chiamare in omaggio all'audace amica, Charlotte T.E. Shaw. Lo affascinano i lupi della sera, i deserti, le notti esangui, l'atmosfera da rivelazione improvvisa, da rivoluzione dietro l'angolo, l'Apocalisse nel cassetto. «Intorno a noi, colline basse, nude, ad anello, color porcellana, dai bordi scheggiati simili a bottiglie rotte. L'Afghanistan è a dieci miglia di distanza. La quiete del luogo è inquietante stavo per dire, minacciosa, dacché tra soldati viviamo come sonnambuli. Quindi: non c'è rumore di uomini né di bestie o di uccelli tranne il concerto degli sciacalli, ogni notte, intorno alle 22, quando si accendono i riflettori. Le sentinelle indiane fanno lampeggiare i raggi per la pianura, finché non incendiano gli occhi di una bestia. Spesso la vedo incrocio il suo sguardo» (così, il 30 giugno 1928, a H.S. Ede, collezionista d'arte, amico).

Da tempo, la sua unica compagnia è l'edizione Oxford dell'Odissea di Omero; la traduce di sera, quando la luce agonizza in un incendio di insetti e la mente arretra nel mito. Bruce Rogers, leggendario tipografo americano, era riuscito a contattarlo l'anno prima, facendogli la proposta, folle: l'Odissea tradotta da Lawrence d'Arabia. Il colonnello tentenna «Non sono un traduttore... il mio consiglio è che troviate un altro» , accetta, chiede due anni di tempo, pone una condizione ineffabile: «Non posso firmare con il mio nome. Il libro sarà pubblicato senza il nome del traduttore, o con uno pseudonimo». L'opera finora inedita in Italia, è pubblicata, secondo un'antologia di brani memorabili, dalle neonate edizioni Magog, in formato digitale e in cento copie cartacee numerate, pagg. 90, euro 12; info@gruppomagog.it ha il carisma della confessione; la traduzione è solenne, arcana, imperiale.

A ottobre, Lawrence ha terminato i primi quattro libri dell'Odissea; i fatti, improvvisamente, precipitano. Habibullah Kalakani, guerriero tagiko che aveva servito nell'esercito afgano, guida una ribellione contro Amanullah Khan, emiro dell'Afghanistan, progressista, amico dei sovietici: nel 1919 aveva osato dichiarare guerra al British Raj. I giornalisti si scatenano. Pare che T.E. Lawrence, oltre a tradurre l'Odissea, si sia impegnato a studiare la lingua pashtu; alcuni giurano di averlo visto aggirarsi a Kabul, travestito da maestro spirituale musulmano. La stampa francese e quella sovietica lo accusano di avere ordito la rivolta contro l'emiro; il 5 gennaio del 1929 i quotidiani inglesi escono con una «notizia straordinaria», riassunta così dal Daily Herald: «Le autorità afgane hanno ordinato l'arresto del Colonnello Lawrence, accusato di aiutare i ribelli a passare la frontiera. Descrivono Lawrence come l'arci-spia del mondo». Per il governo britannico la situazione si fa ingestibile: Amanullah Khan abdica il 14 gennaio; Lawrence è imbarcato a Lahore, l'8 gennaio, sul «SS Rajputana», direzione Londra. In nave, traduce tre libri dell'Odissea, compreso quello che narra l'incontro di Odisseo con lo spirito Achille: «Vorrei essere servo sulla terra, schiavo di un uomo inconsistente, costretto a rubare e a raspare per vivere! Ma vivo, vivo, e non il Re dei Re per queste mute di morti, che hanno ormai perduto i loro giorni». L'Odissea secondo Lawrence esce nel 1932: si rivelerà un successo; nel primo anno vende oltre 12mila copie. Lawrence la firma come T.E. Shaw.

L'attività letteraria di Lawrence, di fatto, termina con Omero. Il 4 febbraio del 1935, da un albergo nello Yorkshire, il colonnello scrive l'ultima lettera a Robert Graves, «La mia testa mirava a creare cose immateriali, inattingibili... Forse potrei essere un artista, ma un gorgo mi blocca, un freno. Per questo, ho cambiato direzione e sono entrato nella RAF, a sciogliere il groviglio orientale, un dovere che toccava a me solo, essendo in parte la causa di quel groviglio». Morì tre mesi dopo, in motocicletta, guidava una Brough Superior. Amava la velocità, la mistica meridiana della luce, il rischio, la danza con la morte, Dioniso e l'androgino. Lasciò agli eroi morire da eroi. Lui era T.E.

·        Leonardo da Vinci.

Il telescopio? Fu inventato da Leonardo da Vinci e non da Galileo Galilei. Roberto Vacca su La Repubblica il 14 Settembre 2022. 

Fu il genio toscano, nel 1492, a inventare e costruire il primo telescopio al mondo

La maggioranza delle persone colte non sa chi inventò il telescopio. Ho interrogato numerosi laureati in ingegneria, medicina ed economia di età compresa fra 25 e 80 anni. Alcuni non ne avevano idea. Molti hanno risposto che l’inventore era Galileo Galilei. La risposta è errata come dimostrò ben 84 anni fa il fisico sperimentale Prof. Domenico Argentieri, che era fra l’altro direttore della Salmoiraghi.(1)

Fu Leonardo da Vinci nel 1492 a inventare e costruire il primo telescopio. Leonardo aveva dedotto (per analogia con le onde prodotte dalla caduta di un oggetto su una superficie di acqua  orizzontale calma e indisturbata) che anche suoni e luci sono trasmessi da onde. Queste non implicano moto orizzontale, ma un tremore trasversale – cioè perpendicolare alla superficie orizzontale.

Leonardo costruiva anche lui lenti piano convesse  (per correggere la presbiopia “dei sessantenni”); nel 1492 costruì un primo cannocchiale senza oculare. Lo perfezionò e nel 1508 montò una lente piano-convessa (obiettivo) in un tubo all’altra estremità del quale (a distanza di 72 millimetri) aveva allineato una lente biconcava divergente (oculare) del diametro di 46 millimetri e dello spessore ai bordi di 4 millimetri. Ingrandiva di circa il 40%, poi migliorò fino  ad alcune volte.

La descrizione della struttura del telescopio e degli attrezzi con cui molava e rettificava le lenti, è riportata – corredata da ottimi disegni – nel Codice Atlantico (2) (ora alla Biblioteca Ambrosiana) e nei manoscritti leonardeschi A, E, F conservati all’Accademia di Francia.

Questi ultimi erano andati smarriti e li ritrovò nel 1889 Félix Ravaisson Mollien (1813-1900), che, però, non riuscì a interpretarli correttamente. Ravaisson Mollien  fu ispettore delle biblioteche francesi – nel 1870 fu nominato da Napoleone III conservatore della sezione classica del Louvre. Letterato e filosofo, è noto per un suo  saggio sull’abitudine, che definiva un fattore importante per comprendere la natura mana -  rilevante anche per le discussioni su questioni morali. Ravaisson ebbe notevole influenza sulla cultura francese; secondo alcuni, in particolare su Proust, Bergson, Merleau-Ponty, Derrida e Deleuze (questi ultimi due notori esponenti della così detta nuova filosofia francese, analizzata nella sua trasparente nullità da Alan Sokal e Jean Bricmont) e anche su Heidegger. 

I disegni di Leonardo da Vinci Raccolte da Pompeo Leoni

Il foglio 53 (verso) del manoscritto F (scritto nel 1508) mostra il disegno del telescopio con due lenti, ma Ravaisson lo interpretò erroneamente come relativo a due lenti separate da usare una all’aperto e l’altra “nello studio”.

La priorità dell’invenzione di Leonardo è stata dimostrata da D. Argentieri nelle opere citate. Una copia del telescopio di Leonardo, recante la scritta “Anno 1590” fu portata in Olanda. Ispirò, forse l’ottico Hans Lipperhey che  presentò il suo telescopio che aveva realizzato prima di quello che Galileo mostrò nel 1609.

Non sembra che la copia citata possa esser stata ispirata dallo specchio parabolico e dall’occhiale realizzati a Napoli nel 1580 da Giambattista Della Porta, che inventò la camera oscura, confutò l’astrologia, fu accusato di stregoneria, fondò la fisiognomica, scrisse “De telescopio” e altri trattati su fenomeni naturali sorprendenti, sulla  rifrazione, sulla forza elastica del vapore  oltre a numerose commedie. Era in corrispondenza con Galileo  e sostenne di aver inventato lui il telescopio pur ammettendo di non aver compiuto osservazioni astronomiche significative. Curiosamente la sua priorità fu accettata da Keplero, il quale ebbe nel 1610 un’interessante corrispondenza con Galileo.

Leonardo nei tre anni passati a Roma (1513-1515)  studiò la geometria di grandi specchi concavi parabolici da sostituire alle lenti per ottenere ottimi  ingrandimenti. Li costruì  in bronzo e due secoli prima di Newton trovò che l’aggiunta di arsenico nella lega oltre a rendere il bronzo più fragile ne aumentava molto la durezza. Il materiale, così reso compatto e a grana fine, era molto più adatto ad essere levigato come il vetro con buone proprietà ottiche.

Nel Codice Atlantico (Folio 396 retto e verso) Leonardo  riportò il disegno della sua macchina lunga 12 metri per molare specchi parabolici con distanza focale di 6 metri che è rappresentata nella figura seguente.

Leonardo: macchina lunga 12 m per molare specchi parabolici con distanza focale di 6m (Codice Atlantico Foglio  396) 

Non sono arrivate fino a noi queste macchine, né parti di esse – come è anche il caso di tante altre macchine disegnate da Leonardo, di cui modernamente sono stati ricostruiti modelli di legno. Leonardo ne costruì segretamente vari esemplari con l’aiuto di due artigiani tedeschi noti come Mastro Giorgio e Mastro Giovanni degli Specchi. Quest’ultimo collaborò alla costruzione del citato grande specchio parabolico concavo con cui Leonardo riuscì a vedere notevoli ingrandimenti della luna di cui ha scritto e forse anche i 4 satelliti di Giove – un secolo prima di Galileo.

Nel foglio 247 del Codice Atlantico Leonardo narra come Giovanni degli Specchi volesse costruire una copia del grande specchio parabolico che voleva portare con sé in Germania. Leonardo non gli permise di costruirla e scrisse che gli diede solo disegni parziali di ciascuna  delle parti componenti con indicazione di larghezza, lunghezza, altezza e forma di ciascuna.

Se Leonardo avesse visto i quattro satelliti di Giove (che un secolo più tardi Galileo chiamò “Medicei”), avrebbe mantenuto il segreto per non essere perseguitato dall’Inquisizione che avrebbe potuto metterlo al rogo malgrado la protezione di papi e cardinali, i suoi meriti agiografici (quadri e affreschi di Cristo, santi e martiri.) e numerose invocazioni formali di stampo cattolico nei suoi scritti.

La ricostruzione di Argentieri dei dati sul telescopio vinciano non convinse tutti (vedi il Giornale di Astronomia, N°45, 4 Dicembre 2019) Alcuni astronomi negarono che Leonardo avesse mai costruito telescopi. Fra questi: Pio Emanuelli e Vasco Ronchi, che ebbe una polemica lunga e infocata con Argentieri, il quale conclude le sue violente critiche a Ronchi (nel terzo libro citato sopra nella nota [1]) copiando la seguente volgare riflessione dello stesso Leonardo (Codice Trivulziano, Foglio 14):

“Demetrio solea dire non essere differentia dalle parole e voce dell’imperiti ignoranti che sia da soni e strepidi causati dal ventre ripieno di superfluo vento. E questo non senza cagion dicea: imperochè lui non reputava  esser diferentia da qual parte costoro mandassimo fuora la voce o dall part ineferiori o dalla bocha chè l’una e l’altra era di pari valimento e sustanzia.”

_______________________________________________.

[1] Argentieri, D. – Leonardo’s Optics, pp. 405-435- Atti Mostra Leonardesca di Milano 1939

Argentieri, D. – L’ottica di Leonardo, Studio Tipografico del Genio Civile, 1939

Argentieri, D. – Ritrovamento delle curvature delle lenti del cannocchiale vinciano, ed. Macciachini, Milano 1939

[2] sono 399 fogli (di 65 x 47,5 cm – formato usato per gli atlanti, da cui il nome) di scritti, appunti e disegni rilegati con titolo in oro

Quando Leonardo provò a deviare l'Arno. Niccolò Machiavelli e Leonardo da Vinci unirono le proprie forze per provare a realizzare un sogno impossibile: cambiare il corso del fiume madre della Toscana, l'Arno, per sconfiggere una volta per tutte Pisa. Luca Bocci il 30 Luglio 2022 su Il Giornale.

Alle volte capita che anche personaggi estremamente famosi nascondano pagine sorprendenti nelle loro biografie, sconosciute anche a chi pensa di conoscerli come le sue tasche. Due dei geni più conosciuti di Toscana, ad esempio, hanno nel proprio armadio uno scheletro mica da ridere: all'inizio del Cinquecento misero assieme i loro notevoli talenti per compiere un'impresa apparentemente impossibile dalle conseguenze potenzialmente devastanti.

Su Leonardo da Vinci e Niccolò Machiavelli i libri si sprecano, con fior di dettagli sulle rispettive carriere di pittore, scienziato e inventore o di politico col vizio della filosofia e dell'intrigo. Non molti, invece, quelli su quella che sarebbe potuta rivelarsi l'impresa più grande delle loro carriere: deviare il corso del fiume madre della Toscana, l'Arno, per privare l'eterna nemica di Firenze, Pisa, del bene più prezioso, l'acqua potabile. ASCOLTA LA STORIA

Il genio di Vinci, a dire il vero, aveva provato per anni a far realizzare un progetto ben più ambizioso, un colossale canale artificiale che, passando per Prato e Pistoia, avrebbe reso le disastrose alluvioni dell'Arno un ricordo del passato. Purtroppo, come per molte altre idee leonardiane, il cartellino del prezzo avrebbe fatto impallidire anche Paperon de' Paperoni. Proprio quando sembrava che il sogno della vita di Leonardo fosse destinato a rimanere nel cassetto, Machiavelli si ricordò del progetto e pensò di usarlo per ridurre alla resa la Repubblica Pisana, impegnata da dieci anni in una sanguinosa guerra per liberarsi dal giogo fiorentino.

La storia di come questo progetto fu approvato, di come fu proprio lo scorbutico Arno a spazzarlo via e come questo fallimento influenzò le carriere dei due grandi toscani è davvero affascinante. Alla fine Pisa fu costretta lo stesso alla capitolazione e del fattaccio si dimenticarono quasi tutti, tranne i pisani, che ancora ricordano con rabbia e disgusto come i due geni cospirarono per prendere un'intera città per sete.

Marco Ascione per il “Corriere della Sera” il 13 giugno 2022.  

Leonardo che sembra plasmato della «stessa sostanza delle nubi». Ed è già sempre altrove. Inafferrabile come i contorni del suo autoritratto. Leonardo inconcludente che, mentre abbozza gli schizzi per il monumento equestre voluto da Ludovico il Moro, si perde cercando prima un cavallo a cui ispirarsi e poi un metodo per mantenere pulite le stalle del Castello Sforzesco.

Leonardo vanitoso, che sa vestire (e non disdegna il rosa), uomo di corte, capace di allietare persino con il canto, amabile intrattenitore di Papi, mecenati e nobildonne. Che conduce una vita agiata pur non curandosi dei conti della sua impresa. Leonardo che dice a tutti di sì per dire in realtà quasi solo dei no. Leonardo estremista della sperimentazione, apprendista curioso di ogni minimo segmento del creato, dal sistema solare al volo degli uccelli fino alla composizione delle vernici trasparenti, e mai maestro.

Determinato nell'essere sé stesso. Leonardo che rifiuta la tecnica dell'affresco quando dipinge l'Ultima cena, capolavoro che subito rischia di svanire come un sogno al mattino. Leonardo dalla sessualità incerta, fluida forse: omosessuale? Bisessuale? Leonardo che ritocca la Gioconda per anni senza mai consegnarla al suo committente. E invece Michelangelo. Che lavora notte e giorno. Che accetta ogni incarico e lo porta quasi sempre a compimento. 

Che scolpisce il David commissionato dal Duomo di Firenze, ma anche, in gran segreto, per non apparire distratto, una Madonna con Bambino su richiesta di un ricco mercante di tessuti fiammingo. Michelangelo che è benestante, ma vive da povero. Che non si cura dell'aspetto. Che ha il naso schiacciato per un pugno sferratogli da Pietro Torrigiano all'ennesima provocazione. Michelangelo che non si cambia mai d'abito ed è scontroso. Michelangelo che si interroga su Dio.

Burbero e tormentato sul senso delle cose. Michelangelo che ha una vera ossessione per i nudi maschili. Muscolosi e «scolpiti» anche quando dipinge. Michelangelo che nella Cappella Sistina ribalta i canoni della rappresentazione con la creazione di Adamo non più reso vivo dal soffio nelle narici, sulla linea del racconto biblico, ma dall'indice di Dio che si alza in volo. E da allora, così è.

Ma soprattutto Leonardo e Michelangelo insieme. Coevi. Rivali.

Toscani che insistono, da geni forse mai più eguagliati nella storia dell'uomo, sullo stesso palcoscenico del Rinascimento. Con un corollario di altri artisti strepitosi e in parte dimenticati. Ebbene: si sono incontrati? Hanno parlato? Forse. Ma piace pensare di sì. E che non sia stato un confronto in punta di fioretto. Geni «che hanno parlato male l'uno dell'altro». Serviva coraggio, va detto, per scrivere un libro dedicato non solo a uno, ma addirittura a tutti e due. Che cosa mai si può aggiungere?

 Eppure: sempre si possono osservare le cose da un altro angolo. Solcando territori meno battuti e offrendo con passione un racconto capace di restituire i contorni degli uomini ancor prima che degli artisti. O meglio: le debolezze dell'uomo che si riflettono sulla grandezza del genio. Lo splendore dei gesti perfetti che convive «con le tenebre dell'ossessione». L'ingegno e le tenebre (pubblicato da Rizzoli) di Roberto Mercadini è una conferma. 

Bomba atomica, il suo precedente libro, non è quindi un fatto isolato. Ci si può perdere nello stupore, una tentazione irresistibile: «La cosa che mi affascinava di più è che questi due maestri, questi due mostri sacri si sono conosciuti e non si sono piaciuti. Questo è così spiazzante da un punto di vista narrativo. Leonardo da Vinci (1452-1519, ndr) e Michelangelo Buonarroti (1475-1564, ndr ) non solo sono totalmente diversi tra di loro, come grida ogni dettaglio della loro autobiografia, ma ognuno dei due è diverso dal resto dei suoi contemporanei.

 Sono corpi estranei, squarci nella parete uniforme della norma, che lasciano intravedere un orizzonte più ampio. Insieme, sebbene opposti, anzi proprio perché opposti, sembrano voler istigare ciascuno di noi alla diversità, vale a dire a essere ciò che davvero siamo, fino all'unicità più irreparabile». Ecco perché questo non è, semplicemente, un libro su Leonardo e Michelangelo. La lettura scorre. Galoppa a tratti tra le botteghe d'arte, gli splendori delle opere e la fallacia, a volte, dei comportamenti. L'umanità di due geni. 

Bruna Magi per “Libero quotidiano” il 28 maggio 2022. 

Incarnano il top della genialità del nostro Rinascimento, Leonardo da Vinci e Michelangelo Buonarroti, e in vita furono agli antipodi. Il primo era bello, seducente, elegante, tutto damaschi e pellicce, amava stare in mezzo alla gente, persino quando dipingeva il Cenacolo nel refettorio del convento di Santa Maria delle Grazie non disdegnava di scendere dall'impalcatura per chiacchierare con gli ammiratori, a partire da Lodovico il Moro, signore di Milano, del quale era anche intrattenitore di corte. 

Michelangelo era brutto, sporco e cattivo, girava per le strade ricoperto dalla polvere del marmo e, mentre stava realizzando il David, aveva addirittura eretto un muro per stoppare l'accesso a chiunque, classificando come rompiscatole l'umanità intera. 

Leonardo diceva che le figure scolpite dal rivale esibivano muscoli somiglianti a sacchi riempiti di noci o di ravanelli, insensibile all'altissima poesia dei suoi raffinati sonetti. Michelangelo ribatteva che Leonardo si faceva condizionare da "quei caponi di milanesi", lombardi teste dure. E in occasione di un raro incontro nelle strade di Firenze erano volati insulti reciproci.

Erano due opposti che si detestavano ma si compensavano, come racconta con magistrali sfumature Roberto Mercadini, autore di un volume tanto barocco quanto capillare, L'ingegno e le tenebre (Rizzoli, pag.333, euro 18,50). Affollato di molti altri personaggi che fluttuano nell'etere dell'arte e della letteratura (Machiavelli con la sue radiografie del potere e il Vasari narratore di uomini eccelsi), intelletti chiamati a raccolta, scultori e pittori (Botticelli, Raffaello, Mantegna, Pietro Vannucci detto il Perugino), mecenati (i Medici e gli Sforza), principi e papi (i Borgia e i Della Rovere, che scontro epocale) ognuno ambasciatore di un "proprio" Rinascimento, tutti ingaggiati per fungere da luminescente corollario ai due titanici protagonisti. 

Raccontare Leonardo e Michelangelo significa anche scavare nell'invidia e nel senso di competizione, ineluttabili cardini del mondo creativo: anzi, da fattori negativi, in questo ambito si trasformano in trampolini di lancio verso la bellezza dell'assoluto, diventando elementi positivi. Perché, si legge nella quarta di copertina «Erano un tempo e un luogo, quelli, in cui il destino di un individuo sapeva disegnare traiettorie serpeggianti, estrose e del tutto imprevedibili. Era l'Italia del Rinascimento». 

Uno scontro significativo fra i due geni ebbe luogo a Firenze, nel 1503, quando a Leonardo venne proposto di affrescare una parete della Camera del Consiglio, a Palazzo della Signoria, con la battaglia di Anghiari, vinta da Firenze contro Milano nel 1440, mentre a Michelangelo proposero di fare la stessa cosa proprio su quella di fronte, con la battaglia di Cascina, vinta contro Pisa nel 1364. Michelangelo disprezzava Leonardo per la sua mondanità, e perché non terminava mai le opere. 

Secondo lui era poco professionale, inaffidabile, perché si occupava di troppe cose, non solo di pittura, passava dall'utopia di volare ai canali navigabili, dalle macchine da guerra agli studi sul corpo umano, e persino al giardinaggio. Come se Michelangelo non si rendesse conto, accecato dall'invidia, della stupefacente genialità del rivale (riducendolo a un confusionario), in realtà precursore dei nostri tempi: ingegnere idraulico, meccanico e bellico, geologo, botanico, studioso di ottica, il primo a capire, da anatomista, che il centro del sistema sanguigno non era il fegato, come credevano allora, ma il cuore. E per descriverlo, dice Mercadini, usa una metafora "vegetale" che è poesia e scienza insieme: "il core è i' nocciolo che genera l'albero delle vene".

Ma Leonardo non era da meno nel rilanciare la palla come nel gioco del tennis (allora si chiamava pallacorda), lui era invidioso della gioventù di Michelangelo (oltre vent' anni di meno) e già famoso. E pure seccato della sua cultura, anche religiosa. La gelosia di Leonardo si era manifestata alla grande quando, facendo parte della commissione di artisti che doveva decidere la collocazione del David, anziché condividere il parere di molti che indicavano piazza della Signoria come sfondo ideale per tale prorompente bellezza, suggerì la Loggia, e dentro una nicchia con la scusa di proteggere un marmo particolarmente fragile. Non riuscì nel suo intento. La spuntò soltanto con una richiesta di ipocrita pudicizia, indegna di un genio: far coprire genitali e e natiche con un gonnellino di ventotto foglie in rame e oro. 

Davide Maniaci per milano.corriere.it il 19 luglio 2022.

Le teorie sulla vera identità della misteriosa Gioconda di Leonardo sono numerosissime: va avanti da secoli il dibattito su chi fosse la donna più famosa del mondo dell’arte e su quale sia il luogo dove il genio da Vinci decise di ritrarla. 

Secondo Carla Glori - ricercatrice indipendente in arte e critica letteraria - il ponte che si vede a sinistra della spalla della Gioconda è il «ponte Gobbo» di Bobbio, il simbolo della cittadina nell’entroterra piacentino. E la donna è Bianca Giovanna Sforza, figlia illegittima e poi legittimata di Ludovico il Moro, promessa in sposa ancora bambina a Galeazzo Sanseverino e morta in giovanissima età (1482-1496) solo sei mesi dopo la celebrazione del matrimonio. Il quadro doveva essere il suo ritratto nuziale. 

Il numero 72

Carla Glori ha dedicato allo studio dell’opera pittorica di Leonardo gran parte della sua vita. Autrice di libri e articoli, ha divulgato anche online molti suoi scritti, consultabili su piattaforme di ricerca. «La notizia dell’esistenza del numero “72” sotto il ponte della Gioconda (scoperto da Silvano Vinceti nel 2010), venne allora da me rilanciata associandola al ponte Gobbo, che avevo identificato come quello del ritratto. La cosa incontrò all’epoca contestazioni. 

Il fatto che il numero esista o meno non è indispensabile all’identificazione del ponte di Bobbio da me fatta, che si basa su elementi storici e architettonici e su disegni tecnici per il suo allungamento. Allora aveva cinque archi irregolari e caratteristiche strutturali del tutto simili al ponte dipinto da Leonardo». 

La prova della riflettografia 

«All’epoca - continua Glori - avevo osservato che sussisteva per il ponte Gobbo una connessione storica documentata con il numero “72”: infatti il ponte era stato travolto da una piena del Trebbia giusto nel 1472 e l’arco grande – corrispondente a quello sotto cui vedevo il numero nel dipinto – nella realtà presentava un ammasso di rocce proprio in quel punto: non fu riparato fino al 1509. 

Ne avevo concluso che si trattasse di una data posta dal pittore in memoria di quell’esondazione, o magari per far sì che qualcuno identificasse quel ponte così famoso. Mi ha convinto il fatto che quel numero si vede anche in riflettografia, ma non saprei ancora oggi dire in tutta certezza se esista o meno, perché potrebbe essere un tiro mancino del destino, imputabile alle “craquelures” di cui quel quadro abbonda». 

Il disegno dell’arco «nascosto»

La prova che invece l’esperta definisce «inattaccabile» riguardo al ponte consiste nel disegno di un arco, visibile solo in riflettografia, in quanto è stato coperto da Leonardo con uno strato di colore. «Si tratta di una scoperta comunicata al Louvre nel 2012.

L’arco è tracciato nel punto esatto in cui si vede il ponte Gobbo dalla finestra del castello, individuata dalla ricerca come “il punto di vista sul paesaggio” della Gioconda. Leonardo ha poi raffigurato il ponte un po’ più avanti e lo ha “raddrizzato” per dipingerlo al meglio e per intero, poiché (come si può constatare in loco) gli appariva in obliquo e troppo angolato. 

È comprensibile che l’identificazione del ponte Gobbo all’epoca sollevasse contestazioni e scetticismo, perché nessuno prima di allora aveva collegato Leonardo alla Val Trebbia, un territorio strategico, a ben vedere niente affatto marginale per la storia degli Sforza e per le connessioni che via via sono emerse con Leonardo nel suo primo soggiorno milanese. Va sottolineato che al ponte Gobbo si aggiungono altri tredici punti di riferimento paesaggistici rispettivamente coincidenti nello sfondo dipinto e nel panorama reale inquadrato dal “punto di vista” fissato presso la finestra del castello». 

La scoperta dei paleontologi

Quest’anno inoltre un team internazionale di paleontologi ha scoperto sul territorio bobbiese gli icnofossili che compaiono nel codice Leicester: una ulteriore conferma della tesi sulla localizzazione del paesaggio, in quanto viene comprovata la presenza di Leonardo in loco. 

Bianca, la figlia del Moro, e la sua morte misteriosa

«Sia sulla localizzazione bobbiese del paesaggio che sulla ricostruzione storica, che riconduce alla faida sforzesca con la famiglia di Pietro Dal Verme (il signore di Bobbio avvelenato per ordine del Moro nel 1485, ndr), ho in previsione la pubblicazione di un libro con molte novità entro quest’anno.

Quel luogo, fino ad allora posto in margine alla storia sforzesca, si lega alla biografia di Bianca, la primogenita del Moro, e a quella di suo marito Galeazzo Sanseverino, che fu mecenate di Leonardo durante il primo soggiorno milanese. 

Entrambi ebbero in dote i possedimenti espropriati dal Moro ai Dal Verme e la giovane morì di morte misteriosa sei mesi dopo le nozze, forse per l’oscuro intrigo cortigiano a cui accenna il Muratori nelle Antichità Estensi, chiamando in causa Francesca Dal Verme (figlia del conte Pietro). Le carte d’archivio disponibili non hanno dato finora risposte su questo intricato “giallo sforzesco”, e probabilmente non si riuscirà mai a venirne a capo». 

L’«invecchiamento» della Gioconda

E sarebbe proprio Bianca la donna del quadro. Lo scienziato Pascal Cotte nel 2014 aveva annunciato la scoperta del ritratto di una donna più giovane sotto la Gioconda, una scoperta che attende conferma ufficiale dal Louvre: in tal caso verrebbe convalidata l’ipotesi del 2010 di Carla Glori circa l’«invecchiamento» e la trasformazione operata da Leonardo sulla modella, la non ancora quindicenne Bianca Giovanna Sforza. 

Dopo la sua fuga da Milano, Leonardo doveva infatti nasconderne l’identità, in quanto figlia del Moro, ormai sconfitto e messo al bando. 

Le origini milanesi

Una Gioconda milanese, dunque, secondo Carla Glori. «Va premesso – prosegue – che il ritratto di “una certa signura di Lombardia” (con correzione in rosso “milanese”) viene documentata da Antonio de Beatis durante la sua visita nel castello di Blois, il giorno dopo l’incontro con Leonardo in Amboise nel 1517. 

Ho ipotizzato al proposito che potrebbe trattarsi del ritratto detto la Gioconda. A partire dalla localizzazione del paesaggio in Bobbio, ho identificato la giovane Bianca signora di Voghera in base a fatti storici documentati, dato che lei e Galeazzo Sanseverino furono investiti delle terre vermesche della Val Trebbia dopo gli sponsali del 1489». 

I ricami sulla scollatura

Leonardo conosceva la figlia del Moro fin da bambina e sono documentati i rapporti di amicizia che legavano il Pittore a Galeazzo, suo mecenate. «Una evidenza sforzesca sono i ricami sulla scollatura dell’abito della Gioconda, in quanto riconducono alla moda lanciata a corte da Beatrice d’Este nei primi anni del 1490 e le minute spirali del ricamo sono identiche a quelle dell’abito della Dama con l’ermellino (1490 circa). 

Sono le stesse spirali che si ritrovano nei nodi vinciani del 1497 circa, dai quali sono state tratte incisioni. Un esperimento grafico ha permesso di provare che il ricamo della scollatura “assembla” tre motivi dell’incisione del nodo Academia Vinci 9596 della biblioteca Ambrosiana, ma l’esperimento è ripetibile sulle altre incisioni con analoghi nodi vinciani». 

La lavorazione sul bordo del parapetto

«Inoltre - spiega Glori - la lavorazione sul bordo del parapetto della Gioconda, eseguito anteriormente al ritratto, è del tutto simile a quella del parapetto della Belle Ferronnière, la milanese Lucrezia Crivelli, l’ultima amante del Moro ritratta nel 1497, un dipinto il cui sfumato presenta significative analogie con quello della Gioconda. La similitudine dei parapetti rimanda a un contesto culturale-architettonico omogeneo». 

«Molti elementi – prosegue la ricercatrice – dimostrano che il ritratto del Louvre, anziché al 1503 in Firenze o ancor più improbabilmente nel periodo romano 1513-1516, può datarsi nel triennio 1496-99 (tra le nozze di Bianca e la sua morte, prima della fuga di Leonardo da Milano per la caduta dello Sforza)».

Il ritratto nuziale mai consegnato

La Gioconda, secondo Glori, doveva essere il ritratto nuziale della primogenita del Moro, non consegnato a causa della sua morte al padre-committente, e poi «trasfigurato» nel tempo. 

«In questi ultimi anni si è diffusa l’idea di una esecuzione tarda di quel quadro, tra il 1513 e il 1516 circa. Ma, a parte le similitudini sopra evidenziate, è noto che Leonardo nel 1517 subiva gli effetti di una paralisi, per cui Antonio de Beatis scrisse che “per essergli venuta certa paralisi su la destra non ci si può più aspettare cosa buona”, aggiungendo che poteva solo “fare disegni ed insegnare ad altri”. È vero che cita la mano destra, ma il giudizio è quello di una sua invalidità diffusa per cui doveva ricorrere ai suoi allievi, rendendo inverosimile l’esecuzione del capolavoro negli ultimi anni». 

Il mito di massa

Nessuna conclusione certa, ovviamente, ma Carla Glori lo chiarisce: «I risultati finora mi confermano l’identità di Bianca Giovanna Sforza ritratta sullo sfondo di Bobbio». 

Quel quadro del resto ha attraversato epoche e ciascuna epoca lo ha reinterpretato e anche travisato. La trasformazione dell’opera nel «mito di massa» avvenne con il furto di Vincenzo Peruggia nel 1911, che la proiettò sulle prime pagine di tutti i giornali. 

«In ultima analisi, è nella società dell’immagine e dello spettacolo che quell’opera si è trasformata in un feticcio: una parola che comprende sia l’idea di “oggetto magico” e di idolo, capace di attrarre con una forza invisibile, sia quella di “brand simbolico universale” assimilato alla merce. La nascita della rete e del digitale hanno amplificato a livello planetario, nel bene e nel male, la trasformazione della musa di Leonardo in un oggetto di culto massmediatico».

È difficile prevedere se la Gioconda riuscirà infine a sottrarsi al destino della “dissoluzione dell’aura” teorizzato da Benjamin, ma, per le sue peculiarità, Carla Glori crede che sia destinata più di ogni altra opera d’arte a sottrarsi a quello della riproducibilità tecnica. Nessuna macchina potrà mai approssimarsi all’originale.

La nuova verità sulla Gioconda di Leonardo: ecco qual è il paesaggio ritratto sullo sfondo. Orlando Sacchelli su L'Arno-Il Giornale il 4 giugno 2022.

Un ingegnere francese ha presentato uno studio che identificherebbe il paesaggio ritratto da Leonardo da Vinci nello sfondo del suo più celebre dipinto, la Gioconda. Si tratterebbe di Caprona, in provincia di Pisa, luogo che vide anche Dante Alighieri partecipare ad un assedio che vide poi la vittoria dei fiorentini sui pisani.

È affascinante la tesi formulata da Pascal Cotte, ricercatore scientifico e direttore della Lumiere Technology, che collabora con l’Università di Bologna, Chiara Matteucci, del dipartimento dei beni culturali dell’Università di Bologna, Sylvain Thieurmel, esperto scientifico e ricercatore specializzato nella pittura di Leonardo da Vinci e Nicola Baronti presidente dell’associazione Vinci nel cuore

Ha presentato l’esito delle sue ricerche a Vinci, durante la conferenza “La Gioconda svelata dalla scienza. Una nuova scoperta mondiale”. Il paesaggio sarebbe stato “riconosciuto” grazie alla digitalizzazione del dipinto, richiesta del Louvre di Parigi. Ma ci sarebbero anche altri elementi frutto di uno studio più approfondito.

“Studiare Leonardo è stimolante, ci offre sempre uno spunto in più di ricerca – ha detto Giuseppe Torchia, sindaco di Vinci -. Ed è anche l’occasione per scoprire aspetti nuovi della vita del genio rinascimentale. Ed è bellissimo vedere come arte e scienza, che sembrano due mondi diversi, siano in realtà collegate tra di loro. Come Comune la nostra volontà è esaltare Leonardo a 360 gradi, andando ad analizzare ogni singolo dettaglio di una figura che ha cambiato il mondo”. La tecnica digitale utilizzata ha permesso di analizzare gli strati nascosti sotto la superficie del dipinto, con immagini multispettrali in altissima risoluzione, ricostruendo l’esatta cronologia della creazione dei vari strati dipinti dall’artista.

Leonardo sarebbe intervenuto sulla tela in tre momenti diversi. La prima nel 1501, con il primo soggetto che non sarebbe stato una donna (la Monna Lisa), ma la Madonna, come si evincerebbe da alcuni dettagli riconducibili a figure sacre. La seconda modifica, invece, risalirebbe al 1503, quando Leonardo avrebbe in effetti iniziato a ritrarre Lisa Gherardini, la sua musa ispiratrice. L’ultimo intervento sarebbe arrivato tra il 1513 e il 1515, stavolta per venire incontro alle richieste del committente del dipinto, Giuliano de’ Medici, che voleva raffigurare la madre di suo figlio, Ippolito, rimasto orfano. Leonardo aveva molti lavori a cui stare dietro e, non avendo molto tempo, riprese in mano il ritratto fatto alla Gherardini. Ma dove sarebbero le tracce del paesaggio di Caprona e dintorni, con la famosa torre (torretta) e la fortezza della Verruca? Nel secondo intervento, quello datato 1503, Leonardo aveva in mano le carte e i disegni per la deviazione dell’Arno. Leonardo si sarebbe recato nella zona di Caprona accompagnato dal suo giovane collaboratore, Gian Giacomo Caprotti (detto Salai). Il genio di Vinci stava studiando, per i fiorentini, il modo con cui deviare il corso del fiume al fine di piegare, una volta per tutte, la città nemica di Pisa. Progetto che poi non fu mai messo in pratica. I profili dei monti e alcune strutture ritratte nello sfondo del quadro descriverebbero proprio quella zona, secondo le analisi scientifiche effettuate. Tracce poi coperte da altri strati nella successiva modifica fatta dall’artista.

Per risalire al luogo esatto tratteggiato nello sfondo della Gioconda sarebbe stato determinante anche lo studio delle carte geografiche disegnate proprio da Leonardo, oltre a due schizzi con la sanguigna. Il passaggio raffigurato da Leonardo, quindi, sarebbe proprio quello dei Monti pisani, tra i comuni di Vicopisano, Cascina e Calci.

Un altro luogo vicino a Caprona, una grotta che si trova a Uliveto Terme, ai piedi del monte Verruca, assomiglierebbe ad una roccia ritratta, sempre da Leonardo, nel dipinto “Vergine delle Rocce“, custodito sempre al Louvre. Del caso si era occupato, alcune settimane fa, un reportage della tv francese Tf1 (guarda).

Orlando Sacchelli su L'Arno-Il Giornale.

“Lo sfondo della Gioconda? I monti pisani”. Presentati ieri al centro Leo Lev di Vinci i risultati dell’analisi condotta sul più celebre dipinto di Leonardo con il sistema Lam. Francesca Cavini su lanazione.it il 4 giugno 2022.

Una scoperta destinata a sollevare il velo di mistero che spesso circonda i paesaggi sfondo dei celebri dipinti di Leonardo. La conferenza di ieri, “La Gioconda svelata dalla scienza. Una nuova scoperta mondiale”, al Centro espositivo Leo-Lev ha visto riuniti l’ingegnere Pascal Cotte, ricercatore scientifico, direttore della Lumiere Technology, collaboratore dell’Università di Bologna, la dottoressa Chiara Matteucci, del dipartimento dei beni culturali dell’Università di Bologna, Sylvain Thieurmel, esperto scientifico e ricercatore specializzato nella pittura di Leonardo da Vinci e Nicola Baronti del Comitato FAI “Noi per San Pantaleo“ nonché presidente dell’associazione Vinci nel cuore. Ospite a sorpresa, il governatore della Toscana, Eugenio Giani, che si è trattenuto per ascoltare i dettagli della rivelazione annunciata in apertura: quale paesaggio è ritratto nello sfondo della Gioconda. Nell’introdurre gli ospiti, la responsabile di Leo Lev ha ricordato come "il nostro centro è e rimane un luogo aperto per il confronto e la discussione per la valorizzazione e promozione di Leonardo da Vinci, nel segno dell’indimenticato Carlo Pedretti, che è nel nostro pensiero sempre e nelle nostre azioni".

Pascal Cotte ha quindi illustrato come ha fatto a ricostruire che il paesaggio dietro la Monna Lisa è quello dei monti pisani e della torre di Caprona. L’analisi delle carte geografiche disegnate da Leonardo e due schizzi con la sanguigna, pubblicati da Carlo Pedretti, hanno permesso di confermare questa identificazione paesaggistica e di ripercorrere il passaggio di Leonardo sui monti pisani, da Vicopisano, Cascina, Calci. Sylvain Thieurmel ha illustrato, quindi, tutte le fasi della sua verifica sul campo fatta in Toscana partendo proprio dai risultati delle analisi eseguite da Pascal Cotte utilizzando la tecnica scientifica Layer Amplification Method. Un sistema di indagine grazie al quale sono stati scandagliati in maniera non invasiva gli strati nascosti sotto la superficie della Gioconda, scattando anche immagini multispettrali in alta risoluzione, e ricostruendo l’esatta cronologia della creazione dei vari strati dipinti. E’ da questo che si è risaliti all’identificazione dei monti pisani, identificazione verificata , appunto, da Thieurmel. Che ha ipotizzato come Leonardo sia stato accompagnato dal suo allievo e amante Salai alla torre di Caprona e alla Verruca nel 1503 quando studiava la deviazione del corso dell’Arno per conto dei fiorentini in guerra contro i pisani. La ricerca ha poi portato Thiermeul alla scoperta anche di una grotta situata a Uliveto Terme, ai piedi del monte Verruca, dove c’è una roccia che somiglia al paesaggio che Leonardo dipinse nella “Vergine delle Rocce“ che si trova al Louvre. Ma questa è un’altra scoperta. Francesca Cavini

La Gioconda: storia, descrizione e significato del dipinto di Leonardo. A cura di Sonia Cappellini su studenti.it.

Frase celebre

«Et in questo di Lionardo vi era un ghigno tanto piacevole che era cosa più divina che umana a vederlo, et era tenuta cosa maravigliosa, per non essere il vivo altrimenti» Giorgio Vasari

1. La Gioconda di Leonardo

Un dipinto ricco di misteri. La Gioconda è un dipinto a olio su tavola eseguito da Leonardo da Vinci intorno al 1503. Misura 77 cm per 53 ed è oggi conservato al Musée du Louvre.

Il mistero della Gioconda sull’identità della donna ritratta nel dipinto è in realtà un infondato luogo comune, alimentato dalla recente letteratura su Leonardo, che vede segreti nascosti praticamente ogni attività del maestro toscano. La soluzione è in realtà piuttosto semplice.     

Committente e soggetto. Giorgio Vasari espone con chiarezza e sicurezza che Francesco del Giocondo, ricco mercante fiorentino, commissiona a Leonardo il ritratto di sua moglie Lisa Gherardini. Non illustra nei dettagli il motivo per cui l’opera non arriverà mai nella casa del suo committente ma lo lascia intuire spiegando che il pittore ci lavora per ben quattro anni e non lo porta a compimento.

L’identificazione è confermata anche da una annotazione del cancelliere Agostino Vespucci risalente al mese di ottobre del 1503: «Come il pittore Apelle, così fa Leonardo da Vinci in tutti i suoi dipinti, ad esempio per la testa di Lisa del Giocondo e di Anna, la madre della Vergine. Vedremo cosa ha intenzione di fare per quanto riguarda la grande sala del Consiglio, di cui ha appena siglato un accordo con il gonfaloniere».  

Leonardo lavora all'opera per anni. Il quadro resta quindi al suo creatore e diventa per lui un esercizio di stile, tanto che continuerà a lavorarci e ad apportarvi modifiche per almeno dieci anni. Lo seguirà in tutti i suoi viaggi e sarà con lui fino alla fine, nella sua ultima dimora ad Amboise, dove, con ogni probabilità il re Francesco I lo acquista dall’allievo e erede Gian Giacomo Caprotti.  

Curiosità

Se dividi esattamente a metà il volto della Gioconda otterrai due differenti espressioni. A sinistra vedrai una donna più matura e seria, a destra una donna più giovane e sorridente.

2. Analisi della Gioconda

La Gioconda ritrae a metà figura una giovane donna con lunghi capelli scuri. È inquadrata di tre quarti, il busto è rivolto alla sua destra, il volto verso l’osservatore. Le mani sono incrociate in primo piano e con le braccia si appoggia a quello che sembra il bracciolo di una sedia. Indossa un sottile abito scuro che si apre sul petto in un’ampia scollatura. Il capo è coperto da un velo trasparente e delicatissimo che ricade sulle spalle in un drappeggio. I capelli sono sciolti e pettinati con una scriminatura centrale, i riccioli delicati ricadono sul collo e sulle spalle.  

Il volto. Gli occhi grandi e profondi ricambiano lo sguardo dello spettatore con una espressione dolce e serena. Le labbra accennano un sorriso.

Non indossa alcun gioiello, sulle vesti non appare nessun ricamo prezioso. La semplicità con cui si presenta esalta la sua bellezza naturale a cui, evidentemente, non necessita alcun orpello. 

Lo sfondo a sinistra. Alle sue spalle è visibile la linea retta di una balaustra. Il balcone si affaccia su un paesaggio limpido e lontanissimo.

Sulla sinistra del quadro si scorge una strada che si snoda attraverso una valle, fiancheggiata da ripide montagne, quindi uno specchio d’acqua, probabilmente un lago a giudicare dall’andamento dei riflessi, quindi ancora formazioni montuose sullo sfondo. 

Lo sfondo sul lato destro. Sul lato destro della Gioconda ancora una linea serpentinata descrive il corso di un fiume impetuoso, sono visibili rapide e cascate e un ponte su tre arcate. Il corso del fiume si perde in un altopiano aldilà del quale si scorge un altro lago, posto ad una quota più elevata rispetto al primo. Quindi ancora montagne che in modo graduale si innalzano fino a raggiungere altissimi ghiacciai.

La linea dell’orizzonte taglia la figura all’incirca all’altezza della fronte, che risulta quindi essere quasi del tutto immersa nel paesaggio.    

L'attenzione ai dettagli. Nell’esecuzione di questo ritratto Leonardo ha posto un’attenzione maniacale nello studio di ogni dettaglio: nella trasparenza del velo come nella terra rossa che ricopre la strada; nell’incarnato delle mani e del collo come nei riflessi dell’acqua; nello studio delle ombre sul volto come nella resa atmosferica. Lo studio dell’anatomia e dell’espressione umana si sposa perfettamente con l’indagine paesaggistica e geologica.   

L'illusione di movimento. Alla perfezione tecnica si unisce poi quell’elemento di moto che costituisce la vera e propria magia del dipinto: la figura è stante ma non immobile. La morbidezza delle carni lascia percepire il leggero movimento del respiro. Il volto, non in asse con le spalle, lascia intendere una delicata rotazione della testa. Una rotazione che ancora non si è conclusa, come suggerisce lo sguardo che compie un passo ulteriore rispetto alle spalle e al viso. Il sorriso e l’ovale dai contorni sfumati suggeriscono che le labbra e le guance stanno delicatamente cambiando espressione. Il moto è anche nella natura che la avvolge e accoglie: le rocce sono ora aspre ora erose, l’apparente immobilità dei ghiacciai si scioglie nelle acque tranquille dei laghi e in quelle rapide del fiume.

È la vita stessa Il miracolo che si rivela in questo dipinto.   

3. La tecnica di Leonardo da Vinci

3.1. Il contrapposto

Il miracolo della vita o della natura naturans, si esprime nell’opera di Leonardo attraverso sofisticate elaborazioni tecniche.

Il contrapposto, introdotto da Leonardo e Michelangelo, e largamente usato da tutti i pittori del ‘500, consiste nella rotazione in direzioni opposte delle gambe, del busto e della testa. Questa torsione, che può essere più o meno evidente, infonde movimento alla figura seduta e consente al pittore di ricavare dal corpo umano la massima potenza espressiva. 

3.2. Lo sfumato

Uso di contorni non nettiLo sfumato, di cui si fa largo uso nella Gioconda, consiste in un passaggio soffuso e graduale dalle superfici che descrivono i volti e gli incarnati a ciò che li circonda. Nel suo Trattato della Pittura Leonardo raccomanda di non tracciare il viso con contorni netti, perché questo li renderebbe rigidi e spigolosi. Nel viso di Monna Lisa, l’impossibilità di individuare una precisa linea di contorno delle gote, del mento e delle labbra fa sì che l’espressione appaia cangiante, in divenire. 

3.3. La prospettiva aerea 

Luce e colore contribuiscono alla prospettiva. Per i pittori del ‘400 la prospettiva è una rigida questione matematica. Si fissa un punto di fuga coerente con il punto di vista e si fanno convergere verso questo punto tutte le linee che nella visione geometrica della realtà sono tra loro parallele. Questo determina il rimpicciolimento proporzionale degli oggetti, dei corpi, delle architetture e dà all’occhio l’illusione della profondità. Leonardo, da investigatore qual è della natura, non può accontentarsi di questa visione tutta teorica. Il senso della distanza e della lontananza passano anche attraverso il colore e la luce. L’aria, che ha una sua consistenza, frapponendosi tra l’occhio e l’oggetto sbiadisce il primo e aumenta il tono della seconda. Ecco dunque che le rocce scure di cui si compongono le montagne in primo piano diventano in lontananza sempre più chiare arrivando quasi a confondersi con il cielo.  

Curiosità

Nel 1911 Vincenzo Peruggia, artigiano italiano impiegato al Louvre, nascondendosi di notte in uno stanzino del museo, ruba il celebre dipinto, nella convinzione (peraltro ancora molto diffusa) che esso sia stato indebitamente sottratto da Napoleone durante la campagna d’Italia. Del reato vengono sospettati persino Picasso e Apollinaire che, di concerto con i futuristi, inneggiano in quegli anni alla distruzione delle opere del passato, dei musei e delle biblioteche. Il ladro riesce non solo a sottrarre il dipinto con estrema facilità ma anche a portarlo in Italia senza destare il minimo sospetto e a tenerlo appeso nella sua cucina per oltre due anni. L’opera viene recuperata nel 1913 quando il Peruggia cerca di venderla ad un antiquario fiorentino. Arrestato e processato sconterà solo pochi mesi di carcere perché riconosciuto mentalmente instabile. La Gioconda, ritenuta persa per sempre, vedrà invece crescere universalmente la sua fama.

4Imitazioni e citazioni

La fortuna di un’opera si misura anche dalle imitazioni e dalle parodie che può vantare. Anche in questo senso La Gioconda è senz’altro il dipinto dei record.

L'omaggio di Raffaello a Leonardo. Raffaello si trova a Firenze all’inizio del ‘500, ha la fortuna di vedere all’opera Leonardo nella sala del Consiglio a Palazzo Vecchio e senz’altro di ammirare anche i dipinti di committenza privata. È alla Gioconda che si ispira quando nel 1506 ritrae Maddalena Strozzi.

La piccola e raffinatissima tela raffigura la nobildonna nella stessa posizione di Monna Lisa. Si trova anch’essa su una terrazza, è seduta e appoggia il braccio sinistro al bracciolo della sedia, le mani appoggiate l’una sull’altra. Stessa posizione del busto e della testa. A differenza di Leonardo, il pittore urbinate sceglie di porre la figura in posizione preminente rispetto allo sfondo, la linea dell’orizzonte si trova all’altezza delle spalle e tutta la testa spicca sullo sfondo azzurro del cielo, il paesaggio inoltre è collinare e non impervio e tormentato come quello descritto sopra. La donna poi, anch’essa nobile e moglie di un ricco mercante ma decisamente meno avvenente di Lisa, indossa un abito preziosissimo e si adorna di numerosi gioielli.

Nella concezione rinascimentale l’imitazione di un maestro più anziano non è considerata un plagio ma costituisce un atto di omaggio.    

La Gioconda coi baffi. Tra le moderne dissacrazioni la più celebre è senz’altro quella di Marcel Duchamp, che nel 1916, su una riproduzione fotografica del dipinto aggiunge un paio di baffi e l’irriverente sigla L. H. O. O. Q.

I dadaisti contestano la visione elitaria dell’arte e cercano, con operazioni ironiche e giocose, di ricondurre le opere, ammantate di sacralità, nel flusso caotico della vita.

Lungi dal costituire un problema per la fama del dipinto, l’operazione di Duchamp lo consacra invece come icona moderna.  

"L. H. O. O. Q", Marcel Duchamp, Private collection — Fonte: Ansa

5. Concetti chiave

Soggetto e creazione dell'opera

La Gioconda è il ritratto di Lisa Gherardini, moglie del ricco mercante fiorentino Francesco del Giocondo, che commissionò l’opera a Leonardo da Vinci intorno al 1503. Il dipinto non arrivò mai a casa del committente; Leonardo ci lavorò per anni, perfezionandolo e facendolo diventare un esercizio di stile.

Descrizione del quadro

Nel quadro, un olio su tavola, si vede la figura di una giovane donna in abito scuro, ritratta a metà figura, con lunghi capelli scuri coperti da un velo trasparente che ricade sulle spalle.

La Mona Lisa è inquadrata di tre quarti, col busto leggermente girato verso la sua destra. Le mani sono incrociate in primo piano e con le braccia si appoggia a quello che sembra il bracciolo di una sedia.

Gli occhi osservano lo spettatore con un’espressione serena e le labbra accennano un sorriso.

Alle sue spalle si vede la linea orizzontale di una balaustra mentre sullo sfondo a sinistra si vedono delle montagne frastagliate e una strada tortuosa. Sul lato destro, invece, s'intravede un fiume con un ponte a tre arcate, un lago e altre montagne lontane.

La tecnica

In questo dipinto Leonardo utilizza diverse tecniche:

Il contrapposto: consiste nella rotazione in direzioni opposte delle gambe, del busto e della testa. Questa torsione infonde movimento alla figura seduta e consente al pittore di ricavare dal corpo umano la massima potenza espressiva.

Lo sfumato: consiste in un passaggio soffuso e graduale dalle superfici che descrivono i volti e gli incarnati a ciò che li circonda, senza l'utilizzo di contorni netti.

La prospettiva aerea: per creare la prospettiva Leonardo non si limita ad utilizzare le regole geometriche ma utilizza anche il colore e la luce, che contribuiscono al senso di lontananza.

Citazioni e imitazioni

La Gioconda è un dipinto che ha dato spunto ad innumerevoli citazioni e imitazioni. Tra le più importanti troviamo:

Il "Ritratto di Maddalena Strozzi" eseguito da Raffaello nel 1506.

"L. H. O. O. Q." conosciuta anche come "La Gioconda con i baffi", ready made eseguito dal dadaista Marcel Duchamp nel 1919.

Domande & Risposte

Chi raffigura la Gioconda?

La Gioconda è il ritratto di Lisa Gherardini, moglie di un ricco mercante fiorentino (Francesco del Giocondo) che commissionò l’opera a Leonardo da Vinci intorno al 1503.

Perché la Gioconda si chiama così?

Il nome Gioconda proviene dal nome di Francesco del Giocondo, il ricco mercante che commissionò a Leonardo il ritratto di sua moglie.

Da chi è stata rubata, in passato, la Gioconda?

Vincenzo Peruggia.

Dove si trova la Gioconda di Leonardo?

Museo del Louvre. 

Tutti i guai della Gioconda, che nel 1913 arrivò a Torino in una preziosa valigetta di legno. Rosalba Graglia su Il Corriere della Sera il 30 maggio 2022.

Il dipinto-ossessione di Leonardo, colpito qualche giorno fa da una torta al Louvre, fece tappa alla stazione di Porta Nuova: proveniva da Milano e ripartì verso la Francia. 

Povera Monna Lisa, che si è presa una torta in faccia come in una comica di Stanlio & Ollio, per «salvare il pianeta». Per fortuna che a salvare lei ha provveduto una teca d’avanguardia, realizzata da una vetreria italiana, Goppion di Milano . E sì che quel dipinto-ossessione di Leonardo, che continuò a ritoccarlo per anni, presunto ritratto di Lisa Gherardini, commissionato dal marito Francesco del Giocondo e mai ultimato ne ha già avuti un bel po’ di guai nel corso del tempo. Il più clamoroso l’ha addirittura portata, anche se per poco, a Torino.

Siamo a Parigi, nel 1911. L’imbianchino Vincenzo Peruggia, di Dumenza, vicino a Luino lavora al Louvre. E decide di rubare la Gioconda. Che volesse farci un po’ di soldi o fosse mosso dallo spirito patriottico di restituire l’opera all’Italia, tenta l’impossibile e ci riesce. Con naturalezza degna di un audace colpo da solito ignoto. Semplicemente si chiude in uno sgabuzzino del museo di notte e al mattino esce tranquillamente con il quadro sotto il paltò. Se lo tiene per mesi sotto il letto della sua pensione a Parigi (oggi trasformata ça va sans dire in Hotel Da Vinci), lo porta a casa a Luino, poi maldestramente cerca di venderlo a Firenze all’antiquario Alfredo Geri. Appuntamento nella stanza n. 20 dell’Hotel Tripoli (poi, va da sé, Hotel Gioconda), Geri si presenta con il direttore degli Uffizi: il quadro viene così recuperato, Paruggia arrestato. Al processo gioca la carta dell’amor di patria e del capolavoro rubato, e se la cava con soli 7 mesi e 15 giorni di prigione.

La storia del capolavoro rubato è una delle fake news più dure a morire. (Ri)sfatiamo la leggenda una volta per tutte: è stato Leonardo a portare il dipinto in Francia, dove fu venduto al re Francesco I, finì al castello reale di Fontainebleau, poi Luigi XIV lo spostò a Versailles e da qui finì al Louvre. Non è stato Napoleone a portare la Gioconda in Francia, insomma: anche se l’imperatore per qualche tempo se la tenne in camera da letto, per poi farla rientrare al museo. Sarebbe ritornata poi in segreto nella Valle delle Loira (a Chambord e ad Amboise) per sfuggire ai nazisti (vicenda raccontata dal film The Monument Men) e riportata al Louvre nel 1945. Da dove si allontanò solo un paio di volte: nel 1962 per una tournée negli Stati Uniti, nel ’74 per essere esposta a Tokyo e Mosca.

E Torino? La tappa forzata di Torino, avvolta da un giusto alone di mistero, risale al 30 dicembre 1913. Quando il quadro viene ritrovato, viene esposto a Firenze, a Roma e a Milano. Ed è su un treno proveniente da Milano che arriva a Porta Nuova, in una preziosa valigetta di legno con maniglia dorata scortata da Ettore Modigliani, direttore della Pinacoteca di Brera, e Paul Leprieur, del Museo del Louvre. I due scendono e percorrono pochi passi. Un altro treno con destinazione Modane è pronto a riportare Monna Lisa a Parigi. Trasbordo alla presenza di pochi giornalisti, i funzionari della questura , e agenti in borghese. Metti mai dovesse apparire dall’ombra un qualche Diabolik pronto a riprovarci.

La Gioconda di Roma, svelato il mistero della tela nascosta (su un termosifone) a Montecitorio. Carlo Alberto Bucci La Repubblica il 19 Febbraio 2022.  

E ora la tela sarà visitabile al pubblico nel mese di marzo nell'ambito degli appuntamenti di "Camere aperte". 

Era appesa nella sala del camino quando si trovava nel palazzo degli eredi di Cassiano dal Pozzo. Ed era finita sopra al termosifone nella stanza del questore della Camera quando era occupata dal pentastellato Federico D'Incà, ora ministro dei Rapporti col Parlamento.

Ci ha pensato però il suo erede M5S Francesco D'Uva a trovare una sistemazione consona per la copia (una delle 61 note) della Gioconda di Leonardo al Louvre: togliendola dal calorifero del suo ufficio e concedendo alla Gioconda Torlonia della Galleria nazionale un deposito dorato: ossia la Sala gialla (ora Aldo Moro) di Montecitorio.

Roma scopre di avere La Gioconda, era nascosta in un deposito a Montecitorio: "Potrebbe essere di Leonardo". Carlo Alberto Bucci La Repubblica il 17 Febbraio 2022.   

Dopo le analisi è stato riscontrato che il dipinto è del ‘500, proviene dalla collezione Torlonia, e con una radiografia ai raggi infrarossi è stato scoperto che alcune correzioni sono identiche alla Gioconda del Louvre.

Anche Roma, come Parigi, ha una Gioconda. Simile, se non identica, a quella di Leonardo al Louvre. E si trova in deposito a Montecitorio, concessa nel 1925 dalla Galleria nazionale d'arte antica di palazzo Barberini.

"Si tratta di una copia del quadro del Louvre realizzata dalla bottega di Leonardo, forse addirittura con la sua stessa collaborazione", ha detto il questore della Camera Francesco D'Uva che si è privato della tela (ma il dipinto era su tavola e nel '700 è stato staccato dal suo supporto originario) per esporlo nella sala Aldo Moro di Montecitorio.

Pierluigi Panza per corriere.it il 18 febbraio 2022.

Una delle molte copie della Monna Lisa di Leonardo da Vinci, conservata dal 1927 alla Camera dei Deputati in deposito dalle Gallerie nazionali di arte antica, è al centro di un dibattito attributivo. Si tratta della cosiddetta Gioconda Torlonia, una copia non si sa quando esattamente realizzata (probabilmente nel XVI secolo), trasportata da tavola su tela nel Settecento e un tempo custodita in Francia come probabile parte della collezione del cardinale Fesch, lo zio di Napoleone. 

La troviamo inventariata dal 1814 nella collezione Torlonia di Roma e arriva alla Galleria nazionale d’arte antica nel 1892. Da qui, nel 1927, viene data in custodia a Montecitorio, dove non è certo l’unica copia di celeberrimi dipinti antichi. È alta 70 centimetri per 50 (dimensioni ridotte rispetto alla Gioconda del Louvre) e, un tempo, fu come al solito, attribuita al pittore leonardesco Bernardino Luini.

Se ne stava tranquilla nella stanza del questore di Montecitorio finché il questore Francesco D’Uva (M5S), che invita a sostenerne l’autenticità leonardesca, l’ha prima prestata e poi spostata in sala Aldo Moro per renderla più visibile. «Si tratta di una copia realizzata nella bottega di Leonardo, forse addirittura con la sua diretta collaborazione», va spiegando il questore.

La sua considerazione nasce, probabilmente, dalla riflessione di Antonio e Maria Forcellino che, nel catalogo della mostra romana del 2019 su Leonardo a Roma, influenza ed eredità, hanno speso nove pagine a raccontare la qualità della Gioconda Torlonia. Ma, al solito, non ci sono assolutamente documenti a ricostruirne le origini del dipinto (Leonardo muore nel 1519 ad Amboise, in Francia, portando la vera Gioconda) e i pareri di molti esperti sono assai scettici. 

«È un modesto dipinto di arredamento» afferma, senza appello, il critico d’arte Vittorio Sgarbi. «Non l’ombra, ma l’incubo di Leonardo», scrive il deputato in una nota. «Tutto quello che meritava di essere restituito ai musei — spiega — lo è stato nei decenni scorsi attraverso una commissione che io ho guidato». Anche Rossella Vodret, ex soprintendente di Roma, schedando il dipinto nel 2005, l’aveva definito «di qualità non molto alta». E Alessandro Cosma, nella scheda apparsa nello stesso catalogo del 2019 con il testo entusiasta dei due Forcellino, scrive che la copia, una delle molte esistenti, «riprende in maniera precisa molti dettagli» dell’originale.

Più possibilista Claudio Strinati, che definisce «plausibile» che possa essere un’opera della bottega. Ma «a parer mio — chiosa — è un dipinto di media qualità che non sembra denotare l’impronta di una mano eccelsa di Leonardo». 

La Gioconda di Montecitorio. All’onorevole piace «vanniare». Un modesto dipinto annunciato come un capolavoro ritrovato di Leonardo. VITTORIO SGARBI su Il Quotidiano del Sud il 20 Febbraio 2022.

“LEI mi piace quando vannia”, mi dice una signora incontrata sulla strada di Catania. È un concetto che conosco, ma mi piace sentirlo dire in stretta lingua siciliana. E indica lo sfogo liberatorio di chi è felice che un altro dica quello che lui vorrebbe dire. Protestando, nel suo cuore segreto, contro il mondo, contro le ingiustizie, ma costretto dalla prudenza a trattenersi per non accrescere il proprio danno. Così la mia reazione assume il senso di una delega che è propriamente quella che si dovrebbe attribuire a un “deputato” il quale, a sua volta, per opportunismo o per non farsi danni, si contiene.

Dà soddisfazione incontrare qualcuno che, a suo rischio e pericolo, ti rappresenta. Ma non è propriamente nella mia indole, che sarebbe socievole e persino mite se non dovessi misurarmi con la quotidiana e diffusa imbecillità, alla quale non mi sembra giusto rimediare con il distacco e con l’indifferenza. Io, la mattina, mi alzo contento. Poi sono costretto a soffrire per il disordine del mondo. Da questa sofferenza, o contrarietà, deriva il mio comportamento irruente, e talvolta iroso. Forse una difesa irrazionale della ragione. E se il destinatario del mio “vanniare” non migliora o non si corregge, e quindi la mia reazione violenta non è una soluzione utile, quelli che assistono, però, si sentono sollevati, vengono presi dall’euforia di quella signora catanese.

È quindi utile agli spettatori che fanno il tifo la mia incazzatura (traduzione volgare dello stimolo a “vanniare”) : un effetto consolatorio intrinsecamente democratico, secondo il precetto: “colpirne uno per punirne cento”. Ed è un doppio risultato: perché, in tal modo, i puniti, illesi, invece di soffrire, godono, e cercheranno di risparmiarsi di essere colpiti anche loro. Alla fine della giornata mi addormento tranquillo.

Il caso di questi giorni, su cui sono stato tormentato, e costretto a reagire, per l’incompetenza, la vanità, e il vaniloquio di chi pensa insensatamente che lo Stato ignori o trascuri i suoi tesori artistici, è quello di un modestissimo dipinto che, in deposito da quasi un secolo alla Camera dei Deputati, è stato annunciato come un capolavoro ritrovato di Leonardo.

Con bufale come queste: “Dopo le analisi è stato riscontrato che il dipinto è del ‘500, proviene dalla collezione Torlonia, e con una radiografia ai raggi infrarossi è stato scoperto che alcune correzioni sono identiche alla Gioconda del Louvre”. Non l’apparizione e neppure l’ombra, ma l’incubo di Leonardo, come per chiunque ne abbia una copia.

In realtà una modesta tela esposta in un palazzo pubblico, nell’Ufficio di uno dei Questori di Montecitorio, è stata fatta passare, con la complicità di giornali e televisioni, come una seconda Gioconda di Leonardo, che, per inciso, ha fatto fatica (ci ha messo 5 anni) a dipingerne una.

L’eccitazione di menti ottenebrate ha evocato con grande suggestione magazzini, depositi, polvere, evitando l’unica parola pertinente: arredamento! E cioè quello che solitamente, prelevandolo dai depositi di un museo (in questo caso dalla Galleria Nazionale di Roma ), viene chiesto, a partire dalla Camera e dal Senato, e poi da ambasciate e prefetture, per arredare sale aperte al pubblico, come da anni è Montecitorio. Tutto quello che meritava di essere restituito ai musei lo è stato nei decenni scorsi attraverso una commissione che io ho guidato.

Il dipinto più notevole rimasto alla Camera dei deputati è un “Ratto d’Europa” di Giandomenico Ferretti, di troppo grandi dimensioni, che non è stato restituito ai musei fiorentini per la difficoltà di farlo uscire.

