Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
NOTA BENE
NESSUN EDITORE VUOL PUBBLICARE I MIEI LIBRI, COMPRESO AMAZON, LULU E STREETLIB
SOSTIENI UNA VOCE VERAMENTE LIBERA CHE DELLA CRONACA, IN CONTRADDITTORIO, FA STORIA
NOTA BENE PER IL DIRITTO D'AUTORE
NOTA LEGALE: USO LEGITTIMO DI MATERIALE ALTRUI PER IL CONTRADDITTORIO
LA SOMMA, CON CAUSALE SOSTEGNO, VA VERSATA CON:
accredito/bonifico al conto BancoPosta intestato a: ANTONIO GIANGRANDE, VIA MANZONI, 51, 74020 AVETRANA TA IBAN: IT15A0760115800000092096221 (CIN IT15A - ABI 07601 - CAB 15800 - c/c n. 000092096221)
versamento in bollettino postale sul c.c. n. 92096221. intestato a: ANTONIO GIANGRANDE, VIA MANZONI, 51, 74020 AVETRANA TA
SCEGLI IL LIBRO
PRESENTAZIONE SU GOOGLE LIBRI
presidente@controtuttelemafie.it
Via Piave, 127, 74020 Avetrana (Ta)3289163996 0999708396
INCHIESTE VIDEO YOUTUBE: CONTROTUTTELEMAFIE - MALAGIUSTIZIA - TELEWEBITALIA
FACEBOOK: (personale) ANTONIO GIANGRANDE
(gruppi) ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE - TELE WEB ITALIA -
ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI
(pagine) GIANGRANDE LIBRI
WEB TV: TELE WEB ITALIA
NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA
L’ITALIA ALLO SPECCHIO
IL DNA DEGLI ITALIANI
LA CULTURA
ED I MEDIA
TERZA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
INDICE PRIMA PARTE
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE. (Ho scritto un saggio dedicato)
L’Anti-Scienza.
L’Intelligenza Artificiale.
I Benefattori dell’Umanità.
Al di là della Luna.
Viaggiare nello Spazio.
Gli Ufo.
La Rivoluzione Digitale.
I Radioamatori.
Gli Hackers.
Catfishing: la Truffa.
La Matematica.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il Cervello Allenato.
Il Cervello Malato.
La Sindrome dell'Avana.
Le Onde Celebrali.
Gli impianti.
La nomofobia.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
I Geni.
Il Merito.
Ignoranti e Disoccupati.
Laureate e Disoccupate.
Il Docente Lavoratore.
Decenza e Decoro a Scuola.
Una scuola “sgarrupata”.
Gli speculatori: il caro-locazione.
Discriminazione di genere.
La Scuola Comunista.
La scuola di Maria Montessori.
Concorso scuola truccato.
Concorsi truccati all’università.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)
Tutti figli di…Neanderthal (nord) e Sapiens (Sud).
Come si usano.
Sapete che…?
Epifania e Befana.
Il Carnevale.
Gioventù del cazzo.
Gli Hikikomori.
La Vecchiaia è una carogna…
Gemelli diversi.
L’Ignoranza.
La Rimembranza.
La Nostalgia.
Gli Amici.
La Fiducia.
Il Sesso.
Il Nome.
Le Icone.
Il Linguaggio.
La Fobia.
Il Tatuaggio.
Il Limbo.
Il Potere nel Telecomando.
Gli incontri casuali di svolta.
I Fantozzi.
Ho sempre ragione.
Il Narcisismo.
I Sosia.
L’Invidia.
L’Odio.
Il Ghosting: interruzione dei rapporti.
Gli Insulti.
La Speranza.
Il Dialogo.
Il Silenzio.
I Bugiardi.
Gli stolti.
I Tirchi.
Altruismo.
I Neologismi.
Gli Snob.
I Radical Chic.
Il Pensiero Unico.
La Cancel Culture.
INDICE TERZA PARTE
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)
La P2 Culturale.
Il Cinema di Sinistra prezzolato.
Il Consenso.
I Negazionismi.
I Ribelli.
Geni incompresi.
Il Podcast.
Il Plagio.
Ladri di Cultura.
I Beni culturali.
Il Futurismo.
I Bronzi di Riace e di San Casciano dei Bagni.
I Faraoni.
La Pittura.
Il Collezionismo.
La Moda.
Il Cappello.
Gli Orologi.
La Moto.
L’Auto.
L’emoticon.
I Fumetti.
I Manga.
I Giochi da Tavolo.
I Teatri.
Il direttore d’orchestra.
L’Arte in tv.
La Cultura Digitale.
Dalla cabina al selfie.
I Social.
La scienza, la cultura ed i social. I Divulgatori.
La Capitale della Cultura.
Oscar made in Italy.
I Balbuzienti.
Cultura Stupefacente.
I pseudo intellettuali.
Le lettere intellettuali.
L’Artistocrazia.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)
Achille Bonito Oliva.
Alberto Angela.
Aldo Busi.
Aldo Nove.
Alessandro Baricco.
Alessandro Manzoni.
Alfred Hitchcock.
Amy Sherald.
Andy Warhol.
Andrea Camilleri.
Andrea G. Pinketts.
Andrea Palladio.
Andrea Pazienza.
Annie Ernaux.
Antonella Boralevi.
Antonio Canova.
Antonio de Curtis in arte Totò.
Antonio Pennacchi.
Arturo Toscanini.
Banksy.
Barbara Alberti.
Billy Wilder.
Carlo Emilio Gadda.
Carlo Levi.
Carmen Llera e Alberto Moravia.
Cesare Pavese.
Charles Baudelaire.
Charles Bokowski.
Charles M. Schulz.
Chiara Valerio.
Crocifisso Dentello.
Dacia Maraini.
David LaChapelle.
Dino Buzzati.
Donatello.
Elisa De Marco.
Emil Cioran.
Emilio Giannelli.
Emilio Lari.
Ennio Flaiano.
Ernest Hemingway.
Espérance Hakuzwimana.
Eugenio Montale.
Eva Cantarella.
Ezra Pound.
Fabio Volo.
Federico Fellini.
Federico Palmaroli.
Francesca Alinovi.
Francesco Guicciardini.
Francesco Tullio Altan.
Francisco Umbral.
Franco Branciaroli.
Franco Cordelli.
Franz Peter Schubert.
Franz Kafka.
Fulvio Abbate.
Gabriel Garcia Marquez.
Gabriele d'Annunzio.
Georges Bataille.
George Orwell.
Georg Wilhelm Friedrich Hegel.
Giacomo Leopardi.
Gian Paolo Serino.
Gian Piero Brunetta.
Giampiero Mughini.
Giordano Bruno Guerri.
Giorgio Forattini.
Giorgio Manganelli.
Giovanni Ansaldo.
Giovanni Verga.
Giuseppe Pino.
Giuseppe Prezzolini.
Giuseppe Ungaretti.
Giuseppe Verdi.
Grazia Deledda.
Guido Gozzano.
Guido Harari.
Ian Fleming.
Ignazio Silone.
Indro Montanelli.
Italo Calvino.
Jane Austin.
John Le Carré.
John Williams.
José Saramago.
INDICE QUINTA PARTE
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)
Lawrence d'Arabia.
Leonardo da Vinci.
Leonardo Sciascia.
Luciano Bianciardi.
Luchino Visconti.
Louis-Ferdinand Céline.
Marcel Proust.
Mariacristina Savoldi D’Urcei Bellavitis.
Marcello Marchesi.
Marco Giusti.
Mario Picchi e Aldo Palazzeschi.
Mario Praz.
Massimiliano Fuksas.
Maurizio Cattelan.
Maurizio de Giovanni.
Melissa P.: Melissa Panarello.
Michel Houellebecq.
Michela Murgia.
Michele Rech, in arte Zerocalcare.
Nietzsche.
Oliviero Toscani.
Oriana Fallaci.
Orson Welles.
Pablo Picasso.
Pier Paolo Pasolini.
Pietrangelo Buttafuoco.
Pietro Scarpa.
Renzo Piano.
Riccardo Muti.
Richard Wagner.
Roberto Benigni.
Robert Byron.
Roberto Giacobbo.
Roberto Saviano.
Sacha Guitry.
Saint-John Perse.
Salvatore Quasimodo.
Sergio Leone.
Staino.
Stephen King.
Susanna Tamaro.
Sveva Casati Modignani.
Tiziano.
Truman Capote.
Umberto Boccioni.
Umberto Eco.
Valentino Garavani.
Vincent Van Gogh.
Virginia Woolf.
Vittorio Sgarbi.
Walt Disney.
Walt Whitman.
William Burroughs.
INDICE SESTA PARTE
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)
Siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. La Distrazione di Massa: Propaganda e realtà.
La Sociologia Storica.
Il giornalismo d’inchiesta.
I Martiri.
Se questi son giornalisti...
Il Web e la Legione di Imbecilli.
Gli influencer.
Le Fallacie.
Le Fake News.
Il Nefasto Amazon.
I Censori.
Quello che c’è da sapere su Wikipedia.
Il Nefasto Politicamente Corretto.
Gli Oscar comunisti.
Lo Streaming.
INDICE SETTIMA PARTE
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il Pizzo di Stato.
Mediaset.
Il Corriere della Sera.
Il Gruppo Editoriale Gedi.
Primo: la Verità del Il Giornale.
Alberto Matano.
Alda D'Eusanio.
Aldo Cazzullo.
Alessandra De Stefano.
Alessandra Sardoni.
Alessandro Giuli.
Andrea Scanzi.
Andrea Vianello.
Beppe Severgnini.
Bernardo Valli.
Bianca Berlinguer.
Bruno Longhi.
Bruno Vespa.
Camillo Langone.
Carlo De Benedetti.
Cecilia Sala.
Cesara Buonamici.
Claudio Cerasa.
Corrado Formigli.
Davìd Parenzo.
Diego Bianchi in arte Zoro.
Elisa Anzaldo.
Emilio Fede.
Ennio Simeone.
Enrico Mentana.
Enrico Varriale.
Enzo Biagi.
Ettore Mo.
Fabio Caressa.
Fabio Fazio.
Federica Sciarelli.
Filippo Ceccarelli.
Filippo Facci.
Fiorenza Sarzanini.
Franca Leosini.
Francesca Fagnani.
Francesco Giorgino.
Giacinto Pinto.
Gian Paolo Ormezzano.
Gianluigi Nuzzi.
Gianni Minà.
Giorgia Cardinaletti.
Giovanna Botteri.
Giovanni Floris.
Giovanni Minoli.
Giovanni Tizian.
Giuliano Ferrara.
Giuseppe Cruciani.
Guido Meda.
Ivan Zazzaroni.
Julian Assange.
Hoara Borselli.
Lamberto Sposini.
Laura Laurenzi.
Lina Sotis.
Lucio Caracciolo.
Luigi Contu.
Luisella Costamagna.
Marcello Foa.
Marco Damilano.
Marco Travaglio.
Maria Giovanna Maglie.
Marino Bartoletti.
Mario Calabresi.
Mario Giordano.
Massimo Fini.
Massimo Giletti.
Massimo Gramellini.
Maurizio Costanzo.
Michele Mirabella.
Michele Santoro.
Michele Serra.
Milo Infante.
Mimosa Martini.
Monica Setta.
Natalia Aspesi.
Nicola Porro.
Paola Ferrari.
Paolo Brosio.
Paolo del Debbio.
Paolo Zaccagnini.
Pierluigi Pardo.
Roberto D'Agostino.
Roberto Napoletano.
Rula Jebreal.
Salvo Sottile.
Selvaggia Lucarelli.
Sigfrido Ranucci.
Tiziana Alla.
Tiziana Panella.
Vincenzo Mollica.
Vincenzo Palmesano.
Vittorio Feltri.
LA CULTURA ED I MEDIA
TERZA PARTE
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)
Segrate Confidential. Gian Arturo Ferrari e la gran lotta di classe dell’editoria italiana. Guia Soncini su L’Inkiesta il 18 Novembre 2022.
Finalmente un libro feroce (da De Benedetti a Caracciolo, da Berlusconi a Calasso), in un’epoca timorosa in cui nessuno vuol dire niente di significativo per paura di offendere
Chissà quanti soldi ha dato Marsilio a Gian Arturo Ferrari per Storia confidenziale dell’editoria italiana. È impossibile non pensarci, arrivati alla pagina in cui Ferrari riferisce la regola di Andrew Wylie (agente d’un po’ tutti, da Martin Amis a Baricco): «Gli editori si impegneranno davvero sui libri di qualità solo se li hanno pagati, e pagati cari».
Vi vedo, che pensate: ma Marsilio è il tuo editore, Soncini, chiedi e ti sarà detto (detto, non dato). Ripensateci: forse qualche editore è così indiscreto da svelare gli anticipi, ma non certo ad altri autori che, incapienti, frigneranno perché si percepiscono leggendari quanto Ferrari e quindi meritevoli dei suoi stessi emolumenti e allora ditelo che fate figli e figliastri.
Tutta la letteratura è pettegolezzo, diceva un certo Truman Capote; ma non tutto il pettegolezzo è letteratura, ridondante precisazione che Capote non aggiungeva ma io sì. Che un libro di memorie di Gian Arturo Ferrari – che ha attraversato mezzo secolo di editoria italiana e attorno al quale il settore ha costruito una leggenda finora privata – avesse il potenziale d’essere molto pettegolo era ovvio.
Ma basta aver fatto la storia dell’editoria per saper scrivere? Basta avere buone storie per far letteratura? Certo che no, sennò definiremmo letteratura ogni Harmony, e i critici culturali si taglierebbero le vene con gli angoli dei Meridiani, disperati per l’oltraggio alla definizione. Che cos’è la letteratura, oltre che pettegolezzo? Uno sguardo, un dettaglio, un’entomologia in bella forma?
Potrei mentire, cavillare, dire «insomma, Ferrari è uno che scrive “dal canto suo”, orsù» – ma sarebbe tutta invidia. Invidia dell’anticipo, sì. Invidia della leggenda, certo. Ma soprattutto invidia di quel rigo di purissima letteratura, quando Ferrari arriva a casa di Carlo De Benedetti dove crede di dover solo parlare; e invece ci trovano, lui e Marco Polillo, due contratti (come direttore editoriale e direttore generale della Mondadori) pronti da firmare, e la mattina dopo scopriranno che era già pronto anche l’articolo di Repubblica che riferisce di questo calciomercato editoriale. Quel rigo in cui Ferrari scrive: «De Benedetti ci accoglie nella sua casa milanese, arredamento di Mongiardino, che gli hanno evidentemente spiegato essere quello confacente al suo status».
Diceva Mike Nichols che, quando preparava la regia di uno spettacolo teatrale dei Monty Python, aveva sprecato molto tempo a chiedersi quale fosse il tema della pièce. Finché non aveva avuto un’illuminazione: gli inglesi scrivono solo di classe sociale. Ferrari pure, e mica solo quando deve porgerci una polaroid delle ambizioni middlebrow di De Benedetti.
Quando dice dell’editore americano che alla serata del Nobel ha un frac su misura, «per l’invidia di noi miserabili, che ce ne stiamo infagottati nelle nostre marsine a noleggio» (è Oliver Twist, ma riscritto da Capote). O quando racconta dello Strega scippato a Calasso.
La storia è nota, almeno ai pettegoli interessati al settore. Adelphi concorre eccezionalmente, con Le nozze di Cadmo e Armonia (libro di formazione di noialtre liceali con pretese intellettuali e sociali degli anni Ottanta; noialtre liceali che poi diverremo quella definizione ferrariana lì: «L’intellighenzia che in Calasso vede una delle sue più riverite divinità»).
Mondadori ha in cinquina Pontiggia. Che poi vincerà, in questo Scene di lotta di classe al Ninfeo, ma sembra talmente destinato a perdere che due mesi prima della premiazione, a Torino, a una cena della Mondadori per Pontiggia, Carlo Caracciolo – il nuovo presidente della Mondadori, che il romanzo editoriale di Ferrari ci ha già introdotto con le parole di Caracciolo stesso: «È un bel pezzo che voi un editore non ce l’avete, non siete più abituati» – invita Calasso e se lo mette a sedere vicino.
La scena di esausta lotta di classe, che Ferrari ci pitta in poche righe, è questa: «“Non facciamo cose parrocchiali per piacere” ha detto Caracciolo – gran signore e illustre membro dell’intellighenzia – ammonendo noi piccolo borghesi. Calasso, non va dimenticato, è molto vicino a sua sorella Marella, moglie dell’avvocato Agnelli. A queste altezze i piccolo borghesi boccheggiano».
Tutti quelli che di mestiere fanno interviste, in quest’epoca timorosa in cui nessuno vuol dire niente di significativo perché poi sennò qualcuno di certo s’offende, raccomandano d’intervistare solo gli ultraottantenni: gente che ha visto tutto, fatto tutto, che non ha paura di niente e dice tutto quel che le va. Ferrari ha settantotto anni, ma è evidentemente un enfant prodige del dire un po’ tutto, compresa un’interessante disamina delle classi in cui Berlusconi divide le persone che lavorano.
In cima i fondatori, che si sono inventati un’impresa. Poi gli imprenditori, che non l’hanno inventata ma ci rischiano i loro capitali. Gli specialisti, quelli che sanno fare qualcosa, che sia limare le unghie o tirare calci a un pallone: «Per mia fortuna, sapendo fare i libri, in questa categoria ci rientro anch’io». Per ultimi i manager, esecutori ma pericolosi, «senza rischiare e senza saper fare, coltivano smodate ambizioni di potere».
Essendo Ferrari non all’ultimo posto della catena alimentare, Berlusconi lo rispetta e solo una volta gli chiede di ritirare un libro. Non si può, gli spiega sornione Ferrari, i librai sono legalmente proprietari delle copie acquistate (come sa bene Feltrinelli, che vanamente ritirò il libro di Roberto Speranza, che continuò a circolare impreziosito dalla non ufficialità). Berlusconi ne vieta allora la ristampa, e Ferrari conclude: «Lo ristampiamo due, tre volte senza scriverci sopra “seconda edizione”, “terza edizione”». Per fortuna non erano anni in cui gli autori annunciavano trionfali le ristampe sui loro social.
Dice Ferrari che lui i libri li ricorda tutti. Dice anche che quell’editore americano col frac su misura «pensa che il mestiere consista essenzialmente nel leggere». E quindi sì, un po’ mi struggo per l’anticipo, ma soprattutto mi struggo per il ritardo, per essermi persa il Novecento editoriale, quel secolo – di cui non resta traccia – in cui il pettegolezzo si faceva spesso letteratura; in cui non eravamo costretti a scansare le scocciature dei moralisti fingendo che le classi sociali non esistessero; e in cui, che bizzarria, gli editori leggevano i libri che pubblicavano.
Pasquale Chessa per “il Messaggero” il 22 novembre 2022.
Dopo il successo mondiale del Dottor Zivago (1957) milioni di copie, miliardi di diritti che aveva trasformato in un editore internazionale quel giovane miliardario lombardo affascinato dal comunismo, Giangiacomo Feltrinelli disegnava con pochi tratti la figura dell'editore perfetto: un tale che ha i piedi in terra e la testa in cielo.
Una rappresentazione figurale che ritroviamo nelle storie di due libri che si leggono come fossero un solo libro, che parlano solo di libri: Album di famiglia (Maestri del Novecento ritratti dal vivo) di Ernesto Ferrero e Storia confidenziale dell'editoria italiana di Gian Arturo Ferrari.
Non sono editori, ma editor: una speciale professione intellettuale al confine fra Machiavelli e Monsignor della Casa che sa coniugare otium e negotium, affari e cultura. Cortigiani sapienti, mandarini affatto sottomessi, ambasciatori e primi ministri del principe editore: «Un capitalista di tipo speciale, che non accumula profitti: accumula prestigio», dice di Giulio Einaudi l'einaudiano Giulio Bollati.
Profonda è la consapevolezza che «tutto passa dai libri, il bene e il male, l'effimero e l'eterno». Nei libri sono contenute tutte le storie del mondo. L'editoriale le sa riconoscere: deve essere colto. L'editore no. Nati sottoproletari, Angelo Rizzoli e Arnoldo Mondadori non avevano completato manco le scuole elementari. Eppure, nel tempo lungo, hanno saputo trasformare in denaro contante i libri di D'annunzio e Montale, Guareschi ed Hemingway, Oriana Fallaci e Paolo Villaggio.
Il lancio degli Oscar Mondadori (1965) affascina come un gran finale esistenziale del vecchio Arnoldo. Un successo commerciale che ha formato e aperto alla cultura un'intera generazione di nuovi lettori. Un affare stratosferico: i primi cento titoli da Addio alle armi in poi, vendettero in media duecentomila copie alla settimana. Nel Vangelo di Luca e Matteo si dice che non si può servire allo stesso tempo Dio e Mammona, il diavolo che sovrintende alla divinizzazione della Ricchezza.
Con una certa improntitudine Ferrari (ma anche Ferrero, forse con più distacco) capovolge la parola evangelica: «Abbiamo sempre saputo che Dio poteva prosperare solo se accontentava le legittime esigenze di Mammona».
Correva l'anno 1974, quando nel mese di giugno Elsa Morante consegna ad Einaudi La storia. In casa editrice c'è anche Ferrero. Non si tratta di una storia fra tante, ma dell'unica Storia possibile. Ne derivano una serie di clausole che sembrano far precipitare l'intero sistema Einaudi. Un libro nazionalpopolare infatti presuppone una corrispondente diffusione di massa. L'autrice fissa anche il prezzo»: duemila lire. E la tiratura: almeno centomila copie.
Se ne venderanno un milione, quasi. Einaudi, sotto la spinta di Elsa Morante, personificazione dell'impegno letterario, si è trovato costretto a inventare il bestseller di qualità. Tanti saranno gli epigoni: Il nome della rosa di Umberto Eco, su tutti. L'editoria è come un grande arazzo: per leggerlo correttamente «bisogna studiarlo anche dal lato dell'ordito». Ferrero e Ferrari lo sanno fare senza perdere la bussola salendo e scendendo fra il basso e l'alto. Il risultato è un pareggio. Se ne consiglia la lettura alternata. Un capitolo per ciascuno. Come fossero un unico autore: «Ferrarero». Battuta corriva se non echeggiasse una delle più geniali castronerie attribuite ad Arnoldo Mondadori che parlando di Guerra e Pace e Delitto e Castigo pensava fossero opera di un solo scrittore: il grande Tolstoievskij.
Angelo e demoni. La storia di Rizzoli e Mondadori, i due gemelli fondatori dell’editoria italiana. Gian Arturo Ferrari su L’Inkiesta il 19 Novembre 2022.
Questi capitani d’azienda a lungo si sono contesi il primato del mercato dei libri, tra invidie e affetti, rabbie e riconciliazioni, amori e antipatie
Come alle origini di Roma, alle origini dell’editoria libraria italiana del Novecento ci sono due gemelli, o quasi.
Come può succedere, e a volte succede tra gemelli, si odiano cordialmente per tutta la vita. Il primo chiama il secondo «quel gangster», il secondo si rifiuta anche solo di pronunciare il nome del primo. Angelo Rizzoli e Arnoldo Mondadori nascono a distanza di due giorni sul finire del 1889 e a distanza di otto mesi muoiono, entrambi ottantunenni. Sempre per primo Rizzoli, in nascita e in morte. Entrambi proletari, con le pezze sul sedere.
Povero Mondadori, figlio di un contadino e calzolaio ambulante, analfabeta fino a cinquant’anni. Poverissimo Rizzoli che addirittura nasce già orfano perché suo padre, ciabattino e anche lui analfabeta, sconvolto da un licenziamento è andato mesi prima a uccidersi. Al cimitero di Musocco, per maggiore comodità. Le origini infime verranno più volte e orgogliosamente rivendicate da entrambi («una miseria nera, che non si può immaginare» dirà Rizzoli), secondo un cliché comune a molti capitani d’industria otto- e novecenteschi.
Ma non comune nel caso degli editori: è vero che Louis Hachette, il più ricco editore dell’Ottocento, era figlio di una lavandaia, ma lei lavorava per il liceo Louis-le-Grand, grande di nome e di fatto, cosa che permise al figlio di frequentarlo. E da questa solida base di avviarsi alla gloria editoriale.
I nostri invece sono entrambi incolti. Mondadori ha la quinta elementare e molti anni dopo se ne lamenterà di frequente, civettando, con il suo banchiere e amico Raffaele Mattioli. Il quale un bel giorno, di fronte all’ennesima replica, gli dice: «Ma senta, caro Mondadori, secondo me lei ha studiato troppo. Guardi Rizzoli, che ha solo la seconda, e veda un po’ la strada che ha fatto.» (Per la verità in altre occasioni Rizzoli rivendicherà di avere anche lui la quinta, presa però alle serali.)
Entrambi, e questo è decisivo, all’origine tipografi, adepti dell’arte nera, con nel naso l’odore acre degli inchiostri. Arnoldo comincia da garzone nel retrobottega di una cartoleria di Ostiglia, nel mantovano, dove troneggia un torchio a mano in disuso, tra casse di caratteri impolverati e, più tardi, una macchina a manovella. Si stampano carte intestate, biglietti da visita, partecipazioni, moduli, registri, manifesti. Angelo, appena uscito dai Martinitt dove gli hanno insegnato il mestiere, compera in società con un altro operaio una pedalina usata. A rate e firmando un bel numero di cambiali, naturalmente.
Rischiano anche di spaccarla quando cade dal carretto su cui la spingono dalla Stazione Centrale alla stanza in via Cerva che è la loro prima sede. Smanovellando e pedalando entrambi, Mondadori e Rizzoli, prendono buona nota del fatto che tra il prezzo cui si può vendere la carta stampata e il costo della carta e della stampa c’è una bella differenza, ossia un possibile e notevole guadagno.
A questo punto si trovano però di fronte a un bivio. Da una parte si può stampare su commissione, fare integralmente i tipografi, e il problema sarà allora quello di trovare un numero di clienti e di commesse sufficienti a saturare le macchine. Oppure, dall’altra parte, si può stampare quel che si vuole, di propria iniziativa, e il problema allora sarà quello di trovare un numero di acquirenti sufficiente per i propri stampati. (Entra così in scena il pubblico, misteriosa divinità!) In questo secondo caso tutto dipende da quel che c’è stampato su quella carta, cioè da chi l’ha scritto e da che cosa ha scritto. L’arte di tenere insieme gli autori, le loro opere e il pubblico si chiama editoria.
Qui le strade dei due gemelli si dividono, per circa un quarto di secolo. Rizzoli prende la prima, quella dello stampatore, Mondadori la seconda, quella dell’editore. Poi si riaccosteranno, ma l’originaria diversità di orientamento darà origine a due diversi tipi di editoria. C’è un’ultima grande somiglianza se non identità tra i gemelli fondatori: per entrambi tutte le tappe decisive della loro sfolgorante crescita – che poi vorrà dire prestigio, ricchezza, potere e fama – sono segnate dall’arrivo di nuovi macchinari, dall’allestimento di nuovi impianti, dall’apertura di nuovi stabilimenti. Fino a tutti gli anni Sessanta il loro affanno e il loro orgoglio si concentrano sulle officine, sul loro essere integralmente industriali, uomini delle macchine.
Da bambino e da ragazzino non ho la più pallida idea di che cosa siano Rizzoli e Mondadori. La famosa coppia a me non dice niente. Come del resto – ne sono convinto – alla maggior parte degli italiani di quel tempo. Non sono marche, come per dire le marche delle automobili, quelle sì ben visibili e ben chiare. Sono solo nomi misteriosi che compaiono con allarmante frequenza sotto certi riquadri pubblicitari prima su Oggi e poi anche su Epoca, domestiche e familiari riviste che nessuno connette a Rizzoli o a Mondadori.
Nei riquadri si intravedono copertine di libri (quelli so che cosa sono), ma piccole, non si capisce bene che figure ci siano sopra. In compenso c’è sempre una lunga pappardella che io non leggo, un po’ perché dice cose incomprensibili, un po’ perché quando riesco ad acchiappare di nascosto una rivista (i miei genitori non hanno piacere che io le prenda in mano) guardo le fotografie, che sono molto più interessanti, e, se c’è tempo, leggo le didascalie. Le pappardelle le lascio lì.
Storia confidenziale dell‘editoria italiana, Gian Arturo Ferrari, Marsilio, 368 pagine, 19 euro
Dagospia il 17 novembre 2022. Estratto di “Storia confidenziale dell’editoria italiana”, di Gian Arturo Ferrari (ed. Marsilio)
Fino alla metà degli anni Ottanta l’Adelphi è rimasta, felicemente rimasta, una casa editrice del maestro: Bevilacqua è uno scrittore popolare, ma di qualità. Una produzione impeccabile. Una produzione di qualità. Una produzione impeccabile, una serie di proposte coraggiose e inaspettate, un pubblico solido e fedele, una reputazione crescente e inattaccabile. Il lungo e paziente lavoro di un ventennio si è tradotto in prestigio. E in un'aura inconfondibile. Se il concetto di aura si può applicare a una casa editrice, questa è senza dubbio alcuno l'Adelphi.
L'altra faccia della medaglia è che qualità significa anche limite. Il grande pubblico, quello dei bestseller, è programmaticamente (intenzionalmente?) escluso dall’orizzonte elitario che la casa si è voluta dare. Un libro cambia tutto. Il libro è L'insostenibile leggerezza dell'essere di Milan Kundera, in sé un capolavoro straziante.