La copia di Leonardo, dipinta almeno 70 anni dopo la morte del pittore, non ha alcun valore artistico e indica soltanto la fortuna dell’opera, come le innumerevoli copie di grandi maestri. Tanto rumore per nulla. Ma bisogna farne altro, per perdere tempo: “Da quando è emersa la possibilità che la ‘Gioconda di Montecitorio’ possa essere la ‘sorella’ di quella conservata al Louvre di Parigi, anche l’amministrazione della Camera ha preso l’iniziativa, tanto che l’attuale questore Francesco D’Uva ha annunciato che presto sarà organizzato un grande convegno di studio proprio su questo dipinto”.

Per me, sarà un’altra occasione di “vanniare”. Come resistere?

Da blitzquotidiano.it il 27 aprile 2022.

Dan Brown l’ha azzeccata quando ha scritto che appartiene a una donna il volto di San Giovanni ritratto nella Ultima cena di Leonardo da Vinci. Il volto, sostiene Carla Glori, critica d’arte, è quello di Bianca Giovanna Sforza e è lo stesso della Gioconda. 

Il mistero della Gioconda di Leonardo da Vinci sarebbe stato definitivamente svelato dalla studiosa italiana e con quello altri interrogativi che hanno agitato per secolo critici e storici d’arte. Forse. 

La Gioconda sarebbe Bianca Giovanna Sforza, che ha fatto da modella a Leonardo anche per il volto del San Giovanni dell’Ultima Cena. E il ponte che Leonardo ha riprodotto nello sfondo della Gioconda, sarebbe il Ponte del Diavolo di Bobbio, in provincia di Piacenza, a pochi chilometri dal paese di Pierluigi Bersani, dal quale lo dividono non solo un po’ di strada ma anche il senso di superiorità dei bobbiesi, non solo per questioni di altitudine ma anche di intelletto.

Bianca Sforza morì il 23 novembre del 1496, a 14 anni di età: era stata sposata per pochi mesi con Gian Galeazzo Sanseverino, signore di Bobbio. Giocondo fu colui che indicò a San Colombano la location del possibile monastero che poi San Colombano fondò a Bobbio. Il suo nome sarebbe anche legato alle origini del castello che Ludovico il Moro donò agli sposi. 

Quando Leonardo iniziò la Gioconda, non era ancora sposata (la Gioconda è senza anelli) e le era morto da poco un fratello o fratellastro e questo, nella ricostruzione di Carla Glori, giustificherebbe il velo e l’abito neri e l’assenza di ogni monile.

Ci sono elementi attendibili e scientifici a sostegno delle tesi di Carla Glori sull’identità Bianca Giovanna Sforza – Gioconda – San Giovanni. Poi Dan Brown forse è andato per la tangente verso le ardimentose teorie di Gesù Cristo sposato alla Maddalena con prole a cascata. 

C’è poi un’altra scoperta fatta da Carla Glori, meno eccitante ma più intrigante: il ponte che fa da sfondo al ritratto della Gioconda. Sarebbe il Ponte del Diavolo di Bobbio (Pc) e questo sembra certo; il mistero però è perché, di tutti i ponti che Leonardo deve avere visto nella sua vita, proprio quello di Bobbio ha scelto. 

Ha riportato il sito Insideart che secondo Carla Glori il volto della Gioconda “sarebbe” altamente compatibile” con quello del San Giovanni dell’Ultima Cena, [secondo i suoi studi] sul celebre dipinto, di cui già aveva identificato la modella in Bianca Sforza, ritratta sullo sfondo di Bobbio. A conforto della sua tesi, Glori cita la testimonianza diAntonio de Beatis, datata 1517, in cui si spiega che i personaggi dell”Ultima cena’ “son de naturale retracti de piu’ persone de la corte e de Milanesi di quel tempo, di vera statura”.

Oltre al confronto “fatto al computer tra le proporzioni dei volti della Gioconda e del San Giovanni (raddrizzato per evidenziare la somiglianza dei lineamenti nei loro punti),  secondo l’agenzia di stampa Ansa, conforta la tesi di Carla Glori “l’intreccio biografico tra la storia personale della giovane Sforza e quella di Leonardo nel suo primo soggiorno milanese. Leonardo conosceva bene la giovane primogenita del Duca di Milano Ludovico il Moro, morta misteriosamente il 23 novembre 1496, poco dopo il matrimonio con Galeazzo Sanseverino.

“La morte di Bianca Giovanna avviene proprio mentre Leonardo sta lavorando all’Ultima Cena, nel periodo in cui, secondo la mia tesi, egli era ancora impegnato nel suo ritratto nuziale intitolato poi La Gioconda. “L’identificazione della Gioconda in Bianca – ovvero Giovanna detta Bianca – Sforza rafforza con un apporto storico biografico significativo l’ipotesi che la somiglianza tra il volto della Gioconda e quello dell’apostolo Giovanni non sia affatto casuale o comunque scientemente formale, bensì profondamente radicata nella storia della famiglia Sforza e della Chiesa di Santa Maria delle Grazie (prediletta dal Moro) nel periodo in cui Leonardo eseguì l’Ultima Cena. Bianca, mentre Leonardo dipingeva il Cenacolo, era da poco sepolta in Santa Maria delle Grazie”.

Qui però siamo tra studiosi e professori, non scrittori di thriller e quindi “convenire sul fatto che il volto di Giovanni sia femminile non sottende risvolti esoterici né tantomeno implicazioni religiose (come ad esempio avviene nel romanzo di Dan Brown), ma sottolinea esclusivamente la scelta operata da Leonardo di dare il volto della pura e virginale Giovanna Bianca all’apostolo Giovanni prediletto di Cristo e tramandato anch’egli con caratteri di purezza”.

La Gioconda sarebbe il ritratto nuziale della ragazza, poi sospeso per la morte della modella, portato via da Leonardo nella fuga da Milano nel 1499 per poi essere terminato in un momento successivo. Al ritratto, Leonardo avrebbe lavorato nello stesso periodo in cui tratteggiava ‘L’ultima cena’. Raffaele Castagno, sull’edizione di Parma di Repubblica.it, basandosi su un libro di Carla Glori (“Enigma Leonardo: la Gioconda, in memoria di Bianca”) ha paragonato la Gioconda di Leonardo a “una sorta di cartina geografica che permette di arrivare fino all’identità della misteriosa donna ritratta. Si perché il paesaggio altro non sarebbe che la valle di Bobbio, e il ponte il cosiddetto Ponte del Diavolo o Ponte Gobbo sul Trebbia” in quella che Ernest Hemingway definì la “valle più bella del mondo”.

Prosegue Raffaele Castagno: “Il mistero è nel Dna del ponte. Leggenda vuole che esso sia stato costruito dal demonio (da qui il nome): Satana lo realizzò in una sola notte, dopo avere stipulato un patto con San Colombano, che gli promise in cambio l’anima del primo viaggiatore che lo avrebbe percorso. Ma il santo si beffò del diavolo, facendo passare sopra un cagnolino”. 

San Colombano è un personaggio dominante nella storia della Chiesa cattolica. Irlandese di nascita, attraversò l’Europa da nord a sud, trascorse del tempo alla corte di re e regine franchi, istituì una regola monastica e il monastero di San Colombano a Bobbio, dove morì a 75 anni di età il 23 novembre 615, esattamente 1499 anni fa.

Il ponte della Gioconda, sostiene Carla Glori “è quello sul Trebbia e il paesaggio quello della campagna intorno a Bobbio”. Carla Glori, riporta Raffaele Castagno, “ritiene che la struttura arcuata del ponte nel dipinto corrisponda in tutto per tutto al Ponte del Diavolo. Nel quadro ci sarebbe anche una strada serpentina tuttora visibile a Bobbio. Ma Leonardo passò mai per queste contrade? Glori pensa di sì. La città era un importante centro culturale, famosa per la sua biblioteca, un’attrazione che avrebbe spinto Leonardo a visitare i luoghi, che poi, qualche anno dopo, magari in Francia, avrebbe messo su tela, rievocando ricordi e particolari dalla sua memoria”.

Non tutti sono d’accordo. Tra le voci critiche, “a più autorevole è quella di Martin Kemp, professore di Oxford (ora in pensione) e tra i massimi esperti di Leonardo: “Il ritratto è quasi certamente di Lisa del Giocondo, per quanto poco romantica e poco misteriosa l’idea possa essere. Ci sono stati molti tentativi di individuare il luogo specifico del paesaggio e la somiglianza con il ponte di Bobbio non mi sembra così vicina. Ho grandi riserve su tutti i tentativi di trovare significati nascosti nei lavori d’arte del Rinascimento”.

Qualche dubbio avanza anche il giornalista Massimo Polidoro, tra i massimi esperti nel campo del mistero. In sostanza Polidori fa notare come manchi qualsiasi elemento documentario sulla visita di Leonardo a Bobbio, che sarebbe dovuta avvenire prima del 1472 (anno della distruzione del ponte), fatto ritenuto improbabile (prima di quella data Leonardo era un ragazzo apprendista nella bottega del Verrocchio). Per quanto riguarda poi gli indizi disseminati nel quadro il giornalista ricorda che precedentemente la famose iniziali negli occhi della Gioconda erano state lette come C E o C B.”. 

Leonardo può essere passato da Bobbio nei suoi spostamenti fra Milano, Firenze, Roma. Oppure essercisi recato come ospite della stessa Bianca Sforza, la cui vita breve e la cui fine circondata dal mistero sono un punto appassionante del racconto di Carla Glori sul blog.

·        Leonardo Sciascia.

La piccola patria di Leonardo e dei suoi allievi. Il teatro fatto rinascere, contrada Noce e la scuola elementare dove insegnava. Alessandro Gnocchi il 30 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Racalmuto. Ogni passo un ricordo di Leonardo Sciascia, il maestro di Racalmuto, cittadina in provincia di Agrigento. C'è la sua statua, a grandezza naturale, sul marciapiede del corso dove passeggiava dopo essere stato al circolo. C'è il prestigioso teatro Regina Margherita, un gioiello tornato a splendere grazie al suo aiuto. Lo scrittore ne era un frequentatore, anche nell'epoca in cui la sala era diventata cinematografica. C'è una pagina della novella La zia d'America dove si raccontano le due ore del film trascorse a sputare «a ondate» dal loggione alla platea, con altri ragazzacci, pronti anche a sottolineare le scene d'amore con «quel rumore di succhiare lumache» a imitazione dei baci. Il teatro ebbe un momento di crisi, durante la quale il palco era occupato dalle galline. Si dice che Giuseppe Tornatore, nel capolavoro Nuovo Cinema Paradiso, abbia attinto in pari misura ai propri ricordi e a quelli di Sciascia. Fu comunque Sciascia a rimettere il Regina Margherita al centro dell'attenzione scegliendo il teatro per presentare un libro negli anni Ottanta.

Appena fuori Racalmuto, settemila abitanti, uno dei tanti paesi italiani in doloroso calo demografico, c'è la campagna di Sciascia, in contrada Noce. In cima a una collina ci sono tre edifici. Uno, antico e modesto, in cui fu scritto Il giorno della civetta. Uno, antico e utile, occupato dal forno. Uno, risalente agli anni Settanta, costruito per volontà di Sciascia. Non aveva avuto richieste particolari da rivolgere all'architetto. D'altronde, ovunque lo si giri, lo sguardo incontra campi e colline di struggente bellezza. Non è difficile innamorarsi di un luogo simile, soprattutto se ci nasci. Però Sciascia volle lo studio con le finestre affacciate in direzione del mare. Forse per godere al massimo della luce che proviene da quella parte: il cielo di Sicilia è speciale. Sul retro, c'è una terrazza da cui si domina la valle. Il marrone, in ogni sua sfumatura, il grigio e il verde riempiono gli occhi. La sabbia, la pietra, le vigne.

Sciascia scriveva dalle sette alle dieci e mezzo di mattina. Poi riceveva. A Racalmuto capitava di incontrare Marco Pannella o editori o artisti. Andavano a udienza da Sciascia. Sotto la proprietà dello scrittore, c'erano (e ci sono ancora) le case degli amici: il giornalista Aldo Scimè e Nico Patito, «contadino filosofo». Più giù ancora, l'unico edificio dove ci fosse il telefono. Alle 17 suonava, spesso era la redazione di un giornale a cui il maestro dettava l'articolo dopo aver preso accordi in mattinata.

Nella scuola di Racalmuto hanno ricostruito la classe delle elementari dove Sciascia insegnò negli anni Cinquanta. Oggi l'istituto è intitolato proprio allo scrittore. Gaspare Spalanca, allievo del maestro, ci accompagna nella visita e si siede nel banco che occupava all'epoca. Tutto è stato conservato. Lavagna, cattedra, libri. Ci sono i quaderni. I registri di classe compilati da Sciascia. Le pagelle dello Sciascia studente. Spalanca racconta al Giornale: «Era una persona riservata, mai severa, in anni dove la benevolenza del professore non era scontata. Era di una sensibilità rara e contagiosa». Come la dimostrava? «C'era tanta povertà a Racalmuto. Prima di iniziare la lezione chiedeva a tutti se avessero fatto colazione. Poi ordinava il caffè, latte e qualcosa da mangiare per chi a casa non aveva avuto nulla. Senza fare scene, come fosse normale, un dato di fatto a cui non si doveva dare peso. Ma ce l'aveva un peso, dopo lo abbiamo capito». Trattava tutti allo stesso modo? «Certamente. Era sempre attento a dare un regalino a ogni allievo, una caramella, un giocattolino, un complimento... Nessuno era dimenticato». Insegnava anche religione? «Sì. Io non so se sia vero che Sciascia era ateo. Forse conveniva dipingerlo così o si dava per scontato per via delle sue idee politiche. Ma io ricordo un insegnante rigoroso e capace di trasmettere il senso del sacro». Siete rimasti amici, dopo gli anni scolastici? «Quando era a Racalmuto si fermava volentieri a chiacchierare con me e con gli altri ex alunni». Come vi rivolgevate a Sciascia? «A scuola, lo chiamavamo professore. Dopo, io ho preso a chiamarlo maestro. Lo considero un maestro di vita, al di là dell'insegnamento. L'attenzione verso il prossimo andava di pari passo con un'estrema curiosità verso ogni aspetto della cultura e della società. Questa è la sua lezione, per me, per tutti, credo».

La tomba di Sciascia, nel cimitero di Racalmuto, è una sepoltura laica, semplice, pulita, una lastra bianca in mezzo a un piccolo prato. A volte la grandezza si intuisce dalla umiltà.

Passione civile. Così Leonardo Sciascia ha dato un senso alla vita sociale del nostro paese. Alfonso Amendola, Fabrizio Catalano, Ercole Giap Parini su L'Inkiesta il 24 Agosto 2022.

Lo scrittore siciliano scrive secondo schemi ben precisi: se si trattano le principali caratteristiche del proprio popolo necessariamente si analizzano anche i moti di una società più in generale. Tramite l'esegesi delle sue opere, “Il tenace concetto” (Rogas editore) ripercorre tutti i pensieri formulati dall'autore e le sue opinioni i sulla nostra nazione 

Ci sono scrittori per i quali la letteratura è sorta di gioco di sponda con la vita, dove questa vi è rappresentata attraverso l’onirico e il simbolico, e dove l’immaginazione lascia soltanto trasparire barlumi di realtà e per di più chiamando in causa il lettore, che ha davanti una intera tavolozza per ricreare quelle immagini appena tratteggiate.

Dall’altra parte vi sono quelli che nelle lettere impongono un cambiamento di ritmo nella lettura di una realtà documentata o documentabile.

Poi vi è Sciascia, che sembra unire questi due mondi, tenendo insieme, le sue lettere, l’attenzione informata alla cronaca e alla storia con quella possibilità di renderle simboli, di astrarle dalla contingenza con la forza dell’onirico.

Abbiamo visto come Sciascia tenesse in grande considerazione Borges, rappresentandolo come sorta di paradigma degli scrittori del primo tipo poc’anzi evocati. Uno scrittore che attraverso i labirinti evocava l’impossibilità di comprendere il mondo, lo spiazzamento umano di fronte al mistero dell’esistente.

Arrivò a definirlo – summa delle contraddizioni di quel secolo – teologo ateo perché «ha fatto diventare il ‘discorso su Dio’ un ‘discorso sulla letteratura’. Non Dio ha creato il mondo, ma sono i libri che lo creano. E la creazione è in atto: in magma, in caos». E Sciascia riconosceva la differenza con questo scrittore così amato e studiato. Sciascia, così attento alla storia e alla cronaca del suo tempo, e che in questa si immergeva con la passione civile che ho messo in evidenza, vedeva Borges sfuggire alla storia nei suoi labirintici giochi di specchi:

I nomi che facevo posso ora, in una migliore e più assidua conoscenza dello scrittore, considerarli più approssimativi che approssimati: possono avvicinarsi a Borges e avvicinarcelo, ma non intrinsecamente. L’errore era però un altro: l’avere usato la parola storia invece che la parola tempo. Poiché non dalla storia è ossessionato Borges, ma dal tempo. Per lui la storia non è che l’assurdo corollario di quella più vasta e spaventosa assurdità che è il tempo. E arriva al punto da desiderare che si sperda o si consumi, il tempo, almeno sul suo nome, sul suo ricordo, sulle sue pagine: una volta scontatolo nella vita, con la vita.

Sono come speculari, questi due autori. Da un lato lo scrittore Borges, che trova i labirinti della vita nell’onirico, dall’altro un autore che li trova nella cronaca, dove il sogno è, semmai, approdo confondente di storie fondate nella realtà contingente o storica. Sorta di giocatore di biliardo, Borges, con la vita e con il mondo, sempre attento alle sponde dell’onirico; poi c’è Sciascia che nella vita si immerge, quasi fosse uno sport di lotta, di contatto, un corpo a corpo, dal quale sapeva di uscire comunque sconfitto ma anche che quella lotta, quella resistenza della ragione, era l’unica vittoria dell’umano che l’umano avesse a disposizione. Così la sua tormentata relazione con la politica, dalla simpatia per il Partito Comunista fino alla rottura con questo, che percepisce essere troppo attento alle alleanze, mettendo in ombra i contenuti emancipativi del suo ruolo politico; cosa che si acuisce durante il periodo della solidarietà nazionale e del miglioramento dei rapporti tra quel partito e la Democrazia Cristiana. E poi l’approdo al Partito Radicale e le sue battaglie parlamentari orientate nel senso di una laicità militante e attenta ai diritti delle persone umane (come le avrebbe chiamate lui); le controversie, anche ruvide, contro l’antimafia e quelli che considerava i suoi professionisti, che gli valse mille polemiche, fraintendimenti e necessità di chiarire.

Per Sciascia la letteratura è parte della vita vissuta e sale all’onirico, al simbolico quasi sgravandosene come esito di un percorso di un attraversamento al termine del quale troviamo un tenace concetto che consiste nell’umanità.

Per altri scrittori le lettere sono sì parte della contingenza e della vita; il flusso delle loro parole si dipana nella cronaca ed è pure animato da simile passione civile. Ma quelle parole hanno una immediata spendibilità che si deprezza nel momento in cui il contingente si trasforma, e quella semantica, così incapace ‒ a differenza di quella di Sciascia ‒ di levarvisi, evapora con il passare del tempo.

Impegnarsi nella ricostruzione della vicenda di Moro significa quindi per Sciascia affondare la penna dello scrittore nella carne viva della sua epoca, dopo averla intinta nell’inchiostro della passione civile alla ricerca di una reazione rispetto all’assopimento collettivo di fronte alle ragioni del potere.

Parimenti fa Sciascia quando affronta la questione della mafia, entrando nella carne viva di un contesto di trame oscure che lega la Sicilia all’Italia; e con la stessa passione cerca di districare la matassa del caso Majorana che, pur partendo dalla sua Isola, tende un filo immaginifico che arriva alle bombe di Hiroshima e Nagasaki.

Per di più, le circostanze, assolutamente contingenti, duramente e drammaticamente reali, si aprono a un’indagine meticolosamente documentaria ma supremamente letteraria, con quel suo chiamare a raccolta la letteratura per districare le trame più complesse, nel convincimento, che è anche un obiettivo, di giungere a «una ‘verità romanzesca’ più vera di quella ufficiale» (Di Grado 2014: 35)[1]. Come forma di sincerità verso quel carattere utopico di imprese di questo tipo. José Ortega y Gasset, il grande filosofo spagnolo che aveva sviluppato la propria filosofia proprio a partire dalla lettura del romanzo che dei romanzi è considerato l’archetipo, il Don Chisciotte[2], considerava l’utopia come il darsi un obiettivo che non può essere perseguito. Nel nostro caso, dipanare tutti quei garbugli del reale con le lettere. Ma così facendo si aprono nuove e impreviste possibilità creative che permettono proprio quel­l’elevazione di cui scrivevo prima, che permette di concepire l’umano e la sua vita relazionale come summa di tutte quelle esperienze.

Tzvetan Todorov mette in evidenza un rapporto stretto, sorta di parentela, tra la letteratura e le scienze umane e la filosofia, in quanto tutte mosse dalla curiosità sulla società. E scrive: «Come la filosofia e le scienze umane, la letteratura è pensiero e conoscenza del mondo psichico e sociale in cui viviamo. La realtà che la letteratura vuole conoscere è semplicemente (…) l’esperienza umana» (Todorov 2008: 66). Senza disconoscerne le differenze, dato che «l’una [la letteratura, n.d.a.] preserva la ricchezza e la diversità del vissuto, l’altra favorisce l’astrazione, che le consente di formulare leggi generali» (Todorov 2008: 66-67). Così simili e così dissimili, quindi, la letteratura e le altre scienze; la diversità sta proprio in quella capacità letteraria di preservare ricchezza e varietà del vissuto.

Questa contiguità dello sguardo gettato sullo stesso oggetto, a partire da differenti prospettive, era già stata messa in evidenza da Robert Nisbet: «Che uomini come Weber, Durkheim e Simmel siano parte nella tradizione della scienza è fuor di dubbio. I loro lavori, nonostante la profonda sensibilità e intuizione artistica, non appartengono alla storia dell’arte più di quanto i lavori di Balzac e Dickens non appartengano alla storia della scienza sociale».

Ma mentre Sciascia riflette sulla letteratura sembra fare intravvedere qualcosa di più. La letteratura non solo come rispecchiamento, ma come fare e farsi della storia. Lo fa, per esempio, in alcune pagine del suo Nero su nero: «Forse è un sistema di oggetti eterni che variamente, alternativamente, imprevedibilmente splendono si eclissano tornano a splendere e ad eclissarsi – e così via – alla luce della verità». Sta forse qui, in questa definizione, che mette in gioco la capacità di splendere e il destino di eclissarsi, la ragione sociale della letteratura, il suo essere intrecciata con quanto accade di volta in volta. E la sua capacità di dare risposte, anche nella forma di domanda, senza la possibilità di giungere a una definitezza. E proprio Nero su nero è un libro dedicato alla verità, all’ansia di intravvederla insieme alla difficoltà di contenerla, di raggiungerla.

Un ruolo, quello della letteratura, quindi, di leggere nella venatura della cronaca il farsi dei vasi che irrorano la vita; vedere, a partire da una dotazione particolare, tipica dello scrittore, quello che altri non vedono, insieme, però, alla possibilità di fissare degli schemi che permettono di dare un senso ai fatti, di darvi ordine forse anche facendoli accadere: «Le sintesi non potevano apparire che anticipazioni, che profezie; se non addirittura istigazioni». I fatti, insomma, accadono se sono narrati, se hanno una loro possibilità di interpretazione. In questo doppio movimento è visibile l’orientamento alla verità della letteratura: nel mentre fa radiografie, utilizzando elementi che non sono necessariamente quelli piegati al realismo o alla verosimiglianza, lascia schemi capaci di dare ordine alle cose. E in qualche modo diventa essa stessa tenace concetto, impadronendosi della storia. 

“Il tenace concetto. Leonardo Sciascia: la letteratura, la conoscenza, l’impegno civile”, di Fabrizio Catalano, Alfonso Amendola, Ercole Giap Parini, Rogas editore, pagine 120, euro 11

La bellezza e la politica. Le ultime conversazioni di Leonardo Sciascia. Leonardo Sciascia su L'Inkiesta il 3 Gennaio 2022. L'Espresso il 4 Gennaio 2022. Sono i colloqui con Domenico Porzio, raccolti e pubblicati da Adelphi. Uno sguardo sulle passioni del grande scrittore, dalla storia della Sicilia a considerazioni su collezionismo, autori e servizio pubblico di archivio Lapresse, particolare.  

Nel “Cavaliere e la morte” dici una cosa che mi è piaciuta molto: che il tuo alter ego, il Vice, leggendo “L’isola del tesoro” di Stevenson, conosce una delle sue forme di suprema felicità.

È un’idea che ho preso da Borges.

È così anche per lui?

Anche per lui e anche per me.

Per Borges, in effetti, la felicità sta nell’infanzia, nell’avventura. Penso che Borges abbia letto Stevenson in una di quelle edizioni illustrate ancora in uso ai suoi tempi. Forse non sarà la felicità suprema come lui sosteneva, perché non credo che qualcuno possa possedere la felicità nella sua totalità, però le si avvicina.

Sono delle forme di approssimazione. Forme di approssimazione alla felicità. Per me la felicità è in gran parte legata ai libri. I libri letti, i libri da rileggere, i libri che rileggo, i libri che scopro e anche le stampe, la scoperta di una certa acquaforte…

Allora anche il collezionismo.

Sì. Il collezionismo è una cosa che mi aiuta a vivere. Non direi che sia proprio la felicità, ma aiuta.

In che senso aiuta a vivere?

Ti crea una aspettativa, perché speri sempre di trovare qualcosa, qualcosa da aggiungere.

E il collezionismo è di tutte le età.

Sì, credo che come istinto esista in tutti. 

Ci sono anche luoghi, per te, che sono forme di felicità. Racalmuto.

Sì, ma anche altri. Parigi è una forma di felicità. La amo per la sovrapposizione della città letteraria alla città reale.

E non ti disturba il contrasto?

Le cose sono secondo letteratura, insomma. Ma anche altre città che non risvegliano riferimenti letterari speciali come Barcellona, Siviglia, Salamanca si avvicinano all’idea di felicità, quando ci vai o ci torni.

Parli solo di città europee.

Non ne conosco altre.

Non hai mai viaggiato nelle Americhe, in Africa?

No, mai.

Quindi i tuoi amori di viaggiatore sono Parigi e la Spagna. Anch’io mi sento molto legato alla Spagna. C’è un legame che nasce anche dalla letteratura, dalle affinità di lingua.

Be’, per un siciliano più che letteratura è storia. I nomi dei nostri viceré sono nomi di paesi della Spagna: Toledo, Ossuna…

Eppure la memoria storica della presenza spagnola in Sicilia non è delle più esaltanti.

No, no. La Spagna in Sicilia è terribile. Coincide con l’Inquisizione, piena di atrocità.

Però mi dicevi che era anche governata secondo un ammirevole concetto di giustizia.

Sì, secondo una certa idea della giustizia. In effetti quando occorreva dare un esempio eclatante, che impressionasse la fantasia popolare, i viceré lo davano. Come Giron, il nipote del viceré de Ossuna, che fu decapitato. Ma per il resto era un mondo di ingiustizie, di privilegi.

La Sicilia interessava alla Spagna per ragioni strategiche mediterranee? O forse come granaio, come semplice terra di sfruttamento?

Sì, come terra di sfruttamento. La Sicilia è stata disboscata per costruire l’«Invincibile Armata», in gran parte nei cantieri siciliani di Messina.

Ma in Spagna non avevano legname a sufficienza?

L’avranno anche avuto, ma era più comodo disboscare la Sicilia.

In Sicilia gli spagnoli hanno lasciato un’impronta letteraria, artistica come l’hanno lasciata gli arabi?

No. C’era molta gente bilingue, ma letterariamente parlando, niente.

Nemmeno nelle relazioni storiche, descrittive?

C’è qualcosa in Quevedo, in Góngora, una certa memoria della Sicilia, e in Cervantes, nelle Novelle esemplari. C’è un racconto che ha per protagonista un ragazzo di Trapani. Cervantes è stato a lungo a Messina e a Palermo, per la preparazione della battaglia di Lepanto; la flotta mosse verso Lepanto da Messina. Cervantes entrò poi in amicizia con un poeta siciliano, Antonio Veneziano; si erano conosciuti in prigionia. Cervantes gli dedicò una poesia.

Ancora sulle forme di felicità: fa effetto notare quanto cambino a seconda dei temperamenti umani. Pensa alla felicità dell’intrigo, coltivata dagli uomini politici. Sembra che ci sia un vero e proprio gusto dell’intrigo, anche per statisti come Mazzarino.

Per i mediocri sì, c’è questo gusto.

Per i mediocri? Ma io ho fatto il nome di Mazzarino; allora lo consideri un mediocre?

Non so quanta soddisfazione traesse Mazzarino dal suo potere, comunque io sto con Guicciardini, l’animale politico più intelligente a mia conoscenza. Guicciardini dice che tante cose, una volta raggiunte, dovrebbero dare una grande soddisfazione e invece non la danno affatto.

Ciò vuol dire che la politica non dovrebbe essere una delle forme della felicità. Eppure…

Dovrebbe essere un servizio.

Dovrebbe essere lasciata a gente che ha un grande amore per il prossimo.

Savinio diceva che la politica espelle l’uomo intelligente come un corpo estraneo. Credo che avesse ragione.

da “Fuoco all’anima. Conversazioni con Domenico Porzio”, di Leonardo Sciascia (a cura di Michele Porzio), Adelphi, 2021, pagine 169, euro 13

 Il carteggio. Leonardo Sciascia e Enzo Tortora, storia di un’amicizia contro il giustizialismo. Lucio D'Alessandro su Il Riformista il 30 Dicembre 2021. “Sciascia, un maestro oltre la letteratura”. Questo è il titolo con cui Roberto Andò ha scelto di ricordare nei giorni scorsi all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli l’amico Leonardo Sciascia in occasione delle celebrazioni per il centenario della sua nascita. L’intendimento è stato chiaro da subito: guardare allo scrittore puntando all’intellettuale nel senso che lo stesso Sciascia volle dare al termine già in un articolo uscito su La Stampa il 25 novembre 1977: «L’intellettuale è uno che esercita nella società civile […] la funzione di capire i fatti, di interpretarli, di coglierne le implicazioni anche remote e di scorgerne le conseguenze sociali».

Tra i molti fatti a cui lo scrittore diede spazio e interpretazione mi piace ricordare (anche per la rimbombante attualità del tema tutto italiano della calpestatissima presunzione costituzionale di innocenza in rapporto al comportamento dei media) quello che coinvolse Enzo Tortora. Quando il 17 giugno 1983 Tortora viene arrestato (sarà poi condannato in primo grado senza prove) come spacciatore e sodale di Cutolo con quello che fu definito da Giorgio Bocca «il più grande esempio di macelleria giudiziaria all’ingrosso del nostro Paese», Sciascia pubblica a poche settimane di distanza (7 agosto 1983) un articolo sul Corriere della sera su quel caso eclatante di alterazione della verità. Lo scrittore prende subito posizione in termini difensivi, senza tentennamenti: «E se Tortora fosse innocente? Sono certo che lo è». Già chiuso in un «tunnel assurdo, demenziale, basato sul niente», Tortora commosso gli indirizzerà un telegramma, ringraziandolo per aver visto con «occhi profetici la tremenda realtà che lo imprigiona».

Da quel momento i rapporti tra i due si consolidano e Tortora affida allo scrittore i suoi tormenti di detenuto. Le sue riflessioni, registrate con precisione nelle lettere a lui indirizzate dove la descrizione puntuale dei fatti e dei movimenti a Regina Coeli prima, poi agli arresti domiciliari nell’appartamento di via Piatti 8 a Milano, fa da sfondo a una lucida, disincantata e amara constatazione dell’uso alterato della legge in un Paese che non solo ha perso il senso della Giustizia ma ha distrutto con la vita di un uomo la sua stessa civiltà. Per Sciascia sono quegli gli anni di composizione di Porte aperte (1987), in cui affronta proprio il tema della giustizia e della libertà sopraffatte da un giustizialismo che rende la pressione dell’opinione pubblica più efficace dell’azione di un giudice onesto. Protagonista ne è un giudice limpido servitore della giustizia, in questo caso, a mettere a repentaglio la sua carriera, pur di difendere, seppur invano, l’imputato dalla pena capitale. Il suo punto di vista è che opporsi alla pena di morte – invocata a gran voce, dalle autorità così come da una città che ha aperto le porte della follia ­ «è un principio di tal forza che si può essere certi di essere nel giusto anche se si resta soli a sostenerlo». «L’ho visto come il punto d’onore della mia vita, dell’onore di vivere» dichiarerà con fermezza il “piccolo giudice”. Si tratta di difendere la propria visione dei fatti nella convinzione di perseguire la giustizia, anche quando si è soli contro l’opinione più diffusa.

Frattanto Tortora era stato assolto dalla Corte d’appello di Napoli nel 1986, proprio in quella città che era stata palcoscenico e punto di inizio dell’irrisolta scomparsa di Majorana a cui Sciascia dieci anni prima aveva voluto offrire una possibile, sebbene artificiosa, soluzione. La relazione intrecciata con solidità e rafforzata dalla comune militanza nel partito radicale non durerà che qualche anno stroncata dalla morte prematura di entrambi (Tortora nel 1988, l’anno seguente lo scrittore). Ne resta però traccia nelle disposizioni testamentarie di Tortora che volle che le sue ceneri fossero riposte accanto a una copia della Storia della colonna infame nell’edizione con prefazione per l’appunto di Leonardo Sciascia, pubblicata nel 1981 dalla casa editrice Sellerio.

Se la Storia manzoniana ha un senso nella nostra storia attuale, nelle parole di Sciascia, questo risiede proprio nel suo continuo ammonimento rivolto alle generazioni future. La responsabilità personale per i gesti di ciascuno non può mai essere obliterata dal comodo riparo delle circostanze, dall’oscuro rifugio dei contesti. Ciascuno di noi è chiamato in ogni momento a rispondere di fronte al più severo dei tribunali, quello della propria coscienza. E la coscienza va oltre la Storia. Certamente in questa battaglia di responsabilità Sciascia e Tortora s’incontrano, così come pure condividono un medesimo disincanto rispetto a una realtà che appare ostile al vero e al giusto. Un disincanto segnato dall’epitaffio scritto da Sciascia per l’amico che recita quasi a memento o forse ad augurio per le battaglie di giustizia «che non sia un’illusione». Lucio D'Alessandro

·        Leopoldo (Leo) Longanesi.

Longanesi il borghese, un genio dell’aforisma disgustato dall’Italia. Maria Luisa Agnese su Il Corriere della Sera il 19 settembre 2022.

La sua ironia colpiva un Paese che «alla manutenzione preferisce l’inaugurazione» e dove «funziona solo il disordine»

«Soltanto sotto una dittatura riesco a credere nella democrazia». «Se c’è una cosa che in Italia funziona è il disordine». «Tutte le rivoluzioni cominciano per strada e finiscono a tavola». «Libertà di opinioni in un Paese senza opinioni». «La mediocrità ha un solo vantaggio, quello di credere a sé stessa». «Tutto quello che non so l’ho imparato a scuola». E via continuando, in cui un crescendo di frasi/dettaglio che illuminano la realtà. Leo Longanesi resta come esempio della multiforme genialità italica per le molte qualità - pittore, editore fondatore della Longanesi, giornalista, scrittore, pubblicitario, grafico - ma soprattutto per la capacità di sintesi fulminea, altro che tweet! Nei suoi aforismi raccoglieva nel particolare breve e folgorante più lunghe meditazioni su vita e storia. «Dell’Italia ufficiale egli, con l’ingrandimento di un particolare dava immediatamente una figurazione storica. Gli accadeva quasi inavvertitamente, come se non se ne rendesse conto» ha scritto su La Stampa Arrigo Benedetti, uno dei tanti talenti giornalistici individuati da Longanesi, nel necrologio alla sua morte il 27 settembre 1957.

Di quell’Italia che «alla manutenzione preferisce l’inaugurazione» fu sempre critico implacabile. Nato in «una famiglia per metà rossa e per metà nera, sentimentale e rissosa, laboriosa e ambiziosa, scettica e religiosa; una delle tante famiglie romagnole che, in 80 anni, riuscirono ad acquistare una casa, a conquistarsi un gradino», era un uomo «inquieto uscito da una famiglia quietissima» e benestante, e il giovane Leo viene coltivato come un fiore nelle sue passioni culturali, studia nelle migliori scuole bolognesi, frequenta scrittori e poeti invitati nel salotto casalingo. «Si è portato dentro più che dietro l’800 ed è un 800 dove le maniere, la forma, la composta educazione di un secolo si riversa su di lui attraverso un sentimento che è quello di gratitudine» ha detto Pietrangelo Buttafuoco parlando dell’antologia che ha dedicato a Longanesi, nel 2016, Il Mio Leo Longanesi. «E quando dico che sono cresciuto a pane e Longanesi voglio dire che quell’educazione me la sono ritrovata in casa quando bambino avevo vicino a me come feticci le collezioni di giornali che portavano il marchio di Longanesi. Lui è stato», concludeva Buttafuoco, «l’Artefice della nostra contemporaneità, e magari suo malgrado, perché la parola che lo terrorizzava di più era progresso». 

Di sicuro ha infuso un’accelerazione incredibile proprio all’editoria, e nei suoi giornali, dall’Italiano a Omnibus al Borghese, è nato un vivaio di giornalisti alfa, che daranno origine a filoni opposti, quello che da Benedetti confluirà in Repubblica e quello che da Montanelli darà vita a tante testate liberali di destra. Paradosso ma non tanto per un frondista d’animo, che negli anni fascisti teorizzò «starci dentro per migliorarlo»: adesione sul filo dell’ironia, ma anche esercizio di duplicità per i suoi critici. Nel dopoguerra la sua ironia si rivolse alla borghesia, criticata, come ha scritto Marcello Sorgi, «per la sua inconsistenza di fronte ai compiti che l’aspettano». Leggere Longanesi è tuttora fare un viaggio avventuroso nella mente di un fanatico del pensiero eccentrico.

·        Luciano Bianciardi. 

Dagospia il 16 maggio 2022. La prefazione di Pino Corrias al libro di Luciano Bianciardi “Non leggete i libri, fateveli raccontare” pubblicata da Tuttolibri – la Stampa.

È un Bianciardi in purezza quello che sgocciola dalle righe di questo manuale dedicato ai giovani, purché «particolarmente privi di talento», che vogliano intraprendere la bella carriera dell'intellettuale. 

Suggerendo loro i vestiti e i gesti adeguati. Le strategie sulla conversazione in casa editrice o nei salotti, «tra un whisky e l'altro». Meglio se con la pipa per fare fumo e nascondercisi dentro. Svelti nel dire e nel disdire. Capaci di stare sul vago in politica. Di non leggere libri, ne escono troppi, ma di farseli raccontare.

Di mostrarsi tolleranti sui costumi sessuali altrui, ma severi se il discorso «cade sul prossimo più immediato». Di marcare i colleghi a uomo o a zona, come nel calcio. Di presentarsi sempre fresco, riposato, scattante, sapendo che l'intellettuale di successo non va in ufficio, ci passa. Non ha la segretaria, ma usa quella degli altri. Non evita il padrone, lo cerca. Discute. Ammette di preferire «in prospettiva» l'operaio carico di valori, al ceto medio miope e grigio, sorvolando sul dettaglio che l'operaio, magari siderurgico, non vede l'ora di diventare ceto medio. 

Il manuale è uno spasso. Esce in sei puntate su Abc, settimanale di attualità eccentrico, fondato da Enrico Mattei, il patron dell'Eni e del Giorno, il quotidiano che fiancheggerà il centrosinistra. Il rotocalco è da battaglia radical-socialista. Ingaggia scrittori di grido. Pubblica inchieste sociali, cavalca scandali politici, si batte per il divorzio, predica la rivoluzione dei costumi, compresa quella di toglierli alle soubrette fotografate al mare nel paginone centrale.

Siamo nell'anno 1966. E Luciano Bianciardi ha già macinato gran parte della sua parabola. Viene da Grosseto, viene dalle Maremme agricole. È cresciuto divorando libri. È anarchico. È ironico. Ma è anche affetto da disincanto e da umor nero. Ha fatto la guerra risalendo la penisola con gli inglesi, e ha fatto il professore di filosofia. 

Per fame di ossigeno, nell'anno 1954, si è lasciato alle spalle la provincia grande dei minatori e dei braccianti e quella piccolissima degli eruditi di paese e dei bottegai per trasferirsi nella grande Milano delle banche, delle mille aziende metalmeccaniche e della nascente industria culturale che vuol dire giornali, case editrici, agenzie pubblicitarie.

Vuol dire il Piccolo Teatro di Giorgio Strehler e il cinema di Ermanno Olmi, il Design, gli Uffici studi per il marketing e le relazioni umane. Lui arriva assunto da Giangiacomo Feltrinelli per «la grossa iniziativa», la nascente casa editrice, fiore della sinistra non ortodossa. Ma la sua camminata lenta e la sua risata larga sono ingranaggi fuori misura. Detesta gli orari e i conformismi del quieto vivere. 

Si licenzia. Per scalare il fine mese diventa traduttore a cottimo, 120 libri tradotti in 18 anni, battuti a macchina di notte con la sua donna, Maria Jatosti, compagna dello scandalo, visto che Luciano si è lasciato per sempre alle spalle una moglie e due figli a Grosseto.

La loro Bohème inizia nella camera ammobiliata in Brera, dentro la «cittadella dei pittori», inseguiti dalle cambiali che scadono, dai soldi che non bastano mai, meno male che sotto casa non chiude fino all'alba il Bar Giamaica per il rifornimento di grappa gialla. 

Gli anni di stenti e rabbia diventano La vita agra che esce nel 1962, romanzo in prima persona singolare, storia della «solenne incazzatura » contro «la diseducazione sentimentale al tempo del Miracolo Economico», scritta «in lingua dotta popolare e carognona».

Invettiva contro Milano e la frenesia calvinista dei milanesi per i soldi «che ti corrono dietro e poi ti scappano davanti». Montanelli lo recensisce entusiasta sul Corriere della Sera, dirà «mai letto un libro così divertente». Il libro vola. Il primo a stupirsene è Bianciardi: «Invece di mandarmi via da Milano a calci nel culo, come meritavo, mi invitano a casa loro». L'aggettivo «agro» diventa di moda, «lo usano persino gli architetti». Scrive: «Finirà che mi daranno uno stipendio solo per fare l'arrabbiato». 

Lui quello stipendio non lo vuole, gli sembra un cedimento, un altro passo verso la definitiva integrazione piccolo-borghese in una Italia che gli piace sempre meno. Intuisce, molto prima di Pasolini, anche se più confusamente, i veleni del consumismo, il vuoto della omologazione, la solitudine dell'uomo dentro al rumore della folla.

E mentre tutti cantano le lodi del supermercato e dei grattacieli, dell'utilitaria e delle creme solari, lui scrive da guastafeste.

Il successo lo spiazza e gli fa paura: «Per me è solo il participio passato di succedere». 

Non gli piacciono le amicizie di convenienza, le piccole mafie dei premi, le virgole dei letterati da convegno, le cordate. Rifiuta un ingaggio al Corriere della Sera che gli ha offerto Montanelli. Sceglie di collaborare al Giorno, a Abc, ai settimanali sportivi. Bazzica i notturni milanesi, Jannacci, il Santa Tecla, il Derby Club. Frequenta pittori matti, fotografi squattrinati. È amico di Giancarlo Fusco e di Giovanni Arpino, gli piace Lucio Mastronardi, un altro solitario di provincia che finirà suicida. Nell'Italia bigotta scrive di rivoluzione sessuale. Elogia l'ozio. Traduce i due «Tropici» di Henry Miller, che fanno strillare la censura, e invaghire la sua fantasia fino a immaginarsi l'alter ego dello scrittore americano.

Ma quando inizia davvero la rivoluzione dei costumi, decide, sventatamente, di voltare le spalle all'esilio milanese per infilarsi in quello di Rapallo. Dove prova a smaltire la bronchite cronica e le venti Nazionali senza filtro al giorno. La solitudine si volta in malinconia. Idealizza le Maremme «che sono il posto più bello e più pulito del mondo». Ma intanto si perde nelle piogge di entroterra e nei Campari coi pensionati. 

Il mondo sta cambiando e lui non se ne accorge più. Scrive di Risorgimento e dell'esilio di Garibaldi, l'eroe della sua infanzia, per non parlarci del suo. Questo Manuale in sei stanze e in sei risate è uno degli ultimi pezzi di bravura, declinati in un presente che ancora ci riguarda. Stesso sguardo sperimentato ne Il lavoro culturale e nell'Integrazione che con La vita agra formano la sua trilogia della rabbia disarmata. Proverà a salvarsi tornando a Milano. Ma è troppo tardi. Nell'anno 1971, seduto al fondo di un bicchiere, perderà per sempre la testa. E poi la vita.

·        Luchino Visconti.

Alessandro Gnocchi per “il Giornale” il 13 novembre 2022.

Il sodalizio tra Giovanni Testori (1923-1993) e Luchino Visconti (1906-1976) è stato tutto sommato breve ma ha portato a grandi risultati artistici. Si parte con l'Arialda, opera teatrale adattata dall'omonimo racconto di Testori per la regia di Visconti, nel cast Rina Morelli e Paolo Stoppa. È il 1960. Lo scandalo è immediato, alcune scene sono censurate preventivamente. 

Giorgio Bassani e Pier Paolo Pasolini, tra gli altri, si schierano in favore di Testori. Infine la commedia va in scena a Roma, al teatro Eliseo, per poi approdare a Milano, dove viene chiusa per ordine del prefetto dopo una sola recita nel febbraio 1961. Seguiranno altre due collaborazioni. 

Nel 1960 Visconti gira il film Rocco e i suoi fratelli con Alain Delon. Il lavoro è ispirato ai racconti del Ponte della Ghisolfa (Feltrinelli) di Testori. Lo scrittore non vede adeguatamente riconosciuto il suo contributo alla pellicola. La monaca di Monza va in scena nel 1967 e Testori non farà mistero di detestare l'allestimento di Visconti. Nel 1972 Testori scrive un ritratto di Luchino Visconti. Non è certo un panegirico, come vedremo, nonostante il costante tono elogiativo.

Il libro resta inedito fino a oggi: Giovanni Testori, Luchino (a cura di Giovanni Agosti, Feltrinelli, pagg. 416, euro 25). Si conoscono due dattiloscritti di Luchino. Il primo, in fotocopie, porta delle correzioni a pennarello rosso forse ascrivibili a Luchino Visconti. Il secondo è coperto di ripensamenti, per fortuna ben leggibili, dell'autore. Luchino è piuttosto breve, una novantina di pagine «sommerse» dagli apparati preziosi del curatore: introduzione, corpose note e saggio finale su Visconti. 

Ricco anche l'apparato fotografico, che «invade» le pagine di Testori. Insomma, Luchino gode di un'edizione esaustiva, dai criteri editoriali che, inutile nasconderlo, non metteranno tutti d'accordo. Gli apparati sono una miniera, quasi un libro (o anche due) a parte, con singole note più lunghe di un articolo scientifico, sul modello di Roberto Longhi. Un lavoro bello, utile e intelligente. Si corre però il rischio di far scivolare il racconto di Testori sullo sfondo.

Veniamo a Luchino. Poco alla volta, pagina dopo pagina, il ritratto affettuoso di un genio della regia teatrale e cinematografica, l'omaggio di un milanese a un milanese, si trasforma in una disperata approssimazione alla morte. Ogni luce di Luchino cerca di cancellare un'oscurità inquietante. 

 Le brume del lago di Como, sulle quali si apre il libro, si trasformano in una nebbia densa, che potrebbe salire dalle acque per sommergere il mondo. Cosa nasconde questa coltre minacciosa e misteriosa? I fantasmi. In particolare, il fantasma della madre, morta nel 1939, l'attimo in cui Luchino prende definitiva coscienza del suo destino: riempire il vuoto con il pieno, scambiare l'inanità del dolersi con la creazione di un mondo. Ecco perché Luchino non smette mai di lavorare, portando avanti in contemporanea progetti diversi. 

Qui entra in gioco Testori, che si chiede se questo «fanatismo lombardo, milanese e navigliesco della fatica e della costruzione a tutti i costi» non nasconda una volontà di «fuga dal proprio destino» e una forte «attrazione verso la morte». 

Visconti è in equilibrio tra mondanità e solitudine. Nelle sue meravigliose case, si svolgono interminabili giochi, quelli della Torre e della Verità. Chi buttereste giù tra Visconti e Testori? Quali difetti hanno, ora che non ci possono sentire, chiusi in un'altra stanza? Sono divertimenti crudeli ma Visconti è un solitario, anche e soprattutto quando si circonda di amici, amanti, giovani attori e marchette. 

La passione per i cavalli ha qualcosa a che fare con l'erotismo a un livello irrazionale ma commercia anche con la morte: «Insomma, la corsa come impeto, come empito e coscienza d'altri liti e, chissà, come avvampante eco della chiamata e della tentazione d'annullarsi».

Visconti è un raffinato esteta della macchina da presa. Il luogo comune vuole che sia eccessivo nel rapporto con gli attori e nella certosina accuratezza degli allestimenti. Ancora una volta, Testori cambia genialmente le carte in tavola: questo violento bisogno di «pieno» non sta «dalla parte della sicurezza, bensì da quella dell'abisso». Concetto ribadito più d'una volta: «Provate a ripercorrere i film di Visconti e vedrete che, dopo i loro eccessi, i loro unisoni e i loro clangori, quasi sempre s' aprono le crepe del vuoto; e, appunto, dell'abisso (e delle connesse vanità, oltre che dei connessi dolori)». Il gusto per l'eccesso caratterizza anche le famose abitazioni di Visconti, piene di oggetti scelti con gusto a volte bizzarro ma infallibile. 

 Eppure «a furia di essere piena e stipata, strapiena e strastipata, la casa di Luchino sembra vuota». Visconti si assume un rischio, nella vita e nelle opere: spingere tutto fino a «saturazione e nausea», e andare «a sbattere come contro un muro devastatore». È una scommessa mortale. Si accumula per spogliarsi di tutto: «Il grado zero si ottiene, è chiaro, eliminando; ma si ottiene anche eccitando una figura, una trama o una situazione a dilatarsi, a inorgoglirsi, a furoreggiare di sé, al punto da occupare tutto lo spazio». Si arriva così a «una strana fascinazione decompositiva».

Sessualmente, Luchino è presentato come un rapace predatore di giovani con i quali tuttavia finisce col ricoprire un ruolo quasi paterno. Aristocratico e comunista, raffinato e sboccato, Visconti ha qualche aspetto meno conosciuto: «Ma chi non ha visto Luchino girar di notte per Roma sulla macchina di qualche amico; girare, dicevo, nei momenti più sguaiati, quando con la sua voce nebbiosa e roca urla, getta e vomita oscenità per le strade, non saprà mai cosa ci sia di oscuramente inaccettabile e di oscuramente inaccettato nel suo blasone di conte; qualcosa di fangoso, qualcosa di ruttante e di maialesco si sprigiona allora in lui». 

Il curatore Giovanni Agosti lascia intravedere qualche possibile motivo per il quale Luchino è rimasto inedito. Forse una poco onorevole ripicca di Testori, arrabbiato perché il suo protetto Alain Toubas era stato maltrattato sul set da Visconti. Aggiungiamo un paio di ipotesi: in alcune parti Luchino è un po' troppo autobiografia testoriana per interposto Visconti. Inoltre, se i segni a pennarello della versione fotocopiata sono davvero di Visconti, possiamo supporre che il regista non fosse entusiasta.

Comunque sia, Luchino è una grande aggiunta al corpus delle opere di Giovanni Testori. Pur nella misura del ritratto di un altro artista, vediamo emergere le inquietudini, le domande di senso, le ossessioni di Testori. In fin dei conti, è possibile fare un ritratto oggettivo di Visconti come di qualunque altro? Non è la materia, in tutti i sensi, sfuggente per sua natura? Il rovello di Testori era credere nella realtà. Si legge in una lettera del 1947: «Caro Guttuso, io non credo che il problema sia di poter arrivare alla realtà, ma di poter partire dalla realtà. Di avere cioè una fede che questa partenza ammetta.

E non tanto per dipingere, credimi, quanto per vivere».

·        Louis-Ferdinand Céline.

Quel Céline impressionista e fluviale come il Tamigi. In "Londres" il tono picaresco e scanzonato viene arricchito da bozzetti poetici della capitale inglese. Andrea Lombardi il 19 ottobre 2022 su Il Giornale.  

Con i suoi millecento fogli manoscritti, Londres, uscito in Francia per Gallimard, è il testo di maggiore lunghezza dell'insieme degli inediti di Louis-Ferdinand Céline rocambolescamente riapparsi durante l'estate del 2021. Londres è il seguito immediato di Guerre, ma può essere considerato un libro a sé stante, poiché la sua trama e i suoi personaggi hanno una loro unicità, che nasce soprattutto dall'ambiente urbano di questo romanzo. L'ambientazione rimanda il lettore a un'altra opera di Céline, forse la sua più immaginifica e picaresca, ossia Guignol's Band, e lettori e critici letterari si sbizzarriranno nel trovare similitudini e differenze. Londres, scritto prima di Guignol's Band - questo secondo il curatore Régis Tettamanzi e l'équipe che sta curando per Gallimard la pubblicazione degli inediti, che include Pascal Fouché, Henri Godard e l'avvocato François Gibault - è un testo ricco di sfaccettature e di avventure, in pieno stile céliniano: il prosieguo della storia d'amore iniziata in Guerre del protagonista Ferdinand con una ondivaga prostituta, papponi e informatori, personaggi stravaganti e ancor più stravaganti parapiglia, una ballerina americana - un ispirato cameo della Elizabeth Craig amata dal dottor Destouches? - che salva dalla disperazione il protagonista Ferdinand, e ancora eccentrici aristocratici inglesi, una famiglia di lanciatori di coltelli, il Re Krogold che irrompe nel bel mezzo del romanzo, e il primo gatto nell'opera di Céline, ben prima del famoso Bébert.

La capitale britannica è uno dei personaggi principali del romanzo, ma è descritta da tocchi impressionistici, spiega Tettamanzi nella prefazione. Non vi sono le lunghe descrizioni di situazioni e luoghi tipici della topografia londinese di Guignol's Band, ma una miriade di sottili, fugaci notazioni, a volte poetiche, a volte realistiche, che costruiscono gradualmente il contesto urbano. Così il lungofiume è dove «si sentono le sirene nel Tower Bridge chiamare, passando, la gente del Tamigi. Questo è l'Embankment, il molo di tutte le pene, a filo dell'acqua tenera e fragile», e, più avanti, «il Tamigi è bello. È la notte del mondo, quella che scorre sotto i ponti. E si levano come braccia perché passi». Il protagonista Ferdinand è anche sensibile all'animazione dei rioni della città: «Le strade cambiavano veloci in quei giorni, da una settimana all'altra. Nuove abbondanze d'altre ricchezze si aggiungevano senza posa nei negozi dei quartieri, in gran sfoggio di luci e colori», e alla loro bellezza, come quella di Chelsea: «insomma un lungofiume poetico e brumoso, in blu, su fondo grigio».

Per Tettamanzi il manoscritto di Londres - suddiviso da Céline in tre insiemi, intitolati Londres I, II e III, è una prima bozza, alla pari di Guerre. Vi sono un certo numero di correzioni, ma non importanti riscritture di intere sezioni del testo: Céline rilegge, aggiunge e rimuove elementi, e in questo senso Londres ci permette anche di valutare, e di misurare in senso quasi tecnico, il tremendo lavoro che rappresenta per Céline il passaggio da una versione iniziale a una stesura che considera definitiva.

Il manoscritto è comunque un testo ampiamente sviluppato, continuo e completo, molto diverso da Viaggio al termine della notte, essendo un testo più radicale - in continuità con Guerre - in cui Céline provoca, sperimenta, apre nuove strade e riafferma l'unicità della sua voce.

È quindi necessario sottolineare più che mai, conclude Tettamanzi, il processo di creazione continua che conduce Céline da Viaggio al termine della notte fino a Rigodon, in una ricerca incessante e duplice: la riflessione sul romanzo del XX secolo e l'invenzione di un'altra lingua francese. Il lettore che confronterà il testo di Londres con Guignol's Band vedrà personaggi con lo stesso nome ma che sono talvolta diversi (Angèle, Joconde, Borokrom); altri che non hanno lo stesso nome ma alcuni tratti in comune (Cantaloup e Cascade, Aumone e Nelson, Yugenbitz e Clodovitz - c'è anche un personaggio ebreo, ma nell'economia di pazzi e allucinati del romanzo e delle successive derive pamphlettarie di Céline è tutto sommato un personaggio positivo). Vi si ritrova la città di Londra, ma in una luce e da un'angolazione diversa. Soprattutto, il lettore sarà in grado di percepire come Céline, dallo stesso materiale biografico - ricordiamo come Louis Destouches presterà servizio all'ambasciata francese a Londra nel 1915 - immagina due storie che non hanno quasi nulla a che fare l'una con l'altra - accomunate dalla seduzione e dalla potenza dell'immaginazione e della lingua céliniane.

·        Marcel Proust.

Giuseppe Conte per “il Giornale” il 3 novembre 2022. 

Anche per chi, come me, ammiratore da sempre di autori come D.H. Lawrence e Henry Miller, non ha mai dato nessuna prova di fede proustiana, questo libro di Giuseppe Scaraffia intitolato semplicemente Marcel Proust (Bompiani, pagg. 272, euro 16), che esce nel centenario della morte dell'autore della Recherche, è fonte di un piacere intellettuale che sconfina nella delizia, nel puro piacere curioso e mondano della lettura. 

Giuseppe Scaraffia sa come attrarre il lettore: francesista e saggista, mette sullo sfondo lo studioso, e lascia giganteggiare lo scrittore acuto, raffinato, indagatore della figura del dandy, e, per come lo si può essere nel Terzo Millennio, dandy lui stesso. La prima parte del libro si apre con una festa: e poi di feste, di salotti, di grandi alberghi, di grandi cene ne incontreremo a decine e decine, come se la vita si manifestasse al massimo nel suo rapporto tra verità e finzione proprio in questi riti mondani. 

Siamo negli anni Trenta, la principessa Jean-Louis de Faucigny-Lucinge dà una festa a tema sulla moda tra 1880 e 1905, e già alcuni dei suoi invitati si presentano travestiti da personaggi della Recherche. Nella sua opera colossale, Proust aveva trasferito la nobiltà in arte, ora la nobiltà trasferisce la sua arte in mondanità. Il ciclo si chiude perfettamente. Il giovane Marcel Proust, figlio di un medico e scienziato borghese e della discendente di una famiglia di agenti di cambio ebrei, entra nel giro dell'aristocrazia, facendosi apprezzare per le sue qualità di uomo di mondo, conversatore brillante, misterioso, notturno, «dolente, malaticcio, pallidissimo, traslucido, lunare», come lo descriverà Maurice Duplay.

La farfalla, sorta di arcangelo inquieto e inquietante, ha scelto gli aristocratici: il migliore si mescola a loro, gli unici la cui superiorità ha qualcosa di naturale e di immotivato. Poi la farfalla, invertendo il corso delle cose, si muterà in crisalide, nella più severa delle metamorfosi. 

Chiudendosi in sé, nel buio soffocante della sua malattia e della sua camera, consacrando la sua vita alla composizione di un'opera-mondo come Alla ricerca del tempo perduto, con i suoi sette volumi, da La strada di Swann uscito nel 1913 sino a Il tempo ritrovato, uscito postumo nel 1927. Una vita spesa tra i salotti più celebrati dell'epoca, che Scaraffia descrive con un brio e una simpatia ironica e complice, tra Madame Lemaire, Madame d'Aubernon, tra la contessa de Chevigné nata Sade, discendente della Laura petrarchesca e del Divino Marchese e il conte Robert de Montesquiou, dandy e poeta, finisce per chiudersi, avvilupparsi in se stessa...

In un appartamento borghese, anzi in una sola camera in penombra, con tappeti inchiodati al pavimento, pareti rivestite di sughero, e capsule di cotone imbevute di cera nelle orecchie perché il distacco dal mondo sia ancora più completo. Eppure tutto quel mondo, fatuo e come sopravvissuto, impresta i suoi volti ai personaggi principali della Recherche: Madame Verdurin, la duchessa di Guermantes, il conte Charlus non sarebbero nati se Proust non avesse cercato e frequentato proprio quel mondo. 

Oltre che con gli aristocratici, Proust entra in contatto con politici, musicisti, scrittori: Anatole France, Oscar Wilde, di cui ricorda solo la cravatta color tortora, D'Annunzio, che si esibisce in una battuta tagliente sul povero Fogazzaro, Gide, con cui discute di «uranismo», come allora veniva definita l'omosessualità passiva. E incontra amici come Reynaldo Hahn, musicista, con cui ha la prima relazione omoerotica: è lui che racconta il primo affiorare della cosiddetta memoria involontaria nel futuro scrittore, incantato e perduto davanti a un roseto nella casa di campagna di Madame Lemaire, o come Alfred Agostinelli, l'autista, e Albert Nahmias, il segretario, entrambi confluiti nel personaggio di Albertine.

Ma centrale nella sua vita è la madre, Jeanne Weill, che, conscia del genio del figlio, lo tratta tuttavia come un bambino ritardato: il bacio mancato di mammina a sette anni è fonte di un trauma inguaribile per lui, che alla domanda del questionario: qual è il massimo della infelicità, risponderà: essere separato da mia madre. Prima di morire accudito dalla fedele Céleste, l'ultima parola che pronunciò fu: mamma.

Proust amava dare appuntamenti all'hotel Ritz all'una di notte, dissipare tutto il denaro in mance, come la volta che, a tasche vuote si trovò a chiedere in prestito al portiere 50 franchi, e poi glieli ridiede dicendogli: «Tanto erano per voi!». Amava vestire alla moda della sua giovinezza, foderava di pelliccia i soprabiti e temeva il cilindro in testa perché aveva sempre freddo. 

Eppure quest' uomo di cui Cocteau giudicò vacillante la voce e Colette il passo di «giovanotto di cinquant' anni», divenne l'autore in cui moltissimi riconoscono il più grande romanziere del secolo scorso: tramite la metamorfosi di cui ci parla con acutezza e grazia Giuseppe Scaraffia. C'erano in lui uno squisito e estenuato uomo di mondo, e forse un uomo incalzato da un «vento furioso» come vide Colette. Un artista inquieto e inquietante, che sapeva, come scrisse nel saggio Contro l'oscurità, che «se il poeta percorre la notte, deve farlo come l'angelo delle tenebre, portandovi la luce».

Marcel Proust, una vita a cercare i ricordi dell’anima. SILVIA PERUGI su Il Quotidiano del Sud il 24 Luglio 2022.

Questo non è il ritratto di uno scrittore. E allora cos’è? Questo è il ritratto dello scrittore. La critica letteraria di tutto il mondo si spende da almeno un secolo su Marcel Proust – morto nel novembre di cento anni fa, era il 1922, all’età di 51 anni – dando di volta in volta preminenza ad aspetti diversi dei suoi scritti. Volendo citare alcuni nomi, esclusivamente italiani, di coloro che hanno ragionato su Proust e sulla sua opera, si possono nominare: Giuseppe Ungaretti, Ugo Ojetti, Benedetto Croce, Carlo Bo, Mario Praz, Giulio Carlo Argan, Gianfranco Contini, Alberto Arbasino, Franco Fortini, Alberto Moravia, Pietro Citati.

Proust è come Omero, Eschilo, Platone, Dante, Shakespeare, Cervantes, Joyce. E nessun’altro. Non ha scritto un’opera: ha scritto l’opera. Come l’Odissea, come la Divina Commedia o il Don Chisciotte della Mancia. Alla ricerca del tempo perduto – il romanzo suddiviso in sette volumi; elaborato tra il 1909 e il 1922; pubblicato nell’arco di 14 anni, tra il 1913 e il 1927; i cui ultimi tre volumi sono usciti postumi a cura del fratello dello scrittore; per un totale di 9 milioni e 609 mila caratteri contenuti in 3724 pagine (pagina più pagina meno, a seconda delle edizioni) – è un manuale su come affrontare la vita, in grado di guidare il lettore verso il raggiungimento della saggezza.

A voler mettere subito tutte le carte sul tavolo, è il caso di riferire fin da qui che l’opera di Proust è spesso tacciata di essere particolarmente ostica, complessa, prolissa, ai limiti del metafisico. In una parola: indecifrabile. E in effetti, è anche questo. È il racconto più intimo che sia mai stato scritto. È lo specchio di un’anima. È un percorso ascetico. Un’opera redentrice, per chi l’ha scritta e magari per chi la legge. È il frutto di una cultura omnicomprensiva, in cui filosofia, poesia e religione arrivano a coincidere.

Proust ha saputo dare forma organica ai frammenti dell’esperienza pubblica e privata: citando Contini, l’io proustiano è sia “il soggetto di una limitata, definita esperienza storica irripetibile” (quella di Proust stesso), sia “il soggetto trascendentale di qualsiasi avventura vitale e conoscitiva” (la nostra).

Céleste Albaret – governante dello scrittore e autrice di proprie memorie su di lui – gli attribuì le seguenti parole: “Voglio che, nella letteratura, la mia opera rappresenti una cattedrale. Ecco perché non è mai completa. Anche se già innalzata, occorre sempre ornarla d’una cosa o l’altra, una vetrata, un capitello, una piccola cappella che si apre, con la sua piccola statua in un angolo”. In effetti, il racconto di un’anima non può mai dirsi concluso. Va avanti, per ardite circonvoluzioni, finché essa è in grado di parlare.

Proust nacque nel luglio del 1871 ad Auteuil, un sobborgo parigino che oggi fa parte del XVI arrondissement. Il padre Adrien era un famoso medico e professore universitario, la madre Jeanne discendeva dalla ricca famiglia ebrea dei Weil. Frequentò il liceo, dove iniziò a nutrire la sua vocazione di scrittore collaborando a un periodico studentesco. Dopo il diploma e nonostante la cattiva salute – soffriva di violenti attacchi d’asma sin dai nove anni – prestò servizio come volontario in un reggimento di fanteria dell’esercito francese di stanza a Orléans. Studiò politica e diritto all’università, ma preferì sempre la letteratura, anche grazie all’influsso umanistico che ebbero su di lui la madre e la nonna, grandi appassionate di libri e di musica. Per accontentare il padre, accettò di lavorare come bibliotecario, ma fu congedato per malattia.

Trascorse una vita apparentemente oziosa, frequentando i salotti dell’alta borghesia. Ebbe la reputazione di uno snob, tanto per carattere, quanto per inclinazioni intellettuali. Nel 1903, perse il padre e due anni dopo anche l’amata madre. Soffrì moltissimo. Rimase a lungo in uno stato di avvilimento e di depressione. Ereditò una vera fortuna e visse nel lusso. Il suo stato fisico continuò a deteriorarsi. Praticamente si rinchiuse nel suo appartamento parigino di Boulevard Haussmann, e si dedicò all’opera della sua vita: il racconto della sua anima.

Lontano dalla mondanità, al riparo dalla società francese, Proust riflette sulla memoria, sull’arte, sul tempo, sulla poesia, sull’identità. Indaga il tempo, tracciando una contingenza tra passato e presente. Indaga il funzionamento della mente, cambiando per sempre la narrazione delle percezioni umane.