Pubblicato dall'Adelphi all'inizio dell'85 come meglio non si potrebbe, un caso da studiare nell'arte del publishing. Viene posto intatti come opera inaugurale di una nuova collana adelphiana, "Fabula", dedicata alla letteratura contemporanea. Con una copertina azzurro pallido e un'immagine perfetta di Max Ernst che dà al libro un'aura (appunto!) di metafisica dolce.
Il caso vuole che nella trasmissione televisiva di Renzo Arbore Quelli della notte, popolarissima e di culto per l'intelligenzia, gli ospiti fissi, Roberto D'Agostino (orecchio molto fino e apostolo della congiunzione alto-basso), faccia del misterioso titolo un motivo ricorrente e ripetuto, un tormentone, come si usa dire. La qualità intrinseca del libro si somma all'eccellenza del publishing e alla straordinaria illuminazione mediatica. Un successo travolgente.
L'aristocratica Adelphi conosce per la prima volta le gioie del bestseller. O, meglio, il pubblico dei bestseller conosce per la prima volta la fin lì inarrivabile Adelphi. Cambia l'essenza della casa editrice, dopo il lungo ed estenuante cammino giunge sulla vetta. È ora dominante Uno smacco quanto mai doloroso per la Mondadori. La quale aveva pubblicato ben tre libri di Kundera, Lo scherzo, Amori ridicoli e La vita è altrove (due altri, Il valzer degli addii e Il libro del riso e dell'oblio erano usciti per Bompiani). Senza alcun esito.
Tre naufragi. Colpa anche del publishing. Bonacina, l'editor responsabile, li aveva relegati in una collanina dichiaratamente minore, dove dava sfogo alle sue vere e nascoste pulsioni letterarie. Ottimi libri pubblicati però senza convinzione. Credendo nella loro qualità ma non nel loro successo, in editoria il peccato mortale. Di fronte al quarto, cioè all'Insostenibile leggerezza - il capolavoro, il futuro bestseller -, Bonacina, logorato dalle precedenti esperienze, aveva opposto un netto rifiuto. A nulla erano valse le insistenze dello scout di Parigi, Alain Elkann, grande amico di Leonardo e da questi sostenuto. Si era impuntato e nonostante avesse la prima opzione sul libro lo aveva rifiutato.
DAGOREPORT il 15 novembre 2022.
Fossi stato in Gennaro Sangiuliano ci avrei pensato due volte prima di lasciare la direzione di un telegiornale per diventare ministro della Cultura in Italia. Quando Dario Franceschini era ministro dei Beni culturali, Barak Obama gli disse che faceva “il lavoro più bello del mondo”. Era vero? In Italia la storia culturale sovrasta ogni ministro sino a sfinirlo, soffocarlo: è un Everest che fatichi a osservare per la sua altezza.
Non puoi farcela, non puoi gestirlo: puoi solo evitare di fare danni o di sperperare. Se c’è uno stile nei ministri sta nell’approccio con il quale si presentano, non certo negli impossibili risultati, che sono spesso una eterogenesi dei fini. Questi ministri arrivano al Palazzo che fu di Athanasius Kircher tutti baldanzosi, come gli amanti di Turandot, e hanno fatto più o meno tutti la stessa fine degli amanti di Turandot: sono scomparsi.
Walter Veltroni fece la riforma dei teatri lirici (in senso privatistico, ovvio), frequentò tutti i festival del cinema, della cultura e sostenne il Maxxi di Roma… Vent’anni dopo è diventato un “giornalista e scrittore”, come si legge in molte didascalie dei talk-show anche di varie influencer. Come politico ha abbandonato senza andare in Africa, suo obiettivo dichiarato.
Sua protome fu Giovanna Melandri, che lo seguì nel ruolo. “Nata a New York…”, come iniziavano tutte le sue fighissime biografie, è “finita” al Maxxi, prima “gratuitamente”, poi stipendiata. Il Maxxi è un tailleur fatto confezionare su misura per lei dalla sinistra veltroniana.
Era molto manageriale Giuliano Urbani, sputtanato dal suo sottosegretario (Sgarbi) per una love-story con un’attrice. Fu un bocconiano che si applicò al codice con qualche risultato. Oggi è scomparso. Del professore cattolico Rocco Buttiglione non si sa più nulla e, come lui, dell’altro professore cattolico Lorenzo Ornaghi, ora in qualche consiglio di amministrazione o comitato di musei e pinacoteche cristiane.
Il poeta berlusconiano Sandro Bondi si sentiva investito di una missione escatologica: fu travolto dal suo stesso crederci, dalla volontà di aiutare questa idra che è il patrimonio culturale italiano. Finì stritolato e scomparve, ma con la più giovane moglie che, intanto, aveva sposato. Giancarlo Galan se la dovette vedere con la Giustizia e, in questi casi, si scompare sempre data la lunghezza dei termini del Giudizio.
Massimo Bray si presentava in maniera gentile e umilissima, come di persona conscia del sovrastante compito di governare i Beni culturali. Quando fu nominato alla direzione della Treccani, quest’uomo di D’Alema chiamò a collaborare persone che si dicevano vicine alla massoneria. Non sappiamo se sia vero, ma dalla politica disparve anche lui all’improvviso, così come era stato fatto comparire dal mago Dalemix.
Dario Franceschini, pure scrittore come Veltroni ma già prima di fare il bi-ministro dei Beni Culturali, dei Beni culturali e turismo, poi della Cultura senza più beni e senza più turismo, fu tutt’uno con la coscienza di sé come ministro della Cultura. Era molto amico degli Sgarbi, ferrarese come loro.
La sua passione era forse sincera quando affermava che quello della Cultura fosse il più importante ministero economico, affermazione ripetuta giusto in contrasto con la celebre mai detta da Tremonti: “Con la Cultura non si mangia”. Franceschini ci scrisse addirittura un libro intitolato: “Con la cultura non si mangia?”.
Era un po’ facilone: chiamò i direttori di musei stranieri convinto che avrebbero avuto la meglio sugli italici sindacati. Illuso. Gli Uffizi chiusi il ponte di Ognissanti testimoniano la sconfitta. In alcune redazioni di giornale lo avevano soprannominato “il pavone estense” e di lui già non si parla già più nemmeno come aspirante segretario del Pd. Alberto Bonisoli, messo dai Cinquestelle, era un brav’uomo, direttore della Naba, un uomo da numeri e da scrivania: fu una meteora e, come i predecessori, è scomparso dalla politica.
Michele Neri per “Oggi” il 10 novembre 2022.
Tra le passioni umane meno note, se non ignorate, c’è quella per l’editoria. Gli oscuri, lenti passaggi che, dietro le quinte, trasportano le parole dalla mente dell’autore agli scaffali delle librerie.
Peccato, perché poche professioni sono più seducenti, inquiete e talvolta rischiose del lavoro editoriale: basta leggere dentro la vita di uno dei condottieri di questo mare di carta, il settantottenne Gian Arturo Ferrari, che ha riversato decenni di esperienza, fino a occupare il vertice dei due big, Mondadori e Rizzoli, nella Storia confidenziale dell’editoria italiana (Marsilio).
Il romanzo di un adolescente studioso che un giorno provoca il destino, quando rinuncia al tram 35 che dalla periferia di Milano lo porta al liceo Berchet perché, camminando, risparmia le 70 lire con cui comprare un volume della Bur Rizzoli. Fino a diventare il temuto “Dart Fener”, il “Professore” dell’editoria italiana: che ha indovinato, lanciato o fermato il successo di centinaia di scrittori di tutto il mondo.
Di questa gustosa, rivelatrice saga libraria e di un Paese, con troppi cavalieri e poche dame, duelli, caduti e vincitori, Ferrari ci parla in una grande casa milanese simile alla tolda di una nave. Libri ovunque, spolverati e in ordine alfabetico.
Lei descrive editori assai diversi per indole e formazione. Passa dalla coppia delle origini, Angelo Rizzoli e Arnoldo Mondadori, gemelli per povertà di nascita, odio reciproco e mancanza di cultura (seconda elementare il primo, quinta il secondo), al coltissimo e altezzoso Roberto Calasso di Adelphi, al signorile Valentino Bompiani per cui dovere dell’editore è portare amore. Una caratteristica comune a tutti?
«Sono dei tiranni: hanno bisogno di una comunità di fedeli, adepti, esecutori, si devono fidare e non possono. Anche chi, come Giulio Einaudi, ha ideologizzato la comunità, era poi lui a decidere, sempre sulla lama del coltello, tra servire la cultura e obbedire alle leggi economiche, sospeso tra Dio e Mammona. Delle loro pene, gli editori non possono parlare».
Lei ha insegnato a lungo Storia del pensiero scientifico all’Università di Pavia, eppure sostiene che il lavoro editoriale è il cuore della vita intellettuale. Perché?
«Perché tutto passa dai libri, il bene e il male. Altre culture, come l’accademia, sono riparate, provviste di ombrelloni. L’incertezza è alla base della vita intellettuale di una comunità. Il bello dell’editoria è il rischio costante».
Sembra che in Italia questo rischio non si sia limitato all’insuccesso di un titolo, ma abbia assunto ben altre dimensioni. Dalla dipendenza ideologica di Einaudi, sospinta prima dal ’68 e in crisi con il tramonto del marxismo; al rischiato fallimento di Mondadori per la voragine finanziaria di Rete 4, alla disastrosa scoperta per Rizzoli, nell’81, degli elenchi della loggia P2… Una fragilità tutta nostra?
«In altri Paesi l’editoria ha fondamenta più stabili. Da noi il casino nasce perché la cultura è troppo vicina alla politica oppure oggetto di attribuzione di valori ideologici. Altrove è un’industria indipendente, da noi la cultura è asservita: quando il sistema balla, è costretta a ballare».
Lei ha affrontato proprietà impegnative: Gianni Agnelli in Rizzoli e Silvio Berlusconi in Mondadori. Qual era il metodo Agnelli?
«Esercitare il potere in una versione antica, sprezzante. Quando ero direttore dei Libri Rizzoli, il giovedì arrivava l’amministratore delegato del gruppo Rizzoli-Corriere della Sera, Giorgio Fattori. Di fronte ad alcune proposte, prendeva tempo. Era chiaro che si sarebbe poi incontrato con Agnelli, restato nell’ombra. Il giovedì successivo Fattori arrivava con la sentenza: “Non piace”».
Lei era a capo di Mondadori con Berlusconi padrone della casa editrice, di televisioni e presidente del Consiglio. Come si è comportato?
«Non ha mai interferito né giudicato a priori. Richieste pressanti arrivavano non da lui ma da altri nomi pesanti, politici e non solo. Riuscivo ad arginarle e lui non mi ha mai condizionato».
È stato lei a mentirgli per Capitani di sventura di Marco Borsa?
«Avevamo pubblicato questo saggio critico nei confronti del capitalismo italiano: di Berlusconi non parlava. Pensavo ne sarebbe stato felice invece si arrabbiò perché Cesare Romiti, uno dei bersagli di Marco Borsa, lo accusò di averlo pubblicato apposta. Di fronte al suo divieto di ristamparlo, ho proceduto lo stesso, solo senza scrivere dentro “seconda”, “terza”… edizione».
Cinque eventi che hanno trasformato l’editoria italiana?
«La nascita delle due collane economiche: Bur di Rizzoli e Oscar di Mondadori. Il coraggio di Adelphi nel pubblicare Nietzsche, esecrato dal marxismo; Il dottor Zivago pubblicato da Feltrinelli e il Dizionario Bompiani delle opere e dei personaggi; basta aprirlo per capire quanto poco sappiamo della letteratura mondiale».
Un tempo il libro dei sogni di ogni editore era uno scritto da un Papa. Fu lei a pubblicarlo in Mondadori: Varcare la soglia della speranza, scritto da Wojtyla, che rispondeva alle domande di Vittorio Messori. E oggi, il libro dei sogni?
«Le grandi figure si dividono in due. Gli anglosassoni, concluso il loro ufficio da presidenti o altro, pubblicano un libro di memorie e in cui raccontano una parte di verità. In Italia non succede. E i dittatori, che non scrivono mai come sono andate le cose. Se Putin o XI Jinping raccontassero qualche verità, anche poche... Magari, un manoscritto di Berlusconi… Hanno tentato, anch’io, ma non ha voluto».
La scelta più rischiosa?
«Pubblicare i Versi satanici di Salman Rushdie quando nessun altro lo faceva».
L’errore che non dimentica?
«Un errore di trattativa: perdere Jurassic Park di Michael Crichton».
La giornata più adrenalinica?
«Una serata: quella del Premio Strega 1989 quando siamo riusciti a far vincere Giuseppe Pontiggia che ha superato il favorito Roberto Calasso. Quanto ho goduto a fregare i benpensanti, l’opinione colta che circonda i libri, quel museo delle cere».
Conferma che il vincitore dello Strega è deciso a tavolino a dicembre?
«Sì, prima era fatto in modo esplicito, ora è più sfumato. La decisione è presa a inizio anno ma non sempre va a buon fine».
Milano, scrive, è stata il miglior ristorante dei libri. Lo è ancora?
«Da anni l’editoria è un pullulare di case microscopiche distribuite sul territorio, non ci sono più baobab ma tante margheritine. Languono, frenate dai pochi lettori. Da noi la politica non ha mai affrontato un dato: il nostro mercato è un terzo di quello francese anche se la popolazione quasi si equivale».
La più bella tra le margheritine?
«NN e poi Iperborea di Emilia Lodigiani».
Consiglierebbe a un giovane di lavorare in una casa editrice?
«Sì, perché tutto ciò che ha cambiato il mondo è partito da un libro. I libri sono quel binocolo che, dal ponte della nave nel mare tempestoso, scruta l’orizzonte».
Perché non ha mai fatto l’editore in proprio?
«Sono un piccolo borghese pauroso, non pensavo di trovare i soldi necessari: prima devi averli, poi fai i libri».
Se la storia dell’editoria fosse un film, quale titolo sceglierebbe?
« Via col vento. Domani è un altro giorno, perché ogni volta cambia tutto».
Elena Ferrante ha avuto successo per l’anonimato?
«Sì e per quella carica sentimentale difficile da rendere nella scrittura».
Il libro si chiude con amarezza: parla della libertà come di una condizione cui non siamo abituati. Perché?
«Perché in Italia la cultura non è considerata in sé ma riferita ad altro: l’editoria non dovrebbe essere un’appendice della politica. Negli altri Paesi, Stati Uniti soprattutto, l’autonomia è scontata. E siamo un Paese chiesastico, abituato a pensare che ci siano cose che si possono leggere e altre no».
Alla fine si tratta di spingere un libro nelle mani del cliente. Cosa influisce sulle scelte in libreria?
«Dalla mia osservazione diretta: per prima cosa conta l’immagine, poi titolo e autore; se il cliente prende il libro in mano è un passaggio decisivo, se guarda il prezzo è un ottimo segno, poi tocca alla lettura della bandella».
Usa il Kindle? Nemmeno una?
«No. Me li ricordo tutti».
Luca Beatrice per “Libero quotidiano” il 7 novembre 2022.
Che fosse un predestinato non c'è mai stato dubbio, fin da quando il babbo gli dedicò un film -Aprile- proprio mentre stava nascendo. Il giovanissimo pittore Pietro Moretti, 26 anni, figlio di Nanni e di Silvia Nono, brucia le tappe nel mondo dell'arte grazie a un'acquisizione molto importante.
È accaduto durante la fiera torinese Artissima, certamente la più cool e qualificata d'Italia, nella quale il ragazzo ha esposto i suoi ultimi quadri allo stand della Galleria Doris Ghetta di Ortisei. Il dipinto intitolato La visita, un'altra visita (250x150 cm) è stato scelto tra le acquisizioni della Fondazione CRT e destinato all'importante e prestigiosa collezione del Castello di Rivoli, dove ci sono solo grandi artisti internazionali, entrare è molto difficile, quasi impossibile per un italiano.
Eppure ci deve essere stato qualcosa di speciale nell'arte del Moretti young se la direttrice del Castello, Carolyn Christov-Bakargiev, notoriamente severissima nei giudizi, ha speso parole tanto lusinghiere: «La pittura di ascendenza espressionista racconta la fragilità del momento attuale. Di Moretti viene acquisita La visita, un'altra visita, 2022, tela di dimensioni generose il cui soggetto descrive una scena in ospedale connotandola di tratti che ricordano atmosfere kafkiane rese con colori acidi e non naturalistici».
Questo nel comunicato stampa ufficiale, sempre molto abbottonato come da tradizione sabauda, dove non si parla di cifre perché non sta bene, però il prezzo ufficiale dell'opera è di 8.000 più iva, insomma un buon investimento se Pietro manterrà le promesse.
ESPRESSIONISMO Restano comunque lo stupore e la sorpresa perché fino a ieri questo giovane artista era pressoché sconosciuto. Mandato a studiare nelle scuole dell'upper class, tra il 2016 e il 2020 ha frequentato la Slade School di Londra, non ha ancora tenuto una mostra personale e ha partecipato ad alcune collettive tra Regno Unito e Italia (a Firenze e Latina). Il suo cv non pare sufficiente per un riconoscimento tanto prestigioso.
Dal punto di vista stilistico, pur con qualche ingenuità tipica dell'età verde, i quadri sembrano interessanti seppur non troppo originali: echi della Transavanguardia e dei Neue Wilden tedeschi, ovvero della pittura degli anni '80, citazioni piuttosto letterarie da Eric Fischl e Philip Guston, due grandi maestri americani. È peraltro ovvio che ciascuno si porti dietro delle paternità artistiche, che insieme ai padri reali, quelli di cui porti il cognome, ti possono aiutare nella scalata verso il successo.
SUCCESSO IMPROVVISO Nessuna malizia, per carità. Pietro Moretti non fa lo stesso mestiere di papà Nanni, non è un raccomandato e sta dimostrando le proprie capacità. Ciò che stupisce, però, è la scelta così spericolata e azzardata del Castello di Rivoli, istituzione chiusa, per non dire blindata, nel sistema dell'arte. Senza dubbio conserva una tra le collezioni d'arte più importanti d'Europa, farne parte significa salire immediatamente di grado, aumentare il valore economico e la reputazione nell'ambiente.
Tanti pittori italiani molto bravi avrebbero meritato negli anni la considerazione di questo museo e si sono sempre visti chiudere la porta in faccia. Ora arriva Pietro Moretti e le cose cambiano, il che suona davvero strano. Dipenderà dal cognome? Carolyn Christov-Bakargiev è una cinefila appassionata? Oppure è proprio questione di predestinazione, come si diceva all'inizio. Alcune cose nascono fighissime, altre no, l'episodio è appunto l'ennesima conferma.
Dittatura. Igor Belansky il 24 Luglio 2022 su weeklymagazine.it.
La mancanza di istruzione, la mancanza di una classe media.
Quando la popolazione è composta da una esigua minoranza che detiene il potere e la stragrande maggioranza della popolazione è povera, questa è la situazione in cui vi è una dittatura.
Non ha importanza di che ideologia politica essa sia, la dittatura è quasi certa.
Viceversa, nei Paesi in cui vi è una forte classe media, una buona istruzione, questa è la situazione in cui è maggiormente possibile la democrazia.
In Italia la situazione non è brillante.
Il divario tra ricchi e poveri è aumentato e la classe media diminuita di numero.
Fortunatamente siamo con l’Unione europea.
Questo dovrebbe fare da argine contro derive dittatoriali.
Igor Belansky e la Sociatria: illustrazione e mondi individuali e sociali. ANTONIO ROSSELLO su Il Corriere Nazionale il 20 agosto 2022.
La particolare prospettiva in cui muove la ricerca espressiva del noto illustratore genovese.
Igor Belansky ha letto con estremo interesse la mia recente intervista, su il Corriere Nazionale, al dr. Antonio Giangrande, figura poliedrica, scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’”Associazione contro tutte le mafie” e di “Tele Web Italia”, il quale è autore di un centinaio di saggi che parlano di questa Italia contemporanea, analizzandone tutte le tematiche, divise per argomenti e per territorio.
E proprio le complesse e sofferte battaglie civili condotte da Giangrande sono state motivo di forte coinvolgimento per il noto illustratore, che ispirandosi ad esse ha realizzato la rappresentazione in anteprima. In essa emergono a tutta forza quel suo tipico tratto poco incline ai virtuosismi, lo stile crepuscolare o grottesco che trasmette dissonanze, senza incorrere nella banalità della provocazione. Vi è dunque, piuttosto, il thauma, l’angosciante stupore, la tensione dialettica tra fascino e turbamento nella destabilizzante indeterminatezza delle cose, che spiana la strada alla domanda più che alle risposte, come quando si sprofonda negli oscuri meandri che conducono fino alle più ignote regioni dell’inconscio. Da qui, la voglia di scuotere l’indifferenza, che rappresenta sempre più il male della società moderna.
Evocativo il titolo: “Potere e moltitudine“. Vi si coglie la contrapposizione tra le figure più grandi dei potenti che, con sicurezza ostentata, sovrastano una folla magmatica, disperata, in cui si scorge l’accenno alla morte. Pare la plastica raffigurazione dell’inconscio collettivo, visto come quell’invenzione di Carl Gustav Jung, prestata poi alla teoria politica e delle scienze sociali italiane tra Otto e Novecento, che è più che mai inibita, gettata nell’inazione, eterodiretta in questo tempo postmoderno. Drammatico l’interrogativo: cosa muove l’imprevedibile azione delle «masse» e quali sono le motivazioni profonde che in alcune, eccezionali stagioni spingono gli individui a compiere atti eroici completamente disinteressati o crimini efferati, all’apparenza del tutto irrazionali?
Igor Belansky – Potere e moltitudine
A parte certi, sempre più pochi ed isolati, impavidi paladini della resistenza sociale, ai nostri giorni per la stragrande maggioranza delle persone diventa sempre più difficile prendere posizione o schierarsi. Oggi si è portati ad indignarsi. A sconcertarsi. Ad esprimere giudizi sommari. Ma subito dopo si è capaci di farsi prendere dall’indifferenza. Subentra a quel punto una voluta ignoranza sui fenomeni che ci circondano. Li minimizziamo. Questo non vuole Belansky.
Non a caso, come ho già avuto modo di affermare in un articolo sul settimanale online WeeklyMagazine, nella particolare prospettiva in cui orienta la sua ricerca espressiva, in condivisione con altri esponenti emergenti delle Arti Visive, l’illustratore genovese punta infatti all’affermazione di un concetto, la «Sociatria» (ossia «la cura della società»), attraverso il quale l’Arte può generare una via di verità, alimentando la mente, rieducare o, quantomeno, scongiurare la crescente e pericolosa carenza di pensiero, oltre che tendere ad avvicinare la persona alla virtù, sino a ritrovare in senso un più ampio un rispetto dell’umanità.
Sulla stessa lunghezza d’onda, pare anche essere il sociatra americano John Fordham, che, dal suo gruppo Facebook Sociatry – for societal health., così commenta la summenzionata intervista a Giangrande:
I loved this. I gained the impression that he does what he does, because it’s his calling in life. It’s a “labor of love” which he’s driven to pursue & construct. (tr.: Mi è piaciuto molto. Ho avuto l’impressione che faccia quello che fa perché è la sua vocazione nella vita. È un “lavoro d’amore” che è spinto a perseguire e costruire).
La Sociologia Storica.
Intervista di Antonio Rossello ad Antonio Giangrande.
1. Dottor Giangrande, Lei nel suo recentissimo volume “ANNO 2022 LA CULTURA ED I MEDIA SECONDA PARTE” menziona l’illustratore, sempre più spesso prestato alla penna su questa ed altre testate online, Igor Belanky per via del suo articolo “Dittatura” pubblicato da Weeklymagazine il 24 Luglio 2022. Da cosa è stato colpito? La sua comunicazione sintetica ed essenziale è più efficace delle più lunghe e forbite concioni di altri redattori?
R. In quelle frasi vi è il sunto del rapporto tra Potere e Povertà. I poveri hanno bisogno di speranza. Il Potere promette di realizzarla. Più i poveri sono ignoranti più è grande il laccio che li lega al Potere. Più i poveri rimangono tali e ignoranti più il Potere padroneggia. Per questo il Potere elemosina i poveri, non li evolve in benestanti.
2. Non trova che in Italia la gente non legga molto ma parli troppo, cosa poco utile quando bisogna scegliere, decide cosa fare e con chi? La colpa è della scuola, del mondo della cultura, della politica o dei media? O di una crescente indifferenza…? Questi mi pare siano gli aspetti che Lei tratta nel summenzionato volume…
R. Il principio del sostentamento dei poveri ha portato questi a pretendere diritti, non a chiedere, ed allo stesso tempo a non sottostare ai doveri. L’ignoranza porta a parlare, ad ostentare ed imporre, non a leggere ed imparare. Si studia per poter migliorare e per poter dire a chi parla: cosa dici?!?
Purtroppo, poi, se qualcuno cerca di leggere, non trova fonti per poterlo soddisfare. La Cultura ed i Media sono in mano al Potere: economico e politico. Si scrive quello che è permesso: dall’editore; dai partiti di potere composte dalle eminenze grigie di mafie, massonerie e caste e lobby.
3. In generale, di cosa si occupa con i suoi saggi?
R. Se Giorgio dell’Arti, con i suoi “Cinquantamila” parla dei protagonisti,
Se Wikipedia riporta la contemporaneità e la storia per argomento o protagonisti.
Se Dagospia, twnews o Msn notizie riportano la contemporaneità per cronologia.
Io con le mie ricerche giornaliere vado oltre ognuno di loro.
Parlo di storia e contemporaneità cronologica, per Tema suddiviso per Argomenti, di fatti e protagonisti.
Mi occupo di tutti gli aspetti del nostro mondo contemporaneo. Racconto il presente ed il passato per poter migliorare il futuro a colui che legge: che sa e parla. Faccio parlare i protagonisti di oggi. Uso fonti credibili ed incontestabili, rapportandoli tra loro in contraddittorio. Uso l’opera di terzi per l’imparzialità. Questo anche per aggirare la censura e le querele.
4. E con la Sua web tv? E’ il tentativo di offrire informazione alternativa rispetto al cosiddetto mainstream?
R. Nei miei saggi parlo degli italiani. La mia web tv è solo rappresentazione dell’Italia, come territorio. L’Italia è bella per quello che è, tramandato dai posteri, che va distinta da chi oggi vi abita.
5. Ci può raccontare come è nata quella che mi pare sia la Sua passione civile?
R. Sono figlio di poveri che ha voluto emanciparsi. Volevo elevarmi socialmente. Ciò nonostante: i poveri dal basso ed il Potere dall’alto mi tirano giù. Per i miei genitori, come per tutti i poveri, non vale essere, ma avere. Ed i figli sono braccia prestati allo sfruttamento. Non mi hanno fatto studiare. A 32 anni dopo l’ennesima bocciatura ad un concorso pubblico truccato, ho deciso di studiare per migliorare. Diploma di ragioniere, da privatista 5 anni in uno presso un istituto pubblico e non privato, laurea in giurisprudenza 4 anni in due, presso la Statale di Milano, lavorando di notte per poter frequentare e studiare di giorno. 6 anni di professione forense non abilitato. Abilitazione cercata per 17 anni e mai concessa in esami farsa. La mia ragione non è stata riconosciuta nella tutela giudiziaria, nonostante ad altri nelle stesse condizioni, sì. La mia colpa? Essermi reso conto che la Giustizia non è di questo Stato e in quei 6 anni volevo porre rimedio alle ingiustizie nelle aule del Tribunale. Mi son reso conto che la mafia era dentro quelle aule e non fuori. Oggi non posso rimediare alle ingiustizie, perché non ho potere. Mi rimane solo che raccontarle ai posteri ed agli stranieri.
6. Qual è il bilancio della Sua attività in tal senso, presente e passata, nei vari ruoli che riveste?
R. Se parlo al presente è fallimentare. Sono un disoccupato presidente di una associazione antimafia che scrive e viene letto tantissimo in tutto il mondo, anche con le anteprime dei miei libri, ma non vende, perché sono relegato in un angolo dalla P2 culturale: ossia da quella eminenza grigia che non vuole che si cambino le cose, informando correttamente la gente e fa parlare chi sa. In ogni caso ognuno pensa per sé, per questo la gente è interessata ai suoi interessi ed a risolvere i propri problemi, anziché cambiare le sorti dei loro figli.
7. Ci può accennare come, dal Suo punto di vista di attento osservatore, appaiono le attuali vicende sulla scena nazionale e internazionale?
R. Da sempre l’essere umano ha sentito l’esigenza di avere la cosa altrui. O compra o ruba. Da sempre vi sono state guerre di conquista. Atti di bullismo nei confronti dei più deboli. A volte si usa l’arma del nazionalismo, altre volte è la religione ad imporre la violenza. La reazione delle forze non schierate è stata quella del menefreghismo e quella dell’utilitarismo. In questo senso tutto il mondo è Italia. Riscontro a mio giudizio delle fazioni.
Quelle che dicono: che me ne fotte a me.
Quelli che dicono: qui ci guadagno.
Pochi sono quelli che per altruismo difendono le vittime dai bulli.