Nella Ricerca, il narratore presenta una storia intrecciata, sulla base di eventi ed episodi che ne richiamano altri il più delle volte fuori sequenza. Una qualunque esperienza sensoriale, dall’ascolto di una canzone all’assaggio di un particolare cibo, è in grado di suscitare un racconto prima incentrato sull’infanzia e subito dopo sull’età adulta. “E tutt’a un tratto il ricordo è apparso davanti a me”, si legge nel romanzo, “E quando ebbi riconosciuto il gusto del pezzetto di madeleine che la zia inzuppava per me nel tiglio, subito la vecchia casa grigia verso strada, di cui faceva parte la sua camera, venne come uno scenario di teatro a saldarsi al piccolo padiglione prospiciente il giardino e costruito sul retro per i miei genitori (cioè all’unico isolato lembo da me rivisto fino a quel momento); e, insieme alla casa, la città, da mattina a sera e con ogni sorta di tempo, la piazza dove mi mandavano prima di pranzo, le vie dove facevo qualche commissione, le strade percorse quando il tempo era bello”.

I ricordi, i frammenti del passato, come piccoli pezzi di un puzzle si combinano in modo progressivo fino a comporre l’intera opera. L’immenso edificio del ricordo – la cattedrale in continua costruzione – si impone come vincolo identitario, memoria extratemporale inconscia e inattesa che viene utilizzata al servizio dell’arte. Proust ricrea il labirinto della sua – della nostra – mente, in maniera disarmante e potente racconta il mondo interiore attraverso i ricordi sepolti.

C’è un saggio del 1998, dello scrittore Alain De Botton, che si intitola Come Proust può cambiarvi la vita. Si tratta di una guida esistenziale per il conseguimento di una felicità quotidiana, e si ispira al grande scrittore francese, sensibile compagno dell’anima oltre il tempo e lo spazio. Colui che è riuscito non tanto a rappresentare emozioni e persone simili a quelle della nostra vita reale, ma piuttosto a descriverle molto meglio di quanto saremmo mai in grado di fare, e addirittura, a farci scoprire nostre percezioni che non avremmo mai potuto cogliere altrimenti.

Il questionario su Proust. Cosa sapete di Madame Verdurin, del caro Swann e delle madeleine? Ilaria Gaspari su Il Corriere della Sera il 20 Luglio 2022.

Viaggio nel “romanzo montagna” dello scrittore francese, che ha indagato come nessun altro nel mistero della memoria. Un universo mitologico, che ci permette di decifrare il mondo in cui viviamo proprio attraverso le sue cosmogonie, le sue divinità e le sue leggi. Provate ad affrontare le domande, mettetevi alla prova. 

Vi è mai capitato di sognare un viaggio tanto a lungo da trasformare l’arrivo alla meta in una sorta di ritorno a casa? A me sì, quando sono stata in Normandia. C’erano cattedrali scoperchiate sotto nuvole irrequiete, che si squarciavano in un abbacinare di sole sui prati. C’erano vacche floride e steccati, e piccole strade di campagna ai cui margini le case imparruccate di paglia - che parevano catapultate fuori da un libro di fiabe - si lasciavano crescere, proprio in cima, sulla scriminatura, aiuole sospese di iris che parevano diademi: la cosa più bella fu venire a sapere che quella straordinaria idea ornamentale non nasceva da nessun proposito decorativo ma da quello, ben più prosaico, di mantenere umida l’argilla che cementa i tetti. C’era un mare nordico, tempestoso, scogliere a picco e le luci violente di sere che calavano lente; e poi ancora, altre cattedrali, altri prati, altre campagne.

E c’era un luogo che portavo nel cuore perché, senza averci mai messo piede, io c’ero già stata: ci avevo passato un’estate intera, e poi ancora un’altra. Senza che nessun cartello stradale indicasse il nome con cui lo conoscevo, io ritrovavo le curve del percorso, la luce, il sentore di sale nell’aria, via via che ci avvicinavamo.

E all’improvviso ero, secondo le mappe e la segnaletica, a Cabourg, cittadina di mare con la spiaggia bionda contro le onde lunghe, gli ombrelloni protetti da teli a righe bianche e blu per schermare il vento. Ma ero anche, malgrado Google maps non lo riconoscesse come un fatto, a Balbec, indietro di centovent’anni; a Balbec che sulle carte geografiche non esiste, ma esiste nella testa e negli occhi di chi, com’è successo a me, si è innamorato del romanzo più lungo del mondo, Alla ricerca del tempo perduto.

Nel secondo volume, All’ombra delle fanciulle in fiore, il Narratore va in villeggiatura con la nonna proprio a Balbec; e ci tornerà poi ancora, a cercare tracce di una Francia sommersa nei grandi relitti delle cattedrali, ad accostarsi per via di intermittenze del cuore al grande mistero del tempo e della morte, e del desiderio che forse, chissà, riesce in qualche modo a domarli. Soggiorna al Grand-Hotel di Balbec, che è Cabourg travestita, con elementi aggiunti piluccando la realtà di altri luoghi reali con il disinvolto sincretismo con cui questo monumentale romanzo riesce a dar vita a un mondo immaginato ma tanto simile al nostro.

Come un sogno, o forse, meglio: come un universo mitologico, che ci permette di decifrare il mondo in cui viviamo proprio attraverso le sue cosmogonie, le sue divinità e le sue leggi. Per questo motivo sostenere che la Recherche cambi la vita non è un’esagerazione, come potrebbe sembrare, né un luogo comune. Cambia la vita perché cambia la vista; offre occhiali nuovi, occhiali che non sempre correggono i difetti dei nostri occhi, anzi, che qualche volta li accentuano, ma sempre ci sfidano a guardare, a indagare. Le lenti di questi occhiali sono nascoste, come in una caccia al tesoro, fra le pagine, perché le troviamo nel dischiudersi delle metafore che i detrattori di Proust trovano oziose, ma che oziose non sono: sono altrettante chiavi che ci vengono donate per moltiplicare i livelli del reale. O nelle analisi psicologiche condotte con il rigore e l’umorismo dei grandi moralisti francesi; nei turbamenti che Proust ci fa sentire come se anche noi, con il nostro respiro sfidato dalla complessità di periodi interminabili e perfetti, stessimo vivendo le minuscole vibrazioni di una vita non nostra, che ha avuto la generosità e il coraggio di offrirsi come testimonianza dell’impresa indescrivibile a cui tutti siamo condannati - vivere, e vivere nel tempo.

Nei mesi scorsi la mia passione per l’opera di Proust, unita a una di quelle forme di incoscienza che le vere passioni sanno ispirare, mi ha portata a lavorare a un podcast sui temi principali della Recherche, ma anche sull’eredità che Proust ha lasciato. Ho parlato con chi ama il mastodontico romanzo al punto da aver deciso di dedicargli una vita di studi; con chi ha curato le edizioni con acribia, con chi l’ha letto tanti anni fa e ricorda solo le pagine che hanno risuonato nel suo cuore; con chi coltiva un vero culto per questa religione laica, letteraria, e la onora per slanci; o, in forma più ortodossa, adorando pure le minuzie biografiche, gli aspetti antiquari della storia; ma anche con chi è spaventato dalla mole impervia del romanzo e si rifiuta, quindi, di incominciare la scalata. In molti mi hanno detto che il loro sguardo era stato cambiato dalla lettura come da un’esperienza irreversibile; qualcuno addirittura se n’è quasi pentito, come avesse perso l’innocenza.

Sono passati cent’anni da quando è morto Marcel Proust, tanto amato da chi lo ama ma forse non sempre compreso quanto sarebbe auspicabile, anche semplicemente perché incute un po’ di diffidenza, se non di paura, un romanzo che entra nel Guinness dei primati come il più lungo mai scritto; o magari perché ha fama di essere un autore snob, difficile. Una fama che sarebbe bene scrollargli di dosso: come sostenne Ingeborg Bachmann in un saggio trasmesso per radio da un’emittente tedesca alla fine degli Anni 50 (una sorta di podcast ante litteram), è persino un po’ assurdo che questa nomea lo circondi. Arricchirebbe tutti, smettere di considerarlo un autore d’élite, e vedere che gigantesco scrittore rivoluzionario è stato, lui che ha saputo realizzare l’incanto delle Mille e una notte: dilatare il tempo, sconfiggere la morte. E capire che con il romanzo-montagna, forse, si può anche giocare: sfidarsi a scoprire quanto lo si conosce.

·        Mariacristina Savoldi D’Urcei Bellavitis.

Gian Paolo Serino per Dagospia il 22 marzo 2022.

Più che una “bellavitis” una vita da film: da Michele Sindona a Giulio Andreotti, dai furti a Villa D’Este a Cesare Romiti, dal figlio di Gheddafi agli industriali finiti in prigione e in associazione con l’Ndrangheta: trema la Milano che conta messa a nudo da Mariacristina Savoldi D’Urcei Bellavitis che nella sua autobiografia Aristocrap (alla lettera: “Aristocrazia di merda”, prefazione di Nicolai Linin, in uscita oggi per Santelli editore) racconta l’inferno di essere sorella di Emanuele Savoldi Bellavitis detto “Il Conte Mitra” e ex moglie di Giulio Romagnoli, imprenditore immobiliare “alcolizzato e violento”.

Non risparmia tantissimi personaggi nella Milano dei Vanzina raccontati in modo spietato come una “aristocrapzia” dove la nobiltà non ha più alcun titolo  - se non gli araldi “ormai fuori dal tempo” - ed è costretta a stringersi in matrimonio con l’alta borghesia “cinica e ambigua, senza più umanità e incapace di discernere tra il bene e il male”.      

L’autrice non risparmia nessuno in una storia che sarebbe perfetta per un film o per una serie tv (altro che “House of Gucci”!): a partire dal fratello Emanuele, ladro di opere d’arte condannato a nove anni (poi cancellati dalla prescrizione) per una serie di furti commessi su commissione tra la metà degli anni Ottanta e la fine dei Novanta, gioielli e pellicce per non meno di 7 miliardi di lire. Quadri e mobili antichi trafugati anche dalla collezione di Villa d'Este. Il Grand Hotel  a Cernobbio, Como, gestito ai tempi dei fatti da Jean-Marc Droulers: tele di Corot, Lancret, Hebert. 

“Il Conte Mitra” Emanuele fu smascherato da una lettera anonima ai carabinieri che ne segnalava la passione smodata per le armi automatiche: ne vennero sequestrate 170, compresi kalashnikov e uzi oliati e funzionanti, in mezzo ai quadri. Ne aveva fatto un museo privato, insieme al nonno Claudio: “furti  commessi soprattutto ai danni della contessina Marie Antoinette Castellano Labadini, ex moglie del “conte mitra”.     

La sorella Mariacristina non risparmia in niente il fratello: “un vigliacco che dichiara di aver combattuto in Afghanistan a fianco dei talebani e non ha fatto nemmeno il servizio militare”. Continua la scrittrice: “a dieci anni mi obbligava a vedere film porno” e “convertito all’islamismo” lo “scorso dicembre l’appartamento della sua convivente Emilia Dizioli è stato perquisito dai carabinieri di Brescia e della DDA, il Dipartimento distrettuale antimafia, all’interno della maxi-operazione Scarface.

L’indagine è ancora coperta dal segreto istruttorio” mentre la sua convivente è “indagata con l’accusa di essere la stretta collaboratrice di Francesco Mura, un imprenditore proprietario di tv private, che avrebbe stretto rapporti con il clan della ‘Ndrangheta Barbaro- Papalia”.

A quanto si legge, in una autobiografia che appare talmente avventurosa che si legge come un romanzo, tra l’altro ottimamente scritto, all’autrice non è andata bene neanche sul fronte del matrimoni con “Giulio, ultimogenito della famiglia di Vincenzo Romagnoli, immobiliarista lombardo a capo della Holding che controllava l’Acqua Pia Antica Marcia Spa (gestione acqua e elettricità nella Roma degli anni ’80, la Bastogi (al centro negli anni ’70 di una scalata da parte di Michele Sindona) e poi finanziarie, assicurazioni, il network televisivo Odeon Tv, trenta cinema a Roma e la storica casa cinematografica Titanus”. 

“Prima del matrimonio con suo figlio Giulio”, leggiamo, “mio suocero Vincenzo era già toccata una via Crucis: finì nelle indagini di Tangentopoli e nelle patrie galere”. Sin dal pranzo di nozze, al “Circolo del Giardino” di Milano, il matrimonio rischiava di annegare nell’alcool: “La prima notte mi chiusi in camera a chiave: urla, minacce, pugni sino a sfiorarmi la faccia”.                                                                

Passava molto tempo nella casa di famiglia Romagnoli: con la madre “amante dell’esoterismo”, i fratelli di Giulio, Giovanna ed Enrico Romagnoli tutti “incapaci di usare un linguaggio diverso da quello che implicava i soldi”. In quella casa era stata “presa a benvolere da Giulio Andreotti: mi chiamava ganascina e con lui giocavo a Gin Rummy, perdevo sempre” e “incontrai anche Cesare Romiti noioso, banale e sopravvalutato”.

Poi divorziata ha intrapreso diversi lavori di pubbliche relazioni sino a diventare assistente personale di Saadi Gheddafi: capace di spendere in pochi minuti e per due valigie 300 mila euro da Gucci in via Montenapoleone, di volere a tutti i costi una vasca di squali nel suo bagno (per poi farli arrosto e mangiarli), di voler entrare in serie A come calciatore del Perugia.   

Un’autobiografia che non ha il passo della vendetta, ma è il racconto di una Milano crudele e spietata che dagli anni da bere è finita con il bersi la dignità che l’ha sempre contraddistinta come “capitale morale”. Di cosa non si capisce, almeno leggendo le pagine di questo che è un romanzo di conti decaduti e imprenditori incapaci, di verità talmente nascoste da sfiorare la finzione.

·        Marcello Marchesi.

Dagospia il 9 agosto 2022. Estratti da “Diario Futile di un signore di mezza età”, di Marcello Marchesi (ed. Bompiani), pubblicati da “il Fatto quotidiano”

C'è chi si sente giovane perché, in cinquant' anni, non ha combinato niente e c'è chi si sente giovane perché tutto quello che ha combinato l'ha dimenticato. È il caso mio. Ma procediamo con disordine. Il disordine dà qualche speranza, l'ordine nessuna. 

Incontro J. Regista dei film Sexy. È disperato. "Ventisei metri di nudo mi hanno tagliato, capisci? Ventisei metri di nudo". "E che era? Un'elefantessa?". 

"Ah! come sto bene! Oggi mi sento proprio colpevole. Ieri sera avevo ancora un piccolo complesso di innocenza che mi tormentava, ma dopo il vostro trattamento suggestivo notturno, è passato. Meno male. Che bello sentirsi totalmente, incondizionatamente colpevole! Scusi, dove ci si confessa? Qui? Grazie!". 

Fiuggi '58. Con l'ottavo bicchiere in mano sto lì. Mi viene incontro Peppino De Filippo, ma più giovane e grassottello. È Ennio Flaiano. Dice che vuole scrivere una commedia, Caffè e antipatia, l'antitesi esatta di Tè e simpatia. È la storia di un uomo normale, che si vede lentamente mettere al bando dalla consorteria degli "altri". L'anormale è lui. Ascoltandolo, arrivo al nono bicchiere. Al decimo mi ribello. Basta acqua! Perché soffrire? perché consegnare alla Nera Signora un corpo curato? Se glielo dobbiamo dare, diamoglielo il più malandato possibile. Avrà fatto un cattivo affare. La cosa finisce a fettuccine "in quantità industriale" e abbacchio in piatti alla Salomè.

"L'angoscia mi scompensa" dice M. "Dimentico atti necessari, do importanza ai futili, ricordo persone antipatiche e sento urgenze inesistenti. Giro intorno a una parola come un somaro alla mola, non riesco a evitare la rima. Sono tutto da spremere, tutto mi dà spunto, ma fino all'angolo... dietro non so. Sfarfallo di pensiero in pensier, di niente in niente, e mi par d'essere un genio a rate. Invecchio. La mente mi precede, non so tenerle dietro. Ancora qualche anno e la guarderò agire per conto suo, me immobile". 

Concert Mayol. Esposizione stanca di sederi. Mulatte col nerofumo sotto i seni. Quante appendiciti! Odor d'olio d'arachide, di nero, di dolce disinfettante. La pianista e gli altri orchestrali hanno le facce di quelli che suonano nei caffè di Torino. Casalinghe e un po' rassegnate. Quando finisce era ora. 

A quarant'anni l'uomo fa il punto. A cinquant' anni fa la virgola, e con il punto e virgola può continuare, seppure faticosamente, il periodo delle sue riflessioni. 

Quel tipo di mogli che sposano il portafogli. 

Una vita idiota, tutti i giorni le stesse azioni, gli stessi incontri, le stesse facce. Eppure tiene un diario minuziosissimo. Per assicurarsi il suo alibi giornaliero. Non si sa mai.

Il commediografo P. è furente.

"Ho scritto una commedia con un titolo formidabile" grida "e non posso rappresentarla. La commedia è intitolata Lingua in bocca. Devo cambiare titolo. Perché? La lingua dove sta? In bocca, no? La bocca è il suo posto naturale. Nossignore, non vogliono. Valli a capire un po' tu, quelli là, valli a capire!". 

È un tecnico del sedere. Studia sedie moderne, che non sembrano sedie, ma che sono più comode delle sedie. Peccato che nessuno ci si sieda, perché è difficile prenderle per sedie. 

Chi si indigna più oggi? Al massimo, in certe occasioni, uno può sentir vibrare tutte le fibre tessili del suo vestito. 

Fellini 8½: il posto delle fregole. 

Abbiamo un nuovo ordine religioso: i cappuccini Hag.

Viene in ufficio una madre un po' mesta con una bambinetta compostina e distratta. La madre desidera che faccia del cinema, comunque. 

"Ha disposizione," chiedo "inclinazione?".

"Come no? Da piccola stava sempre tutto il giorno nuda davanti allo specchio".

"È un cretino, ma ogni tanto ha un lampo".

"Di genio?".

"No, riceve un telegramma lampo in cui gli confermano che è un cretino".

"Ah, io il giornale lo leggo a modo mio" dice il vecchietto. "Leggo solo gli annunci funebri e gli spettacoli. Se è morto qualcuno che conosco vado al funerale, se non è morto nessuno vado al cinema". 

Ed ecco Mina con quella faccia di bambola spaventata trovata in solaio. 

F. a forza di andare a sinistra ha fatto il giro e si è ritrovato a destra.

Milano. Vivo in una città occupata da gente occupatissima. 

Camminano tutti svelti, guardano le donne solo dopo le nove di sera. Questa città si sveglia ogni giorno un minuto prima. Qui gli uomini di affari ti dicono le cose delicate in automobile, su quattro ruote che girano a cento all'ora, coi paracarri che passano veloci. I paracarri non hanno orecchi. In questa città la gente viene a sapere che è primavera dai manifesti: "È primavera, cambiate l'olio al motore". È l'unica città in cui ho sentito tossire gli uccellini. In questa città parlano latino: "Te laùret semper".

Una mano lava l'altra e tutt'e due rubano.

Chi tardi arriva male posteggia. 

Missino: un tipo per bene, un tipo perbenito. 

Comperate, comperate: ma state attenti: la sedia elettrica non è un elettrodomestico. 

Ma sì, tagliamo gli alberi, i paracarri, i pali, abbattiamo le case, le colline. Rendiamo la terra tutta una calva autostrada, una pista totale per il carosello degli automobilisti. Finito il petrolio, sulla terra resterà una crosta di macchine. 

·        Marco Giusti.

Francesco Melchionda per perfideinterviste.it il 24 novembre 2022. 

Da tempo, baluginava nella mia testa l’idea di intervistare Marco Giusti. Nel mare delle banalità profuse a iosa e del conformismo nauseante spacciato per critica, "Il cinema dei Giusti" – così si chiama la sua rubrica quotidiana che il Nostro tiene, da anni, sulle pagine di Dagospia – è una galleria di personaggi, scene, orrori, bellezze. 

Ideatore, insieme a Ghezzi, di Blob, negli ultimi quarant’anni Giusti ha attraversato l’oceano tempestoso della tivù italiana con grande abilità e capacità. Ma  è stato il cinema il suo vero amore! 

A differenza di tanti sapientoni boriosi, che affollano il mare magnum della carta stampata, la penna di Giusti scivola leggera sulla carta; chi vuol capire qualcosa, lasci perdere i quotidiani e i suoi recensori che, a lingue spiegate, ci dicono cosa dobbiamo vedere, e cosa no; cosa è bello o brutto, o, come sovente capita, cosa è giusto o sbagliato; oppure, sorbirci panegirici infiniti sul grande (?) attore o sul regista così ben voluto da tutti… 

Ogni giorno, da decenni, non fa altro che vedere e scrivere, fino allo sfinimento, film alti e film bassi, giudicare premi Oscar e attori mediocri (tanti), con uno sguardo critico, a volte duro, ma sempre, o quasi, con una vena di tolleranza e, direi, benevolenza.

Giusti, dal divano di casa, o da una scomoda poltrona di cinema sempre più tristi e deserti, ci narra un’altra storia, probabilmente la più fedele e vicina alla realtà delle cose. Conosce tutto e tutti, ma, al netto di amicizie,  idiosincrasie, ed errori (spesso confessati), non puoi non apprezzare la sua onestà intellettuale, e la sua autonomia di giudizio. La sua penna risponde alla sua coscienza e non, di certo, alle cricche o conventicole così numerose nella Capitale 

La sua memoria, elefantiaca, spolvera storie spesso dimenticate. Nelle circa due ore di chiacchierata, ho provato ad aprire l’armadio della sua vita. Giusti è stato sornione come un gatto, a tratti guardingo, probabilmente, voleva capire chi fossi e cosa volessi da lui. Sarò riuscito a descriverlo per com’è? Chissà…(...)

Ha detto, in un’intervista, che fino all’età di 25 anni non ha aperto quasi mai bocca per via della sua balbuzie… Come ha affrontato il mondo?

Male, direi. Ho sempre trovato nei miei fratelli o nei miei genitori qualcuno che parlasse per me. Anche quando ho fatto coppia fissa nel lavoro con Enrico Ghezzi, parlava sempre lui, cercavo sempre di defilarmi, di nascondermi. Ora parlo, male, ma parlo…

Come nasce la sua balbuzie?

Esattamente non lo so; sono stato un bambino molto timido. Ne soffrivo quando ero in compagnia di uomini più grandi me; e, poi, si dice che capiti quando uno pensa troppo velocemente rispetto a come parla… 

Ha sofferto e soffre ancora?

All’inizio sì, molto; poi me ne sono fatto una ragione, e non l’ho mai voluta vedere come una cosa negativa, anzi. Penso di essere stato, in Italia, l’unico presentatore con questo problema…

A che età ebbe il suo primo rapporto sessuale?

A 21 anni… 

Se lo ricorda? E’ stato un po’ tardivo, lei…

Certo che me lo ricordo! Ero a Genova… Ed è stato quando ho avuto la mia prima storia d’amore. La distanza tra una casa e l’altra era minima, e quindi ricordo pure che in un appartamento vicino, dei signori vedevano un film:  "Carosello napoletano", di Ettore Giannini…

Scusi, Marco, per seguire il film vuol dire che il rapporto sessuale fu disastroso…

Beh, non ero un grande amatore…

Aveva ascendente sulle donne?

Da giovane ero molto carino, magro, ma completamente imbranato. E avevo il mito che sesso e amore non dovevano essere due cose scisse. Ero per le storie "per sempre"… 

E oggi, guardandosi allo specchio, si piace come uomo?

Certi giorni sì, altri no. Direi che cerco ancora di abituarmi a me stesso. 

E’ Alessandra Mammì, sua attuale moglie, la donna della sua vita?

Assolutamente sì!

Che rapporti aveva con il papà di Alessandra, Oscar Mammì, potente ministro della Prima Repubblica…?

Negli anni in cui è stato ministro e esponente di spicco della Prima Repubblica, era decisamente chiuso dentro se stesso, un po’ arrogante, come tutti i politici. Quando si ritirò a vita privata, era molto più umano, vicino, affettuoso. Ho un bel ricordo. Ero molto legato a Oscar.

Da barricadero illuso di sinistra, mal sopportavi, quindi le sue frequentazioni e alleanze politiche?

Mai stato né barricadero né illuso di sinistra. Ma, a differenza dei figli, pensi, una volta o due l’ho anche votato! E Craxi, Andreotti, potevano non piacere, ma erano delle personalità! Quando facevo Blob, erano anche presi di mira, sbeffeggiati, però avevano una statura internazionale che non potevi non vedere. 

Chi la raccomandò per entrare a viale Mazzini?

Inizio a lavorare in Rai, sul finire degli anni Settanta, seguendo Ghezzi, che era entrato con un concorso; prima a Genova e poi, seguendo Enrico, finisco a Roma a Raitre, con Angelo Guglielmi. Poi, quando nel 1996 arriva Carlo Freccero, mi sposto definitivamente sulla seconda rete e vengo assunto come dirigente. 

Aldo Grasso, a proposito di Freccero, ha scritto: "Ieri situazionista, oggi sovranista: replica il mondo e al tempo stesso lo assoggetta alla furia combinatoria. Assume le sembianze delle persone con cui entra in contatto: a pranzo con Di Battista spiega a Di Battista come essere Di Battista; con il direttore del Tg2 Gennaro Sangiuliano parla il sangiulianese; al presidente Foa spiega come si fabbricano notizie al servizio dei governi ed elogia Putin…"

Condivide l’analisi di Grasso?

Freccero ha una personalità complessa, ha grande intelligenza, ma non sempre condivido le sue scelte. Ma seguito a volergli molto bene. E’ come un fratello per me.   

Lei che rapporti ha avuto con Freccero? Non è un sopravvalutato?

No. E’ stato il miglior direttore di rete che la Rai abbia mai avuto e che io abbia mai avuto. Il più moderno, il più spericolato, ma anche il più innovativo. La cultura televisiva deve molto a Freccero. Ci ha insegnato come fare televisione. Al di là della teoria, quello che abbiamo appreso era tutto molto pratico. Le potrei fare mille esempi. E era impossibile non sentirne il fascino. Specialmente la prima volta che è stato direttore di Rai Due, è riuscito a rinnovare profondamente la Rai. (…)

 Perché litigò con Ghezzi? Cosa combinò lei?

Quando si è in due e c’è un grosso successo, è molto difficile che il rapporto resista. 

Chi sbagliò di più?

Tutt’e due, probabilmente. Era diventato impossibile convivere con Enrico. Era tutto teoria, in sfida perenne con il mondo e con se stesso. Si sentiva troppo, troppo bravo rispetto a quello che faceva, ma al tempo stesso aveva molte fragilità. Alla fine mi ero stancato di reggergli il bidone, di fare il lavoro per lui. Detto questo, però, gli devo molto, anche sul lavoro. 

Riusciva a lavorare liberamente in Rai?

Assolutamente sì! Ho sempre fatto quello che cazzo volevo! Sono stato sempre molto abile a reinventarmi con ogni nuovo direttore, qualsiasi fosse il suo credo politico. Inoltre, i miei programmi, specialmente negli ultimi vent’anni non davano molte noie politiche…

Ma, scusi, Marco: Blob non vi creava rogne?

Blob era un programma che andava in onda su Raitre, la rete di Angelo Guglielmi. Era un programma totalmente protetto dalla rete e da Guglielmi. Un programma che oggi non si potrebbe più fare.

Mi sta dicendo che eravate intoccabili?

Più che noi, era Blob, l’intoccabile. Detto questo, qualcuno ci provò. Ricordo che una volta mi diedero 10 giorni di sospensione perché avevo fatto un montaggio contro Berlusconi. Diciamo che se sai nuotare, riesci a sopravvivere…

Una volta ha detto: "Davanti al trash non resisto". Da dove nasce questo feticcio? 

Perché sono attratto dalle cose folli e assurde, e nei film e nei programmi. Più la cosa è strana, bizzarra, popolare, più il mio pollice diventa verde. 

Quando Stracult chiude i battenti, nel 2020, dichiara: "Forse non piace al direttore di rete…" Non ha pensato minimamente che con il 2% di audience fosse difficile andare avanti?

Ma è l’audience che ha sempre fatto Raidue, nella programmazione notturna! Se pensi che il programma di Ilaria D’Amico in queste settimane sta facendo il 2,2 di ascolti. E Stracult non costava niente. Quindi?

Qualora fosse vero quello che lei mi sta dicendo, come se la spiega allora questa chiusura?

Beh, da un lato ero prossimo alla pensione, e dall’altro mi propongono di condurre Stracult con Pino Insegno, uomo vicino a Giorgia Meloni… Gli dico: non voglio fare un programma con Insegno, a un mese dal mio pensionamento, e rovinarmi una "fedina penale" immacolata… 

E lei, mettendo da parte la miopia o la non voglia del direttore di Raidue, che errori ha fatto, conducendo Stracult? Non era magari un programma un po’ moscio?

Non credo proprio. E’ stato un programma importante perché ha fatto uscire personaggi e film che erano stati dimenticati e che non avevano mai avuto occasione di parlare. E oltre ai personaggi e ai singoli film era proprio un tipo di cultura, diciamo popolare, che era stata completamente sommersa da quella considerata di maggior pregio perché legata al cinema d’autore. Ovvio che nel tempo un po’ di questa carica si sia perduta, ma non ho mai visto Stracult come un programma moscio. Nessuna rete aveva un programma così fuori dal normale come Stracult. 

La televisione dà sempre una grande visibilità… Da quando le hanno chiuso Stracult, il suo cellulare squilla ancora tanto? Si narra che negli anni della sua conduzione, il suo telefono squillasse tantissimo…

In effetti, il mio telefono è completamente morto… Tutto sommato, meglio così.

L’hanno delusa le persone che hanno smesso di cercarla?

No, per niente. L’avevo messo in conto. E’ la vita. 

Da chi si è sentito usato negli anni della sua massima popolarità? 

Da nessuno, mi creda. Le persone che hanno lavorato con me, e che ho sempre scelto liberamente, sono le stesse che avrei voluto a cena, a casa mia…

Di quale programma va meno fiero, e perché?

Di un programma che si chiamava "Scalo Settantasei". Meno fiero perché ho potuto fare poco, e sperimentare ancora meno. Era un programma che non era mio, dove sono stato chiamato. Ma in generale ho sempre cercato di farmi piacere tutto. 

Quale artista, o presunto tale, che hai lanciato in tivù, ti ha dato maggiori soddisfazioni?

Andrea Delogu, senza dubbio. Ma non posso dimenticare Max Giusti, Paolo Ruffini, Lillo&Greg, che, comunque, stavano facendo già un loro bellissimo percorso.  

Il più bravo tecnicamente?

Max Tortora era tecnicamente pazzesco. E come presentatore credo che Paolo Ruffini possa ancora dare moltissimo. 

Ci può spiegare l’amore per il cinema?

Perché sono nato e cresciuto nei cinema. Ma ora, in realtà, odio il cinema, non ne posso più…Ne ho visti troppi, di film…!

Quanti? 

Boh? Diciamo circa 50mila… Ma il punto, ad essere onesti, è un altro: di quanti film visti e stravisti ricordo ancora qualcosa? 

E che risposta si dà?

Che ricordo, paradossalmente, quelli visti da giovane… 

C’è n’è qualcuno che ha lasciato un’impronta, una cicatrice, nella sua vita?

Sentieri Selvaggi, i Cavalieri del Nord-Ovest di John Ford; se fossi nato negli anni di Tarantino, ricorderei senza dubbio di più i film di Sergio Leone… 

Come nasce la sua collaborazione con Dagospia? Nessuna la sopportava nei giornali?

All’epoca collaboravo con Il Manifesto, ma avevo scritto un po’ ovunque, sull’Espresso per esempio. Roberto aveva, da poco, fondato Dagospia. E non ci sembrava, a noi che scrivevamo sui giornali, qualcosa di solido e di possibile. Piano piano però le cose stavano cambiando e Dago aveva visto prima degli altri quello che sarebbe capitato all’editoria. Quando mi propose di scrivere per lui, ebbi qualche esitazione. Anche perché il mondo del web lo conoscevo poco, pochissimo. Poi mi dissi: ma in fondo Roberto mi lascia assolutamente libero di scrivere quello che voglio, perché rinunciare? In tanti anni ho sempre scritto quello che volevo con la più totale libertà.

Christian De Sica ha detto: spesso alle nostre prime, i critici si sbellicavano dalle risate, poi, leggendo i loro articoli, erano di una ferocia assoluta". Anche lei era così ipocrita?

No, per niente! Sono stato, probabilmente, il primo, e l’unico, a parlare bene di certi film che mi facevano ridere. Andando contro tutti. Ho sempre amato i cinepanettoni e il cinema "scorreggione"… 

Come mai la critica cinematografica, in Italia, verso in uno stato pietoso? Mai una critica, mai un azzardo, solo banalità e applausi scroscianti… Come se ne esce?

Perché, con la chiusura delle riviste specializzate, la critica cinematografica ha perso verve, forza, e ci si è un po’ ripiegati… Di conseguenza, il lavoro di analisi profonda sui film, sugli attori o sulla fotografia è diventato sempre più superficiale. E’ difficile, oggi, che un film faccia discutere, o che crei dibattito. E’ solo un: ti è piaciuto o non ti è piaciuto?

Una cosa che mi ha molto colpito è stato l’atteggiamento che i critici italiani e il mondo del nostro cinema hanno avuto nei confronti di Luca Guadagnino. Quando uscivano i suoi film non piacevano proprio. Ero il solo o quasi che lo abbia sempre accanitamente difeso e ci ho visto bene. Anche rispetto a Checco Zalone, l’ho sempre molto appoggiato.  E sono contento che Dago abbia appoggiato questo tipo di battaglia culturale. Ricordo che quando il film di Guadagnino "A Bigger Splash" andò alla mostra del cinema di Venezia, si poteva cogliere quasi l’odio, il disprezzo negli occhi di chi faceva cinema in Italia… Quando venne candidato all’Oscar, ovviamente, le cose cambiarono. 

E perché, secondo lei?

Perché Luca riesce a fare con budget limitati film internazionali, e, non da ultimo, il fatto di non stare nel giro del cinema romano…

E qual è, scusi, il giro romano che conta per lavorare ed essere apprezzati?

E’ il giro di chi fa cinema da anni e difende i propri interessi.  

Chi sono i produttori più permalosi e allergici alle critiche? 

Quelli che mi vorrebbero menare?  

Esatto, o quelli che alzano la cornetta per dirle che ha scritto delle stronzate…

Mi è capitato parecchie volte. E confesso che non sempre avevo ragione io. Uno di quelli che si è lamentato con me è stato Malcom Pagani che, una volta, mi chiamò per dirmi che era meglio se non avessi scritto nulla di un suo film piuttosto che scrivere cose negative… 

… E che film era?

Quello su Ornella Vanoni: purtroppo inguardabile… Ma non ne ho scritto. Ho fatto una battuta e si è arrabbiato. Pazienza. Invece ho fatto pace con la regista. 

E altri?

Beh, Pupi Avati , in effetti, mi detesta proprio…

Perché, cosa ha combinato?

Perché i suoi film sono brutti. Non riesco a farmeli piacere. E poi non posso non citare Elisabetta Sgarbi: anche i suoi film non mi piacciono proprio. E pretende pure che vadano ai festival…!  

E uno dei film più brutti visti recentemente? 

La terza parte di "C’era una volta il crimine" di Massimiliano Bruno, uno dei film più brutti che abbia mai visto ultimamente… E dire che gli altri film di Massimiliano Bruno mi divertono. Questo non è riuscito. Ma il mio divertimento non è solo giudicare liberamente i film che vedo ma, anche, scrivere sui gusti dei nostri critici, a partire da Mereghetti, del Corriere della Sera.  

De Laurentiis?

Aurelio è prepotente, si sa, ma, nonostante tutto, abbiamo un ottimo rapporto… 

Perché è prepotente? Cosa vuole da lei? Cosa le chiede?

E’ autoritario di carattere. Cosa vuole? Nulla. Ma è uno dei pochi produttori italiani, anche se oggi produce molto poco, che ti chiamano, ti stimolano, parla con la critica.  

E gli attori? Quali sono quelli verso i quali non prova grandissima stima, ed uso un eufemismo?

Perché mi fa questa domanda?

 (...)

Prima lei mi ha citato più volte Guadagnino; e di Sorrentino, cosa pensa? La sua fama è tutta meritata?

Quando uscì la Grande Bellezza, trovai il film irritante, e i rapporti, ovviamente, s’incrinarono. Paolo se la prese, forse a ragione, perché io non fui per niente tenero… Mi sembrava che lui non avesse capito né Roma né i romani. E forse esagerai. Per fortuna poi ci siamo riavvicinati, anche perché ho molto apprezzato le sue due serie, "The New Pope", e anche "Loro". Sorrentino è uno dei pochi registi italiani che riesce a muoversi con totale libertà. Nel nostro cinema può davvero raccontare di tutto esattamente come vuole.

Reputa Sorrentino un regista sopravvalutato, intoccabile?

No. Anche se certi suoi film possono non piacermi. Ma ha avuto e ha il giusto successo. Non è facile arrivare all’Oscar. E ancor meno facile è non venirne schiacciati. Sorrentino sa esattamente cosa vuole e sa come ottenerlo. Massima stima.

(...)

Serie e fiction prodotte a iosa non pensa siano diventate, ormai, una sorta di ufficio di collocamento per attori frustrati e mediocri?

A parte che anche gli attori frustati e mediocri hanno diritto di lavorare, mi sembra vero il contrario. Tante serie sulle piattaforme servono per lanciare e scoprire nuovi talenti. Pensi allo strepitoso cast di Gomorra… 

Qualche giorno fa tutti i giornali, a reti unificate, e con la lingua di fuori, hanno venerato Roberto Benigni, per i suoi settant’anni. Lei cosa pensa del toscano? Come mai da decenni ha perso quello smalto che tanto l’avevano rese celebre?

Come tutti quelli che vincono l’Oscar, anche Roberto, con tutto il successo internazionale che ha avuto, doveva inevitabilmente chiudersi un po’ a riccio. Se la popolarità ti soffoca, ti chiudi e rischi. Ma a settant’anni, siamo onesti!, è impossibile pretendere ancora creatività e freschezza esplosive. Detto questo, dopo Totò, metto proprio Benigni, Troisi, Verdone forse i più grandi attori comici che abbiamo avuto. Benigni giovane a teatro era un vero e proprio spettacolo. Mi dispiace che le generazioni più giovani non lo abbiano visto. 

Le è mai capitato di scrivere un articolo e poi vergognarsene?

Mi è capitato di scriverlo e poi cestinarlo, perché offendevo qualcuno o scrivevo qualcosa di sbagliato… Ma scrivendo sul web, così tanto e  così in fretta, si commettono anche molti errori. 

Entri nei dettagli; si ricorda i destinatari delle sue invettive? 

No. non voglio fare nomi. Si fanno degli sbagli per la fretta… e ti capita di dire cose che pensi, ma che non vanno per questo sempre scritte.

Crede ancora che quello che scrive ha ancora un significato? Non le capita di chiedersi: ma a chi interessa veramente quello che scrivo?

No, non me lo chiedo mai. Però, una domanda me la faccio sempre, ovvero se quello che scrivo interessa a me…

E il cinema cosa le ha lasciato?

Probabilmente, ritornare a quando eravamo bambini…

Cioè?

Sì. Ricostruire quel meccanismo di intrattenimento magico che vivevo da bambino andando al cinema.  

Come vorrà essere ricordato una volta smessi i panni del rompicoglione?

Non penso di essere tanto un rompicoglione… Una cosa la vorrei sottolineare, però: che mi venisse riconosciuto il tentativo di aver scritto un’altra storia del cinema e televisione italiani, vale a dire aver provato a dare un volto, una dignità artistica, uno spessore a figure che, diversamente sarebbero rimaste nell’anonimato, o a film e programmi che nessuno aveva voglia di "vedere" e ricordare…

Le fa paura finire nel dimenticatoio?

Probabilmente già ci sono. Il problema è che prima o poi si viene riscoperti…

·        Mario Picchi e Aldo Palazzeschi.

Il carteggio tra i due scrittori. Mario Picchi e Aldo Palazzeschi, una vita per la letteratura. Filippo La Porta su Il Riformista il 20 Gennaio 2022.  

Sapete chi era Mario Picchi? Immagino di no, a meno che non siate stati assidui lettori dell’Espresso negli anni Settanta, dove era redattore e curava la acuminata – e per me allora fondamentale – rubrica “Sottotiro”. Nato a Livorno nel 1927 e poi trasferitosi a Roma, giornalista culturale, e anche saggista, scrittore, traduttore (dal francese), dirigente editoriale, ha dedicato la vita alla scrittura, e la sua è stata una scrittura finissima, innervata da una intelligenza morale e da una erudizione straordinarie. Ma oggi chi ne serba memoria, al di là degli studi specialistici? Anche perciò va accolto con entusiasmo questo Carteggio, 1949-1979 (Edizioni di storia e letteratura) di Picchi con Aldo Palazzeschi, uno dei maggiori scrittori italiani del Novecento, curato con acribia e amore da Anna Grazia D’Oria.

Si tratta di 61 lettere e 24 cartoline che compongono come in un puzzle «la storia di un’amicizia affidata negli anni non a scambi teorici ma al proprio sentire nella quotidianità» (come leggiamo nella introduzione). In loro due generazioni si incontrano per parlare di letteratura (autori, premi, la loro stessa scrittura), di amici comuni (da Marino Moretti a don Giuseppe De Luca), di vecchiaia e di città (Roma, Venezia, Firenze, Parigi). Si comincia dal 1949, quando Picchi esordì come critico con una intervista a Palazzeschi, allora all’apice della fama, apparsa sulla “Fiera letteraria”. Da lì prende avvio una relazione di amicizia intensa e continuativa, testimoniata da questo epistolario. Palazzeschi, percepito dal giovane interlocutore come padre e maestro, mostra nei suoi confronti un affetto pieno di sollecitudine: ad esempio in occasione di un viaggio di Mario Picchi a Venezia con la moglie si affanna con scrupolo a trovare loro una sistemazione dignitosa.

Quando Picchi nel 1960, con una raccolta di racconti, entra inaspettatamente nella rosa dei sei finalisti del premio Strega, è solo un outsider, per di più avversato da Maria Bellonci, madrina del premio. Ora Palazzeschi, di solito tranquillo e disincantato, «si trasforma per Mario in macchina da guerra», e tanto si impegna da farlo arrivare quinto e così promuoverlo in libreria. L’epistolario si conclude con la notizia di un furto rovinoso a casa di Palazzeschi, poco prima della morte dello scrittore, novantenne, nell’agosto 1974. Il volume è corredato da alcune foto che ritraggono Palazzeschi e Picchi nella vita quotidiana (specie il secondo): accanto alla macchina da scrivere, leggendo un libro o il giornale, con i familiari, in qualche cena e occasione conviviale. Palazzeschi ha un’aria sorniona e ingenua, nobilmente ironica, Picchi lo sguardo ardente, mite e affilato. Per dare solo un’idea degli scambi tra i due, sempre ispirati a un tono familiare, affettuoso, ricordo l’incipit di una lettera di Palazzeschi da Parigi, immersa in un gelo polare, dove nel metrò c’era un pover’uomo «che non aveva punto voglia di ridere e si messo a ridere di gusto vedendomi leggere il suo biglietto “Caldo opprimente”, lui coperto di lana fino agli occhi».

Ma ci sono innumerevoli lettere che mostrano la grande stima intellettuale reciproca, l’interesse dell’uno verso la produzione letteraria dell’altro. Forse meno scontata da parte di Palazzeschi, che nel 1964 scrive a proposito del romanzo di Picchi Il muro torto (pubblicato da Einaudi in quell’anno), e dopo averne già letta una prima stesura: «Ho sentito più in evidenza la parte lirica (il paesaggio romano), che in alcuni punti diviene vera e propria poesia… bravo Mario, ne sono felice per quanto non ne avessi mai dubitato». Nella seconda sezione sono raccolti gli scritti di Picchi su Palazzeschi, dei quali vorrei sottolineare – al di là delle considerazioni sempre penetranti sull’opera dell’autore delle Sorelle Materassi (che, come i pesci, cresce mantenendo “sempre la forma primitiva”) – lo sguardo sempre attento sulla cultura circostante, sull’universo letterario del nostro paese. Direi una autentica vocazione da “critico dell’ideologia”, insofferente di appartenenze e conformismi.

A proposito del ritratto di Palazzeschi, che affiora dal mosaico dei saggi, mi limito a citare la pagina in cui contrappone lo scrittore, «funambolo di se stesso» che non ha mai riscritto la propria storia, a Charlie Chaplin, che con le «svenevolezze sentimentali» di Luci della ribalta volle dare un «senso tra allegorico e anagogico» ai suoi film. E poi quando paragona il rifiuto di Palazzeschi ad avere telefono e radio «al rifiuto di firmare quei manifesti e quegli appelli che sono un troppo comodo alibi per sfuggire al più vero impegno». Per quanto riguarda la vocazione di “moralista” e critico della società segnalo un intervento sulla rivista “Belfagor” nell’estate 1970, in cui deplora le mode che divampano fulmineamente in Italia (da Lukacs a Marcuse, da Lévi-Strauss allo strutturalismo, “cicloni” che irrompono in un mondo chiuso, «bisognoso di sostegni a cui abbarbicare la sua incerta realtà: e ogni volta questo mondo si richiude in sé per digerire rapidamente la novità, da cui sperava chissà quale illuminazione», per ritrovarsi più affamato di prima.

Infine, ci appare oggi come un apologo senza tempo su potere e cultura quell’articolo dell’Espresso – 29 giugno 1975 – in cui ritrae un compiaciuto Amintore Fanfani, il «viso pieno di bonomia e di unzione, tra uno sfarfallio di sorrisi, di ammiccamenti, di mossette argute» di fronte a giornalisti che dovrebbero incalzarlo e invece «gli fanno da spalla» (qualche riga dopo ricorda i pomeriggi del leader democristiano passati in compagnia degli intellettuali convocati a discutere le magnifiche sorti, tra «gorgheggi e coccodè di soddisfazione», tutti in cerca di prebende, incarichi e pensioni…). Soffermandosi poi sui quadri di Fanfani, e sul suo enfatico annuncio di passare le notti a leggere libri, così commenta: «L’artista che fa politica è penoso, ma c’è qualcosa di peggio: il politico che fa arte». A lui Picchi contrappone Palazzeschi: «Nel suo sorriso c’era sempre un tanto di meraviglia, quasi di incredulità per quello che l’esperienza gli rovesciava addosso». Filippo La Porta

·        Mario Praz.

Luigi Mascheroni per "il Giornale" il 20 giugno 2022.

Mario Praz non amava il suo secolo, ricambiato. Antimoderno, ma mai reazionario, scettico di fronte alle false novità, nemico del moralume ma infastidito dall'imbarbarimento dei costumi del vivere moderno, già sul finire dei suoi giorni (muore nella primavera del 1982, quarant'anni fa), Praz vedeva la sua Roma come una città «forse ancora in parte affascinante, ma di fatto degradata, decaduta» citiamo, da una cartellina di ritagli, una vecchia intervista pubblicata su Panorama, 3 dicembre 1979 - 

«E che non provoca più i grandi amori che suscitava negli artisti del secolo passato». Del resto, credeva che l'arte, dalla rivoluzione dadaista in poi, non fosse veramente arte, ma solo la documentazione di un'epoca in crisi di identità, «testimonianza di un momento di smarrimento»; e per quanto riguarda la scuola: «Una volta mi interessava insegnare. Lo trovavo piacevole. Ho smesso, per limiti d'età, prima del '68: la ritengo una fortuna. Il Sessantotto ha rappresentato una rivoluzione, ma inculturale; ha determinato un'involuzione, che ha fatto degenerare l'insegnamento e gli studi. Oggi l'università è in disgregazione».

Mario Praz, il Professore. L'Anglista sommo. Il critico d'arte e letterario, l'accademico, il viaggiatore, il collezionista, il grand connoisseur, lo scrittore per Alberto Arbasino il miglior saggista italiano del '900 lo «Sherlock Holmes della cultura», nemico delle specializzazioni e amico dell'eclettismo, eruditissimo, capace di scovare fili invisibili e costruire reti di conoscenza fra un autore inglese del Seicento e un ritrattista rinascimentale, fra Stendhal e Palladio, fra Brueghel e il Cavalier Marino, tra la gemmologia e l'araldica, in un infinito parallelo tra la letteratura e le arti visive, fra la parola scritta e quella dipinta. 

La carne, l'anima e la vita. Mario Praz l'Innommable. Maestro di curiosità intellettuale, autentico raffinato che non assumeva mai le arie del raffinato, conversatore estroso e docente rigoroso, lettore onnivoro capace di assorbire qualsiasi pagina su cui posasse gli occhi, un'esistenza lungo le vie tracciate dalla storia del gusto e del costume, Mario Praz in vita fu compreso, amato e studiato più all'estero, Inghilterra e Francia, che in Italia. Eccezioni, dettate da ammirazione e amicizia: Alberto Arbasino, Pietro Citati, Piero Buscaroli, Alvar González-Palacios e pochi altri.

E fu lo stesso, o peggio, post mortem. L'accademia l'ha sempre guardato di sbieco. E poco di lui si è scritto e ripubblicato di recente. 

«In effetti negli ultimi anni Mario Praz è progressivamente caduto in un cono d'ombra - ammette Andrea Cane, storico editor alla Mondadori e alla Rizzoli, curatore nel 2002 del Meridiano prazziano Bellezza e bizzarria - e di suoi libri in catalogo ce ne sono davvero pochi. Anche la critica se ne è dimenticata, a parte un paio di giovani studiosi. Eppure, anche se forse la sua scrittura oggi appare un po' datata, seppure più sciolta rispetto a quella di molti suoi contemporanei all'epoca più fortunati, e penso a Emilio Cecchi, i suoi saggi restano molto divertenti, magari non la Storia della letteratura inglese, che non si adotta più, ma i saggi sulla cultura del manierismo e del barocco, o sulle arti minori o particolarissimi, chessò, cito la ceroplastica, rimangono un punto di riferimento per gli esperti, oltre che molti piacevoli per il lettore comune».

Intellettuale non comune, «Professor Saturno» - genio, spirito e demonio caustico e discepolo di Michel de Montaigne, Mario Praz era ovviamente l'esatto contrario dell'aura satanica di cui la maldicenza e l'invidia lo avevano circonfuso: semmai era dolce, gentile, affettuoso racconta chi lo conobbe. 

Forse molto solo e malinconico. Motivo, anche, per cui si allestì un proprio mondo, la casa della vita: bronzi altisonanti, mobili dalle zampe belluine, cortinaggi di seta, ritratti gloriosi e conversation pieces, poltrone Bellangé, obiets d'art, trofei e serpentoni, stile Impero (il suo favorito) e gusto Bidermeier, il tutto scenografato con cura nell'appartamento romano prima ospitato nello storico palazzo Ricci in via Giulia Mario Praz, The Genius of via Giulia poi trasferito a palazzo Primoli in via Zanardelli, dopo la sua morte trasformato in museo e oggi così recita il sito internet e un numero di telefono muto - «temporaneamente chiuso».

Ora, temporaneamente, l'editoria torna a occuparsi, con una certa civetteria, del Professore. Ecco, raccolti sotto il titolo Misteri d'Italia (Nino Aragno editore, pagg. 58, euro 10; a cura di Giuseppe Balducci), tre articoli perduti e ritrovati che Mario Praz scrisse nel 1958 per Il Borghese, il settimanale fondato da Leo Longanesi e, in quel momento, diretto da Mario Tedeschi. Tre brevi testi tra l'elzeviro, il racconto, l'aneddoto e i ricordi che mettono sotto teca, a futuro disdoro, velleità, furberie, piccoli vizi e grandi pretese dell'Italia e della sua eterna Capitale. Come si dice: prosa d'arte. 

Si parla della insostenibile vanità dei sedicenti intellettuali di provincia (che, poi: non è il nostro secolare provincialismo ad averci fatto grandi nel mondo?), di alcuni ineliminabili vitia italiani (il parlare sempre di denaro, un certo bigottismo, e anche l'innato servilismo) e del peso, difficile da portare con dignità, della Bellezza della nostra arte e del nostro paesaggio.

È difficile amare Praz, ma più difficile detestarlo. Cose che Praz detestava: tutto ciò che sapeva di posa, di artificio, di snobismo; la fama che lo perseguitava e il film Gruppo di famiglia in un interno di Luchino Visconti, 1974, ispirato a lui e alla sua casa (non gli piacque affatto, anche se il Professore era interpretato da Burt Lancaster, e poi si vedevano che i quadri di scena erano falsi), l'arte contemporanea, la letteratura dopo Joyce.

Cose che Praz amava: il senso della misura, l'ironia, i calembours, il feticismo per gli oggetti d'arredamento, le rivelazioni del gusto neoclassico, il pettegolezzo colto e - soprattutto, appunto - la rara capacità di tessere quel complesso sistema, intricato e fruttuoso, di associazioni, di analogie, di accostamenti, sintesi di bizzarro e imprevedibile, grottesco e incongruo, che danno vita a nuovi sensi e nuove creazioni. E che si dice, ancora oggi, «prazzesco».

·        Massimiliano Fuksas.

Massimiliano Fuksas: «Da giovane contestatore fui ricevuto da Moro. La rivalità con Piano? Siamo come Coppi e Bartali». Paolo Conti su Il Corriere della Sera il 30 settembre 2022.

L’architetto: «Non parlo male di Roma, in questa città chi “se la tira” è cretino». «Su poliziotti e studenti Pasolini sbagliò analisi, io e lui giocammo a calcetto insieme» 

Il tavolo di lavoro romano di Massimiliano Fuksas è nel cuore di una fabbrica di architettura che ormai appare, nelle firme dei concorsi internazionali, solo con quel cognome di origine lituana, «Fuksas», senza più la parola «studio». La luce naturale irrompe nello spazio del palazzo cinquecentesco a san Paolo alla Regola.

C’è una foto iconica della sua vita. 1 marzo 1968, scontri a Valle Giulia alla facoltà di Architettura a Roma, lei a braccetto con Oreste Scalzone e Sergio Petruccioli. Ai tempi avrebbe mai creduto a un risultato elettorale come questo del 2022?

«No, ovviamente. Ma la penso come Longanesi, in Italia la rivoluzione è impossibile perché ci conosciamo tutti. Meloni post-fascista? Ma su... C’è stato un voto. Punto. Chi ha parlato di paura ha solo perso voti, la sinistra è polverizzata».

Lei era accanto a Scalzone, futuro Potere Operaio. Ha mai pensato che la sua vita avrebbe potuto prendere una strada diversa, pericolosa? «No. In quel periodo guardavamo tutto ciò che accadeva intorno a noi. Ma io amavo il grande movimento, il sogno era procedere verso il futuro su una marcia di Šostakóvič, non ho mai amato i gruppetti. Detesto la violenza, un uomo ammazzato mi fa orrore. Da una sofferenza non può derivare una gioia».

Quel giorno a Roma fu violento: scontri con la polizia, 148 feriti, 200 denunce. Tutto per tentare di rioccupare Architettura appena sgomberata.

«Volevamo riprenderci la nostra università, eravamo convinti che fosse l’inizio di una nuova era. Noi ragazzi viaggiavamo, io in autostop arrivai a Capo Nord senza una lira in tasca. Leggevamo letteratura straniera, eravamo diversissimi dai nostri genitori cosiddetti borghesi…. Dopo gli scontri ci ritrovammo davanti a palazzo Chigi. Incontrammo Marisa Rodano, poi Luciano Barca del Pci. Non l’ho mai raccontato ma Barca organizzò un incontro con Aldo Moro, ai tempi presidente del Consiglio. Con un gruppetto andammo a palazzo Chigi, un po’ arrogantelli... lui voleva capire cosa stesse accadendo. Ci ascoltò, disse poche parole serie e sagge. L’atteggiamento della polizia poi cambiò, e penso che quell’incontro ebbe il suo peso».

Pier Paolo Pasolini, è notissimo, si schierò con i poliziotti e contro di voi.

«Sbagliò l’analisi. Noi, l’ho detto, eravamo diversissimi dai nostri genitori. Molti di quei poliziotti erano legati al mondo del sottogoverno della Dc e da una stessa famiglia poteva uscire un poliziotto di destra o un operaio di sinistra. Con Pasolini ho giocato a calcetto a Monteverde Nuovo: lui all’ala, io con il 10 sulla maglia. Lui molto forte, io sempre un po’ regista. Ma basta col passato, parliamo di oggi...».

A cosa serve la buona architettura?

«A far vivere bene, a far incontrare le persone, a ridisegnare i loro rapporti. Da anni la crisi dei partiti e dei sindacati è evidente. Una rinascita della politica può avvenire solo dal basso, dalle città, dai territori. Bisogna guardare a sindaci come Beppe Sala a Milano, Dario Nardella a Firenze, Matteo Ricci a Pesaro, a presidenti di Regione come Massimiliano Fedriga in Friuli o Luca Zaia in Veneto».

Vogliamo parlare male di Roma oggi? Lo fanno tutti...

«No, io non parlo male di Roma soprattutto quando sono all’estero. Roma mal governata? Lo era anche nel Medioevo, nel ‘700, o anni fa. Le manca una classe dirigente e un ceto politico. Ha mille difficoltà: e magari anch’io ne faccio parte. Parlare male di Roma è inutile, banale».

Lei ha scelto di nuovo Roma dopo tanti anni passati a Parigi.

«Dopo la vittoria di Mitterrand nel 1981 venni chiamato a lavorare lì. La Francia, grazie a Jack Lang, scelse la strada che l’Italia non ha mai imboccato: convocare giovani e giovanissimi talenti per guardare al futuro, per progettarlo. Poi, alla fine degli anni ’90, decisi di tornare qui a Roma».

Perché, ripensandoci?

«Per porre fine al mio nomadismo. Un nonno ebreo lituano ma cittadino russo, la mia nascita in Lituania, le fughe della famiglia nel cuore dell’Europa, la mia crescita a Roma ma tanti spostamenti in Austria e in Germania con la nonna paterna. Volevo radicarmi, essere ciò che sono, un romano orgoglioso di esserlo. Da qui nasce la Nuvola all’Eur. Dovevo costruire nella mia città: lasciandomi alle spalle la geometria euclidea, mettendo a frutto gli studi sui frattali e la teoria del caos di Edward Norton Lorenz».

C’è un gioco a Roma sulla rivalità Nuvola di Fuksas- Auditorium di Renzo Piano...

«Troppo provinciale ricondurre tutto a due persone. Sembra la sfida Bartali-Coppi dove non si sa bene chi passò la borraccia a chi. La verità è che la competizione aiuta a imparare da altri ciò che tu non hai pensato».

Il marchio Fuksas significa anche Doriana Fuksas, sua moglie. Quanto c’è di lei nei progetti?

«Moltissimo, da anni. Lei mi ha vietato di calcolare da quanto dura la nostra storia ma si misura in decenni».

Confessi qualcosa su di lei...

«Doriana mi ha regalato il coraggio che non avevo. Nasco timidissimo, abituato alla difensiva, direi pauroso. Lei mi ha cambiato, mi ha dato forza. Contesta ancora una mia certa tendenza alla lamentazione, che lei attribuisce alle mie radici ebraiche. Siamo legatissimi».

Cosa è Roma, in un episodio?

«Nel periodo in cui non si riusciva a chiudere il cantiere della Nuvola, un giorno mi imbatto in un camioncino della Nettezza urbana che si blocca davanti a me. Si sporge l’autista, mi guarda e grida: “Architè, ma quanno la finimo ‘sta Nuvola?” Lui partecipava al dibattito della città sul progetto! Si fermò, mi offrì un caffè. Roma accoglie tutto e tutti, da millenni, dai principi ai delinquenti. Va rispettata per questa Storia immensa. Chiunque si senta importante a Roma, chiunque “se la tiri” è un cretino. E finisce ridicolizzato, a terra».

Lei adora la cucina romana e detesta gli chef stellati. Perché?

«Perché le trattorie romane, le pochissime rimaste, sono luoghi di verità, di gusto, di uguaglianza sociale, di radici nei sapori. Un giorno, invitato in uno di quei templi Michelin, mi hanno portato la carta delle acque. All’inizio ho chiesto, scherzando, un’acqua barricata annata 1972. Poi ho imposto una brocca riempita dal rubinetto. Siamo seri, no?».

·        Maurizio Cattelan.

Cattelan e l’arte di nascondersi (dietro una colonna). Pierluigi Panza su Il Corriere della Sera il 27 Novembre 2022.

Controverso, choccante, ma così timido. Ha iniziato come cameriere, poi lavandaio fino a fare l’operatore in obitorio. Alla costante ricerca di una via di fuga. E ripete: «Non sono un artista»

Come Alexander Portnoy nel romanzo di Philiph Roth, Maurizio Cattelan è alla costante ricerca di una via di fuga: «Io non sono un artista»; «Mi avevano detto che era una professione remunerativa e che avrei conosciuto un mucchio di ragazze, ma non è vero niente». È uno degli individui più timidi e malinconici che abbia conosciuto: si esclude da tutto ciò che lo riguarda. Quest’anno era tra i candidati all’Ambrogino d’oro a Milano, ma se lo sono «dimenticati»: avevano di meglio!

L o incontro una mattina in Biennale (il suo esordio a Venezia è nel 1993 con «Lavorare è un brutto mestiere») e ci facciamo un selfie davanti alla «Maschera di Breton» di René Iché. Lo incontro la stessa sera alla festa di Pinault e mi congeda in fretta per nascondersi dietro le colonne del chiostro dell’Isola di San Giorgio: siamo due timidi. È lui quello appeso, è lui quello nella bara, è lui la banana scocciata, lui il Wojtyla colpito dal meteorite de «La Nona ora» battuta nel 2001 da Christie’s per 886 mila dollari. Appassionato fin da piccolo di apparecchi radiotelevisivi, Càttelan, o in veneto Cattelàn (21 settembre 1960), incominciò come giardiniere e venditore di ninnoli religiosi in un emporio della parrocchia, licenziato perché disegnava baffi sulle statuette di Sant’Antonio, manco fosse Duchamp. Cameriere, lavandaio, antennista poi a pulire i cadaveri all’obitorio di Padova: «Forse è colpa di questo lavoro se quando penso a una scultura la immagino lontana, per certi versi già morta»: credo che «All», nove cadaveri di marmo coperti da lenzuola sia il suo capolavoro.

A 22 anni muore la madre e lui contribuisce a mantenere le sorelle minori. Ha aspirazioni da designer, ma è folgorato dall’arte dopo aver visto un autoritratto allo specchio di Pistoletto.

Così, nel 1989, alla Galleria Neon di Bologna espone il suo primo lavoretto: un cartello con scritto «Torno subito» (titolo dell’opera): è pura Die Kunst der Fuge. A furia di smanettare con pinze e saldatori, nel 1991, alla Galleria d’arte moderna espone la sua prima opera di successo. Si tratta di «Stadium», un lunghissimo tavolo da calciobalilla con due schiere di giocatori: i bianchi sono le riserve del Cesena e i neri gli operai senegalesi che lavoravano in Veneto. Ha già compreso che nell’età della finanziarizzazione del mondo l’arte è comunicazione spettacolarizzata, deve creare choc e turbare le coscienze. Ad arricchirsi saranno i galleristi.

Nel 1993 arriva la sua personale alla Galleria De Carlo, che consiste nel chiudere la galleria dal cui vetro s’intravvede a malapena un animaletto imbalsamato. È arte della fuga: già nel ’92, al Castello di Rivara aveva appeso a una finestra che dava sull’esterno una corda di lenzuoli annodati in un gesto simulato di evasione. Nel ’94 è alla Newburg Gallery di New York con «Warning! Enter at your own risk...», mostra di un solo giorno: un asinello chiuso in una stanza, chiaro richiamo a Joseph Beuys.

Da allora prende a giocare brutti scherzi ai potenti, come Kennedy («Now» del 2004), a se stesso («Spermini» del 1997, «Mini-me» del 1999, «La Rivoluzione siamo noi» del 2000), al suo gallerista attaccandolo al muro con lo scotch, ai cavalli(«Novecento» del 1997), agli asini simbolo di ignoranza («mi identifico»), a Hitler inginocchiato, fatto di resina, poliestere e capelli umani: nel maggio 2016 quest’opera viene battuta per 17,2 milioni di dollari («ma io ci ho guadagnato 50 mila euro»). Gioca ad avere un alter ego: è il curatore Massimiliano Gioni, che negli anni Novanta si spaccia per lui nelle interviste.

Cattelan abita tra Milano e New York, nel senso che se è a Milano risponde che è a New York e viceversa. Internazionale sì, ma al suo paese, manco a dirlo, nel 2011 lo battezzano «el mona» perché ha imbalsamato duemila colombi collocandoli sopra gli impianti dell’aria condizionata delle sale della Biennale.

Il primo caso a Milano lo crea nel 2004 per la Fondazione Trussardi, quando appende alla quercia di piazza XXIV Maggio tre figure di bambini in resina deliziosamente innocenti e a piedi scalzi. Franco De Benedetto, un muratore di 43 anni con cinque nipoti, nel caos di strepiti e proteste della folla che grida «via da Milano questi impiccati» prende la sua scala a pioli, la sistema e recide un ramo dov’è fissato un manichino. Poi precipita, viene trasportato in ospedale per «trauma cranico e contusioni» (seguirà causa giudiziaria). Il secondo caso è del 2010 con L.O.V.E. (Libertà, Odio, Vendetta, Eternità) il monumentale dito medio alzato nel centro di piazza Affari davanti alla Borsa: seguono varie ipotesi di rimozione.

Intanto si è fidanzato con la conduttrice televisiva italo-inglese Victoria Cabello che, parlando d’amore, in un’intervista a «Verissimo» afferma: «Se c’è un pirla nel raggio di 100 chilometri, io lo individuo e mi ci fidanzo». Lui? Impossibile. Questo ragazzo ha il naso lungo e il cervello fino, tanto che nel 2004 l’Università di Trento gli conferisce una laurea honoris causa in Sociologia. «Proprio a me — commenta — che sono stato due volte bocciato e poi ho fatto le serali». Del resto i professori non ci hanno mai preso: definirono Winckelmann, il più grande studioso d’arte che l’umanità abbia avuto, un «ragazzo vago e incostante». All’atto del conferimento Cattelan fa leggere un discorso presentandosi con un collare di gesso avendo avuto, o finto di avere, un incidente sugli sci il giorno prima: «A scuola sono stato un alunno terribile — racconta agli studenti —. In terza elementare insieme alla pagella mi hanno dato il libretto di lavoro: avevo passato così tanto tempo in corridoio che mi avevano assunto come bidello. Io, senza gli altri, non sono nessuno. Anche questo discorso l’ho scritto insieme a un amico, rubando qualche frase qua e là. È dai tempi della scuola che vado avanti così: la mia maestra si arrabbiava perché non avevo neanche la furbizia di copiare dagli studenti più bravi».

Per fuggire dall’arte, nel 2010 inventa con il fotografo Pierpaolo Ferrari la rivista «Toilet Paper», carta igienica. Ma la fuga non riesce: nel novembre 2011 la Mecca dell’arte, il Guggenheim di New York lo celebra con la retrospettiva «All»: 130 opere pendono dal soffitto del museo progettato da Frank Lloyd Wright. Chiude la mostra ed è la fine, decide di impagliarsi: «Ero infelice, anestetizzato. Ma alla fine è venuta la soluzione, ho visto la luce in fondo al tunnel: ritirarmi». Fuga definitiva? Ma no, figuriamoci: ritorna ancora e si chiude… in bagno! Nel 2016 espone un cesso: l’opera anti-Trump chiamata «America» consiste in un wc rivestito in oro a 18 carati utilizzabile dai visitatori del Guggenheim, poiché è esposto in un bagno del museo. Evacuare tra 18 carati non è per tutti e tutti si sparano un selfie dal gabinetto firmato. Nel 2022 ha esposto in Cina e nel 2023 andrà a Seul. «Poi basta impacchetto tutto»: eccome no!