8. Una nota metodologica o, se vuole, concetto. Sui siti internet specializzati, i suoi saggi sono quasi sempre categorizzati nel genere “sociologia”. Mi pare che Lei conduce una ricerca sociologica, per denunciare i mali intrinseci, le dissonanze della nostra società contemporanea… nelle sua formazione e nelle Sue motivazioni, forse generazionali, vi è qualche richiamo alla Scuola di Francoforte, alla sua Dialettica negativa, Horkheimer, Adorno, Marcuse…
R. Il socialismo, radice unica dei regimi comunisti, nazisti e fascisti ha usato le masse per poter egemonizzare il mondo. L’uso della religione per manipolare le masse povere per fini politici è anch’esso socialismo. Lo statalismo è il loro strumento, la povertà è l’arnese.
Io credo che, invece, l’individuo deve essere padrone del proprio destino e deve essere messo in grado di decidere per il suo meglio, senza danneggiare gli altri. Tanti individui ben informati, divenuti benestanti, avranno tutto l’interesse ad intraprendere azioni per tutelare lo status quo. I loro rapporti, tra loro e loro con il Potere, saranno regolati da poche leggi. Credo che i 10 comandamenti siano sufficienti a regolare il tutto.
9. Ed ancora quale ritiene sia oggi lo stato dell’arte della Sociologia? E’ al corrente dell’esistenza in Italia e all’estero di approcci emergenti alle Scienze sociali, quali la Sociatria, la Sociosofia, la Sociocrazia o la Sociurgia, di cui anch’io ho parlato in precedenti articoli? Che cosa ne pensa, sono destinati a superare, o quanto meno integrare, riformare la Sociologia? Se c’è una Sua via autonoma ed innovativa, come la definirebbe o battezzerebbe con termine sintetico?
R. Io mi definisco sociologo storico: Racconto il presente ed il passato, confrontandoli tra loro per evidenziare delle differenze, ove ci fossero, o per indicare la ciclica apparizione dei difetti, ossia i corsi ed i ricorsi storici. Il tutto affinchè si migliori il futuro. L’individuo colto e correttamente informato è il perno centrale, tanti fanno una massa e ne indirizzano le mosse. Il vero senso di “uno vale uno”. Diversa è la massa pecorile o topile che viene guidata da un pastore o da un pifferaio.
10. Ogni fatto è rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria. Abbiamo appreso di Sue molteplici prese di posizione, in differenti occasioni e sedi, sul tema della giustizia. Può parlarcene?
R. La verità storica è quella reale ed imparziale cercata e trovata attraverso tutte le fonti poste in contraddittorio senza influenze esterne.
La verità mediatica è quella verità propinata come tale ma che è influenzata da interessi economici, politici, o di caste, lobby, mafie e massonerie deviate.
La verità giudiziaria è quella che emerge dalle aule dei tribunali, in cui le prove sono tali se permesse e dove vi è piena disparità tra accusa e difesa. I giudizi sono fonti di interesse clientelare e parentale, di colleganza, di retroguardia culturale.
11. Concludendo? Ha dei rimpianti o è contento di ciò che fa?
R. Rimpianti No! Per niente. Contento sì. Da 20 anni scrivo e sono ad oggi circa 350 libri tra tematici ed aggiornamenti annuali.
Da Gesù Cristo in poi, i grandi uomini, che hanno lasciato traccia di loro, non erano riconosciuti tali nella loro epoca. Tantomeno erano profeti nella loro terra.
Io ringrazio la mia famiglia che mi sostiene, affinchè tanto ignorato e osteggiato in vita, tanto sarò ricordato per le mie opere da morto. E si sa, chi si ricorda non muore mai.
La P2 culturale.
Media prostrati al potere: politica e finanza.
La denuncia del saggista d'inchiesta Antonio Giangrande.
Il titolato è chi è stato riconosciuto meritevole di considerazione per credibilità e competenza.
Il titolo si consegue per nobiltà, per abilitazione professionale, per investitura di una funzione pubblica, per mandato politico, per conclusione di un ciclo scolastico, per assegnazione di premio letterario.
In un paese dove per avere valore sociale devi essere titolato.
In un paese dove per Costituzione i titoli vengono elargiti dal potere, quindi per appartenenza, e, spesso, non sono meritati.
In un paese dove i titoli ti danno notorietà, fama e, quindi, benessere.
Come autore indipendente, aver scritto 350 saggi sociologici su ogni materia, su ogni tema e, di questi, anche su ogni territorio, essere seguitissimo sul web, diplomato in un anno e laureato in due, basta per aver diritto ad un titolo (conquistato sul campo) e, di conseguenza, all'attenzione mediatica dei grandi gruppi editoriali di comunicazione ed informazione?
Se non per avere il titolo, almeno basta per avere l’attenzione mediatica?
E, se non ora, quando?
Post mortem? Troppo tardi; troppo comodo!
Un figlio al padre: papà, perché gli artisti sono spesso comunisti?
Il padre: perché a loro piace essere mantenuti e sono molto libertini e viziosi e con poca voglia di lavorare!
Gianluca Veneziani per “Libero quotidiano” il 24 settembre 2022.
A memoria non ricordiamo un caso in cui un libro di saggistica sul fascismo e un libro di narrativa sullo stesso tema siano stati allo stesso tempo ai vertici delle rispettive classifiche. Miracoli anche dell'allarme sulle presunte minacce nere che ha contribuito a far sì che due testi appena editi, M. Gli ultimi giorni dell'Europa (Bompiani) di Antonio Scurati, terzo volume della trilogia sul Duce, e Mussolini il capobanda. Perché dobbiamo vergognarci del fascismo (Mondadori) di Aldo Cazzullo, diventassero subito dei bestseller.
Stando ai dati fornitici dalla Nielsen, società top nelle ricerche di mercato, il romanzo di Scurati - che in copertina evoca il nazismo, coi colori rosso, bianco e nero della bandiera nazionalsocialista - ha venduto in una settimana 15mila copie.
In pratica più del bestsellerista per antonomasia, il giallista americano Stephen King, che con la sua ultima fatica, Fairy Tale (Sperling & Kupfer), nella prima settimana dall'uscita ha venduto circa 10.350 copie. Le camicie nere tirano più del giallo... Ma anche il saggio di Cazzullo, che demitizza la figura del Duce connotando la sua storia politica come una somma di nefandezze, vola in testa alle classifiche, con 7.440 copie vendute nella prima settimana dall'uscita. E stacca di molto altri saggi di grandi firme o volti ultrapop, sempre d'area sinistra, come Andrea Scanzi (il suo Guida per elettori incazzati, Rizzoli, ha piazzato circa 2.850 copie in una settimana), Corrado Augias (col suo La fine di Roma, Einaudi, ne ha vendute 1.830 nei primi sette giorni) o Michele Santoro (Non nel mio nome, Marsilio, si ferma a 675 copie la prima settimana).
Perfino Mario Desiati, col suo Spatriati (Einaudi), nei primi sette giorni dall'uscita nell'aprile 2021 si è fregiato di sole 735 copie vendute; e pure nelle settimane dopo la vittoria del Premio Strega, nel luglio 2022, si attestava comunque sotto la quota raggiunta da Scurati (circa 12mila copie a settimana. Questa cifra, come le altre, risulta dall'elaborazione delle percentuali forniteci da Nielsen).
È partito bene anche L'ombra lunga del fascismo di Alessandro Campi e Sergio Rizzo (Solferino) trai libri più venduti nella sezione Partiti politici su Amazon.
Le ottime performance dei libri sul fascismo non sono legate solo a questo contesto politico, ma da qualche anno rappresentano una costante. Basti guardare ad alcuni precedenti illustri: lo stesso Scurati, col suo primo libro sul Duce, M. Il figlio del secolo, del settembre 2018, si è consacrato vendendo oltre 300mila copie; Bruno Vespa - già di suo eccezionale bestsellerista - non a caso ha dedicato gli ultimi suoi tre libri a Mussolini: e l'ultimo di questi, Perché Mussolini rovinò l'Italia (e come Draghi la sta risanando) Rai Libri, ha venduto circa 78.500 copie. Può vantare lo stesso effetto M Francesco Filippi che, con Mussolini ha fatto anche cose buone (Bollati Boringhieri), ha toccato le 72mila copie vendute.
Un termine di paragone interessante è quello coi libri sul comunismo. I saggi che trattano di Pci ed esibiscono bandiere rosse e falce e martello in copertina vanno disastrosamente peggio rispetto alle pubblicazioni sul Duce, anche se scritti da autori molto noti. Addirittura, in alcuni casi, il rapporto di copie vendute tra un libro sul comunismo e uno sul fascismo è di uno a 100. Prendiamo come esempio un paio di libri usciti nel gennaio 2021, in coincidenza coi 100 anni dalla fondazione del Pci: Il nostro Pci. 1921-1991 (Rizzoli) di Fabrizio Rondolino ha venduto circa 5.400 copie, Dalla rivoluzione alla democrazia (Donzelli) di Piero Fassino 1.500. E anche un testo di Marcello Sorgi e Mario Pendinelli, Quando c'erano i comunisti (Marsilio), nell'edizione tascabile pubblicata nell'aprile 2022 per Feltrinelli, si è fermato a 300 copie vendute.
Qual è il fattore che consente ai volumi sul Ventennio di andare così forte? Oltre alla notorietà di chi li scrive, ancor meglio se di sinistra, c'è lo stratagemma "ne parlo male per vendere meglio": più si dissacra qualcosa, definendola pericolosa e proibita, più la si rende attraente.
Così non si fa breccia in un lettorato di fascisti, ma si crea l'effetto fascinazione. Non è un caso che tutti i suddetti autori, pur dicendo peste e corna del fascismo, ne usino la simbologia in copertina a fini commerciali: vedi Scurati con la sua gigantesca M, Cazzullo con l'immagine del profilo del busto del Duce, Filippi con il braccio teso davanti a un altro busto del Duce. Evocare il fantasma del fascismo risorgente, da parte dell'intellighenzia rossa, non fa perdere voti alla Meloni ma aiuta gli autori di sinistra a vendere. E questa, in fondo, è una rivincita per Mussolini: vincere, e vinceremo, nelle classifiche di vendita.
Il Duce resuscita per far paura ai lettori-elettori. Arrivare davanti alla vetrina di una libreria è come entrare nella macchina del tempo e finire in pieno Ventennio. Alessandro Gnocchi il 24 Settembre 2022 su Il Giornale.
Tra le frasi fatte, negli ultimi anni spicca la seguente: il centrodestra punta sulle paure dell'elettorato per generare consenso: la paura del diverso, dell'immigrato, della crisi economica. Altra frase fatta: il centrodestra propone soluzioni semplici a problemi complessi. Scrittori, artisti ed editori ce l'hanno spiegato in mille modi. Però, entrando in libreria, si capisce subito che le frasi fatte appena citate vanno bene anche per il mondo degli intellettuali. Basta sostituire «il centrodestra» con «gli scrittori» e ridurre le paure a una sola: il fascismo. Arrivare davanti alla vetrina di una libreria è come entrare nella macchina del tempo e finire in pieno Ventennio. Un elegante «logo» mussoliniano contraddistingue il romanzo di Antonio Scurati M. Gli ultimi giorni dell'Europa. Il resto della copertina sfoggia un assortimento di colori (rosso, nero e bianco) che rimanda al nazismo. In realtà, ciò che davvero preoccupa è la premessa del libro griffato Mussolini: «Eppure questo romanzo è aderente in ogni suo dettaglio a fatti storici ampiamente documentati (al netto di pochi, lievi, consapevoli anacronismi e di molti probabili errori)». Insomma, siamo di fronte a un romanzo «aderente» in ogni «dettaglio» ai fatti ma forse anche al suo contrario, a causa dei «molti probabili errori». Torniamo alla vetrina. Accanto al romanzo di Scurati c'è una pila di Mussolini. Il capobanda di Aldo Cazzullo. Sottotitolo: Perché dovremmo vergognarci del fascismo. C'è da chiedersi: a parte qualche emarginato, c'è qualcuno che si vanta del fascismo? E con chi poi? Infine l'occhio cade su una fila di volumi mascelluti. Ebbene sì, l'editoria ha resuscitato il Duce in persona: quei tomi sono gli Scritti e discorsi di Benito Mussolini. Che ansia.
Entriamo in libreria ed è un trionfo di fasci littori: Il collasso di una democrazia, Roma 1922, L'epurazione mancata, La natura del Duce, Mussolini ha fatto tanto per le donne! Le radici fasciste del maschilismo italiano, L'ombra lunga del fascismo, Nero di Londra, Continente Bianco, La Germania sì che ha fatto i conti con il nazismo e si potrebbe continuare ma non vogliamo passare dall'ansia alla disperazione. Naturalmente, alcuni di questi libri sono interessanti, ne abbiamo scritto, e di altri ancora scriveremo. La maggior parte è completamente inutile se non dannosa (semplifica un problema complesso...) ma ci sono le elezioni in fortunata coincidenza con il centenario della Marcia su Roma e nessun editore democratico ha voluto farsi trovare impreparato, anche a costo di buttare via la preziosa carta.
Nino Luca per corriere.it l'1 settembre 2022.
Primo giorno di proiezioni alla mostra Internazionale del Cinema di Venezia e subito prima polemica politica. Nella parte finale del film “Marcia su Roma”, documentario non in concorso in apertura delle `Giornate degli autori, il regista irlandese Mark Cousins mostra un’immagine di Giorgia Meloni assieme a quella di altri politici, tra i quali Vladimir Putin e Jair Bolsonaro, chiosando il suo lavoro con una riflessione sul pericolo che il fascismo si ripresenti.
A stretto giro di posta arriva la risposta della senatrice di Fratelli d’Italia, Daniela Santanchè: «Nei filmati storici non ho mai visto la faccia della Meloni, anzi la sua proprio non c’è». Sala gremita in mattinata a Venezia, mentre fuori diluvia e un minuto di applausi dagli spettatori della `Sala Perla´ per il regista che alla fine spiega a Corriere Tv perché ha inserito un’immagine della presidente di Fratelli d’Italia nel suo lavoro.
«Sono straniero e non voto qui ma il modo in cui Meloni ha parlato a Vox in Spagna dicendo `no Lgbt, sì all’universalità della Croce’ è simile a quello delle crociate dell’undicesimo secolo ed è pericoloso perché mette in difficoltà la sicurezza delle minoranze e questo sento di avere il bisogno di dirlo».
Alla considerazione che Giorgia Meloni arriverebbe alla presidenza del Consiglio vincendo delle elezioni democratiche Cousins annuisce ma precisa: «E’ vero, ma tanti politici di estrema destra ed estrema sinistra sono arrivati al potere attraverso elezioni. La domanda però che bisogna porsi è: quali storie raccontano?
Ti raccontano che sei una vittima di quella certa persona, ti mostrano che siamo la culla della civiltà e agli altri no. È importante il modo in cui usano le storie per manipolare la realtà e rendere tutto o bianco o nero. Ora so che Meloni ha detto di non essere fascista e magari non è come Mussolini, ma il linguaggio che usa è molto pericoloso per i cittadini. Non voglio dire che lei personalmente sia pericolosa, sono le sue idee a esserlo».
Il film, nelle sale dal 20 ottobre, prende spunto da una lettura filologica di `A noi´, prodotto nel 1923 come documento ufficiale del Partito Fascista sulle giornate che portarono Benito Mussolini alla guida del governo.
Si conclude con `Bella ciao´ cantato da Alba Rohrwacher che interpreta Anna, una donna di umili origini dapprima convinta sostenitrice del regime e poi molto critica. Una donna che in genere, quando non incombe la campagna elettorale, si incontra sul red carpet della prima serata della mostra del Cinema è Daniela Santanchè: Verrò il 7 a Venezia. Per il momento dico che preferisco “La marcia su Roma” di Vittorio Gassman e Ugo Tognazzi. Loro hanno saputo raccontare meglio il clima di quegli anni. Comunque ora vado a rivedermi i filmati, non vorrei mi fosse sfuggita la faccia della Meloni».
Toh, al Festival di Venezia marciano contro la Meloni. Luigi Mascheroni l'1 Settembre 2022 su Il Giornale.
La leader Fdi inserita nel docufilm sul fascismo Insorge il partito: "Assurdo, violata la par condicio"
Il lungo viaggio attraverso il fascismo, riadattando all'intera società un titolo che Ruggero Zangrandi riservava ai soli intellettuali, non finisce mai. Non ne siamo usciti, non ne usciremo. Al fascismo ritorniamo sempre: ora come male assoluto del Novecento, ora come autobiografia della nazione, ora come discrimen tra gli «anti» (i giusti) e i «post» (i maledetti), dal fascismo eterno teorizzato da Umberto Eco già nel 1995 al fascismo come «stato d'animo» individuato da Corrado Augias su Repubblica giorni fa. Il fascismo come orrore e come ossessione. Più vivo che mai.
Era logico pensare che tutto ciò ci ripiombasse addosso, più disturbante che mai, sotto elezioni, con una destra-destra candidata, almeno secondo i sondaggi, a governare il Paese. Tanto più che l'ottobre 2022 è dietro l'angolo, e nel centenario della marcia su Roma l'ombra lunga del Ventennio cala pesantemente sui media e sulla discussione pubblica.
E così l'allarme fascismo esonda in campagna elettorale, e per una coincidenza (s)fortuita - il programma del festival era già deciso prima che fossero indette le elezioni - si spiaggia anche alla Mostra del cinema di Venezia.
Ieri al Lido è passato un documentario importante, Marcia su Roma, dell'irlandese Mark Cousins, scritto assieme al regista Tony Saccucci e allo sceneggiatore Tommaso Renzoni, e che andrà nei nostri cinema proprio il giovedì prima delle elezioni, dopo un passaggio anche al festival di Toronto. Ricostruzione della marcia di Mussolini del 1922 che prende spunto dalla rilettura dello storico lungometraggio A Noi! di Umberto Paradisi (documento ufficiale del Partito fascista sulle giornate che portarono Benito Mussolini al potere), l'opera di Cousins è un j'accuse contro un mondo, quello fascista, «fatto di mascolinità tossica, isteria nazionale e fake news» e contro un ducismo che ha influenzato molti autoritarismi del '900 e anche del nuovo secolo. La prima sequenza è dedicata a Donald Trump, al quale un giornalista chiede perché ha ritwittato una frase di Mussolini (risposta: «Era una bella frase. Ma lo sa che ho 14 milioni di follower?») e il sottofinale si snoda in un montaggio di politici contemporanei che aizzano le folle: Marine Le Pen, Bolsonaro, Orbán, Putin e naturalmente Giorgia Meloni. Segue giustapposizione ardita fra immagini della marcia del '22, dell'assalto a Capitol Hill e dei bombardamenti russi su Mariupol'.
Indentiamoci. Il documentario Marcia su Roma è politicamente a senso unico, che rimane ideologico sotto l'ambiziosa ricerca filologia, ma ben fatto (al netto del controcanto di Alba Rohrwacher, nella finzione una donna fascista sempre più delusa dalla piega presa dal Regime, che finisce cantando per quattro minuti Bella ciao). Lo smascheramento che Mark Cousins fa della imponente macchina propagandistica del fascismo, e di ogni tirannia, a partire dall'uso del cinema, è perfetto: l'terno ambiguo rapporto fra immagini e verità. Così come è intelligente scegliere di fermarsi un passo prima della cancel culture: il regista a un certo punto, in una carrellata sull'Eur e le statue machiste del Regime si chiede se oggi avrebbe senso abbattere l'Obelisco di Mussolini, o togliere i fregi fascisti sui palazzi, e la risposta è no, «anche se forse andrebbero portati nei musei»). Il problema è la tesi di fondo, così tranchant: fra il fascismo di Mussolini e quello delle destre di oggi ci sono solo differenze di facciata, ma una continuità di fatto. Come ha risposto ai giornalisti il regista: «Oggi ci sono molti più governi di destra di quanti io non ne ricordi in tutta la mia vita, e io ho 56 anni. Ungheria, Polonia, India, Brasile, l'America di Trump e adesso anche in Italia il pendolo sta oscillando verso destra. Questa è una condizione molto pericolosa».
E anche scivolosa. Il documentario, che ha aperto le «Giornate degli Autori» della Mostra di Venezia, salutato in sala dallo stesso presidente della Biennale Roberto Cicuto, e presentato dal giornalista Andrea Purgatori, non è passato inosservato. Neanche un'ora dopo la proiezione, il deputato di Fratelli d'Italia Federico Mollicone aveva già espresso il suo disappunto: «Riteniamo assurdo l'inserimento di immagini di Giorgia Meloni nel docufilm Marcia su Roma. Rispettiamo l'autonomia e l'indipendenza del festival, ma crediamo che tali immagini alterino la par condicio della campagna elettorale». E annuncia un'interrogazione al ministro Franceschini. Dando vita così al curioso cortocircuito per cui un docufilm sulla manipolazione del consenso finisce con il trasformarsi in uno strumento improprio di propaganda elettorale.
Il doppiopesismo su Venezia e sulla fiction su Dalla Chiesa. Luigi Mascheroni il 2 Settembre 2022 su Il Giornale.
La candidata sul film anti-Meloni al Festival: "Lo trovo poco equo"
Venezia. Il fascismo è un orrore. Ma anche un'ossessione. La riprova è quanto sta accadendo alla mostra del cinema di Venezia, dove il giorno dell'inaugurazione, in una sezione collaterale del festival, è passato, inizialmente sottotraccia, poi facendo esplodere un caso politico, il documentario «Marcia su Roma» del regista irlandese Mark Cousins. Il quale portando sullo schermo gli inganni del fascismo di ieri non ha perso l'occasione di aggiungerci in coda quelli a suo giudizio - di oggi, trascinando nel documentario fotogrammi dei leader delle destre europee e americane, fra i quali Giorgia Meloni. Operazione già pretestuosa in tempi normali (peraltro il documentario fino a quando parla del Ventennio è dal punto di vista storico e artistico interessante), ma propagandistica in tempi di campagna elettorale. E infatti Fratelli d'Italia ha criticato duramente la scelta di presentare a Venezia Marcia su Roma, che poi uscirà nelle sale italiane il giovedì prima delle elezioni. È vero: il documentario era già chiuso prima che si sapesse che avremmo votato a settembre; ma poi però nessuno alla Biennale si è posto il problema se fosse opportuno ospitarlo in periodo di par condicio.
Ha sintetizzato tutto Rita dalla Chiesa, ieri: «Io mi ero rassegnata al blocco della fiction su mio padre perché c'è una legge, ma poi vedere che a Venezia permettono la presentazione di un documentario come Marcia su Roma lo trovo poco equo». Un paradosso e insieme il solito gioco dei due pesi e delle due misure. E se in astratto ha ragione il direttore del festival Alberto Barbera quando dice che «la Mostra del Cinema è uno spazio di libertà d'espressione, ospitiamo tutti, e la responsabilità di quello che viene detto è dell'autore che ha realizzato l'opera», in pratica si è dato via libera a un docufilm che, dichiaratamente politico, diventa un manifesto elettorale. Quando non si potrebbe. Ma come insegna la categoria degli artisti-intellettuali in Italia c'è sempre qualcuno pronto a sfruttare il momento (meno) opportuno. In fondo c'è andata bene. Avessimo votato in primavera, ci saremmo trovati il comizio dei Ferragnez sul palco di Sanremo.
La Mostra in campagna elettorale. La Mostra del cinema di Venezia entra in campagna elettorale. Ieri è stato proiettato il docu-film La Marcia su Roma che ribadisce l'abusato e indimostrato parallelismo tra ascesa del Fascismo e ascesa di Giorgia Meloni. Alessandro Gnocchi l'1 Settembre 2022 su Il Giornale.
La Mostra del cinema di Venezia entra in campagna elettorale. Ieri è stato proiettato il docu-film La Marcia su Roma che ribadisce l'abusato e indimostrato parallelismo tra ascesa del Fascismo e ascesa di Giorgia Meloni, tra Marcia su Roma e Marcia su Capitol Hill dei fedelissimi di Donald Trump. La pellicola è stata scelta prima che cadesse il governo di Mario Draghi e fosse fissata la data delle elezioni. Coincidenza sfortunata ma era prevedibile che un simile film avrebbe suscitato polemiche. Ieri, poi, il regista Mark Cousins ne ha approfittato per rilasciare una serie di dichiarazioni che hanno reso il danno irreparabile. Solita roba: destra pericolosa, Meloni pericolosa, pericoloso preferire la Croce all'Arcobaleno LGBTQ e altre lezioni di vita fuori luogo. Possiamo interpretare la vicenda come ennesima testimonianza del conformismo di una parte del mondo della cultura, quella schierata con il Bene, la sinistra del politicamente corretto. Per questo non stupisce che il docu-film, nel centenario della Marcia su Roma, vada a parare proprio là dove sarebbe stato meglio evitare, facendo irruzione in una campagna elettorale nella quale la sinistra è già cascata nel suo vizio principale: delegittimare l'avversario con l'esplicita accusa di fascismo e la sottintesa accusa di inferiorità «antropologica». Da settimane, intellettuali e artisti fanno a gara a chi grida più forte al ritorno delle camicie nere, incappando anche in errori da terza media. Ad esempio, Bernard-Henry Lévy aveva una tale fretta di tirare fuori il fascismo che, in un articolo su Repubblica, ha addirittura anticipato la data della Marcia su Roma al «22 ottobre». Sì certo, come no. Nessuno ha corretto lo strafalcione. L'articolo è andato dritto in prima pagina, suscitando, più che la preoccupazione per le sorti del mondo, le grasse risate dei lettori sui social network. Prima del filosofo francese, esperto un po' di tutto ma non di Storia, avevamo già sfogliato il campionario delle abituali sparate. Riassumiamo per sommi capi. Il fascismo eterno è uno stato d'animo, come la malinconia. La Meloni non è una vera donna, perché lo dicono... le femministe. Gli elettori del centrodestra sono ignoranti (invece i filosofi di riferimento della sinistra sono un pozzo di scienza, come abbiamo visto). Chiara Ferragni, famosa per essere famosa, si è indignata perché, a suo dire, nelle Marche, guidate da Fratelli d'Italia, è quasi impossibile abortire, quindi se la Meloni vincerà in tutto il Paese sarà difficile esercitare questo diritto. Già, ma la legge non è neppure in discussione, ha assicurato la Meloni. Le cantanti hanno innalzato un coro contro la leader di Fratelli d'Italia. Giorgia, Elodie, Loredana Bertè, Levante. Abbiamo assistito anche a un dibattito sul problema della «devianza» dal quale abbiamo capito che gli intellettuali, tra i quali mettiamo anche Enrico Letta, non consultano il Vocabolario, forse perché sanno già tutto. Insomma, il solito film di serie B.
Il premio Ivan Bonfanti 2022 all’Espresso: vince il reportage di Marta Bellingreri sui bambini della Siria. Il riconoscimento per il lavoro sui bimbi costretti a vivere nelle scuole nel Paese in guerra da oltre dieci anni. Redazione su L'Espresso il 2 Settembre 2022.
Con il suo reportage dal nord-est della Siria pubblicato dall'Espresso, "A scuola ma per dormirci. Il destino dei piccoli sfollati dove l'Isis rialza la testa", Marta Bellingreri si è aggiudicata il premio giornalistico "Ivan Bonfanti" 2022. A dieci anni dall'inizio del conflitto in Siria, la crisi umanitaria colpisce specialmente i bambini che, come si legge nel reportage dell'autrice, sono sfollati insieme alle famiglie in degli edifici scolastici dove anziché ricevere un'istruzione, ci vivono.
Il premio, intitolato alla memoria del reporter e inviato del quotidiano Liberazione scomparso prematuramente nel 2008 all’età di 37 anni, è curato dall'associazione "Ivan Bonfanti" insieme all'associazione Stampa Romana. L'articolo sull'Espresso apparso lo scorso febbraio, e corredato dalle foto di Alessio Mamo, si è aggiudicato il premio che vede come vincitori anche lo studente della Lumsa Gabriele Crispo per la categoria degli allievi delle scuole di giornalismo e Roberta Ragni per la sezione del premio messo a disposizione dall’Ente nazionale protezione animali (Enpa).
Il reportage di Marta Bellingreri, che ha viaggiato in Siria fin dal 2006 e poi negli anni successivi per seguire gli sviluppi della rivoluzione del 2011, precipitata presto in un conflitto, vuole accendere una luce sulla situazione di milioni di bambini che stanno pagando il prezzo più alto della violenza. Tra i sette milioni di sfollati interni nel paese, tre milioni sono infatti minori. L'emergenza umanitaria si è aggravata ulteriormente a partire dal 2020, a causa della crisi economica, della violenza mai cessata, dei servizi pubblici quasi inesistenti, della siccità e della pandemia di Covid-19 che ha solo esacerbato la povertà infantile in Siria.
Scrive Marta Bellingreri nel suo reportage: «Fra le continue minacce e la distruzione, è difficile immaginare un’infanzia tra i banchi di scuola. Sono infatti quasi due milioni i bambini siriani che non partecipano a nessuna forma di educazione primaria e un milione è a rischio di abbandono. Gli edifici sono stati bombardati, occupati, danneggiati o sono diventati un rifugio per alcune famiglie sfollate. L'amara ironia è che alcuni di questi bambini sfollati, come Riham, vivono temporaneamente con le loro famiglie in centri che sono vecchie scuole, ma non ne hanno mai frequentato una da quando sono nati».
La premiazione avverrà il 22 ottobre a Roma presso la libreria ELI di viale Somalia 50, sabato 22 ottobre alle ore 11, aperta al pubblico previa prenotazione per riservare un posto.
Mal di scrivere. I premi letterari italiani non sono troppi, è che oggi non fanno più alcuna differenza. Benedetta Barone su L'Inkiesta il 20 Agosto 2022
In Italia i concorsi e i festival atti a premiare un‘opera narrativa sono in tutto un centinaio. Ma questi libri non vengono letti da nessuno, e a dominare le classifiche sono i soliti bestseller dozzinali
Secondo Nilanjana Roy i premi letterari sono troppi. La scrittrice indiana, autrice di testi di narrativa e saggistica, oltre che prolifica collaboratrice di testate come il New York Times e il Guardian, lo ha dichiarato in un articolo uscito sul Financial Times pochi giorni fa. In effetti all‘orizzonte autunnale si stagliano consecutivamente il Booker Prize in Gran Bretagna, l‘Hugo Award per la fantascienza, il Goncourt francese, il Deutscher Buchpreis, e questo solo per quanto riguarda il panorama europeo. In America, cercando su Internet, si scopre ben presto che i premi letterari sono stati raggruppati per ordine alfabetico e sono circa cinquantasette.
Ma la vera sorpresa è rappresentata dall‘Italia: secondo un articolo de Il libraio del 2019, i premi nostrani sono centinaia – se considerati anche i piccoli e i piccolissimi.
Dunque la domanda di Nilanjana Roy è legittima: ne servono davvero così tanti? E soprattutto, come si stabilisce il rapporto diretto tra il concorrente o il vincitore di un concorso letterario e l‘effettiva valenza dell‘opera?
In realtà, l‘interrogativo sibillino non riguarda tanto gli scrittori, quanto il pubblico a cui l‘opera si rivolge. Infatti, nonostante una lieve crescita degli ultimi due anni dovuta alla pandemia – che comunque riguardava i lettori già forti – la percentuale degli italiani che leggono è preoccupante: secondo l‘Istat, quasi una famiglia su dieci non ha alcun libro in casa – e il dato è costante da vent‘anni a oggi. Il 28,2% delle famiglie non possiede più di 25 volumi e il 63,2% ha al massimo un centinaio di titoli.
Questo fornisce un primo quadro della situazione: i concorsi letterari abbondano, ma non guardano pressoché a nessuno visto che la popolazione non acquista libri e non li legge. Quale sarebbe, allora, la loro utilità?
L‘obiettivo di un premio dovrebbe puntare a garantire maggiore visibilità e maggior guadagno a chi ha scommesso e investito sul testo – la casa editrice –, assicurare successo all‘autore, e soprattutto alzare le vendite del prodotto: farlo conoscere, circolare, dunque, per l‘appunto, leggere.
Invece si rischia di confermare un pregiudizio latente e ormai diffuso nella popolazione, ovvero che queste rassegne altro non siano che circoli culturali privati, che strizzano l‘occhio a platee già formate, e le opere di valore non vengono svelate, alla stregua di un segreto massonico. L‘idea che il mondo culturale, e la letteratura soprattutto, si fondi e si perpetri in modo non dissimile a una loggia permea da sempre la percezione comune. I libri cosiddetti commerciali vengono solitamente e tacitamente considerati di bassa qualità dalla critica. I vertici intellettuali ripongono talmente poca fiducia nei confronti del corpo sociale che se qualcosa ha troppo successo è meritevole di dubbi. Troppa popolarità scredita.
I casi letterari odierni, Emmanuel Carrère, Annie Ernaux e Michel Houellebecq in Francia, il norvegese Karl Ove Knausgård, l‘irlandese Sally Rooney, senza contare Franzen, Ellis e Safran Foer negli Stati Uniti – giusto per citarne alcuni – non compaiono affatto nelle classifiche dei bestseller nazionali. Al primo posto troviamo il sempiterno thriller – quest‘anno con “Il caso Alaska Sanders” di Joël Dicker – e i gialli di Carofiglio, Camilleri e Maurizio De Giovanni. I recenti vincitori del Premio Strega – Lagioia, Scurati, Veronesi, Emanuele Trevi, Helena Janeczek – non sfiorano quasi mai l‘agognata decina domenicale de “La lettura” del Corriere, nonostante siano esposti trionfalmente nelle vetrine delle librerie per tutto il corso dell‘anno che segue.
”L‘Amica geniale“ di Elena Ferrante è una felice eccezione che ha venduto 10 milioni di copie in tutto il mondo. Pure, nel 2018, veniva superato dall‘autobiografia del calciatore Francesco Totti, numero uno tra i libri più letti in Italia.
Alessandro Baricco, l‘intellettuale più noto tra quelli oggi viventi, deve gran parte della popolarità ai suoi tentativi di decostruire i verticisimi della cultura, che lui considera forieri di una mentalità “novecentesca”, trapassata e miope. Già nel 1994 era in prima serata con Pickwick, un programma televisivo su Rai3, in cui leggeva e raccontava i grandi classici della narrativa mondiale allo scopo di sollecitarne l‘interesse e quindi anche l‘acquisto.
La questione attraversa il dibattito pubblico da decenni ed è stata ampiamente sviscerata e strumentalizzata da ogni latitudine politica. Oggi è quasi lezioso chiedersi se è l‘ambiente intellettuale a non capire il paese, o se è il paese a ostinarsi cocciutamente dietro un edonismo sbracato e ignorante.
È ripetitivo anche domandarsi se è giusto spogliare la letteratura della propria componente faticosa e stentorea e passarla come un gioco affabulatorio in cui alcuni sono semplicemente più abili di altri.
Il dubbio sorge spontaneo: quale dei due settori sbaglia? L‘editoria che propone e pubblicizza quasi esclusivamente romanzi rosa, polizieschi o le riflessioni dell‘opinion leader di moda al momento, ritenendo, forse erroneamente e confusamente, che sia questo ciò che i lettori desiderano? Oppure sono queste nicchie legate ai festival a non riuscire a rendere onore ai testi che scoprono?
Se i premi e i concorsi funzionassero a dovere, rappresentassero una rassegna credibile delle novità, degli esordienti, dei giovani e dei giovanissimi e poi fossero diffusi coi giusti mezzi, scopriremmo forse a sorpresa che di buona letteratura abbiamo tutti bisogno.
Basti pensare al fenomeno dei Book-Toker, influencer che durante la pandemia hanno lanciato un hashtag dedicato alla lettura, superando 63 miliardi di visualizzazioni. Oggi alzano le vendite dei nuovi titoli, ma anche dei vecchi classici dimenticati al punto che gli uffici stampa sono stati indotti a contattarli per stabilire partnership e collaborazioni.
Sul profilo da 200mila followers @labibliotecadidaphne si organizzano appuntamenti virtuali soltanto per leggere: ottocento ragazzi tra i 20 e i 30 anni, ma talvolta anche più piccoli, tre volte alla settimana aprono il proprio libro davanti allo schermo del cellulare e condividono un‘attività eminentemente solitaria.
Se “La canzone di Achille”, edita da Marsilio oggi sfiora le 500 mila copie vendute grazie a TikTok, le centinaia di occasioni e appuntamenti che affollano l‘agenda culturale da qui all‘estate prossima possono diventare molto di più di qualche migliaia di euro in denaro e gli applausi di pochi accoliti.
“L’Italia è socialista: il pubblico schiaccia il privato”. Angelo Crespi e Vittorio Sgarbi su culturaidentita.it il 6 Agosto 2022
Angelo Crespi e Vittorio Sgarbi. Due critici d’arte si incontrano e parlano di Bellezza.
Angelo Crespi
Sto lavorando, come direttore scientifico di Valore Italia, a un grande progetto che riguarda i beni culturali. Valore Italia è un nuovo Centro Internazionale di Ricerca per il restauro e la valorizzazione del patrimonio culturale che ha come mission quella di formare giovani restauratori e specialisti nella conservazione, che però siano in grado di valorizzare questo immenso giacimento. Il patrimonio culturale rappresenta la storia e i valori di un popolo, la ricchezza e la diversità delle sue tradizioni culturali; non è solo espressione e memoria del passato, ma ponte e strumento di fondamentale importanza per progettare il futuro e rafforzare il senso di appartenenza ad una comunità territoriale. È patrimonio condiviso che necessita di essere compreso, coltivato, fruito e, prima di tutto, salvaguardato e conservato. Ed è per questo che stiamo per far nascere a Milano un polo di eccellenza. Non a caso abbiamo scelto come sede un luogo strategico come MIND (Milano Innovation District) che è già oggi il fulcro su cui si baserà lo sviluppo di Milano e in prospettiva di tutto il Paese.
Vittorio Sgarbi
Nella mia vita ho condotto battaglie importanti e molte le ho vinte, per la gloria di questo Paese, della sua civiltà, in difesa del nostro patrimonio culturale. E sono convinto che la battaglia della cultura debba essere giocata anche nel campo della politica. Per questo motivo il mio impegno di intellettuale è coinciso con il mio impegno di politico, aderendo ai partiti che meglio rappresentavano il mio sentimento, al tempo stesso da un lato libertario e dall’altro conservatore, oppure fondando e animando movimenti in cui si potessero riconoscere i cittadini che hanno a cuore le sorti del Paese. “Rinascimento Io apro”, con cui mi sono presentato a queste elezioni in molti comuni, ha infatti come obiettivo innanzitutto la tutela della libertà individuale, messa in pericolo durante l’emergenza Covid delle norme sanitarie e dagli obblighi che ne sono conseguiti. E secondariamente la protezione della bellezza del patrimonio artistico italiano, che è il tesoro su cui si fonda la nostra ricchezza e il futuro sviluppo del Paese.
Angelo Crespi
Condivido da sempre il pensiero di Sgarbi, che in questi decenni ha coniugato ragione e passione dovendo difendere la bellezza del nostro Paese contro gli orrori della contemporaneità. Credo che il richiamo al Rinascimento sia imprescindibile non solo perché il termine evoca un tempo in cui l’arte produsse infiniti capolavori, ma perché esso indica in modo da tutti comprensibile cosa vogliamo per il nostro futuro. Noi stessi di Valore Italia abbiamo costituito un Fondo Rinascimento con l’obiettivo di coinvolgere le istituzioni o le aziende private che vogliono investire sulla conservazione e sulla valorizzazione del patrimonio culturale, contribuendo soprattutto alla ricerca che in questo campo è fondamentale per dotarci di strumenti migliori al fine di porre in essere quella che viene definita “conservazione programmata”, cioè un modo di proteggere il patrimonio, intervenendo prima che si deteriori o che ci siano danni irreparabili.
Vittorio Sgarbi
Quello che dice Crespi è giusto, ma il suo discorso deve essere calato nella prassi. Il mio impegno politico è determinato dalla consapevolezza che non basta teorizzare la conservazione del patrimonio, che è spesso messa in pericolo dalla inanità degli amministratori pubblici e dalle mire degli speculatori, bensì è necessario con forza difenderlo. Sono stato sindaco di molti piccoli paesi e ancora oggi sono il primo cittadino di Sutri, sono stato assessore alla Cultura in grandi città come Milano o in realtà più piccole ma altrettanto significative come Urbino, perché solo ricoprendo certi ruoli di responsabilità si può avere il potere reale di mettere in atto quelle buone pratiche, necessarie a limitare i disastri della contemporaneità.
Angelo Crespi
Non posso che essere d’accordo. Aggiungo che il potere pubblico è fondamentale, ma non basta. Dobbiamo coinvolgere i privati affinché il patrimonio sia realmente presagito come un bene comune. Dal punto di vista ideologico, l’Italia è un Paese socialista nel quale il pubblico sopravanza il privato e il privato quasi sempre è considerato un suddito. E’ necessario invertire questa dinamica perversa che giustifica da un lato la prepotenza dello Stato perfino quando sono lampanti i suoi errori, mentre dall’altro ingenera il disinteresse del privato verso la cosa pubblica. Il patrimonio, lo dice già la parola, è ciò che abbiamo ereditato dai nostri padri, dunque è nostro per definizione, è di noi cittadini, non dello Stato che invece si arroga il diritto supremo di decidere cosa è buono e cosa è giusto. Uno Stato che allo stesso tempo è ciecamente conservatore nel modo più retrivo, pur essendo di facciata progressista, e paradossalmente è indifferente alle più turpi speculazioni, accetta le malagestioni, non interviene di fronte ai disastri economici.
Vittorio Sgarbi
Dobbiamo rimettere al centro la Bellezza. La Bellezza, come ho dimostrato a Sutri, può diventare ricchezza, perché l’arte genera benessere, welfare e, infine, ricavi provenienti dalla sua produzione e dalla sua fruizione.
Angelo Crespi
La Bellezza è un tema che mi è caro. Il patrimonio culturale materiale rappresenta la storia e i valori di un popolo, la ricchezza e la diversità delle sue tradizioni; non è solo espressione e memoria del passato, ma ponte e strumento di fondamentale importanza per progettare il futuro e rafforzare il senso di appartenenza a una comunità territoriale. Il patrimonio culturale prima ancora di essere un asset economico è fonte inesauribile di identità e senso, per un Paese come l’Italia che ritrova le proprie radici proprio nel lascito millenario di bellezza e arte, tramandato di generazione in generazione senza soluzione di continuità. Esso è patrimonio condiviso e comunitario che necessita però di essere compreso, coltivato, fruito e, prima di tutto, salvaguardato e conservato.
SMS di SGARBI
Un appello a chi vuole che Viterbo torni ad avere il posto che merita nella storia, superando il ruolo di eterna spettatrice. La Bellezza, com’è accaduto a Sutri, può diventare ricchezza.Cos’altro deve aspettare Viterbo? Dalla Macchina di Santa Rosa, patrimonio dell’Unesco, al teatro Verdi, dal Palazzo dei Papi alle terme, trascurate, con il maestoso centro storico, ridotto a contenitore della movida; con una attestata e interrotta vitalità culturale, attraverso i festival e l’attività di associazioni e di persone illuminate; con la ricchezza del medioevo, della spiritualità; con il paesaggio della Tuscia, non è ben chiaro per quale motivo Viterbo debba rimanere esclusa dal mondo, dimenticata, ignorata. Cultura è conoscenza, non improvvisazione, è visione e programmazione. Solo grazie al suo patrimonio, se adeguatamente comunicato al mondo, Viterbo potrebbe esistere. L’esposizione senza criterio delle opere di Sebastiano del Piombo, per esempio, rappresenta l’ennesima occasione sprecata per la città. E non si dovrà’ sbagliare con il palazzo della Banca d’Italia, attualmente in vendita e grande argomento di discussione: non basta acquisirlo, bisogna animarlo, immaginarne la funzione. Settemila metri quadrati che possono diventare un grande museo con esposizioni permanenti (penso alle Macchine di Santa Rosa,in deposito, esempi di intelligenza e fantasia) e temporanee, con opere di maestri della storia dell’arte, che portino in città la stampa e migliaia di visitatori, facciano parlare di Viterbo, generino lavoro per i viterbesi e contribuiscano a restituirle quello che è: una capitale dell’arte. E’ stato possibile a Sutri con il museo di Palazzo Doebbing che , in quattro stagioni espositive ,ha accolto oltre cinquantamila perso, ospitando opere di Tiziano, Bacon, Giotto, Rousseau, Ligabue, Guttuso, tra gli altri, costantemente al centro della attenzione della stampa nazionale e internazionale , di televisioni e media. Immagino, ancora, il Trasporto della Macchina di Santa Rosa onorato devotamente in diretta sui canali Rai, come accade per il Palio di Siena. Molto altro si potrebbe dire a proposito della storia e della vita culturale della città dei Papi. Moltissimo si può e si deve fare.
Fulvio Abbate per “il Garantista” il 19 giugno 2014.
Il Premio Strega è diventato l’obitorio di ogni fantasia. Bene che si sappia. Ma ora parliamo di me. Ho scelto di fare lo scrittore, non ho scelto di fare il rappresentante, metti, di Smart. Ci sarò una ragione se credo che l’essere artisti significhi innanzitutto lavorare per un umano bradisismo che faccia precipitare ogni luogo comune, ogni ipocrisia, ogni conformismo, che faccia smettere di essere orgogliosi dell’abito della prima comunione o di quello da sposa. Ti suona retorico? Peccato per te.
Mi dirai: ma esistono anche scrittori imbrillantinati e orgogliosi di cenare con le contesse, tipo Alberto Arbasino. Bravissimi, ma teneteveli. Personalmente ho scelto un’altra scuola, anzi, ho frequentato un altro genere di avviamento che assomiglia a una scuola di cavalleria, nel senso della carica, dell’assalto. Il Premio Strega, dunque. Qualche mese fa ho deciso, assolutamente controvento, di autocandidare il mio ultimo romanzo, “Intanto anche dicembre è passato” (Baldini & Castoldi) alla gara che ha il suo atto finale nel cosmodromo del Ninfeo di Valle Giulia, a Roma.
Ho fatto tutto da solo, neppure il mio caro editore si è preso la briga di sostenermi, poco male mi sono detto. E’ il prezzo d’essere pezzi unici, monotipi. Mentre preparavo i banner della battaglia ho provato lo stesso brivido di quando da bambino montavo la pista Policar, mi sentivo alla Targa Florio a bordo di una Porsche azzurra frecciata d’arancione. Sul banner c’è scritto: “Contro la P2 culturale di sinistra sostieni il romanzo di Fulvio Abbate al Premio Strega”. Per farla breve, non sono arrivato alla selezione per la cinquina finale.
Perché? Semplice, può un’istituzione che puntualmente da anni fa vincere Walter Veltroni, o chi per lui per interposti autori e copertine, accollarsi un “ingestibile” (cit.) come il marchese Fulvio Abbate? Ho meditato a lungo se scrivere cacacazzi o piuttosto idiota, perché è proprio il titolo di idiota che spetta, da parte delle anime belle perfino di sinistra, a chi, come il meraviglioso e struggente King-Kong, sceglie il pennone più alto della metropoli per urlare la propria rabbia, ma che dico?, l’amor proprio, il doveroso narcisismo aristocratico che tutti gli artisti dovrebbero custodire come fosse la sciabola di Carlo Pisacane. Ma sono di nuovo precipitato nella retorica, cazzo!
Vi sto annoiando, lo so. Il punto è che ho scelto di fare l’artista, ritenendo che esserlo significhi dotarsi di un piede di porco per forzare gli infissi della realtà, dell’esistente, e non resisterei neppure un istante accanto ai colleghi i cui romanzi sono ricalcati sulle vite di chi trascorre tutte le sere a rivedere la registrazione di Italia-Germania 4-3. La partita, non il film. Il film è previsto per l’indomani pomeriggio, giusto per non fare torto a chi anni fa gli vendette le videocassette.
Va detto però che ho il dovere di ringraziare gli scrittori che mi hanno lasciato solo a preparare la barricata. Grazie infinite colleghi, se sono ciò che soni lo devo anche a voi. Dove eravamo rimasti? Ah, sì, esiste una questione morale anche rispetto alle cose della cultura, una questione morale che vede la sinistra sul banco degli imputati (dalla destra te lo aspetti, per loro è davvero il minimo sindacale) per i reati soliti: clientelismo, sia pure dal volto umano, c’è scritto in cima al faldone degli atti che la riguardano.
E poi va aggiunto che sempre la sinistra ha veramente rotto con la propria supponenza morale, assodato che essere artisti in Italia è pressoché impossibile, visto che il massimo estro consentito inquadra Renato Zero con la paloma blanca che gli caca sulla bombetta. Provo a dirlo meglio? E’ proprio il silenzio (quasi) tombale degli scrittori dinanzi alla mia battaglia contro la miseria culturale del paese, Premio Strega in testa, che mi dà la forza di resistere. Ari-grazie, colleghi.
Non mi interessa intrattenervi sullo specifico della miseria dei premi letterari, sappiate invece che perfino in solitudine, con due legnetti al posto di un intero arsenale, si possono comunque fare molte cose, si può creare un mondo, si può essere felici con il mestiere di scrittore che si è scelto.
Dai, sarebbe davvero tempo sprecato raccontare lo specifico di un contesto che si distingue per ipocrisia, vuoto di eros, assenza di fantasia; i discorsi sulle case editrici, come sono e come invece dovrebbero essere, lasciamolo ai burocrati del conflitto, in certi casi basta avere imparato, come diceva Pasionaria, ad alzarsi in piedi. Personalmente abbiamo cercato di farlo, abbiamo ripreso la sciabola degli ussari e siamo andati all’assalto. Perché ci piace così, perché essere scrittori è bene assomigli a un mestiere da eroi.
Un editore prezioso mi iniziò agli anarchici: gente che lottava per la bontà. Roberto Saviano su Il Corriere della Sera il 22 Luglio 2022.
Ho scelto due foto. Quella che ritrae Camillo Berneri, grande filosofo anarchico morto nella guerra civile spagnola, ucciso dai comunisti... E quella di Giuseppe Galzerano, uno degli editori più importanti d’Italia, con me nell’immagine più piccola.
Il filosofo anarchico Camillo Berneri in un’immagine felice con la moglie Giovanna Caleffi, anarchica come lui. Originario di Lodi, fu ucciso nel 1937 a Barcellona, non ancora 40enne, dai comunisti nella Guerra civile spagnola
Questa rubrica di Roberto Saviano è stata pubblicata su 7 in edicola il 15 luglio. E’ dedicata alla fotografia. Meglio, ad una foto «da condividere con voi — spiega l’autore — che possa raccontare una storia attraverso uno scatto». Perché «la fotografia è testimonianza e indica il compito di dare e di essere prova. Una prova quando la incontri devi proteggerla, mostrarla, testimoniarla. Devi diventare tu stesso prova»
Questa settimana ho scelto due foto. Quella che vedete qui sopra ritrae Camillo Berneri, un grande filosofo anarchico che ho conosciuto da ragazzino, morto durante la guerra civile spagnola, ucciso dai comunisti. Lui e la sua famiglia, come molti anarchici che negli anni mi è capitato di studiare, combattevano in nome della bontà, una parola che a molti - a troppi! - oggi fa venire l’orticaria. Berneri l’ho conosciuto da ragazzino grazie alla persona ritratta nell’immagine piccola, fotografata accanto a me. Una persona a cui sarò eternamente grato. Vi presento dunque Giuseppe Galzerano, uno degli editori più importanti del nostro Paese. Se non lo conoscete vi invito a spulciare il sito (qui il link) e le pagine social della casa editrice, a studiarne il catalogo, perché Galzerano, con il suo lavoro, un lavoro che è iniziato più di 40 anni fa, racconta la nostra storia attraverso la lente spesso ignorata degli intellettuali anarchici e delle vicende meridionali.
DA RAGAZZO VOLEVO LEGGERE LE STORIE DIMENTICATE DEI RIBELLI CHE AVEVANO PROVATO A SOVVERTIRE IL MONDO
Il suo è stato ed è un lavoro titanico, se si pensa a quanto sia difficile fare editoria al Sud, a quanto sia difficile trovare le risorse per organizzare, in molte regioni del sud Italia, appuntamenti letterari in grado di durare nel tempo. C’è chi ci riesce, ma il lavoro è estenuante e spesso osteggiato perché la cultura, per certi amministratori pubblici, o è di parte o non è. Le regioni del Sud sono quelle in cui c’è un tasso di dispersione scolastica drammatico in tutte le fasce d’età; quelle in cui il divario nell’apprendimento tra le classi sociali fa spavento e dovrebbe far vergognare il ministero dell’Istruzione prima ancora che gli amministratori locali. Le regioni del Sud Italia sono quelle in cui la spesa per studente, per attività extracurricolari, è irrisoria rispetto alle sorelle del Centro e del Nord.
Il Sud Italia è quella porzione del nostro Paese in cui, a parità di dati sui contagi, governatori di Regione e sindaci hanno tenuto le scuole chiuse in pandemia aggravando una situazione già drammatica, creando un gap con il resto del Paese che, dobbiamo ammettere, sarà impossibile recuperare. Quando, a fine giugno, Giuseppe Galzerano è spuntato ad Acciaroli all’improvviso, dove ero andato per un incontro pubblico, mi è accaduto esattamente quello che accade ad Anton Ego in Ratatouille quando mangia lo stufato di verdure cucinato dal topastro cuoco Remy: sono tornato ragazzino. Cercavo libri ovunque, divoravo testi, saggi romanzi poesie. Più erano fuori catalogo, più mi accanivo nella ricerca. Poi, 16enne, il pensiero anarchico inizia ad appassionarmi e così mi imbatto nella casa editrice Galzerano. Volevo leggere le storie dei ribelli, le vicende dimenticate e nascoste di chi ha provato a sovvertire il mondo del quale cominciavo a dannarmi di far parte.
DAL ’75 GALZERANO PUBBLICA LIBRI UNICI SU QUELLE TEORIE. E LO FA NEL SUD PROFONDO. QUAND’ERO RAGAZZINO OFFRIVA SCONTI E CONSIGLI
Gli anarchici esprimevano il pensiero da cui era necessario partire perché fosse l’empatia a dettare la mia ricerca e non l’approfondimento fine a sé stesso. Preoccuparsi per gli altri, mettere il proprio ego in secondo piano, considerarsi uno strumento per il raggiungimento di una presa di consapevolezza. Peraltro il primo passo è disambiguare tutte le speculazioni sul pensiero anarchico, tutte le strumentalizzazioni, per mostrare come ci sia una scarsa conoscenza e quindi una prateria sconfinata per ogni strumentalizzazione. Giuseppe Galzerano dal 1975 pubblica libri preziosi sulle teorie anarchiche, monografie degli anarchici che uccisero (o tentarono di uccidere) re e ministri. Storie ormai dimenticate che il suo studio e la sua cura salva. Tutto questo lo faceva e lo fa da Casalvelino Scalo: dal Sud profondo.
Per un ragazzino squattrinato, quale ero, i suoi i meravigliosi libroni costavano troppo e così gli scrissi per alcuni titoli che non riuscivo a trovare. Lui vedendomi così giovane e in fiamme per l’ideale mi rispondeva indicandomi i libri da leggere e mi faceva sempre grandi sconti. In alcuni casi, mi faceva omaggio dei suoi libri indispensabili che non sarei riuscito a comprare. Non l’ho mai dimenticato. Ero solo un ragazzino e lui spendeva tempo per me, per formarmi. Una delle mie prime recensioni (sul settimanale Diario) fu proprio dedicata a un libro dell’immenso Camillo Berneri, pubblicato da lui. Galzerano è un editore libertario e libero, un’anima meravigliosa: sa che ogni singolo sguardo sulle storie di lotta e resistenza è una possibilità di immaginare altri mondi. Sono felice e onorato di presentarlo a chi non ha avuto la fortuna di incrociare i suoi libri.
Veltroni nuovo direttore del Corriere della Sera? Possibile. Ma noi vi sveliamo gli altri papabili. Alessio Mannino l'11 luglio 2022 su mowmag.com.
Gira (di nuovo) la voce che a dirigere il Corriere della Sera sarà Walter Veltroni, considerato già oggi il direttore-ombra del quotidiano. Ci sono però altre tre firme date in pole position per sostituire Luciano Fontana. Qui vi riveliamo i nomi: Aldo Cazzullo, Barbara Stefanelli, Carlo Verdelli. All’editore Urbano Cairo, naturalmente, l’ardua sentenza
Il prossimo direttore responsabile del Corriere della Sera potrebbe essere Walter Veltroni, che ne è già editorialista e, si dice, guida-ombra alle spalle del titolare ufficiale, Luciano Fontana. A rilanciare la voce, uscita una prima volta a fine 2020, è stato lo scrittore Fulvio Abbate con un post su Facebook di ieri, domenica 10 luglio. Fonti “attendibili” assicurerebbero che questa volta la sostituzione si farà. A prendere la decisione, ça va sans dire, l’editore del quotidiano, Urbano Cairo. Abbate definisce “convincente” la soffiata, presumibilmente uscita dalle stanze del Corrierone. Del resto, stiamo parlando di Veltroni, “l’eminenza grigia di quella che io chiamo la P2 culturale di sinistra”, puntualizza l’anima di Teledurruti e fondatore del movimento culturale Avanguardia Narcisista. Che sull’ex segretario del Partito Democratico non le manda a dire: “È il maestro della banalizzazione, basta leggere gli articoli di devastante spessore che firma sul Corriere per rendersi conto di come a lui si debba un impoverimento assoluto di pensiero, a partire dalla sua idea di ‘vocazione maggioritaria’, che dal mio punto di vista di intellettuale è esattamente il contrario di quel che dovrebbe fare un intellettuale, che deve coltivare semmai la vocazione minoritaria”. Il Walter nazionale sarebbe perfetto per il timone del giornale d’establishment par excellence: “Tutti i luoghi dell’organizzazione della cultura e dello spettacolo in questo nostro Paese stanno sotto la V di Veltroni”. La più recente prova, per Abbate, è l’ultimo premio Strega: “Faccio parte degli Amici della Domenica (la giuria di personalità eccellenti, ndr). Ebbene, non tutti sono stati invitati. In prima fila c’era tutto il mondo che orbita attorno a Veltroni, in una logica di presidio del territorio. È l’egemonia non in senso gramsciano, ma jovanottiano, che è nemica del pensiero, della dialettica e anche dell’eros. Sono quelli che considerano ogni obiezione una forma di invidia e rosicamento, mentre, per quanto mi riguarda, io sono contento di quel che sono, ho raggiunto il punto in cui, come diceva Nietzsche, si diventa ciò che si è. Ma come diceva Montanelli, sono i servi che fanno il padrone”.