Estratto dell'articolo di Dario Pappalardo per “la Repubblica” il 25 dicembre 2021. Dieci anni fa, decideva di scendere dalla giostra dell'arte contemporanea e di appendere le provocazioni al chiodo. Se si fa eccezione per il water dorato installato al Guggenheim o la banana attaccata con il nastro adesivo ad Art Basel, Maurizio Cattelan (Padova, 1960) ha più o meno mantenuto la promessa. Ma i giardinetti non sembrano troppo vicini. In questo momento l'Hangar Bicocca di Milano ospita la sua mostra Breath Ghosts Blind , aperta fino al 20 febbraio 2022 proprio come Last Judgement all'Ucca di Pechino. E ora l'artista pubblica Index (con Marta Papini e Michele Robecchi, a cura di Roberta Tenconi, Vicente Todolí e Fiammetta Griccioli, editore Marsilio), dove raccoglie vent' anni di conversazioni con più di 130 colleghi.

Cattelan, ha scelto di intervistare gli artisti perché è meglio intervistare che essere intervistati?

«È meglio essere in cattedra o essere interrogati? Vivo ogni intervista a cui devo rispondere come un interrogatorio in cui risulterò sicuramente colpevole, anche se non ho fatto niente. 

Intervisto gli artisti principalmente per curiosità. Mi piace sentirli parlare di sé e del proprio lavoro, del loro processo ideativo, di come elaborano un concetto e lo trasformano in opera, di che cosa leggono e cosa guardano.

È come esplorare un universo parallelo, in cui ogni cosa è leggermente diversa ma anche familiare. E poi ho sempre imparato di più dalle risposte degli altri che dalle mie». 

Nel suo libro ci sono anche interviste impossibili, come a Filippo Tommaso Marinetti, Domenico Gnoli e Francis Bacon. Che cosa la accomuna e che cosa la allontana da questi artisti?

«Io sono vivo, loro sono morti, a livello ontologico questa è sicuramente una gran differenza! Non hanno molto in comune neanche tra di loro, se non il medium della pittura, che li rende una volta di più diversi da me.

È interessante come hanno saputo declinare questo medium in modi totalmente differenti: chi ha cercato di superarlo, come Marinetti, chi è stato capace di stravolgerne i presupposti, come Bacon, chi di esaltarne il canone, come Gnoli. 

Tutti e tre hanno a loro modo cercato di fare qualcosa di diverso da ciò che li aveva preceduti con un unico medium. Non riesco a trovare molti punti in comune, e forse proprio per questo mi sono interessato a loro». (…) 

E oggi, invece, a cena con Damien Hirst o Jeff Koons?

«Rifiuto gentilmente l'invito di entrambi. Potendo scegliere vorrei andare a trovare Louise Bourgeois in uno dei suoi "Sunday, bloody Sundays" nella casa a Chelsea, al 347 West 20th Street. Ogni domenica pomeriggio, a partire dagli anni Settanta fino alla sua morte all'età di 98 anni, riceveva i giovani artisti che andavano a presentarle il proprio lavoro, faceva domande, li criticava. L'ingresso era aperto a tutti, dovevi solo portare il tuo lavoro e non avere il raffreddore». (…) 

C'è un'opera che non rifarebbe più?

«Ce n'è una lunga serie: ora non ho la lista con me e a memoria faccio fatica a elencarle, tendo a rimuoverle. Se mi guardo indietro, so di avere fatto tanti errori. Vorrei dire che ho imparato qualcosa nel farli e nel riconoscerli, ma non sono sicuro che sarebbe la verità».

Qual è la prossima che farà, se la farà?

«Avrà due gambe, due braccia, due occhi, due orecchie e una bocca e, se sono fortunato, con un soffio camminerà». 

Copio tre domande che lei nel libro fa al suo collega Francesco Vezzoli. Se lei fosse una sua opera, quale sarebbe?

«Dunque, non potrei essere uno scoiattolo, non ho tutti quei peli. Oggi non mi sento tanto un cavallo, ma in alcuni giorni potrei. Non ho mai voluto e mai vorrei essere il Papa, quindi... forse il cartello Torno subito».

E se fosse un film?

«Un film di formazione, come Apocalypse Now. Vedo la mia vita come un lungo viaggio verso l'ignoto: a ogni metro in più sul Mekong mi addentro nel mio inconscio, imparo qualcosa di me stesso che fino all'avamposto prima avevo ignorato. Non necessariamente questo mi migliora, anzi: il viaggio è sempre più spaventoso e oscuro, ma io divento sempre più consapevole». 

E se fosse un politico?

«Angela Merkel oggi. Mi sento pronto per una seconda pensione». 

Quindi, alla fine, si considera un pensionato dell'arte oppure no?

«Mi sono sempre considerato un ragioniere con l'hobby dell'arte».

·        Maurizio de Giovanni.

Ettore Mautone per “il Mattino” il 20 ottobre 2022.

«Era di notte, faceva un gran caldo, ero a letto e mi sono svegliato con un dolore sordo tra lo sterno e la scapola sinistra, come un grosso crampo. Mia moglie ha subito capito e chiamato il 118».

Era un infarto: a raccontare la sua esperienza di paziente è Maurizio de Giovanni, il noto scrittore partenopeo partecipa stamane a un incontro scientifico sul long Covid portando la sua testimonianza: «Sono stato ricoverato alcuni giorni al Cardarelli presso l'unità coronarica diretta da Ciro Mauro.

Bravissimi: mi hanno praticato un'angioplastica. Ora ho superato ma non posso fare a meno di pensare che tutto è avvenuto in pochi mesi, prima il Covid a febbraio e poi quell'insulto inaspettato al cuore, la notte del 13 luglio. A febbraio avevo avuto una tracheite e qualche decimo di febbre. I sintomi della variante Omicron, segni di infezione modesti anche grazie alle tre dosi di vaccino ma - mi hanno spiegato i medici - il virus conserva la capacità di infiammare i vasi sanguigni anche dopo la guarigione».

Long Covid e le conseguenze a breve e lungo termine dell'infezione dunque: a via Scaglione, presso la sede Damor, l'infettivologo Massimo Galli ed altri esperti di malattie cardiovascolari come Massimo Volpe primario alla Sapienza di Roma e presidente della Società italiana per la prevenzione cardiovascolare, Ugo Trama responsabile delle politiche del farmaco della Regione Campania e Vincenzo Santagada, assessore alla Salute del Comune, accendono i fari sull'evoluzione della pandemia nel prossimo futuro.

LE CAUSE «Le cause di quello che chiamiamo long Covid - spiega Massimo Galli - non sono ancora completamente chiarite. Le ipotesi più accreditate, relativamente all'aumento di incidenza di eventi cardiovascolari acuti come ictus e infarti, registrati peraltro sin dalle prime ondate epidemiche, suggeriscono il persistere di un'infiammazione. Il long covid - conclude Galli - è comunque una sindrome complessa e con diverse altre manifestazioni cliniche». Il percorso per l'individuazione di trattamenti specifici per il Long covid è ancora lungo ma una prima risposta arriva da uno studio condotto su 1.390 pazienti pubblicato su Pharmacological Research. Dimostra l'efficacia della terapia a base di L-Arginina e Vitamina C liposomiale, integratori utilizzati nelle fasi acute dell'epidemia anche al Cotugno.

Il trattamento agisce sulla protezione dei vasi sanguigni e si è rivelato capace di migliorare i sintomi del long Covid e anche di ridurre i tempi di ospedalizzazione.

La ricerca è stata coordinata da Bruno Trimarco docente emerito di malattie dell'apparato cardiovascolare alla Federico II, realizzata dal Consorzio Itme (International Translational Research and Medical Education), creato dalla Federico II in collaborazione con Gaetano Santulli, cardiologo esperto di endotelio dell'Albert Einstein Institute of Medicine di New York e il supporto di Damor, storica azienda del farmaco che ha sede a Napoli.

«Esistono prove concrete che la disfunzione endoteliale sia uno dei principali meccanismi alla base dello sviluppo della patologia grave da Covid - conclude Santulli - nel 2020, siamo stati i primi a dimostrare che manifestazioni sistemiche del Covid potevano essere spiegate da una disfunzione endoteliale preesistente correlata a ipertensione, diabete, tromboembolia e insufficienza renale, tutte presenti, in misura diversa, nei pazienti Covid».

·        Melissa P.: Melissa Panarello.

Gianmarco Aimi per rollingstone.it il 19 febbraio 2022.

“Melissa P. è finita”. Una sentenza senza appello, per di più emessa dall’editore che l’aveva aiutata a spiccare il volo con quello che si ricorda come uno dei casi letterari più clamorosi e fortunati nel panorama italiano. In realtà la scrittrice catanese, allora poco più che maggiorenne, ha continuato a credere nel proprio sogno di bambina e, passati vent’anni, la troviamo ancora in libreria con titoli pubblicati da case editrici importanti (Einaudi, Fandango, Mondadori e da ultima La Nave di Teseo) e addirittura è passata dall’altra parte della scrivania: è infatti impegnata a far crescere la sua PAL (Piccola Agenzia Letteraria) con la quale aiuta giovani esordienti «a non farsi fregare com’è successo a me».

Da tempo ha abbandonato il nome d’arte che ne occultava il cognome e, come la protagonista di 100 colpi di spazzola prima di andare a dormire – un esordio da tre milioni di copie vendute in tutto il mondo – Melissa Panarello dopo tanto peregrinare ha trovato l’amore con un altro scrittore, Matteo Trevisani, e persino la felicità: «Grazie a mio figlio Cosmo». E rispetto alle polemiche del 2003 per il suo romanzo erotico da minorenne, ci ha spiegato che ormai la sensibilità su certi temi è stata stravolta: «Oggi ti giudicano male se non parli di sesso!».

Melissa, intanto come va in questo strano periodo che stiamo vivendo?

Bene, anche se fino a ieri ero convinta di avere il Covid dopo averlo schivato varie volte. In realtà era solo influenza, quindi posso confermare che ancora esiste quella “normale”… 

Sei siciliana e da molti anni vivi a Roma. Cosa ti rimane della tua terra d’origine?

Sono nata a Catania e poi ho un po’ girovagato, negli ultimi tempi ho vissuto ad Aci Castello prima di andarmene definitivamente. La mia terra in sé non mi ha regalato tristezze, ma la mia storia famigliare e personale vissuta in quei luoghi mi riporta a ricordi che non mi abitano con gioia. Purtroppo, nonostante conservi un grande legame con certi aspetti come l’Etna o i Faraglioni, tutto quello che poi ho vissuto mi ha fatto diventare quella terra un nemico.

Odio e amore, come spiegavi già in interviste degli esordi?

Sì, è ancora presente questo sentimento contrastante.

Che bambina era Melissa?

Facevo cose diverse dai miei coetanei, ho iniziato a scrivere a 4 anni. Non ho pensato alla mia infanzia per tanto tempo, solo ora sto ricordando quel periodo, cioè da quando ho un bambino. Quando porto mio figlio al parco, per esempio, mi accorgo che non ci ero mai stata. Quindi ero una bambina atipica, molto poco spensierata. Avevo uno sguardo su me stessa e sulle cose, non dico da donna matura, ma sicuramente molto contrito. 

Il primo romanzo a 9 anni, ancora inedito. Insomma, eri piuttosto precoce.

Leggevo libri decisamente complessi per la mia età. Nei paesi in cui ho vissuto non c’erano librerie o i miei genitori non mi portavano, per cui gli unici libri che trovavo erano quelli al supermercato. E lì prendevo libri a caso. Infatti, le prime letture erano molto pesanti. Il primo è stato Madame Bovary di Flaubert, per cui è chiaro che il mio immaginario si è formato grazie alla lettura di volumi così potenti, ma anche grevi per una bambina di quell’età. 

I tuoi genitori come reagivano a questa passione?

Per mia madre era una perdita di tempo. Quando era arrabbiata, perché magari non avevo fatto qualcosa di importante, dava sempre la colpa ai libri. Mio padre invece non ci faceva molto caso. 

Hai avuto un rapporto conflittuale con i tuoi genitori?

Non erano per niente avvezzi alla letteratura, ma non lo definirei conflittuale come lo intendiamo normalmente. Era più un enorme conflitto esistenziale. Neanche dovuto alla diversità, ma proprio alla non appartenenza, che alla fine ha creato fratture molto più profonde della sola conflittualità.

Cos’hai trovato nella scrittura che non trovavi in altre attività?

Ho cominciato a scrivere a causa di questo conflitto esistenziale, di questo senso di non appartenenza. Sentivo il bisogno di trovare un luogo in cui potessi riposare, essere finalmente libera. L’unico che ho trovato è la scrittura, la pagina bianca da riempire. Era il mio sfogatoio. Ho iniziato per una reale necessità che era quella di andarmene via. Crescendo mi è nata la voglia di farlo come mestiere, ma i primi passi sono stati una via di fuga che affidavo totalmente alla scrittura. 

E a soli 17 anni esplode il caso Melissa P. con 100 colpi di spazzola prima di andare a dormire. Milioni di copie vendute e traduzioni in tutto il mondo. Obiettivo raggiunto?

L’ho scritto a 16 anni e avevo solo idea di andarmene di casa. Non è stato soltanto un modo per andare oltre alla vita che facevo, ma proprio per fuggire fisicamente. Il mio biglietto di sola andata. 

Ti è mai capitato di rileggerlo, in questi quasi vent’anni?

No, non lo rileggo. L’ultima volta è capitato molti anni fa. Ma anche se non lo riprendo in mano, ho ben presente chi era quella ragazzina che ha scritto il libro e mi sembra che non sia più la stessa persona di oggi. Non ci credo di essere io ad averlo scritto. Nello stesso tempo, però, provo un senso di grande protezione verso di lei, e anche un po’ di ammirazione. Quello che ho fatto con quel libro ora non riuscirei a farlo. Quella spinta feroce che avevo era possibile solo allora. Oggi, che sono felice e appagata, non riuscirei a scrivere qualcosa di così potente. 

In molti si sono interrogati se fosse autobiografico o meno.

È molto complicato spiegarlo. Ma non faccio più mistero che sia un libro totalmente autobiografico. All’inizio sono stata vaga per salvaguardare i miei genitori, che ci sarebbero potuti rimanere male. Ma quella storia è assolutamente autobiografica. Nello stesso tempo dico che non ero trasgressiva. Spesso si ha questa idea che il raccontare di sesso promiscuo sia trasgressivo, in realtà quello che trapela dal romanzo è la ricerca della protagonista, la stessa che ho fatto io, non del sesso fine a sé stesso o per mera provocazione verso gli altri. Come la protagonista, volevo un posto che mi accogliesse e per me il sesso era il veicolo per arrivare a persone e situazioni che mi potessero accogliere. In questo senso non sono mai stata trasgressiva, perché non avevo regole da trasgredire.

E come per la protagonista, alla fine è arrivato anche l’amore.

Il finale è stato molto criticato, più del contenuto del libro. E fu molto dibattuto anche in casa editrice dal mio editor, perché non era convinto da questo “happy end”. Io invece lo volevo fortemente, anche se nella vita reale non mi era ancora accaduto. In 100 colpi di spazzola questo è stato l’unico elemento di vera finzione. L’ho voluto inserire per dare una speranza a una ragazza, che fondamentalmente ero io stessa in quel momento. Non potevo permettere che tutto crollasse. 

Poi è crollato il rapporto con l’editore che ti aveva portato al successo. Elido Fazi, dopo il terzo libro insieme, dichiarò: “È finita. Ha fatto di testa sua? Suicidio”. Oltre a mettere in dubbio le tue qualità letterarie: “Che Melissa non sappia scrivere è un fatto certo”. Col tempo i rapporti si sono appianati?

Il mio rapporto con l’editor di allora, Simone Cartabellota, non si è mai rotto. Anzi, lo considero ancora uno dei miei più cari amici. Con Fazi sì, alcuni aspetti si sono appianati. Quando ci incontriamo abbiamo rapporti molto educati, ma certo tante cose che ha detto non le dimentico. Rispetto al passato, però, non prendo più provvedimenti, mettiamola così. 

Aveva aggiunto anche che eri “luciferina”.

Questa cosa l’ha detta per indicare una mia personalità distruttiva nei confronti della casa editrice. Ma a me sembra invece di aver molto costruito. Era una piccola realtà sconosciuta e grazie a me e al loro lavoro ha conosciuto un lustro che prima non aveva. Credo si riferisse al fatto era stata costretta a cambiare radicalmente. È normale, con un successo del genere fra le mani si fa tabula rasa e si cresce. Sono convinta l’abbia detto in un momento di rabbia, anche perché non è qualcosa che davvero mi appartiene. 

Guardandoti indietro, pensi di aver sbagliato qualcosa?

Sicuramente avevo un’arroganza più che tipica del successo tipica dell’età. Non avevo il senso di quello che mi stava succedendo. Non mi ero montata la testa, però l’arroganza dei 18-19 anni sì. Quindi mi muovevo con un atteggiamento un po’ ostile verso gli altri. Questo si è un po’ smorzato, visto che sono cresciuta. 

Anche il libro In nome dell’amore, sempre con Fazi, che è un vero atto di accusa alla Chiesa e una lettera aperta al cardinal Camillo Ruini, fa capire che caratterino avessi a soli 19 anni.

Sono sempre stata una persona molto idealista, fin da bambina. Quello che mi crea un senso di ingiustizia lo prendo di petto. Non mi interessa tanto sul piano personale, quanto su quello generale. Se vedo un’ingiustizia voglio intervenire, purtroppo ancora oggi non riesco a starmene zitta.

Il cardinal Ruini ti ha mai risposto?

Non ha risposto e giustamente. Neanch’io nei suoi panni lo avrei fatto. E poi allora non c’erano i social, passava tutto più in sordina. Ricordo poco di quel periodo perché ero già molto stanca, avevo sfornato tre libri e avevo solo 19 anni. Infatti, subito dopo ho fatto un viaggio di sei mesi in Sudamerica per ritrovare le redini di me stessa. 

Hai un rapporto con la fede?

Quello proprio no, semmai con la spiritualità. Sono una persona spirituale, perché non credo che le cose siano solo materia, ma che ci sia diffuso qualcosa di più. Non sono materialista. Non mi ritengo atea o credente, non so cosa sono, però mi faccio tante domande e quando te le fai sei legato a una forma di spiritualità. 

Quelle ingerenze della Chiesa sulla società le vedi ancora o è cambiato qualcosa?

Qualcosa è cambiato, anche se sono convinta che la cultura cattolica sia ormai entrata nella cultura laica e che scindere i due aspetti sia impossibile. Per questo tante scelte politiche non sono per pressione attiva della Chiesa, ma per una pressione culturale che abbiamo da millenni. Con l’ultimo papato di Francesco tanto è migliorato rispetto ai predecessori e sento meno ingerenza politica. 

Nel tuo periodo di grande successo, ricordi di aver detto dei “no” importanti?

Purtroppo, sono stata molto sciocca con il denaro. Ho fatto scelte sbagliatissime da questo punto di vista. Quindi, con il senno di poi, non avrei detto “sì” a certe proposte e sicuramente avrei guardato molto meglio alle mie finanze facendo le pulci a chi se ne è approfittato, e di parecchio. 

Oggi una donna che scrive di sesso è ancora malvista?

Ma figurati, oggi ti giudicano male se non parli di sesso! Ma come, non la dai in giro? È diventato persino eccessivo come atteggiamento. Come se facesse piacere alle donne e alla società il fatto di essere rappresentate come “cattive”. E si dà per scontato che se una donna fa sesso è una “cattiva ragazza”. Per cui ti devi rappresentare come quella stronza.

Come te lo spieghi?

C’è un ramo del femminismo che vuole, anche giustamente, che alle donne sia data possibilità di rappresentarsi stronze come gli uomini e non conformi all’idea che si ha di loro, ma perché devi farlo per forza se non la sei? Io venivo definita trasgressiva e mi sono sgolata per dire che non lo ero affatto. Oggi, invece, sento in giro poca sincerità e grande voglia di dimostrare di essere o non essere qualcosa. Ma credo che questo faccia male all’emancipazione, sia maschile che femminile. 

Nell’ambiente degli scrittori hai suscitato più invidia o ammirazione?

Intanto, con uno scrittore ci ho fatto un figlio, sono andata oltre. Ho tantissimi amici scrittori di grande successo, come Giulia Caminito o Nadia Terranova. E poi ho aperto un’agenzia letteraria e aiuto gli emergenti proprio perché per me gli scrittori non sono nemici o avversari. Non mi sono mai sentita migliore o peggiore, per me proprio non c’è competizione. 

L’ultimo tuo sforzo letterario è del 2019, Il primo dolore con La Nave di Teseo. È quello che si può definire il libro della maturità?

Alcuni hanno fatto confusione, pensando che quel libro l’avessi scritto mentre ero in attesa di mio figlio. In realtà è nato due anni prima di rimanere incinta, quando ero insieme a un’altra persona e a un bambino neanche pensavo, anzi non lo volevo proprio. Poi quel libro è stato magico. Quando stava per uscire ho scoperto di essere in attesa e si è aperta una porta che tenevo chiusa. Può essere il libro della maturità perché è l’ultimo, ma il prossimo lo sarà ancora di più fino al libro della vecchiaia assoluta quando avrò ottant’anni, speriamo. 

Quanto ti ha cambiata avere un figlio?

Ha dato un senso alla mia vita che prima non aveva. Mi ha fatto capire per la prima volta cosa significa essere felici e non mi sembra poco. Spesso da altre donne sento dire che un figlio non ti completa, che per essere una donna intera non devi averne. Per me non è stato così, mi sento molto più completa e con uno scopo altro, che non siano solo la soddisfazione dei miei desideri e delle ambizioni. Prima ero sempre scontenta, oggi non lo sono più. 

E adesso ti ritrovi anche dall’altra parte della scrivania con PAL (Piccola Agenzia Letteraria). Com’è nato questo nuovo progetto?

Dalla necessità di dare a chi non ce l’ha le possibilità che io non ho avuto. Cioè di essere guidati da una persona senza interessi torbidi a entrare nel mondo editoriale con un po’ di naturalezza. È partita come agenzia per scrittori esordienti, giovani uomini o donne che oggi spesso non sanno come fare per iniziare, non sanno a chi mandare i loro scritti, non ricevono risposte o vengono fregati. Mancava questa figura rassicurante per chi vuole affacciarsi all’editoria. E poi, probabilmente, ho voluto proteggere la ragazzina che sono stata, chiudendo un cerchio, come se questo impegno potesse riscattarmi. Alla fine, si sono uniti anche scrittori e scrittrici non esordienti. 

C’è qualche esordiente di PAL che ti senti di consigliare?

A breve uscirà un libro per Fandango molto molto bello, di un giovanissimo scrittore abruzzese che si chiama Riccardo D’Aquila e ci punto molto. Così come su Noemi De Lisi, una giovane promessa palermitana che non aveva ancora pubblicato e possiede una voce davvero originale. Ma non farmi dire di più, che poi l’ufficio stampa mi sgrida perché anticipo troppo. 

A un certo punto nella tua vita, oltre alla letteratura, sono entrati anche l’astrologia e i tarocchi. Non è che alla fine un po’ “luciferina” lo sei?

Ma no! I tarocchi non sono un gioco, però li ho sempre praticati nel tempo perso.

Invece l’astrologia l’hai definita “la psicologia applicata alle stelle”.

Ritengo che tutto ciò che racconta l’essere umano alla fine è letteratura. Per cui leggere un oroscopo personale, non le previsioni generiche dei giornali, non è che un altro modo di leggere noi stessi. E tutti vogliamo che qualcuno ci parli di noi. Le stelle questo lo fanno, che tu ci creda o meno. È un racconto mitologico che diventa in qualche modo letteratura. Non è importante avere fede, è più importante credere nelle storie. Tutto qui.

Ho visto su YouTube nel canale Teledurruti, la televisione monolocale dello scrittore Fulvio Abbate, che un giorno gli hai fatto delle previsioni sul futuro in base alla sua data di nascita.

Si possono fare e hanno una loro valenza. Sul tema ho una rubrica sul settimanale Grazia da oltre dieci anni. Riconosco un valore nelle previsioni sul segno zodiacale. Certo che l’astrologia non si basa solo quello, ma su molto di più. Ma tutti si concentrano sull’aspetto delle previsioni. 

Non è che hai accettato l’intervista controllando la mia data di nascita?

(Ride) No no, lo facevo in passato quando avevo più tempo a disposizione, oggi non mi capita più.

Per caso le stelle parlano anche di questa pandemia?

Qualcosa ho notato e mi sono confrontata con la mia maestra astrologa. Quando è scoppiata la pandemia eravamo sinceramente curiose di capire se nel cielo fosse successo un movimento che potesse prevederla. Oggi non lo guardiamo più come in passato quando si annunciavano le pestilenze. Però abbiamo notato una congiunzione che non avveniva dall’ultima epidemia, quella di Giove con Plutone. E si è ripetuta spesso nelle epidemie e nelle pandemie più conosciute. Ci ha fatto riflettere sulla funzione di questi due pianeti. 

Melissa, va bene non fare previsioni, ma ora sono curioso di sapere se le stelle dicono che ne usciremo…

È difficile fare previsioni, ma direi di sì. I due pianeti si stanno sempre più allontanando e, affidandoci a questi due, probabilmente ci aspettano tempi migliori. 

Dal tuo esordio sono passati quasi vent’anni e, nonostante le critiche e le polemiche del passato, sei ancora nel mondo dell’editoria ad alti livelli. Ma te la immagini Melissa P. da anziana?

Oggi mi vedo molto cambiata, anche fisicamente. A volte sono ostile rispetto a questa immagine, però non mi preoccupa il futuro nel senso del decadimento. So che ci sarà, come dicono gli anziani: “la vecchiaia è una brutta bestia”. Ma non me lo chiedo ancora come sarò, quando succederà.

·        Michel Houellebecq.

Gli Interventi di Houellebecq per far luce sul mondo contemporaneo. Interventi, l'ultimo libro di Houellebecq edito in Italia dalla Nave di Teseo, è un raccoglitore di alcuni tra i più interessanti scritti del noto scrittore francese. Federico Giuliani il 23 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Dalle digressioni sull'arte contemporanea all'invettiva contro il poeta e sceneggiatore francese Jacques Prévert, "uno di cui s'imparano le poesie a scuola" ma che viene definito "imbecille". Dall'elogio a Donald Trump, "un buon presidente", al rimedio contro la "spossatezza d'essere", passando attraverso un'analisi del cinema novecentesco. E ancora, i "colloqui" con molteplici personaggi e il riferimento a Emmanuel Carrere e Neil Young. A prima vista può sembrare un insieme di riflessioni scoordinate tra loro e riunite alla rinfusa. Interventi, l'ultimo libro di Michel Houellebecq, edito in Italia da La Nave di Teseo, è invece un raccoglitore di alcuni tra i più interessanti scritti del noto scrittore francese. Interventi, appunto, che spaziano attraverso svariati temi ma che sono uniti da un minimo comune denominatore: l'attenzione – sia pur in modo corrosivo, controcorrente e dissacrante, tipica di Houellebecq – al mondo in cui viviamo. Un mondo, quello odierno, dove la vita delle persone è scandita da tecnologia e conformismo. 

Gli "Interventi" di Houellebecq

"Anche se non voglio essere un "artista impegnato", ho cercato in questi testi di persuadere i miei lettori della validità dei miei punti di vista, qualche volta sul piano politico, ma più spesso su diversi "temi sociali" e sul dibattito letterario", ha spiegato Houellebecq. L'autore ha quindi sottolineato che con questo libro non promette assolutamente di "smetterla di pensare" ma "almeno di smetterla di comunicare i miei pensieri e le mie opinioni, tranne in eventuali casi di grave emergenza morale".

Il volume, uscito in Italia lo scorso 5 ottobre, conta 480 pagine. Si apre con il testo "Jacques Prévert è un imbecille" e si chiude con "Il caso Vincent Lambert non sarebbe dovuto accadere". "Ho cercato di classificare questi "interventi" in ordine cronologico, per quanto ricordassi delle date. L’esistenza almeno apparente del tempo è sempre stata una grande fonte di fastidio per me; ma ci siamo abituati a vedere le cose in questi termini. Per questa volta, quindi, mi adatto", ha aggiunto Houellebecq.

I temi trattati da Houllebecq

Nel libro si parla di "Emmanuel Carrère e il problema del bene", di "Donald Trump è un buon presidente", in uno scritto apparso su Harper's Magazine nel gennaio 2019, e di Neil Young con le sue magnifiche canzoni e il suo percorso musicale che ha qualcosa di maniaco-depressivo. Tra i colloqui spicca quello con lo scrittore e giornalista francese Christian Authier. Troviamo inoltre anche un elogio del cinema muto, "La questione pedofilia" e "Un rimedio alla spossatezza dell'essere". Mentre in "Ho letto per tutta la vita" Houellebecq rivela che a dieci anni si è ritrovato a leggere "Graziella" di Alphonse de Lamartine, e in "Sono normale. Scrittore normale" ricorda la sua prima raccolta di poesie "La ricerca della felicità" e il premio Tristan Tzara.

Curiosità personali sull'autore, dunque, ma anche commenti e analisi a tutto tondo sul presente. Usciti su riviste e giornali francesi, gli interventi stiamo parlando di testi e colloqui inediti in Italia. L'autore de "Le particelle elementari", di "Sottomissione" e di "Annientare" ci racconta, come ha sempre fatto nei suoi libri, il mondo in cui viviamo, ci parla delle letture e visioni che lo raccontano. Con il suo sguardo di osservatore implacabile, lo scrittore e poeta riesce a mettere in moto pensieri che riguardano tutti noi anche attraverso le occasioni più imprevedibili, contingenti e personali.

"Contrariamente alla maggioranza delle persone, non temo la morte, anzi, invecchiando riscopro la mia giovinezza, a lungo dimenticata, e ogni tanto, quando le cose vanno male, mi rifugio comodamente nel mio lavoro. I miei libri mi garantiscono già una forma d’immortalità", ha dichiarato Houllebecq. I lettori, con "Interventi", potranno invece scoprire uno dei lati più nascosti dell'autore francese.

Noi, illusi di essere dèi saremo solo cloni senza più l'ombelico. Michel Houellebecq delinea il nostro futuro: ci resta soltanto una "Consolazione tecnica". Michel Houellebecq il 5 ottobre 2022 su Il Giornale.

Io non mi piaccio. Provo per me solo un briciolo di simpatia, e ancor meno stima; di più, la mia persona non m'interessa molto. Conosco da tempo le mie principali caratteristiche, e ho finito per provarne disgusto. Da adolescente, ancora giovane uomo, parlavo di me, pensavo a me, ero come ricolmo della mia stessa persona; ora non è più così. Mi sono estraniato dai miei pensieri, e la sola prospettiva di dover raccontare un episodio personale mi fa sprofondare in una noia vicina alla catalessi. Qualora vi sia assolutamente obbligato, mento.

Eppure, paradossalmente, non mi sono mai pentito di essermi riprodotto. Si può anche dire che amo mio figlio, e che lo amo ancora di più ogni volta che riconosco in lui una traccia dei miei medesimi difetti. Li vedo manifestarsi nel corso del tempo con un implacabile determinismo, e ne sono felice. Godo senza il minimo pudore nel vedere ripetersi, e di conseguenza perpetuarsi, caratteristiche personali che non hanno assolutamente nulla di apprezzabile, caratteristiche che risultano abbastanza spregevoli; e che, in realtà, non hanno altro merito se non quello di essere le mie. Peraltro, non sono esattamente le mie; di alcune mi rendo conto che sono ricalcate tali e quali sulla personalità di mio padre, quello stronzo fatto e finito; cosa che, stranamente, non toglie nulla alla mia gioia. La quale è qualcosa di più dell'egoismo; qualcosa di più profondo e indiscutibile. Come un volume è qualcosa di più della sua proiezione su una superficie piana; o come un corpo vivente è qualcosa di più della sua ombra.

Ciò che al contrario mi rattrista, in mio figlio, è il fatto di vederlo mettere in risalto (influsso della madre? cambiamento dei tempi? puro individualismo?) i tratti di una personalità autonoma, nella quale io non mi riconosco affatto, che mi rimane estranea. Lungi dal meravigliarmene, mi rendo conto che lascerò soltanto un'immagine incompleta e indebolita di me stesso; nel giro di pochi secondi, avverto più nettamente l'odore della morte. E posso confermarlo: la morte puzza.

La filosofia occidentale favorisce poco la manifestazione di sentimenti del genere; sono sentimenti che non lasciano il minimo spazio al progresso, alla libertà, all'individuazione, al divenire; che s'indirizzano unicamente all'eterna, imbecille ripetizione dell'uguale. Per giunta, non hanno nulla di originale; sono condivisi dalla quasi totalità dell'umanità, nonché dalla maggior parte del regno animale; non sono nient'altro che la memoria sempre attiva di un istinto biologico dominante. La filosofia occidentale è un lento, paziente e crudele dispositivo di ammaestramento volto a convincerci di alcune idee del tutto false. La prima è che dobbiamo rispettare gli altri perché sono differenti da noi; la seconda è che abbiamo qualcosa da guadagnare dalla morte.

Oggi, per effetto della tecnologia occidentale, questa vernice di convenienze si sta rapidamente scrostando. Naturalmente, io mi farò clonare appena possibile; naturalmente, tutti si faranno clonare appena possibile. Andrò alle Bahamas, in Nuova Zelanda o alle Isole Cayman; pagherò il prezzo necessario (né gli imperativi etici né gli imperativi finanziari hanno mai pesato molto, in confronto a quelli della riproduzione). Avrò probabilmente due o tre cloni, come si hanno due o tre figli; tra le cui nascite rispetterò un adeguato intervallo (né troppo vicini né troppo lontani); uomo ormai maturo, mi comporterò da padre responsabile. Assicurerò ai miei cloni una buona educazione; e alla fine morirò. Morirò senza piacere, poiché non desidero morire. Tuttavia, fino a prova contraria, vi sono obbligato. Tramite i miei cloni, avrò raggiunto una certa forma di sopravvivenza per nulla sufficiente, ma comunque superiore a quella che mi avrebbero garantito dei figli. È il massimo che la tecnologia occidentale possa offrirmi, sino a oggi.

Nel momento in cui scrivo queste righe, mi è impossibile prevedere se i miei cloni nasceranno fuori dal grembo della madre. Ciò che al profano sembra tecnicamente semplice (gli scambi nutritivi attraverso la placenta comportano a priori un minor mistero rispetto all'atto della fecondazione) si rivela in realtà l'elemento più difficile da riprodurre. Nel caso in cui la tecnica risultasse abbastanza progredita, i miei futuri figli, i miei cloni, vivranno l'inizio della loro esistenza dentro un barattolo di vetro; e questo mi rattrista un po'. Mi piace la fica delle donne, sono felice quando penetro nel loro ventre, nella morbidezza elastica della loro vagina. Capisco le ragioni della sicurezza, gli imperativi tecnici; capisco le ragioni che condurranno progressivamente a una gestazione in vitro; mi concedo, in merito, solo una leggera manifestazione di nostalgia. I miei piccoli cari, concepiti così lontano da lei, sentiranno ancora il gusto della fica? Lo spero per loro, lo spero con tutto il cuore. Esistono molte gioie a questo mondo, ma pochi piaceri e pochissimi che non procurino alcun male. Fine della parentesi umanista.

Se devono svilupparsi dentro un barattolo, i miei cloni nasceranno naturalmente senza ombelico. Non so chi abbia usato per la prima volta in senso spregiativo l'espressione littérature nombriliste, ma so che questo banale cliché non mi è mai piaciuto. Quale sarebbe l'interesse di una letteratura che pretendesse di parlare dell'umanità escludendo ogni considerazione personale? Eh? Gli esseri umani sono molto più simili tra loro di quanto si pensi, nelle loro comiche pretese di essere dei se stessi singoli; è molto più facile pensare di raggiungere l'universale parlando di sé. E qui scatta un secondo paradosso: parlare di sé è un'attività fastidiosa, persino ripugnante; scrivere di sé è, in letteratura, la sola cosa che valga, a tal punto che classicamente e correttamente si commisura il valore dei libri alla capacità di coinvolgimento personale del loro autore. È grottesco, se si vuole, è anche di un'impudenza folle, ma è così.

Scrivendo queste righe, sto effettivamente, e concretamente, contemplando il mio ombelico. Di solito ci penso di rado, ed è molto meglio. Questa rientranza della carne reca in sé, con tutta evidenza, il segno di un taglio, di un nodo effettuato in modo frettoloso; è il ricordo di un colpo di forbici attraverso il quale sono stato, senza indugio, proiettato nel mondo; ed esortato a sbrigarmela da solo. E, proprio come me, nemmeno voi sfuggirete a questo ricordo; da vecchi, anche molto vecchi, conserverete intatta in mezzo al ventre la traccia di quel taglio. Da quel buco mal chiuso, i vostri organi più interni potranno in ogni momento fuoriuscire e andare a marcire nell'atmosfera. Potrete in ogni momento svuotarvi delle vostre budella, sotto il sole; e crepare come un pesce finito da un colpo di stivale in piena spina dorsale. Non sarete né il primo né il più illustre. Ricordate le parole del poeta: come un pesce morto / finito a pedate.

Farete presto la stessa fine, figli senza importanza. Sarete come dèi e non sarà affatto sufficiente. I vostri cloni non avranno ombelico, ma avranno una littérature nombriliste. Anche voi sarete nombrilistes; sarete mortali. Il vostro ombelico si coprirà di grasso, e sarà detto tutto. Dopodiché vi si getterà della terra in faccia. Traduzione di Sergio Arecco. 2022 La nave di Teseo editore, Milano

Secondo Michel Houellebecq gli edifici di oggi sono corsie dell’ipermercato sociale. MICHEL HOUELLEBECQ su Il Domani il 04 ottobre 2022

L’architettura contemporanea si basa sulla formula: «Ciò che è funzionale è necessariamente bello». Partito preso sorprendente, in quanto lo spettacolo della natura contraddice di continuo quel postulato

Dovendo consentire una circolazione rapida degli individui e delle merci, tende a ridurre lo spazio alla sua dimensione puramente geometrica

L’architettura contemporanea tende dunque a dotarsi di un programma semplice, così riassumibile: costruire le corsie dell’ipermercato sociale

Momenti di trascurabile poesia. Michel houellebecq il 4 ottobre 2022 su La Repubblica.

Il poliziotto con lo scudo su cui è disegnato il marchio “ss”, manifesto simbolo del ’68 francese 

Pubblichiamo un estratto dalla nuova raccolta di saggi dello scrittore francese. Un ragionamento sul tempo sospeso, dal Sessantotto alla tecnologia

Nel maggio 1968, avevo dieci anni. Giocavo alle biglie, leggevo Pif le Chien; la bella vita. Degli "avvenimenti del '68" serbo un unico ricordo, anche se abbastanza vivo. Mio cugino Jean-Pierre frequentava all'epoca la prima liceo a Le Raincy. Il liceo mi dava l'idea, allora (l'esperienza che ne ebbi in seguito confermò peraltro quella mia prima intuizione, con l'aggiunta, ahimè, di una dolorosa dimensione sessuale), di un posto vasto e terribile dove ragazzi più avanti di me in età studiavano con accanimento materie difficili, onde assicurarsi un futuro professionale.

Dear Prudence. Houellebecq è tornato ed è diventato buono. Dario Ronzoni su L'Inkiesta il 5 Gennaio 2022.

Nonostante il cinismo che innerva tutte le sue opere, “Annientare” (che uscirà per la Nave di Teseo) lascia un filo di speranza e ammorbidisce i toni (certo, senza rinunciare alla diagnosi della morte imminente dell’Occidente) 

C’è qualcosa che funziona nell’universo di Michel Houellebecq. In “Annientare”, il suo ultimo romanzo, che sarà pubblicato da La Nave di Teseo in contemporanea con l’uscita francese per Flammarion, a dispetto del titolo emerge una speranza. C’è una luce, anche se fioca, che ammorbidisce la cupezza del romanzo, ed – attenzione – l’amore, in una sua forma disperata, certo. Rassegnata, anche.

Il libro è ambientato nella Francia del 2026. Il mondo è scosso da una serie di attentati misteriosi e sofisticatissimi, con obiettivi enigmatici e svolti usando tecnologie iper-avanzate. Nel frattempo Paul, un funzionario del ministero dell’Economia, stringe amicizia con Bruno, il ministro (alter ego, forse, di Bruno Le Maire, amico dello scrittore) e si preparano alle elezioni, dove il candidato sarà un personaggio proveniente dal mondo dello spettacolo, un certo Sarfati. Il presidente, che richiama Emmanuel Macron, ha da tempo cambiato politica economica, investendo nell’industria e nel rapporto con la Germania. L’Unione Europea è debole, l’America ha già perso la sua gara contro la Cina e tutto l’Occidente scivola nel declino – questo sì tema amato da Houellebecq: «a Paul sembrava evidente che l’intero sistema sarebbe andato incontro a un gigantesco collasso, di cui per ora non era ancora possibile prevedere la data, né le modalità». 

Il resto del romanzo è il racconto delle vicende private di Paul. Sia quelle con la moglie Prudence, donna che aveva amato e che da tempo era diventata poco più di una coinquilina, un crollo dovuto a varie ragioni – dal veganesimo di lei al nuovo appartamento: «un miglioramento delle condizioni di vita va spesso di pari passo con un deterioramento delle ragioni di vita, e in particolare della vita di coppia» – sia quelle con la famiglia di origine. Il padre, un ex agente segreto, finisce in coma e questo lo obbliga a riprendere i contatti con la sorella Cécile, cattolica e destrorsa e il debole fratello Aurélien, sposato a una gretta giornalista che, per umiliarlo, aveva deciso di fare un figlio con inseminazione artificiale, scegliendo un donatore nero.

Da qui si snoda il racconto della degenza in un istituto della campagna francese, che diventa occasione di riflessioni e pensieri sullo stato della società, sulla salute degli anziani, insieme a sferzate sul ruolo degli intellettuali, ormai schiavi del consenso della folla e su un mondo che si è consegnato a un’ideologia di nichilismo radicale. È, si direbbe, il solito Houellebecq. Solo che rispetto a “Sottomissione” nemmeno l’Islam presenta una forza vitale sufficiente per reggere la società e, a sorpresa, di fronte alla cupezza depressa di “Serotonina” stavolta una risposta esiste, per quanto modesta e fragile e forse illusoria. Nell’affrontare le disgrazie private gli incubi che lo accompagnano Paul ritrova un’alleata nella moglie Prudence (cui del resto è dedicata la copertina), attraverso un disgelo lento e progressivo, seguito da un risveglio dei corpi. È lo spirito femminile, che si ritrova in Madeleine, la compagna del padre in coma e poi immobilizzato, e nella sorella Cécile.

Il punto di vista del romanzo è maschile, i protagonisti sono uomini, ma a essere decisive sono le donne, di cui Houellebecq sottolinea ed elogia di continuo la propensione alla cura, il coraggio, la tempestività, la capacità di cogliere segni invisibili agli altri, a sapere cosa fare nei momenti di difficoltà. Con la preghiera o la compagnia o il sesso ognuna di loro – e Prudence soprattutto, nel finale – procede alla sua opera di salvazione, improntata a formule antichissime, pre-cristiane. Costituiscono per Houellebecq, insomma, un momento di respiro, una forma di consolazione sufficiente di fronte alla morte e alla fine.

Fabrizio Sinisi su Il Domani il 05 gennaio 2022. L’ultimo romanzo dell’autore segna uno scarto sostanziale rispetto ai precedenti: al centro del racconto ci sono le convenzioni di una famiglia borghese, non più il desiderio. Annientare è una lunga meditazione sul finire, nostro e del mondo.

Annientare è, rispetto ai precedenti di Houellebecq, un libro molto più affabile, più cordiale, per certi versi più ingenuo. Al centro del suo racconto c’è una famiglia tradizionale.

Se però Annientare segna uno scarto sostanziale nella meditazione di Houellebecq, non è (soltanto) perché decide qui di dedicarsi alle convenzioni del romanzo borghese e dell’epopea familiare: piuttosto perché Annientare è il primo libro di Houellebecq che non parli di Desiderio.

La società parla ora un linguaggio incomprensibile. Il mondo procede in un discorso inaccessibile, rimbalza ogni tentativo di decifrarlo. La modernità ha compiuto un salto di specie, e ha bruciato i ponti.

FABRIZIO SINISI. Drammaturgo. Drammaturgo, poeta e scrittore. Dal 2010 è dramaturgo stabile della Compagnia Lombardi-Tiezzi di Firenze e docente presso il Teatro Laboratorio della Toscana. Dal 2017 è drammaturgo presso il Teatro Stabile di Brescia. Collabora con i maggiori teatri italiani.

“Annientare”, un estratto dal nuovo romanzo di Michel Houellebecq. Il Domani il 06 gennaio 2022.

A livello razionale, Paul sa di essere nei locali del ministero, perché ha appena lasciato l’ufficio di Bruno; eppure non riconosce le pareti dell’ascensore. Sono di un metallo opaco e consumato, e quando schiaccia il tasto 0 cominciano a vibrare leggermente.

Poi l’ascensore si blocca al livello 0 e le porte si spalancano. Paul è salvo, o almeno così crede, ma quando esce dalla cabina si rende conto che si trova in un luogo sconosciuto.

Il messaggio era di Madeleine, la compagna di suo padre. Gli aveva telefonato alle nove del mattino, adesso erano da poco passate le undici. La registrazione era a tratti incomprensibile. Paul riuscì comunque ad afferrare che suo padre era in coma.

Il profeta prestigiatore. Il nuovo libro di Houellebecq è la radiografia della paura del nostro tempo. Stefano Pistolini su L'Inkiesta il 3 Gennaio 2022.

Il romanzo Annientare viene presentato come distopico, ma sembra una cronaca del giorno dopo, ambientata in una Francia del 2027 somiglia assai a quella del 2022. I personaggi sono disorientati, come noi, e cercano tutti una quiete sempre più difficile da raggiungere.

Uscito dagli effetti delle pillole di sostegno che fanno di “Serotonina” un notevole trattato pseudoscientifico sulla depressione, Michel Houellebecq sorprende nuovamente il mercato e la platea dei lettori con un romanzo torrenziale, “Annientare” (La Nave di Teseo, 743 pagine, 23 euro, in libreria dal 7 gennaio), che ha il vezzo di volerci far credere che potrebbe essere il suo canto del cigno – ma di questo possiamo tranquillamente dubitare. 

L’intero procedimento di promozione di “Annientare” è una commedia trash sul come oggi l’industria culturale si rappresenti, attraverso interviste negate (ma poi qualcuna concessa), severi embarghi ai recensori, anticipazioni micragnose (70 pagine spedite qua e là per stuzzicare la curiosità), fino all’irruzione della perfida Rete, dove copie-pirata in pdf del romanzo hanno preso a circolare vorticosamente, provocando le ire dell’editore Flammarion e lo scatenamento dei suoi legali – o qualcosa del genere, perché intanto il talk of the town attorno al libro cresceva esponenzialmente e c’è da scommettere che gli effetti provocheranno dei gran brindisi con ottimi champagne. 

Dunque Houellebecq si conferma un fuoriclasse del pop e delle sue regole, sebbene si affanni a ricordarci quanto la cosa l’affatichi e lo costringa a sottoporsi al martirio promozionale che segue il processo creativo. Ma niente di tutto questo conta granché, perché in realtà lui gioca come il gatto col topo (la curiosità dei media, l’ingenuità del pubblico) e vende a iosa la sua merce che d’altronde, come sempre, è di valore.

Perché se è nel suo stile interpretare il disincantato narratore mercenario, il poeta dei compromessi e l’orchestratore di tematiche che tirano, “Annientare” è una lettura potente, di grande intrattenimento e i suoi acquirenti faranno a gara nello scoprire come finisce una vicenda da più parti presentata come distopica, ma che sembra piuttosto una cronaca del giorno dopo, ambientata in una Francia del 2027 che somiglia assai a quella del 2022. Unica differenza è che certe cose si sono sottilmente estremizzate e che si capisce che il mondo in generale, ma l’Occidente in particolare e Parigi ancor di più, stiano tutti continuando a marciare su sentieri pericolosi. E che le minacce siano più subdole del previsto, acquattate appena sotto la superficie del concetto di progresso. 

In ogni caso, i personaggi di “Annientare” sono piacevoli, ben disegnati, capaci d’intercettare la nostra simpatia e interesse, in quanto figure vivaci, intelligenti, positive e umane (pochissimi i mostri, nelle ultime pagine di Houellebecq – altra inattesa novità). 

Dunque ecco Paul Raison, consulente del ministro dell’Economia francese, uomo d’ingegno professionale e di incertezze personali; sua moglie Prudence (battezzata dalla canzone di Lennon) e anche lei funzionaria governativa di rango, ma anche sposa infelice, rapita da tentazioni misticheggianti. Bruno Juge, appunto il ministro, capo e confidente di Paul – ricalcato sulla silhouette autentica di Bruno Le Maire, amico intimo di Houellebecq – uomo colto, di talento, raziocinio ed etica, eppure a un palmo dal punto di rottura, mentre si avvicina il momento di scendere in campo niente meno che per le presidenziali. E poi la complicata famiglia di Paul, una sorella fanatica religiosa, un misterioso padre, ex-dirigente dei Servizi Segreti, folgorato nelle prime pagine da un terribile ictus e assistito da una seconda moglie tremebonda. 

Una rappresentazione che passa di continuo dal privato al pubblico, dal personale al politico, dai sentimenti ai doveri fino alle mire dell’ambizione. Perché in parallelo alla corsa delle elezioni e all’irresistibile crescita di prestigio di una nazione francese eccitata dalla dimensione della propria forza, si sviluppa un’altra linea narrativa, stavolta nera, che descrive la mutazione delle forze del male per come le percepisce l’autore, il loro trasloco nei crismi del contemporaneo fino ad annidarsi nella Rete, trasformandola in strumento di terrore e in minaccia non solo al progresso, ma addirittura alla sopravvivenza degli uomini. 

Non andiamo oltre nel delineare gli sviluppi della storia, avvincente al punto da non meritare riassunti sommari. E diamo invece un’occhiata all’aria che tira in generale nelle pagine del più famoso scrittore francese del XXI secolo e alle idee che s’è fatto del mondo che racconta. Che stavolta è una rappresentazione a due facce, priva degli estremismi che un tempo eccitavano Houellebecq, più complessa, a tratti in apparenza ingannevole. Perché i suoi personaggi sono competenti e onesti tecnocrati di una post-democrazia, ambiziosi ma giudiziosi nelle scelte e timorosi nelle relazioni. Forse più insicuri del necessario, come del resto stiamo diventando tutti, perché a giocare c’è molto da perdere, la nostra civiltà ha costruito tanto ma ha prodotto un’infinità di scorie e la sensazione di pericolo globale si accentua giorno dopo giorno. 

Una grande minaccia ci sovrasta, ma non sappiamo definirla, i suoi contorni appaiono mutevoli, anche se la parola “Covid” non ricorre nel romanzo, e nemmeno “pandemia” – ma la paura sì, c’è in tutte le pagine, è palpabile, e la ricerca di requie, il tentativo di trovare un po’ di pace gronda da tutta la parabola di “Annientare”, senza nemmeno il coraggio di incasellarlo alla voce “amore” o “felicità”. 

Ma non è il caso di fare i catastrofisti: l’umanità ha realizzato un capolavoro imperfetto, disseminato di debolezze, di vergogne, ingiustizie e perciò di rabbia, odio, vendetta. Ci risiamo con gli angeli e i diavoli, non se n’esce, ma Houellebecq stavolta si schiera dalla parte dei buoni, sebbene col sadismo di chi lascia intendere che non è questione di schieramenti, quanto, come dicevano gli antichi saggi, di karma. 

La modernità produce il male come residuo del progresso e questo supplizio è insanabile, un destino malevolo, un errore di calcolo. Sesso e sete di potere sono le più efficaci pillole di sostegno collettive, ma sono solo terapie di sostegno, non soluzioni del problema. Il mondo non sarà mai perfetto, la famiglia non sarà un paradiso, la coppia non sarà eterna e il nostro corpo continuerà a disfarsi, a dispetto della scienza della salute.

Houellebecq ha sadicamente presentato “Annientare” come “un libro deprimente”, espressione di un’umanità delusa da se stessa, indebolita dai traumi, sconvolta dalla paura della morte. Ma c’è una nuova compostezza nelle sue pagine, che fa pensare alla dichiarazione dell’allenatore di una squadra coraggiosa, sbaragliata al termine della partita troppo difficile: abbiamo fatto il possibile, abbiamo gettato il cuore oltre l’ostacolo, abbiamo sbagliato molto, ma più di così non si poteva fare. 

Il senso di tragedia che aleggia nel libro va in risonanza con la percezione di caducità a cui ci stiamo abituando di questi tempi. Houellebecq è un prestigiatore delle profezie, sente le temperature e ha la disinvoltura di trasformarle in racconto. Se ci mettete il contributo offerto da una degnissima drammatizzazione, troverete motivi per restituire a un romanzo quella capacità di rappresentazione del presente che oggi si è sempre più restii ad accordargli.

Michel Houellebecq, lo scrittore che ha previsto il futuro. Francesco Boezi l'11 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Il filosofo francese ha anticipato tanti fenomeni sociali dei nostri tempi. L'ultimo libro, Annientare (La Nave di Teseo), è l'ennesima sconvolgente lettura del mondo per come sarà.  

Se l'Europa ha qualche disturbo latente, le opere di Michel Houellebecq sono in grado, senza disdegnare un certo grado di crudezza narrativa e linguistica e soprattutto senza aver bisogno di giustificazioni, di palesare quel "guasto".

Sullo scrittore transalpino si è detto (e scritto) moltissimo, comprese durante questi primissimi giorni di gennaio a ridosso della pubblicazione di Annientare, l'ultimo (attesissimo) romanzo edito, come sempre in Italia, da La Nave di Teseo. Il coro d'interpretazioni è soltanto la più classica delle conseguenze: ogni volta che Michel Houllebecq chiude l'ultimo capitolo di un libro, inizia la corsa a rintracciare le profezie nascoste tra le righe del testo.

Anticipatore ed interprete del contemporaneo

Del resto, il romanziere francese ci ha abituato bene: la "maledizione" che lo accompagna - simile a quella che ha interessato Louis Ferdinand Celine ma anche altri giganti della letteratura mondiale - non gli ha impedito di guadagnarsi la fama di "profeta". Di sicuro, Houellebecq è considerato un interprete assoluto della contemporaneità e delle sue distorsioni antropologiche.

Il Vecchio continente, grazie ai romanzi dello scrittore d'Oltralpe, è soggetto ad una continua diagnosi che immortala un pessimo stato di salute. Dal nichilismo pervasivo agli aspetti psicologici dell'uomo moderno, passando per la fenomenologia sociale e per gli elementi politologici: la definizione più in voga, tra quelle inflazionate dalla critica, fa di Houellebecq un anticipatore.

In ogni libro, viene percepita una dose consistente d'esistenzialismo che deriva dalle esperienze personali dell'autore e dalla sua capacità d'osservazione sul mondo ma, il romanziere, non invade mai il campo con toni narcisistici: quelli di Houellebecq non sono scritti personalistici ma disamine capaci di produrre un effetto specchio in chi legge. Forse è questa la principale capacità che viene riconosciuta all'umanista: trarre dalle particolarità di una storia dei paradigmi validi per l' insieme dell'odierna condizione umana.

Anche l'ultimo romanzo - quello di cui IlGiornale ha pubblicato un estratto - è destinato senza dubbio alcuno a far discutere. Annientare è candidato a disegnare l'ennesima mappatura della condizione vissuta dall'uomo durante i tempi moderni, con la politica cui è stato attribuito uno spazio, per quanto di sfondo, forse maggiore rispetto alla maggior parte dei libri precedenti. Houllebecq non è un moralista e non fornisce antidoti: semplicemente racconta. E forse è anche per questa sua mancata volontà di distribuire formule e soluzioni salvifiche che il transalpino gode della fama di realista. 

Il caso Sottomissione

Houellebecq non è soltanto Sottomissione ma quel romanzo ha avuto un significato mediatico superiore alle aspettative. A giocare un ruolo decisivio affinché di Sottomissione si parlasse in tutta Europa per anni consecutivi (se ne discute ancora e se ne discuterà in futuro) è stato il momento in cui il romanzo è stato pubblicato: a poche settimane dall'attentato di Charlie Hebdo. Nell'opera, Houellebecq immagina una Francia islamizzata e del tutto slegata dalla sua cultura originaria. I cosiddetti sovranisti hanno fatto di Sottomissione un testo guida per comprendere - dicono loro - a quale direzione è destinato il concetto di Stato nazione, salvo interventi capaci di mitigare il multiculturalismo e la gestione aperturista dei fenomeni migratori.

Sottomissione è insomma la cartella clinica della Francia immersa in un avvenire che ha dimenticato la cristianità e che si è arresa, senza colpo ferire, ad altre tradizioni e ad un'altra confessione religiosa. Lo scrittore francese, non solo per questo romanzo ma anche per altre prese di posizione, è stato spesso etichettato come un intollerante anti-islamico, oltre che come un simpatizzante dell'estrema destra o dell'emisfero ultra-conservatore. Tra gli aforismi riassuntivi che forse l'umanità continuerà a conoscere ed a tramandare, con ogni probabilità, c'è anche questo: "È la sottomissione, l'idea sconvolgente e semplice, mai espressa con tanta forza prima di allora, che il culmine della felicità umana consista nella sottomissione più assoluta".

Le altre profezie

Sottomissione è un caso eclatante ma non è l'unico. Serotonina, il penultimo romanzo (quest'anno ridato alle stampe sempre dalla Nave di Teseo), è un viaggio all'interno della depressione, che è il grande convitato di pietra della contemporaneità. Ma Serotonina è anche una fotografia precisissima dell'abbandono subito dalla Francia rurale, quella periferica che, poco tempo dopo l'uscita del romanzo, ha contribuito a dare vita ai gilet gialli. E poi c'è quella dipendenza, un altro tratto segnante della fase storica in cui siamo catapultati, che ci rende sempre schiavi di qualcosa che non riusciamo davvero ad afferrare. Un grande spazio - in "Serotonina" come in quasi tutti gli altri romanzi - è riservato all'involuzione delle relazioni amorose ed amicali nel mondo moderno. ,

La coppia composta da un uomo ed una donna, comunque sia, come chi leggerà Annientare avrà modo di approfondire, costituisce per Houellebecq quasi una sentinella in grado di contrastare l'avanzata della dissoluzione del mondo tradizionale: "Una coppia è un mondo, un mondo autonomo e compatto che si sposta all’interno di un mondo più vasto, senza esserne realmente toccato; da solo, invece, ero attraversato da faglie". Quest'ultima è una frase che non è contenuta in Annientare, bensì in un libro precedente, ma che spiega bene quale sia il valore che lo scrittore d'Oltralpe attribuisce allo stare insieme.

Elencare tutte le previsioni e le tematiche contenute negli altri testi sarebbe complesso. Se "Estensione del dominio della lotta" - il primo romanzo - è una critica a certe distorsioni del capitalismo e del mondo lavorativo costruito su basi economicistiche, "Le particelle elementari" - che molti considerano il manifesto ed il capolavoro di Houellebecq - spazia tra la suggestione della clonazione degli esseri umani all'incontro-scontro tra un protagonista capace d'incarnare l'apollineo ed un altro profondamente dionisiaco. 

Houellebecq e la pandemia

L'evento che ha scosso la storia - la notizia del secolo, almeno sino a questo momento - è la pandemia, che Michel Houellebecq ha interpretato, per al di fuori delle sue opere, alla sua maniera, in specie durante i primi lockdown continentali. La diffusione del Covid19 è, per l'intellettuale d'Oltralpe, un acceleratore di cambiamenti tanto radicali quanto tragici già in programma. Tra queste, anche il definitivo tramonto delle relazioni umani per come le abbiamo conosciute.

Nella lettera pubblicata sul sito di France Inter, lo scrittore francese esprime il consueto punto di vista sprezzante: "Ammettiamolo: la maggior parte delle e-mail che ci siamo scambiati nelle ultime settimane aveva come primo obiettivo quello di verificare che l'interlocutore non fosse morto, né sul punto di esserlo. Ma dopo questa verifica, abbiamo provato a dire delle cose interessanti, cosa non facile, perché questa epidemia riusciva nella prodezza di essere allo stesso tempo angosciante e noiosa". E questa è una postilla anche su come l'umanità odierna si rapporti con la morte. Più in generale, Houellebecq pensa che non avverà una trasformazione maieutica "grazie" alla diffusione del Covid19: ci sarà - ritiene piuttosto - un abbrutimento generalizzato ma già telefonato dall'andazzo del mondo.

Francesco Boezi. Sono nato a Roma, dove vivo, il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017,  seguo la politica dai "palazzi", ma sono anche l'animatore della rubrica domenicale sul Vaticano: "Fumata bianca". Per InsideOver mi occupo delle competizioni elettorali estere e la vita dei partiti fuori dall'Italia. Per la collana "Fuori dal Coro" de IlGiornale ho scritto due pamphlet: "Benedetti populisti" e "Ratzinger, il rivoluzionario incompreso". Per la casa editrice La Vela, invece, ho pubblicato un libro - interviste intitolato "Ratzinger, la rivoluzione interrotta", che è stato finalista al premio Voltaire. Nel 2020, per le edizioni Gondolin, ho pubblicato "Fenomeno Meloni, viaggio nella Generazione Atreju". 

Houellebecq, Onfray, Zemmour: dalla nuova “rive droite” i sovranisti chic soffiano sul fuoco. Da sinistra alla reazione. E dalle élite al populismo. È il percorso che unisce in Francia un gruppo di intellettuali à la page. Vittimisti, vanesi e retorici, nemici dell’Europa e dell’Islam, irrompono nella campagna per le presidenziali del 2022. E vogliono sconfinare. Anna Bonalume su L'Espresso il 03 agosto 2021. «Alcuni intellettuali francesi, in particolare Alain Finkielkraut e Michel Onfray, hanno abbandonato il campo delle élite per avvicinarsi al campo del popolo. Immediatamente sono stati osteggiati da tutti i media, si sono uniti al campo dei populisti abietti, dove c’era già Éric Zemmour e dove io andavo a fare un giro di tanto in tanto». In questa dichiarazione di Michel Houellebecq, durante una conferenza a Buenos Aires nel 2017, si ritrovano i termini del mutato paesaggio intellettuale e politico francese di oggi, nell’anno chiave che porta alle elezioni presidenziali del 2022. Avanzano in Francia, fanno proseliti in Europa, anche in Italia. Hanno un nemico comune: le élite progressiste, gli apostoli del progressismo e della “religione dei diritti umani” che disprezzano e ostacolano il campo formato dal popolo e dagli “spiriti liberi” che parteggiano per il popolo. Predicano la provocazione, l’amore per il politicamente scorretto e soprattutto il culto del proprio status di vittime di élite e media: Eric Zemmour, Alain Finkielkraut, Michel Onfray e Michel Houellebecq sorridono alla politica populista. Mentre Zemmour è sempre stato di estrema destra, la conversione degli altri tre è piuttosto recente. Houellebecq comunica solo con i suoi libri. Profeta moderno per alcuni, islamofobo e misogino per altri, lo scrittore oggi è diventato l’idolo della destra sfrenata e infastidisce l’intellighenzia di sinistra. Nel 2019 il presidente gli ha conferito la Legione d’Onore: «Visceralmente antieuropeo», ha concesso Emmanuel Macron, è impossibile non riconoscere a questo scrittore «romantico perso in un mondo diventato materialista» il merito di aver «reinventato il romanzo francese». Il suo ultimo libro è una raccolta di testi dal titolo “Interventions 2020” edito da Flammarion. Vi spicca l’articolo “Donald Trump è un buon presidente”, pubblicato da Harper’s Magazine nel 2019. Houellebecq sosteneva la diplomazia non convenzionale dell’ex presidente americano, il suo atteggiamento conciliante verso il presidente russo Vladimir Putin, la sua sfiducia nel libero scambio e nella costruzione europea. Allo stesso modo, elogia la libertà di pensiero di Eric Zemmour, definito il «più interessante avatar contemporaneo» dei «cattolici non cristiani» che ammirano la Chiesa senza credere in Dio. Il “libero pensatore” Eric Zemmour è un giornalista politico vicino a Marion Maréchal. Ex deputata, la nipote di Marine Le Pen si è ufficialmente ritirata dalla vita politica: ora si occupa a tempo pieno della scuola di scienze politiche fondata a Lione, dove ama intervenire Zemmour, che ha anche presenziato all’apertura della “convention della destra” da lei organizzata a Parigi nel 2019. In questa occasione, la sua retorica violenta contro l’Islam e l’immigrazione gli è valsa una condanna e una multa di 10.000 euro per insulto e incitamento all’odio. Sanzioni che hanno avuto l’effetto di aumentare la sua popolarità. Il giornalista si è fatto conoscere come ospite fisso del programma “Face à l’info” in onda in access prime time sul canale d’informazione CNews, passato nelle mani del gruppo Bolloré, proprietario di numerose aziende di media e pubblicità. Zemmour potrebbe essere interessato alle elezioni presidenziali del 2022, anche se non ci sono conferme ufficiali da parte sua. Il suo editore Albin Michel ha cessato il contratto con lui in vista delle elezioni. «Abbiamo avuto uno scambio molto franco con Zemmour che aveva confermato la sua intenzione di partecipare alle elezioni presidenziali e di fare del suo prossimo libro un elemento chiave della sua candidatura», ha spiegato Gilles Haéri, capo di Albin Michel. Tra gli intellettuali francesi citati da Houellebecq, c’è Michel Onfray, uno dei filosofi francesi contemporanei più prolifici. Autore di più di cento opere, ha appena pubblicato in Francia “La nave dei folli”, nel quale condanna il delirio dell’Occidente, e “L’arte di essere francese”, in cui denuncia l’inevitabile apocalisse del mondo contemporaneo. «La civiltà sta crollando, i valori vengono rovesciati, la cultura si sta riducendo come una pietra, i libri contano meno degli schermi, le scuole non insegnano più a pensare ma a obbedire al politicamente corretto, e la famiglia esplosa, scomposta e ricomposta è spesso formata da persone egocentriche e narcisiste», tuona la quarta di copertina. Il filosofo lamenta di essere stato marcato a fuoco dai responsabili di questa catastrofe culturale, ovvero le élite europeiste e la «fasciosfera di sinistra» che, lui dice, lo spacciano per «un fascista, un antisemita, un islamofobo, un reazionario». Eppure questo non gli impedisce di continuare ad occupare ampiamente le vetrine delle librerie e gli studi televisivi, dove si destreggia tra una feroce invettiva e l’altra, e le espressioni provocatorie sono la sua principale modalità di esistenza. Per il filosofo le elezioni americane sono state un fallimento, come racconta all’Espresso: «La vittoria di Biden è quella di un uomo più malleabile di Trump: quest’uomo impulsivo e brutale, irascibile e aggressivo, volgare e maleducato, sembrava impossibile da pilotare! Biden è un uomo vecchio, stanco, una vecchia volpe della politica, in secondo piano da quarant’anni, messo in primo piano grazie all’aiuto del suo romanzo di famiglia ben sfruttato. È l’uomo del politicamente corretto, il cliente ideale dei Gafam, mentre l’account di Trump è sospeso dagli stessi capi dei Gafam», dove Gafam è l’acronimo che indica le cinque maggiori multinazionali dell’intelliggenza artificiale: Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft. Sul futuro dell’ex presidente americano, Onfray ha una visione chiara: «Trump potrebbe trasformare questo fallimento elettorale in una vittoria politica nazionale. Assumerebbe quindi la guida di un movimento più ampio rispetto alla limitata presidenza degli Stati Uniti». In Europa, invece, il vero nemico è l’Unione Europea, «un club di banchieri che per un quarto di secolo hanno nascosto i loro interessi dietro la propaganda ideologica; per loro l’Europa sarebbe la fine della disoccupazione, la piena occupazione, il senso della Storia, l’amicizia tra i popoli, la fine di tutte le guerre, la fine del razzismo». Per Onfray invece queste conquiste sono fandonie: «Dopo un quarto di secolo questa politica ha generato esattamente il contrario!». Per divulgare queste idee, che lui definisce di tipo «socialista proudhiano», ha fondato la rivista sovranista “Front populaire”, un progetto nato per «costituire un Fronte Popolare in opposizione al Fronte del Populicidio costituito da Macron e dai suoi (la classe politica Maastrichiana di destra e di sinistra) il cui progetto consiste nell’estromettere il popolo dalla politica». L’obiettivo finale del filosofo e dei suoi alleati è chiaro: «Noi vogliamo la sovranità, che è l’arte di riprendere in mano il controllo politico del Paese per realizzare ciò che definisce la democrazia: il governo del popolo, da parte del popolo, per il popolo. Perché, da questo punto di vista, non siamo più in una democrazia, ma in una aristocrazia del capitalismo». Accanto al “populicidio”, c’è la minaccia dell’Islam, che per Onfray «porta avanti una guerra di civiltà contro la giudeo-cristianità». La difesa della civiltà occidentale dagli attacchi dell’Islam accomuna Onfray, Zemmour, Finkielkraut ed è la provocazione sulla quale si basa il romanzo di Houellebecq “Sottomissione”. Sulla difesa della cultura e dell’Identità della civiltà occidentale, non si sottrae il filosofo Alain Finkelkraut. Recentemente ha confessato le proprie angosce a Vanity Fair: «Siamo entrati in una crisi dalla quale non sono sicuro potremo rimetterci. La Francia si trova di fronte a un’immigrazione incontrollata e sta subendo un mutamento demografico senza precedenti nella nostra storia». Di fronte a questo cambiamento cosa fanno le elite? Sono impegnate in «un’autoflagellazione sistematica e delirante». A dare voce a queste posizioni, una nuova costellazione di media di più o meno recente creazione, orientati a destra ed estrema destra. Tra questi ci sono il canale televisivo CNews, il settimanale Valeurs Actuelles, il magazine L’incorrect, il sito internet Boulevard Voltaire, la rivista Front Populaire, il nuovo media online Livre Noir. L’ultima battaglia è sui vaccini, il grande tema politico di inizio campagna elettorale per le presidenziali. I riferimenti intellettuali degli antivax sono il medico Didier Raoult, noto medico difensore del controverso trattamento per il covid-19 a base di idrossiclorochina, e Zemmour che due settimane ha dichiarato su CNEWS : «Macron ci impedisce di vivere senza vaccinazione, quindi siamo obbligati a vaccinarci. Non ha il coraggio di obbligarci perché aveva detto il contrario». Anche Zemmour si era contraddetto esaltando qualche mese prima la campagna vaccinale di Boris Johnson, ma non importa. Provocazioni e contraddizioni peseranno nella prossima campagna elettorale, le elezioni presidenziali del 2022. 

Emanuela Minucci per "La Stampa" il 18 ottobre 2021. Michel Houellebecq è arrivato a Torino nel tardo pomeriggio di sabato. E, spiazzante come al solito, pur essendo la vera stella supernova di questo Salone del Libro, non ha preteso né suite a 5 stelle né tantomeno un cachet. Una condizione però l'ha posta: «Una camera dove si possa fumare, meglio se con un balcone, altrimenti non prenotate neppure l'aereo». Accontentato. All'hotel vicino alla stazione di Porta Nuova, dove gli abbiamo offerto una birra, si è presentato chiuso nello stesso Barbour da «intellettuale un filo nichilista» (definizione di una lettrice che dichiara di aver letto Serotonina tutto in una notte) che indossava anche ieri, fra i velluti rossi dell'Auditorium del Lingotto. Qui ha ritirato dalle mani del «giudice monocratico» Marco Missiroli, il 47° premio Mondello. Davanti a Elisabetta Sgarbi, l'editrice della Nave di Teseo che pubblica i suoi romanzi, e al direttore del Salone Nicola Lagioia che non esita a definire l'evento «un incontro che dal punto di vista letterario passerà alla storia», l'autore delle Particelle elementari annuncia di avere finito un nuovo libro, senza scendere in troppi dettagli: «Sarà una storia deprimente, mi manca ancora il personaggio femminile ma lo troverò». L'Auditorium è stracolmo e silenzioso come una cattedrale. E qui comincia il dialogo tra Marco Missiroli e il suo ruvidissimo mito letterario: Michel Houllebecq che trova meraviglioso il fatto di essere non solo tradotto in italiano, ma anche nella lingua dei segni.

Chi era Houellebecq prima dell'Estensione del dominio della lotta?

«È lunga da spiegare, sono vecchio. Ho cominciato leggendo poesie in pubblico e poi le ho pubblicate. Ero uno scrittore promettente, non avevo ancora un grande successo e non ero troppo polemico, perché per essere molto polemici bisogna avere un grande successo. Poi è arrivato tutto insieme con Le particelle elementari. Mi sono reso conto che sapevo scrivere romanzi, ma non sarei in grado di scrivere un saggio».

Come si trova un uomo tranquillo come lei alla ribalta del demonio?

«Chi è violento nella scrittura è molto dolce nella vita, perché la scrittura è liberatoria e viceversa. Diffidate di chi scrive cose dolci, è gente pericolosa».

 C'è sempre un principio amoroso alla base dei suoi libri, magari fa un giro più lungo, in questo lei mi ricorda Conrad, nei suoi dissidenti c'è sempre stato un amore tenebroso, nero…

«L'amore nei libri ha lo stesso ruolo che può avere Dio: anche se si può avere dubbi sulla sua esistenza e anche se Cristo si sbagliasse è sempre preferibile stare con Cristo. È tanto tempo che non parlo di Schopenhauer, magari ne approfitto adesso». 

Prego.

«Intanto c'è un suo passaggio che trovo magnifico in cui dice che l'amore esiste, diversamente che per tanti altri filosofi, e in cui prende in giro Kant dicendo che su questo argomento non capisce nulla. Schopenhauer dice anche che l'amore è di origine sessuale e che la sessualità è importante perché serve per avere figli e che la domanda "chi mi succederà" è più importante di tutto il resto». 

Nei suoi libri l'amore è sessuale?

«Questa è una cosa strana. Si dice che c'è tanto sesso nei miei libri, ma è qualcosa che faccio fatica a capire».

Forse perché la sessualità nella sua letteratura è trattata come le relazioni umane e quelle di lavoro. Ciò che noi chiamiamo eros per lei è chimica, biologia, particelle è sociologia.

«Le Particelle è un libro scientifico, in altri libri l'approccio è più sociologico, culturale, e questo irrita molti perché la gente non vuole essere ridotta a una categoria sociologica, preferisce essere ricondotta a qualcosa di chimico. Ma sarebbe un errore». 

È vero che lei scrive a notte fonda?

«Sì, perché di notte il nostro spirito è libero. E poi bisogna approfittare dei sogni che si ricordano e scrivere prima di cominciare a parlare».

Ci spieghi le sue tre cattedrali: supermercati, automobili e l'aeroporto Charles De Gaulle.

«Il supermercato è quanto di più vicino al paradiso abbia costruito l'uomo. Dell'automobile è affascinante il linguaggio. Io amo le auto, Mercedes e Bmw. E l'aeroporto è il simbolo del concentrazionismo. Lì si vende di tutto, ma non c'è nulla che serve».

Quanto l'appassiona la politica?

«Della politica mi interessano le strategie, le alleanze, il non detto, i giochi di guerra. Ma nel retroscena nelle trame politiche i maestri siete voi italiani, con Machiavelli». 

Però nella politica contemporanea sono i francesi ad avere prodotto le più grandi sorprese.

«Le elezioni del 2017 sono state più affascinanti di qualsiasi trama di film». 

E stavolta chi vincerà?

«Al secondo turno vincerà Macron e si batterà contro il candidato della destra e non è detto che sarà Le Pen o Zemmour».

Lei scrive: io mi sento irresponsabile, sempre.

«Irresponsabile nel senso che non mi sento un guru e non cerco discepoli».

Alla fine, suo malgrado, lei è una star della letteratura mondiale. Come ci si sente?

«Non male. Diciamo che è una condizione positiva, necessaria, ma non difficile».

Standing ovation.

Houellebecq racconta "l'autunno delle idee" e incanta con Baudelaire. Alessandro Gnocchi il 5 Agosto 2021 su Il Giornale. Timido e istrionico, il grande scrittore francese ha recitato le poesie più belle dei "Fiori del male". Il carisma si manifesta sul palco della Milanesiana, a Parma, martedì sera verso le 21 e 30, al Parco della musica, sotto un albero secolare. Lo scrittore francese Michel Houellebecq sale sul palco, si accomoda su una seggiola rossa, ignora il leggio e inizia la sua lectio magistralis su Baudelaire. Pronuncia poche parole (come nel resto della giornata) di introduzione. In Francia, nessuno ha ricordato il bicentenario di Charles Baudelaire. Come mai? «I rapporti tra Baudelaire e la Francia non sono mai stati facili. Nella cultura francese, e in particolare nella letteratura francese, prevale una certa visione restrittiva, nella quale Baudelaire fatica a entrare». Grandi festeggiamenti invece per i quattrocento anni dalla nascita di Jean de La Fontaine. Prosegue Houellebecq: «Montaigne, La Fontaine, Voltaire Esiste una linea. Scettica, ironica, misurata, satirica, leggermente cinica». In seguito, a partire da Victor Hugo, prevale «una specie di ottimismo umanistico» che ci conduce ai nostri giorni. Baudelaire non rientra in queste categorie dello «spirito francese». Il pubblico, a questo punto, si aspetta una conferenza vera e propria. Invece Houellebecq si alza e recita in francese, mentre la traduzione corre sullo schermo alle sue spalle, venticinque minuti di poesie scelte dai Fiori del male. In prevalenza va a braccio, si aiuta appena con gli appunti. Si muove lentissimo da una parte all'altra del palco, ogni tanto si riposa, beve un po' d'acqua, si siede, si alza, riprende. Quando sbaglia (due volte) chiede scusa: «Non sono più abituato». Houellebecq sceglie poesie famose, «non è che lo siano per caso» commenta sornione, che un lettore sensibile alla poesia si porta con sé tutta la vita. Un altro si spezzerebbe le ossa, alle prese con versi scolpiti nella memoria collettiva. Invece, grazie a Houellebecq, è come scoprirli per la prima volta e accorgersi che c'era qualcosa di diverso. L'incipit è subito da knock out. Il nemico: «La mia giovinezza non fu che una oscura tempesta, traversata qua e là da soli risplendenti; tuono e pioggia l'hanno talmente devastata che non rimane nel mio giardino altro che qualche fiore vermiglio. / Ecco, ho toccato ormai l'autunno delle idee». Reversibilità: «Angelo pieno di bellezza, conosci tu le rughe, e la paura d'invecchiare e il tormento orribile di leggere l'orrore segreto della devozione negli occhi ove a lungo bevvero i nostri avidi occhi? Angelo pieno di bellezza, conosci tu le rughe?». Poi gli «ultimi ardori» della Morte degli amanti, la morte come consolazione della Morte dei poveri, gli oppiacei sogni di felicità di Invito al viaggio e Raccoglimento Un pugno in faccia, assestato con somma grazia, ma un pugno in faccia. Baudelaire, e Houellebecq attraverso Baudelaire, dicono parole che raramente si ascoltano volentieri: la senescenza è la nostra condizione; nostra, personale; nostra, della società in cui viviamo. È l'autunno del corpo ma anche delle idee. L'Occidente confonde lo sviluppo col progresso (proprio il «Progresso» è il tema della Milanesiana 2021). Insegue il feticcio della tecnologia ma si è dimenticata l'umano e il divino. Sembra andare sempre più veloce ma è immobile. Georges Bernanos diceva: i vermi che spolpano il cadavere sono convinti di compiere un'opera dalle magnifiche sorti e progressive. Il cadavere? Siamo noi, è la nostra Europa. Le particelle elementari (La nave di Teseo, 1999), il romanzo che ha rivelato al mondo il talento di Houellebecq, finisce con la frase: «Questo libro è dedicato all'uomo». L'ultimo, Serotonina (La nave di Teseo, 2019), si chiude così: «E oggi capisco il punto di vista del Cristo, il suo ripetuto irritarsi di fronte all'insensibilità dei cuori: hanno tutti i segni, e non ne tengono conto. È proprio necessario, per giunta, che dia la mia vita per quei miserabili? È proprio necessario essere così esplicito? Parrebbe di sì». Non c'è da stupirsi che Houellebecq sia un punto di riferimento per chi scommette sull'umano (e sul divino). La lettura è finita. Resta il tempo di una impressione sullo scrittore. Riceve il premio alla memoria dei grandi editori francesi Jean-Claude e Nicky Fasquelle. Imbarazzatissimo. Timidissimo. Silenziosissimo. Stretta di mano vigorosa, però. Giubbotto del tipo parka, camicia blu scura a mezze maniche, pantaloni color kaki scuro. Si colloca al di sotto dell'understatement. La moglie Lysis sembra volerlo proteggere. Alla consegna della Rosa, simbolo della manifestazione, sulle note degli Extraliscio, chiacchiera con Laura Morante, tra gli ospiti della serata, accenna un passo di danza, poi si mette a giocherellare con i bottoni della camicia. Niente di strano. È come te lo aspetti. Del resto, la timidezza e il sentirsi al posto sbagliato sono programmatici. Nella prosa lirica che apre la sua prima raccolta poetica, Restare vivi (1991, ora Bompiani 2016), Houellebecq scrive: «La timidezza non è da disdegnare la timidezza è un eccellente punto di partenza per un poeta». Ancora: «Talvolta, è vero, la vita vi apparirà niente più che un'esperienza fuori luogo. Ma il risentimento dovrà sempre restare vicino, a portata di mano, anche se scegliete di non esprimerlo. E tornate sempre alla fonte, che è la sofferenza». Infine: «Quando susciterete negli altri un misto di pietà spaventata e di disprezzo, saprete di essere sulla buona strada. Potrete cominciare a scrivere». In mezzo alla ritrosia e al pudore, spicca ancora di più, monumentale, la parola poetica che Houellebecq ha portato magistralmente sul palco. Il carisma, vocabolario alla mano, è dono divino e autorevolezza tutta umana. Per un grande scrittore come Houllebecq potremmo definire il carisma in questo modo: lasciare la parola alla parola scritta e dimostrarne la profondità abissale. Alessandro Gnocchi

"Ecco la mia Francia nelle mani dell'Islam" Parla lo scrittore Michel Houellebecq. I musulmani prendono il potere. E opprimono le donne. Lo scrittore più provocatorio d’Oltralpe qui racconta “Sottomissione”, il suo nuovo romanzo. E dice: «Il Corano è decisamente meglio di quello che pensavo, di lettura in rilettura. La conclusione più evidente è che i jihadisti sono cattivi musulmani». Sylvain Bourmeau su L'Espresso il 07 gennaio 2015. Siamo nel 2022. La Francia ha paura. Il Paese è da tempo in preda a disordini misteriosi. E le elezioni presidenziali hanno un risultato clamoroso: il leader del giovane partito della Fraternità musulmana, Mohammed Ben Abbes, batte nettamente Marine Le Pen al ballottaggio. Dall’oggi al domani la Francia cambia. Le donne indossano lunghe bluse su pantaloni larghi e lasciano in massa il lavoro, le università diventano islamiche: chi non è musulmano è obbligato alla pensione o alla “Sottomissione”. È questo il titolo del nuovo romanzo di Michel Houellebecq, pubblicato in Francia da Flammarion il 7 gennaio tra le polemiche (in Italia esce il 15 per Bompiani). Nel suo sesto romanzo, l’autore di “Le particelle elementari” si mette improvvisamente e atrocemente a somigliare a quegli editorialisti politici di serie B -  Eric Zemmour, Alain Finkielkraut, Renaud Camus... - che nei loro bestseller preelettorali hanno agitato lo spauracchio dell’invasione dell’Islam. E lo fa con quello che si deve decisamente definire un vero suicidio letterario. Perché l’abiezione politica e la debolezza letteraria sono in questo libro strettamente legate. Un romanzo arido e triste, approssimativo, mal documentato, senza dialoghi e senza poesia: “Sottomissione” suona falso da cima a fondo e non è certamente degno di apparire nella bibliografia di quello che rimane comunque uno dei più importanti scrittori contemporanei di lingua francese. Parola mia, cioè del critico che negli ultimi vent’anni ha più spesso intervistato Houellebecq: per questo l’autore aveva deciso di dare a me la prima intervista su “Sottomissione”. Ci siamo incontrati il 19 dicembre nell’ufficio di Flammarion. 

Houellebecq, perché questo libro?

«Per molti motivi, penso. Non amo usare questa parola, ma ho la sensazione che questo sia il mio ‘mestiere’. Ho vissuto a lungo in Irlanda e quando sono tornato in Francia ho riscontrato grandi cambiamenti, cambiamenti che non sono specificatamente francesi, del resto, ma dell’Occidente in generale. In effetti, da espatriati non ci si interessa granché a nulla, né alla società dalla quale si proviene, né a quella nella quale si vive, e in più l’Irlanda costituisce un caso un po’ particolare. Secondo motivo, forse il mio ateismo non ha veramente resistito alla serie di perdite che ho subito. Le ho trovate insopportabili, in realtà». 

Allude alla morte del suo cane e dei suoi genitori?

«Sì, a questo. Sono state molte perdite in un arco di tempo ristretto. Il tutto forse è stato aggravato dal fatto che, contrariamente a ciò che credevo, non ero veramente ateo, ma veramente agnostico. In generale, dire così serve a crearsi un paravento nei confronti dell’ateismo, ma nel mio caso non credo. Riesaminando alla luce di ciò che so la faccenda dell’esistenza di un creatore, di un ordine cosmico, di una cosa del genere, mi sono reso conto che non mi sentivo in grado di rispondere né sì né no». 

Mentre in precedenza aveva la sensazione…

«Avevo la sensazione di essere ateo, proprio così. A questo punto, non so dire di più. Ecco, io credo che siano state queste due motivazioni a indurmi a scrivere, e la seconda probabilmente è stata più forte della prima». 

Come definirebbe questo libro?

«La definizione di ‘fantapolitica’ non è male. Non mi sembra di averne letta molta, ma un po’ sicuramente sì, più nella letteratura inglese che francese”. 

A che cosa si riferisce?

«Ad alcuni libri di Conrad, per esempio, e anche di John Buchan. E poi a libri più recenti, meno belli, più imparentati al thriller. Il thriller può fiorire benissimo in un contesto di fantapolitica, non essendo obbligatoriamente vincolato al mondo degli affari. In verità, c’è un terzo motivo per il quale ho scritto questo libro, ed è che l’inizio mi è piaciuto moltissimo. In pratica, in una volta sola, di getto, ho scritto tutta la prima parte fino alla pagina 26. E l’ho trovata molto convincente… Perché me lo vedo che uno studente possa scegliersi come amico Huysmans  e dedicargli la propria vita. A me una cosa simile non è capitata: ho letto Huysmans molto più tardi, intorno ai 35 anni, credo, ma una cosa del genere mi sarebbe molto piaciuta: la mia stanza non era malaccio, e nemmeno la mensa universitaria era terribile e mi sono immaginato che cosa egli avrebbe potuto voler dire rispetto a tutto ciò. Penso che avrebbe potuto essere un amico vero per me. Insomma, dopo aver scritto la prima parte, per un po’ di tempo non ho scritto altro. Era il gennaio 2013, e ho dovuto riprendere in mano il testo nell’estate di quell’anno. In realtà, il mio progetto originario era molto diverso. Non doveva intitolarsi “Soumission” (Sottomissione). Il primo titolo che gli avevo dato era “La conversion” (La conversione). E inizialmente, nei miei piani, il narratore si convertiva sì, ma al cattolicesimo. Vale a dire che a un secolo di distanza seguiva il medesimo percorso di Huysmans, partendo dal naturalismo e approdando al cattolicesimo. Poi però non ci sono riuscito». 

Perché?

«Perché non funzionava. Secondo me, la scena clou del libro è quella nella quale egli guarda per l’ultima volta la Madonna nera di Rocamadour e si sente investito da una forza spirituale, come una serie di onde, che a un tratto si allontana e lui scende verso il parcheggio. Solo e disperato». 

Definirebbe satirico questo romanzo?

«No. Al massimo, ma solo molto parzialmente, è una satira del giornalismo politico. Della classe politica, forse, un po’ di più. Ma i personaggi principali non sono una satira». 

Come le è venuto in mente di inventare un ballottaggio per le elezioni della presidenza del 2022, con Marine Le Pen in competizione con il presidente di un partito musulmano?

«Beh, per Marine Le Pen mi pare del tutto verosimile nel 2022 – mi sembra verosimile che ci si arrivi già nel 2017… Quanto al partito musulmano, qui siamo al nocciolo della questione. Ho cercato di calarmi nei panni di un musulmano e mi sono reso conto che i musulmani in verità vivono in una situazione del tutto alienata. A livello globale infatti non si interessano molto di questioni economiche, dato che a loro stanno maggiormente a cuore quelli che nella nostra epoca definiamo temi sociali. È evidente che sono molto lontani dalla sinistra, e ancor più dagli ecologisti a proposito di queste tematiche. Basti pensare al matrimonio tra omosessuali per rendersene conto. Del resto, ovunque è così. Per di più, non si capisce proprio per quale motivo dovrebbero votare per la destra, e ancor meno per l’estrema destra che li rifiuta con tutte le sue forze. Che cosa può fare quindi un musulmano che vuole votare? Si trova in una situazione impossibile, perché non è rappresentato. Sarebbe ingannevole affermare che la religione musulmana non ha conseguenze politiche, perché ne ha, proprio come il cattolicesimo del resto, anche se i cattolici sono stati rimessi al loro posto. Di conseguenza, secondo me, l’idea del partito musulmano è plausibile». 

Ma da qui a immaginare che un partito del genere tra sette anni possa trovarsi nella condizione di vincere un’elezione presidenziale…

«Sono d’accordo, questo è poco plausibile. Per due ragioni principali. La prima è la più difficile da concepire: per i musulmani sarebbe necessario riuscire a mettersi d’accordo tra di loro. Sarebbe necessario che trovassero una persona estremamente intelligente e di un talento politico eccezionale, qualità che io ho dato al mio personaggio Ben Abbes. Un talento così superiore, però, è per sua stessa definizione poco probabile. Supponiamo, in ogni caso, che esista: questo partito potrebbe dunque compiere passi avanti, ma servirebbe più tempo. Se si considera il metodo utilizzato dai Fratelli Musulmani, notiamo una rete sul territorio fatta di associazioni di beneficienza, di luoghi di aggregazione culturale, di centri di preghiera, di vacanza, di cura… Un po’ l’equivalente di quello che aveva fatto il Partito Comunista. Sono del parere che in un paese nel quale la miseria dilaga tutto ciò potrebbe effettivamente convincere anche più dei musulmani ‘normali’ – se così posso dire –, perché oltretutto non ci sono soltanto i musulmani ‘normali’, ma anche i convertiti, persone che non sono di origine maghrebina… Un tale processo, in ogni caso, richiederebbe parecchie decine di anni. In realtà, a questo proposito il sensazionalismo mediatico riveste un ruolo negativo. Alludo, per esempio, a come è stata accolta la storia vera della conversione di un tizio che abitava in un piccolo villaggio della Normandia, francese al cento per cento, e che per di più non aveva alle spalle una famiglia disgregata. Beh, si è convertito ed è partito per combattere la jihad in Siria. In effetti, è ragionevole suppore che per uno così ci siano svariate decine di persone che si convertono senza partire per combattere la jihad in Siria. La jihad in Siria non è divertente. In fin dei conti, quindi, fa presa soltanto su individui fortemente motivati dalla violenza. Ovvero, una minoranza». 

Si potrebbe anche dire che ciò che interessa a queste persone più che altro è partire per la Siria, non convertirsi…

«Non credo. Io credo che esista un bisogno reale di Dio, e che il ritorno del sentimento religioso non sia uno slogan, ma una realtà. Anzi, questo processo ha ormai raggiunto una velocità addirittura maggiore». 

Questa ipotesi è fondamentale per il suo romanzo, ma è risaputo che in realtà è smentita da tempo da numerosi studiosi che hanno dimostrato che stiamo assistendo a una fase di graduale laicizzazione dell’Islam, e che violenza ed estremismo devono essere considerate alla stregua di ultimi sussulti. Questa è la tesi di Olivier Roy, di Gilles Kepel e di molti altri che studiano queste questioni da oltre vent’anni.

«Non è quello che ho constatato io. Del resto non è solo l’Islam a giovarsi di questo ritorno della spiritualità: in America del Nord e del Sud sono gli evangelisti a giovarsene. Non si tratta di un fenomeno francese, ma di un fenomeno globale che interessa quasi tutto il mondo. Così accade in Asia, anche se non sono molto informato in proposito, e così accade in Africa, dove questo fenomeno è interessante perché si vanno affermando sempre più due grandi forze religiose: l’evangelismo e l’Islam. In buona parte sono rimasto kantiano e non credo che una società senza religione possa durare». 

Ma perché ha deciso di “drammatizzare” le cose, tenuto conto che proprio lei afferma che è inverosimile che nel 2022 possa essere eletto un presidente musulmano?

«Beh, qui forse è entrata in gioco la parte di me che adora far presa sul grande pubblico con il thriller». 

Non sarai stato invece influenzato in parte da Eric Zemmour?

«Non lo so, non ho letto il suo libro. Che cosa dice, di preciso?» 

Al pari di un certo numero di altre persone, al di là delle naturali differenze, Zemmour delinea un ritratto della Francia contemporanea che mi pare decisamente di fantasia, nel quale una delle caratteristiche fondamentali è la minaccia di un Islam che influisce moltissimo sulla società francese. Drammatizzando questo stesso tema, come ha fatto lei nella sua fiction, si ha l’impressione che lei accetti come punto di partenza la descrizione della Francia contemporanea che riscontriamo oggi nelle opinioni di  intellettuali come Zemmour.

«Non saprei… Conosco soltanto il titolo del suo libro "Il suicidio della Francia", e questa non è l’impressione che ne ho io. A me non sembra di assistere a un suicidio della Francia. Ho la sensazione opposta, invece: l’Europa si sta suicidando mentre, proprio al suo centro, la Francia si batte con tutta sé stessa e perdutamente per sopravvivere. In pratica, è l’unico paese a battersi per la propria sopravvivenza. La Francia non si suicida affatto. Del resto, per gli esseri umani convertirsi è un gesto di speranza, non una minaccia. Aspirano a un modello diverso di società. Anche se, per quanto mi riguarda, non credo che ci si converta per motivazioni sociali. Ci si converte per ragioni più profonde. E anche se su questo punto il mio libro si contraddice un po’, Huysmans è il caso tipico di chi si converte per ragioni puramente estetiche. Le tematiche che agitano Pascal lo lasciano del tutto freddo, non ne parla mai. Faccio quasi fatica a immaginare un esteta a questo punto. Per lui la bellezza, invece, è rivelazione. La bellezza della poesia, della pittura, della musica attesta l’esistenza di Dio». 

Ciò ci riporta alla questione del suicidio, tenuto conto che Baudelaire diceva che gli restava solo la scelta tra il suicidio o la conversione…

«No, è Barbey d’Aurevilly ad aver fatto questa osservazione, del resto proprio dopo aver letto "Controcorrente". Me lo sono riletto tutto, nei dettagli, e alla fine è veramente cristiano. È sbalorditivo». 

Torniamo alla drammatizzazione di cui parlavo: nel libro essa assume per esempio la forma di descrizioni molto scorrevoli e vaghe di avvenimenti che accadono senza che si capisca chiaramente di che cosa si tratta. Siamo nell’ambito delle apparenze? Della politica della paura?

«Forse sì. Sì, un po’ di paura c’è. Io sfrutto il fatto di incutere paura». 

Quindi lei sfrutta coscientemente il fatto di incutere paura parlando di un Islam che conquista la maggioranza nel paese?

«In realtà, non si sa bene di che cosa si ha paura, se delle identità o dei musulmani. Tutto resta nell’ombra». 

Si è chiesto quali conseguenze può avere un romanzo che contiene un’ipotesi simile?

«Nessuna conseguenza. Nessuna». 

Non crede che ciò contribuisca a rafforzare le immagini della Francia che citavo prima, per le quali l’Islam incombe come una spada di Damocle, come la cosa più terrificante?

«In ogni caso, già ora questo è più o meno l’unico argomento di cui si occupano i media, che non potrebbero farlo in misura maggiore. È impossibile parlarne più di quanto già facciano oggi, quindi il mio libro non avrà nessuna conseguenza». 

Questa costatazione non le fa venire voglia di scrivere altro? Di non inserirsi nel flusso del conformismo?

«No, oggettivamente fa parte del mio lavoro parlare di ciò di cui parla la gente. Io vivo nella mia epoca». 

In questo romanzo lei sottolinea che gli intellettuali francesi hanno una propensione particolare a non sentirsi mai responsabili. Ma lei si è posto il problema della sua responsabilità di scrittore?

«Ma io non sono un intellettuale. Non mi schiero, non difendo alcun regime. Respingo ogni responsabilità, rivendico l’irresponsabilità, senza mezzi termini. A eccezione di quando nei miei romanzi parlo di letteratura, nel qual caso mi assumo la responsabilità del critico letterario. In verità, sono le opere di saggistica a cambiare il mondo». 

Non i romanzi?

«Forse sì. Tuttavia, ho l’impressione che quello di Zemmour sia grosso, troppo grosso. Ho la sensazione che il “Capitale” fosse troppo grosso, e a essere letto e ad aver cambiato il mondo sia stato invece il “Manifesto del Partito Comunista”. Rousseau ha cambiato il mondo, sapeva essere convincente al momento giusto. È semplice, se si ha intenzione di cambiare il mondo bisogna dire chiaramente: “Ecco, il mondo è così e questo è quanto va fatto”, senza perdersi in considerazioni romanzesche. Perché non serve a niente». 

Non sarà sicuramente a lei che insegnerò quanto il romanzo sia uno strumento epistemologico… Del resto, questo era il tema centrale del suo libro “La carta e il territorio”. A questo proposito, ho la sensazione che lei si assuma la responsabilità delle categorie descrittive, delle contrapposizioni più discutibili, quelle categorie con le quali funzionano la redazione di “Causeur”, Alain Finkielkraut, Eric Zemmour, sicuramente Renaud Camus. Per esempio, opporre l’antirazzismo e la laicità.

«È innegabile l’esistenza di una contraddizione». 

Io non la percepisco. Al contrario, ci sono persone che spesso sono a uno stesso tempo militanti antirazzisti e ferventi difensori della laicità, e le loro radici risalgono alla filosofia dei Lumi.

«Beh, sulla filosofia dei Lumi possiamo anche tracciare una croce: fine. Vuoi un esempio calzante? La candidata col velo nella lista Besancenot (candidata politica dell’estrema sinistra, NdR) è un vero esempio di contraddizione. Non sono soltanto i musulmani a trovarsi in una situazione di alienazione di questo tipo, in ogni caso: a livello di quelli che di norma si chiamano valori, le persone di estrema destra hanno più cose in comune con i musulmani che con la sinistra. Tra un musulmano e un ateo laico c’è più opposizione innata che tra un musulmano e un cattolico. Mi sembra evidente». 

Ma io non capisco il collegamento col razzismo nel caso specifico…

«Effettivamente, non c’è. Oggettivamente, non c’è. Quando sono stato prosciolto, in occasione del processo che mi hanno intentato una decina di anni fa per razzismo, il procuratore mi ha fatto giustamente notare che la religione musulmana non è appartenenza razziale. Oggi ciò è diventato ancora più evidente. Si è esteso l’ambito del razzismo, quindi, inventando il reato di islamofobia». 

Il termine forse è scelto male, ma esistono forme di stigmatizzazione di gruppi o di categorie di persone che sono forme di razzismo…

«Ah no, l’islamofobia non è razzismo. Se esiste un espediente che ormai è chiaro a tutti è proprio questo». 

L’islamofobia serve da paravento a un razzismo che non è più enunciabile perché punibile a termini di legge.

«Credo che sia completamente sbagliato. Non sono d’accordo». 

Altro abbinamento opinabile al quale lei fai ricorso è la contrapposizione tra antisemitismo e razzismo… Al contrario, si potrebbe osservare quanto nel corso della storia antisemitismo e razzismo siano andati di pari passo.

«Io credo che l’antisemitismo non abbia niente a che vedere col razzismo. Ho impiegato molto tempo a comprendere l’antisemitismo, in realtà. Il primo pensiero è quello di assimilarlo al razzismo, ma che tipo di razzismo è quello per il quale nessuno può dire se l’altro è ebreo o non ebreo, in quanto non lo si ‘vede’? Il razzismo è più elementare di questo, è un colore diverso di pelle…». 

No, perché da molto tempo esistono razzismi culturali…

«Ma in questo caso si utilizzano le parole ben oltre il loro significato. Razzismo è semplicemente detestare qualcuno perché appartiene a un’altra razza, perché non ha il medesimo colore della pelle, la stessa fisionomia. Non si deve dare a questo termine un significato più ampio». 

Tenuto conto però che da un punto di vista strettamente biologico le razze non esistono, per forza di cose il razzismo è culturale.

«Ma ciò vale, a quanto pare, in ogni caso. Chiaramente, vale a partire dal momento in cui col meticciato si crea un incrocio di razze. Su Sylvain! Lo sa bene che razzista è colui che detesta un altro perché ha la pelle nera o perché ha la bocca da arabo. Questo è razzismo!». 

O perché ha usanze o una cultura…

«No, si tratta di un altro problema, mi dispiace!». 

… O perché è poligamo, per esempio…

«Ah, questa poi… Si può essere sconvolti dalla poligamia senza essere neanche un briciolo razzisti. È il caso di molte persone che non sono neanche un briciolo razziste. Ma ritorniamo all’antisemitismo, perché si è trascurato questo punto. Visto e considerato che nessuno ha mai potuto dedurre se una persona è ebrea soltanto dal suo aspetto o dal suo stile di vita, giacché pochi ebrei avevano uno stile di vita ebraico quando si è sviluppato l’antisemitismo, di che cosa si può trattare? Questo non è razzismo. E sufficiente leggere ciò che è stato scritto per rendersi conto che si tratta semplicemente di una teoria del complotto: ci sono alcune persone, nascoste, responsabili di tutti i guai del mondo, che complottano contro di noi, pronte a invaderci… Il mondo va a rotoli ed è colpa degli ebrei, della finanza ebraica… È solo una teoria del complotto». 

In “Sottomissione” non c’è forse una teoria del complotto, l’idea che sia in atto la “grande sostituzione”, come la chiama Renaud Camus, e che i musulmani si impossesseranno del potere?

«Conosco male la tesi della grande sostituzione, ma a quanto pare è una questione alquanto razziale. Ebbene, in questo caso non si parla proprio di immigrazione. Non è questo il tema centrale». 

Non è necessariamente una questione razziale, può essere religiosa. Nel caso specifico, la religione cattolica è sostituita dall’Islam.

«No. È in atto un processo di distruzione della filosofia nata dal secolo dei Lumi, che non ha più senso per nessuno, o lo ha per pochissime persone. Quanto al cattolicesimo, si mantiene in forma piuttosto discreta. Io sostengo effettivamente che un’intesa tra cattolici e musulmani è possibile. Lo abbiamo già visto. E può ripetersi». 

Lei, che è diventato agnostico, vede di buon occhio questa distruzione della filosofia nata dall’Illuminismo?

«Sì. Doveva succedere e tanto vale che succeda adesso. Su questo punto torno a essere kantiano. Eravamo in quella che egli chiamava la fase metafisica, iniziata nel Medio Evo e che aveva come unico scopo la disintegrazione della fase precedente. Di per sé, essa non può produrre nulla, se non il nulla e il dolore. Quindi sì, sono contrario a questa filosofia nata dall’Illuminismo, occorre dirlo chiaramente, senza mezzi termini». 

Perché ha scelto di ambientare il romanzo nel mondo accademico? Proprio perché incarna questo secolo dei Lumi?

«Posso rispondere che non lo so? In fondo credo proprio che questa sia la realtà… In verità, volevo che ci fosse un rapporto molto lungo con Huysmans, e da qui è venuta l’idea di farne un accademico». 

Il fatto di scrivere un romanzo in prima persona è stato immediato?

«O forse è nato dal fatto che era un gioco con Huysmans. È così, fin dalle prime frasi». 

Vi è una dimensione di autoritratto, ancora una volta, in questo personaggio. Non completamente ma… C’è la morte dei genitori, per esempio.

« Sì, utilizzo qualcosa, anche se nei dettagli tutto in verità è diverso. Non si tratta mai di autoritratti, ma sempre di proiezioni. Per esempio, se avessi letto Huysmans da giovane, se avessi fatto studi umanistici e fossi diventato professore universitario... Mi immagino dentro vite che non ho vissuto». 

Lasciando però che alcuni eventi della vita reale si introducano in queste vite fittizie.

«Ricorro a episodi che mi colpiscono nella vita reale, questo sì. Ma ho la tendenza a inserirne sempre di più. In questo caso ciò che resta della realtà è proprio l’elemento astratto ‘morte del padre’, ma in realtà ogni cosa è diversa. Mio padre era molto differente da questo tipo, e la sua morte non è avvenuta così. Di fatto, è la vita a mettermi davanti gli argomenti». 

Scrivendo questo romanzo lei si è calato fino in fondo nei panni di una Cassandra, nel vero senso della parola, dato che nel romanzo fornisce anche una spiegazione precisa di ciò che è una Cassandra…

«Non è possibile etichettare questo libro come un presagio pessimista. In fin dei conti, non è così negativo». 

Non così negativo per gli uomini. Per le donne, invece, è un po’…

«Ah, quello è un altro problema. Ma ritengo che il progetto di ricostituzione dell’Impero romano non sia una stronzata… Ricentrare l’Europa sul sud, potrebbe dare un senso a tutto ciò che per il momento non ne ha. Politicamente, si può parlare di forte accettazione. Non si tratta di una catastrofe». 

Ciò non toglie che il libro è incredibilmente triste.

«Sì, vi è una tristezza molto intensa che lo percorre integralmente sotto sotto. Secondo me l’ambiguità culmina nell’ultima frase: "Non avrei avuto nulla da rimpiangere». In realtà, se ne deduce esattamente il contrario. Ha due cose da rimpiangere: Myriam e la vergine nera. Diciamo che non è andata proprio così. A rendere triste il libro è una specie di clima di rassegnazione». 

Come pensa che si collochi questo romanzo rispetto ai suoi libri precedenti?

«Diciamo che ho fatto ricorso a qualche espediente, come volevo fare da molto tempo e non avevo mai fatto. Per esempio, creare un personaggio molto importante ma che non compare mai, nello specifico Ben Abbes. Penso anche che in questo romanzo ci sia la fine più demoralizzante di un rapporto amoroso che io abbia mai scritto, perché è la più banale: lontano dagli occhi, lontano dal cuore. C’erano dei sentimenti. In generale, c’è una sensazione di entropia ancora più forte rispetto agli altri miei libri. C’è un lato crepuscolare malinconico che dà a questo libro un accento alquanto triste. Per esempio, se il cattolicesimo non funziona, è perché è già servito, sembra appartenere al passato. L’Islam ha un’immagine in divenire. Perché la nazione non va bene? Perché si è troppo abusato di lei». 

Non vi è più la benché minima traccia di romanticismo, per non parlare della poesia. Si è passati al decadentismo.

«È vero, il fatto di partire da Huysmans ha sicuramente avuto un ruolo in tutto ciò. Huysmans non poteva più tornare al romanticismo, ma poteva ancora convertirsi al cattolicesimo. Il punto più evidente in comune con i miei altri romanzi è l’idea dell’indispensabilità della religione, una religione qualsiasi. Questo concetto è presente in molti miei libri. E anche in questo caso, l’unica differenza è che si tratta di una religione che esiste». 

Fino a questo punto si poteva pensare ancora a una religione nel senso che intendeva Auguste Comte?

«Comte ha cercato invano di crearne una e, in effetti, nei miei libri ho parlato più volte della creazione delle religioni. La differenza è che in questo caso essa esiste sul serio» 

Che posto occupa l’umorismo nel libro?

«C’è qualche personaggio divertente, qua e là. Ho la sensazione che l’umorismo occupi la stessa posizione di sempre. Ci sono personaggi comici come ce ne sono sempre stati». 

Si parla poco di donne… Si attirerà ancora critiche da questo punto di vista.

«Di sicuro, una femminista non potrà che essere depressa da questo libro. Ma non posso farci niente». 

Tuttavia era rimasto scioccato dal fatto che “Estensione del dominio della lotta” potesse essere considerato un libro misogino. Adesso però aggrava la sua posizione…

«Non mi ritengo affatto misogino, in verità. E direi che al limite non è nemmeno la cosa più grave. Dove peggioro veramente la mia posizione è enunciando che il femminismo è demograficamente condannato. Da qui l’idea implicita, e che può non piacere, che infine l’ideologia non abbia un peso rilevante in rapporto alla demografia». 

Non è una provocazione questo libro?

«Io eseguo un’accelerazione della storia, ma no, non posso dire che sia una provocazione, nella misura in cui non dico cose che ritengo essere incredibilmente false soltanto per provocare. In questo libro condenso un’evoluzione a mio avviso verosimile». 

E ha anticipato reazioni alla pubblicazione, scrivendolo o rileggendolo?

«Non faccio mai previsioni, davvero». 

Ci si potrebbe stupire del fatto che lei abbia deciso di andare in questa direzione, quando il romanzo precedente era quello del trionfo e i critici se ne erano rimasti in silenzio.

«La vera risposta è che francamente non ho deciso niente. All’inizio quella che si doveva verificare era una conversione al cattolicesimo». 

Non c’è qualcosa di disperato in questa azione che non è stata veramente decisa?

«La disperazione è l’addio di una civiltà in ogni caso antica. In fondo però il Corano è decisamente meglio di quello che pensavo, di lettura in rilettura. La conclusione più evidente è che i jihadisti sono dei cattivi musulmani. Evidentemente, come in ogni altro testo religioso, ci sono vari margini di interpretazione, ma leggendolo sinceramente si giunge alla conclusione che la guerra santa di aggressione non è permessa per principio, e che solo la predicazione è valida. Dunque si può dire che ho cambiato un po’ opinione. È per questo che non ho l’impressione di essere nella situazione di dover avere paura. Piuttosto, ho l’impressione che ci si possa mettere d’accordo. Le femministe, loro, non riusciranno a essere veramente sincere. Ma io e parecchia altra gente sì». 

Si possono sostituire le femministe con le donne, no?

«No, non si può sostituire le femministe con le donne. Non si può proprio, no. Anzi, faccio presente che oltre tutto ci sono anche delle conversioni femminili all'Islam». 

Traduzione di Anna Bissanti

Adriano Scianca per “La Verità” il 3 ottobre 2022.

Noto per lo più come romanziere nichilista, Michel Houellebecq è anche un raffinato elzevirista, un freddo analista del tramonto dell'Occidente che sa tagliare le coscienze con editoriali e commenti non meno che con i suoi affreschi narrativi. Alcune di queste incursioni, sparse in un arco di tempo che va dal 1992 al 2020, sono state raccolte nel volume intitolato, in modo volutamente anodino, Interventi, in uscita martedì per La nave di Teseo. 

Vi ritroviamo lo Houellebecq che conosciamo bene: una sorta di Céline più stanco e meno attaccabrighe, più disgustato che incollerito. E, disseminate qua e là, delle vere perle.

Come quando trova la formula più sintetica ed efficace per descrivere le femministe: «Delle amabili stronze» (il testo è del 1998, forse qualcosa nel frattempo è cambiato, soprattutto sul fronte dell'amabilità).

Lo scrittore si diverte a raccontare l'ingenuità di un movimento di protesta che pensava di far dispetto ai maschi propugnando l'amore lesbico, le cui manifestazioni sono notoriamente apprezzate proprio dai più impenitenti dei maschi eterosessuali, oppure ostentando «un incomprensibile appetito verso il mondo professionale e la vita d'impresa; mentre gli uomini, sapendo da tempo che cosa significavano la "libertà" e la "realizzazione" offerte dal lavoro, sogghignavano bonariamente». 

Per Houellebecq, «l'obiettivo delle femministe (entrare in quanto membri "liberi e uguali" nella società maschile, salvo sacrificare, nel farlo, una parte dei valori femminili) a ogni modo è stato raggiunto, quantomeno in Occidente». Ciò che permane, di queste battaglie, ha visibilmente a che fare con altro, non certo con i diritti delle donne.

Paradossalmente, ma non troppo, alla fine il francese dimostra di avere più in simpatia il delirio androfobico e criminogeno dello Scum Manifesto di Valerie Solanas, che non il femminismo più raffinato e che oggi apparirebbe quasi moderato di una Simone de Beauvoir. 

Se la seconda, con la sua tesi per cui «donna non si nasce, si diventa», mostra «soltanto una crassa ignoranza dei dati biologici più elementari», le sparate terroristiche della Solanas sull'uomo come criminale innato sembrano in particolare sintonia con l'antropologia negativa di Houellebecq (che, beninteso, non manca di evidenziare gli aspetti insostenibili di quel vero e proprio manifesto contro il maschio).

Lo scrittore si sorprende quando i commentatori insistono sulla centralità del sesso nella sua opera, centralità che egli nega. Eppure, anche in Interventi, spesso è proprio lì che si va a parare. Ma non è mai un sesso dionisiaco, luminoso. Non è, a ben vedere, neanche un sesso oscuro, perverso. È semplicemente un diversivo dall'inutilità della vita. Peraltro fallace. 

La vita, per Houellebecq, è una festa, sì, ma fallita, noiosa, quasi insopportabile. Uno di quei matrimoni di qualche cugino di quarto grado in cui parte il trenino in mezzo al ristorante. Se Philippe Muray, autore peraltro amato da Houellebecq, aveva già descritto il moderno come l'homo festivus, per l'autore di Annientare questa tendenza alla festa è un tentativo di esorcizzare l'angoscia, peraltro sempre più insostenibile.

«Lo scopo della festa», scrive, «è di farci dimenticare che siamo solitari, miserabili e destinati a morire. In altre parole, di trasformarci in animali. Per cui il primitivo ha un senso della festa molto sviluppato. Una bella fiammata di piante allucinogene, tre tamburelli ed ecco fatto: un niente lo diverte. Invece, l'occidentale medio arriva a un'estasi insufficiente solo alla fine di raves interminabili da cui esce sordo e drogato: non ha affatto il senso della festa. Profondamente consapevole di se stesso, radicalmente estraneo agli altri, terrorizzato dall'idea della morte, è del tutto incapace di accedere a una qualsiasi fusione. Tuttavia, si ostina».

Perché il sesso, allora? Per uscire vivi dall'imbarazzo della festa non riuscita: «In questo genere di circostanze (locali notturni, balli popolari, festini), che non hanno visibilmente nulla di divertente, un'unica soluzione: rimorchiare». Ma non per reale trasporto della libido, quanto per ingannare la noia. Una sessualità simbolica e quasi virtuale, che funziona come elemento d'ordine e di sublimazione, molto più che come sfogo reale. 

Lo sguardo disincantato dello scrittore non ha del resto paura di misurarsi con alcun argomento, per quanto scabroso esso sia. Lo vediamo quindi, con olimpica tranquillità, discettare del più disturbante dei temi, la pedofilia. Houellebecq taglia subito di netto ogni ambiguità, gettando nel cassonetto lo pseudo argomento dei giustificatori: «Le pulsioni sessuali dell'infanzia, in realtà, non esistono; è un'invenzione pura e semplice. In tutti i casi riportati dai media con tanto compiacimento, il bambino è assolutamente e totalmente una vittima».

E tuttavia, non può non aggiungere che «il pedofilo mi pare il capro espiatorio ideale di una società che organizza l'esacerbazione del desiderio senza fornire i mezzi per soddisfarlo». Non si tratta, meglio specificarlo subito, di attribuire le colpe individuali alla società, ma di denunciare la dimensione alienante e innaturale della proliferazione di un desiderio che non potrà comunque mai essere esaudito. Un retrobottega sordido e maleodorante della grande festa perenne.

 Sottomissione è il romanzo più visionario e insieme realista di Michel Houellebecq, capace di trascinare su un terreno ambiguo e sfuggente il lettore.

A Parigi, in un indeterminato ma prossimo futuro, vive François, studioso di Huysmans, che ha scelto di dedicarsi alla carriera universitaria. Perso ormai qualsiasi entusiasmo verso l’insegnamento, la sua vita procede diligente, tranquilla e impermeabile ai grandi drammi della storia, infiammata solo da fugaci avventure con alcune studentesse, che hanno sovente la durata di un corso di studi. Ma qualcosa sta cambiando. La Francia è in piena campagna elettorale, le presidenziali vivono il loro momento cruciale. I tradizionali equilibri mutano. Nuove forze entrano in gioco, spaccano il sistema consolidato e lo fanno crollare. È un’implosione improvvisa ma senza scosse, che cresce e si sviluppa come un incubo che travolge anche François. Sottomissione è il romanzo più visionario e insieme realista di Michel Houellebecq, capace di trascinare su un terreno ambiguo e sfuggente il lettore che, come il protagonista, François, vedrà il mondo intorno a sé, improvvisamente e inesorabilmente, stravolgersi.

La Parigi "sottomessa" di Houellebecq divide i politici francesi. Il romanzo sull'islam fa discutere. Hollande: "Non si deve cedere a paura e angoscia". Le Pen: "E' fiction ma potrebbe diventare realtà", scrive Alessandro Gnocchi su “Il Giornale”. Questa sera Michel Houellebecq si difenderà dalle accuse scatenate dalle anticipazioni del suo nuovo romanzo Sottomissione (da domani in Francia, in Italia dal 15 gennaio per Bompiani). Lo farà sul canale televisivo France2, intervistato da David Pujadas. Ma lo scrittore ha già rivendicato il diritto, sulla Paris Review , di trattare temi d'attualità, anche scomodi. Respinte le accuse di razzismo e islamofobia, ha osservato la crisi dei valori dell'Illuminismo, il rifiuto crescente della modernità, il ritorno delle religioni, il suicidio dell'Europa e la lotta dei francesi per restare in vita. Il libro entra in pieno nel dibattito in corso da tempo in Francia sull'identità nazionale e sul corretto rapporto con l'immigrazione, specie quella di matrice religiosa musulmana. In Sottomissione , le elezioni presidenziali del 2022 sono vinte dal candidato del neonato partito musulmano, che batte la destra di Marine Le Pen grazie all'appoggio sia dei socialisti sia dei repubblicani. Parigi accetta di buon grado l'islamizzazione morbida propugnata dal nuovo governo. La Francia, forse l'intera Europa, rinuncia alla libertà avvertita come un inutile fardello, il retaggio di un passato ormai finito. La sfiduciata cultura occidentale non può non cedere di fronte alle forti rivendicazioni identitarie dei musulmani. Il protagonista di Sottomissione , un professore esperto di Joris Karl Huysmans, accetta senza opporsi l'islamizzazione dell'università, e in questo segue a suo modo le orme dell'oggetto dei suoi studi. Huysmans, l'autore di A ritroso , passò infatti dal Naturalismo al Cattolicesimo («lo fece per ragioni estetiche, restando freddo di fronte alle grandi domande di Pascal», precisa Houellebecq nella citata intervista alla Paris Review ). Fantapolitica? Dipende dai punti di vista. Dopo critici, filosofi e opinionisti, sono intervenuti i pesi massimi della politica francese. Il presidente della Repubblica, il socialista François Hollande, ha detto che leggerà Sottomissione non appena possibile. Nel frattempo osserva che la tentazione di denunciare «la decadenza, il declino, di esternare pessimismo e dubitare di se stessi» è una costante di molta letteratura, non solo di questo secolo. «Ciascun autore è libero di esprimere quello in cui crede. Il mio compito, invece, è invitare i francesi a non cedere alla paura, all'angoscia». Perché nel Paese ci sono «forze positive» capaci di porre rimedio alle situazioni incerte e di migliorare le condizioni generali. Del resto, pochi giorni prima di Natale, Hollande aveva dichiarato che gli immigrati servono, e il resto è demagogia. Di parere radicalmente opposto la leader del Fronte Nazionale, Marine Le Pen, tra i personaggi del romanzo stesso: « Sottomissione è un libro interessante. È fiction ma potrebbe diventare realtà. Il patto pro islam tra socialisti e repubblicani, in opposizione alla nostro destra, si può già osservare a livello comunale o regionale».

Houellebecq, l’ultimo “Charlie Hebdo” dedicato al suo nuovo libro. Il romanziere sotto scorta ora piange l’amico morto. Disse: «Non sento una responsabilità particolare per quello che scrivo. Un romanzo non cambia la storia», scrive Stefano Montefiori su “Il Corriere della Sera”. Michel Houellebecq è scoppiato in singhiozzi, ieri, quando ha saputo che tra i morti c’era il suo amico Bernard Maris, economista alla Banca di Francia ed editorialista a “Charlie Hebdo”. Sul numero della rivista uscito poche ore prima della strage, Maris conclude con queste parole quello che sarà l’ultimo articolo della sua vita: «Ancora un romanzo magnifico. Ancora un colpo da maestro». Si riferisce a “Sottomissione”, il libro di Houellebecq che negli stessi momenti cominciava finalmente a essere venduto nelle librerie, dopo settimane di indiscrezioni, distribuzioni illegali su Internet e polemiche che, come solo in Francia può accadere, passano rapidamente dalla letteratura alla politica. È stata una giornata spaventosa per tutti. Michel Houellebecq non ha potuto che viverla in modo ancora più drammatico, per le persone colpite a lui vicine e perché quella, fino alle 11 e 30 era la «sua» giornata, quella dell’uscita del libro più atteso dell’anno, da giorni sulle prime pagine di tutti i giornali. Una giornata preceduta la sera prima da un suo intervento al tg delle 20 sul canale pubblico France 2, in cui lo scrittore di tanti romanzi tra analisi della società e profezia aveva risposto con la consueta flemma alle domande del conduttore David Pujadas. «Non sente di avere una responsabilità particolare, lei che è uno scrittore così importante e seguito?», chiedeva Pujadas. «No - aveva risposto Houellebecq -, forse un saggio può cambiare la storia, non un romanzo». Il giornalista alludeva a una voglia di provocazione - tante volte negata - di Houellebecq, che in “Sottomissione” mette in scena il fantasma più angosciante per la società francese di questi giorni: un Islam trionfante, che ha ragione per vie democratiche di una civiltà giudaico-cristiana ormai estenuata, spossata dall’Illuminismo e dal fardello di libertà che pesa su ogni essere umano. Meglio la sottomissione, allora, suggerisce François, il protagonista del romanzo: delle donne all’uomo (la poligamia viene incoraggiata, più mogli smettono di lavorare e restano a casa ad accudire un unico marito), e di tutta la società a Dio. Anzi, ad Allah. Per questo, Houellebecq è stato accusato di soffiare sul fuoco, di usare la paura per vendere libri. Ma Houellebecq è uno scrittore, di sicuro il più celebre e forse il migliore scrittore francese contemporaneo, non un opinionista né tantomeno un uomo politico. Ha il diritto di descrivere la realtà, e anche di offrirci la sua idea di quel che la realtà potrà diventare tra qualche anno, «esagerando e velocizzando», come dice lui stesso. Da quando in autunno si è saputo che il suo prossimo romanzo avrebbe dipinto questa Francia del 2022 in mano all’Islam, l’Islam per certi versi rassicurante (donne a parte) del nuovo presidente della Repubblica Mohammed Ben Abbes, il dibattito culturale - e politico - francese ha cominciato a incentrarsi su Sottomissione , fino a esserne completamente monopolizzato. L’azione militare dei terroristi è stata talmente efficace da essere probabilmente pianificata da mesi, dicono le fonti di polizia: l’uscita di Sottomissione e l’ultimo numero della rivista non c’entrano nulla. I piani si sovrappongono perché c’è la coincidenza dell’uscita nelle librerie, e perché l’ultimo Charlie Hebdo esibisce in copertina una splendida vignetta firmata Luz, almeno lui per fortuna scampato al massacro, che dipinge Houellebecq con l’eterna sigaretta e un ridicolo cappello con stelle e pianeti. Titolo: «Le predizioni del mago Houellebecq», e lo scrittore che dice «Nel 2015 perdo i denti...» (i suoi problemi odontoiatrici sono noti) e «Nel 2022, faccio il Ramadan!». Nell’ultima pagina di Charlie Hebdo , come sempre, «le copertine alle quali siete scampati»: e riecco Michel Houellebecq in braccio a una Marine Le Pen sognante che canta «Sarai il mio Malraux», disegnato da Cabu, morto nell’attentato; Houellebecq in ginocchio che sniffa una pista di cocaina stesa per strada e il titolo «Houellebecq convertito all’Islam?», disegnato da Coco, alias Corinne Rey, la donna che sotto la minaccia delle armi ha aperto la porta della redazione ai terroristi; infine, ecco un ritratto poco avvenente di Houellebecq, lo strillo «Scandalo!» e il titolo «Allah ha creato Houellebecq a sua immagine!». La firma è di Charb, il direttore, l’uomo che più di tutti gli assassini volevano uccidere. Michel Houellebecq è ovviamente sotto la protezione della polizia, come lo sono le redazioni di tutti i giornali e i locali della casa editrice Flammarion, che ieri sono rimasti chiusi. Nel romanzo, gli islamici prendono il potere vincendo le elezioni grazie a un’alleanza con gli esangui partiti di centrosinistra e di centrodestra. Prima che l’ordine coranico regni sovrano sulla Francia e l’Europa, in base al sogno di Ben Abbes di rifondare un impero romano con l’Islam al posto del Cristianesimo, in Sottomissione (uscirà in Italia il 15 gennaio per Bompiani) ci sono scontri, un timido debutto di guerra civile. E la guerra civile, il caos, sono evocati nelle dichiarazioni di mesi fa di Éric Zemmour, l’opinionista che con il bestseller Le suicide français ha generato furiose polemiche su razzismo e islamofobia, con la sua accusa rivolta ai musulmani di Francia di essere «un popolo nel popolo».

Negli ultimi giorni i migliori intellettuali e scrittori francesi, da Michel Onfray a Emmanuel Carrère, si sono pronunciati sulla polemica Houellebecq. Charlie Hebdo, Michel Houellebecq sospende la promozione di Sottomissione, scrive Angela Iannone. L'attentato di matrice terroristica al settimanale satirico francese coincide con la pubblicazione del romanzo di Michel Houellebecq, "Sottomissione". Michel Houellebecq ha deciso di "sospendere la promozione" del suo libro "Sottomissione" perché "profondamente turbato dalla morte del suo amico Bernard Maris, ucciso nell'attacco terrorista al settimanale Charlie Hebdo, nel quale sono state uccise altre undici persone". Lo ha annunciato il suo agente Francois Samuelson, secondo quanto riportato dai media francesi. Lo scrittore, che è sotto scorta, lascerà Parigi, come ha precisato il suo editore Flammarion. L'attentato terroristico alla redazione di "Charlie Hebdo", il settimanale satirico attaccato da un commando armato stamattina, coincide con due pubblicazioni. La prima è la copertina del settimanale stesso, che aveva proprio oggi come protagonista Michel Houellebecq, lo scrittore francese che nel suo ultimo romanzo "Sottomissione", immagina una Francia governata nel 2022 dai Fratelli Musulmani e lancia un allarme sulla progressiva islamizzazione del Paese. La seconda è proprio la pubblicazione di "Sottomissione", che è in uscita oggi nelle librerie francesi. Charlie Hebdo riportava oggi la caricatura dello scrittore travestito da mago, il cui titolo era "Le previsioni del mago Houellebecq" con lo scrittore francese che dice "Nel 2015 perdo i miei denti" e poi "Nel 2022 faccio il Ramadan". Sottomissione è un romanzo fantapolitico che ipotizza una Francia futura nelle mani dell'integralismo islamico. Un Paese in cui un leader musulmano impone l'islamizzazione forzata a tutti  gli abitanti. Circa 300 pagine con una tiratura di 150mila copie diffuse illegalmente già prima della pubblicazione ufficiale, suscitando non poche polemiche tra l'opinione pubblica francese, che si è divisa commentando il titolo come "sublime" o "irresponsabile". Intervistato dalla radio France-Inter, Houellebecq ha minimizzato lo scandalo, ritenendo che non è sia quello il vero senso del libro e che "la parte del romanzo che fa paura  è piuttosto precedente all'arrivo dei musulmani al potere. (...) Si può dire che quello è terrificante, questo regime". "Nel mio libro -continua - l'Islam non è per nulla radicale, al contrario, è una delle religioni più pacifiche che si possano immaginare. Non penso che il mio libro dipinga un Islam minaccioso".

Charlie Hebdo, Houellebecq e Sottomissione, il libro fatale. La strage nel giorno dell'uscita di Sottomissione, scrive “L’Ansa”. Gli assalitori che hanno sparato e ucciso nella sede del settimanale satirico Charlie Hebdo non hanno scelto un giorno a caso: oggi, 7 gennaio 2015, esce in Francia l'ultimo libro di Michel Houellebecq, Sottomissione (traduzione letterale della parola Islam), che in Italia arriverà il 15 gennaio. Proprio a questo libro del controverso autore di Le particelle elementari, Piattaforma, La possibilità di un'isola, il numero di Charlie Hebdo aveva dedicato un articolo e la copertina con una vignetta che ritrae lo scrittore vestito da mago e il titolo: Le previsioni del mago Houellebecq; le profezie dello scrittore sono: Nel 2015 perderò i denti, nel 2022 farò il ramadan. Perché Sottomissione proprio di questo parla: di una Francia governata nel 2022 dai Fratelli Musulmani, che riescono ad andare al governo grazie ad una (poco) incredibile alleanza con quel resta di centristi e sinistra alleate al musulmano moderato  Mohammed Ben Abbes, leader di Fraternité musulmane, contro lo strapotere di Marine Le Pen.  Non è solo l'ennesimo allarme di Houellebecq contro la progressiva islamizzazione del Paese. Come ha scritto Emmanuelle Carriere, Houellebecq ha il merito di essere l'unico a parlare di un problema che esiste ma che molti intellettuali sembrano ignorare. Non solo: per Carriere quella di Houllebecq è una posizione politicamente e sociologicamente ragionevole. L'Occudente si arrende per così dire dolcemente all'Islam, sfinito da secoli di razionalità e illuminismo eccessivamente responsabilizzanti. Nell'acceso dibattito intellettuale francese sul libro e sullo scrittore, non è l'unica recensione positiva incassata da Houellebecq: un altro intellettuale 'scorretto', Michel Onfray , noto per il suo trattato di ateologia e per le sue posizioni anti-cristiane e favorevole al libertinismo, ha parlato di Europa come Continente morto che volontieri si consegna all'Islam dopo averlo fatto con i mercati. E dunque, per Sottomissione, di uno scenario assolutamente plausibile. Proprio ieri, Houllebecq aveva parlato al canale francese France 2 per rivendicare il suo diritto di trattare temi di attualità e soprattutto di sottolineare la crisi dei valori dell'illuminismo e della modernità.

"Ecco la mia Francia nelle mani dell'Islam". Parla lo scrittore Michel Houellebecq. I musulmani prendono il potere. E opprimono le donne. Lo scrittore più provocatorio d’Oltralpe qui racconta “Sottomissione” il suo nuovo romanzo. E dice: «Il Corano è decisamente meglio di quello che pensavo, di lettura in rilettura. La conclusione più evidente è che i jihadisti sono cattivi musulmani», scrive Sylvain Bourmeau su “L’Espresso”. Michel Houellebecq, lo scrittore più controverso di Francia, non ama parlare con i giornalisti. Per il lancio del suo nuovo romanzo, “Sottomissione”, ha dato una sola  intervista al critico Sylvain Bourmeau, che in vent'anni lo ha incontrato decine di volte e che, malgrado le critiche sincere che gli riserva anche in questa occasione, si è guadagnato la sua fiducia. “L'Espresso” pubblica in esclusiva per l'Italia il lungo colloquio che parte dalla trama del nuovo romanzo, ancora più provocatorio dei precedenti. Il libro è uscito in Francia proprio nel giorno dell'attentato a Charlie Hebdo (in Italia esce il 15 per Bompiani). E lo scrittore, che dopo aver subito un processo per islamofobia non vive più in Francia ma è a Parigi per il lancio del libro, è stato posto sotto scorta. Al centro di “Sottomissione” c'è una Francia trasformata in uno stato islamico dopo la vittoria alle presidenziali del leader di un partito  musulmano. Un'ipotesi irrealistica? Non secondo Houellebecq, che ipotizza un ballottaggio con la leader della destra xenofoba Marine Le Pen. «Per la Le Pen mi pare del tutto verosimile che arrivi al ballottaggio già alle elezioni del 2017», spiega lo scrittore. «Quanto al partito musulmano, mi sono reso conto che i musulmani vivono in una situazione del tutto alienata. Sono molto lontani dalla sinistra e ancor di più dagli ecologisti. E non si vede perché dovrebbero votare per la destra, che li rifiuta. Quindi l'idea di un partito musulmano mi sembra plausibile». Il nuovo romanzo sfrutta la paura dell'Islam che serpeggia per la Francia, ammette Houellebecq. Che però è convinto che «non si può definire  “Sottomissione” una predizione pessimista». Anche perché, dichiara a sorpresa, «il Corano è decisamente meglio di quello che pensavo, di lettura in rilettura. La conclusione più evidente è che i jihadisti sono dei cattivi musulmani. La guerra santa di aggressione non è permessa per principio, e  solo la predicazione è valida. Dunque si può dire che ho cambiato un po’ opinione. È per questo che non ho l’impressione di essere nella situazione di dover avere paura. Ho l’impressione che ci si possa mettere d’accordo». 

«La civiltà dell’Europa è sfinita». Onfray promuove Houellebecq. «È un continente morto, oggi in mano ai mercati. Domani forse all’islam», scrive Stefano Montefiori su “Il Corriere della Sera”. Il nuovo romanzo di Michel Houellebecq, Sottomissione , immagina una Francia del 2022 governata da un presidente musulmano e un nuovo ordine sociale che prevede poligamia e donne che restano a casa a occuparsi di mariti e figli in omaggio a una religione - l’islam - che ha trionfato sulla civiltà dell’Illuminismo. Prima ancora dell’uscita (il 7 gennaio in Francia per Flammarion e il 15 gennaio in Italia per Bompiani) il libro scatena polemiche e discussioni, tra riconoscimento del valore letterario e critiche a una presunta voglia di provocazione. Il «Corriere» ha sollecitato l’opinione di Michel Onfray, uno dei più noti intellettuali francesi, autore di decine di opere tra le quali il celebre Trattato di ateologia e una Controstoria della filosofia (Ponte alle Grazie); un pensatore ateo che ha letto - e amato - il romanzo del momento.