Fulvio Abbate
In realtà, per un possibile cambio della guardia al vertice del Corsera i nomi papabili sono più d’uno, e qualcuno anche in posizione più avanzata di Veltroni. In primis Aldo Cazzullo, che oltre a rispondere ai lettori nella rubrica giornaliera che fino al 2017 era tenuta da Sergio Romano (e prima di questi da Indro Montanelli), è stato da poco nominato da Cairo a capo di una task-force interna dedicata a speciali filoni. Uno è stato inaugurato giusto ieri, con un bel reportage sulla vita notturna milanese. Il ruolo nuovo di zecca è interpretato come un segnale di ascesa, per una firma molto apprezzata nel circuito mediatico-culturale per la vena divulgativa (l’ennesima biografia di Dante Alighieri è sua) e la rassicurante medietas da opinionista puntualmente equidistante. Altro nome, anch’esso non nuovo nei rumors, è quello di Barbara Stefanelli: attuale vicedirettrice, nel 2011 ha curato il lancio del domenicale La Lettura ed è la mente del blog La27ora (non privo di alzate d’ingegno, una su tutte la fulminante puntata datata 31 marzo scorso, titolo: “Il sospetto che Putin sia lucidissimo e abbia calcolato ogni mossa”). Terzo in ordine di probabilità, Carlo Verdelli: professionista di indiscusso valore, ha il vantaggio di piacere molto a Cairo, che però, difatti, lo ha messo da pochi mesi a dirigere il settimanale di punta del gruppo Rcs, Oggi. A far ri-saltar fuori l’opzione Walter Veltroni è il combinato disposto di due fattori: innanzitutto, come conferma Abbate, il suo peso manovriero nel mainstream culturale della sinistra à la page (immortale, in questo senso, resta il servizio della ex Jena Enrico Lucci alla prima del film “I bambini sanno”, nell’aprile 2015, quando l’intera mondanità della gente di Certa-Kual-Kultura si dette convegno per coprire di elogi il manufatto veltroniano); secondo, il legame fra Veltroni e il direttore odierno Luciano Fontana, che era il capo dell’ufficio centrale de L’Unità quando a dirigerla, fra il 1992 e il 1996, era appunto il Nostro. L’intronizzazione del Walterone equivarrebbe allora a un avvicendamento che saprebbe di disvelamento: come dire, il direttore occulto diventa direttore a tutti gli effetti.
Aldo Cazzullo
Ogni decisione, ça va sans dire, è nelle mani e nei pensieri di Urbano Cairo. Da un lato, Fontana di suo non gli darebbe motivo di procedere all’amoveatur, essendo stato in questi anni il capo-macchina ideale delle strategie dell’imprenditore. Dall’altro, però, Cairo sarebbe capace di spiazzare, e se è vero che Veltroni si porta comunque addosso un marchio senza dubbio politicamente orientato, d’altro canto il suo profilo di centrale culturale vivente, dai toni e modi accomodanti, utile commentatore alla Gazzetta dello Sport, non divisivo sul piano delle idee, costituirebbe un atout, e non un handicap, per sfoggiare un direttore di più pregnante, anzi, diciamo pure più piaciona presenza scenica. Un volto non proprio nuovo, certo, ma anche, ai sommi livelli dei salotti che contano, ancora spendibile. Eccome se ancora spendibile.
Venezia 79 è Queer, il programma: ci sono Elodie, Guadagnino, Amelio con Braibanti e Monica di Pallaoro. Dal 31 agosto al 10 settembre, il mondo del cinema tornerà al Lido di Venezia, mai come quest’anno tanto LGBTQ+. Federico Boni su Gay.it il 26.07.2022.
Alberto Barbera, Direttore Artistico del Settore Cinema, ha oggi ufficialmente presentato il programma della 79. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, che si terrà a Venezia dal 31 agosto al 10 settembre 2022. Un Festival straordinariamente queer, come a noi anticipato da Daniel N. Casagrande, creatore del Queer Lion in un’intervista ad hoc tra passato, presente e futuro del premio.
Ad inauguraere il Festival sarà White Noise, scritto e diretto da Noah Baumbach, con Adam Driver, Greta Gerwig, Don Cheadle, Raffey Cassidy, Sam Nivola, May Nivola, Jodie Turner-Smith, André L. Benjamin e Lars Edinger. Torna in Concorso Luca Guadagnino con Bones and All, storia d’amore cannibale che vedrà il regista di Chiamami col tuo nome ritrovare Timothée Chalamet.
Guadagnino ha dichiarato: «C’è qualcosa in coloro che vivono ai margini della società che mi attrae e mi emoziona. Amo questi personaggi. Il cuore del film batte teneramente e affettuosamente nei loro riguardi. Mi interessano i loro viaggi emotivi. Voglio vedere dove si aprono le possibilità per loro, intrappolati come sono nell’impossibilità che si trovano di fronte. Il film è per me una riflessione su chi si è, e su come si possa superare ciò che si prova, specialmente se è qualcosa che non si riesce a controllare in sé stessi. E da ultimo, ma non meno importante, quando saremo in grado di trovare noi stessi nello sguardo dell’altro?».
Torna al Lido anche il grande Gianni Amelio con Il Signore delle Formiche, che ricostruirà il famigerato caso Braibanti, intellettuale condannato per plagio ai danni di un ragazzo. Uno dei più eclatanti casi di omofobia d’Italia. Grande ritorno anche per Darren Aronofsky con The Whale, con un irriconoscibile Brendan Fraser uomo gay distrutto dalla morte dell’amato, professore d’inglese che soffre di grave obesità e tenta di riallacciare i rapporti con la figlia adolescente, che si è allontanata da lui, per cercare un’ultima possibilità di riscatto. Altro italiano in gara Emanuele Crialese, che torna a Venezia 11 anni dopo Terraferma con L’Immensità, pellicola trainata da Penelope Cruz.
Annunciato da più parti, ci sarà Blonde di Andrew Dominik, biopic su Marilyn Monroe, così come Cate Blanchett, divina direttrice d’orchestra che si innamora di una violincellista in Tar. 8 anni dopo Birdman, Alejandro González Iñárritu torna a Venezia con il suo film più personale, Bardo, mentre Tilda Swinton è la protagonista di The Eternal Daughter di Joanna Hogg, pellicola di fantasmi all’inglese. 5 anni dopo il boom di Tre manifesti a Ebbing, Missouri, torna in sala Martin McDonagh con The Banshees of Inisherin, con Susanna Nicchiarelli di nuovo in concorso con un film su Santa Chiara, interpretata da Margherita Mazzucco. Altro italiano in gara è Monica di Andrea Pallaoro, girato negli USA e con con protagonista transgender (definita “un transessuale” dal direttore Alberto Barbera), interpretata da Trace Lysette. Un ritratto intimo di una donna che esplora i temi universali dell’abbandono e dell’accettazione, del riscatto e del perdono, mentre dopo il boom di The Father, Florian Zeller ha girato The Son con Hugh Jackman e Laura Dern.
Fuori concorso Siccità di Paolo Virzì e Don’t Worry Darling di Olivia Wilde, con Harry Styles protagonista. A chiudere la Mostra sarà Francesco Carrozzini, figlio di Franca Sozzani, con il thriller The Hanging Sun.
In Orizzonti ci sarà Elodie con Ti Mangio il Cuore di Pippo Mezzapesa, esordio in qualità d’attrice per la popstar, così come Michele Bravi per Carolina Cavalli con Amanda è in Orizzonti Extra, mentre tra i documentari Anselma Dell’Olio ha girato Franco Zeffirelli: Conformista Ribelle, omaggio al regista scomparso nel 2019. Tra i film in gara per la Settimana della Critica spiccano tre titoli a tinte LGBTQ+. Il colombiano Anhell 69 di Theo Montoya, il francese Three Nights a Week di Florent Gouëlou e l’austriaco Eismayer di David Wagner, con protagonista un temuto vice tenente segretamente omosessuale attratto dalla nuova recluta Falak. Tratto da una storia vera, il film racconta quanto accaduto a Charles Eismayer e Mario Falak, oggi felicemente uniti civilmente.
Gianni Amelio alla Mostra con il caso Braibanti: "Alle elezioni pensate ai diritti, non solo all'economia". Arianna Finos su La Repubblica il 6 settembre 2022. In concorso 'Il signore delle formiche' film sul processo del '68 che ufficialmente condannò lo studioso per plagio, ma in realtà perché omosessuale. Con Luigi Lo Cascio e Elio Germano.
"Capisco che la situazione economica è grave, ma quando andrete a votare ricordatevi anche dei diritti civili", dice Gianni Amelio. La storia del film Il signore delle formiche, quarto italiano in concorso alla Mostra, è iniziata quando il regista, nel 1968, allora 23enne, assiste al processo ad Aldo Braibanti per il reato di plagio, ma il crimine contestato è quello di amare un altro uomo, Ettore. "Sul banco degli imputati avrei potuto esserci io". Ora quella storia è diventata un film, "che solo per coincidenza arriva alla vigilia delle elezioni, non era certo prevedibile, ma che serve a far pensare e riflettere su una storia ingiustamente dimenticata", racconta Amelio, che al Lido è accompagnato dagli interpreti del film, Luigi Lo Cascio, Elio Germano, Sara Serraiocco e il sorprendente co-protagonista esordiente, Leonardo Maltese. Il film, prodotto da Kavac film, Ibc movie, Tenderstories, Rai Cinema, arriva in sala l'8 settembre con 01 Distribution.
Braibanti unico caso di condanna per plagio
Figlio del medico condotto di Fiorenzuola d'Arta, una giovinezza da antifascista, poi partigiano - torturato dalla banda Carità, e nel dopo guerra un periodo di impegno politico con il Pci - Aldo Braibanti è stato l'unico, nella storia della Repubblica, a essere condannato per il reato di plagio, inteso come la riduzione al proprio potere "e in totale stato di soggezione di un'altra persona", come recitava la legge ereditata dal codice Rocco dell'Italia fascista. Viene in realtà incarcerato e processato in quanto omosessuale e il giudizio cui fu sottoposto tra il '64 e il '68 racconta un'Italia lontana solo nel tempo. Il reato verrà dichiarato incostituzionale solo nel 1981, Braibanti è stato il primo e unico a subirne le conseguenze, condannato a nove anni in prima istanza, ne dovette scontare due in carcere. Il suo compagno, malgrado fosse maggiorenne, fu rinchiuso in manicomio dai genitori, "curato" con gli elettroshock e infine abbandonato dalla famiglia in povertà perché non era riuscito a rientrare "nella normalità".
Amelio: "Noi giovani del '68 non siamo riusciti a cambiare le cose"
Amelio ragiona su quanto sia importante oggi questo film, in un momento storico in cui il segretario di quello che nei sondaggi è il primo partito, Giorgia Meloni, parla di "devianza". "Quanto è cambiato è cambiato in Italia dal caso Braibanti a oggi? Io mi auguro che sia cambiato qualcosa. Però non abbiamo fatto il cammino che speravamo di fare noi giovani, che adesso siamo dei vecchi, persone mature, di età e anche di cervello. Nel Sessantotto scendevamo per strada per cambiare le cose, per uscire dalla ristrettezza mentale che albergava soprattutto nelle famiglie. Non ci siamo riusciti. Mentre scendevamo nelle strade si consumava la tragedia, nelle aule giudiziarie di Aldo Braibanti, condotto con una violenza verbale enorme contro un uomo mite, fortemente intelligente, aperto alla vita, studioso di una società perfetta che era quello delle formiche. E lo si fa perché la famiglia di uno dei due, lo studente, decide di portare in tribunale il cosiddetto seduttore di un figlio maggiorenne. La legge va incontro a quelle richieste, addirittura punendo con una pena terribile: Il pubblico ministero aveva chiesto 14 anni, un anno in meno rispetto a un omicidio". Spiega, Amelio: “Nei miei film c’è sempre lo scontro e incontro tra generazioni. E’ iniziato in un film, avevo 27 anni, La città del sole sul filosofo Tommaso Campanella e gli ho messo di fronte un contadino ignorante e Colpire al cuore e Hammamet. Questo film è una storia d’amore tra un uomo e un ragazzo, ed è molto autobiografica".
"Braibanti è stato dimenticato"
Il motivo per cui il regista ha sentito il dovere di raccontare questa storia oggi, "è perché Braibanti è stato dimenticato. Dimenticato in vita e anche ora che è morto. Poi volevo raccontare la vicenda del ragazzo amato da lui. La madre per guarirlo voleva mandarlo da padre Pio, invece, gli hanno consigliato di mandarlo in un istituto per malattie mentali, dove è stato curato, si fa per dire: gli hanno distrutto il cervello". Ma la genesi della storia è oggetto di un aneddoto divertente in conferenza stampa: “Non voglio essere quello che smonta la retorica di certe situazioni, la conferenza stampa bella è quella sincera. Io in genere faccio un film se qualcuno me lo offre, non perché lo penso io seduto da solo in una stanza. No, io aspetto che mi chiamino. Ne ho diritto perché ho un’età. Mi chiama un regista, Marco Bellocchio, mi invita nel suo ufficio di produzione, la Kavac, che ha un solo difetto, è sulla Nomentana. Vado e mi propongono un documentario su Braibanti. Avevo fatto un film, mi consideravano specialista, Felice chi è diverso. Nell’occasione avevo chiamato Aldo e ci eravamo parlati tante volte perché io andassi a trovarlo. Non stava bene, non si è potuta fare. Io avevo trovato documenti, ma non eccezionali, suo suo interesse malsano per le formiche. Ho detto non lo so fare. Ma perché non facciamo un film ? Il giorno dopo ricevo una telefonata da Simone Gattoni che mi dice “ti va di venire di nuovo, ti paghiamo noi il taxi? Io uso i mezzi, qualunque mezzo per arrivare, che ha anche un altro significato. Sono andato e mi hanno detto “aggiudicato, facciamo i film”. E io dico si chiamerà Il signore delle formiche”.
Il dibattito sui diritti civili
Il film racconta di chi, come Emma Bonino, che compare in un fotogramma, si impegna con altri per sollevare il dibattito, ma anche di una sinistra "in realtà Bonino non era ancora nei radicali nel '68, ma volevo rendere omaggio al Partito Radicale che è stato quello che si è piùs speso per le battaglie dei diritti civili. E di un giornale "del più grande partito di massa", il Pci, insensibile ai diritti civili, con qualche componente omofoba. Oggi la partita dei diritti civili è una di quelle che si gioca alle imminenti elezioni. "Io sono ottimista, perché credo nell'intelligenza degli umani, perché non possiamo essere sempre, costantemente, masochisti. Fare harakiri tutti i giorni no. Quindi io non sapevo che il film uscisse durante un periodo di elezioni. Chi me lo avrebbe detto? Ma c'entra con i cervelli che andranno a votare. Io mi auguro che votino per migliorare le cose, ma migliorarle non solo economicamente. Siamo in un periodo in cui l'economia è allo sfascio, ma non pensiamo solo a quello. Pensiamo anche ai diritti civili, alla nostra libertà, al nostro bisogno di essere noi stessi".
Luigi Lo Cascio: "È stato un artista totale e uno scienziato"
Luigi Lo Cascio, bravo come sempre sullo schermo, confessa che non conosceva la storia di Braibanti prima del film, "cosa che mi dispiace molto per due motivi importanti: quella di essere l'unico condannato in un processo per plagio, che a guardare gli atti ha qualcosa di incredibile, ha subito l'enorme torto di vedere troncata una storia d'amore importante, essere perseguitato dalla famiglia, sprofondare economicamente. Ancor di più mi spiace il fatto che non conoscevo la sua importanza politica e culturale. Non ha voluto, dopo, farsi bandiera di quanto subito, reclamare qualcosa in cambio. Parlava della vicenda solo se gli veniva chiesto. Come del resto del suo essere stato antifascista e partigiano. C'è stata nei suoi confronti una dimenticanza strana, ha inventato il teatro di avanguardia, è il primo a Roma a cominciare quella stagione, dove ci sono tutti: Memè Perlini, Giancarlo Nanni, Carmelo Bene. Era scrittore e filosofo con pensieri soprattutto adesso da ascoltare, è stato uno dei primi a parlare di ecologia, un artista totale e uno scienziato, mirmecologo. Mi spiace non averlo conosciuto e incontrato quando c'era ancora, è morto nel 2014 a novant'anni, tra le difficoltà economiche, sfrattato dalla casa al ghetto di Roma. Gli ultimi anni sono stati tristi. Spero che ci sia un ritorno di considerazione per la sua opera".
Elio Germano: "La giustizia dalla parte dei potenti"
Elio Germano interpreta il giornalista che segue il processo e si batte per raccontare la verità. "Abbiamo tante volte assistito a una giustizia che si accanisce contro la parte più fragile e spesso tutela i vari potentati e gli speculatori del nostro Paese che non solo non riescono a essere puniti in nessun modo, ma cascano sempre in piedi. Vediamo anni e anni inflitti, per esempio, alle persone che fanno le manifestazioni con questo reato di devastazione e saccheggio che colpisce soltanto i manifestanti e non colpisce le grandi industrie che speculano sulla salute delle persone. Come dire, la giustizia servirebbe a tutelare gli anelli più fragili della nostra società, invece si mette dalla parte dei potenti e questa è una prima cosa che vediamo non essere cambiata, così come lo stigmatizzare con le etichette a bullizzare pubblicamente degli individui, discriminandoli per le proprie scelte sessuali, religiose o addirittura peggio per il colore della propria pelle. Insomma, sono questioni che siamo abituati a vedere e come poi la politica sfrutta queste cose per il proprio tornaconto personale". Il film, prosegue l'attore, "è uno spaccato dell'epoca dove sicuramente c'era maggiore libertà, dove c'era un giornalista che è quello che interpreto, che con un'etica ancora pulita del proprio mestiere sceglie di voler raccontare quello che avviene, invece di guardare il proprio tornaconto. Questa distanza tra i rappresentanti della politica e il popolo, per esempio. E quindi un film che ci parla di tante cose, al di là del fatto in sé, del racconto, della storia, di un viaggio. Braibanti ci apre una finestra su quello che siamo noi come italiani e quello che è che che la nostra società ha prodotto. Questo è un momento in cui i diritti civili sono a rischio, ma le cose dobbiamo impegnarci in prima persona, ogni giorno, per cambiarle, non basta mettere una croce sulla scheda elettorale".
Quando i gay erano "malati". Amelio rilancia il caso Braibanti. Luigi Mascheroni il 24 Agosto 2022 su Il Giornale.
Il regista dedica Il signore delle formiche al celebre processo per plagio del '68. Ma dimentica la vera vittima...
Le domande sono due. La prima: chi è Aldo Braibanti? E la risposta è semplice: un intellettuale, poeta, chiamato il Professore, anche se in realtà non insegnò mai, fu piuttosto un attivissimo organizzatore culturale che si occupava di arte, cinema, teatro e letteratura ma anche - con intuizioni profetiche sulla scia di Pier Paolo Pasolini - di ecologia e di società dei consumi; nato a Fiorenzuola d'Arda, famiglia risolutamente antifascista, partigiano, arrestato due volte, nel '43 e nel '44, anche torturato, poi comunista critico (dichiaratamente omosessuale non era gradito neppure nella sentina omofoba e bigotta della cosiddetta sinistra ormai di poca lotta e molto potere), anima del laboratorio artistico-comunitario di Castell'Arquato, nel piacentino, Aldo Braibanti divenne famigeratamente celebre negli anni '60 allorché unico caso nella storia della Repubblica italiana - fu condannato per il reato di plagio, ossia riduzione in proprio potere «e in totale stato di soggezione» di un'altra persona, come recitava la legge 603 ereditata dal Codice Rocco.
Braibanti dal 1962 convive a Roma con un ragazzo, peraltro già maggiorenne, fino a quando il padre-padrone di una famiglia ultracattolica rapisce il figlio e denuncia alla Procura di Roma il Professore, il quale alla fine di un lungo processo, durato dal '64 al '68 - anno di contestazioni mondiali per ottenere più libertà e maggiori diritti - viene condannato a nove anni di carcere, ridotti a sette e infine a due in Corte d'Appello per riconosciuto merito patriottico di partigiano. Braibanti, al quale nel 2006 fu concesso dal governo Prodi l'assegno mensile previsto dalla «legge Bacchelli», è morto nel 2014, a 92 anni, lasciando in eredità alla biblioteca di Fiorenzuola i suoi 15mila libri e le carte personali, ancora tutte da studiare.
La seconda domanda, invece, è più delicata. Chi era il suo giovane compagno e, soprattutto, che fine ha fatto? La risposta è laconica e lacunosa. Si chiamava Giovanni Sanfratello, era un ragazzo al quale piaceva il disegno e aveva 24 anni quando fu riacciuffato dalla sua famiglia, rinchiuso in manicomio, a Verona, dove fu sottoposto a 40 elettroshock e 19 trattamenti di coma insulinico con l'intenzione di farlo guarire da quella che era considerata una malattia, cioè l'omosessualità; poi liberato ma con la proibizione di uscire di casa e leggere libri che avessero meno di cent'anni. Al processo cercò inutilmente di difendere l'amante-Professore. E poi, una volta chiuso il caso, di lui non si seppe più niente, se non che cambiò città e morì nel 2018, risucchiato nel vortice del peggiore oblio. Non ci resta né un documento, né un disegno, né una foto, solo quelle scattate durante le udienze. Una vita nullificata.
Chi ha cercato di fare parlare questo «nulla» è stato l'autore napoletano Massimiliano Palmese il quale già nel 2011 a Il caso Braibanti dedicò un testo teatrale «Gli atti del processo, così grotteschi, erano una pièce già fatta e finita», racconta al Giornale - e poi a partire da quello spettacolo ha realizzato nel 2020 un documentario tanto antisentimentalistico quanto inquietante, dallo stesso titolo, girato con Carmen Giardina, che ha debuttato in agosto alla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro di Pedro Armocida, osannato dalla critica e poi vincitore del Nastro d'Argento 2021 come Miglior Docufiction. Un'opera che continua a girare: è su Sky Documentaries e Prime video e la sera del 31 agosto sarà proiettato a Roma, a «L'Isola del Cinema». «Sono felice di avere riacceso una luce su Braibanti dice il regista e spero che ora la tv pubblica compri il documentario per tenerlo su RaiPlay. Servirebbe a due cose: ricordare Aldo Braibanti, un uomo definito da Carmelo Bene un genio; e documentare l'omofobia di uno dei peggiori scandali della storia italiana».
È vero. Il caso Braibanti, una delle macchinazioni più mostruose e lasciate impunite del dopoguerra, assieme al caso Tortora, fu lo specchio di quel Paese e uno scandalo non solo giudiziario, ma politico e civile, come disse Umberto Eco. Anche se in realtà l'indignazione degli intellettuali arrivò dopo: gli Eco, i Moravia, le Morante, le Maraini, i Bellocchio, lo stesso Pasolini intervennero più tardi, a lottare sì per Braibanti ma anche per loro stessi, mentre il primo a correre in soccorso del Professore fu, come sempre, rischiando del suo, Marco Pannella.
E comunque, ora, aperta la strada da Massimiliano Palmese, omosessuale militante, arriva il regista Gianni Amelio, omosessuale dichiarato: alla Mostra del cinema di Venezia porterà, in concorso, il film Il signore delle formiche (tra le varie passioni di Braibanti c'era anche quella per la mirmecologia) con Luigi Lo Cascio nella parte del Professore (ruolo e attore sono di quelli già in profumo di David di Donatello, almeno guardando i due minuti di trailer) e Elio Germano in quella di Ennio, giornalista di fantasia che segue l'inchiesta. Curiosamente e c'è da chiedersi come mai nella scheda del film di Amelio, «basato su fatti realmente accaduti», il personaggio di Giovanni Sanfratello, la vera vittima di tutta la vicenda, più di Braibanti, ancora una volta, sparisce: il suo nome non c'è (Per evitare querele? Autocensura? Scelta autoriale? Paura della reazione della famiglia, visto che Agostino, fratello di Giovanni, è ancora vivo?). E così il ragazzo amante di Braibanti nel film è chiamato Ettore (interpretato dall'attore Leonardo Maltese), ma a lui è riservata la battuta centrale: «Il processo è assurdo: non c'è nessun colpevole perché non c'è nessuna colpa».
Sparito il vero nome del convitato di pietra - un ragazzo che in una lettera scritta quando è rinchiuso nell'ospedale psichiatrico chiede ad Aldo di raccontargli le tecniche che usava per disegnare, perché non ricorda più nulla - speriamo, ma dubitiamo, ci siano almeno quelli dei magistrati che compirono lo scempio.
Gianni Amelio: "Sono un gay a cui l'adozione ha cambiato la vita. Ora sono nonno, papà e marito. Ed è straordinario". Giuseppe Fantasia su huffingtonpost.it il 25 Marzo 2018.
Uno dei registi italiani più apprezzati affida al romanzo "Padre Quotidiano" il suo racconto più intimo, quello della paternità
"La vita ti sorprende sempre, ma dal punto di vista umano, la mia conferma l'ho avuta negli anni Novanta". Inizia così la conversazione dell'HuffPost con Gianni Amelio, 73 anni da poco compiuti, uno dei simboli del nostro cinema, regista e scrittore di romanzi di successo. Il suo piatto di riso è troppo fumante per poter essere mangiato all'istante e lui, con quella calma che lo contraddistingue, ne approfitta per lasciarsi andare ai ricordi fissandoci sempre con i suoi occhi scuri.
"Stavo girando "Lamerica" (uno dei suo film che ha avuto più successo, ndr), era il 1993 ed eravamo in Albania. Ad un certo punto si avvicina a me un uomo di nome Ethem che mi prende il braccio, lo stringe forte e mi dice: "Fino a oggi questo figlio è stato mio. Da domani sarà figlio tuo". Il figlio in questione era uno dei ragazzini che vediamo nella scena finale del film, la più toccante, quella che è rimasta nella memoria di chiunque l'abbia vista, perché ogni altra reazione è impossibile. Una proposta sconcertante quella di quel padre che è stata un ordine e una preghiera insieme, un gesto che fece risvegliare nel "regissore" italiano – come veniva chiamato dagli altri ragazzini della troupe, tutti albanesi –" le tracce di un'antica ferita, l'assenza di un altro padre" – il suo – conosciuto troppo tardi.
Quell'episodio così intimo, tragico e poetico insieme, Amelio ha deciso di raccontarlo non con la sua cinepresa – come è solito fare - ma attraverso le parole e la scrittura che sono poi diventate un libro, "Padre Quotidiano", appena uscito per Mondadori, il quarto dopo Il vizio del cinema (2004), Un film che si chiama desiderio (2010) - entrambi Einaudi - e Politeama (2016). Si è deciso tardi, venticinque anni dopo, "perché ho avuto la necessità di prendere una certa distanza da un'esperienza come questa, un atto d'amore – da un lato – ma anche un atto di abbandono allo stesso tempo", ci spiega. "Quel padre anziano e malato, ha pensato a garantire un futuro al figlio, ben sapendo che lì in Albania non poteva averlo e ha deciso di separarsene portandosi per sempre dentro di sé il trauma del distacco", aggiunge. Amelio ha deciso di dargli voce e allo stesso tempo di far sentire la sua nelle pagine di questo libro dal profondo respiro corale e ben scandagliato in momenti. C'è quello del suo "apprendistato da padre"- come lo definisce - quello della lavorazione del film – non certo facile – e quello dedicato alla descrizione di un Paese come l'Albania schiacciata dalle macerie della dittatura e molto simile alla Calabria del dopoguerra, la regione dove lui ha vissuto la sua infanzia.
Cosa le ha insegnato e cosa le ha dato questa esperienza?
"Sono estremamente innamorato di questo libro. Tengo più a questo libro che a tutti i film che ho fatto e non sto esagerando. Ho scritto quattro libri in totale e anno dopo anno ho trovato una scrittura che non credevo di possedere. Sono un regista – ho pensato più volte - e non so scrivere, invece da un romanzo all'altro so che ho fatto dei passi avanti. Il libro ha una sua valenza letteraria, c'è molto romanzo dentro, ma la materia è estremamente autobiografica. È la mia storia, la storia di quella che oggi è la mia famiglia. Il contenuto è l'adozione che nel mio caso mi ha cambiato la vita radicalmente e mi ha permesso di avere una famiglia incredibile. Non ho adottato solo lui, ma ho portato a Roma, dall'Albania, anche i suoi genitori naturali. All'inizio, non lo nego, ero terrorizzato: cosa ne sapevo io di come si faceva il padre? Poi però ho deciso di mettercela tutta e, passo dopo passo, abbiamo costruito quello splendido rapporto che abbiamo oggi. Lui ha conosciuto la sua compagna con cui è da ventiquattro anni, hanno avuto tre figlie e sua madre abita con me. Sono nonno, papà e marito, perché è mancato il padre naturale di mio figlio che mi ha scelto come futuro padre di suo figlio. Non è straordinario?