Visto che «Sottomissione» è un romanzo e non un saggio, è possibile separare il valore letterario dal contenuto profetico?

«È un esercizio di stile, una fiction politica ma anche metafisica: un romanzo sull’ignavia delle persone, degli universitari in particolare. Un romanzo molto anarchico di destra. Un libro sulla collaborazione, vecchia passione... francese! Come un universitario specialista di Huysmans può convertirsi all’islam? Ne scopriamo le ragioni poco alla volta: la promozione sociale in seno all’istituzione riccamente finanziata dai Paesi arabi, gli stipendi mirabolanti dei convertiti, la possibilità della poligamia, una ragazza per il sesso, un’altra meno giovane per la cucina, una terza se si vuole, il tutto continuando a bere alcool... Questo libro è meno un romanzo sull’islam che un libro sulla collaborazione, la fiacchezza, il cinismo, l’opportunismo degli uomini...».

La parte più scioccante è forse il destino riservato alle donne. Qual è la sua opinione? È concepibile nella nostra società un’evoluzione simile?

«La nostra epoca è schizofrenica: bracca il minimo peccato contro le donne e, per fare questo, milita per la femminilizzazione dell’ortografia delle funzioni, la parità nelle assemblee, la teoria di genere, il colore dei giocattoli nelle bancarelle di Natale; la nostra epoca prevede che ci si arrabbi se si continua a rifiutare auteure o professeure (femminili di autore e professore ), ma fa dell’islam una religione di pace, di tolleranza e di amore, quando invece il Corano è un libro misogino quanto può esserlo la Bibbia o il Talmud. Se si vuole continuare a essere misogini con la benedizione dei sostenitori del politicamente corretto, l’islam alla Houellebecq è la soluzione!».

In una sua prima intervista alla «Paris Review», Houellebecq decreta la fine dell’Illuminismo e il grande ritorno della religione (l’islam, ma non solo). In quanto pensatore ateo, qual è la sua reazione?

«Credo che abbia ragione. I suoi romanzi colgono quel che fa l’attualità del nostro tempo: il nichilismo consustanziale alla nostra fine di civiltà, la prospettiva millenarista delle biotecnologie, l’arte contemporanea fabbricata dai mercati, le previsioni fantasticate della clonazione, il turismo sessuale di massa, i corpi ridotti a cose, la loro mercificazione, la tirannia democratica, la sessualità fine a se stessa, l’obbligo di un corpo performante, il consumismo sessuale, eccetera. Quindi, utilizzare i progressi incontestabilmente compiuti dall’islam in terra d’Europa per farne una fiction sull’avvenire della Francia è un buon modo per pensare a quel che è già».

Houellebecq descrive una società francese ed europea stanca, affaticata dalla perdita di valori tradizionali. Cosa pensa? L’Europa è condannata, come dicevano i neocon americani?

«Houellebecq continua a dipingere il ritratto di una Francia post-68. E ha ragione di vedervi un esaurimento, meno in rapporto con il breve termine del Maggio 68 che con il lungo periodo della civiltà giudaico-cristiana che crolla. Questa civiltà è nata con la conversione di Costantino all’inizio del IV secolo, il Rinascimento intacca la sua vitalità, la Rivoluzione francese abolisce la teocrazia, il Maggio 68 si accontenta di registrarne lo sfinimento. Siamo in questo stato mentale, fisico, ontologico, storico. Houellebecq è il ritrattista terribile di questo Basso Impero che è diventata l’Europa dei pieni poteri consegnati ai mercati. L’Europa è morta, ecco perché i politici vogliono farla!».

La mia impressione, leggendo il libro, è che si finisca per credere alla profezia. In questo sta l’abilità di scrittore di Houellebecq? O la sua previsione è davvero plausibile?

«È in effetti uno dei talenti di questo libro: il racconto è estremamente filosofico perché è estremamente credibile... Sottomissione rivaleggia con 1984 di Orwell, Fahrenheit 451 di Bradbury, Il mondo nuovo di Huxley. Per me è il migliore libro di Houellebecq, e di gran lunga. La sottomissione di cui diamo prova nei confronti di ciò che ci sottomette è attualmente sbalorditiva. È un altro sintomo del nichilismo nel quale ci troviamo».

Evocando l’islam, Houellebecq agita un fantasma molto presente nella Francia di oggi, come dimostrano i libri di Alain Finkielkraut e Éric Zemmour. È giustificata, questa preoccupazione dell’identità?

«Ricorrere alla parola fantasma è già un modo di prendere una posizione ideologica. Esiste una realtà che non è un fantasma e che coloro che ci governano nascondono: divieto di statistiche etniche sotto pena di farsi trattare da razzisti ancor prima di avere detto alcunché su queste cifre, divieto di rendere note le percentuali di musulmani in carcere sotto pena di farsi trattare da islamofobi al di fuori di qualsiasi interpretazione di queste famose cifre, eccetera. Non appena si nasconde qualcosa, si attira l’attenzione su quel che è nascosto: se non esiste che un fantasma, allora che si diano le cifre, saranno loro a parlare...».

·        Michela Murgia.

Il Bestiario, la Murgiona. La Murgiona è una giornalista leggendaria che chiama il suo collega maschio “giornalisto”. Giovanni Zola l’11 Novembre 2022 su Il Giornale.

La Murgiona è una giornalista leggendaria che chiama il suo collega maschio “giornalisto”.

La Murgiona è un essere mitologico che non riesce a fare pace con la lingua italiana, con sé stessa e soprattutto con la logica. A tal proposito, la Murgiona è citata dagli antichi. Aristotele narra che durante la stesura dell’”Organon”, il suo testo fondamentale sulla logica che il mondo ha tragicamente dimenticato, spesso la Murgiona appariva nei suoi incubi notturni, con serpi al posto dei capelli e il suo ultimo libro in mano, e mischiava gli appunti sul sillogismo del filosofo nel tentativo di farlo impazzire e facendolo svegliare nel cuore della notte madido di sudore.

La realtà non smentisce l’indole mitologica della Murgiona. Alcuni fortunati testimoni raccontano di aver visto l’essere leggendario borbottare frasi senza senso nel tentativo di disorientare l’avversario senza però saper utilizzare l’ironia della supercazzola. Altri giurano di aver udito affermare dalla Murgiona che “durante i Rave Party non si commettono reati”. Effettivamente alla Murgiona non le si può dare torto. Se per organizzare un Rave Party infatti si aprisse una società con partita iva, si affittasse uno spazio idoneo, si assumesse una società per la sicurezza, si pagassero le tasse, non si spacciasse droga e ci si facesse una doccia, non ci sarebbe nulla di illegale.

La Murgiona non si accontenta di far torto alla logica aristotelica, essa si diverte anche a giocare con le parole e a declinarle a proprio piacere con la prepotenza di cui solo le femministe più incarognite sono capaci. Nell’era del mondo LGBTQYZ dove ognuno si definisce come vuole – l’ultima trovata è quella di un uomo che si sente donna disabile e vive in carrozzella pur essendo sano (è una storia vera) – la Murgiona impone regole grammaticali e pretende che gli avversari si definiscano come a lei più aggrada. La Murgiona dovrebbe però riflettere a riguardo sul fatto che dalla sua parte la donna più importante è quella che fa da porta borse a un maschio Beta e senza poter decidere neanche che la borsa sia una Yves Saint Laurent.

Di più, la Murgiona non si accontenta di bisticciare con l’Accademia della Crusca, ma processa le intenzioni per cui una donna che pretende l’articolo maschile davanti al suo ruolo professionale necessariamente agirà come un maschio. Da cui, siccome la logica malgrado la Murgiona ha un suo valore, ne concludiamo che chi è di sinistra è femmina, chi è di destra è maschio e chi è di centro usa i bagni neutri.

L'Ego diviso di Michela Murgia. Evi Crotti il 5 Novembre 2022 su Il Giornale.

Cosa raccontano la scrittura e la firma della scrittrice: l'analisi della grafologa

Dalla scrittura e dalla firma di Michela Murgia emerge un temperamento sanguigno atto all’azione e all’operosità. È, pertanto, persona poliedrica e ciò le permette di attivarsi continuamente in comportamenti che le permettono di soddisfare il suo Ego diviso tra soddisfazioni immediate e idealismi, purché diano alla sua immagine un che di positività da presentare all’esterno. Si tratta quindi di un’immagine basata da un lato su principi appaganti e dall’altro sugli ideali che favoriscano la distinzione.

Se lo scritto mette in risalto un gesto grafico semplice e lineare, la firma, invece, denuncia quanto Michela Murgia ami apparire. Le iniziali dell’autografo, così oltre misura, indicano la bramosia nel voler sfondare e trovare così una dominanza nel mondo sociale. In questo senso ella si serve di regole dettate dal padre assunto come modello, che quindi le dona quella forza volitiva e operativa che le permette di distinguersi e di operare con slancio e determinazione (vedi lettere marcate e ben rappresentate). Ciò è anche segnale di un’ottima energia vitale per cui sa affrontare una buona mole di lavoro senza subire fatica e stress.

La Murgia possiede un pensiero di tipo concreto, per cui bando a ogni elucubrazione o a ripensamenti: infatti, ella ama concretizzare a volte persino senza soppesare i pro e i contro che potrebbero derivare da situazioni che invece richiederebbero riflessione; l’importante per lei è fare, rendersi utile ed essere pertanto sempre sulla cresta dell’onda, sia in modo concreto, con i conseguenti ritorni, sia solo in senso idealistico (vedi lettere ”g”, “m” e “p” molto grandi e amplificate). Tale modalità di condotta evoca simbolicamente il carattere della Murgia che passa da una modalità all’altra con estrema facilità.

Le aspirazioni fantastiche, dipendenti dal mondo istintivo, creano poi un misto di caratteristiche temperamentali che senza dubbio le conferiscono grinta, volontà, ambizione e operosità. Deve però stare attenta a non crogiolarsi troppo in questa situazione di apparente sicurezza, a volte persino troppo ostentata ed espressa da forme egocentriche (vedi firma nella quale viene evidenziato di più il nome rispetto al cognome).

"Famiglia tradizionale? Ma se Gesù...". La predica gender della Murgia. Marco Leardi il 30 Ottobre 2022 su Il Giornale.

"La famiglia di Nazareth non è modello di niente". La scrittrice si improvvisa esegeta e scomoda persino la religione. Poi l'attacco al premier Meloni: "Il femminismo l'avrà sempre come nemica"

Gesù di Nazareth? Un nemico della famiglia tradizionale. Un sovvertitore dei ruoli prestabiliti, uno che rinnegava certi valori. Addirittura, una sorta di attivista queer. Il catechismo secondo Michela Murgia è un compendio di relativismo spicciolo che di cristiano, per chi abbraccia la fede della Chiesa, ha davvero poco. Ma che importa: nella retorica del femminismo d'oggi, l'unico dio nel quale credere non può che avere connotati fluidi. Persino il modello trinitario non ha più senso. Lo ha spiegato la stessa scrittrice in un'intervista a La Stampa, nella quale ha offerto ai lettori un sermone domenicale che non ha risparmiato nessuno. Nemmeno Giorgia Meloni.

Il "catechismo" di Michela Murgia

"La famiglia di Nazareth nel Vangelo non è il modello di niente", ha spiegato la novella "esegeta" femminista, offerendo anche degli esempi che suffragassero questa sua tesi. "Quando qualcuno va da Gesù cercando di fargli dire qualcosa di familistico tipo 'sono venuti qui tua madre e tuo fratello a chiamarti perché stai facendo un po' il pazzo in piazza', lui dice 'chi è mia madre, chi sono i miei fratelli?', cioè io giudico sulla base di chi fa la volontà del Padre, non ci sono titoli e ruoli, non li riconosco. Quando dice con durezza 'io sono venuto a portare la spada, non la pace, tra il padre e il figlio, tra la madre e la figlia', mette in crisi i cultori della famiglia tradizionale". Una spiegazione abbastanza semplicistica, e anche errata per la dottrina, della quale però la scrittrice sarda è sembrata parecchio convinta.

Secondo Murgia, del resto, quello della famiglia tradizionale - con padre, madre e bambini - sarebbe un modello fittizio, costruito "negli anni Sessanta" e diverso da quello della famiglia allargata che invece esisteva nelle realtà rurali. "Il fatto che lo Stato riconosca soltanto forme di aggregazione in coppia, riportando il rapporto affettivo solo a un binomio, fa ridere perché nei fatti non è così", ha proseguito la scrittrice, la quale rifiuta anche l'esistenza di valori definiti "non negoziabili" (per usare una storica definizione del cardinal Ruini). "Non esistono nel consesso umano valori non negoziabili. Tutto è negoziabile, perché siamo tutti diversi, la democrazia è l'esercizio della negoziazione più estremo che ci sia. Anche la pace si fa con i negoziati", ha affermato l'attivista queer.

L'attacco a Giorgia Meloni

In simile contesto teorico, il giudizio - peraltro arcinoto - della scrittrice su Giorgia Meloni non poteva certo stupire. "Lei beneficia oggi dei risultati del femminismo, ma il femminismo l'avrà sempre come nemica", ha sentenziato Murgia, arrabbiandosi anche con quelle donne che da sinistra hanno espresso apprezzamenti al neopremier. "Sono allibita dalla simpatia che il discorso di Meloni in Parlamento ha suscitato in molte donne perché non ha sovvertito alcuno schema: non ha detto nulla che non ci si aspettasse da lei, a parte la furbata di intestarsi i percorsi di emancipazione di donne che, se l'avessero conosciuta quando erano vive, sarebbero state sicuramente dalla parte opposta delle barricate", ha aggiunto l'attivista sarda. E ancora: "Meloni ha fatto una costruzione di sé come underdog, la perdente che sovverte i pronostici, che non sta in piedi: a 29 anni era deputata e a 31 ministro".

"Vuole svuotare le battaglie linguistiche"

Sulla questione del ruolo di presidente declinato dal premier al maschile, poi, Murgia è salita sulle barricate. "L'unico motivo per cui una donna dovrebbe rifiutare di farsi declinare al femminile è una disforia di genere, che dubito però la riguardi. In realtà il tentativo è quello di svuotare di significato le battaglie sul linguaggio, che invece sono importanti perché la lingua è l'infrastruttura del pensiero. Loro continuano a dire 'non conta niente', ma allora perché impiegano tanta energia? Sanno che conta, sanno che se tu cambi i nomi, cambi anche i rapporti tra le cose", ha osservato, accusando il presidente del consiglio di voler così i progressi sul linguaggio inclusivo.

Annalisa Cuzzocrea per “La Stampa” il 30 ottobre 2022.

Di Michela Murgia, in God save the queer (Einaudi Stile Libero), c'è tutto. Ci sono la fede e la modernità. La capacità di indagare il sacro e quella di rappresentarlo attraverso le parole. Il femminismo, la tecnologia, uno sguardo aperto sulla vita che è, sempre, mutamento. E che per questo nulla può pretendere di fissare. 

C'è, al fondo, la libertà di una scrittrice che può spaziare dalla Bibbia a Harry Styles a Cenerentola passando per David Bowie e Il giovane Holden, senza smettere di parlare di noi. 

Ci incontriamo nei giorni della fiducia del Parlamento al governo di Giorgia Meloni. Della circolare di Palazzo Chigi con l'indicazione di chiamare la prima premier italiana «il signor presidente del Consiglio», poi corretta in «il presidente del Consiglio». 

Così è naturale, sotto il sole di un mattino d'ottobre, partire da questo. «Sono allibita dalla simpatia che il discorso di Meloni in Parlamento ha suscitato in molte donne - dice Murgia - perché non ha sovvertito alcuno schema: non ha detto nulla che non ci si aspettasse da lei, a parte la furbata di intestarsi i percorsi di emancipazione di donne che, se l'avessero conosciuta quando erano vive, sarebbero state sicuramente dalla parte opposta delle barricate».

Meloni ha riconosciuto che donne come Nilde Iotti o Tina Anselmi hanno costruito la scala che ha permesso il suo percorso. È la prima volta, non le sembra un passo avanti?

«Lei beneficia oggi dei risultati del femminismo, ma il femminismo l'avrà sempre come nemica». 

In realtà pare voler incarnare un altro femminismo, meno simbolico, più pragmatico.

Niente battaglie sui nomi, ma la rivendicazione di una presa del potere solitaria.

«Confonde il potere con l'emancipazione. Il femminismo non ha come obiettivo il raggiungimento del potere, ma la messa in discussione di un modello tradizionale che lei non tocca minimamente. E che anzi incarna al meglio. A Meloni manca tutto il percorso della sorellanza, della rete. Non lotta per le altre donne». 

Ha ripetuto, anche in aula, che non toccherà i diritti, a partire dalla legge 194 sull'aborto.

«La 194 non dice che noi possiamo abortire se lo vogliamo, dice che ci devono essere delle condizioni. Quando Meloni dice: faremo tutto quel che è scritto nella legge, significa che può far sì che quelle condizioni debbano essere certificate da un medico. Così tu dovrai affrontare il consultorio con i pro vita, trovare un dottore che certifichi che hai diritto a interrompere la gravidanza, poi trovarne un altro non obiettore. Sono molto spaventata perché credo che su questi temi saranno feroci e nello stesso tempo diranno: non stiamo toccando niente». 

Di certo non si potrà pensare all'adozione dei figli del partner nelle famiglie arcobaleno o a una legge contro l'omotransfobia.

«E invece io credo che le battaglie che dobbiamo fare non siano di difesa. Bisogna avere il coraggio di alzare l'asticella, dire che vogliamo di più e chiederlo direttamente a questo governo, altrimenti sì che ci ricacciano indietro». 

Cosa pensa del cambio di nome dei ministeri?

«Sono convinta che il modo in cui chiami le cose sia il modo in cui inevitabilmente finisci per trattarle. Sulla questione della scuola e del merito, Giuseppe Conte in aula ha citato una frase meravigliosa: la scuola non è il luogo dell'eccellenza, ma del riscatto. So che la lotta di classe è fuori moda, ma mentre noi decidevamo che non si porta più, le diseguaglianze sono aumentate. Meloni ha fatto una costruzione di sé come underdog, la perdente che sovverte i pronostici, che non sta in piedi: a 29 anni era deputata e a 31 ministro».

Per arrivare dov' è però ha lavorato senza mettersi dietro a un padrino, anzi sfidando i leader.

«Il Pd ha un problema che può risolversi solo lui, quanto a donne che stanno dietro agli uomini. Tornando a Meloni, ognuno fa la narrazione di sé che preferisce. A me stupiscono le persone che le credono. Anche a sinistra. A chi dice: "Anche se non viene dal nostro mondo dobbiamo lasciarla lavorare", rispondo: non è che non abbia mai lavorato. La conosciamo, sappiamo quel che pensa». 

Non sembra avere fiducia nel Pd.

«È irredimibile. La penso come Rosy Bindi. Conte sta occupando i temi che dovevano essere della sinistra». 

Conte è sempre quello che ha votato i decreti sicurezza, i 5 stelle sull'immigrazione hanno avuto per anni una posizione molto simile a quella di Meloni.

«Credo che stia facendo prendere al Movimento un'altra strada. Se il Pd avesse accettato di fare un accordo con loro alle politiche oggi avremmo sicuramente un Pd più di sinistra e un M5S meno nel caos. Era meglio perdere i renziani ancora dentro che la possibilità di quell'alleanza». 

All'inizio del suo libro cita una riflessione di Chiara Valerio. Io ho sempre pensato che nominare significasse far esistere qualcosa, lei invece dice: nominare significa escludere.

«È vero che, nominando, trasformi le cose in fenomeni che non possono essere più ignorati, ma è anche vero che ogni nominazione rischia di essere dogmatica. Tutto quello che esiste deve entrarci e così si creano ulteriori scatole. Per questo mi piace il concetto di queer: l'atto del queering è una scatola senza i lati, prende la forma di quello che ci entra dentro, anziché il contrario. Ed è la ragione per cui è visto con così grande sospetto anche all'interno del mondo Lgbtqia+».

Questa indefinitezza dei confini, queste identità liquide, è come se alimentassero nuove paure. Nel mondo avanzano forze che usano parole d'ordine antiche, una religiosità pervasiva che confligge con una società secolarizzata.

Penso ai teocon americani, a Trump, a Orban, ai polacchi, a Putin. In God save the queer, lei riesce a tenere insieme tutto. La religione non è più gerarchia, la stessa Trinità non lo è, come nell'icona di Andrej Rublëv.

«Credo che la differenza sia tra il concetto di conservazione e il fatto che noi siamo mutamento. Se ti spaventa il mutamento intorno a te, ti spaventa anche il tuo. È per questo che per me categorie come omo, etero, non hanno significato. 

Sono statiche, fasi che non possono definire un'identità. Se la forma diventa la tua sostanza, nel momento in cui la tua sostanza cambia e tu non hai un'altra forma, rimani in gabbia. Trovo tra gli omosessuali e le lesbiche molta difficoltà anche con la stessa categoria di bisessuale.  

Ti dicono: sei un irrisolto, non sei sufficientemente coraggioso, ti chiedono di irrigidire la tua natura. E tu dici: ma io non la voglio irrigidire, perché oggi è così ma domani no e io rimango me stessa. Non è la stasi a definirci, ma il mutamento». 

Parla dei diversi modi di essere cristiano: chi lo è per aderire a una forma che non sente, ma che lo rassicura, e chi lo è nel profondo.

«Ricorda la formula che utilizzava il cardinal Ruini quando era presidente della Cei? Parlava di valori non negoziabili. Ma non esistono nel consesso umano valori non negoziabili. Tutto è negoziabile, perché siamo tutti diversi, la democrazia è l'esercizio della negoziazione più estremo che ci sia. Anche la pace si fa con i negoziati. Il cattolicesimo è sopravvissuto per 2000 e passa anni negoziando forme diverse, altrimenti sarebbe stato sterminato nel primo secolo». 

E quindi anche la religione può essere aperta, inclusiva, fluida.

«Nell'icona di Rublëv si vedono tre persone che pur avendo un'identità specifica non hanno confini così netti da poter dire dove finisce uno e dove comincia l'altro. Quello per il cristiano deve essere il massimo dei conforti possibili. Il problema è che a noi non hanno proposto come modello sociale quella Trinità: hanno proposto la famiglia di Nazareth, che nel Vangelo non è il modello di niente. 

Quando qualcuno va da Gesù cercando di fargli dire qualcosa di familistico tipo "sono venuti qui tua madre e tuo fratello a chiamarti perché stai facendo un po' il pazzo in piazza", lui dice "chi è mia madre, chi sono i miei fratelli?", cioè io giudico sulla base di chi fa la volontà del Padre, non ci sono titoli e ruoli, non li riconosco.

Quando dice con durezza "io sono venuto a portare la spada, non la pace, tra il padre e il figlio, tra la madre e la figlia", mette in crisi i cultori della famiglia tradizionale». 

Esiste la famiglia tradizionale?

«Quel modello nasce negli anni Sessanta, padre, madre e due bambini, ed è celebrato dal Mulino Bianco, ma la famiglia tradizionale rurale era una famiglia allargata in tutti i sensi, dove anche i confini tra fratelli e cugini non erano così netti». 

È un modello costruito?

«Sì e neanche lo applichiamo più. Siamo uno dei Paesi al mondo che fa meno figli in assoluto, più di metà della popolazione è in un nucleo familiare singolo. I modelli di relazione sono già altri e si è visto quanto corta fosse la coperta nel momento in cui, durante il lockdown, ci hanno detto: devi stare con i congiunti. Io sapevo con chi volevo stare, ma legalmente quelle persone non erano la mia famiglia».

Ha dedicato questo libro, alla sua famiglia.

 «Siamo otto e ciascuno di noi ha realtà diversissime, orientamenti diversissimi, ma abbiamo stipulato patti di reciproca responsabilità. Se uno si ammala, se uno ha bisogno, ci siamo l'uno per l'altro o per l'altra. Il fatto che lo Stato riconosca soltanto forme di aggregazione in coppia, riportando il rapporto affettivo solo a un binomio, fa ridere perché nei fatti non è così». 

C'è un capitolo su quanto la tecnologia cambi la realtà, ricreandola. Lei considera il virtuale reale quanto la vita fisica?

«Io non credo che il corpo ci determini. Se una persona con una disabilità si costruisce una identità digitale in cui non dichiara quella disabilità, è forse meno reale? Mi rifiuto di essere inchiodata al mio dato biologico e credo che questo sia molto femminista. Il mio corpo non è la mia identità, per questo non ho problemi se una persona trans dice: io sono questo.

Lo accetto, non vedo cos' altro potrei fare. E mi dà fastidio che a non accettarlo siano a volte le donne che hanno combattuto per anni il fatto di essere ridotte a un corpo, trattate come merce». 

La scelta di Giorgia Meloni di chiamarsi il presidente è una scelta queer?

 «Ma è così! L'unico motivo per cui una donna dovrebbe rifiutare di farsi declinare al femminile è una disforia di genere, che dubito però la riguardi. In realtà il tentativo è quello di svuotare di significato le battaglie sul linguaggio, che invece sono importanti perché la lingua è l'infrastruttura del pensiero. Loro continuano a dire "non conta niente", ma allora perché impiegano tanta energia? Sanno che conta, sanno che se tu cambi i nomi, cambi anche i rapporti tra le cose». 

Annarita Digiorgio per “il Giornale” il 10 ottobre 2022.

Il 15 dicembre si celebrerà la prima udienza del processo in cui è imputato Roberto Saviano per diffamazione contro Giorgia Meloni. Lo scrittore a dicembre 2020, in diretta su Rai Tre, chiamò «bastarda» la leader di Fratelli d'Italia. All'udienza a Roma parteciperà anche Michela Murgia. Non per dare solidarietà a Giorgia Meloni, come ci si aspetterebbe dalla scrittrice (o si dice scrittora?) paladina delle donne e dello schwa, bensì per sostenere il collega maschio che ha insultato una donna. 

Murgia ha annunciato la sua presenza al processo dalle colonne dell'Espresso: «Il 15 novembre c'è il rinvio a giudizio di Saviano, reo di aver detto una parola contraria a Meloni e Salvini sulla responsabilità dei morti nel Mediterraneo». 

La scrittrice si guarda bene dal pronunciare l'insulto rivolto al futuro premier, derubricandolo a critica politica, anzi a «cultura»: «Il primo gesto di Meloni da presidente del Consiglio - scrive Murgia - potrebbe dunque essere quello di portare alla sbarra un intellettuale di fama internazionale che le ha espresso dissenso. A quell'udienza ci sarò anche io. Voglio vederla in faccia questa destra che appena sente la parola cultura mette mano alla querela». 

Quindi secondo Murgia dire «bastarda» a Giorgia Meloni è «cultura». Eppure proprio lei ha scritto un libro che si chiama Stai zitta. E altre nove frasi che non vogliamo sentire più. Nel saggio Murgia (senza articolo d'avanti, per lei sarebbe sessismo anche quello!) elenca tutti gli epiteti e modi di dire correnti che, secondo lei, insultano le donne.

Non solo sessismo linguistico, ma veri e propri femminicidi verbali: «Se si è donna, in Italia si muore anche di linguaggio. È una morte civile, ma non per questo fa meno male». Si legge nella sintesi di copertina: «Accade ogni volta che rifiutano di chiamarvi avvocata, sindaca o architetta perché altrimenti dovremmo dire anche farmacisto. Succede quando fate un bel lavoro, ma vi chiedono prima se siete mamma. Quando siete le uniche di cui non si pronuncia mai il cognome, se non con un articolo determinativo davanti. Quando vi dicono di calmarvi, di scopare di più, di smetterla di spaventare gli uomini, di sorridere piuttosto, e soprattutto di star zitta».

Per Murgia dire a una donna che «fa la maestrina» è sessismo, mentre darle della «bastarda» è cultura. O diventa «cultura» solo perché la «bastarda» è Meloni? Forse l'insulto per essere tale dipende da chi lo dice, e da chi lo riceve. Quando infatti sono rivolti a lei, diventano sessismo o bodyshaming. 

Alla fine del primo governo Conte fece l'elenco degli insulti ricevuti dagli hater mentre Salvini era al Viminale: «Scrofa. Palla di lardo. Peppa Pig. Sono sui socialmedia da 11 anni, ma quello che mi sono sentita dire negli ultimi 14 mesi non ha precedenti. Tanto è durato il governo uscente, tanto è durato il processo di promozione dell'insulto da bar a linguaggio istituzionale. Si chiama bodyshaming». 

Invece Saviano che chiama «bastardi» Meloni e Salvini finendo a processo per Murgia è cultura: e non ha usato neppure la «schwa»!

Giulia Zonca per "La Stampa" il 2 febbraio 2022.

Mascherina per l'ossigeno, siringa, pastiglie: Michela Murgia è diretta come al solito: «La malattia non è una catastrofe, ma un pezzo della mia vita che vale come gli altri e non voglio trattarla come un segreto oscuro o una cosa di cui vergognarmi». 

È uscita dalla terapia intensiva dove è stata ricoverata a inizio anno per un problema cardiaco e ora racconta sprazzi della convalescenza, spiega le assenze giustificate e mostra pure il sostegno ricevuto, le attenzioni di un giro di amici così partecipe da monitorarla, sostenerla, inseguirla.

Mostra quello che serve per guarire. La scrittrice aveva già dato notizia della sua salute il 2 gennaio con un messaggio più stringato e pronto a scomparire in una storia. Nei giorni di dubbi e paure forse era meglio affidarsi a un post temporaneo, ma il gruppo di supporto è emerso subito, forte e chiaro e ora torna negli aggiornamenti. 

Prende il sopravvento sulle cure e sulle fragilità, resta prepotente e vivace, in primo piano, saldo in mezzo alle difficoltà. Quando Alessandro Baricco ha deciso di informare il pubblico della leucemia ha scritto un avviso, destinato a restare unico, ha aperto e chiuso un canale per l'attimo che serviva a definire la situazione. 

Quel giorno lui entrava in ospedale per un delicato intervento, lo aspettavano lunghi giorni purtroppo destinati a restare senza immediate risposte, in attesa. Murgia si riaffaccia su Instagram uscita dalla clinica e semplicemente dichiara di non avere intenzione di nascondersi.

Non significa che da ora in poi farà la cronistoria del suo recupero minuto per minuto, ma non tira le tende su questo periodo. Ci ha raccontato che si è fatta controllare per «la tigna di Chiara Tagliaferri» la compagna di libro e di podcast, la collega con cui conduce «Morgana» sottotitolo, «storie di ragazze che tua madre non avrebbe approvato», storie militanti con cui lei cerca di scolpire figure in un vocabolario aderente, su misura, e non preso malamente in prestito da altri mondi.

Si propone di svelare persone spesso descritte con le parole sbagliate. E la stessa tecnica usa per trattare la sua salute, un tema personale, che resta tale, però pure una cosa che capita e si deve affrontare: «Ammalarsi è normale, curarsi è normale e anche scegliere dove fermarsi è normale. Non tornerà tutto come prima, ma quello che verrà dopo potrebbe persino essere meglio. Diamoci il tempo di farlo succedere», cambia il ritmo ai social.

Rallenta. Baricco lo aveva bloccato con una singola affermazione che conteneva pure, conteneva già, il successivo silenzio. Suo e di chi gli sta vicino. Murgia spiega che darà le novità «di tanto in tanto», quando sarà necessario perché lei ha sempre scritto e detto tutto per emergenza, per il bisogno di evidenziare, di non trattenere. 

Spesso le si intitolano delle crociate e lei lascia che sia, alimenta l'idea, ma ognuno ha degli imperativi e lei segue i suoi. Non si lascia giudicare nemmeno in questa circostanza, sfugge al controllo però piazza ogni dettaglio in piena luce: la mascherina per l'ossigeno, la siringa e le pastiglie. Niente filtri. 

Gli amici controllano che lei non faccia sforzi dalla chat «oro saiwa» che ogni tanto si affaccia nei post. La invitano a rispettare la app salute che denuncia un battito accelerato e quindi una probabile fuga, una camminata proibita e lei rilancia «figurati se esco dalla vostra guardania... mi sto masturbando».

Sa bene che la app la localizza, lontana da casa. Soprattutto sa di avere quello che serve per riprendersi: gli amici, l'amore, l'attenzione. E che ce lo faccia sapere non è così male.

·        Michele Rech, in arte Zerocalcare.

Da open.online il 6 gennaio 2022. «Non ho mai pensato che disegnare fumetti potesse essere la mia principale fonte di reddito. Anche perché molte persone mi dicevano che non avevo abbastanza talento per diventare un fumettista». Michele Rech, in arte Zerocalcare, ha parlato della sua arte e della sua esperienza come disegnatore in un’intervista rilasciata al Guardian, realizzata da Lorenzo Tondo. 

A dieci anni dall’uscita del suo primo graphic novel (La profezia dell’armadillo, 2011), Zerocalcare racconta le sue difficoltà iniziali. Quel lavoro era stato rifiutato da decine di editori. Quando la Bao edizioni ha poi deciso di pubblicarlo, è arrivata a ristamparlo 24 volte per una vendita totale di circa 150 mila copie. «L’ultima volta il firmacopie è durato 14 ore», racconta Zerocalcare. «È estenuante. Mi dicono che dovrei assumere un agente, qualcuno che metta dei limiti a questa cosa. Ma per me sarebbe un’ingiustizia, e mi sentirei in colpa». 

Ma l’apice del suo successo è arrivato quest’anno, con l’uscita della sua serie tv targata Netflix Strappare lungo i bordi. E la sua vita, dice, da un po’ non è più quella di prima. «Devo imparare che le cose non sono come erano un mese fa. E non è facile per uno come me».

Ma come è nato il progetto della serie animata? «Ero ossessionato dall’idea», ha detto il fumettista. «Prima di tutto per la musica, perché avevo sempre citato delle canzoni nei racconti ma sapevo che molte persone non li avrebbero mai ascoltati. E io volevo che lo facessero: quindi ho inviato a Netflix centinaia di e-mail, finché alla fine non hanno accettato». Ma la serie non è piaciuta particolarmente alla Turchia di Erdogan, che ha criticato l’inserimento delle bandiere curde nella scenografia. Ma Rech ha sempre difeso la sua scelta: «Sono le bandiere delle persone che hanno liberato la Siria settentrionale dall’Isis. Di coloro che hanno dato la vita per combattere il fondamentalismo islamico».

Zerocalcare: «Non sono pacifista. Ci sono pure le guerre di liberazione, no?». Chiara Severgnini su Il Corriere della Sera il 25 Marzo 2022.

«Non ho gli strumenti per fare un’analisi geopolitica...». «Tanti mi chiedono: “Perché non dici o non disegni la tua sull’Ucraina?”. Ma io ho difficoltà a dare risposte tranchant e diffido di chi lo fa». 

Michele Rech, nato a Cortona il 12 dicembre 1983, fumettista conosciuto con il nome d’arte Zerocalcare (foto Mondadori Portfolio)

In principio fu l’armadillo. Michele Rech, alias Zerocalcare, lo ha scelto come incarnazione della sua coscienza. Prima nei fumetti che pubblicava «ogni maledetto lunedì su due» sul blog. Poi nella sua graphic novel d’esordio e in quasi tutte le successive. Infine, nella serie animata per Netflix Strappare lungo i bordi, uscita a novembre in 190 Paesi, che ha elevato al cubo la sua fama. E pensare che la primissima edizione de La profezia dell’armadillo, alla fine del 2011, era un’autoproduzione: 500 copie stampate con l’aiuto di Makkox, tra i primi a credere nel talento di Rech. Costava 12 euro, spedizione inclusa; oggi su eBay non si trova a meno di 600. Nel mezzo ci sono dieci anni e altri tredici fumetti, tutti editi da Bao Publishing (che nel frattempo ha anche ristampato La profezia dell’armadillo, a colori, ben ventisette volte). Il loro successo ha fatto di Rech—romano, classe 1983— una vera star: a gennaio, per dire, c’erano quattro sue opere nella classifica dei venti titoli di narrativa italiana più venduti. A differenza di altre star, però, lui non sembra voler cambiare vita. Non ha un agente. Non ha cambiato né quartiere, né amici, né abitudini («vado ancora in fumetteria ogni martedì », giura). Presta china, tempo e voce alle stesse cause di sempre: dalla lotta dei curdi al sostegno legale per i manifestanti coinvolti nei processi per i fatti del G8. Su WhatsApp ha uno status ironico: «Odio disegnare e odiò andà in giro».

Dieci anni di carriera. Che effetto fa?

«Assurdo. Ogni tanto incontro pischelli che mi dicono cose come “sono cresciuto con le tue storie”, oppure “ti ho riscoperto con la serie, quando ero piccolo ti leggeva mia mamma”. E io penso: ma com’è possibile che tu abbia cambiato il tuo status da “piccolo” ad “adulto” da quando io faccio fumetti leggibili anche da chi non frequenta i centri sociali? Perché in realtà è da 25 anni che faccio cose… ».

«RISPETTO A PRIMA SONO UNA MACCHINA! SOLO CHE TUTTO VIENE OFFERTO SUBITO AL PUBBLICO. NON RIESCO A DIRE “STO 6 MESI CHIUSO A DISEGNARE”»

L’anniversario ti ha fatto riflettere?

«Ho fatto un bilancio. Quando è uscita La profezia dell’armadillo c’era una divisione molto netta tra i miei fumetti pop e i miei fumetti legati al mondo dei centri sociali. Però ho sempre voluto provare a portare i secondi all’interno dei primi, senza snaturarmi e senza commettere un suicidio lavorativo. È stato un processo lungo, ma oggi il mio bagaglio politico sta integralmente nella mia professione».

Come sei cambiato, come autore?

«Rispetto a prima, sono una macchina! Sono più veloce e più sicuro di me. Ma tutto ciò che faccio viene dato direttamente in pasto al pubblico e questo è avvenuto a discapito della ricerca artistica: non ho avuto il tempo di sperimentare, non ho mai potuto dire “sto sei mesi chiuso in casa a disegnare, vediamo come va”. Questo è il mio rimpianto».

«SPOSARE UNA CAUSA, QUANDO FAI UN LIBRO, E POI DISINTERESSARTENE, QUANDO IL CLAMORE SI SPEGNE, È MORALMENTE INDECENTE PER ME» 

E perché non ti prendi questi sei mesi?

«Non perché devo pagare l’affitto, come qualcuno pensa, ma perché sto incastrato in meccanismi editoriali e in logiche politiche che impongono delle scadenze. Per esempio, nel 2021 sono stato tra Iraq e Siria, perché i curdi mi hanno detto che c’è bisogno di raccontare quello che sta succedendo lì: se il fumetto esce tra tre anni, non serve a nulla. È vero, potrei mandare tutti a quel paese, ma io considero i fumetti come una declinazione del mio modo di stare al mondo e prima di essere un fumettista sono una persona con un’esigenza di militanza».

Insomma, non ti puoi prendere sei mesi da te stesso.

«Esatto».

In questi dieci anni anche il fumetto italiano è cambiato. Senz’altro ha acquisito una maggiore visibilità mediatica. Perché?

«Si è presa coscienza del fatto che è un linguaggio, non un genere. Con il fumetto puoi fare tutto: interviste, saggi, storie per l’infanzia…».

In questo processo di sdoganamento, il fumetto ha perso qualcosa o ci ha solo guadagnato?

«Ci sono ancora spazi dove si possono fare fumetti underground con contenuti radicali. Per chi finisce sotto i riflettori, è chiaro, ci sono delle questioni da affrontare…».

«PER FORTUNA HO DEGLI AMICI CRUDELI E LUCIDI CHE, QUANDO SERVE, SONO CAPACI DI DIRMI: ‘SMETTILA, SEMBRI LA BARBARA D’URSO DEL FUMETTO’» 

Per te, quali sono?

«La prima è saper fare delle cose impopolari, se penso che siano giuste, continuando a parlare a tanta gente. Dopo un po’ che fai questo mestiere, capisci quali sono le cose che ti portano consenso. E quando sei molto esposto, ti verrebbe naturale schivare i guai: è umano. La sfida è mantenere un equilibrio».

E poi?

«Non trasformarmi in un pupazzo del teatrino mediatico. È difficile: mi invitano in tv, mi provocano sui social… Per fortuna, ho degli amici crudeli e lucidi che ci tengono molto a me. E, quando serve, sono capaci di dirmi: “Smettila, sembri la Barbara d’Urso del fumetto”».

Con quali fumetti sei cresciuto?

«Ho iniziato con Il Corriere dei Piccoli, poi ho scoperto Topolino, Sturmtruppen, Lupo Alberto, Cattivik… Dopo ho cominciato con i supereroi americani e i manga. Ma la folgorazione, la voglia di fare questo mestiere, è arrivata con La mia vita disegnata male di Gipi».

Perché?

«Mi ha fatto capire che ci possono essere delle cose da raccontare anche nella vita di uno come me, che non sono certo Indiana Jones. In più, se ne fotte della grammatica del fumetto. Non avevo mai letto nulla di simile prima e mi ha trasmesso un’idea di libertà assoluta».

Ti rileggi?

«Non ho mai riletto un mio fumetto in vita mia».

Neanche prima di mandarlo in stampa?

«Se lo facessi, non andrebbe in stampa niente. Mi affido all’editore».

«HO SEMPRE VOLUTO OBBLIGARE LE PERSONE AD ASCOLTARE LA MUSICA CHE DICO IO, LEGGENDO LE COSE MIE! STAVO IN FISSA CON LA COLONNA SONORA: HO SCELTO PERSONALMENTE OGNI SINGOLA CANZONE» 

Cosa rende speciale il fumetto?

«Richiede al lettore di stare attento. Si presta a fare ragionamenti complessi, non solo razionali, ma anche emotivi. Può dare la percezione di essere rilassante, ma costringe a fare una sintesi tra immagine e parola, a riempire con la fantasia gli spazi tra una vignetta l’altra e a mettere in funzione tanti sensi».

Non l’udito, però. Eppure nei tuoi fumetti i testi delle canzoni sono un elemento ricorrente. È anche per questo che hai fatto il salto verso l’animazione?

«È stato il motivo numero uno: ho sempre voluto obbligare le persone ad ascoltare la musica che dico io, leggendo le cose mie! Stavo in fissa con la colonna sonora: ho scelto personalmente ogni singola canzone».

Sei riuscito a ottenere tutti i brani che volevi?

«No, c’è un famoso cantautore italiano che non ci ha autorizzato a usarne uno, anche se lo volevo tantissimo. Mi avevano detto che è perché non lo concede mai, ma di recente l’ho trovato in un film di merda… verrà il giorno della mia vendetta (ride, ndr)».

Canzoni a parte, com’è stato passare dal fumetto alla serie animata?

«Sono molto contento del risultato e mi piacerebbe raccontare altre storie in quel modo, ma devo far sì che sia compatibile con la maniera in cui mi piace vivere. Per il primo mese, è stato complicato: ogni cosa che scrivevo o dicevo finiva in quel teatrino di cui parlavamo prima, mi sembrava di stare in un talk show permanente. Non era mai accaduto prima e ci ho messo un po’ a prendere le misure».

Tante persone che ti hanno scoperto con la serie. Che tipo di riscontri hai ricevuto?

«Molte si sono commosse o sentite coinvolte. Poi però per alcune c’è stato una sorta di scarto quando hanno scoperto il resto della mia produzione, come Strati (uscita a febbraio su L’Essenziale, racconta la storia di Ugo Russo, ucciso a 15 anni dal carabiniere fuori servizio che stava tentando di rapinare con una pistola giocattolo, ndr). Qualcuno si è indignato e si è chiesto: “Com’è possibile che l’autore di una serie in cui mi sono riconosciuto così tanto sostenga posizioni che io vorrei vedere sepolte in galera?”. Fa parte delle grandi contraddizioni della vita».

«GLI YAZIDI SI SONO DATI UNA FORMA DI AUTONOMIA INSIEME AI CURDI, MA SONO MINACCIATI SIA DALLO STATO IRACHENO SIA DALLA TURCHIA, CHE LI BOMBARDA QUASI QUOTIDIANAMENTE» 

Prima accennavi al tuo viaggio in Iraq e al tuo prossimo fumetto, atteso nella seconda metà dell’anno.

«Sono stato dove vivono gli yazidi, una minoranza massacrata dall’Isis nel 2014 in quello che l’Onu ha riconosciuto come un tentato genocidio. Si sono dati una forma di autonomia insieme ai curdi, ma sono minacciati sia dallo stato iracheno sia dalla Turchia, che li bombarda quasi quotidianamente. È un altro pezzetto del progetto di autonomia democratica che ho già raccontato in Kobane Calling e che rischia di essere spazzato via».

Vuoi riportare l’attenzione su una guerra che, passata la fase acuta, è stata dimenticata?

«La percezione del superamento della fase acuta ce l’abbiamo noi, perché non ci sentiamo più coinvolti. Ma per chi combatte, forse la fase acuta è ora: sul campo ci sono ancora i jihadisti e in più in cielo ci sono i cacciabombardieri turchi. Io, comunque, non me ne occupo da reporter, ma perché ho deciso che mi sta a cuore. Sposare una causa quando fai un libro e poi disinteressartene quando il clamore si spegne o quando ti dedichi ad altro, per me, è moralmente indecente».

Perché hai «deciso» di prendere a cuore questa causa?

«Perché, tra le mille situazioni drammatiche che ci sono al mondo, questa non mi smuove solo una questione umanitaria, ma rappresenta un faro di speranza. Il tipo di società per cui si battono i curdi si basa su valori che secondo me permetterebbero di risolvere tante delle contraddizioni in cui stanno anche le nostre vite, qui in Occidente. Il mio è un impegno continuo, anche quando non si vede a fumetti: vado ogni mercoledì alla riunione con la comunità curda. Ma non so sparare e non sono un diplomatico, so solo fare fumetti: questo è l’unico contributo che posso dare dunque voglio darlo».

«LA SCELTA DEL DARE O NON DARE ARMI AGLI UCRAINI E’ UN DILEMMA. E CHI NON SE LO PONE È SUPERFICIALE OPPURE È UN PEZZO DI M...» 

Cosa rappresenta la cover che hai disegnato per 7?

«Il dilemma. In Ucraina è in corso un’aggressione e i civili stanno attraversando qualcosa che dovremmo cercare di far finire il prima possibile. Ma come? C’è chi dice che bisogna dare armi agli ucraini, e chi dice che dare armi è sbagliato perché non bisogna alimentare il conflitto. In entrambe le posizioni riconosco qualcosa di eticamente valido. Ma bisogna pensare alle conseguenze, che sarebbero in ogni caso pesantissime. Sta lì, il dilemma. E chi non se lo pone è superficiale oppure è un pezzo di merda. Su questo tema, ho più bisogno di ascoltare che di essere quello che si pronuncia».

E invece?

«Tanti mi chiedono: “Perché non dici o non disegni la tua sull’Ucraina?”. Ma io ho difficoltà a dare risposte tranchant e diffido di chi lo fa. Il fatto stesso che io mi debba barcamenare in questa cosa dà l’idea di quanto ci informiamo male. C’è chi crede di potersi fare un’opinione seguendo un influencer! Oppure chiedendo a me! Ma io non ho gli strumenti per fare un’analisi geopolitica, posso solo ripetere quello che ho letto. Ma ci si dovrebbe informare con la complessità, non con la semplificazione ».

L’equivoco nasce dal fatto che sei stato etichettato come autore pacifista o buonista?

«Forse. Ma non sono pacifista. Mi schiero contro alcune guerre, ma non sono per la non-violenza a tutti i costi. Ci sono anche le guerre di liberazione, no? I curdi stessi sono in guerra. Quanto al buonismo… Non ci trovo nulla di bello nel dirsi cattivo, ma non cerco di essere buono a tutti i costi».

A proposito di etichette, sulla tua carta d’identità c’è scritto «fumettista»?

«No, c’è ancora “grafico”: è la mia comfort zone». 

·        Nietzsche.

Che cosa salverei del grande Nietzsche. Filippo La Porta su Il Riformista il 20 Febbraio 2022. 

Sapete qual è il libro di filosofia più bello, più avvincente e nutriente di questa stagione? Il commento a Umano, troppo umano, aforisma per aforisma di Sossio Giametta (Bibliopolis). L’autore, saggista, traduttore, filosofo, si impegna a commentare tutti gli aforismi di Umano, troppo umano, appartenente alla cosiddetta fase “illuministica” di Nietzsche, dopo averli mirabilmente tradotti mezzo secolo fa. Configurando un “metodo” prezioso nell’accostarci – amorevolmente, criticamente – ai filosofi. La filosofia è dialogo, anche litigioso, con i filosofi che ci hanno preceduto. Mi piacerebbe che il “metodo” diventasse contagioso, che cioè qualcuno si cimentasse nello stesso esercizio, poniamo, con l’Etica di Spinoza, con La ricerca sull’intelletto umano di Hume, con le Briciole filosofiche di Kierkegaard (per dire tre libri fondamentali, che ho molto amato).

Il commento di Giametta è puntuale, rispettoso, acuminato, e sempre fortemente personale: ogni volta mette in gioco se stesso, una conoscenza di prima mano del pensiero filosofico e il rapporto “urgente” con la propria esperienza quotidiana (appartiene alla famiglia dei “moralisti”, digressivi e antisistematici, diversi tecnicamente dai filosofi professionali). Glosse e scolii rappresentano un immenso deposito di cultura filosofico-letteraria, acume psicologico, conoscenza della vita. Di tale deposito mi limito a segnalare tre o quattro cose per me salienti. Anzitutto, come ne esce Nietzsche? Giametta ci va giù con mano pesante: gli aforismi del filosofo tedesco sono per lui alcune volte scombinati, arbitrari, sballati (con titoli fuorvianti), altre volte “spiritosi”, e infine altre volte geniali. Ciò che viene giustamente sottoposto a disamina critica è lo “stile nietzscheano”: roboante, spettacolare, pieno di frasi ad effetto e di velleità poetiche (sarebbe meglio dire poeticistiche), e insomma la sua “teutonica radicalità”.

A ben vedere proprio questo stile ha avuto una grande influenza sui nostri filosofi contemporanei, traducendosi in un estremismo tutto retorico, manieristico, privo di qualsiasi rapporto con il senso comune, attratto dall’estremo e dall’oltre. Nietzsche loda proprio l’equilibrio e la misura cui risulta perlopiù refrattario, finendo a volte in una specie di Kitsch allegorico (ma forse ne è consapevole: definisce Leopardi il maggior prosatore del secolo, e lui è certo lontano dalla sua grazia di scrittura). Valga per tutti il giudizio di Tolstoj che definì Nietzsche, a causa della sua spesso inutile complicazione, un “civettuolo feuilletonista”, tutto paradossi brillanti e rovesciamenti. Entrando più nel merito Giametta porta i suoi affondi critici lì dove Nietzsche ci appare oggi più datato: condanna della compassione (“il peggiore dei mali”), giudizio negativo sulla morale, liquidazione del cristianesimo (che, benché devitalizzato – annota l’interprete – “continua a offrire l’amore, la protezione e la provvidenza del padre, che la laicità non può offrire”). E non parliamo degli elogi della guerra e della schiavitù o dei sinistri progetti eugenetici.

Giustamente l’autore ricorda che la morale è “un fatto naturale, non metafisico”, come vorrebbe Nietzsche: viene dal basso, e coincide con una solidarietà biologica, con la identificazione dell’individuo con la specie. Ciò che non convince è proprio la proposta nietzscheana di “rinaturalizzazione” dell’uomo, e cioè l’auspicio di un (gioioso) imbarbarimento, di un recupero dei suoi istinti più ferini, e dunque l’esaltazione della sopraffazione e dello sfruttamento dei deboli da parte di una casta superiore. Dentro la nostra natura ci sono egoismo e ferocia, ma anche cooperazione ed empatia. Nel filosofo tedesco riecheggiano teorie riduttive alla Rochefoucauld che tutto spiega con la vanità umana. Né si può negare l’esistenza di azioni disinteressate, o se si preferisce motivate da un interesse bene inteso.

Inoltre: Nietzsche non crede alla logica (serve solo a rasserenare i “Malati” mettendo ordine nel caos), in quanto funzionerebbe solo su cose uguali e nella natura non c’è niente di uguale: eppure “nella natura non c’è, a rigore, neanche niente di completamente disuguale”. Poi Giametta critica a più riprese la negazione nietzscheana del libero arbitrio. L’essere umano, certo determinato da molteplici cause, è un pezzo di essere, è una parte della potenza della natura, e di questa condivide la libertà creativa. E poi, sbotta Giametta: “negare la responsabilità, accettata in tutta la storia umana, sebbene sia difficile da dimostrare, può mai essere un’idea sana”. Su giustizia e amore: se il diritto è non solo necessario ma “terribile”, perché “sempre impari, nella sua dura logica, alla vita inafferrabile” (Salvatore Satta), non perciò possiamo giudicare “stupido” (Nietzsche) l’amore, che dà a tutti indipendentemente dai meriti. Né, d’altro canto la giustizia stessa è interamente riducibile ad accordi e patti di convenienza: la sua origine è nella dignità umana, che rifiuta la soperchieria e la disuguaglianza.

Ora, il valore della filosofia di Nietzsche consiste proprio nella sua spietata attitudine alla scepsi, al “martello critico”, alla demolizione di illusioni e ipocrisie, dunque nel continuo riesame critico delle proprie stesse posizioni. Di ciascuna delle “verità” prima riportate, benché suonino apodittiche, definitive, lo stesso Nietzsche scriverà una parziale ritrattazione, una riformulazione problematica (è un pensatore scettico). Anche perciò è sempre spiazzante: ad es. quando scrive, ad onta del suo inguaribile pessimismo, “in mezzo alla natura l’uomo è sempre un fanciullo. Questo fanciullo fa a volte un sogno cupo e angoscioso ma quando riapre gli occhi si ritrova in paradiso”.

Le pagine di Umano, troppo umano dedicate a un sistematico smascheramento dell’essere umano – o meglio della borghesia trionfante e delle magnifiche sorti – conservano tutta la loro affilata, scandalosa verità, così come le pagine di Marx e Freud, la cosiddetta “trilogia del sospetto”, la quale tende a sottolineare la parte bassa, materiale dell’uomo, che “tira giù tutto”. Mentre la sua magniloquente pars costruens ci appare oggi meno convincente. Benché sia da valorizzare la “china felice”, presente, in quest’opera, della “attenzione nelle piccole cose, alle famose cose prossime”. Anche meditando queste pagine se oggi un ventenne – inappetente alla lettura come la maggioranza dei suoi coetanei – mi chiedesse il titolo di almeno un libro indispensabile, non esiterei a indicargli Guerra e pace (Giametta propende per Goethe): nel romanzo tolstojano scopriamo infatti che nell’esistenza ci sono più cose tra il cielo e la terra di quante se ne trovano nelle sentenze memorabili di Zarathustra. Filippo La Porta

·        Oliviero Toscani.

SIMONETTA SCIANDIVASCI per Specchio-la Stampa il 7 agosto 2022.

Casinista calmo, talvolta ascetico, combinaguai a sua insaputa, polemista senza dolo, padre di sei figli, innamoratissimo di sua moglie, Kirsti Moseng, la migliore delle migliori - una volta ha detto: «Non conta quante donne ho avuto, conta che ho avuto le migliori». E fotografo: capace di ritrarre 800 facce e 58 organi sessuali per campagna, e di far baciare una suora e un prete, e di usare dei preservativi, delle facce, dei migranti in barca per pubblicizzare una marca di vestiti, senza mai mostrare nemmeno un paio di pantaloni. Oliviero Toscani è un artista: «Il mestiere del fotografo non esiste più. O sei artista o sei nulla». Lo ha detto tre anni fa, non ha cambiato idea. 

Toscani, mi agevoli: si descriva lei.

«Sono uno onesto». 

E basta?

«Che altro c'è?».

Tutto il resto.

«Ma no. Bisogna essere capaci di togliere. Togliere e mettere le cose a nudo». 

Si spogli. Cosa vede?

«Un ottantenne fortunato». 

L'età è una cosa bella o brutta?

«È. Avanza e non c'è scelta».

Ma?

«Ma non scio e non corro come quando avevo vent' anni. Un po' mi dispiace, ma lo accetto, è normale, appartiene alla vita. Quelli che vorrebbero essere giovani per sempre sono ridicoli».

Lei detesta qualsiasi tentativo di contrastare il dato di fatto. Persino indossare i tacchi.

«Io detesto gli imbrogli». 

Se indosso qualcosa che mi fa sentire di più a mio agio, imbroglio?

«Vuoi sembrare chi non sei, quindi non ti vuoi bene». 

Oppure me ne voglio così tanto da volermi migliorare.

«Ma non si può migliorare. Non con il trucco, almeno. Si migliora con la cultura. Ci sono ciccione infinitamente più belle di certe che faticano a esser magre. Io con una che fa ore di palestra per essere magra non so di cosa potrei parlare. Cosa mi racconta, che dieta fa? Che mi importa di una ossessionata dall'aspetto? ».

Grossolano. Descrive l'ossessione per il corpo come un segno di vacuità.

«Perché lo è».

No. Il corpo può fare molto male. Pensi a quello che ci stanno insegnando i transessuali su quanto è doloroso stare in un corpo che non rappresenta chi si è. Ma vale anche per molto meno, vale anche per chi senza fondotinta s' intimidisce.

«Sui transessuali concordo, mai avuto niente in contrario. Sul fondotinta no». 

Cos' è la vera bellezza?

«Ingrid Bergman».

E tanto piacere. Ma non possiamo essere tutte come lei.

«Io però voglio lei». 

Quando va in giro ne vede molte, di Ingrid Bergman?

«No. Vedo soprattutto donne rovinate, tutte uguali». 

Cosa pensa delle ragazzine che si rifiutano di depilarsi e di quelle che si vantano dei loro brufoli?

«Che sono l'altro lato della stessa medaglia».

Agiscono in nome dell'autenticità. È l'eccesso del suo discorso.

«No. Io cerco una bellezza fatta di personalità. Mi piacciono le donne che incutono rispetto da dieci metri di distanza». 

Esempi?

«Monica Vitti, seria e irresistibile. Aveva una personalità incredibile, si sentiva da lontano la forza della coscienza che aveva di sé. Simone De Beauvoir. Individui liberi che non hanno mai avuto il problema del genere».

Simone De Beauvoir se l'è posto eccome il problema del genere.

«Ma le fregava qualcosa di essere una bambolina?»

Ma lei non ha mai paura di sbagliare?

«Mi faccia una domanda migliore». 

Ha paura di qualcosa?

«Solo una: di farmi male».

Bene, così si tutela.

«Sì. Per il resto, m' interessa rischiare. Il rischio è una grande opportunità. Non puoi essere creativo ed essere sicuro. L'insicurezza è una fortuna». 

Mi dice un rischio che sta per assumersi?

«Rispetto al mio lavoro ho sempre fatto le scelte che mi sentivo di fare. Ho sempre ascoltato la voce interna che mi diceva: fai, abbi coraggio. Ed è ancora così».

Non ha mai detto di no?

«Sì, e anche a tante cose interessanti. A Berlusconi quando ha cominciato a lavorare in tv. E tutte le volte che non mi piacevano le cose che dovevo fotografare e lo scopo per cui dovevo farlo».

Ha detto che Chiara Ferragni è la più brava fotografa del nostro tempo.

«No». 

Lo hanno riportato male?

«La gente ha il cervello piccolo. Ho detto che lei inconsciamente è quella che usa la fotografia nel metodo più moderno. Posta una foto e 22 milioni di persone la vedono subito. Quale altro fotografo ha questo privilegio? Lei usa la fotografia nel modo più estremo che è tecnicamente possibile al giorno d'oggi. Questo ho detto. E ho anche detto che però la fotografia dei social deve ancora andare all'asilo: è totalmente ignorante. È come un bimbo che sarà intelligente ma deve ancora cominciare a scolarizzarsi». 

Ma Ferragni la segue?

«No, non mi interessa. Però mi piace il suo potere».

Anche il suo lavoro è stato visto da milioni di persone.

«Ma c'è voluto molto tempo».

E non è giusto così? Arrivare con la fatica, dopo molto tempo?

«Non so cosa sia giusto. È così.

Non dico che Ferragni sia una brava fotografa: posta cagate inutili, ma quelle cagate inutili sono viste. Quando ha postato le foto con Luciana Segre, ha avuto un'utilità maggiore di quella che ha quando vende magliette griffate». 

I social hanno un futuro?

«Il problema è che non hanno un passato. E tutto questo è un pre asilo». 

Quindi la nuova epoca deve ancora cominciare?

«Sicuro. Quando sento genitori che si lamentano di TikTok, dico: perché non si chiedono come mai, agli occhi dei figli, è più interessante TikTok di loro? Dobbiamo educare i mezzi di comunicazione, non demonizzarli». 

Educare a usarli?

«No, educare per farli crescere, come è stato fatto con la tv e la radio, dove per anni sono state impiegate le nostre intelligenze migliori, e infatti tante cose le conosciamo perché le abbiamo viste e ascoltate lì.

Certo, adesso la qualità è enormemente calata». 

Di chi è colpa?

«Non del pubblico. Berlusconi ha rovinato l'Italia perché è un buzzurro ed è riuscito a imporre il gusto di un buzzurro a un Paese di sessanta milioni di persone».

Un Paese che l'ha votato.

«E che però lo ha negato. Come coi grillini: ora che sono finiti, nessuno ammette di averli voluti, di averci creduto».

E lei ci ha creduto?

«Mai. È un bene che siano finiti». 

E se il 5 Stelle ritornasse in un'altra forma?

«Le cose che ritornano sono sempre penose». 

Lei per chi voterà?

«Sono di sinistra». 

Crede al grande centro?

«Democrazia Cristiana: si chiama così il grande centro. Ed è quello che piace agli italiani.

Io sono radicale. Marco Pannella aveva sempre ragione».

Gli italiani lo amavano e però poi non lo votavano.

«Tipico: un popolo di figli di puttana».

Cosa teme questo popolo?

«Se stesso».

Però gli italiani la amano anche tanto.

«Quando non mi usano come capro espiatorio. Guardi il casino per il Ponte Morandi». 

Lei disse: «A chi interessa che caschi un ponte?».

«Ora le dico bene la storia. Io non avevo niente a che fare con Autostrade, ero tornato in Benetton da poco, mi aveva richiamato Luciano, e l'unica volta che gli ho chiesto come andasse con Autostrade, mi aveva detto che non gestiva personalmente quella parte, e che aveva sentito che avevano proposto al gruppo di seguire anche la Salerno Reggio Calabria, ma il gruppo aveva rifiutato perché erano stati informati del fatto che c'erano ponti costruiti con cemento tremendamente scadente. E mi aveva impressionato che ci fossero ponti fatti con cemento scadente. Quando dissi quella frase mi riferivo a questo. Ma mi vennero tutti addosso, io sono sempre il capro espiatorio perfetto». 

Usciamo dall'Italia.

«Per andare?». 

In Cina. Le piace?

«Dai cinesi mi aspetto la vera rivoluzione. Non possono rimanere così, senza libertà. Per fortuna, il mondo non è gestito da loro».

E non teme che accadrà?

«No».

Tornerà la grande America?

«No, ma alla fine l'Occidente è il meno peggio. E l'Occidente non è l'America. Milano è molto più USA del Midwest americano. L'Europa è cultura occidentale, non americana». 

Vito Mancuso ha scritto su La Stampa che l'Occidente ha bisogno di una nuova utopia, che per lui è tornare a essere umani.

 «Io trovo che l'utopia sia il nome che diamo alle cose che non riusciamo a realizzare». 

Lei le ha realizzate tutte?

«No. Ma ho fatto parte di una generazione fortunata, migliore di quelli che hanno avuto il padre fascista e il nonno comunista. I quarantenni di oggi sono così e mi hanno deluso profondamente: sono rimasti delle mezze seghe, guardi Renzi, Salvini, questi qui tutti a metà. Sono nati ricchi, come i miei figli, e noi li abbiamo viziati troppo perché pensavamo che non dovessero fare fatica. Risultato: non sanno cosa fare del tempo della loro vita». 

E cosa c'è da sapere?

«Se vuoi consumarlo o se vuoi viverlo».

Però i quarantenni hanno inventato la yolo economy, quella che ricorda che si vive una volta sola.

«E che invenzione è? Lo vede che hanno, anzi avete poco talento? Forse avete mangiato troppa roba in scatola». 

Troppo Mulino Bianco?

«Sì, ecco. Troppe merendine. Non sa quanto ho battagliato contro quello slogan "Dove c'è Barilla c'è casa", di Gavino Sanna. Gli dicevo: Gavino, guarda che dove c'è casa ci sono anche grandi problemi sociali e lui mi rispondeva che io facevo vedere i neri e gli omosessuali. Il mondo della pubblicità, negli anni Ottanta, era pieno di improvvisatori della felicità. Imbroglioni».

La felicità che cos' è?

«La voglia di averla».

La vita che vorrebbe aver avuto?

«Ho fatto tutto quello che avrei voluto fare e ho avuto pure modo di vivere momenti di pigrizia e ripensamento. Ho vissuto dove ho voluto e ora vivo dove voglio vivere. Appartengo alla generazione di Bob Dylan. Abbiamo fatto la nostra storia». Ora ne arriva un'altra. «Speriamo. Son qua che aspetto da quarant' anni».

Il provocatore radical clic dalle mille idee e un'ideologia. Luigi Mascheroni l'11 Luglio 2022 su Il Giornale.

Creativo più che vero fotografo, è a suo modo un genio. Ma a riguardare oggi i suoi scatti, sono invecchiati. Come lui.

Oliviero Toscani con il passare del tempo diventa sempre più - come dire? - fané. A ottant'anni - a proposito: «Auguri!», così, Si metta in posa Maestro: clic clic - ha scritto la storia della fotografia in Italia, ha toccato lo zenit con l'ambizioso progetto Razza umana, ma ormai ha perso la freschezza di un tempo - le fotografie vintage non sempre sono belle solo perché sono vintage - e anche un po' i freni inibitori. All'inaugurazione della recente mostra a Milano Professione fotografo dedicata alla sua patinata e abbagliante carriera, ignorando quasi duecento anni di studi sulla falsificazione e l'ideologia dell'immagine fotografica, ha dichiarato: «Da quando c'è la fotografia ci siamo resi conto di cos'è davvero l'umanità, prima abbiamo raccontato tante balle. Io credo che il Vangelo e la Bibbia siano fake news. Se ci fosse stata la macchina fotografica la figura di Gesù Cristo sarebbe ridimensionata». Liquidando, con un ardito scatto di ingenuità, duemila anni di religione. Ebraica e cristiana. Il Corano, curiosamente, è rimasto fuori dall'inquadratura.