Dal 2014 – anno in cui lei realizzò il documentario "Felice chi è diverso", raccontando diversi episodi di omosessualità più o meno dolorosi – qualcosa è cambiato anche in Italia. Lei che non ha mai nascosto di essere gay, che opinione ha in merito?
"Ha ragione lei, non c'è dubbio, la situazione è cambiata molto, ma c'è ancora tanto, tantissimo da fare. Nel documentario da lei ricordato, ho raccontato di quando gli omosessuali erano mandati al confino: in Italia non c'era una legge contro l'omosessualità, però cercavano sempre con un'altra scusa di isolare e di cacciare dalla vita comune chi, secondo loro, era portatore di disturbo. Si inventavano di tutto. Dal carcere per il disturbo della quiete pubblica alla corruzione e molto altro. Per Aldo Braibanti ("l'intellettuale mite" secondo Pasolini, "un genio straordinario" secondo Carmelo Bene, ndr) si inventarono il reato di plagio, poi tolto dalla legge italiana, qualcosa di assurdo. Perché applicarlo a un omosessuale e non ad un eterosessuale? Si cercava un'altra via perché in Italia non c'era una legge che proibisse l'omosessualità tra adulti consenzienti e questo perché Mussolini non volle far promulgare una legge. Se lo avesse fatto, avrebbe ammesso che in Italia esistevano gli omosessuali. È stata una fortuna da un certo punto di vista, perché negli stessi anni c'erano tanti omosessuali che venivano ricattati, soprattutto in Inghilterra, come venne spiegato in Victim, un film dell'epoca, molti attori e registi vennero imprigionati e una legge in tal senso fu attiva fino al 1975. Da non credere".
Lei è mai stato ricattato?
"Assolutamente no, ci mancherebbe! Ho una vita sentimentale e sessuale molto aperta, molto libera, ma alla luce del sole
Oggi, soprattutto tra i più giovani, si parla spesso di fluidità sessuale: per lei cos'è la sessualità?
"La sessualità è per me un fatto di libertà, ognuno sceglie la propria idea e tendenza, il proprio gusto, purché non da fastidio agli altri e non commetta delitto. Non vedo perché debba essere combattuto o imprigionato".
Vive bene in Italia? è soddisfatto delle ultime elezioni politiche?
"Sì, ci sono sempre stato bene da queste parti (sorride, ndr) e sinceramente non vedo pregiudizi, ma non mi faccia parlare di politica. Pensi che soprattutto al sud, la società contadina non ha mai avuto pregiudizi nei confronti di un gay. C'è stato però un modo di spingerlo a nascondersi con un concetto di tolleranza che trovo completamente sbagliato. La tolleranza, quando noi la accettiamo, implica che esista l'intolleranza. Perché non le cancelliamo tutte e due diciamo libertà"?
La libertà, oggi, si manifesta in mille modi, ad esempio scrivendo frasi e pensieri sui social network: che idea ha al riguardo? Usa Facebook?
"So che esistono, ma non li uso, perché sono mentalmente incapace di farlo. Mi piacciono altre cose, tutto qui. Non mi verrebbe mai in mente l'idea di scrivere i fatti miei su Facebook che ha la sua pericolosità. Sui social si leggono cose e frasi insultanti e prive di contenuto reale. Tutti si arrogano il diritto di scrivere e dire quello che vogliono e pensano. Non mi piacciono perché danno parola a chi potrebbe tacere".
Lei è una persona che nella sua vita non ha mai taciuto, ma denunciato ciò che non andava e non va con i suoi film, i suoi libri, i suoi documentari. L'ultimo, "Casa d'altri", premiato con il primo cortometraggio racconto dell'anima ferita di Amatrice dopo il terremoto del 24 agosto 2016 premiato al Festival Cortinametraggio con un Nastro D'Argento speciale dal Sindacato dei Giornalisti Cinematografici. Perché quella storia?
"Il mio è stato un gesto di protesta contro certi silenzi che riguardano la tragedia del terremoto di Amatrice, ma non solo. Sono partito da questa domanda: perché certe tragedie accadono periodicamente? Non si deve piangere dopo la tragedia, ma un riparo, una soluzione, vanno trovate prima perché le vittime, una volta che ci sono, non possono più protestare".
Nella sua vita ha avuto più delusioni o sconfitte?
"Non me ne ricordo nemmeno una di sconfitte, ma di delusioni sì e anche tante, soprattutto quando faccio un film di cui non posso ovviamente mai saperne prima l'esito".
Quale è stata la usa più grande conquista?
"Oltre ad essere diventato padre, la mia conquista più grande è fare questo lavoro con una serenità che prima non avevo. Per il primo lungometraggio, avevo anni di tv e gavetta come aiuto e sceneggiatore, ma ero nel panico da prestazione. Nel 1982 parlavo di terrorismo quando era una realtà di tutti i giorni e lo facevo in termini particolari: la storia di un figlio che sospetta un padre terrorista, un cattivo maestro come si diceva allora. Farlo mentre a Milano dove ogni giorno c'erano sempre attentati, mi turbava molto in rapporto al mio lavoro. Accadeva quello che raccontavo nel film. Poi con "Porte Aperte", altro mio film, il macchinista mi disse che gli ricordavo Monicelli e da quel momento qualcosa cambiò. Ho iniziato a lavorare accettando anche di poter sbagliare".
L'ultimo suo film, "La tenerezza", è stato molto apprezzato ed amato dal grande pubblico, ha ricevuto premi, tra cui il recente David al suo interprete, Renato Carpentieri. Dopo aver preso il premio ha detto che la tenerezza "è un virtù rivoluzionaria". Per lei, Amelio, cos'è la tenerezza?
"Prima di me e di Carpentieri c'è stata la voce di sua santità, Papa Francesco, che ha ricordato in un'omelia che l'uomo ha bisogno di tenerezza. La tenerezza è per me un bisogno che noi esseri umani cerchiamo di nascondere. In genere, soprattutto noi uomini, non abbiamo quel coraggio di fare il gesto perché scambiamo la tenerezza per debolezza, o abbiamo paura che un'altra persona ci consideri fragili perché chiediamo scusa dopo qualcosa che ci ha divisi, o sembriamo arrendevoli, deboli...no, non siamo affatto così, lo ha detto anche il Papa che è una mente politica straordinaria oltre che un uomo di chiesa. La tenerezza è necessaria, è uno stato d'animo che ci rende felici, non scordiamolo mai".
VENEZIA 79. Le Favolose, ribelli senza rimpianti, e il tema Lgbtq+ che attraversa il Festival. Teresa Marchesi su huffingtonpost.it l'1 Settembre 2022
Le amiche transessuali riunite da Roberta Torre in un film delle Notti Veneziane sono testimoni di un’epoca di rivoluzione sessuale, tra gli anni ’70 e gli ’80, consegnata al passato.
"Noi siamo fantasmi. Non madri, non mogli, non figlie, non lavoratrici riconosciute, non donne, non uomini: persone che non esistono, per la società civile": è bella la dichiarazione in margine di una de "Le Favolose", le amiche transessuali riunite da Roberta Torre in un film delle Notti Veneziane che va in sala il 5, 6 e 7 settembre con Europictures.
Sono ribelli senza rimpianti, testimoni di un’epoca di rivoluzione sessuale, tra gli anni ’70 e gli ’80, consegnata al passato. Si riuniscono nella casa dei loro incontri giovanili per ricordare Antonia, una di loro che la famiglia ha sepolto vestita da uomo, per vergogna della sua identità scelta. C’è una seduta spiritica, anche, ma senza barriere tra i vivi e i morti. È una fiaba nostalgica e vitale insieme, quella intessuta da Roberta Torre, con il filtro della memoria a guidare i racconti, perché “il tempo fa vedere le cose, non le cancella”. Hanno vissuto di prostituzione (ma senza protettori), ”perché senza la prostituzione, in un mondo che non ci prevedeva, non saremmo sopravvissute". Diverse perché hanno scelto il corpo che si sentivano, capaci di godere, ora che l’età su molte di loro ha lasciato il segno, della leggerezza contagiosa di un ballo: è “Ain’t Misbehavin” di Fats Waller, memoria di una indimenticabile Gena Rowlands per John Cassavetes. Storia inseguita da tempo dalla regista, partendo dalla vicenda di una famiglia che si era ‘appropriata’ in morte del corpo del figlio trans, dopo una vita trascorsa a inseguire la femminilità. Ma c’è una parte ‘privata’ e personale della regista nei super 8 che corredano il film: vecchie riprese di suo padre bambino, “che tra le vecchie foto delle mie ragazze trovavano la loro giusta collocazione emotiva”. “Le Favolose” hanno un nome: Porpora Marcasciano (autrice di saggi su argomento trans), Sofia Mehiel, Mizia Ciulini, Veeth Sandeh, Nicole De Leo, Massimina Lizzeri. Sono non-attrici con il carisma da attrici.
Parlo di “Le Favolose”, al di là del merito, anche perché il tema LGBTQ+, ovvero lesbian, gay, bisexual and transgender è il vero tema-guida di Venezia 79. E’ trasversale, attraversa tutte le sezioni della Mostra. È al centro di tre dei cinque film italiani: ne “L’immensità” Emanuele Crialese affronta per la prima volta la sua formazione di uomo in un corpo di ragazza; Gianni Amelio rievoca il clima da Inquisizione del processo Braibanti, dove il crimine non detto era l’omosessualità; Andrea Pallaoro, con “Monica”, racconta una bellissima trans americana e la sua riconciliazione con la famiglia. Ancora: “Tàr” di Todd Field, in concorso, mette in scena un one-woman-show di Cate Blanchett, direttrice d’orchestra in un universo maschile, che cade in disgrazia per omosessualità e accuse di molestia (e viene in mente anche il suo “Carol”, con Todd Haynes). Preciso che il film, nonostante i miracoli di Cate, è di un tedio infernale. Già nei primissimi giorni, è un tema che dilaga in “Three nights a week”, alla Settimana della Critica, e poi in “L’Origine du Mal”, a Orizzonti extra, con la magnifica Laure Calamy. Battaglie civili di integrazione, dunque, e complicati rapporti tra genitori e figli: sono i due fili rossi da seguire in questa Mostra.
Venezia 79, gender e libertà: la Mostra racconta il coraggio di scegliere. Arianna Finos su La Repubblica il 3 settembre 2022.
Da “Monica”, accolto da undici minuti di applausi, a “Le favolose”, la rassegna declina in tanti modi il tema dell’identità sessuale
Venezia - Monica torna a casa dopo vent'anni ad accudire la madre che aveva rifiutato la sua transizione, Adriana è un'adolescente che negli anni Settanta veste da maschio e vuole essere chiamata Andrea, le favolose sono un gruppo di amiche riunite al festoso "funerale" risarcitorio dell'amica trans, seppellita dalla famiglia in abiti maschili. Alla Mostra quest'anno, sparsi tra le sezioni, ci sono tanti film - alcuni interessanti, altri brutti, altri ancora sorprendenti, e poi sentimentali, comici o rabbiosi - affrontano i temi dell'orientamento sessuale e quello dell'identità di genere. E ci sono storie in cui personaggi gay, lesbiche e trans non sono il centro o la questione, ma il semplice riflesso della nostra realtà quotidiana, alla vigilia di un possibile cambio di matrice conservatrice.
L'orizzonte narrativo, si è allargato. E da quanto visto (finora), se Trace Lysett fosse, con Monica, ritratto delicato di un personaggio femminile - accolto da undici minuti di applausi - la prima trans a vincere la Coppa Volpi, lo dovrebbe all'intensità della sua interpretazione, senza dover scomodare il politicamente corretto. "Ho fatto il provino a trenta attrici trans, ho capito subito che Trace era Monica", dice il regista Andrea Pallaoro. Grande attesa, tra gli italiani in gara, per Emanuele Crialese, che racconta l'adolescenza anni '70, tra crisi familiari e momenti musicali di una ragazza che si sente maschio (e si veste come tale), un film "non strettamente autobiografico, ma basato sulla mia esperienza personale", dice Crialese. Affermazione che dovrebbe bastare: al di là della curiosità suscitata, fuori dal racconto sullo schermo il regista è libero di non condividere le proprie scelte di genere.
Nelle sezioni collaterali Pinned into a dress, storia di Kurtis, cresciuto queer dentro una famiglia di abusi e dipendenze, ha creato l'alter ego Miss Fame, super modella drag, ma il successo che non ripara le ferite. Alle Giornate degli autori, Le favolose di Roberta Torre affronta la cancellazione dell'identità subita da molte transgender: la famiglia di Antonia si è impossessatw dei suoi beni e distrutto le foto, seppellendola con il nome maschile: "Antonia - dice Roberta Torre - rappresenta le persone trans che hanno perso la battaglia del riconoscimento della propria identità nel momento della morte". Sempre più spesso nelle biografie degli artisti emerge la volontà di identificarsi come persone non binarie: è il caso, alla Mostra di Tessa Thompson, la Valchiria di Thor, in giuria del premio Opera prima e Quintessa Swindell, 22 anni, coprotagonista di Master Gardener di Paul Schrader: "Essere non binari significa esplorare sé stessi al di fuori dei confini della società eteronormativa. Combattere per i sottorappresentati è allo stesso tempo un dovere e un privilegio. Essendo dove sono oggi, niente significa più per me che essere una voce per la mia famiglia prescelta".
Natalia Aspesi per “Il Venerdì – la Repubblica” il 29 agosto 2022.
Ho chiesto a una coppia di trentenni serenamente omosessuali e a un paio di loro coetanei serenamente etero, se sapessero chi era Aldo Braibanti e tutti, serenamente, mi hanno risposto di no. È vero, la sua è una storia nera italiana di più di cinquant' anni fa, estranea a quel '68 in cui i giovani erano certi di cambiare il mondo, e forse avrebbero potuto farlo, di prendersi il potere, e invece furono sconfitti, di liberarsi da ogni oppressione compresa quella sessuale, oggi con qualche risultato.
Forse anche chi aveva vent' anni allora, i nonni di oggi, ne seppero poco, e in ogni caso in tanti se ne sono dimenticati. Ma non Gianni Amelio, che ha 77 anni ed è nonno appassionato di tre ragazze, due gemelle adolescenti e una di 19 anni che vive con lui.
«Avevo 23 anni, ero arrivato a Roma da un paio d'anni deciso a uscire dalla mia nullità, avevo grandi sogni, e avevo fatto i primi passi nel mondo del cinema, come aiuto di Vittorio De Seta per Un uomo a metà. Il processo contro Aldo Braibanti, che allora aveva 46 anni, era iniziato in Corte d'Assise a Roma il 12 giugno 1968, e io ebbi il coraggio di assistere, in mezzo al pubblico, a una sola udienza.
Fuori c'era la grande confusione delle manifestazioni studentesche, interessate ad altro. Lo vedevo solo di spalle, perché era rivolto verso i giudici, così fragile, così forte, deciso a non difendersi, a non rispondere alle domande provocatorie. E mi batteva il cuore. L'atmosfera era allucinante, colpevolizzante, la ritrovai poi al processo del Circeo, contro quei giovani fascisti stupratori, torturatori, assassini. Ero inquieto, immaginavo cosa avrei potuto provare se fossi stato al suo posto, se come tanti, allora, quasi tutti, non avessi continuato a negarmi».
Quel ricordo crudele, quel senso di colpa, il destino umiliante e l'orgoglio dell'imputato, la ferocia stupida di quell'Italia di potere, solo adesso sono diventati un suo film, che sarà tra i cinque italiani in concorso alla 79ª Mostra del Cinema di Venezia e in sala dall'8 settembre.
«Se sono arrivato oggi a questa storia così italiana è stato per un percorso naturale che mi ha sempre spinto, anche attingendo al passato, a parlare dell'aria che sentivo attorno. Ed è proprio dall'aria che respiriamo oggi che è nata in me l'esigenza di riproporre la figura di Braibanti, rispettando quello che lui dice in una scena: "Non voglio essere considerato un martire. Né mostro né martire"».
Titolo quasi fantasy, Il signore delle formiche, perché Braibanti era un appassionato mirmecologo, le nutriva, le studiava, le teneva con sé dentro una teca di vetro, e gli studenti che lo amavano cercavano per lui nei prati le regine ancora alate.
Ma era soprattutto un intellettuale rispettato, un Maestro amato e temuto, un poeta, artista plastico e figurativo, drammaturgo e regista teatrale con un suo laboratorio a Castell'Arquato, nel piacentino. Figlio del medico condotto di Fiorenzuola d'Arda, aveva avuto una giovinezza di impegno politico, antifascista sotto il fascismo, arrestato e torturato dalla terribile banda Carità, partigiano, e nel dopoguerra per un certo tempo impegnato col Pci. E omosessuale. Ho visto al Teatro Parenti lo spettacolo ideato da Massimiliano Palmese sul processo, poi in parte incluso nel bel documentario Il caso Braibanti, 2020, di Carmen Giardina e dello stesso Palmese.
La sua immagine è quella di un uomo rimasto ragazzo, troppo magro, una gran testa di capelli neri, occhiali da vista enormi con grossa montatura nera: molto somigliante a Pasolini, di cui era coetaneo. Amelio gli ha dato la faccia ancora giovane di Luigi Lo Cascio e del suo personaggio il vestire trasandato e l'inflessione emiliana.
Dice: «Il crimine di Braibanti era l'omosessualità, anche se per la nostra legge il reato di omosessualità non era previsto nemmeno allora, quando ancora vigeva il codice Rocco, perché secondo Mussolini il maschio italiano non poteva essere che virile.
Eppure il Pubblico ministero chiese per lui 14 anni di reclusione, precisando che era un anno in meno della pena per l'omicidio premeditato, "perché comunque di un omicidio si è trattato, quello della coscienza di un ragazzo innocente"».
Il "ragazzo innocente" era Giovanni Sanfratello, un giovane di 23 anni che, questa l'accusa formale, Braibanti aveva "plagiato". Alla fine la Corte ridusse gli anni di carcere a nove, e dopo qualche tempo a due "per meriti partigiani".
Racconta ancora Amelio: «Per girare il film in quello stesso Palazzo di Giustizia di Roma dovevo mostrare la sceneggiatura e quindi ho limitato le parole infamanti e vergognose dell'accusa. Ma mi restano vaghi ricordi di invettive come "Voi donne siete fortunate, perché se non siete consenzienti con le vostre fauci potete stritolarglielo"; o anche "L'accusato si vantava di essere stato con un negro, una razza che ve la raccomando"».
Allora non esisteva ancora il coming out, la ribellione scoppiò un paio d'anni dopo. E lei non fu certo tra i primi, dichiarò la sua omossessualità nel 2014. Un mio amico gay con consorte, una coppia felice, mentre raccontavo loro del nostro incontro, mi ha urlato: «Troppo facile fare coming out a 80 anni!»...
«A parte che non è vero, ognuno ha la sua storia. Io sono nato in Calabria, a San Pietro Magisano, nel centro della Sila. Mio nonno era emigrato in Argentina lasciando mia nonna incinta e non tornò mai più, forse si era fatto un'altra famiglia.
Anche mio padre se ne era andato e fui io, da adulto, 15 anni dopo, ad andarlo a riprendere. Il nostro era un paese di vedove bianche, anche la mia famiglia era di sole donne e solo le donne hanno contato per me.
Io ero il loro riscatto. Per farmi uscire dal paese e studiare hanno affrontato qualunque sacrificio. Mia madre mi mandò a Catanzaro dalla nonna perché frequentassi le medie. Mia nonna mi spinse al liceo, mia zia all'università a Firenze: lei era cresciuta in orfanotrofio e, quasi analfabeta, era riuscita a diplomarsi infermiera e a diventare caposala operatoria.
Diciamo che già da allora il trastullo del pisello non era la mia priorità: prima dovevo sfamarmi, e non sempre era facile, poi dovevo studiare, dovevo farcela, per me, per le mie donne. E per il mio sogno, che era quello di diventare maestro, di insegnare. Anche se ben presto capii che così come ero non me lo avrebbero mai permesso».
Nel gruppo creativo attorno a Braibanti c'erano i giovani Agostino e Giovanni Sanfratello, che appartenevano a una famiglia del piacentino tradizionalista, ultraclericale e di estrema destra. E forse Agostino non accettò la preferenza di Braibanti verso il fratello o immaginò che quel legame fosse una diavoleria.
La famiglia perse la testa, doveva salvare il suo ragazzo dall'inferno del peccato mortale, e maestro e allievo furono costretti ad andarsene insieme a Roma, a dividere la stessa stanza in una pensioncina. Era l'ottobre del 1964, Giovanni era maggiorenne (allora lo si era a 21 anni) quando una notte quattro maschi Sanfratello piombarono in quel rifugio dove il letto era uno solo, matrimoniale, e riuscirono con la forza a rapire Giovanni che fu rinchiuso contro la sua volontà in una casa di cura per malattie mentali.
Meglio pazzo che frocio?
«Nel film ci sono anche momenti della mia vita davvero crudeli. Quando avevo 16 anni un insegnante mi disse: "Se sei omosessuale o ti curi o ti ammazzi!". In quegli anni i giovani contestavano anche la famiglia, il suo potere senza scampo. Quella di Giovanni si dimostrò esemplare nella sua furia distruttiva: per "curarlo" consentirono che gli praticassero 40 elettroshock e ottennero di tenerlo prigioniero in casa».
Dal paio di clip e dal trailer del film a disposizione di noi curiosi, ho visto la bella, fiduciosa, faccia dell'innocente Giovanni che si contorce nell'orrore degli elettroshock.
Una faccia sconosciuta, chi è l'attore?
«Per i due fratelli non ho voluto attori, ma ho cercato le facce giuste, di quegli anni e di quei luoghi, girando per bar, con gli avventori che portavano ancora la mascherina. Giovanni è Leonardo Maltese, Agostino è Davide Vecchi. Li vedrà, hanno una carriera assicurata».
Nei giornali d'epoca la loro madre, seduta in tribunale, massiccia, col cappello da gran signora calato sugli occhi e sulle ginocchia, la borsa stretta tra le mani, è già una immagine da film.
«Vedrà la mia! È Anna Caterina Antonacci, il soprano che mi ha conquistato per il suo fisico forte e il modo di interpretare Verdi, perché è la musica di Verdi, così melò, carica di amore, a percorrere tutto il film. Anche lei non ha mai fatto cinema».
Elio Germano, nelle poche immagini viste, ha sempre il cappello in testa (mi ricorda Italo Pietra quando era direttore del Giorno) e sotto il braccio la mazzetta dei giornali.
Figura davvero anni 60 del rude cronista: nel film lavora all'Unità e rappresenta quella parte della stampa di allora che non titolava "Il demonio in Corte d'Assise".
«Però il giornale comunista era anche molto prudente, la cronaca del processo non finiva in prima pagina, altri erano gli interessi della classe operaia...».
Con Braibanti stavano i Radicali, che poi nel 1981 riuscirono a far cancellare il reato di plagio, in parte i socialisti, e gli intellettuali: Moravia, Elsa Morante, la Maraini, Piergiorgio Bellocchio e Pasolini, Maria Monti, Carmelo Bene...
«Ma erano ingenui, certi che Braibanti sarebbe stato assolto perché l'accusa di plagio era assurda. Non tenevano in conto che quella vecchia Italia era già furiosa per la contestazione, e aveva l'ossessione di difendere la famiglia come massimo potere».
Lei, come dicevamo, scelse il coming out nel 2014, e non so perché lo fece con me (in un'intervista a Repubblica il 28 gennaio 2014, ndr) parlando del documentario in cui raccolse le storie di persone che erano state giovani quando l'omosessualità era clandestina: titolo bellissimo dalla poesia di Sandro Penna, Felice chi è diverso.
«Ripeto, avevo altre priorità. La mia omosessualità, che non metto in discussione, non è mai stata il motore principale della mia vita. Questo film su Braibanti l'ho fatto con onestà e partecipazione sincera, ma non perché volessi tirare in ballo, come fosse una mia autobiografia traslata, i miei gusti sessuali o quelli di Aldo. Se c'è un elemento che mi ha colpito della sua esistenza, è stato l'accanimento su una persona indifesa, la carcerazione, la prepotenza dell'ingiustizia. Senza dimenticare la spinta dei sentimenti che hanno caratterizzato la sua storia, la tensione morale, la tenacia con cui ha affrontato le avversità senza farsi piegare. E il suo studio sulle formiche non è già una metafora bellissima di quanto lui tenesse all'umanità? Quanto al mio silenzio, non volevo essere "un gay che fa il regista".
Ero e sono un regista, e mi riconosco solo come tale, perché il sesso, per quanto importante, non è il mio tutto. E poi senta, non mi piacciono le etichette: la parola gay mi fa pensare quando si chiamavano "donnine allegre" le puttanelle. Ancor meno "non binario": ma se la ricorda Binario, la canzone di Claudio Villa, "...triste e solitario / tu che portasti via col treno dell'amore, la giovinezza mia". Allora mi pare più simpatico "culatòn", come era scritto in lettere nere, giganti, sulla casa materna di Braibanti a Fiorenzuola...».
Nel 2008, intervistato da Andrea Pini, il poeta si era espresso più o meno nello stesso modo e già preoccupato per il clima: «Il mio mestiere di vivere è stato ed è la poesia, e non posso dimenticare i miei interessi verso i gravi e attuali problemi ecologici. E voglio subito togliere di mezzo un possibile equivoco: io credo nella libertà sessuale e per questo penso sia giusto abolire ogni forma di etichetta».
Pini, da quell'incontro, così lo descrive nel suo bel libro Quando eravamo froci (2011, Il Saggiatore): "Un meraviglioso signore dolce e gentile ma dal carattere assai fermo. È agile nei movimenti per la sua età, veste in modo semplice, non è molto alto di statura, una testa di capelli bianchi. Viveva col cane Lado in una vecchia casa popolare del ghetto di Roma sostenuto dalla legge Bacchelli".
Il direttore della fotografia di Il signore delle formiche è Luan Amelio Ukai, che è già stato premiato per altri film e che è suo figlio adottivo.
«L'ho conosciuto quando giravo Lamerica in Albania, il ragazzo aveva 17 anni, ci aiutava in tutto sul set, e emanava la gioia di scoprire una vita magica. Diventai amico di suo padre, pieno di malanni dovuti al carcere per motivi politici. Mi disse: "Fa che diventi figlio tuo". Mi spaventai, non ero preparato.
Ma poi mi convinsi. Gli trovai un piccolo alloggio vicino a casa mia a Roma e cominciai le pratiche di adozione. Dopo tre mesi incontrò una ragazza polacca e vivono insieme da 27 anni con tre figlie splendide. Il mese prossimo si sposeranno. Sono fiero di lui, del suo talento e del suo doppio cognome...».
Aldo e Giovanni si sono incontrati ancora dopo quella tragedia?
«Nella realtà no, l'ultima volta è stato in tribunale mentre il ragazzo stroncato dalle cure non cadde mai nelle domande-trappola, difese sempre sia la sua libera scelta d'amore che l'innocenza del compagno. Ma i film consentono immaginazione».
E lei, ha più visto Braibanti dopo il processo?
«L'ho incontrato spesso negli anni 70 per strada, ma non ci siamo mai palesati. Una volta mi sono infilato nella cantina dove lui dirigeva un gruppo di attori, tra i quali c'era un mio amico. Ero sulle spine, oggi benedico quella intrusione perché mi ha permesso di raccontarlo "al lavoro" in una scena del mio film: brusco, duro, sgarbato, feroce, ai limiti di una arroganza che mi ha turbato. Era tutto tranne che simpatico».
Da tempo ormai film e fiction raccontano allegrissime storie gay anche con scene di sesso che se le vede Pillon si sente male: lei le ha osate nel suo film?
«C'è un nudo frontale in campo lungo e tanti abbracci che sono ormai abituali. Nient' altro. In tutti i miei film non c'è un bacio. Il sesso sullo schermo è difficile da rappresentare. Meglio che stia fuori campo».
Il signore delle formiche esce nelle sale negli ultimi giorni di una orribile campagna elettorale, in cui si confondono l'Italia che è approdata a FdI e Lega e quella che ha disperso la sua forza in mille rivoli, tutti di poca e inconciliabile sinistra: secondo lei quale schieramento potrebbe esserne avvantaggiato?
«Non credo che un film abbia questo potere, soprattutto oggi. Piuttosto penso che sarà il film ad essere avvantaggiato da questo clima furibondo».
Marco Giusti per Dagospia il 6 settembre 2022.
“Ah, noi… birbanti… Braibanti…”. Così Paolo Poli, travestito da Rita da Cascia, con tanto di parrucca con i treccioni, accennava a teatro negli anni '60 a un caso celebre e doloroso come quello di Aldo Braibanti che ora, sessant’anni o quasi dopo Gianni Amelio porta sullo schermo con “Il signore delle formiche” a risarcimento di una tragedia tutta italiana e di un processo farsa vergognoso che vedeva il professor Braibanti assurdamente accusato di plagio seconda una legge fascista che copriva indecorosamente la presenza dell’omosessualità nel nostro paese.