E così Oliviero Toscano, uomo di tante idee ma ancor più di granitica ideologia, può continuare a professare la propria personalissima religione laica: il livore. Il maestro dello «shockvertising» - termine che definisce lo shock provato nel momento in cui si scopre quanto si può guadagnare con una réclame non sopporta tutto ciò che non rientra in una pagina pubblicitaria di Vogue. Quindi: i poveri, che gli fanno schifo; i colleghi fotografi per una malcelata invidia di fondo, e in particolare quelli di guerra («mistificatori col giubbotto antiproiettile»); poi tutti i politici (di destra), tutte le politiche (anche Maria Elena Boschi, che pure immortalò in un celebre servizio su Maxim, perché alla fine in copertina il nome di lei era scritto più grande di quello di lui), i social («sono campi di concentramento delle intelligenze»), tutti gli italiani che non la pensano come lui, e soprattutto quei mona dei veneti, «tutti ubriaconi», i siciliani («mafiosi!»), e chi vota Berlusconi, Salvini e ultimamente, con una acredine direttamente proporzionale alla velocità con cui sale nei sondaggi, Giorgia Meloni: «ritardata, brutta e volgare», «una povera donna che dice un sacco di cazzate», pericolosa e fascista. «Le persone normali hanno sempre bisogno di un mostro da giudicare per convincersi di non essere simili a lui». Facciamo clic clic la fotografia a chi non se la lega al dito, facciamo clic clic la fotografia al sorriso di un amico.

Amico dei Benetton, nemico dei no-vax - «United Colors of Omicron» - e indifferente alle vittime del crollo del ponte Morandi (i grandi fotografi sono quelli che sanno riassumere con uno scatto di cinismo le grandi tragedie: «A chi vuoi che importi se cade un ponte») e sponsor entusiasta delle Sardine, da cui il famoso grido «Oliviero, datti all'ittica!», Toscani bisogna riconoscerlo - e chi non lo fa è un leghista ignorante che va in giro a farsi i selfie col telefonino - è uno dei fotografi italiani più celebri al mondo. Piace a molti, non piace ad altrettanti. Ma la sua opera è nella storia. Perché Oliviero Toscani è bravo. Come ammette lui stesso, non è un grande fotografo dal punto di vista tecnico. E neppure da quello artistico. E a dire il vero non è neppure un fotografo. È un creativo, e non diciamo «pubblicitario» per non mancare di rispetto. A lui e ai pubblicitari. Ma a suo modo è un genio. Insomma l'espressione esteticamente migliore dei peggiori anni Ottanta. Modelle, ufficio casting e foto di moda. Toscani - radicale in tutto e amicissimo di Marco Pannella - ha illuminato un'epoca. Che per fortuna è passata. Le sue fotografie, oltre che provocatorie, sono bellissime. È che, a guardarle oggi, sono invecchiate. Un po' come lui. Anacronistico e situazionistico.

Je suis la photographie! Sfondo bianco e identico schema di luci, teorico del soggetto principale sempre al centro, scatti nevrotici, permaloso, sensibile come una pellicola Fuji 1600 ISO, grande senso degli affari (su olivierotoscanibazaar.com si vende di tutto) e convintamente democratico «Tutti quelli che vogliono fare gli artisti e non sanno fare niente, fanno i fotografi: è l'arte più democratica che ci sia» Toscani ultimamente sembra uno di quegli intellettuali umanisti e engagé che prima conquistano culturalmente l'Italia, fanno la bonne vie da privilegiati e infine, al crepuscolo professionale, vivono di rendita e cominciano a criticare tutto ciò che non gli piace del Paese. Del resto, il dramma dei migranti è una cosa orribile vista da una tenuta di Casale Marittimo, Maremma puttana, allevando cavalli e producendo vino. Syrah, Cabernet Franc, Petit Verdot, Teroldego, radical clic e conformismi: razzismo, discriminazioni, multiculturalità - e multinazionali dell'abbigliamento - guerra, sesso liquido, violenza, anoressia, bianco e nero, il bianco che bacia il nero, il nero che bacia il bianco, la suora che bacia il prete, lei che bacia lui, lui che bacia lui, lei che bacia lei, e ancora il razzismo Come insegnava un grande pubblicitario: «Repetita iuvant». Anche se lui tifa Inter. Insomma: eccellente fotografo, solo un po' monotono. Però ha un seguito di fan straordinario, almeno dal 1973: «Chi mi ama mi segua» (e chissà cosa direbbero oggi di quel culo le prefiche del #MeToo...).

Carattere ombroso, ormai uno degli unici rimasto su Clubhouse (dove a tarda notte lo puoi trovare a litigare con gruppetti sfigati di fotoamatori), curioso del successo altrui «Chiara Ferragni non sa fotografare ma è quella che usa la fotografia nel modo più moderno. Ma io non seguo quello che dice Chiara Ferragni, trovo che gli stupidi la seguano, infatti ne ha più di 22 milioni» - Toscani è, ammettiamolo, un tipo originale. Si veste come un manifesto della Benetton e porta strani occhiali dalla montatura colorata, tipici degli over 80 con ansie giovanilistiche, categoria anagrafica che, unita a una spiccata coprolalia, gli permette di dire ciò che vuole. E litigare con tutti.

Ma naturalmente sono solo provocazioni. Facciamo clic clic la fotografia al mondo di domani, facciamo clic clic la fotografia a tutti i tipi strani. E un primo piano a me

Sempre in primo piano, secondo a nessuno, figlio di Fedele Toscani, capo dei fotografi del Corriere della sera al quale si attribuisce ma non è vero, è una fake news - la famosa fotografia di Indro Montanelli che batte sulla macchina per scrivere seduto su una pila di giornali e amorevole padre di Olivia («Non l'ho più visto dall'età di quindici anni, quando sono andata via da casa»), Toscani ha fatto la storia della fotografia. Ma non gli basta. Da un po' di tempo in qua - profondità di campo e miopia politica - vuole fare anche quella della sinistra italiana. Lui, Chef Rubio, Vauro, i Maneskin, Rula Jebreal e Roberto Saviano L'ultimo sogno situazionista è diventare gran consigliori del mondo prog-dem-left-chic. Con intellettuali di una simile lunghezza focale, come si fa a perdere? Mettetevi in posa, bravi, così: facciamo clic clic... Anche i grandissimi fotografi, prima o poi, finiscono dentro una fotografia. 

Simonetta Sciandivasci per "la Stampa" il 24 febbraio 2022.

Li capisci sempre dalle mogli. Oliviero Toscani ha battagliato, polemizzato, discusso moltissimo, sempre, con chiunque, tranne che con Kirsti Moseng, la terza e ultima donna che ha sposato. Cinquant' anni insieme e mai un litigio perché «Lei mi guarda e io mi sento un cretino». Nelle 250 pagine della sua autobiografia, Ne ho fatte di tutti i colori" (La Nave di Teseo, da oggi in libreria), su di lei e loro insieme c'è pochissimo: un paio di frasi, nessun aneddoto. Perché lui viene da una famiglia radicale e sobria, non ha avuto che trenta baci da sua mamma in tutta la vita, detesta quelli che si dicono «ti amo».

Della Kirsti, però, è «innamorato come il primo giorno». Il tumulto, nella sua vita (il 28 febbraio fa ottant' anni, come Dino Zoff), è stato altrove. Nel lavoro, che è tutto il resto e che lo ha portato ovunque: a Zurigo, a studiare, negli anni in cui a Basilea venne sintetizzata per la prima volta l'Lds; al Chelsea Hotel quando ci viveva Dylan Thomas, che ha fotografato in vestaglia, tra gli scarafaggi; a giocare a carte con Keith Richards; a lavorare per Vogue, Elle, Libération, con Fiorucci e Luciano Benetton; a fare l'assessore di Vittorio Sgarbi; a mandare al diavolo Anna Wintour dicendole «fatti curare da uno psichiatra» (poco dopo lei sposò uno psichiatra); in tribunale per vilipendio della religione, diffamazione di Salvini, Gasparri, popolo veneto.

Quando fece l'epica campagna dei jeans Jesus, quella del Chi mi ama mi segua scritta sugli shorts, Pasolini scrisse sul Corriere della sera che Toscani aveva cambiato le regole dello slogan. Di giornali e riviste ne ha fatti a bizzeffe. Con Colors dice di aver rivoluzionato l'editoria. 

So che le è stato proposto di dirigere il Corriere. È vero?

«Sì. E arriverei a un milione di copie in sei mesi». 

Mi dica il piano editoriale.

«Prima di tutto faccio una redazione molto eccentrica. Niente vecchi, nemmeno un barboso editorialista di questi rincoglioniti con cui riempite i giornali. A scrivere ci metto ventenni da tutto il mondo: analisi, opinioni forti, contrasti, polemiche, risse, approfondimenti. Le notizie si leggono sul telefono. E poi abolisco le distinzioni di settore: politica, esteri, sport, spettacoli. Va tutto insieme: storie e letture personali. Il giornale dev' essere super soggettivo, una sorpresa quotidiana, una rappresentazione teatrale scritta e illustrata». 

Bello, lo compro. Ai trentenni nemmeno un posticino?

«Mi sembrano in maggioranza imbecilli. Pochissime eccezioni. Preferisco i ventenni». 

Che dice dei ragazzi in piazza in questi giorni?

«Non mi piace che si rifiutino di fare la prova scritta: magari scrivono che i professori sono cretini, ma devono farla». 

E delle proteste per gli studenti morti sul lavoro?

«Che è qualcosa di troppo drammatico per farne una ragione per scendere in piazza. E non può passare l'idea che chi offre lavoro ammazza la gente: lo dico pur convinto che la scuola non debba insegnare a lavorare, o a fare marketing, bensì a ragionare, a sorprendere, anche a contestare. Io volevo la cattedra di sovversione alla Sapienza, ma non me l'hanno data». 

Ma la sovversione non si può insegnare, è un controsenso.

«Certo che si può, anzi: si deve. Sovvertire significa mettere a posto le cose che non vanno». 

Bella la sua bio, le invidio l'avventura.

«Lei dove è nata?». 

Matera.

«In un sasso?». 

No, ahimè.

«Allora non è figlia di un asino. Mi spiace per Matera, l'ho vista che ero un ragazzino, con le bestie nelle case, ricordo il rumore, lo strazio. Ora è un posto per ricchi vecchi bavosi, ci sono stato di recente per fare un libro ma ho mollato, non mi piaceva». 

Perché in Italia roviniamo sempre tutto?

«Perché non abbiamo fantasia. Diciamo di essere creativi ma è una balla. Abbiamo inventato solo il fascismo, e infatti ne siamo gelosi, non riusciamo ancora a rinnegarlo». 

Dov' è finito il suo patriottismo?

«Parlo così proprio perché sono un patriota. Per amore». 

Cosa ama di questo Paese?

«Le minoranze. Pannella prendeva il 2 per cento, ma aveva ragione. In buona parte, gli italiani sono vigliacchi, pigri. Ma ci sono individualità eccezionali che finiscono o soffocate o assorbite: qui hai speranza di fare qualcosa se ti iscrivi al partito, se stai col regime». 

Lei si è fatto la tessera del PD nel 2018.

«L'ho fatto quando avevano perso tutto, miseramente». 

E si è pentito?

«No. Se ci fosse stato il PCI, mi sarei iscritto al PCI». 

Ma lei non è mai andato d'accordo con i comunisti.

«È vero. Erano troppo tristi grigi ottusi e borghesi per me».

E allora?

«Sono un radicale, l'ultimo rimasto in Italia. La tessera del Pd la feci per dimostrare che bisogna avere il coraggio di appartenere a qualcosa anche nel momento in cui fallisce». 

La destra riesce sempre a far sembrare i conservatori dei veri liberali e i liberali dei veri bacchettoni.

«Gioca facile: il nostro è un paese di destra. Il resto è un inganno. Una volta mi sono permesso di dire che i veneti sono alcolizzati atavici e si sono scandalizzati come suore, persino Zaia si è risentito, m' è toccato scrivergli una lettera di scuse».

L'ho letta. Bellissima. «Chiedo scusa a Lei, che è il Presidente dei veneti astemi, degli alcolisti sobri e dei bevitori moderati per il linguaggio un po' leghista che ho usato per fotografare i simpatici amici del Veneto».

«E pensi che poi Zaia mi chiamò per dirmi che era stato eletto grazie a me«. 

Un collaborazionista.

«Io? Per carità. Io sono contrario persino alle mamme italiane. Tirano su maschi fifoni, vigliacchi, superbi». 

I padri tutti innocenti??

«Sempre le italiane li allevano.

Ha scritto che le donne migliori hanno i difetti peggiori degli uomini.

«Intendevo le donne riconosciute come migliori: guerresche signore nevrili, uguali ai maschi. E dire che a me le donne piacevano perché non facevano la guerra. Spero ancora che s'inventino un altro mondo, invece di battersi per prendersi questo e dire: sappiamo fare come voi». 

A parte le mamme, c'è un'altra causa di tutti i mali?

«I padroni. Questo paese ne ha avuti di pessimi. Pensi ai nostri reali e imprenditori: Olivetti è morto nel 1960 e ancora lo rimpiangiamo perché non c'è stato nessuno migliore di lui. Nessuno in sessant' anni».

Dicono tutti che lei è un provocatore. Non le sta stretto?

«Ieri era qui una giornalista polacca, non faceva che dirmelo e alla fine ci ho litigato, le ho detto che mi sembrava che fosse venuta a dimostrare che Toscani è un delinquente. La provocazione è la conseguenza di un comportamento, non un modo d'essere. È un'azione». 

Di questo presente cosa c'è di interessante?

«Tutto. Come sempre». 

Mi piaceva la sua idea di fare una campagna vaccinale con lo slogan "Droghiamoci tutti!". Molto anni Ottanta.

«Gli anni Ottanta sono stati uno schifo, del resto i Beatles si sono sciolti nel 1969». 

E lì è finito il mondo?

«Un po' sì. Finiti loro, ritornarono tutti i parrucconi e i loro figli. Negli anni Ottanta sono nati quelli della sua generazione. Come sono le sue amiche?». 

Strepitose.

«Portano i tacchi?». 

Sì.

«Vede? Basso cervello, alti tacchi. Le ballerine dovreste mettere. Io non sopporto le donne con i tacchi e meno ancora quelle con i tatuaggi: mi rifiuto, in generale, di parlare con chi si tatua». 

Quante donne ha avuto?

«Non conta quante, conta che ho avuto le migliori».

Ha fatto pazzie per amore?

«Una: dedicargli la mia vita». 

Perché le piace il Papa?

«Perché è un buon conservatore e dice le stesse cose che diceva mio nonno, un anarchico socialista antifascista». 

Cosa sarebbe successo se avesse detto sì a Berlusconi, quella volta che chiamò lei e Umberto Eco per affidarvi la direzione editoriale e creativa delle sue tv?

«Forse avrei fatto qualche buon programma: Mediaset non ne ha fatto nemmeno uno. Berlusconi è stato la rovina di questo paese. E non mi è mai stato antipatico. Era anche amico del mio fratello maggiore, Elio Fiorucci. Ma ha sempre avuto un insormontabile problema: l'eccesso di gusto. Lui è sempre troppo: troppi denti, troppi capelli, troppi figli, troppe donne». 

Lei ha conosciuto Weinstein, ha detto che era gentile.

«E aveva un carisma che trascendeva la sua bruttezza. Non voglio difenderlo, ma dico che non si può condannare senza capire. A tre anni gli fu chiaro di essere un mostro: deve avergli fatto scattare qualcosa di terribile». 

Com' è andata quando ha fotografato 58 organi sessuali?

«Erano di più. 58 ne pubblicammo. Ero a Parigi, feci un fondo con un buco. Un mio assistente faceva i casting, loro si spogliavano, si fermavano davanti a quel buco, io scattavo e via. Sarà passato anche Macron».

Ha detto di aver completato la sua istruzione al cinema. Mi fa una lista di film che valgono quanto un liceo?

«Tati, Bunuel e Limonata Joe. Guardi questi, poi torni». 

Cos'è il pop?

«Molte cose: quello che si mangia al cinema, una parte del papa, uno scoppio, un'espressione estetica, e anche un suono».

Giovanni Audiffredi per "DLui - la Repubblica" il 22 febbraio 2022.

«Non tagliate la carta, che detesto gli sprechi. Poi mi basta una luce sola. Così proviamo che l’ombra sia bella incisa». Oliviero Toscani, il 28 febbraio compirà 80 anni, è seduto su una vecchia poltrona da ufficio con le rotelle e spicca ordini perentori. 

Sta allestendo il set del prossimo servizio fotografico. Due assistenti eseguono freneticamente. Provano a dire qualcosa, ma lui li sovrasta. 

Srotolano un rullo di carta bianca appeso al soffitto per fare il fondo: «Prendete due pali e schiacciatelo bene alla parete. Ho detto bene. Ora delle lastre di plexiglass per fare il pavimento. Spingetele di più: devono essere a filo. Ecco, ci siamo, è pronto. Non serve tanta roba. Possiamo andare a mangiare». Indossa il cappello da Indiana Jones bordato di piume, il cappotto di casentino arancione fluo e sentenzia: «Attraversiamo la strada, qui davanti, ai Binari, si mangia l’ossobuco».

Usciamo dal portone di Via Tortona, 16, un indirizzo emblematico per la fotografia di moda a Milano. Tutti quelli del mestiere sanno che corrispondeva allo studio di Giovanni Gastel, morto il 13 marzo 2021. Fino alla stessa data di quest’anno, la mostra People I Like, alla Triennale, ne ricorda il lavoro di ritrattista. 

Toscani, perché ha scelto di venire a lavorare proprio qui?

«Giovanni… che tipo che era. Mi manca. Nel 1982 nella redazione di Donna, stavo litigando con il mio amico art director Flavio Lucchini che voleva farmi fare un servizio: The Great Gatsby. Una cazzata pazzesca. 

Con tutto quello che accadeva nel mondo, noi a fare quella roba lì. Io gli dico: “Fatti il tuo giornaletto, me ne vado”. E lui mi risponde: “Bene, non sentirò la tua mancanza, il primo cretino che si presenta qui farà quello che fai tu”. Apro la porta e mi si para davanti Giovanni Gastel, con il book in mano. Intendiamoci, non era affatto cretino, gli ho detto: “Ciao, tocca a te”. E la mia segretaria, Carla Ghiglieri, diventò la sua agente. Giovanni era un lord lombardo».

Lei invece, milanese dell’Isola, nato sotto i bombardamenti degli inglesi.

«Mia mamma andò in tram a partorirmi alla Mangiagalli. Poi siamo stati sfollati in campagna, a Clusone, in casa di contadini. Sono tornato a Milano a tre anni, ma ero infelice, deperivo senza giocare con cavalli, oche e vacche. Allora mi riportarono lì e vivevo a piedi nudi». 

È vero che suo padre fotografò Benito Mussolini impiccato in Piazzale Loreto?

«Certo. Era un dissidente tollerato dal regime perché faceva il reporter per il Corriere della Sera e filmava per l’Istituto Luce. Conosceva bene Mussolini. Aveva capito il carattere tragicomico del regime. Scattava e poi le foto venivano divise: quelle passate al vaglio della censura del Minculpop, andavano alla propaganda interna; mentre quelle scartate le vendeva a un’agenzia di Londra. Il regime faceva finta di non sapere».

Cosa ha imparato da lui?

«Ho il suo modo di affrontare le cose, con una macchina in mano. È un attrezzo che serve a porsi delle domande. Mai lavorato insieme. Sì, andavo nel suo studio, avevo l’occasione di frequentare dei luoghi: a Monza per la Formula 1, alle partite dell’Inter. A mio padre andava bene che facessi quel lavoro, però non da autodidatta. Dovevo studiare». 

Così la spedì a Zurigo alla scuola di Arti e Mestieri?

«Quello è tutto merito di mia sorella Marirosa e di suo marito Aldo Ballo, grandi fotografi che volevano che mi educassi. Lì si respirava il clima della Bauhaus». 

Sì, ma lei parlava tedesco?

«No. Ma, io sono così. La mia fortuna è che se c’è un problema, reagisco con slancio. Non sono timido davanti al rischio. Adesso parlo tedesco». 

Tornò pieno di tecnica?

«Non sto qui a fare il modesto: ho una preparazione che non ha nessuno. Io non ci devo pensare alla tecnica. Quando siamo passati dalla pellicola al digitale per me è stato naturale. Le regole non esistono. Il talento è un concetto astratto, va esercitato e gestito. La macchina fotografica è solo un mezzo, non il fine». 

È vero che lei scattava anche quattro lavori al giorno?

«Ci si esprime con il lavoro, non con le vacanze. Per me la vacanza significa vacuum: vuoto». 

Descriva una foto alla Oliviero Toscani.

«Diana Vreeland, storica firma di Harper’s Bazaar e Vogue America, mi disse: “Le tue immagini brillano, hanno il sole dentro”».

A proposito di Vogue, è vero che ha litigato con Anna Wintour?

«Litigato… Sono andato via e l’ho lasciata lì. All’inizio era divertente, ma più è entrata nella linea del potere, più si è incupita. Le ho detto che non mi piaceva lavorare con lei e con il suo metodo di controllo a ogni scatto». 

Franca Sozzani, storica direttrice di Vogue Italia, ha scritto: «Oliviero mi chiamava puntaspilli deficiente».

«Un giorno arriva su un set come assistente di Gisella Borioli. Franca era fasciata di Yves Saint Laurent. La guardo e le dico: “Ma dove credi di stare? Oh, ma guarda che tu sei venuta a puntare gli spilli, deficiente”. Lei era divertente e caustica insieme. Si è messa a ridere. E quella parola se l’è tenuta cara». 

Come ha iniziato a fare foto di moda?

«Negli anni Sessanta ero un reporter, figlio di reporter, che scattava per l’Europeo. Ma mi ero reso conto che quel mondo si stava esaurendo. Alla Rizzoli mi chiesero di fotografare degli impermeabili da donna e capii che ci poteva essere una nuova dimensione della fotografia, interpretata con codici diversi, con creatività personale. Il vero reportage era la moda. Mica la Settimana Santa in Sicilia di Ferdinando Scianna». 

Forse una cosa non escludeva l’altra?

«No. Perché l’evoluzione della fotografia era stare dove la vita prendeva nuove forme: a Londra a immortalare le minigonne, che hanno rivoluzionato il mondo. Altro che preghiere». 

Già, lei e la religione…

«Vengo da una famiglia laica: una religione seria».

Insomma, la moda l’aveva affascinata?

«Mettere insieme dei vestiti è documentazione commerciale. La moda è quello che accade nella cultura di un tempo, è un atteggiamento socio-politico. E in quegli anni aveva una funzione eversiva. Mi interessava. Poi è piombata nel conformismo estetico». 

Per questo si è messo davanti allo studio di Andy Warhol a fotografare quelli che suonavano al campanello?

«Certo, perché così rivelavi la moda. Quelle persone erano interpreti di un racconto. Poi la moda è diventata un burqa per colpa dei brand. Se non possiedi una certa cosa di una certa firma sei escluso, altro che incluso. Una forma sottile di costrizione sociale».

Tra tanti uomini, il suo preferito?

«Muhammad Alì. Incredibile, lui era completo: bello, carismatico e rivoluzionario, con un impegno sociale che ha trasformato uno sportivo in un leader mondiale. Pensate al baccano che ha fatto Cristiano Ronaldo quando ha detto che non beve Coca-Cola. Ecco, se si occupasse seriamente anche d’altro, che impatto potrebbe avere».

È vero che il suo lavoro ha influenzato la carriera di Giorgio Armani?

«All’inizio conoscevo sua sorella Rosanna che faceva la modella per un giornale che si chiamava Arianna. Era intelligentissima. Poi Giorgio, che era stato promosso in Rinascente all’ufficio acquisti, mi fece fotografare delle orribili tazze messicane che aveva comprato. Di ritorno da un reportage nella base dei marines di Quantico, in redazione a L’Uomo Vogue, incontro Armani che parlava con Lucchini di lanciare la sua casa di moda.

Se ci fate caso, il logo Giorgio Armani è nello stesso carattere Bodoni che usavamo al giornale. Giorgio guarda le diapositive e ne porta via alcune. La sua prima collezione, fatalità, è tutta d’ispirazione militare». 

Uomini a cui ha detto: sì?

«Quasi sempre a Luciano Benetton. Altro pianeta maschile. Lo correggo solo quando dice: “Questa è una foto alla Benetton”. No, una foto alla Toscani». 

Uomini a cui ha detto: no?

«Il mio grande amico Elio Fiorucci, genio assoluto, filosofo della moda, insiste per presentarmi Silvio Berlusconi. Fine anni Settanta, eravamo in una casa della Milano bene in Via Bigli. Berlusconi chiede a me e a Umberto Eco di lavorare per lui. Gli rispondiamo entrambi di no. Questione d’istinto per la libertà».

È vero che con il suo amico fotografo David Bailey facevate a gara per sedurre modelle?

«Mettevamo le crocette sulle loro foto appese. A volte anche sulle stesse. Ma, non sono mai stato un arrapato. Quando ho conosciuto mia moglie Kirsti sono tornato al mio imprinting di rigore famigliare». 

Ha sei figli: che padre è stato?

«Ho cercato di essere un padre onesto. Meglio un ladro onesto, che ammette la colpa, che un banchiere ladro. I miei figli a volte mi hanno criticato, ma ora vado d’accordo con tutti, mi portano i nipoti e ne sono felice». 

Sa che mettere insieme delle sue foto d’archivio è un’impresa? Perché non ha tenuto traccia di tutto il suo immenso lavoro?

«Per me l’archivio significa guardare indietro con rabbia del passato. Non mi interessa».

Però alle foto che ha fatto ai sopravvissuti all’eccidio di Sant’Anna di Stazzema ci tiene.

«Quelle sono un documento storico. Ho dimostrato che fotografare è un insieme di professionalità. Sei autore, sceneggiatore, direttore delle luci che illumina gli occhi e poi fai il regista: raccontami la storia. Intanto, guardi e scatti. Ecco, cos’è il vero fotografo. Altrimenti è solo un operatore alla macchina». 

Instagram lo usa?

«L’ho studiato, l’ho capito, posso dire che non mi interessa. Io sono il mio pubblico, non voglio accontentare nessuno. Io sono il cliente più difficile. Non sono alla ricerca del consenso dei followers». 

Toscani, ha 80 anni.

«Non avrei mai immaginato di arrivarci così lucido. Beh, mi sembra di aver vissuto».

Oliviero Toscani compie 80 anni: «Ho usato i maglioni per parlare di migranti. Non sono un fotografo». Candida Morvillo su Il Corriere della Sera il 17 Febbraio 2022.

Ha rivoluzionato moda e pubblicità. «Volevo essere testimone del mio tempo, ho usato i maglioni per parlare di migranti. Il segreto per restare giovani? Non entrare mai in banca. Ho avuto chi lo ha fatto per me». 

Gli ricordi che il 28 febbraio sono 80 anni e Oliviero Toscani chiede: «Davvero?». In effetti, a vederlo, sembra ancora capace di stare in piedi su un cavallo, vestito da cowboy, come nella foto che campeggia sulla copertina di Ne ho fatte di tutti i colori -– Vita e fortuna di un situazionista, l’autobiografia che esce il 24 per La nave di Teseo. Lui si schermisce: «Lei non sa di questo corpo che odio, della discrepanza fra cervello e corpo! Mi porto dietro questo rottame, questa baracca. Sa com’è avere una vecchia auto? Non puoi accelerare quando vuoi, non puoi frenare…».

A giudicare dalle tante cose che fa, sembra stare benissimo.

«Sono appena tornato a fare il reporter per il direttore di Oggi Carlo Verdelli: mi diverto come un matto. Faccio quello che faceva mio padre per il Corriere della sera . C’è da fotografare Dino Zoff che fa 80 anni il mio stesso giorno? Vado a Roma e lo faccio in mezz’ora, che mi guarda con la faccia fra le mani. Che faccia».

Una volta, ha detto d’aver fotografato così tante persone da saper leggere in ognuno i suoi angeli e demoni.

«Ho fotografato 80mila facce solo per il progetto Razza Umana. Il carisma lo sento come un odore. Posso dire che non esiste una persona brutta. I diseredati che nessuno guarda sono i più interessanti. Ho cercato di annullare la parte estetica della foto: fermo le persone per strada e sono loro che mi guardano come se fotografassero me».

A 80 anni, ferma ancora le persone per strada?

«A giugno, sono andato i Germania a fare i tedeschi del XXI secolo. Uno se li immagina biondi e occhi azzurri, invece sono turchi, italiani, afgani. Uscirà un libro, ci sarà un’esposizione a Berlino ad aprile: ho fatto 800 ritratti».

Da solo, in un mese?

«In dieci giorni. Quando sei ragazzo, fai tutto. E tutti fotografati da me personalmente, non dagli assistenti».

In vacanza è mai andato?

«Io non ho mai lavorato. Ho sempre vissuto. Con che cosa ti esprimi? Pigliando il sole? Immagini tre sdraio, una con Leonardo da Vinci, una con Albert Einstein e una con me. Finché prendiamo il sole, siamo tutti uguali, è quando ti alzi che fai la differenza. Ora, sono tornato da un mese a Santo Domingo, mia figlia vive lì. Era la prima volta che non lavoravo nel senso che intende lei, ma ero oberatissimo: mi hanno obbligato ad andare in palestra, un posto che detesto, da cretini, ma mi ha fatto bene; in piscina, mia figlia mi obbligava a fare avanti e indietro. Ho giocato coi due nipoti di cinque e tre anni, un divertimento unico».

Ora è nella tenuta di Casale Marittimo, in Maremma.

«Guardi che verde… E si vedono la Corsica, l’Elba. Ho costruito qui il Toscani Circus, una specie di centro culturale. È appena stata qui Marina Abramovic, l’artista. L’ho conosciuta ad Amsterdam, avevo 18 anni nel 1960, ho fatto tutti i ‘60 da ventenne, andavo dove pensavo ci fossero persone interessanti, sovversive, mica a Courmayeur e Portofino. Faremo un progetto insieme io e Marina, una Cleaning house per ripulire le persone in senso psicologico, di creatività. La gente ha bisogno di questo, non di personal trainer e posti dove bevi l’acqua».

In un ideale album dei ricordi, come sarebbe la foto di Toscani bambino?

«Anche lei mi crede fotografo? A me interessava essere testimonial del mio tempo, potevo fare musica, cinema... Ho fatto foto perché mio padre faceva foto. L’altro equivoco è che faccio foto di pubblicità, io non ho mai lavorato con le agenzie, mai con un direttore artistico. Ho usato lo spazio destinato a promuovere i maglioni per metterci migranti e condannati a morte».

Le sue foto hanno dato scandalo. Quali di più?

«Intanto io le ho fatte per quelli che le capivano, non per quelli che si scandalizzavano. Dipende: in Italia, il prete e la suora che si baciano; in America, i preservativi colorati; in Francia, il marchio Hiv tatuato sulla pelle».

E le foto di moda?

«Ho fatto io la battaglia per avere la prima ragazza nera sulla copertina di Elle France. Nel 1971, convinsi L’Uomo Vogue a fare un monografico sui neri di New York. Avevo uno studio lì. Sono stato l’unico fotografo italiano ad andare oltre Chiasso. Ho sempre fotografato l’espressione culturale della moda, ora, c’è solo espressione commerciale».

Ha lanciato anche in Europa persone diventate icone.

«La cosa più grave di arrivare in ritardo è arrivare in anticipo. Ad Andy Warhol, diedero giusto tre foto in una pagina sola. Fotografai Patti Smith appena arrivata a New York, vidi subito che aveva carisma, ma l’editor di Vogue Italia non la volle. Pure a Lou Reed diedero solo una pagina».

Fu anche il primo a portare Monica Bellucci a Parigi.

«La vidi a Milano. Mi piace usare le ragazze nuove: sono ancora esseri umani, poi diventano modelle e diventano involucri vuoti. Siamo andati, abbiamo fatto le foto e Monica è rimasta là».

Lei ha sei figli da tre mamme, 16 nipoti, una moglie, Kirsty Moseng, con cui sta da 50 anni. Che patriarca è?

«Sarei stato un single perfetto. Invece, sta parlando con la persona più fortunata e privilegiata che io conosca».

Fortunato per le donne che ha incontrato?

«Se non potessi dirlo, dovrei spararmi».

Alla fine, qual è il segreto per restare giovani?

«Non entrare mai in banca. Io ho sempre avuto qualcuno che lo faceva per me. Non ho mai parlato di bollette, scartoffie, di problemi imbecilli». 

·        Oriana Fallaci.

Oriana Fallaci, lo "scrittore" che raccontò la storia e il "sesso inutile". Davide Bartoccini il 4 Maggio 2022 su Il Giornale.

Prima reporter di guerra italiana, tra le più importanti testimoni della storia di fine secolo, Oriana Fallaci ha intervistato le personalità più importanti della sua epoca. È stata una grande scrittrice e una grande giornalista, ma prima di tutto è stata una donna straordinaria.

Lo chiamava il “sesso inutile” il suo. Il femminile, il gentilsesso. Ma come è vero che nell’autocritica - da sempre - si cela il principio della grandezza egoica, è vero anche che lei, Oriana Fallaci, s’era proprio imposta fin da bambina di diventare “scrittore”, non scrittrice. Mandando al diavolo già in principio la retorica del futuro, quella delle neo-lingue inclusive, dello schwa e di chi tenta di usarlo a suo discapito. A una maledetta toscana come la Fallaci - "la", sì, con l'articolo determinativo femminile - queste cose non sarebbero mai importate. Del resto chi ha fatto la guerra come staffetta partigiana appena dodicenne, chi ha raccontato la guerra come nessun altro e nessun'altra avevano fatto, portandola a diventare la più famosa giornalista e reporter di guerra del mondo, certe “battaglie” non le combatterebbe mai. Ne mai le avrebbe combattute. Le avrebbe lasciate a chi non aveva di meglio da fare. "Le donne non sono una fauna speciale e non capisco per quale ragione esse debbano costituire, specialmente sui giornali, un argomento a parte: come lo sport, la politica e il bollettino meteorologico", sosteneva.

Perché Oriana Fallaci è stata una giornalista - una grande giornalista -, prima di consacrarsi come scrittore. “Solo un modo per guadagnare dei soldi”, diceva, e lo sa bene chi nutre le stesse ambizioni. "Io più che il giornalista ho sempre pensato di fare lo scrittore", scriveva di sé, “Quando ero bambina, a cinque o sei anni, non concepivo nemmeno per me un mestiere che non fosse il mestiere di scrittore. Io mi sono sempre sentita scrittore, ho sempre saputo d’essere uno scrittore, e quell’impulso è sempre stato avversato in me dal problema dei soldi, da un discorso che sentivo fare a casa: 'Eh! Scrittore, scrittore! Lo sai quanti libri deve vendere uno scrittore per guadagnarsi da vivere? E lo sai quanto tempo ci vuole a uno scrittore per esser conosciuto e arrivare a vendere un libro?'".

L’ha scoperto da sola. Con la tenacia di chi inizia a scrivere quando è ancora a scuola. E continua. Continua anche quando s'iscrive alla facoltà di Medicina dell’Università di Firenze. I suoi libri verranno tradotti in più di trenta paesi. I suoi articoli invece, quando era appena ventenne, compariranno sul Mattino, su Epoca, sull’Europeo. Iniziò a scrivere di “costume”, come credevano le si addicesse - celebre rimase il suo articolo di Christian Dior a Firenze -. Finì per intervistare la moglie dello scià di Persia, Soraya Pahlavi, e a scrivere il suo primo libro “I sette peccati di Hollywood” (1958). La prefazione la firmò niente meno che Orson Welles. Era diventata "scrittore". Poteva ben dirlo.

Arrivarono così “Il sesso inutile” (1961), un resoconto sulle donne che aveva incontrato in Medio Oriente nel quale esprimeva la ferma posizione critica e autocritica nei riguardi delle molte donne che perseguono uno sbagliato modo di “vivere” tanto nelle latitudini dove valgono quanto un cammello, quanto nelle longitudini dove il matriarcato tossico produce i suoi effetti egualmente nocivi. Esattamente come il patriarcato. Come accadeva già allora dall’altra parte dell’oceano, in America. “Penelope alla guerra” (1962) sarà il suo primo romanzo. "Lo sai quanti libri deve vendere uno scrittore per guadagnarsi da vivere?", le ripetevano. 

La risposta l'ebbe dopo i primi quattro traguardi e successi editoriali. Quando acquistò una grande casa in Toscana per lei e suoi genitori - gli stessi che le avevano posto fin da bambina quella domanda difficile e premurosa per metterla in guardia - e una a New York, dove si trasferì nel 1963. “Per non assuefarsi, non rassegnarsi, non arrendersi, ci vuole passione. Per vivere ci vuole passione”, pensava Oriana Fallaci. Che dai grandi classici della letteratura che i genitori acquistavano a rate - e che lei leggeva da bambina sviluppando nel suo profondo la cosiddetta "passionaccia" - si ritrovava in quel trentottesimo piano dei grattaceli di Manhattan. In uno chic che di "radicale" aveva qualcosa di vero: i viaggi in Vietnam come reporter i guerra, dal 1967 al 1975.

Lì sarà spettatrice appassionata e devastata della peggiore guerra che gli americani abbiano mai combattuto, della vita quotidiana di una Saigon dantesca, dei bombardamenti, degli interrogatori, delle imboscate dei Viet Cong che sembravano fantasmi nella giungla. Scriverà queste verità strazianti nel libro reportage che ne verrà, "Niente e così sia" (1969). E da quel momento per lei la guerra sarà "...solo una sporca tragedia sulla quale non puoi che piangere. Piangi quello cui negasti una sigaretta e non è tornato con la pattuglia; piangi su quello che hai rimproverato e ti s'è disintegrato davanti; piangi su lui che ha ammazzato i tuoi amici".

La bambina e l'eco degli eroi

A Oriana Fallaci gli eroi sono sempre piaciuti. Furono i partigiani a forgiarne il carattere ribelle e sprezzante di un pericolo che ha sempre riconosciuto e rispettato: "La mia fanciullezza è piena di eroi perché ho avuto il privilegio di esser bambina in un periodo glorioso. Ho frequentato gli eroi come gli altri ragazzi collezionano i francobolli, ho giocato con loro come le altre bambine giocano con le bambole. Gli eroi, o coloro che mi sembravano tali, riempirono fino all’orlo undici mesi della mia vita: quelli che vanno dall’8 settembre 1943 all’11 agosto 1944, l’occupazione tedesca di Firenze. Credo di aver maturato a quel tempo la mia venerazione per il coraggio, la mia religione per il sacrificio, la mia paura per la paura". Così una donna non diviene né un cammello né una matriarca: diviene essere umano. Puro e semplice.

Per parte sua poi, i colpi di una pistola li aveva sentiti sulla sua pelle quando rimase gravemente ferita a Città del Messico durante la repressione di una manifestazione studentesca. La credettero morta e la portarono all'obitorio. Ma morta non lo era, forse per qualche istante nel regno dei morti ci si era trovata e sentita. Ne è risorta per poter raccontare meglio cosa si prova. Non per sentito dire, come piace fare ai nostri tempi.

Negli anni Settanta la Fallaci si afferma ancora come grande giornalista politica, racconta il conflitto arabo-palestinese, la guerriglia condotta contro le dittature in Sudamerica, l'assassinio di Robert Kennedy. E mette in fila una serie straordinaria di interviste "che non lasciano respiro" al lettore come all'intervistato, incontrando le personalità più importanti della sua epoca: Ayatollah Khomeini, Henry Kissinger, Golda Meir, Pasolini, Gheddafi, Andreotti, Berlinguer e Fellini, solo per citarne alcuni. Tutte insieme verranno inserite nel libro "Intervista con la storia" (1974). Tra queste compariva anche quella fatta a Alekos Panagulis, l'intellettuale rivoluzionario greco imprigionato e torturato dai colonnelli di cui si era innamorata e che sarà il suo "compagno" di vita. Anche se morirà presto - ucciso su mandato secondo lei - in un tragico incidente stradale. Nel 1979 pubblicherà un libro dedicato interamente a lui, e a quelli come lui, dal titolo "Un uomo".

Dopo una lunga pausa, la penna irosa e vera della giornalista che trovava sempre meno appeasement tra le fila dei suoi detrattori, torna ad occuparsi di guerra. Scrive della guerra civile scoppiata in Libano, del fondamentalismo islamico e delle sue derive, e ancora una volta di soldati mandati lontani da casa. Questa volta sono i nostri, il contingente inviato in Libano quando le missioni iniziavano a prendere l’appellativo di peacekeeping, e le guerre, vere o per procura, assumevano un altro aspetto: più oscuro, più celato, ma sempre totale e tentacolare. Il libro si intitolerà “Insciallah”(1990). Poi l’Iraq, e quelle nubi nere dei pozzi di petrolio bruciati in Kuwait la cui combustione produce tanta cenere tossica nera e vischiosa, da oscurare il cielo a mezzogiorno. Da far calare la notte. Ne respira tanta da spaventarsi, più che in Vietnam sotto le bombe.

Nel 1992 Oriana Fallaci scopre di avere il cancro, o "l’Alieno" come cominciò a chiamarlo lei. Lo temeva e allo stesso tempo lo fiaccava con la sua arguzia, mentre era impegnata a lavorare a quello che sarebbe stato il suo ultimo libro. Un lungo viaggio che voleva tracciare le origini e la storia della sua famiglia, dalla quale aveva ricevuto in dono quello spirito temprato e ardimentoso. Non fece in tempo. Verrà pubblicato postumo col titolo “Un cappello pieno di ciliege”. Lo anticiperà invece, inaspettatamente, un’irosa trilogia rivolta a motivare e infiammare l’Occidente contro il terrorismo islamico che nel 2001, colpendo le Torri Gemelle a New York, dove ella si trovava, aveva di fatto cambiato il mondo. Le sinistre benpensanti del mondo la osteggiarono come avevano già fatto in passato. Come quelle femministe che l’avevano tanto vituperata e che lei incalzava sempre con affondi ancora validi - nel contenuto e nelle forma -. "Ricordate gli anni in cui anziché ringraziarmi d’avervi spianato la strada cioè d’aver dimostrato che una donna può fare qualsiasi lavoro come un uomo o meglio d’un uomo, mi coprivate di insulti?", scriveva, "Com'è che non organizzate mai una abbaiatina dinanzi all'ambasciata dell'Afghanistan o dell'Arabia Saudita o di qualche altro paese musulmano?". Mistero delle fede, quale che sia la vostra confessione. Morirà solo 5 anni dopo. Il 15 settembre del 2006.

La morte di uno scrittore

Oriana Fallaci ha lasciato questo mondo per colpa di quel male incurabile cui non diamo la soddisfazione d’essere nominato, almeno noi altri. Perché lei lo diceva eccome di averlo. Era tornata per l'ultima volta nella sua Firenze. Città che divenne di Dante, dei Medici, di Macchiavelli. E di Oriana Fallaci. "Mi ritengo comunque una fiorentina pura. Fiorentino parlo, fiorentino penso, fiorentino sento. Fiorentina è la mia cultura e la mia educazione. All’estero, quando mi chiedono a quale Paese appartengo, rispondo: Firenze. Non: Italia. Perché non è la stessa cosa", aveva scritto sull’Europeo presentandosi ai lettori quando aveva vent’anni. Non s’accontentava d’essere una maledetta toscana, come voleva Curzio Malaparte, uno dei suoi maestri: era fiorentina proprio. Prossima a congedarsi dal mondo, all’amico Silvio Berlusconi disse: "Voglio morire nella torre dei Mannelli guardando l'Arno dal Ponte Vecchio. Era il quartier generale dei partigiani che comandava mio padre, il gruppo di Giustizia e Libertà. Azionisti, liberali e socialisti. Ci andavo da bambina, con il nome di battaglia di Emilia. Portavo le bombe a mano ai grandi. Le nascondevo nei cesti di insalata". Non fu possibile.

Di questa donna straordinaria resta assieme a un patrimonio per la storia e la letteratura, un nitido pensiero: "Quello che avevo da dire l’ho detto. La rabbia e l’orgoglio me l’hanno ordinato. La coscienza pulita e l’età me l’hanno consentito". Oriana Fallaci è sepolta nel cimitero degli Allori, accanto ai suoi genitori: Edoardo, partigiano, e Tosca, una donna che, secondo la figlia, in fatto di coraggio non aveva nulla da invidiare al marito. Sulla sua lapide compare scritto semplicemente “Oriana Fallaci – Scrittore”.

"A diciassette anni fui assunta come cronista in un quotidiano di Firenze. E a diciannove o giù di lì fui licenziata in tronco (…).

Mi avevano ingiunto di scrivere un pezzo bugiardo su un comizio d'un famoso leader nei riguardi del quale, bada bene, nutrivo profonda antipatia anzi avversione(..).

Pezzo che, bada bene, non dovevo firmare. Scandalizzata dissi che le bugie io non le scrivevo, e il direttore (…) rispose che i giornalisti erano pennivendoli tenuti a scrivere le cose per cui venivan pagati. "Non si sputa nel piatto in cui si mangia". Replicai che in quel piatto poteva mangiarci lui, che prima di diventare una pennivendola sarei morta di fame, e subito mi licenziò.

(…). No, nessuno è mai riuscito a farmi scrivere una riga per soldi. Tutto ciò che ho scritto nella mia vita non ha mai avuto a che fare con i soldi". Oriana Fallaci 

Oriana Fallaci, lo "scrittore" che raccontò la storia e il "sesso inutile". Davide Bartoccini il 4 Maggio 2022 su Il Giornale.

Prima reporter di guerra italiana, tra le più importanti testimoni della storia di fine secolo, Oriana Fallaci ha intervistato le personalità più importanti della sua epoca. È stata una grande scrittrice e una grande giornalista, ma prima di tutto è stata una donna straordinaria.

Lo chiamava il “sesso inutile” il suo. Il femminile, il gentilsesso. Ma come è vero che nell’autocritica - da sempre - si cela il principio della grandezza egoica, è vero anche che lei, Oriana Fallaci, s’era proprio imposta fin da bambina di diventare “scrittore”, non scrittrice. Mandando al diavolo già in principio la retorica del futuro, quella delle neo-lingue inclusive, dello schwa e di chi tenta di usarlo a suo discapito. A una maledetta toscana come la Fallaci - "la", sì, con l'articolo determinativo femminile - queste cose non sarebbero mai importate. Del resto chi ha fatto la guerra come staffetta partigiana appena dodicenne, chi ha raccontato la guerra come nessun altro e nessun'altra avevano fatto, portandola a diventare la più famosa giornalista e reporter di guerra del mondo, certe “battaglie” non le combatterebbe mai. Ne mai le avrebbe combattute. Le avrebbe lasciate a chi non aveva di meglio da fare. "Le donne non sono una fauna speciale e non capisco per quale ragione esse debbano costituire, specialmente sui giornali, un argomento a parte: come lo sport, la politica e il bollettino meteorologico", sosteneva.

Perché Oriana Fallaci è stata una giornalista - una grande giornalista -, prima di consacrarsi come scrittore. “Solo un modo per guadagnare dei soldi”, diceva, e lo sa bene chi nutre le stesse ambizioni. "Io più che il giornalista ho sempre pensato di fare lo scrittore", scriveva di sé, “Quando ero bambina, a cinque o sei anni, non concepivo nemmeno per me un mestiere che non fosse il mestiere di scrittore. Io mi sono sempre sentita scrittore, ho sempre saputo d’essere uno scrittore, e quell’impulso è sempre stato avversato in me dal problema dei soldi, da un discorso che sentivo fare a casa: 'Eh! Scrittore, scrittore! Lo sai quanti libri deve vendere uno scrittore per guadagnarsi da vivere? E lo sai quanto tempo ci vuole a uno scrittore per esser conosciuto e arrivare a vendere un libro?'".

L’ha scoperto da sola. Con la tenacia di chi inizia a scrivere quando è ancora a scuola. E continua. Continua anche quando s'iscrive alla facoltà di Medicina dell’Università di Firenze. I suoi libri verranno tradotti in più di trenta paesi. I suoi articoli invece, quando era appena ventenne, compariranno sul Mattino, su Epoca, sull’Europeo. Iniziò a scrivere di “costume”, come credevano le si addicesse - celebre rimase il suo articolo di Christian Dior a Firenze -. Finì per intervistare la moglie dello scià di Persia, Soraya Pahlavi, e a scrivere il suo primo libro “I sette peccati di Hollywood” (1958). La prefazione la firmò niente meno che Orson Welles. Era diventata "scrittore". Poteva ben dirlo.

Arrivarono così “Il sesso inutile” (1961), un resoconto sulle donne che aveva incontrato in Medio Oriente nel quale esprimeva la ferma posizione critica e autocritica nei riguardi delle molte donne che perseguono uno sbagliato modo di “vivere” tanto nelle latitudini dove valgono quanto un cammello, quanto nelle longitudini dove il matriarcato tossico produce i suoi effetti egualmente nocivi. Esattamente come il patriarcato. Come accadeva già allora dall’altra parte dell’oceano, in America. “Penelope alla guerra” (1962) sarà il suo primo romanzo. "Lo sai quanti libri deve vendere uno scrittore per guadagnarsi da vivere?", le ripetevano.

La risposta l'ebbe dopo i primi quattro traguardi e successi editoriali. Quando acquistò una grande casa in Toscana per lei e suoi genitori - gli stessi che le avevano posto fin da bambina quella domanda difficile e premurosa per metterla in guardia - e una a New York, dove si trasferì nel 1963. “Per non assuefarsi, non rassegnarsi, non arrendersi, ci vuole passione. Per vivere ci vuole passione”, pensava Oriana Fallaci. Che dai grandi classici della letteratura che i genitori acquistavano a rate - e che lei leggeva da bambina sviluppando nel suo profondo la cosiddetta "passionaccia" - si ritrovava in quel trentottesimo piano dei grattaceli di Manhattan. In uno chic che di "radicale" aveva qualcosa di vero: i viaggi in Vietnam come reporter i guerra, dal 1967 al 1975.

Lì sarà spettatrice appassionata e devastata della peggiore guerra che gli americani abbiano mai combattuto, della vita quotidiana di una Saigon dantesca, dei bombardamenti, degli interrogatori, delle imboscate dei Viet Cong che sembravano fantasmi nella giungla. Scriverà queste verità strazianti nel libro reportage che ne verrà, "Niente e così sia" (1969). E da quel momento per lei la guerra sarà "...solo una sporca tragedia sulla quale non puoi che piangere. Piangi quello cui negasti una sigaretta e non è tornato con la pattuglia; piangi su quello che hai rimproverato e ti s'è disintegrato davanti; piangi su lui che ha ammazzato i tuoi amici".

La bambina e l'eco degli eroi

A Oriana Fallaci gli eroi sono sempre piaciuti. Furono i partigiani a forgiarne il carattere ribelle e sprezzante di un pericolo che ha sempre riconosciuto e rispettato: "La mia fanciullezza è piena di eroi perché ho avuto il privilegio di esser bambina in un periodo glorioso. Ho frequentato gli eroi come gli altri ragazzi collezionano i francobolli, ho giocato con loro come le altre bambine giocano con le bambole. Gli eroi, o coloro che mi sembravano tali, riempirono fino all’orlo undici mesi della mia vita: quelli che vanno dall’8 settembre 1943 all’11 agosto 1944, l’occupazione tedesca di Firenze. Credo di aver maturato a quel tempo la mia venerazione per il coraggio, la mia religione per il sacrificio, la mia paura per la paura". Così una donna non diviene né un cammello né una matriarca: diviene essere umano. Puro e semplice.

Per parte sua poi, i colpi di una pistola li aveva sentiti sulla sua pelle quando rimase gravemente ferita a Città del Messico durante la repressione di una manifestazione studentesca. La credettero morta e la portarono all'obitorio. Ma morta non lo era, forse per qualche istante nel regno dei morti ci si era trovata e sentita. Ne è risorta per poter raccontare meglio cosa si prova. Non per sentito dire, come piace fare ai nostri tempi.

Negli anni Settanta la Fallaci si afferma ancora come grande giornalista politica, racconta il conflitto arabo-palestinese, la guerriglia condotta contro le dittature in Sudamerica, l'assassinio di Robert Kennedy. E mette in fila una serie straordinaria di interviste "che non lasciano respiro" al lettore come all'intervistato, incontrando le personalità più importanti della sua epoca: Ayatollah Khomeini, Henry Kissinger, Golda Meir, Pasolini, Gheddafi, Andreotti, Berlinguer e Fellini, solo per citarne alcuni. Tutte insieme verranno inserite nel libro "Intervista con la storia" (1974). Tra queste compariva anche quella fatta a Alekos Panagulis, l'intellettuale rivoluzionario greco imprigionato e torturato dai colonnelli di cui si era innamorata e che sarà il suo "compagno" di vita. Anche se morirà presto - ucciso su mandato secondo lei - in un tragico incidente stradale. Nel 1979 pubblicherà un libro dedicato interamente a lui, e a quelli come lui, dal titolo "Un uomo".

Dopo una lunga pausa, la penna irosa e vera della giornalista che trovava sempre meno appeasement tra le fila dei suoi detrattori, torna ad occuparsi di guerra. Scrive della guerra civile scoppiata in Libano, del fondamentalismo islamico e delle sue derive, e ancora una volta di soldati mandati lontani da casa. Questa volta sono i nostri, il contingente inviato in Libano quando le missioni iniziavano a prendere l’appellativo di peacekeeping, e le guerre, vere o per procura, assumevano un altro aspetto: più oscuro, più celato, ma sempre totale e tentacolare. Il libro si intitolerà “Insciallah”(1990). Poi l’Iraq, e quelle nubi nere dei pozzi di petrolio bruciati in Kuwait la cui combustione produce tanta cenere tossica nera e vischiosa, da oscurare il cielo a mezzogiorno. Da far calare la notte. Ne respira tanta da spaventarsi, più che in Vietnam sotto le bombe.

Nel 1992 Oriana Fallaci scopre di avere il cancro, o "l’Alieno" come cominciò a chiamarlo lei. Lo temeva e allo stesso tempo lo fiaccava con la sua arguzia, mentre era impegnata a lavorare a quello che sarebbe stato il suo ultimo libro. Un lungo viaggio che voleva tracciare le origini e la storia della sua famiglia, dalla quale aveva ricevuto in dono quello spirito temprato e ardimentoso. Non fece in tempo. Verrà pubblicato postumo col titolo “Un cappello pieno di ciliege”. Lo anticiperà invece, inaspettatamente, un’irosa trilogia rivolta a motivare e infiammare l’Occidente contro il terrorismo islamico che nel 2001, colpendo le Torri Gemelle a New York, dove ella si trovava, aveva di fatto cambiato il mondo. Le sinistre benpensanti del mondo la osteggiarono come avevano già fatto in passato. Come quelle femministe che l’avevano tanto vituperata e che lei incalzava sempre con affondi ancora validi - nel contenuto e nelle forma -. "Ricordate gli anni in cui anziché ringraziarmi d’avervi spianato la strada cioè d’aver dimostrato che una donna può fare qualsiasi lavoro come un uomo o meglio d’un uomo, mi coprivate di insulti?", scriveva, "Com'è che non organizzate mai una abbaiatina dinanzi all'ambasciata dell'Afghanistan o dell'Arabia Saudita o di qualche altro paese musulmano?". Mistero delle fede, quale che sia la vostra confessione. Morirà solo 5 anni dopo. Il 15 settembre del 2006.

La morte di uno scrittore

Oriana Fallaci ha lasciato questo mondo per colpa di quel male incurabile cui non diamo la soddisfazione d’essere nominato, almeno noi altri. Perché lei lo diceva eccome di averlo. Era tornata per l'ultima volta nella sua Firenze. Città che divenne di Dante, dei Medici, di Macchiavelli. E di Oriana Fallaci. "Mi ritengo comunque una fiorentina pura. Fiorentino parlo, fiorentino penso, fiorentino sento. Fiorentina è la mia cultura e la mia educazione. All’estero, quando mi chiedono a quale Paese appartengo, rispondo: Firenze. Non: Italia. Perché non è la stessa cosa", aveva scritto sull’Europeo presentandosi ai lettori quando aveva vent’anni. Non s’accontentava d’essere una maledetta toscana, come voleva Curzio Malaparte, uno dei suoi maestri: era fiorentina proprio. Prossima a congedarsi dal mondo, all’amico Silvio Berlusconi disse: "Voglio morire nella torre dei Mannelli guardando l'Arno dal Ponte Vecchio. Era il quartier generale dei partigiani che comandava mio padre, il gruppo di Giustizia e Libertà. Azionisti, liberali e socialisti. Ci andavo da bambina, con il nome di battaglia di Emilia. Portavo le bombe a mano ai grandi. Le nascondevo nei cesti di insalata". Non fu possibile.

Di questa donna straordinaria resta assieme a un patrimonio per la storia e la letteratura, un nitido pensiero: "Quello che avevo da dire l’ho detto. La rabbia e l’orgoglio me l’hanno ordinato. La coscienza pulita e l’età me l’hanno consentito". Oriana Fallaci è sepolta nel cimitero degli Allori, accanto ai suoi genitori: Edoardo, partigiano, e Tosca, una donna che, secondo la figlia, in fatto di coraggio non aveva nulla da invidiare al marito. Sulla sua lapide compare scritto semplicemente “Oriana Fallaci – Scrittore”. 

Altro che femministe, la Fallaci che si strappò il velo. Miriam Pastorino su Culturaidentita.it il 17 Maggio 2022.

Articolo tratto dal Mensile cartaceo di maggio 2022

Il Novecento è ricco di personaggi che hanno lasciato un segno importante e che, per un motivo o per l’altro, andrebbero compresi tra i “profeti inascoltati”. La nostra rassegna è incompleta, né poteva essere altrimenti; tuttavia, non può non balzare agli occhi l’evidente carenza di figure femminili in essa contemplate. Una circostanza non voluta ma che riflette la realtà del Novecento: un secolo diviso in due per quanto riguarda il ruolo sociale della donna: fino agli anni Cinquanta presenza piuttosto rara e per lo più occasionale nel panorama culturale e, dagli anni Sessanta in poi, sempre più protagonista fino a diventare dominatrice del pensiero per quanto riguarda la riformulazione delle leggi e dei costumi. Alla caccia di sempre nuovi traguardi, la moltitudine di figure femminili che hanno conquistato e spesso ben meritato la scena, non avevano disposizione alcuna a riflettere su ciò che ci avrebbe riservato il futuro. In un certo senso, a riscattare quella che ha finito per rivelarsi una pericolosa mancanza di immaginazione, è arrivata Oriana Fallaci, l’indomita fiorentina la cui vita straordinaria costituisce uno degli esempi forse più fulgidi dell’intelligenza e della forza femminile dell’intero Novecento. La sua biografia è universalmente conosciuta, ma è solo estraendo dall’inevitabile asprezza di un’attualità da lei vissuta in prima persona sui fronti più caldi del pianeta che ci si rende conto del valore e della potenza della sua ultima, decisissima presa di posizione contro il venir meno dello spirito identitario dell’Occidente, il cui atteggiamento debole fino a rasentare l’autolesionismo apriva le porte alla non più sopita violenza del radicalismo islamico. 

La circostanza che a suonare l’allarme di fronte alla dirompente realtà rappresentata dell’attacco terroristico alle Torri Gemelle di New York non fosse un accademico uso a studiare i processi storici sui libri ma una coraggiosa giornalista che, nel corso della vita, aveva avuto modo di intervistare i personaggi più in vista del revanscismo islamico, ebbe ben altro significato riuscendo, almeno per un po’, a risvegliare dal torpore i cervelli sclerotici di tanti benpensanti di qua e di là dell’Atlantico. Per sottolineare la tempra di Oriana basterà ricordare il forte gesto di libertà da lei messo in atto durante l’intervista che rivolse all’Ayatollah Khomeini nel settembre del 1979, quanto solo da pochi mesi il personaggio era rientrato in Iran; peraltro l’unica concessa a una donna dal capo della rivoluzione islamica. Dopo avergli rivolto molte domande insidiose e talvolta imbarazzanti, come ultima provocazione Oriana si strappò il velo dal capo, costringendo l’intervistato, che fin lì non l’aveva mai guardata in faccia, ad allontanarsi bruscamente. Un atteggiamento, quello della Fallaci, ben diverso dalle femministe più oltranziste che ormai da decenni popolano la cronaca, tanto feroci contro gli uomini dell’occidente accusati d’esser colpevoli di non saper cogliere fino in fondo l’opportunità di restituire alle donne il ruolo da protagoniste lungamente negato loro, quanto silenti e ignave nei confronti della soggezione della donna nel mondo dell’Islam; e sempre pronte ad indossare disciplinatamente il velo d’ordinanza nel corso di incontri ufficiali con capi di stato islamici. Sono passati 15 anni dalla scomparsa di Oriana; di lei ci manca quello che poteva essere l’evoluzione del suo pensiero in merito alle degenerazioni del femminismo “realizzato”, tuttora incapace di superare una conflittualità sterile e implacabile tra i sessi che porta nel mondo occidentale a gravi conseguenze sociali e demografiche.

Bibliografia essenziale: La rabbia e l’orgoglio, Lettera a un bambino mai nato, Il sesso inutile, Penelope alla guerra, Insciallah, Se nascerai donna, La forza della ragione, Saigon e così sia, Le radici dell’odio, Se il sole muore, Intervista con il Potere.

·        Orson Welles.

Alberto Anile per “la Repubblica” il 4 novembre 2022.

La "prima" di The Blessed and the Damned di Orson Welles ebbe luogo il 19 giugno 1950, dopo prove frenetiche e ben tre rinvii, al teatro Édouard VII di Parigi. 

Alla serata di gala, oltre a Duke Ellington, Deanna Durbin e Elsa Schiaparelli partecipò, accompagnata dal marito Alì Khan, Rita Hayworth. Un arrivo clamoroso: Orson e Rita avevano divorziato solo due anni prima, e rivederli insieme fece annusare un riavvicinamento. «Non c'è nulla di strano », smentì subito Welles, «Alì, Rita ed io siamo buoni amici». D'altronde in quei giorni il suo cuore batteva per l'afroamericana Eartha Kitt, protagonista della seconda parte dello spettacolo, il faustiano Time Runs .

La prima parte dello show, più leggera, era costituita dalla commedia The Unthinking Lobster, è di questa che qui si parla, perché il suo testo, rititolato Miracolo a Hollywood , esce ora per la prima volta in Italia (da Sellerio, con traduzione e nota di Gianfranco Giagni). 

L'unica altra pubblicazione risale a settant' anni fa, in lingua francese per l'editore La Table Ronde, un'edizione limitata a 57 esemplari (uno dei quali nella mia libreria, ma sospetto siano state fatte delle ristampe). La commedia non è dunque sconosciuta ma è comunque pochissimo studiata.

In Italia se n'è parlato giusto in un saggio di Marco Vanelli e Davide Zordan su Cabiria e in un vecchio libro del sottoscritto; e l'inglese Simon Callow gli ha dedicato alcune pagine in uno dei volumi della sua monumentale biografia wellesiana. 

Il lascito di Welles è una cornucopia d'intelligenza e di bellezza: dove tocchi, trovi una gemma, basta mettere la mano nel mucchio.

The Unthinking Lobster , o Miracolo a Hollywood che dir si voglia, è un gustoso attacco alla Mecca del Cinema, un comico j' accuse contro lo sfruttamento della fede religiosa a fini commerciali, e un inno umoristico alla superiorità del falso sul vero.

L'incidente scatenante è ambientato sul set di una pellicola neorealista, Gli amori di Sant' Anna , protagonista una santa in grado di guarire gli infermi. Protestata dal regista per la sua incapacità, la prima attrice viene sostituita da miss Pratt (Suzanne Cloutier, la Desdemona con cui Welles cercava di completare il suo eterno Otello ), dattilografa del burbanzoso Beehoovian, produttore del film (interpretato dallo stesso Welles); indossato il costume di scena, miss Pratt opera dei veri miracoli! L'avvenimento trasforma Hollywood in una sorta di città santa, dove gli spettatori smettono di andare al cinema per raccogliersi in preghiera. 

Alla prospettiva di chiudere bottega, Beehovian accetta di firmare un accordo con un arcangelo: il Cielo smetterà di trasformare le dattilografe in sante e in cambio Hollywood non si occuperà più di religione. 

Fra i personaggi della commedia, c'è una caricatura della giornalista di gossip Hedda Hopper, arcigna nemica di Welles dai tempi di Quarto potere, un arcivescovo che non crede in Dio (interpretato da Hilton Edwards, che aveva appena smesso i panni di Brabanzio nell'Otello) e il finto arciduca russo Michel (Frédéric O' Brady), in cui si riconosce un ricordo del sedicente principe Michal Waszynski, responsabile della seconda unità di Otello .

Penalizzato dal fatto di essere recitato in lingua inglese, dopo un iniziale successo il doppio spettacolo The Blessed and the Damned chiuse rapidamente le repliche: d'altronde a Welles serviva soprattutto a recuperare denaro per completare il suo film shakespeariano e pagare i suoi attori. 

Ma Miracolo a Hollywood non va sottovalutata, innanzitutto perché illustra in un colpo solo ciò che Welles pensava di Hollywood e del suo diretto opposto, il neorealismo: il regista italiano del film sulla santa, chiamato Alessandro Sporcacione, è presente attraverso una voce fuori campo irosa e volgare (doppiata all'epoca da Lucio Ardenzi), ed è una trasparente presa in giro di Rossellini e del suo metodo.

In questa commedia si ritrova fra l'altro una delle battute che Orson pronunciava spesso in privato, meglio se c'erano in giro dei nostri connazionali: «tutti gli italiani sanno recitare ma i meno bravi sono proprio gli attori». 

In un testo dello stesso periodo, Welles scriveva allusivamente: «una delle leggi più sicure del teatro è che non si può trarre una farsa da ciò che è già una farsa in sé. Questo è forse il motivo per cui capita così raramente di essere divertenti a coloro che pretendono di trattare in modo umoristico le cose del cinema». Pur mettendo in scena la farsa del cinema, questo testo riesce divertente, a tratti spassoso. Miracolo a Hollywood , sì, ma anche miracolo di Welles.

DAGONOTA il 19 settembre 2022.

Essì, da sempre, la gloria comincia sul sofà, che era il mobile più importante nell’ufficio di Darryl F. Zanuck, il produttore di ‘Furore’ e di ‘Eva contro Eva’, il primo a istituzionalizzare negli anni ’40 la pratica del pedaggio sessuale: negli studios della sua 20 Century Fox, alle quattro del pomeriggio si faceva una pausa di trenta minuti, durante la quale una ragazza, ogni giorno diversa, con la promessa di un contratto gli veniva portata.  

Marylin Monroe conosceva bene la legge di Hollywood (“Non esistono cene gratis”) e non tentò mai di nasconderlo: "Tutte l'hanno fatto. Faceva quasi parte del mestiere. Loro volevano assaggiare la mercanzia e se dicevi di no ce ne erano almeno altre venticinque disposte a dire di sì. Non era un dramma".

Estratto di “A pranzo con Orson – conversazioni tra Henry Jaglom e Orson Welles” (ed. Adelphi) 

HJ - Zanuck aveva sotto contratto Marylin, vero? 

OW - Era la mia ragazza, allora. La portavo alle feste prima che diventasse una star. 

HJ - Questa non la sapevo!  

OW - Volevo promuovere la sua carriera. Nessuno la degnava di uno sguardo. C'erano in giro ragazze magnifiche, elegantissime; spendevano una fortuna tra vestiti e salone di bellezza. E tutti: «Tesoro, sei uno schianto!». 

Dopodiché le ignoravano. Gli uomini, intendo. Facevano capannello e raccontavano barzellette o discutevano d'affari. Parlavano delle ragazze solo per dire che se n'erano fatta una la sera prima. Così indicavo Marilyn a Darryl: «Guarda che fenomeno! ».  

E lui: «Non è niente di che. Ne abbiamo a carrettate. Smettila di rifilarmi queste troiette. A quella diamo già centoventicinque dollari la settimana». Be', sei mesi dopo Darryl gliene dava quattrocentomila, e gli uomini la guardavano eccome - le avevano messo l'etichetta.