E quindi non prevedeva un processo e una punizione, come accadeva in Inghilterra, per l’omosessualità dichiarata. Nel caso specifico la “colpa” di Braibanti era quella di aver plagiato un suo giovane allievo, col quale viveva a Roma, ripreso prontamente dalla famiglia e massacrato con elettroshock, mentre a lui la nostra legge, dopo quattro anni di processi, sentenziò ben nove anni di carcere, che diventarono sei in appello e vennero poi ridotti a due per meriti partigiani.
Film difficile da fare, ancor più da scrivere presumo, non tanto per la storia in sé, quanto per la ricostruzione esatta del personaggio di Aldo Braibanti e il suo complesso ruolo nella cultura italiana del tempo. Studioso di insetti, poeta, commediografo, cineasta, scrittore, amico di Sylvano Bussotti, che nel film diventa un certo “Vanni Castellani”, di Alberto Moravia, di Alberto Grifi, di Carmelo Bene, legato a esperimenti teatrali come quelli del Living, attivissimo inchiestista politoc su Quaderni Piacentini, cosa che qui scompare del tutto, ma anche provinciale a Roma come già lo era stato Pasolini.
Luigi Lo Cascio ne dà un ritratto preciso di intellettuale chiuso in se stesso, quasi in una torre di superiorità, cosciente della sua intelligenza ma che sentenzia un filo troppo. Ma forse, a ben ricordare, allora, gli intellettuali isentenziavano tutti un po' troppo, con le frasi a effetto, cosa che faceva davvero effetto sui giovani del tempo. E, parlo per esperienza. L'idea di plagio altro non era, in fondo, che il fascino un bel po' predatorio che tanti di questi intellettuali spargevano fra i loro giovani amici e amiche. Pratica diffusa al di là dell'essere omo o etero.
Anche perché la differenza tra gli omosessuali alla Bussotti o alla Paolo Poli, più esibiti, più chiari, e alla Braibanti, più chiusi, in giacca e cravatta, era piuttosto chiara. Anche se la giacca e la cravatta, a teatro come alla Rai come nei giornali anche non di partito, mascheravano parecchio. Certo, la grande ventata libertaria sessantottina avrebbe cambiato un po’ le cose, ma nella prima metà degli anni ’60 non era facile capire come muoversi e cosa aspettarsi in ambienti non così protetti come quelli del teatro d’avanguardia o del cinema di Pasolini-Visconti-Bolognini o delle piccole comunità gay a Roma.
E comunque, e in questo il film di Amelio ci prende, pure un partito come il PCI o un giornale come “l’Unità”, aveva un problema di evidente imbarazzo a difendere Braibanti omosessuale partigiano e dirigente di partito. Anche se la ricostruzione della redazione del giornale non mi sembra riuscita. Detto questo “Il signore delle formiche” ci racconta, con qualche omissis e qualche nome cambiato una storia che andava raccontata trenta-quarant’anni fa, ma siamo fatti così, arriviamo sempre in ritardo, colpa dei produttori, si dirà, ma anche colpa di una certa codardia nel tentare imprese difficili da raccontare e da far digerire nel sistema maschilista e patriarcale della cultura italiana.
Del resto siamo ancora impegnati sul caso Moro e chissà quando spiegheremo al cinema il ritorno del fascio-sovranismo di meloni e Salvini. Uno sguardo meno lontano dalla storia, avrebbe potuto coprire qualche ingenuità. O spingere su qualche bertoluccismo in più, che da Amelio magari avremmo gradito, specialmente nella parte emiliana, dove brilla pur senza dire una battuta il Francesco Barilli protagonista di “Prima della rivoluzione” o la Adua di Gina Rovere che ci rimanda invece all’Adua di Pietrangeli, e dove si muove con grande attenzione e partecipazione il Braibanti di Lo Cascio, che poteva diventare un po’ più personaggio bertolucciano alla Gianni Amico.
Personaggi, ahimé, che da anni non esistono più, come non esiste più Gianni Amico e tutto quel mondo di intellettuali di provincia che fecero la nostra nouvelle vague e la nostra rivoluzione, anche teatrale (come Bussotti) . Non mi piace tanto, confesso, una sorta di messa in scena col personaggio che apre bocca come fossimo in uno sceneggiato anni ’60, che forse è una cosa voluta da Amelio per riportarci a quel mondo.
E trovo estremamente curioso il momento, importante nella storia, della vecchia madre di Braibanti che legge sotto i portici della sua città la lettera del figlio, finalmente un editore gli pubblicherà un libro, mentre la macchina da presa scopre la scritta terribile ma anche un po’ comica “la casa del culatòn”, che fa un po’ troppo Nando Cicero e che sembra assolutamente voluto. Un gesto di volgarizzazione di una storia che nella realtà comunque ne ebbe parecchia.
Strutturato in due parti, la storia d’amore e la fuga a Roma e il terribile processo-gogna, che è ricostruito fedelmente dagli atti e dalle cronache del tempo, il film è pieno di figure interessanti, a cominciare dal giornalista comunista Elio Germano, l’unico che prende davvero a cuore la vicenda, a sua cugina Sara Serraiocco, dall’esordiente Leonardo Maltese, che ritroveremo nel nuovo film di Marco Bellocchio, a Valerio Binasco. Forse, ripeto, avremmo voluto qualche bertolucciata in più, qualche travelling, un po’ più cinema rispetto alla storia. Ma forse la storia, stavolta, era la più importante da raccontare.
Gianni Amelio: «Essere gay per tanti è ancora un tabù o una malattia». Stefania Ulivi, inviata a Venezia, su Il Corriere della Sera il 6 Settembre 2022.
Il regista in gara a Venezia con «Il signore delle formiche», storia del processo al poeta e scrittore Aldo Braibanti.
«Ho fatto questo film dare voce a chi non la ha. Le cose sono cambiate dal 1968, il reato di plagio non esiste più ma ci sono ancora persone che non possono dichiarare apertamente il loro essere gay, per tanti è ancora un tabù, o peggio una malattia». Gianni Amelio torna in gara a Venezia (dove vinse nel 1998 il Leone d’oro con «Così ridevano») con «Il signore delle formiche», il racconto dello sconvolgente processo al poeta, scrittore e drammaturgo Aldo Braibanti, che nel 1968 fu condannato a nove anni di prigione, accusato di plagio (un reato del Codice Rocco, poi abolito) ai danni di un giovane, Giovanni Sanfratello, con cui conviveva a Roma.
Il ragazzo fu rinchiuso dalla famiglia in ospedale psichiatrico e sottoposto a cure atroci tra cui l’elettroshock. «È un film sulla violenza e sulla ottusità della discriminazione. E sull’indifferenza. Io c’ero, sono andato a assistere a un paio di udienze, e posso dire che era ancora più doloroso per me sentire l’indifferenza generale, a parte i radicali e un gruppo sparuto di socialisti che protestavano nei giardinetti di fronte al Palazzaccio a Roma, come mostro nel film. E alcuni appelli sui giornali in favore. Il tema del processo contro un invertito, come si diceva allora, faceva paura. E non è finita». «Il Signore delle Formiche», prodotto da Kavac film, Ibc Movie, Tenderstories con Rai Cinema, uscirà in sala dall’8 settembre con 01 Distribution
Braibanti è Luigi Lo Cascio, il ragazzo («ma era maggiorenne») a cui Amelio ha cambiato il nome in Ettore è interpretato da Leonardo Maltese, Elio Germano è un giornalista dell’Unità, personaggio di fantasia e Sara Serraiocco è Graziella, sua cugina. «Per me il caso Braibanti ma soprattutto la storia d’amore tra un uomo e un ragazzo. Durante la lavorazione io ho vissuto una storia d’amore molto tormentata. Forse il film si è giovato di questo, ho scoperto le stesse fragilità del protagonista che è diventato molto autobiografico». Anche la conferenza stampa lo è stata quando il regista se l’è presa con un giornalista, rinfacciandogli il titolo a una critica su «Hammamet». Si è tornati all’attualità grazie a Franco Grillini, presidente onorario di Arcigay: «La questione omosessuale non è risolta — ha detto mentre Amelio e il cast lo applaudivano — basti pensare al vergognoso applauso in Senato per lo stop alla legge Zan».
Luigi Lo Cascio in 'Il signore delle formiche'. "I diritti meriterebbero una rivoluzione". Arianna Finos su La Repubblica il 7 Settembre 2022.
E' il protagonista del film di Gianni Amelio che ripercorre il caso Braibanti. "Forse l'arte può sensibilizzare chi ancora parla di devianze".
Non erano le folle di Harry Styles, ma ad attendere Luigi Lo Cascio all'arrivo in motoscafo all'Excelsior c'erano due ammiratori speciali: "I miei figli, dalla terrazza urlavano "papà, papà!". Da quando è venuto la prima volta con I cento passi, che ha dato il via alla carriera cinematografica ogni edizione "è una festa di famiglia, vengono da tutta Italia mamma e i fratelli, quest'anno anche i ragazzi". In Il signore delle formiche, il toccante film di Gianni Amelio in concorso, presta il volto a Aldo Braibanti, filosofo, docente, mirmecologo, condannato per plagio al carcere nel 1968, per aver "rubato l'anima" (parole del pubblico ministero) al giovane studente di cui era innamorato e con il quale era andato a convivere, contro il volere della famiglia.
Conosceva la storia di Braibanti prima del film?
"No, cosa che mi dispiace molto per due motivi importanti. Il primo è che è stato l'unico condannato in un processo per plagio che aveva l'intento di distruggere un diverso: ha subito l'enorme torto di vedere troncata una storia d'amore importante, essere perseguitato dalla famiglia, sprofondare economicamente. Ancor di più mi spiace il fatto che non conoscevo la sua importanza politica e culturale. Non ha voluto, dopo, farsi bandiera di quanto subito, reclamare qualcosa in cambio. C'è stata nei suoi confronti una dimenticanza strana, ha inventato il teatro di avanguardia, è il primo a Roma a cominciare quella stagione, dove ci sono tutti: Memè Perlini, Giancarlo Nanni, lo stesso Carmelo Bene dice che è stato lui a insegnargli adii diversi. Era scrittore e filosofo con pensieri soprattutto adesso da ascoltare, è stato uno dei primi a parlare di ecologia, un artista totale e uno scienziato, mirmecologo. Mi spiace non averlo conosciuto e incontrato quando c'era ancora, è morto nel 2014 a novant'anni, tra le difficoltà economiche. Spero che ci sia un ritorno di considerazione per la sua opera".
Nel film, sul caso Braibanti, la sinistra e l'Unità non fanno una bella figura.
"Rispetto ai diritti civili la sinistra si preoccupava di altre cose: del lavoro, dell'economia, delle ingiustizie sociali. Non è stata capace di stare vicina alla vita reale, legata dall'identità, alla vita intima delle persone, considerandola secondaria".
Oggi il tema dei diritti civili ha un ruolo importante nel dibattito politico.
"È vero, l'asse si è spostato sui diritti civili, ma lasciando indietro conquiste del lavoro - flessibilità, disparità sociale - perché oggi si pensa che il mondo non si possa più cambiare, che la gabbia sia d'acciaio. Si lotta sul punto dei diritti civili perché è come se nel resto i partiti si equivalessero, oscillando nella quantità dentro un unico registro un unico canone, che sembra impossibile e da cambiare. Dando per scontato che non ci sarà più una rivoluzione, che il mondo in mano a certi gruppi economici: dentro un mondo guasto cerchiamo di stare meglio che possiamo, ma senza grandi orizzonti. Lo dimostra il disinteresse per la politica, lo scontento generalizzato, in cui è scomparsa la dimensione del futuro e del comune".
Braibanti non era un personaggio empatico, spesso scelse il silenzio. Ha pagato anche per questo?
"Non si poneva il problema di come porgersi. Era quel che era, con i suoi difetti, limiti caratteriali nel rapporto con gli altri. Era una persona netta. Secondo lui - ed è vero - il processo è stato costruito. La sentenza era già scritta. Ripeteva che la vera vittima era il compagno Ettore, coma insulinici e una quarantina di elettroshock, esce dall'ospedale psichiatrico e ha una vita segnata dal programma dalla famiglia, che poi lo abbandona in malattia e povertà perché 'non raddrizzabile'".
Giorgia Meloni parla di devianza, parola non lontana da quelle del processo.
"Difficile dire cose che non suonino ovvie. Queste persone vivono nel nostro stesso mondo, ma non sono attrezzati affettivamente, cognitivamente, per capire il carico di sofferenza di chi è discriminato per la sua identità, affettività. L'arte forse, con parole e immagini riesce forse adaarrivare al cuore di chi queste cose non le ha ancora pensate. Spero che il film dia il suo contributo".
Alla Mostra arriva con tre film. È anche il cardinale/papa Ugolino nel film Chiara, in gara di Susanna Nicchiarelli e in Spaccaossa di Vincenzo Pirrotta.
"Mi piaceva la sceneggiatura di Susanna Nicchiarelli, e le figure di Santa Chiara e San Francesco, un mondo rivoluzionario. Braibanti è su quell'onda lì, la sua vita era francescana, non solo per la povertà, ma per l'unione con gli altri, l'amore per la vita in tutte le sue forme, l'ecologismo. Oggi nessuno di noi potrebbe vivere un solo giorno nella nuda povertà. In Spaccaossa sono "Machinetta", giocatore di videopoker vittima della banda che proponeva a chi era in difficoltà, di farsi spaccare le ossa per incassare dalle assicurazioni, che incassavano loro".
È stato un anno pieno di cinema, per lei.
"Sì, complice la pandemia e i teatri chiusi. Ho avuto anche Delta di Michele Vannucci a Locarno, e a dicembre sono protagonista della seria Amazon The bad guy. Sono un giudice integerrimo, barbuto, cento chili di peso. Vengo incastrato, condannato al carcere. All'uscita decido di vendicarmi, cambio identità, mi trasformo fisicamente, entro nel mondo dei mafiosi spacciandomi per uno di loro. È una comicità assurda, ma funziona".
Il cinema la vede più in ruoli impegnati.
"Sì, ma io vengo dal cabaret. Da studente di medicina facevo teatro da strada e cabaret nel gruppo 'Le ascelle', sketch sulle secrezioni del corpo umano, dal sudore al resto. Eravamo un gruppo di palermitani a Bologna, ex atleti e supporter della nazionale atletica leggera. Ci pagammo il viaggio a Helsinki con spettacolini a ogni tappa del viaggio. All'Accademia ho portato Petrolini, facevo parti comiche. I cento passi e Luce dei miei occhi, entrambi a Venezia, sono stati i film che hanno acceso l'interesse dei registi. A Venezia sono venuto dieci volte, per me è ogni volta è un ritratto di famiglia che si allarga".
Amelio, storia d'amore, di plagio e d'autobiografia. "Il signore delle formiche" racconta il caso Braibanti, quando (nel '68...) l'omosessualità era una malattia. Pedro Armocida il 7 Settembre 2022 su Il Giornale.
La storia è stata raccontata con precisione nel bel documentario di due anni fa di Carmen Giardina e Massimiliano Palmese dal titolo Il caso Braibanti. E cioè il processo, nel fatidico 1968, al drammaturgo, poeta e mirmecologo Aldo Braibanti con l'accusa di plagio per aver sottomesso alla sua volonta, in senso fisico e psicologico, un suo studente e amico maggiorenne. Il ragazzo, per volere della famiglia che portò Braibanti dietro il banco degli imputati, venne rinchiuso in un ospedale psichiatrico e sottoposto a una serie di devastanti elettroshock, perché «guarisse» da quell'influsso «diabolico». Braibanti fu condannato a nove anni di detenzione.
Ora la vicenda, che ripropone uno spaccato dell'Italia in cui le persone omosessuali venivano definite «invertiti» o «pederasti» e ovviamente il processo basato sul reato di plagio voleva colpire questo tipo di «devianza» , è diventato un film presentato in concorso a Venezia 79, Il signore delle formiche, diretto da Gianni Amelio che fa un'operazione simile a quella del Craxi in Hammamet, innestando una vicenda reale nella sua (auto)biografia più politica o personale. Perché è vero che il racconto del personaggio di Aldo Braibanti, interpretato con straordinaria aderenza da Luigi Lo Cascio, segue esattamente quello storico dal laboratorio artistico di Castell'Arquato in provincia di Piacenza, agli anni romani e al processo ma Amelio, insieme agli sceneggiatori Edoardo Petti e Federico Fava, poi inizia a inventare la realtà siamo pur sempre in un film di finzione cambiando il nome e cognome alla giovane vittima di tutta questa vicenda, che qui si chiama Ettore (bravissimo l'esordiente Leonardo Maltese) mentre nella realtà è Giovanni Sanfratello, e costruendo un peculiare personaggio, il giornalista dell'Unità Ennio impersonato da Elio Germano. «Non potevo tacere il nome di Braibanti che è il focus del film spiega il regista ma ho cambiato i nomi della famiglia vera perché non volevo che la storia diventasse un fatto personale mentre invece volevo che rappresentasse una famiglia simbolica classica della provincia italiana». Questa invenzione, se da una parte esclude dal ricordo, e dalla denuncia di quanto gli è accaduto, la principale vittima, lobotomizzata, della vicenda, dall'altra apre il film agli spunti più autobiografici del settantenne Gianni Amelio che, solo qualche anno fa, ha fatto coming out: «Certe parole sono state dette a me, quando avevo 16 anni, e nel film le faccio ripetere ad un personaggio in calabrese, perché io sono calabrese: L'omosessuale ha due scelte, o si cura o si ammazza» sottolinea il regista de Il signore delle formiche che uscirà nelle sale domani.
Sembra proprio che Amelio abbia voluto chiudere alcuni conti personali con il suo passato perché, attraverso il personaggio del giornalista dell'Unità ossia, ricordiamolo ora che non c'è più, il quotidiano organo del Partito Comunista italiano attacca proprio quell'area politica. Spingendosi a mettere in scena un caporedattore, anche qui interpretato con grande efficacia da Giovanni Visentin, che censura gli articoli del suo giornalista sul caso Braibanti spingendolo addirittura alle dimissioni. Sui titoli di testa del film campeggia la scritta «Liberamente ispirato a fatti accaduti negli anni Sessanta» per cui è indubbio che Amelio abbia voluto raccontare la «sua» esperienza di realtà celebrando invece il Partito Radicale che, grazie a Pannella omaggiato con l'immagine di una Emma Bonino ripresa al giorno d'oggi che però ha iniziato a fare politica successivamente, nel '74, è stato quello che ha capeggiato la protesta di tanti intellettuali, da Moravia a Pasolini a Marco Bellocchio che ora è il produttore del film con Ibc Movie, Tenderstories e Rai Cinema, contro un processo scandaloso, arrivando poi, nel 1981, alla cancellazione del reato di plagio.
Un film dunque molto personale come evidenziato dallo stesso Amelio che, all'inizio della conferenza stampa, prima di aver avuto un diverbio con il critico dell'Espresso Fabio Ferzetti per un titolo di due anni fa su Hammamet, si è confidato così con i giornalisti: «Ci sono in me delle fragilità umane che io ho rivissuto con questo film. Ho scoperto le stesse fragilità di Aldo Braibanti, questo ha giovato al film ma non a me come persona. Penso di aver dato il massimo come regista. Braibanti si è innamorato, mi sono innamorato anch'io. Non mi è andata male come a Braibanti, non sono andato in carcere come lui ma sono chiuso in un mio carcere personale. Sono l'uomo più disperato del mondo».
Emanuele Crialese racconta la sua storia di uomo transgender: «Per cambiare il nome sul passaporto ho dovuto lasciare un pezzo del mio corpo». Valerio Cappelli su Il Corriere della Sera il 4 settembre 2022.
Il regista è a Venezia con «L’immensità», storia autobiografica: «È il film che inseguo da sempre, ora sono pronto»
«Che importanza ha che sia stato una donna? Quello che conta è ciò che faccio oggi. Sono un uomo e una donna come gli altri? No: sono io. Ho fatto cinema nella speranza di raccontare un giorno questa storia».
Emanuele Crialese torna in gara al Lido con «L’immensità» (esce il 15 per Warner) e una musa chiamata Penelope Cruz. È nato — è lui a dirlo — Emanuela: è diventato Emanuele. Nell’ambiente un po’ si sapeva, lui la racconta oggi, questa storia che non potrebbe essere più intima e personale: quella di una bambina che si sente maschio.
La sua storia. «Sì, mi riguarda molto da vicino. Ma non è un film sulla transizione e sul coming out, sarebbe disinformazione dirlo. È un film fortemente autobiografico».
Roma, Anni ’70, un marito traditore seriale che picchia la moglie, lei lo subisce, della figlia maggiore dice: si chiama Adri. «Hanno una connessione forte – racconta Penelope - la casa per loro due è una specie di carcere, la figlia dice mi avete creato male, e che viene da un’altra galassia, invoca un extraterrestre che la porti in un’altra dimensione. Ho fatto questo film anche per il tema delle violenze domestiche».
Crialese, perché ora?
«È il film che inseguo da sempre, il più desiderato. Ora sono pronto. Se l’avessi fatto prima sarebbe stato palloso e didascalico, un poveraccio che usa la crisi di genere. Ho aspettato per avere consapevolezza di me e del linguaggio cinematografico. Si può raccontare una storia quando si è capaci di esprimersi. Una rinascita. Ero pronto a rinascere con questa storia».
È stato molto coraggioso.
«Io sono quello che sono, perché devo rassicurare? C’è bisogno che dica io sono maschio o femmina? Sono quello che lei ha davanti, non basta? Sono e non sono, essere o non essere… Spero di non minacciare nessuno. Voglio dire una cosa politica: questo Paese sta cambiando, siamo impauriti, tutto si può fare tranne avere coraggio. La donna è la parte migliore dell’uomo che sono, è quella dentro di me, è l’oggetto dei miei desideri, è lei che ascolto più volentieri. La donna è un campo di battaglia, dà la vita, allatta, rinuncia, si sacrifica, ha lottato per emanciparsi. Descrivere un uomo sarebbe noioso».
Sua madre?
«Si nascondeva insieme a me, abbiamo vissuto l’immensità. Non sapeva dove sbattere la testa. I tempi sono cambiati. La mentalità è la stessa. Il personaggio del padre (Vincenzo Amato) non è mai cresciuto, è rimasto un bambino, la madre l’ha autorizzato a comportarsi in quel modo con le donne».
Lei sul passaporto…
«Per cambiare la A con la E del mio nome, ho dovuto lasciare un pezzo del mio corpo, il pegno che mi ha chiesto la società, sennò non avrei potuto cambiare nei documenti. Ne parlavo col regista Inarritu, non c’è film che non sia autobiografico. Si raccontano le proprie ossessioni e passioni. Da “Terraferma” a “Nuovomondo”, ho sempre fatto film sulle migrazioni, sulle transizioni anche da un luogo all’altro. C’è molta trasfigurazione, non giro documentari, è la mia esperienza di vita. Il cuore del film è la libertà, come si possa cambiare, come l’identità sia un fatto relazionale. La casa è una sorta di navicella spaziale, è il corpo non c’è nulla di realistico, dentro c’è il cuore e il cuore è malato. I bambini ci portano oltre i nostri confini e i tre figli esprimono il disagio attraverso il corpo, mangiano troppo o non mangiano…».
Il suo alter ego nel film è Luciana Giuliani: come l’ha trovata?
«Ha 13 anni, sarebbe stata un errore cercarla in chi vive quel disagio, ho pensato a una disciplina sportiva maschile, Luciana è una campionessa di mini motociclette. Compete con i maschi. È difficile gestire un adolescente sul set, vengono trattati come dei, lei doveva cercare il suo spazio di libertà».
Penelope Cruz?
È l’archetipo femminile, è una donna del passato, presente e futuro. Parla l’italiano con accento spagnolo, una sporcatura, avrebbe potuto parlare in romanesco ma ho preferito così».
A un certo punto, lei si sovrappone nelle immagini a Patty Pravo e Raffaella Carrà, due icone del mondo gay.
«Raffaella è un mito per Penelope, che però non ha mai conosciuto ma in Spagna ballava le sue canzoni al parco per le amiche della nonna. Volevamo invitarla sul set, è morta qualche ora prima. Da 18 a 60 anni, è sempre rimasta fedele a sé stessa, ma sempre moderna. Patty Pravo… La vidi a Roma che usciva da una Rolls Royce bianca con degli occhi che mi facevano paura, è uno stordimento, un vortice. Le persone che si amano di più è meglio non incontrarle».
Emanuele, ha parlato con la sua famiglia d’origine?
«Se fosse stato il mio debutto le reazioni sarebbero state scomposte. Trattandosi del mio quinto lavoro non c’è stato il panico, ma curiosità e preoccupazione rispetto alla verosimiglianza dei personaggi».
Cosa vorrebbe che arrivasse di questa storia?
«Che ho fatto un film, affrontando una grande prova di coraggio. Mi sono esposto, non dal punto di vista sessuale ma nella mia privacy, nella mia dimensione umana».
Francesco Piccolo vince lo Strega. Fulvio Abbate attacca: un nome imposto dalla P2 culturale di sinistra. Il secoloditalia.it venerdì 4 Luglio 2014.
Alla fine the winner is… Francesco Piccolo. Lo sapevano tutti. Lo avevano scritto tutti. E si chiama infatti Il desiderio di essere come tutti (Einaudi) il libro che ha vinto il premio Strega, benedetto dal mainstream fin dalla sua uscita perché perfettamente in linea con lo spirito del tempo: pagine dove trovi il rimpianto dell’era berlingueriana e il disprezzo per ciò che sarebbe avvenuto dopo. E Tutti, ricordiamolo, era il titolo dell’Unità per i funerali di Berlinguer (giornale cui Piccolo ha collaborato sotto la direzione di Concita De Gregorio). E’ stato notato che lo slogan renziano “cambiaverso” allo Strega non funziona, quell’ambiente che certifica l’alleanza tra il potere e le case editrici che sono i veri suggeritori dei potenti è impermeabile a ogni forma di rottamazione. Lo scrittore Fulvio Abbate è stato il più tenace nel criticare l’arroganza con cui quella che lui chiama “la P2 di sinistra” ha imposto la vittoria di Piccolo (già vincitore del David di Donatello per la sceneggiatura de “Il capitale umano” di Virzì e autore del festival di Sanremo targato Fazio).
“Ha vinto la prevedibilità” – sottolinea Fulvio Abbate, che aveva provocatoriamente candidato allo Strega il suo ultimo romanzo, Intanto anche dicembre è passato. “Da mesi noi sapevamo che questo signore avrebbe vinto lo Strega e lo ha vinto al di là di qualsiasi ritegno. Io ho votato Scurati turandomi il naso. Ma il controllo dei pacchetti di voti è tale che loro sapevano già che Piccolo avrebbe vinto e la sicumera s’era già vista quando lui è andato da Lilli Gruber in tv”.
Abbate non nega che il marketing su Berlinguer abbia avuto un suo peso: “Sai, Berlinguer è una specie di Padre Pio della sinistra che non ha più luogo, questo è un libro strumentale che si serve di questi elementi avendo un supporto pubblicitario e di consenso notevole. Già da prima che uscisse si aveva la certezza che avrebbe vinto lo Strega”. Un premio che è stato vinto, in realtà, dalla P2 culturale di sinistra che sarebbe “veltroniana nell’intimo”. Questa la tesi di Fulvio Abbate: “altrimenti non si spiegherebbe come mai hanno vinto lo Strega Veronesi e poi Nesi”.
Anche Piccolo vince, alla fine, perché “è organico a una certa narrazione della realtà che è quella che discende dal veltronismo dove la complessità è solo apparente. Allo Strega vincerebbe anche una risma di fogli di carta bianca se lo imponesse la P2 culturale di sinistra,…di Fulvio Abbate
La Rai è proprio irredimibile. Chiunque venga messo a dirigerla rimane sconfitto. Goffredo Pistelli su italiaoggi.it il 04/11/2016 ITALIAOGGI - NUMERO 262 PAG. 7 DEL 04/11/2016
Definire Fulvio Abbate non è semplice o forse lo è: artista, scrittore, giornalista, culturalmente situazionista, «ingestibile» come dissero a L'Unità quando gli tolsero la collaborazione, che durava da molti anni. Abbate, palermitano, classe 1956, nobiltà nel sangue (marchese), è certamente un uomo libero, che vive in una città ormai detestata: «Roma è un grumo di aggregati, di piccole borghesie senza costrutto, dove il massimo che ti è concesso e di essere condomino», dice al telefono. Alla sua città adottiva, Abbate ha dedicato un libro, Roma vista controvento, uscito per Bompiani nel 2015, che è una sorta di scavo antropologico dell'Urbe.
Intellettuale fuori dal mainstream, forse perché si scaglia sovente contro «la P2 culturale di sinistra», Abbate conduce dal 1998 un esperimento unico: Teledurruti, «un'opera d'arte, un laboratorio permanente», ossia un'emittente che espone l'Abbate pensiero in tutti suoi acuti e le sue spigolosità e che, dal 2007, è diventata un canale YouTube.
Domanda. Abbate, con lei che fa la tv più autenticamente culturale che ci sia, voglio cominciare chiedendo che cosa pensa dalla Rai.
Risposta. Ma no, come Leonardo Sciascia diceva della Sicilia, anche la Rai è irredimibile.