Raffaele Manica per ilmanifesto.it - Estratto il 19 settembre 2022.

Per citare solo una delle migliaia di citazioni possibili (la battuta verso un cameriere o verso una celebrità che si avvicina al tavolo senza sapere che cosa si saetterà appena se ne sia allontanata) a proposito di storia e correttezza ed egocentrismo: «OW: “Un dittatore alto non è mai esistito. Mai”.  

HJ: “O dio santo”. OW: “Fammi un nome. Sono tutti al di sotto del normale”. HJ: “Mussolini era basso?”. OW: “Bassissimo”. HJ: “Franco?”. OW: “Basso. Hitler era basso. Anche quelli che magari ti potrebbero piacere un po’ di più, come Tito: un piccoletto. Stalin: un piccoletto»: 

HJ: «Una nuova teoria della storia».

OW: «Guarda che i grandi malinconici sono tutti giganti, non tappi. Sono i tappi e i nani che hanno le manie di grandezza». HJ: “Tu quanto sei alto?”. OW. “Una volta ero un metro e novantuno, ma adesso sono sull’uno e ottantotto. Uno e ottantasette, forse. Continuo a perdere collo. È la forza di gravità. 

Come Elizabeth Taylor: ormai è senza collo! Le orecchie le toccano le spalle. Ed è ancora giovane! Ora immagina dove sarà la sua faccia quando avrà la mia età. Nell’ombelico, no?”». Moltiplicate un tono così per trecento e comincerete a intuire che cos’è questo libro.

Frasi, citazioni e aforismi di Orson Welles

“Privare la magia del suo mistero sarebbe assurdo come togliere il suono alla musica.” 

“In Italia per trenta anni sotto i Borgia ci sono stati guerra, terrore, criminalità, spargimenti di sangue. Ma hanno prodotto Michelangelo, Leonardo, il Rinascimento. In Svizzera vivevano in amore fraterno, avevano cinquecento anni di pace e democrazia. E cosa hanno prodotto? L’orologio a cucù!” 

“Beh... Potrei essere più preciso nelle promesse, se già fin d’ora non dessi tanto da fare per mantenerle.”

“Il mio dottore mi ha detto di smettere di avere cenette intime per quattro. A meno che non vi siano altre tre persone.” 

 “Nasciamo soli, viviamo soli e moriamo soli. Solo attraverso l'amore e l'amicizia possiamo crearci l'illusione di un momento che non sia di solitudine.”

 “Solo una persona può decidere il mio destino, e quella persona sono io.” 

 “L'Italia conta oltre cinquanta milioni di attori. I peggiori stanno sul palcoscenico.”

“Al pubblico voglio dare solo indizi: dare troppo agli spettatori li porta a non contribuire allo spettacolo. Se dai loro solo dei suggerimenti li fai lavorare assieme a te: è questo a dare senso al teatro, quando cioè diventa un atto sociale.” 

“Non mi piace una fidanzata che abbia già un marito: se prende in giro l'uomo con cui è sposata, probabilmente si prenderebbe gioco anche di me.”

“Il nemico della società è la classe media, nemico della vita è la mezza età.” 

“Non prego perché non voglio annoiare Dio.” 

“Un bravo artista dovrebbe essere isolato: se non lo è, c'è qualcosa che non va.” 

 “Io sono un'autorità su come far pensare le persone.” 

“Odio Woody Allen, non ne sopporto la vista e mi da fastidio parlarci assieme. Ha la stessa combinazione di arroganza e timidezza che aveva Charlie Chaplin e che mi fa digrignare i denti.”

“Ci sono solo due emozioni su un aeroplano: noia e terrore.” 

“Hollywood non è poi tanto male, sono i film che fanno schifo.” 

 “La golosità non è un vizio segreto.” 

“Io odio la televisione. La odio tanto quanto odio le noccioline. Ma non riesco a smettere di mangiare noccioline.” 

“Richard Burton è diventato una barzelletta che ha sposato una celebrità. Lavora solo per i soldi e recita nelle produzioni peggiori in assoluto.” 

 “Lavorare per i posteri è volgare tanto quanto lavorare per i soldi.”

“Ogni attore in cuor suo crede a tutte le cattiverie che vengono scritte su di lui.” 

“Un film non è mai davvero di qualità se la telecamera non si comporta come un occhio nella mente di un poeta.” 

“La cosa migliore a livello commerciale è quella che ha più successo, ma sicuramente a livello artistico non vale niente.” 

“L'odio razziale non fa parte della natura umana, anzi, è l'abbandono dell'umanità.” 

“La popolarità non dovrebbe essere un metro di giudizio per eleggere i politici: se così fosse, Donald Duck e I Muppets siederebbero in Senato.”

“Solo le persone molto intelligenti non vogliono entrare in politica, ma io sono stupido abbastanza da volerci avere a che fare.” 

“Nessuno che accetti una sfida enorme e difficile può permettersi di essere modesto.” 

“Quello del regista è un rifugio per gente mediocre.” 

“L'uomo è un animale razionale che perde puntualmente le staffe quando deve agire in accordo con i dettami della ragione.”

“Il lieto fine dipende dal momento in cui fai finire la tua storia.” 

“Se non esistessero le donne, staremmo ancora accovacciati nelle caverne a mangiare carne cruda. Ci siamo civilizzati solo per fare buona impressione sulle nostre fidanzate.” 

“Al giorno d'oggi non ti insegnano nulla all'università. Ti puoi laureare in 'torte di fango'.” 

“Le leggi ed il palcoscenico sono entrambi forme di esibizionismo.” 

“Nemica dell'arte è l'assenza di limitazioni.”

“Ho perso ogni interesse in Hollywood non appena ci ho messo piede.” 

“Tutto ciò che si viene a sapere di Hollywood è vero, incluse le bugie.” 

“Non chiedere ciò che puoi fare per il tuo paese. Chiedi cosa c'è a pranzo.” 

“Nessuno ottiene giustizia. La gente ottiene solo fortuna o sfortuna.” 

“Facciamo un brindisi all'amore alle mie condizioni. Sono le sole condizioni che un uomo rispetta: le proprie.”

·        Pablo Picasso.

Kamel Daoud: «Picasso ritrae il proprio desiderio, il momento in cui diviene un’unica cosa con la donna».

L’incontro con l’Altro, l’esplosione della passione, la nudità. E il divieto di rappresentare la figura umana nella cultura islamica. Un giro al museo dedicato al celebre pittore dà il via al nuovo libro dello scrittore algerino. Anna Bonalume su L'Espresso il 24 Gennaio 2022.

Cosa rivela l’erotismo dei quadri di Picasso? Lo racconta l’intellettuale algerino Kamel Daoud nel nuovo romanzo “Il pittore che divora le donne”, edito da La nave di Teseo e tradotto da Cettina Caliò. È l’esperienza di una notte al museo Picasso di Parigi, un viaggio attraverso le opere della mostra “Picasso 1932: anno erotico”. Quell’anno il pittore spagnolo si invaghisce della giovanissima Marie-Thérèse Walter, che ne diviene la musa, l’amante, l’ossessione.

·        Pier Paolo Pasolini.

Giovanni Berruti per “la Stampa” il 29 novembre 2022.

«Io sono quello che lei cerca». All'inizio degli Anni 60, diversi giovani inviarono le proprie candidature per il ruolo principale ne Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini. 

Tutto nacque da un'intervista che lo scrittore e regista rilasciò sul settimanale Le Ore, annunciando l'ambizioso progetto e nello stesso tempo la ricerca di un attore non professionista che interpretasse Cristo. Ovviamente, che non si richiamasse all'immagine oleografica cui si è sempre stati abituati. 

Sceneggiato da Donata Scalfari e diretto da Simona Risi, Capelli quasi biondi, occhi quasi azzurri - 78 lettere a Pier Paolo Pasolini è un docufilm che analizza le missive degli aspiranti attori, spedite tra il 1962 e il 1963 da tutta Italia, ma anche da Germania e Stati Uniti. A far da fil rouge, la voce dell'uomo che ha ritrovato questi documenti nell'archivio paterno: il fotografo Mimmo Frassineti (tra gli autori del soggetto con Valentina Presti Danisi), figlio dello scrittore Augusto. Pasolini era amico di quest' ultimo e all'epoca gli consegnò le lettere ricevute (già aperte, dunque è lecito pensare che le abbia visionate tutte) in quanto esperto di «supplica». 

Più che un making of de Il Vangelo secondo Matteo, l'ultimo progetto targato 3D Produzioni, realizzato con il sostegno di Intesa Sanpaolo e presentato al Torino Film Festival, punta a offrire un ritratto generazionale maschile, a quasi vent' anni dal secondo conflitto mondiale e pochi prima della grande aggregazione politico-culturale che ha dato vita al 68. 

La peculiarità? Gli scritti sono letti e commentati dagli allievi del Piccolo Teatro di Milano, come se si mettessero a confronto con degli alter ego del passato.

C'è disperazione tra i giovani autori che inseguono l'ambitissima parte (oggi sarebbe «scontata»?) e soprattutto l'ingresso nel mondo del cinema. «Ho fatto la guerra, ho bisogno di lavorare», «Ho sedici anni, sono povero e non posso iscrivermi alla scuola di recitazione, lanciatemi voi». C'è l'ansia per il futuro. Ci sono elementi per un'analisi sociolinguistica del paese, con problemi con l'uso del verbo avere al Nord e del verbo essere al Sud. C'è infine, in una buona parte delle lettere, addirittura una sorta di tensione omosessuale che lega mittente e destinatario. 

Diversi gli interventi nel docufilm, da Marco Tullio Giordana ad Adriana Asti, da Monsignor Zuppi a Natalia Aspesi. «È un'Italia ingenua, un po' miracolistica, che spera di venire adottata dal grande regista per fare il suo film. Non lo pretende, come se nella stessa domanda fosse già implicita la rinuncia» spiega Giordana, in questi giorni in scena proprio con uno spettacolo su Pasolini, Pà con Luigi Lo Cascio. «Emerge il desiderio di entrare in un mondo di cultura - afferma la Aspesi - Ma anche un concetto di mascolinità oggi decisamente tossico, figlio del ventennio fascista e della ricostruzione del dopoguerra».

«Sono abbastanza Pasoliniano», scrive un giovane allegando anche una fotografia. Sì, perché il merito di Pasolini è stato di aver preso dalle periferie il proletariato e sottoproletariato per trasformarli in quadri e sculture. Così da canone estetico, «Pasoliniano» finì per diventare un aggettivo assoluto, uno status. Nessuno fu preso. Né come protagonista, trovato nello spagnolo Enrique Irazoqui, all'inizio restio dall'accettare la parte, né come comparsa, di cui la maggior parte furono alla fine scelte a Matera. Intervistate tra l'altro dagli autori proprio nella città che fu trasformata in Gerusalemme. Figure totalmente distanti dall'attore accademico, «che Pier Paolo non amava particolarmente», come raccontato dalla Asti. Ma in quelle lettere c'era anche chi voleva semplicemente farsi leggere. Come Lello, il contadino pugliese che i genitori volevano ingegnere. Colui che trovava la pace solo con il suo trattore. La stessa che probabilmente Pasolini cercava nell'arte.

"Non lascia nulla al banale". Chi era davvero Pier Paolo Pasolini. L'analisi grafologica dello scrittore bolognese rivela una personalità tutta puntata sull'introspezione e un continuo stato creativo. Evi Crotti su Il Giornale il 26 Novembre 2022.

Dalla firma e dalla scrittura (clicca qui) del poeta e scrittore bolognese emerge una ricca personalità tutta puntata sull’introspezione e sull’analisi affinché nulla in lui venga vissuto ed espresso in modo soggettivo.

Pier Paolo Pasolini è capace di sviscerare ogni cosa senza nulla lasciare all’immaginazione libera: tutto è frutto di mera creatività (grafia minuta con buona distribuzione degli spazi sia tra le lettere sia tra le parole e le righe). Ciò è indice di un pensiero che non lascia nulla al banale.

Possiede inoltre capacità di analisi, prodotto di una mente e di un pensiero filosofici che valutano con questa ottica sia i problemi sociali sia quelli personali: tutto è sotto l’occhio vigile di un discernimento incessante che poco spazio lascia alla critica altrui.

Dalla grafia emerge pure una componente di ossessività volta a ricercare sempre il vero, che appaghi prima di tutto sé stesso e che lo riempia saturando quella sete interiore che lo ha da sempre caratterizzato.

Possiamo senza dubbio di smentita che egli ha lasciato dietro di sé l’immagine di un uomo che, incidendo nella storia letteraria e sociale, ha indubbiamente creato nostalgia di sé. Egli brilla ancora per le sue notevoli capacità in vari settori dove ancora potrebbe dettare legge (vedi forme estetiche, gesti originali, lettere minute, firma uguale al testo e pressione leggera).

La mente di Pasolini è sempre stata in continuo fermento, caratteristica che gli ha permesso di essere in “continuo stato creativo” riuscendo così a vivere e ad essere presente, allora come anche oggi, con la sua complessa personalità fatta di creatività e affettività tormentata, ma soprattutto con la sua naturale e spontanea ingenuità, fuori da ogni schema preordinato.

Quel moralismo della sinistra jr. che legge Pasolini come lady oscar. Fulvio Abbate su L’Identità il 19 Novembre 2022.

La riflessione sull’omosessualità di Pier Paolo Pasolini non può essere spiegata con la citazione tardo-adolescenziale dei manga giapponesi, ovvero Lady Oscar, oggetto d’affezione LGBT. Come rendere banale la verità storica e perfino carnale di uno scrittore. Marx, Gramsci e lo “straccetto rosso” cancellati dai cartoni acetati. Per chi ne ignori l’esistenza nei trascorsi palinsesti pomeridiani, Lady Oscar è una fanciulla bionda in uniforme da spadaccino maschio nel tempo della rivoluzione del 1789, l’ambiguità di genere come significante. La scrittrice Chiara Valerio, ragionando sulla sostanza di PPP, chiama in causa proprio Lady Oscar, ai suoi occhi chiave di lettura del disvelamento omosessuale. Si possono utilizzare ordinari feticci della subcultura pop perfino nella riflessione ontologica, lo ha fatto il filosofo Giulio Giorello con Tex Willer, resta che Chiara Valerio non possiede la sciabola di Giorello, e la sua narrazione di Pasolini mostra modalità da “cosplay”. Come depotenziare l’omosessualità di Pasolini, disincarnarla dal suo prosaico quotidiano esistenziale. Per paradosso, appare più pertinente la gaffe dell’allora presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati, che, commemorandolo a Palazzo Madama, lo evocava “Gian Paolo”. Ancora in tema di garbate mistificazioni, tornano le parole di Marco Pannella. Il leader radicale rilevava che i comunisti, per moralismo e ipocrisia, ritenendo indicibile una “morte da frocio” (sic), avevano scelto di declinarne l’epilogo tragico attraverso la tesi edificante del complotto politico fascista, così ignorando il nodo dell’omosessualità stessa. Accostare Pasolini a Lady Oscar con modalità da turismo letterario giovanile corrisponde ancora una volta a omettere la sostanza della sua praxis omosessuale, sebbene lo scrittore l’abbia esplicitata nel suo portato masochistico, nero su bianco. Occorre dare atto a Dacia Maraini d’essere stata tra i pochi a riconoscere che Pasolini amasse “farsi picchiare”. Basterebbe citare “Il pratone della Casilina”, capitolo del romanzo “Petrolio”, dove scorre una sequenza estenuante di coiti orali che assomiglia a una esecuzione per cancellare ogni lettura da educandato. Moralismo edificante della sinistra giovanile perbene sostituisce i boccoli dorati dell’eroina manga ai brufoli e al ghigno di Pino Pelosi e d’ogni altra “marchetta” che accompagna il quotidiano erotico dello scrittore fino alla morte all’Idroscalo di Ostia. Un bel libro di Andrea Pini, pubblicato dal Saggiatore, “Quando eravamo froci, gli omosessuali nell’Italia della dolce vita”, raccoglie, fra l’altro, testimonianze dirette sull’omosessuale Pasolini, lì definito in tutta la sua attitudine fortemente autopunitiva. Fuori da ogni post-verità, si tratta semplicemente di liberare Pasolini da una lettura che impropriamente ne trascende la sostanza, anche la più drammatica e oscena; impronunciabile. Anche il “corpo” citato da Chiara Valerio evocando Simone Weil ignora le pagine de “La condizione operaia” sulla fatica materiale o ancora lei miliziana con gli anarchici della Colonna Durruti in Spagna nel 1936, il filosofo (tale si riteneva Simone, al maschile) viene semmai trasfigurato in poster edificante da attichetto romanzesco. Così come Berlinguer è ormai reificato in Padre Pio della sinistra svanita, Pasolini appare non meno feticcio glamour caravaggesco, spolpato d’ogni rabbia politica; della sua critica alla società più nulla restano sullo sfondo dei cosplayer in costume da Lady Oscar.

Antonio Gnoli per “la Repubblica” – 21 ottobre 2005 

La morte di Pasolini addolorò profondamente Alberto Arbasino. Ma il modo in cui morì gli parve irreale e provocatorio come la scena di un brutto film. «Ogni tanto si torna a parlare della morte di Pier Paolo come di uno dei tanti episodi misteriosi che accadono in Italia. A me è sembrato molto strano che Pasolini si mettesse in situazioni non dico di venire aggredito o ammazzato, ma ripreso, in posizioni compromettenti, magari con i pantaloni abbassati, da quei fotografi che correvano dietro le starlette. Sarebbe bastata una di quelle fotografie che lo cogliessero in atteggiamento sconveniente per compromettere l’ altezza civile e moralistica delle battaglie politiche che allora stava conducendo».

Sostiene che era troppo noto e troppo impegnato per non avvertire il pericolo di finire su qualche giornaletto scandalistico? 

Una qualunque rivistaccia lo avrebbe distrutto. Mi dicevo quindi: possibile che abbia commesso una tale imprudenza? E poi tutta la storia – le inquadrature, le vicende, le foto, i protagonisti – somiglia molto a un filmaccio di terz’ordine, fatto da degli imitatori di Pasolini che hanno scelto un luogo miserabile, tipo Accattone, per ambientarne la scena. 

Il pasolinismo sarebbe servito per confezionare un omicidio?  

Non lo so, ma quello che gli è successo bastava ricavarlo dai suoi film;  perfino il ragazzetto era uguale a Ninetto. In un certo senso la sua morte mi veniva di paragonarla a quella di Giangiacomo Feltrinelli, avvenuta nei presso di un traliccio a Segrate, dove la sua casa editrice stampava i libri. 

Sta cercando significati emblematici? 

No, ma delle coincidenze che sembrano nate da pessimi sceneggiatori. 

Pessima la sceneggiatura, ma di chi era la regia?

Non si può dire che ci fosse una regia, ma lo si può pensare. 

Che peso dà alle coincidenze?

Non si può far altro che osservarle. 

Ma il fatto che questo caso riesploda ora, a distanza di trent’ anni, cosa le suggerisce? 

Vedrei la cosa in una prospettiva più ampia. Da qualche tempo gli scrittori del nostro Novecento vengono rievocati non per i loro libri che, a quanto pare, non interessano a nessuno, ma semplicemente perché hanno fatto una delazione alla polizia, scritto un biglietto al federale o si sono compromessi con l’Unione Sovietica. Siamo al gossip politico.

Quando vi siete conosciuti con Pasolini?

In un’ epoca ormai remota. Mi pare fosse il 1956, io gli avevo mandato dei versi che avrebbe dovuto pubblicare su “Officina”, una rivista fatta da Pasolini e Leonetti dove si pubblicavano in prevalenza cose sperimentali. 

Vi conoscevate di nome? 

PASOLINI

Diciamo che entrambi agli inizi degli anni cinquanta gravitammo attorno alla rivista “Paragone”, fu lì che pubblicai le mie primissime cose. “Paragone”, sotto le ali di Roberto Longhi e Anna Banti, è stata la migliore rivista letteraria italiana. Normalmente vi collaboravano Bassani, Testori, Citati, Garboli, Calvino e naturalmente Pasolini. In seguito accadde un episodio curioso. Avevo mandato a Bassani, presso la redazione di “Botteghe Oscure”, il manoscritto dell’Anonimo lombardo, che più tardi sarebbe uscito con Feltrinelli.

PASOLINI OMICIDIO 22

Bassani perse la lettera che accompagnava il manoscritto e perciò nessuno sapeva chi fosse l’autore di quel manoscritto. Pasolini che non mi conosceva, ma aveva letto il solo mio racconto comparso su “Paragone”; con grandissimo fiuto filologico, me ne attribuì la paternità. E in seguito, come accennavo, mandai i miei versi per “Officina”. E lui, ricordo, mi diede appuntamento, sotto il Ponte Sant’Angelo, ai famosi bagni del Ciriola. 

Strano appuntamento per due intellettuali.

Era un posto che lui amava. Ricordo che mi ricevette in costume da bagno malgrado la stagione non fosse propizia. E con grande ospitalità mi presentò dei piccini bruttissimi. 

E lei come reagì? 

Mi ero provocatoriamente vestito in grisaglie e cravatta regimental, neanche dovessi andare nella redazione del “Mondo” di Pannunzio. Reagii interpretando la parte del vecchio gentleman arrivato dal Nord Europa che a Copenaghen o a Amsterdam ne aveva viste ben altre. Mi sembra che non gradì particolarmente quel gioco vagamente internazionale.

Per uno come lui probabilmente la paradossalità di certe situazioni era vissuta con fastidio.

Direi che in generale era un uomo molto teso e nervoso. Aveva quel tipo di tensione delle persone che sono abbastanza timide e quindi si fanno forza diventando un po’ aggressive.

Era anche un uomo pieno di inquietudini. 

Come tutti in quegli anni. Cercavamo varie forme con cui esprimerci: giornalismo, romanzo, poesia, teatro, cinema. Sperimentavamo a volte con successo, altre con dei flop clamorosi. 

Pasolini era uno che ce l’ aveva fatta. Penso al cinema. 

Era indiscutibilmente più bravo e poi aveva una perseveranza rara. 

Cosa pensa del suo cinema?

A me piacquero moltissimo Accattone e Il Vangelo, poi ho avuto qualche dubbio. Rimasi, per esempio, molto perplesso su Salò-Sade. In fondo tutto quello che c’era da sapere su Sade lo avevo appreso da tempo nelle mie frequentazioni nelle librerie parigine. 

Intende dire che era un film troppo scontato? 

Di cattivo gusto. Il Salò-Sade – che ha entusiasmato certi e sdegnato altri – poteva dare anche una certa angoscia, pensando allo stato mentale di chi lo aveva concepito e messo a punto. 

A quale stato mentale allude? 

Voglio dire che l’ angoscia che quel film mi trasmetteva non era tanto per le immagini che vedevo, quanto perché un amico si era arrovellato su quei fantasmi.

Pasolini amava a volte far fare ad alcuni amici piccole parti nei suoi film. Le ha mai chiesto di lavorare con lui? 

No. 

E se lo avesse fatto? 

Avrei voluto vedere cosa mi offriva. Aveva un modo di coinvolgere gli amici un po’ speciale. Quando girò Il Vangelo c’erano un po’ quasi tutti gli amici. Ricordo che Rodolfo Wilcock fece una piccola interpretazione nel Vangelo. Mi raccontò dell’ entusiasmo per aver passato una settimana in Puglia, dove Pasolini girava fra Trani e Molfetta: il giorno Vangelo e la notte divertimento straordinario con i giovani che assediavano il set. 

Com’era vissuta l’ omosessualità in quegli anni? 

In quegli anni non c’erano termini che designassero omosessualità o pedofilia. Oggi sono espressioni politicamente corrette. Allora non esisteva il nome e dunque non esisteva neppure la cosa. Assenza di pregiudizi. Non c’ erano i film hard, le edicole non traboccavano di riviste porno. I giovani cercavano sfoghi sbrigativi e senza impegno. Al massimo ci scappava una pizza e un pacchetto di sigarette. 

Ha una immagine lievemente idilliaca dell’ omosessualità.

È stato un periodo relativamente breve. In seguito il paesaggio sociale si modificherà. E questo avrà il suo peso su Pasolini. 

In che senso?

I ragazzini non sono più poveri, nascono vere e proprie categorie professionali. Per giunta si approfondisce il divario fra un cinquantenne come Pasolini e un quindicenne.

Nasce la marchetta. 

Si specializza. Spariscono figure come il marinaio in divisa bianca entrato nell’ immaginario erotico di Cocteau e Genet, o di certi scrittori inglesi. In qualunque porto allora si andasse, da Tolone a La Spezia, li trovavi ad attendere. 

Ma non erano i soggetti che Pasolini prediligeva. 

Pier Paolo amava i minorenni, un’inclinazione che oggi sarebbe oggetto di una riprovazione assoluta.

Gli piaceva invadere il mondo del sottoproletariato. 

Ne era attratto. Lui era un signore con macchina vistosa e lì, in quelle borgate, andava per épater. 

Beh, non solo épater, ad alcuni si è legato. I Citti e i Davoli hanno fatto parte della sua vita. 

Ma di Ninetto era innamorato! Ci sono tra l’ altro le lettere che scrisse a Volponi – la persona meno omosessuale che si poteva conoscere – nelle quali parlava di questo amore a volte disperato. 

Disperato?

Quando Ninetto si sposò, Pier Paolo sembrava una vedova inconsolabile. 

Lei accennava a una certa assenza di pregiudizi negli anni Cinquanta. Però Pasolini fu cacciato dal Pci per immoralità.

Fu un fatto di puritanesimo piccolo borghese. Neppure nella Dc, dove c’erano politici che non facevano mistero delle loro avventure notturne, sarebbe potuto accadere.

Vuole dire che era un partito più tollerante? 

Una tolleranza da parrocchia veneta, che accettava i gusti di un campanaro o di un sagrestano. Comunque negli anni Cinquanta un moralismo piccolo borghese veniva fuori, come ostentazione nel proletariato, con quei giovanotti che si incontravano nei cinema, sui bastioni, nei cessi delle stazioni, ai giardinetti, cioè in tutti i luoghi dove si poteva consumare sul posto.

E nelle classi alte? 

Non c’era nessun moralismo. Froci tantissimi. Magari alcuni di loro erano oggetto di discussione ideologica nei partiti, o di pettegolezzo sui giornali piccolo borghesi di sinistra o di destra. Ma certo non si faceva alcun mistero nel raccontare avventure e prodezze. Come del resto facevano Comisso e Palazzeschi che con rimpianto dicevano: “ahhh, non sa cos’è la douceur du vivre chi non ha conosciuto i moschettieri del duce, quei gerarchi maschioni che venivano chiamati Ferruccio di giorno e Maria di notte’’. Ma questo era il vero gossip. (…)

 Altra epoca. 

Inarrivabile. 

L’ultima volta che vide Pasolini? 

Ci incontrammo proprio sul luogo dove si sarebbe svolto il suo funerale: Campo de’ Fiori. Ci incrociammo alla Carbonara, un ristorante dove aveva portato Sandro Penna. Fu l’ultima volta che lo vidi. 

Che impressione le fece? 

Mi parve pentito della buona azione di essersi trascinato Penna a pranzo. Il vecchio poeta era particolarmente lamentoso. Pier Paolo aveva il sorriso stanco. Di lì a poco sarebbe partito per andare a girare Salò-Sade.

Che giudizio dà dello scrittore? 

Il suo libro che ho più amato è Le ceneri di Gramsci. 

E la sua poesia friulana?

Tanto vale parlare dei poeti di Voghera. 

È stato un grande saggista? 

Indubbiamente lo è stato. 

Anche quando parlava di lucciole. 

Ce le siamo portate appresso per lungo tempo. A volte la sua intelligenza si disperdeva nelle polemichette fra “Rinascita” e “Paese Sera”. 

In vita la sinistra non lo ha amato. 

Di quella roba non avevo nessuna impressione. Ma questa era l’Italia. Minima e rissosa. Bastava prendere un aereo e dopo dieci minuti avevi tutto alle spalle.

Pasolini è stato ucciso: l’Italia è sconvolta. Sulla Gazzetta il ricordo di Giorgio Saponaro. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 03 Novembre 2022

«Pasolini ucciso da un “ragazzo di vita”, come in un suo film»: così titola «La Gazzetta del Mezzogiorno» del 3 novembre 1975. «Lo scrittore e regista Pier Paolo Pasolini è stato selvaggiamente assassinato questa notte, dopo una furiosa colluttazione, a colpi di una pesante tavola di legno divelta da un rudimentale cancello. Il suo cadavere, orrendamente sfigurato, è stato scoperto all’alba di stamani all’estrema periferia di Ostia, nei pressi dell’idroscalo, dalla famiglia di un carpentiere che, come tutte le domeniche, si recava nella zona per completare i lavori di una baracca che stava costruendo artigianalmente».

La notizia sconvolge il Paese intero. Pier Paolo Pasolini – scrittore, poeta, autore e regista cinematografico e teatrale – nasce cento anni fa, nel 1922, a Bologna. Segue gli spostamenti continui del padre Carlo, ufficiale di carriera: dopo la laurea in Lettere, Pasolini si trasferisce in Friuli, nel paese natale della madre, dove comincia la sua esperienza letteraria, e poi definitivamente a Roma. La pubblicazione dei due «romanzi romani» – «Ragazzi di vita» nel 1955 e «Una vita violenta» nel 1959 – rappresenta, si legge sulla «Gazzetta», uno dei fatti più interessanti degli anni Cinquanta. «Una ricerca inquieta, appassionata, nel tessuto sociale dei luoghi, delle comunità umane in cui visse, o meglio con cui visse, perché tutta l’opera di Pasolini, e dunque anche la sua vita, è all’insegna della partecipazione, viva, attiva: egli è stato un vero militante, in uno dei periodi più difficili della nostra storia recente».

Lo scrittore barese Giorgio Saponaro così lo ricorda: «Gli occhiali neri, come per difesa contro il mondo che voleva sempre osservarlo, scrutarlo, vivisezionarlo; la voce, dolcissima, suadente come di chi soffre quotidianamente con immenso strazio le cose di cui parla, di cui dice, con le quali intrattiene gli altri. Il corpo magro, i giubbotti neri, e tutto intorno alla sua figura un non so che di rappreso, di tenuto a freno, di gentile e di forte insieme».

Sulla «Gazzetta» si riportano, inoltre, le reazioni a caldo di molte personalità della cultura nazionale. Eduardo De Filippo, che di lì a poco avrebbe dovuto interpretare l’ultimo film di Pasolini, commenta amaro: «Mentre l’uccidevano, povero e caro Pier Paolo, avrà certamente pensato al soggetto cinematografico che aveva ideato per me, nel quale descriveva, in modo allucinante e ricco di particolari, la scena di un martirio che subisce un uomo in mezzo ad una pubblica piazza». «Sono sconvolta e desolata» – dice Lina Wertmüller – «Abbiamo perduto forse l’intelligenza più lucida dell’Italia contemporanea».

Il sogno di Pasolini tra passato e futuro. Un omaggio al Cairo con centinaia di studenti di Italiano. Oscar Iarussi su La Gazzetta del Mezzogiorno l'1 Novembre 2022

Ritrovare Pasolini oltre i suoi libri e i film, nello scenario del Cairo, metropoli di venticinque-trenta milioni di abitanti dove convivono modernità e arretratezza, quartieri ricchi insieme alla povertà estrema delle baraccopoli. Con una compresenza dei vivi e dei morti che un tempo Carlo Levi attribuiva al nostro Sud e che al Cairo è effettiva, visto che centinaia di migliaia di persone abitano stabilmente nelle tombe, le cappelle e i mausolei di Al-Qarafa, l’antica necropoli musulmana della capitale detta “La città dei morti”. Del resto, il fantasma di Pier Paolo Pasolini aleggia ovunque non sia giunta a compimento l’omologazione piccolo-borghese che egli aborriva, mentre rimpiangeva la civiltà contadina in via di estinzione nell’Italia del boom, della industrializzazione, della televisione livellatrice dei costumi e dei consumi. Con l’ostinazione di «una forza del passato», Pasolini continua a cercare le vestigia del mondo che sentiva profondamente suo: nelle borgate romane dei primi bellissimi film (Accattone, Mamma Roma) o a Matera dove girò Il Vangelo secondo Matteo (1964), fino alle antiche mura di Sana’a nello Yemen, cui dedicò un documentario-manifesto, e poi in India, Marocco, Brasile... Non è solo “nostalgia”, perché Pasolini nel Terzo Mondo intravede gli indizi sociali e linguistici di una possibile/impossibile rivolta contro la occidentalizzazione indiscriminata, arrivando a presagire per certi versi la grande migrazione, di là da venire, dall’Africa o dall’Asia verso i Paesi ricchi (fa testo per esempio Alì dagli occhi azzurri).

Quest’anno ricorre il centenario della nascita di Pasolini (Bologna, 5 marzo 1922), in corso di celebrazione un po’ dovunque, con mostre, iniziative, dibattiti a Roma e nelle grandi città, ma anche in piccoli centri, a testimonianza di quanto abbia permeato la società e la cultura italiane. Dopo la morte violenta a 53 anni per mano del “ragazzo di vita” Pino Pelosi nella notte fra l’1 e il 2 novembre 1975, giusto quarantasette anni fa, Pasolini ha subito dapprima una rimozione feroce e in seguito una paradossale edulcorazione: la sua figura di regista, poeta, saggista e polemista sempre controcorrente è stata trasformata in un’icona di massa. Non mancano gli omaggi all’estero. Siamo stati invitati di recente a parlare di Pasolini, appunto al Cairo, per l’inaugurazione della XXII Settimana della Lingua Italiana nel mondo, organizzata dal Ministero degli Affari Esteri in vari Paesi. Nell’auditorium dell’Istituto Italiano di Cultura della capitale egiziana, un elegante villino del quartiere Zamalek nell’isola Gezira sul Nilo, abbiamo dialogato sull’Autore e il suo cinema con lo storico delle idee Davide Scalmani, il quale dirige con passione l’Istituto. Un luogo vivo e assai frequentato, a cominciare dalla splendida biblioteca intitolata a Giuseppe Ungaretti, il grande poeta intervistato da Pasolini in Comizi d’amore (1965). Ungaretti resta il più celebre fra gli italiani d’Egitto, nato ad Alessandria nel 1888 da un padre operaio fra i tanti stranieri impegnati nello scavo del Canale di Suez e da una madre fornaia.

Per conoscere qualcosa in più di Pasolini all’Istituto Italiano del Cairo v’erano in sala centinaia di giovani, soprattutto ragazze con il velo ormai diffusissimo rispetto a pochi decenni fa e non di rado giunte da altre città, quasi tutti studenti della lingua italiana nei licei e nelle università dell’Egitto. Sono oltre centodiecimila, dice Scalmani, ed è in effetti un patrimonio impressionante di interesse e di fascinazione per la nostra cultura. Si rinnovano così i rapporti tra i due Paesi fecondati lungo l’800 e il ‘900 dagli egittologi italiani impegnati negli scavi archeologici, dai grandi architetti che hanno rimodernato Alessandria e Il Cairo (Antonio Lasciac, Giuseppe Mazza, Mario Rossi), dalle relazioni verdiane grazie all’Aida oggi tenacemente coltivate fra gli altri dal direttore d’orchestra Elio Orciuolo, pugliese di casa all’ombra delle Piramidi. Senza dire dei letterati protagonisti di avventurose esperienze tra il Mediterraneo e il Nilo: Enrico Pea, Fausta Cialente, Stefano Terra, oltre al futurista Filippo Tommaso Marinetti ch’era nato ad Alessandria come Ungaretti.

La tragica vicenda di Giulio Regeni, il dottorando italiano dell’Università di Cambridge rapito, torturato e ucciso al Cairo nel 2016, e la lunga detenzione in carcere di Patrick George Zaki, studente egiziano dell’Università di Bologna, hanno creato tensioni diplomatiche tra l’Italia e l’Egitto che solo la necessaria chiarezza sulle responsabilità potrà sciogliere. Eppure i rapporti interculturali continuano: sono una mezza dozzina attualmente i lettori di Lingua italiana nelle università del Cairo, tra i quali la docente barese Rosa Luigia Bottalico. C’è una nuova generazione di italianisti di pregio come la giovane Nadine Wassef, ricercatrice della Ain Shams University, all’opera su autori da riscoprire come Anna Messina (Cronache del Nilo, 1940) e Marisa Milani. Mentre Suzanne Badie Iskandar lavora intorno a Una vita violenta di Pasolini, che in passato è stato occasionalmente tradotto in arabo e talora non dall’italiano, bensì da altre lingue. Non conta solo l’accademia. Il console onorario italiano a Luxor Francis Amin, collezionista e studioso, in perfetto italiano racconta di mostre e iniziative realizzate in varie città del Paese. Il canale YouTube “Egitto Ora”, curato dai volenterosi Ossama Fawzy e El Semary Saleh, esplora temi legati al turismo, la gastronomia, la musica italo-egiziani.

Sempre l’Istituto Italiano di Cultura nei giorni scorsi ha ospitato un concerto tutto pugliese, con il pianista Mario Margiotta, il soprano Serena Grieco e il Quartetto Gershwin, e ha propiziato l’incontro artistico fra il sassofonista jazz romano Simone Alessandrini e il gruppo locale Mazaher & Nass Makan Ensemble. Insieme stasera saranno di nuovo in concerto al “Makan - Egyptian Center for Culture and Arts” animato da un intellettuale cosmopolita qual Ahmed Maghraby, che conosce bene l’Italia e in particolare l’antropologia musicale del Mezzogiorno. Di scena la musica «Zar», un secolare ritmo rituale e onirico utilizzato a mo’ di esorcismo per liberare le donne dagli spiriti malefici: esattamente come la Taranta... Il sogno di una cosa, sì, nel segno di Pasolini.

Pasolini, il cantore identitario contro il globalismo. Alessandro Gnocchi su Culturaidentita.it il 2 Novembre 2022

Oggi moriva PPP, Pier Paolo Pasolini (Bologna, 5 marzo 1922 – Ostia, Roma, 2 novembre 1975): perché venne assassinato? E’ vero che Pino Pelosi fu l’unico responsabile dell’omicidio? E quei tre uomini dall’accento meridionale presenti sul litorale di Ostia? Ed è vero che in quel capitolo “mancante” del suo romanzo uscito postumo, Petrolio, il protagonista interpretato da un personaggio di fantasia era in realtà una persona molto in alto dell’ “apparatchik” economico/politico di allora? La morte di PPP resta comunque uno dei tanti misteri italiani. Ma noi oggi non ci vogliamo soffermare su questo aspetto oscuro: vogliamo invece mostrare un paesaggio luminoso, cioè il suo ultimo libro di poesie intitolato La nuova gioventù, contenente quella poesia scritta in dialetto friulano, Saluto e augurio, che idealmente rappresenta un testamento intellettuale e morale per chi sarebbe venuto dopo, cioè noi oggi (Redazione)

“Non c’è peccato peggiore, nel nostro tempo, che quello di rifiutarsi di capire: perché nel nostro tempo non si può scindere l’amare dal capire. L’invito evangelico che dice «ama il prossimo tuo come te stesso» va integrato con un «capisci il prossimo tuo come te stesso». Altrimenti l’amore è un puro fatto mistico e disumano”. 

Pier Paolo Pasolini è stato forse l’ultimo intellettuale possibile. Quali speranze avrebbe oggi un poeta di emergere con la forza delle sue parole nel mondo dei social media, che consuma le idee come fossero merci? Esistono forse due Pasolini. C’è il personaggio pubblico “Pasolini”, l’intellettuale eretico, fedele ai comunisti ma non al comunismo, il fustigatore della borghesia, l’editorialista sorprendente, il profeta civile. Accanto al marxista, tutto nella storia e nella ragione, c’era ancora il giovane Pier Paolo-Narciso, il poeta friulano, tutto nella ciclica astoricità del mondo contadino e nel sentimento. Il marxista forse nacque anche per mettere un argine a Narciso, per ordinare le idee, per maturare. Chissà cosa sarebbe diventato se non lo avessero ammazzato come un cane nel 1975. Pasolini era a un passo da un grande cambiamento. Era in arrivo qualcosa di peggio delle camicie nere della gioventù: una forma perfetta di regime costruito con l’assenso degli uomini ridotti a consumatori. Il potere diventava globale e usciva dai parlamenti per entrare nei board di un nuovo tipo di Stato, senza confini: l’azienda multinazionale. Il mercato globale ha una sola regola: l’efficienza. I consumatori devono essere uno identico all’altro e desiderare le stesse cose da prodursi in serie, con redditizie economie di scala. In futuro, ogni reale differenza sarà cancellata, in nome e con la scusa della tolleranza. Il cambiamento è veloce e globale. Dunque travolgerà tutto ciò che è lento e locale. Istituzioni come famiglia e Chiesa sono obsolete e saranno abbandonate o svuotate di senso proprio come la politica tradizionale. Anche piccoli imprenditori, partite Iva e commercianti sono un freno a mano tirato. Quindi dovranno sparire.   Pasolini picchiava duro anche a sinistra: il progresso non può consistere nel mettere un televisore in ogni casa. La “contestazione” si è rivelata funzionale al capitalismo. Può aver senso cancellare la morale tradizionale e l’autorità. A patto di inventarsi un nuovo modo di essere tolleranti, illuministi, liberi. Il Sessantotto non ne è stato capace, ha involontariamente rimosso gli ultimi ostacoli all’affermarsi del capitalismo delle grandi concentrazioni.

Quando si apre La meglio gioventù o L’usignolo della Chiesa Cattolica improvvisamente si capisce che esiste un mondo da salvare se vogliamo restare umani, incluso tutto il male e tutte le perversioni di cui siamo capaci. Il male non è meno importante del bene in questo mondo in cui tutti si candidano a essere più buoni attraverso quell’inconcludente (ma non innocente) gioco di parole chiamato politicamente corretto.

Nell’ultimo libro di poesie, La nuova gioventù, un Pasolini ormai disperato affida il suo testamento politico e morale a un giovane fascista, rappresentante di una destra “sublime”. La poesia si intitola Saluto e augurio, è scritta in friulano, questa è la traduzione di Pasolini stesso:

Tradotto: “Per il capo tosato dei tuoi compagni. Difendi i campi tra il paese e la campagna, con le loro pannocchie, abbandonate dal letame. Difendi il prato tra l’ultima casa del paese e la roggia. I casali assomigliano a Chiese: godi di questa idea, tienila nel cuore. La confidenza col sole e con la pioggia, lo sai, è sapienza santa. Difendi, conserva, prega!”. E ancora: “Tu difendi, conserva, prega: ma ama i poveri: ama la loro diversità. Ama la loro voglia di vivere soli nel loro mondo, tra prati e palazzi dove non arrivi la parola del nostro mondo; ama il confine che hanno segnato tra noi e loro; ama il loro dialetto inventato ogni mattina, per non farsi capire; per non condividere con nessuno la loro allegria. Ama il sole di città e la miseria dei ladri; ama la carne della mamma nel figlio. Dentro il nostro mondo, dì di non essere borghese, ma un santo o un soldato: un santo senza ignoranza, o un soldato senza violenza”. Le nuove tavole della Legge in tre comandamenti: difendi, conserva, prega.

Bibliografia essenziale: La meglio gioventù, Canzoniere italiano. Antologia della poesia popolare, Le ceneri di Gramsci, Ragazzi di vita, Scritti corsari, Petrolio, Teatro.

Pier Paolo Pasolini, un caso mai chiuso. Il depistaggio nella ricostruzione del legale che ha riaperto l’indagine. A 47 anni dall’omicidio, il libro di Stefano Maccioni elenca tutti gli elementi irrisolti che convergono a delineare il quadro di una deliberata manomissione della verità sull’omicidio dell’intellettuale, pilastro del pensiero del Novecento. Enrico Bellavia su L'Espresso il 31 ottobre 2022.

Una morte che incarna la traiettoria che avrebbero preso i nostri giorni. Perché la costruzione di misteri è arte in cui l’Italia eccelle nel mondo e genera emuli. E la storia recente ne è piena. Ha molto a che vedere con la genesi della Repubblica sulle ceneri del fascismo e dei suoi apparati: perché è quello il vizio di origine che grava come un fardello sul presente.

La fine di Pier Paolo Pasolini, il 2 novembre 1975, 47 anni fa, all’Idroscalo di Ostia, è il cold case italiano più dibattuto. Tanto longevo quanto controverso, rappresenta l’archetipo dal quale tutti gli apprendisti ingegneri dell’arcano attingono la propria scienza.

Gli atti mancati, le prove distratte, sparite, manipolate. Le domande eluse, le risposte inconcludenti, apparentemente frutto di incomprensibile casualità, tutti elementi che, messi in fila e analizzati, appaiono, al contrario, come tessere necessarie alla manomissione deliberata della verità. E costituiscono un campionario perennemente replicato ogni qual volta, in una ridda di congetture, la nebbia diventa la miscela necessaria a mischiare il falso con l’autentico, il buio con la luce. Perché tutto rimanga nell’indistinto del mistero, appunto.

Per Pasolini, plasticamente, l’eterna tentazione di concentrare il punto di vista dell’indagine sul morto e non sull’assassino è la premessa da cui sembra discendere tutto. È operazione funzionale, serve tutte le volte in cui il contesto di un delitto, l’esatto giorno in cui viene compiuto, il valore preventivo dell’omicidio devono essere sviliti al rango di particolari inessenziali. Con una torsione all’indietro, si volge lo sguardo verso ciò che la vittima aveva fatto, trascurando quel che stava per fare. La confessione servita, quando c’è, e in questo caso, tra mille contraddizioni, c’è, è, per converso, il suggello perfetto a blindare montagne di scartoffie nella cassaforte delle presunte prove incontrovertibili. E consegnare tutto il resto all’oblio dell’indimostrato.

Nell’anniversario della morte, che arriva in fondo all’anno del centenario della nascita (5 marzo 1922), la curva dell’attenzione sulla fine di Pasolini ha conosciuto nuovo vigore. Libri, inchieste, documentari, performance hanno scandagliato e scandagliano ciò che per comodità chiamiamo mistero e potremmo tranquillamente definire, anche in questo caso, depistaggio. Tante sono le analogie con mille altri episodi che punteggiano gli anni del nostro passato (?) prossimo.

Alla versione, l’unica consacrata in sentenza, del delitto d’impeto del ragazzo di vita Pino Pelosi, ribellatosi a un tentativo ulteriore di approccio non sono più molti a credere. Non ci credeva più di tanto neanche Pelosi che pure fece di tutto, sostenuto dall’avvocato Rocco Mangia, per accollarsi l’omicidio in un’altalena di ricostruzioni nelle quali comparivano e sparivano i comprimari. Non ci credeva, e questa è faccenda non secondaria, il tribunale dei minorenni, presieduto da Alfredo Carlo Moro, fratello di Aldo, che condannò l’imputato ma lasciò apertissima la porta del concorso di ignoti che frettolosamente la procura generale si premurò di chiudere.

Da lì è ripartito Stefano Maccioni, avvocato - parte civile nei processi per la morte di Stefano Cucchi, per la strage di Viareggio, in “Mafia capitale”, per il “Sangue infetto” e per l’omicidio del vice brigadiere Mario Cerciello Rega – che, innamorato di casi impossibili, ancora una volta con la leva del diritto e l’esercizio del dubbio ha avuto il merito di far riaprire nel 2010 l’ennesima indagine sulla fine dello scrittore risoltasi però cinque anni dopo nel nulla.

Maccioni però di passi avanti ne ha impressi. Concentrandosi, insieme con la criminologa Simona Ruffini e con il contributo del giornalista Rai Valter Rizzo, su quella che anni di telefilm e fiction ci hanno insegnato a definire la scena del crimine. Lo ha fatto negli atti giudiziari che hanno accompagnato il proprio impegno e in un libro “Pasolini. Un caso mai chiuso” (260 pagine, Round Robin 2022, 14 euro), agile e compatto, in cui sono i fatti incongrui a rivelare la propria fragilità e ad aprire la scena all’ingresso di esami scientifici ed evidenze di laboratorio che gli si sovrappongono, escludendoli per confutarli. Consacrando nuove certezze senza alimentare la roulette del mistero. Perché semplicemente, «i reperti prelevati dalla scena del crimine», fino al 2010 «non erano mai stati sottoposti ad alcuna analisi di laboratorio».

Maccioni, in modo trasparente, sposa la tesi del movente legato alla stesura del romanzo postumo “Petrolio” incentrato sugli affari dell’Eni e sulla mano interna per la morte, il 27 ottobre 1962, del patron della ribellione energetica nazionale al monopolio delle Sette sorelle, Enrico Mattei. Un omicidio, quello, lasciato passare per un incidente aereo fino a quando il pm di Pavia Vincenzo Calia non ha riaperto il fascicolo e smascherato il sabotaggio del velivolo.

In definitiva, per l’avvocato Maccioni, così come per lo stesso giudice Calia, (“Il caso Mattei”, Chiarelettere 2017, scritto con Sabrina Pisu) sono le consapevolezze conquistate da Pasolini sul conto del vice e successore di Mattei, Eugenio Cefis, nel romanzo Aldo Troja, e in «un’informativa del Sismi indicato come il vero fondatore della P2», il cuore della ragione della sua uccisione. E Maccioni lo scrive in premessa: «Secondo me Pelosi non era solo quella notte, Pasolini era sotto ricatto da giorni, e un altissimo papavero italiano stava per essere travolto da Petrolio, il suo romanzo inchiesta il cui argomento aveva già due omicidi sulle spalle. Questo penso, e a questo credo».

Maccioni, quanto al movente, si inserisce nel solco di altri lavori sul punto come quello di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza (“Profondo Nero”, Chiarelettere, 2010 o “L' Italia nel petrolio. Mattei, Cefis, Pasolini e il sogno infranto dell'indipendenza energetica” di Giuseppe Oddo e Riccardo Antoniani, Feltrinelli, 2022.

Ma è sull’analisi del fatto che il lavoro dell’avvocato spicca per sforza di sintesi nell’analizzare i mille dettagli trascurati che compongono la ricostruzione sbilenca. Così traballante da apparire rabberciata ad arte nella fretta di concludere come nel più classico dei copioni che in fondo la vittima se l’era cercata.

Perché anche a voler credere, invece, che il movente ultimo della morte di Pasolini, sia prossimo ma diverso, come sostenuto in altre appassionate pubblicazioni, per esempio, i lavori di Simona Zecchi, (“Massacro di un poeta”, 2015 e “L’inchiesta spezzata di Pier Paolo Pasolini, 2020, entrambi per Ponte alle Grazie), sulle trame neofasciste dello stragismo degli esordi nei Settanta, che alimentava il lavoro giornalistico di Pasolini, il punto di vista deve comunque spostarsi a quel che il sangue dell’Idroscalo ha impedito e non a quello che uno dei pilastri del Novecento, aveva già fatto. Frequentazioni dei marchettari della stazione Termini incluse, ovvero il movente omofobo che Maccioni giustamente liquida come funzionale al nascondimento della verità: «Ovvio, comodo, lineare e inevitabile. Anche troppo», scrive.

«Una storia un poco scontata, una storia sbagliata. Storia diversa per gente normale, storia comune per gente speciale», avrebbero sintetizzato Fabrizio De André e Massimo Bubola (1980), prima di quel «Tutto passa, il resto va», di Francesco Di Gregori (A Pà, 1985) e dopo quel «Non può non può, può più parlare», che Giovanna Marini urlò nel 1979 (Lamento per la morte di Pasolini).

Il cuore del lavoro di Maccioni è proprio il luogo del delitto. Gli oggetti recuperati e trascurati, la genesi delle testimonianze che convergono a rafforzare la responsabilità di Pelosi ma descrivono tratti e colori di persone che non gli corrispondono. Che dicono di aver riconosciuto l’assassino sulla base di una foto mostratagli dagli investigatori che incredibilmente era già nelle loro mani a poche ore dal fermo di Pelosi e della quale però non c’è traccia negli incartamenti.

E poi ci sono i particolari, come l’ostinata ricerca di un anello, dono di Johnny lo zingaro, alias Giuseppe Mastini, di cui l’assassino rivendica la proprietà che innesca una forsennata ricerca fino al ritrovamento nei pressi del corpo della vittima. Il sigillo necessario a chiudere il caso. Fino alla sorprendente presenza di Maurizio Abbatino, boss della Magliana, tra i curiosi fotografati nella calca dell’Idroscalo l’indomani dell’omicidio.

Puntigliosamente elencati, sviscerati, messi a confronto con le risultanze di esami indipendenti e perizie del Ris che hanno supportato l’ennesima istruttoria archiviata - in tutto sono quattro –  gli elementi raccolti fanno dire a Maccioni che con Pelosi ci fossero almeno altre cinque persone, per tre delle quali si ha il profilo genetico, e sul conto delle quali non si era mai indagato a fondo, né si indagherà. Nel 2015 l’indagine si è arresa all’esito negativo di trenta confronti del dna con altrettanti potenziali assassini. Vicino ai quali però si arriva per fisionomia, incroci e coincidenze. Come la circostanza di un’auto identica a quella di Pasolini e con tracce di sangue, portata a riparare in tutta fretta all’indomani del delitto.

Il contesto è quello dei giovani della malavita romana legata all’eversione di destra e di origine siciliana. Molto più di una suggestione che sembra tracciare una retta che riconnette Pasolini al molto del grumo di potere che ha ipotecato il Paese. E che ancora una volta riconduce a Mattei e a un altro mistero italiano, la fine del giornalista Mauro De Mauro (16 settembre 1970), impegnato nelle ricerche per la sceneggiatura del film di Francesco Rosi sul presidente Eni. E anche per De Mauro, il movente ipotizzato non è l’unico. L’altro, anche questo prossimo ma non coincidente, porta invece alle rivelazioni impedite sul golpe neofascista (notte tra il 7 e l'8 dicembre 1970), progettato dal principe nero Junio Valerio Borghese. E da lì si riallaccia a una teoria di altri delitti eccellenti siciliani, da quello del procuratore Pietro Scaglione a quello del giudice Cesare Terranova fino all’omicidio del commissario Boris Giuliano.

Abbastanza per concludere con l’autore che davvero il caso non è affatto chiuso. Perché Pasolini ci parla ancora. E quel corpo martoriato all’Idroscalo allunga ombre su quel che eravamo e su quel che ancora oggi siamo.

Pasolini: «Un massacro firmato da pariolini neofascisti. Ma ora anche i sottoproletari sono criminali». Pier Paolo Pasolini il 18 OTTOBRE 1975 su Il Corriere della Sera il 25 Ottobre 2022.

Nell’ultimo articolo pubblicato sul Corriere prima di essere a sua volta barbaramente assassinato (il 2 novembre 1975), lo scrittore analizzava le radici del delitto: «La stampa borghese è felice di poter privilegiare come delinquenti quelli del Circeo» 

Angelo Izzo ride durante l’arresto, poche ore dopo il massacro del 29 settembre 1975. Con lui fu arrestato Gianni Guido; Andrea Ghira si diede alla latitanza

Gran parte delle firme storiche del Corriere della Sera hanno scritto articoli che fanno parte della storia di questo giornale e del Paese. Dall’Archivio storico del Corriere vi proponiamo questo articolo di Pier Paolo Pasolini dell’Ottobre 1975, ripubblicato sul numero di 7 in edicola il 21 ottobre 2022 

«La stampa borghese è felice di poter privilegiare come delinquenti quelli del Circeo: solo i drammi di quella classe sociale hanno valore e interesse. Ormai però anche l’universo popolare delle borgate romane è diventato «odioso» perché quei giovani appartengono totalmente all’universo piccolo borghese che è stato loro imposto definitivamente. La criminalità si vince solo abolendo totalmente la scuola media d’obbligo e la televisione I vari casi di criminalità che riempiono apocalitticamente la cronaca dei giornali e la nostra coscienza abbastanza atterrita, non sono casi: sono, evidentemente, casi estremi di un modo di essere criminale diffuso e profondo: di massa. Infatti i criminali non sono i neo-fascisti».

«SOLO I DRAMMI DI QUELLA CLASSE SOCIALE HANNO VALORE E INTERESSE. ORMAI PERÒ ANCHE L’UNIVERSO POPOLARE DELLE BORGATE ROMANE È DIVENTATO «ODIOSO» PERCHÉ QUEI GIOVANI APPARTENGONO TOTALMENTE ALL’UNIVERSO PICCOLO BORGHESE CHE È STATO LORO IMPOSTO DEFINITIVAMENTE»

«Ultimamente un episodio (il massacro di una ragazza al Circeo) ha improvvisamente alleggerito tutte le coscienze e fatto tirare un grande respiro di sollievo: perché i colpevoli del massacro erano appunto dei pariolini fascisti. Dunque c’era da rallegrarsi per due ragioni: I) per la conferma del fatto che sono solo e sempre i fascisti la colpa di tutto; II) per la conferma del fatto che la colpa è solo e sempre dei borghesi privilegiati e corrotti. La gioia di sentirsi confermati in questo antico sentimento populista - e nella solidità dell’annessa configurazione morale - non è esplosa solo nei giornali comunisti, ma in tutta la stampa (che dopo il 15 giugno ha una gran paura di essere a meno appunto dei comunisti). In realtà la stampa borghese è stata letteralmente felice di poter colpevolizzare i delinquenti dei Parioli, perché, colpevolizzandoli tanto drammaticamente, li privilegiava (solo i drammi borghesi hanno vero valore e interesse) e nel tempo stesso poteva crogiolarsi nella vecchia idea che dei delitti proletari e sottoproletari è inutile occuparsi più che tanto, dato che è aprioristicamente assodato che proletari e sottoproletari sono delinquenti».

«SI PENSI AL DELITTO DEI FRATELLI CARLINO DI TORPIGNATTARA, O ALL’AGGRESSIONE DI CINECITTÀ... LA CRIMINALITÀ SI VINCE SOLO ABOLENDO TOTALMENTE LA SCUOLA MEDIA D’OBBLIGO E LA TELEVISIONE»

« Io penso dunque che anche il massacro del Circeo abbia scatenato in Italia la solita offensiva ondata di stupidità giornalistica. Infatti, ripeto, i criminali non sono affatto solo i neo-fascisti, ma sono anche, allo stesso modo e con la stessa coscienza, i proletari o i sottoproletari, che magari hanno votato comunista il 15 giugno. Si pensi al delitto dei fratelli Carlino di Torpignattara, o all’aggressione di Cinecittà (un ragazzo percosso brutalmente e chiuso dentro il baule della macchina e la ragazza violentata e seviziata da sette giovani della periferia romana). Questi delinquenti «popolari» - e per ora mi riferisco, con precisione documentata, ai soli fratelli Carlino - godevano della stessa identica libertà condizionale che i delinquenti dei Parioli; godevano cioè della stessa impunità. È assurdo dunque accusare i giudici che hanno mandato in giro «a piede libero» i neofascisti se non si accusano nel tempo stesso e con la stessa fermezza i giudici che hanno mandato in giro «a piede libero» i fratelli Carlino (e altre migliaia di giovani delinquenti delle borgate romane)».

QUELLO CHE STATE LEGGENDO (ISPIRATO AL DELITTO DI IZZO, GUIDO E GHIRA), FU L’ULTIMO ARTICOLO DI PIER PAOLO PASOLINI SUL CORRIERE: 15 GIORNI DOPO SAREBBE STATO UCCISO

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«La realtà è la seguente: i casi estremi di criminalità derivano da un ambiente criminaloide di massa. Occorrono migliaia di casi come quelli della festicciola sadica del Circeo o di aggressività brutale per ragioni di traffico, perché si realizzino casi come quelli dei sadici pariolini o dei sadici di Torpignattara. Quanto a me, lo dico ormai da qualche anno, che l’universo popolare romano è un universo «odioso». Lo dico con scandalo dei benpensanti; e soprattutto con scandalo dei benpensanti che non credono di esserlo. E ne ho anche indicato le ragioni (perdita da parte di giovani del popolo dei propri valori morali, cioè della propria cultura particolaristica, coi suoi schemi di comportamento eccetera)».

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«E a proposito, poi, di un universo criminaloide come quello popolare romano bisognerà dire che non valgono le consuete attenuanti populistiche: è necessario munirsi della stessa rigidità puritana e punitiva che siamo soliti sfoggiare contro le manifestazioni criminaloidi dell’infima borghesia neo-fascista. Infatti i giovani proletari e sottoproletari romani appartengono ormai totalmente all’universo piccolo borghese: il modello piccolo borghese è stato loro definitivamente imposto, una volta per sempre. E i loro modelli concreti sono proprio quei piccoli borghesi idioti e feroci che essi, ai bei tempi, hanno tanto e così spiritosamente disprezzato come ridicole e ripugnanti nullità. Non per niente i seviziatori sottoproletari della ragazza di Cinecittà, usando di lei come di una “cosa”, le dicevano: “Bada che ti facciamo quello che hanno fatto a Rosaria Lopez”».

«La mia esperienza privata, quotidiana, esistenziale - che oppongo ancora una volta all’offensiva astrattezza e approssimazione dei giornalisti e dei politici che non vivono queste cose - m’insegna che non c’è più alcuna differenza vera nell’atteggiamento verso il reale e nel conseguente comportamento tra i borghesi dei Parioli e i sottoproletari delle borgate. La stessa enigmatica faccia sorridente e livida indica la loro imponderabilità morale (il loro essere sospesi tra la perdita di vecchi valori e la mancata acquisizione di nuovi: la totale mancanza di ogni opinione sulla propria «funzione»). Un’altra cosa che l’esperienza diretta mi insegna è che questo è un fenomeno totalmente italiano. Fa parte del conformismo, peraltro antiquato, dell’informazione italiana il consolarsi col fatto che anche negli altri paesi esiste il problema della criminalità: esso esiste, è vero: ma si pone in un mondo dove le istituzioni borghesi restano solide e efficienti, e continuano a offrire dunque una contropartita. Che cos’è che ha trasformato i proletari e i sottoproletari italiani, sostanzialmente, in piccolo borghesi, divorati, per di più, dall’ansia economica di esserlo? Che cos’è che ha trasformato le «masse» dei giovani in «masse» di criminaloidi?».

«IL CONSUMISMO HA DISTRUTTO CINICAMENTE UN MONDO ‘REALE’, TRASFORMANDOLO IN UNA TOTALE IRREALTÀ, DOVE NON C’È PIÙ SCELTA POSSIBILE TRA MALE E BENE. DONDE L’AMBIGUITÀ CHE CARATTERIZZA I CRIMINALI: E LA LORO FEROCIA, PRODOTTA DALL’ASSOLUTA MANCANZA DI OGNI TRADIZIONALE CONFLITTO INTERIORE»

«L’ho detto e ripetuto ormai decine di volte: una «seconda» rivoluzione industriale che in realtà in Italia è la «prima»: il consumismo che ha distrutto cinicamente un mondo “reale”, trasformandolo in una totale irrealtà, dove non c’è più scelta possibile tra male e bene. Donde l’ambiguità che caratterizza i criminali: e la loro ferocia, prodotta dall’assoluta mancanza di ogni tradizionale conflitto interiore. Non c’è stata in loro scelta tra male e bene: ma una scelta tuttavia c’è stata: la scelta dell’impietrimento, della mancanza di ogni pietà. Si lamenta in Italia la mancanza di una moderna efficienza poliziesca contro la delinquenza. Ciò che io soprattutto lamenterei è la mancanza di una coscienza informata di tutto questo, e la sopravvivenza di una retorica progressista che non ha più nulla a che fare con la realtà. Bisogna oggi essere progressisti in un altro modo; inventare una nuova maniera di essere liberi, soprattutto nel giudicare, appunto, chi ha scelto la fine della pietà. Bisogna ammettere una volta per sempre il fallimento della tolleranza. Che è stata, s’intende, una falsa tolleranza ed è stata una delle cause più rilevanti nella degenerazione delle masse dei giovani. Bisogna insomma comportarsi, nel giudicare, di conseguenza e non a priori (l’a priori progressista valido fino a una decina d’anni fa)».

«Quali sono le mie due modeste proposte per eliminare la criminalità? Sono due proposte swiftiane, come la loro definizione umoristica non si cura minimamente di nascondere. 1) Abolire immediatamente la scuola media d’obbligo. 2) Abolire immediatamente la televisione. Quanto agli insegnanti e agli impiegati della televisione possono anche non essere mangiati, come suggerirebbe Swift: ma semplicemente possono essere messi sotto cassa integrazione. La scuola d’obbligo è una scuola di iniziazione alla qualità di vita piccolo borghese: vi si insegnano delle cose inutili, stupide, false, moralistiche, anche nei casi migliori (cioè quando si invita adulatoriamente ad applicare la falsa democraticità dell’autogestione, del decentramento ecc.: tutto un imbroglio). Inoltre una nozione è dinamica solo se include la propria espansione e approfondimento: imparare un po’ di storia ha senso solo se si proietta nel futuro la possibilità di una reale cultura storica. Altrimenti, le nozioni marciscono: nascono morte, non avendo futuro, e la loro funzione dunque altro non è che creare, col loro insieme, un piccolo borghese schiavo al posto di un proletario o di un sottoproletario libero (cioè appartenente a un’altra cultura, che lo lascia vergine a capire eventualmente nuove cose reali, mentre è ben chiaro che chi ha fatto la scuola d’obbligo è prigioniero del proprio infimo cerchio di sapere, e si scandalizza di fronte ad ogni novità)».

«Una buona quinta elementare basta oggi in Italia a un operaio e a suo figlio. Illuderlo di un avanzamento che è una degradazione è delittuoso: perché lo rende: primo, presuntuoso (a causa di quelle due miserabili cose che ha imparato); secondo (e spesso contemporaneamente), angosciosamente frustrato, perché quelle due cose che ha imparato altro non gli procurano che la coscienza della propria ignoranza. Certo arrivare fino all’ottava classe anziché alla quinta, o meglio, arrivare alla quindicesima classe, sarebbe, per me, come per tutti, l’ optimum, suppongo. Ma poiché oggi in Italia la scuola d’obbligo è esattamente come io l’ho descritta (e mi angoscia letteralmente l’idea che vi venga aggiunta una «educazione sessuale», magari così come la intende lo stesso Paese Sera ), è meglio abolirla in attesa di tempi migliori: cioè di un altro sviluppo. (È questo il nodo della questione)».

«Quanto alla televisione non voglio spendere ulteriori parole: ciò che ho detto a proposito della scuola d’obbligo va moltiplicato all’infinito, dato che si tratta non di un insegnamento, ma di un «esempio»: i «modelli» cioè, attraverso la televisione, non vengono parlati, ma rappresentati. E se i modelli son quelli, come si può pretendere che la gioventù più esposta e indifesa non sia criminaloide o criminale? È stata la televisione che ha, praticamente (essa non è che un mezzo) concluso l’era della pietà, e iniziato l’era dell’ edonè. Era in cui dei giovani insieme presuntuosi e frustrati a causa della stupidità e insieme dell’irraggiungibilità dei modelli proposti loro dalla scuola e dalla televisione, tendono inarrestabilmente ad essere o aggressivi fino alla delinquenza o passivi fino alla infelicità (che non è una colpa minore). Ora, ogni apertura a sinistra sia della scuola che della televisione non è servita a nulla: la scuola e il video sono autoritari perché statali, e lo Stato è la nuova produzione (produzione di umanità)».

«Se dunque i progressisti hanno veramente a cuore la condizione antropologica di un popolo, si uniscano intrepidamente a pretendere l’immediata cessazione delle lezioni alla scuola d’obbligo e delle trasmissioni televisive. Non sarebbe nulla, ma sarebbe anche molto: un Quarticciolo senza abominevoli scuolette e abbandonato alle sue sere e alle sue notti, forse sarebbe aiutato a ritr