D. Come anche si diceva un tempo anche dei Paesi del socialismo reale.
R. Esattamente. Guardi per capire la Rai, bisogna andare ospiti in trasmissioni come Uno Mattina.
D. Quindi molto presto, alla alba.
R. Quella trasmissione è paradigmatica dell'Italia. Lei si mette ad aspettare, nei corridoi, che venga il suo turno, e si vede passare, nell'ordine, il nano più alto d'Italia, Pierferdinando Casini, la donna cannone, Luciano Canfora e Luciano Luthring, capisce? Uno Mattina è simmetrica un po' al mondo che Federico Fellini descriveva con Ginger e Fred, anche se pensava, lo sappiamo, al Maurizio Costanzo Show. Ecco in quella trasmissione capisci un po' un'Italia ministeriale, se vogliamo.
D. Insomma, i tempi del «Nazionale», come si chiamava una volta Rai Uno, non son mai passati?
R. Quella è una sorta di cinemondo nazionale, dove, dal punto di vista dei contenuti, verifichi l'insipienza di autori pavloviani...
D. Ossia che si ripetono, per riflesso condizionato.
R. Massì, magari si trovano lì per ragioni di clientela. Trovi, magari, la figlia dell'alto magistrato, che non capisce nulla, che forse c'ha qualche problema di talento spicciolo, ma che è lì, intoccabile.
D. Carlo Freccero, grande uomo di tv, messo in cda dal M5s perché ne fosse la coscienza critica, non pare aver dato grandi contributi finora.
R. Freccero potrebbe, nella sua posizione, sostenere che l'intero palinsesto Rai fosse affidato a Cattelan...
D. Alessandro, il presentatore?
R. No, dico proprio Maurizio Cattelan, l'artista.
D. Oddio, il ditone del vaffa, i bambini appesi, il Papa accasciato...
R. Cattelan fa solo cose glamour, non c'è la cultura del sabotaggio in lui, solo dominio del glamour.
D. Senta, ma la Rai renziana, quella del direttore generale Antonio Campo Dall'Orto, non ha ancora dispiegato i suoi effetti?
R. La questione è semplice: il Paese reale vuole la merda.
D. Tanto per non girare intorno al problema.
R. È così. Ogni tanto arriva qualcuno che dice: «Noi gli diamo la merda ma guarnita di praline».
D. Una pralina di cose alte, per addolcire il sapore. Facciamo un esempio?
R. Sì, la pralina può essere la trasmissione di Walter Veltroni.
D. 10 cose con Flavio Insinna, il nuovo sabato italiano.
R. In questo caso è esemplare, con un chiaro intento didattico, detto tra virgolette.
D. E senza le praline, cacca pura?
R. Il Paese vuole Maria De Filippi, un sabato di prima serata che assomigli al calendario missionario, ha presente? La negretta in lacrime, il focomelico che dipinge coi piedi o con la bocca.
D. Ci potrebbero essere alternative?
R. Ci potrebbe essere Bebe Vio, una persona disabile, che però ha una sua propria dimensione erotica. Invece siamo fermi, al format del vecchio con la pipetta, del clown con la lacrima.
D. Ma la Rai renziana, secondo lei, come potremmo immaginarcela?
R. Il format perfetto era quello della Leopolda, il palco della stazione lorenese. E infatti la trasmissione di Veltroni è un po' questo. Ma più il simbolo della tv renziana è Pif.
D. Il suo concittadino Pierfrancesco Diliberto, adesso nei cinema con In guerra per amore...
R. Ecco Pif è l'antimafia parrocchiale, il nuovo Marcellino pane e vino, se lo ricorda?
D. Ho pochi anni meno di lei. Il piccolo Pablito Calvo. Torniamo alla Rai renziana.
R. Mi pare che una rondine, ossia la trasmissione di Veltroni, non faccia primavera. E anche a RaiTre, non mi pare finora segnata dalla direzione di Daria Bignardi. Ma d'altra pare i futuri palinsesti se li creeranno gli stessi telespettatori, coi propri telefonini, su.
D. Di che parliamo, lei dice?
R. Sì, perché, in collegamento diretto via Facebook, i ragazzi e le ragazze si riprenderanno mentre si masturbano, poi avremo gli scoreggiatori che incendiano i propri peti, quelli vanno già fortissimo. Una vampa e tutti a ridere! Poi un po' di morgue, perché ai ragazzi piace già Grey's Anatomy Quello sarà.
D. E se domani arrivassero i grillini a Saxa Rubra, come potrebbe cambiare la radiotv di Stato?
R. Immaginare una Rai a cinque stelle, è qualcosa di spettrale. Basta considerare che il loro Starace, Rocco Casalino...
D. Stella del primissimo reality show, oggi portavoce alla Camera del movimento.
R. Dica piuttosto uno degli oggetti di scherno della Gialappa's band.
D. Vero anche questo. Indimenticabile serie, quella, con l'altro protagonista, soprannominato Ottusangolo. Mi scusi, Casalino sarebbe Starace, nel senso di Achille, capo del Partito fascista, o di Francesco Storace, che guidava la commissione parlamentare Rai?
R. No, non dicevo Storace «epurator», come si chiamava allora. Intendevo Starace, proprio il protagonista dei sabati fascisti. Ora, è pur vero che John Cage andò a Lascia o raddoppia, ma non mi pare che Casalino, fino a oggi, abbia toccato alcuna vetta.
D. Come dovremmo immaginarci questa Rai pentastellata, dunque?
R. Non riesco ad andare aldilà del solito folclore, ossia di scie chimiche, rettiliani e poligamia. D'altra parte a Roma, che è un banco di prova del M5s, per la cultura hanno preso una figura di matrice veltroniana.
D. Luca Bergamo, assessore alla Crescita culturale.
R. Ai tempi di Veltroni, faceva un famoso festival, sostenuto dal Campidoglio, Enzimi. Ma anche per l'urbanistica, mi pare che abbiamo dovuto prendere uno da sinistra.
D. Paolo Berdini, professore de La Sapienza.
R. Sì, insomma, girano a vuoto, non hanno quadri proprio. La figura principale è la sindaca Virginia Raggi, che non ne azzecca una. O meglio, una ne ha azzeccata.
D. Ossia?
R. Il discorso all'inaugurazione della Nuvola di Massimiliano Fuksas, quando ne ha ricordato il costo eccessivo. Poi, però, è quella della congiura dei frigoriferi.
D. Scettico?
R. Insomma, non ce la vedo l'Ama (municipalizzata rifiuti di Roma, ndr) a sabotare la giunta come i camionisti del Cile nel 1973 colpirono Salvador Allende. Come ho scritto, quei frigoriferi sono diventati come il monolite che Stanley Kubrick mette in 2001, Odissea nello spazio.
D. Siamo arrivati a Roma, si può ritornare alla Rai. Quanto c'entra quell'azienda con l'Urbe?
R. Guardando la Rai, capisci la Capitale. La tv di Stato avrebbe parlato solo romanesco se Mario Riva, che le aveva dato popolarità col Musichiere, non fosse caduto nella buca.
D. Il tragico infortunio, all'Arena di Verona, che gli costò la vita nell'agosto del 1960.
R. Lui vivente, la Rai avrebbe parlato come da Cencio alla parolaccia a Trastevere. A quel punto prevalse la Rai milanese, quella di Mike Bongiorno. Per quanto fosse nata a Torino.
D. Stiamo a Roma, Abbate.
R. C'è una grande contiguità fra la Rai e la Roma dei ministeri, la Roma dei notai, dei primari. Per capire certi personaggi della radiotelevisione, alcuni volti ricorrenti, anche se non di primissimo piano, bisogna conoscere le dinamiche dei salotti di via Tre orologi o di via Tre madonne. Oppure la scala gerarchica della sanità.
D. In che senso?
R. Nel senso che questa è la città dei primari, dei medici, delle ferriste, degli infermieri e dei portanti. La Roma dei primari non può non avere un ruolo in Rai. Quella ritratta da certi Cafonal di Roberto D'Agostino, e che un tempo aveva trovato sponda nella Dc.
D. E le città politicamente successive?
R. Particolare è stata quella post-fascista dei Gianni Alemanno, che non ebbero il coraggio di toccare nulla in Campidoglio, mentre in campagna elettorale promettevano il lanciafiamme.
D. Invece?
R. Invece bastò loro essere invitati nel salotto delle sorelle Fendi. Oppure di ricevere in dote, dai socialisti, quelle ragazze, signore e signorine, che s'accompagnavano a quelli del garofano. Armi e bagagli passarono in Alleanza nazionale.
D. Riposizionamenti amorosi.
R. Bastava andare al Bar della Pace, a Piazza Navona, e vedere sfavillare assessori e qualche sottosegretario aennino che, più del potere, assaporavano l'aver accesso alle gioie del sesso.
D. Un mondo un po' in difficoltà quello della destra romana.
R. In condizioni drammatiche, ha fallito. Come la sinistra del resto. Negli ultimi tempi, prima di morire, anche Teodoro Bontempo, che ne conosceva a menadito gli elettori, la base, confessava d'essere in difficoltà. Quell'elettorato oggi ha trovato nel M5s un presidio ottimale: negozianti, tassisti, ignoranti vari, hanno visto nel M5s una forza palingenetica.
D. Succederà ai grillini, quello che è accaduto alla destra?
R. La carne è debole. Non ricorda la calata dei protomartiri della Lega?
D. A disagio nel dover vivere nella «Roma ladrona».
R. Infatti, all'inizio, Umberto Bossi diceva che avrebbero alloggiato tutti assieme, in albergo, per non farsi tentare da questa città corrotta e corruttrice. Poi è finita com'è finita.
D. In questa chiacchierata-cortocircuito, a pendolo fra tv, città e politica, abbiamo sfiorato il veltronismo, contro cui lei si è spesso scagliato.
R. Il veltronismo è un fatto culturale, che ha abbassato la flora fantastica di ogni intelletto a Roma.
D. Veltroni fu suo direttore a L'Unità.
R. Che anni. Non possono vedere una pubblicità di Telepass perché ripenso che il direttore lo forniva ai collaboratori suoi amici. Se vedo Canal Plus, mi sovviene che Veltroni mise i suoi «giovani scrittori» un po' dappertutto e anche lì.
D. Il suo antiveltronismo l'ha pagato, Abbate?
R. Non figuro dalle liste di inviti qualsiasi evento culturale.
D. Ma voleva fare il consulente anche lei?
R. Per carità, quando, Giovanna Melandri fu designata alla guida del Maxxi, e qualcuno fece un appello perché trovava discutibile quella candidatura, non comparvero in calce firme «platinum plus», anzi, la più nota fu la mia. Una città di merda. Se lei pensa...
D. Se lei pensa?
R. Che fu la città di Pier Paolo Pasolini, colui che lanciò invettive contro la televisione di Stato ed Enzo Siciliano, uno degli uomini a lui più vicini, andò a presiederla...
D. Ci sono intellettuali che pensano d'avere un ruolo diverso, prenda Lidia Ravera, assessore alla cultura in Regione.
R. Già, e perché mai c'è andata a fare l'assessore?
D. Dice che è un'abdicazione?
R. Il ruolo degli intellettuali è quello di andare a forgiare chiodi a quattro punte, come facevano i partigiani nelle officine del Tiburtino, per bloccare la ritirata tedesca.
Caro Abbate, proprio tu, genio comunista, parli ancora attraverso i libri? PIETRANGELO BUTTAFUOCO il 20 dicembre 2013 su Il Foglio.it
A forza di fissarti finiva che “vinceva sempre lui”. Così era Hitler che campò fino a tutti gli anni 60 del secolo scorso in Sicilia. Il Führer – intanto che passa dicembre, vengo a saperlo – trovò ingaggio come tinteggiatore a casa Abbate, a Palermo. Tutto questo quando Fulvio – artista, fondatore di Situazionismo & Libertà, titolare di Teledurruti, la tivù monolocale da dove sparge arte e sovversione contro la P2 culturale della sinistra – era ancora bambino.
Aforza di fissarti finiva che “vinceva sempre lui”. Così era Hitler che campò fino a tutti gli anni 60 del secolo scorso in Sicilia. Il Führer – intanto che passa dicembre, vengo a saperlo – trovò ingaggio come tinteggiatore a casa Abbate, a Palermo. Tutto questo quando Fulvio – artista, fondatore di Situazionismo & Libertà, titolare di Teledurruti, la tivù monolocale da dove sparge arte e sovversione contro la P2 culturale della sinistra – era ancora bambino.
Fulvio lo chiamava zio e un giorno lo portò con sé a scuola. C’era da parlare col signor maestro, papà e mamma avevano da fare e fu per ciò che Fulvio ci andò accompagnato da Hitler. Non erano proprio buone le notizie, anzi – intanto che passa dicembre, sorvolo su certi dettagli – ma non finì che Fulvio dovette prendersi, tra capo e collo, una robusta buccia dal Cancelliere del Reich nella veste di premuroso tutore?
Notizie proprio pessime furono. Ma intanto che passa dicembre, carta canta. E nel libretto delle valutazioni, questo dovette leggere il Führer: “Lo scolaro Abbate Fulvio mostra intelligenza limitata e, quel che è peggio, appare dotato di scarsa volontà allo studio, per giunta non presenta alcuna attitudine, pratica però l’igiene”.
Andava male anche in matematica, il piccolo Fulvio. E non finì che dovettero cercargli uno che lo seguisse nel doposcuola, giusto Ettore Majorana, giusto lo scienziato, quello che tutti – compreso Leonardo Sciascia – davano per scomparso? Giusto il genio della fisica teorica per fargli entrare in testa le divisioni a una cifra dovettero prendergli, a Fulvio. Non aveva però particolari qualità quel Majorana, “uno che al massimo” – leggo da “Intanto anche dicembre è passato”, il romanzo di Fulvio Abbate (edizioni Baldini&Castoldi, 15,90 euro) – “avrebbe potuto riempire un fiasco di acqua pesante, nulla di più”.
Fu dunque un’infanzia normale, quella di Fulvio. Ebbe per papà Quattroruote e per mamma Camus nel senso che i suoi genitori leggevano uno la rivista e l’altra, invece, il fascinoso autore di “Caligula”. La madre, Gemma, diceva a Fulvio di conoscerlo bene Camus. Ne aveva avuto, diceva ancora – lo diceva sempre, “la bugiarda!” – un’ottima impressione. Si erano incontrati a Parigi, la città meta di tutti i sogni di Fulvio, ma Camus è proprio un personaggio minore in questo romanzo dove grazie un pezzo di pellicola Ferrania resta un frammento che innalzerà un punto interrogativo gnoseologico: “Perché le foto a colori sono infinitamente più brutte di quelle in bianco e nero?”. In quel pezzo di celluloide c’è Hitler seduto sui gradini della cattedrale di Cefalù, si vede e non si vede, non si capisce bene ma la domanda ricorrente fa sempre epica perché nel frattempo il Führer sparisce, viene eliminato dalla mafia e questa incursione di Cosa nostra che s’intromette nelle vicende del mondo non è patafisica, per come ci si aspetterebbe da Abbate, ma una cosa tutta risolta in un inciampo dello spirito del tempo.
Intanto che passa dicembre, lo dico: in questo libro si specchia Fulvio. C’è lui in grande spolvero. E’ un libro che solo fosse una telecamera potrebbe registrare, nel lettore, tutta una teoria di sorrisi, risate, lacrime e stupore. Certo, stupore. Per come la letteratura – proprio adesso che i romanzi sono diventanti come i libri di poesia, tutta merce invenduta – possa accompagnare nel mondo dietro al mondo. E sarà per questo che glielo silenziano a Fulvio, il libro, quelli della P2 de sinistra. Sono quelli che sposando le più potenti ovvietà del luogo comune, tutti padroni del regime ufficiale per come sono – da “Che tempo che fa” per arrivare a “Sanremo”, per tramite dello stesso amministratore delegato, ossia Fabio Fazio – non capiscono questo genio così squisitamente comunista. Uno come Fulvio, appunto. E non ha certo bisogno di farsi accreditare al Festival di Mantova perché infine, lui, il manifesto di Situazionismo & Libertà, l’ha avuto disegnato da Wolinski e perciò non può che risultare troppo eccentrico, troppo anarchico, troppo avanti.
Per come è lui. Come quando scrive: “I raccomandati ci hanno occupato anche i posti dalla parte del torto. E tu, stronza, mi parli ancora di Brecht?”. Ed è un parlare a se stesso. A forza di fissarti finiva che “vinceva sempre lui”.
E dunque tu, Fulvio, parli ancora attraverso i libri?
Post scriptum
Lui ci voleva andare a Sanremo. Ma non lo vogliono. Ascoltate la sua canzone. Con lui Rudy Marra e la Benito Marx Orchestra.
Pietrangelo Buttafuoco. Nato a Catania – originario di Leonforte e di Nissoria – è di Agira. Scrive per il Foglio.
Eugenio Scalfari e i suoi primi 90 anni. Redazione su correttainformazione.it il 28 Aprile 2014
Questo sito è nato per “dare voce a chi non ce l’ha” e per esprimere voci che non trovano spazio nel mainstream. Nonostante questo, pubblichiamo l’articolo di un nostro collaboratore su Eugenio Scalfari. Conoscere la sua storia è importante per conoscere la storia di questo Paese, di come è strutturato il potere culturale e i suoi legami con la politica. In particolare, con quella che Fulvio Abbate chiama la “P2 culturale della sinistra“. La storia di Eugenio Scalfari e del “Partito Repubblica-L’Espresso” fa comprendere, infatti, molto bene la deriva culturale e politica della sinistra italiana. Una sinistra passata dalla difesa dei diritti dei lavoratori a quella dei diritti “cosmetici” e che ha avuto il suo approdo finale nel Partito Democratico e in Matteo Renzi. Buona lettura.
La Redazione
Insieme a Indro Montanelli, Giorgio Bocca, Enzo Biagi e Piero Ottone, Eugenio Scalfari è uno dei pilastri del giornalismo di questo Paese. Se ci limitiamo a questa vecchia generazione, la storia del giornalismo italiano contemporaneo potrebbe iniziare con Montanelli, il “principe del giornalismo”, uno che il secolo scorso l’ha vissuto quasi tutto andandosene nel 2001 qualche mese prima del crollo delle Twin Towers di New York. Classe 1909, Montanelli è il più vecchio di questa generazione di osservatori: vive le due guerre, attraversando il Fascismo con cui rompe dopo le guerre d’Etiopia e di Spagna, vede risorgere l’Italia dopo la Resistenza e osserva tutta la stagione della Prima Repubblica sino a Berlusconi, suo editore e poi nemico. Più giovani sono Biagi e Bocca, nati nel 1920, che a loro volta superano di quattro anni Ottone ed Eugenio Scalfari, entrambi del 1924. Direttore del “Secolo XIX” (dal 1968 al 1972) e poi del “Corriere della Sera” (dal 1972 al 1977), Ottone compirà 90 anni il prossimo 3 agosto – e intanto è già uscita una sua autobiografia: Novanta – mentre Eugenio Scalfari li ha compiuti il 6 aprile.
Per raccontare la storia della Repubblica di Barbapapà – questo il soprannome con cui Eugenio Scalfari viene spesso chiamato per la sua candida barba bianca che dà il titolo alla “storia irriverente” di Giampaolo Pansa – non dobbiamo sforzarci più di tanto, almeno se ci limitiamo a raccontarne gli eventi. C’è un Racconto autobiografico (appena uscito da Einaudi), che molti hanno già potuto assaporare all’inizio del “Meridiano” – La passione dell’etica – a lui dedicato (2012). Qui, mescolando quel rigore pulito della sua scrittura giornalistica e la lucida dolcezza del letterato che racconta i propri eventi personali, Eugenio Scalfari ripercorre la propria esistenza, iniziata a Civitavecchia alle 10.30 il 6 aprile del 1924. In questa città, all’ultimo piano di un palazzo ottocentesco, nella piazza centrale della città, nasce da una famiglia di origini calabresi, ma è a Sanremo (dove la sua famiglia si trasferisce nel 1938) che frequenta il liceo classico, compagno di banco di Italo Calvino.
Come Margherita Hack, anche Eugenio Scalfari a causa della guerra salterà l’esame di maturità. Questi sono gli anni – scrive – in cui “il viaggio ebbe il suo consapevole inizio”, gli anni delle letture e dei fermenti intellettuali, e anche dell’incontro con il Fascismo: “Io ero fascista. Ero cresciuto nel fascismo come tutti i giovani della mia età”, ma in qualche modo sarà poi il Fascismo ad allontanarsi da lui, quando nel 1943 il Guf (Gruppo universitario fascista) lo espelle dopo la pubblicazione di alcuni articoli su “Roma Fascista”. All’Università sceglie la facoltà di Giurisprudenza, e al termine degli studi finirà a lavorare in banca, che certo sarà anche “una specie di finestra aperta sulla società”.
Ma il destino di Eugenio Scalfari sembra seguire un altro disegno, simile a quello di un Kafka o di uno Svevo, impiegati anche loro – come racconta Luciano Vandelli in Tra carte e scartoffie (2013) – ma con una vocazione sotterranea per la scrittura, che in Scalfari si configura come “l’impossibilità di fare altrimenti”. Scrittura “in quanto comunicazione e quindi anche insegnamento. Insegnamento delle proprie idee e quindi anche politica”; e così Eugenio Scalfari inizia a scrivere “di economia, di politica, di filosofia. Scrivere e insegnare”. Mettendo tra parentesi l’esperienza adolescenziale di “Roma Fascista”, dobbiamo aspettare il 1947 per la sua entrata nella pubblicistica sulla “Nuova antologia”, con un saggio sulla politica finanziaria della Destra storica. Di qui le sue collaborazioni con il “Mondo” di Mario Pannunzio e con l’“Europeo” di Arrigo Benedetti con cui, nel 1955, fonda il settimanale “L’Espresso”: la linea politica è di centro-sinistra tanto che, con il Partito Socialista, Eugenio Scalfari – che si assesterà su posizioni liberali di sinistra – intraprenderà un’esperienza politica diretta sedendo in Parlamento dal 1968 al 1972.
Il 14 gennaio 1976 esce il primo numero di “Repubblica”: L’amore, la sfida, il destino. Un amore, perché Eugenio Scalfari sogna da anni di progettare un quotidiano nazionale tutto suo, di cui almeno è direttore anche se non del tutto proprietario. Una sfida, perché “Repubblica” nasce un bel giorno, dopo un periodo di propaganda, ma nessuno sa come andrà a finire – senza contare che il “Corriere”, a quell’epoca diretto proprio da Ottone, è un giornale collaudato, vende tanto ed è una vera e propria sfida raggiungerlo. Impresa non impossibile se pensiamo che il primo giorno il quotidiano di Scalfari – che apre con l’incarico a Moro e un’intervista al segretario del Psi Francesco De Martino – vende 300 mila copie; ma che si fa sempre più lontana quando una settimana dopo scende a 70 mila, assestandosi su questa cifra per due anni. Ma il destino che qui entra in gioco è quello di un direttore tenace, imprenditorialmente vincente, che ha già fatto fruttare all’“Espresso”, da direttore, un milione di copie. Ma questa è una sfida più grande, perché “Repubblica” non è un settimanale e ha la pretesa di essere il quotidiano più letto.
Oggi la sfida è vinta: “Repubblica” ha battuto il “Corriere” e, sulla scia del successo raccolto in questi anni, si è collocata sulla strada del rinnovamento. Ha cambiato grafica varie volte, ma credo che il suo successo stia nell’essere riuscita a cogliere, di volta in volta, gli umori dei suoi lettori. E oggi sta imboccando la strada di un nuovo giornalismo, riducendo lo spazio dedicato all’informazione partitica e alle notizie della giornata in generale, e sostituendolo con approfondimenti, reportage e interviste. Mentre lo spazio del commento si è sviluppato, “R2” è diventata più ampia. I giornali, definiti da Hegel “la preghiera del mattino dell’uomo moderno”, stanno cambiando anima e bisogna prenderne atto: non possono più aspirare ad essere la principale fonte di notizie perché ormai il loro posto è stato occupato dai loro siti, questi sì, i veri “quotidiani”. E al quotidiano cartaceo non resta che mettersi l’anima in pace, sperare di non scomparire vista la crisi degli ultimi anni che ne ha drasticamente ridotto le vendite, affrontando il cambiamento, l’unico possibile, prima che sia troppo tardi.
Nel 1996, Eugenio Scalfari passa il testimone della direzione di “Repubblica” a Ezio Mauro (tuttora in carica), ma continua ad esserne editorialista di punta e a tenere, sull’“Espresso”, la rubrica Vetro soffiato. Ogni domenica, sul lato sinistro, c’è il fondo a sua firma che continua nella pagina dedicata ai commenti. È “la messa cantata della domenica”, lo spazio istituzionale riservato al fondatore, col passare degli anni sempre meno formale, nel senso che qui Scalfari parla di politica, di economia, ma anche di tutto ciò che gli passa per la testa. È una sorta di “flusso di coscienza” l’“articolo scalfariano”, cioè – scrive Alberto Asor Rosa nel suo saggio introduttivo al “Meridiano” – “un mix estremamente sapiente di analisi, informazione, intrattenimento e giudizio politico e civile”; e non è strano sentire citare Montaigne o Cartesio e qualche riga dopo leggere una bacchettata a qualche collega o direttamente al presidente del Consiglio.
A partire da questi anni, la scrittura giornalistica – di analisi e di commento dei fatti della politica, dell’economia e della storia – viene completata con un’altra dimensione, che potremmo definire “letteraria”, fatta di riflessione su di Sé e sulla natura umana. Eugenio Scalfari abbandona quel linguaggio tagliente tipico dei suoi scritti più impegnati e dà vita ad una “riflessione saggistica etico–filosofica”: Incontro con Io (1994), L’uomo che non credeva in Dio (2008), Per l’alto mare aperto (2010), Scuote l’anima mia Eros (2011) e L’amore, la sfida, il destino (2013), ovvero “un viaggio dentro me stesso, ma non per tracciare un’autobiografia psicologica, bensì per raccogliere un materiale documentario utile a raccontare la natura della nostra specie”.
Eugenio Scalfari ha scritto moltissimo, ha intervistato grandi personaggi (da Berlinguer a papa Francesco) e ha svolto attività politica, non solo attraverso la penna, ma anche in Parlamento. La sua figura potrà non piacere, il suo narcisismo (di cui del resto non ha mai fatto mistero) potrà irritare: ma le sue idee, proprio perché impresse sulla carta, saranno giudicate dai posteri e potranno essere condivise o criticate. E Scalfari meriterà comunque di essere degno di rispetto: e per la sua storia e per l’influenza che il suo modo di fare giornalismo ha avuto sulle generazioni a venire.
Fulvio Abbate per Dagospia il 15 maggio 2018
Ora lo so, sono anch’io “un fascista”, e lo so grazie a Michele Serra. I fatti? Sono reduce dal Salone del libro di Torino, dove ieri ho messo in scena una sorta di “lezione” dedicata al ’68, sul modello delle dimostrazioni Tupperware di un tempo, mostrando in breve gli “oggetti” di quei giorni, come un piazzista della Storia e della rivolta.
Lì, proprio lì, qualche ora prima, giungendo trafelato nell’albergo attiguo al Lingotto, intanto che mi avviavo verso la camera, trolley pesante al seguito, dal nulla, ho visto apparire Michele Serra, proprio davanti alla porta girevole della hall dell’hotel. Subito, amichevolmente, mi sono accostato a lui sorridendogli.
Che errore madornale! Per la mia ingenuità imperdonabile, per la mia emotività, e ancora di più per l’orgoglio subiti feriti, trucidati, appesi a testa in giù come quell’altro a piazzale Loreto, una citazione cruenta, questa, che verrà ulteriormente utile per la nostra riflessione a breve come si sarà intuito.
L’uomo, lo scrittore, l’autore di satira “preventiva” imperdibile (ancora adesso esercitata in modo esemplare su “L’Espresso”), Serra, ha infatti risposto al mio saluto affettuoso con un’immediata espressione di risentimento, meglio, con i segni facciali del puro disprezzo; la ragione del suo orrore verso la mia presunta immonda persona risiede nell’articolo che poche settimane addietro ho pubblicato proprio su questo portale, Dagospia, appunto.
Alla mia precisazione disarmata che trovavo assurdo il suo sprezzo per un pezzo che molti hanno ritenuto invece oggettivamente empatico, se non candidamente “affettuoso” (sic), Serra ha risposto, altrettanto gelidamente con queste parole, precise come lame: “Hai offeso il lavoro di mia moglie!”, esattamente così, il già inventore del giornale satirico “Cuore” e in seguito dell’ “Amaca”, riflessione quotidiana cara al lettore di sinistra con prenotazione obbligatoria su “Repubblica”, ribadito con volto gelido rivolto al miserabile, all’inemendabile.
La cosa più orribile erano però le facce accondiscendenti delle persone che lo accompagnavano, non ultimo un dirigente della radiofonia, la più edificante e di stretta osservanza veltroniana, doppia lezione di civiltà inflitta a chi non meriterebbe neppure un cenno di saluto.
Per chi non dovesse rammentare il mio pezzo uscito qui, oltre a immaginarmi in viaggio, in accappatoio bianco griffato delle nostre rispettive iniziali, proprio con l’amico Michele, così infatti lo supponevo, raccontavo ancora di una linea di profumi per anime belle culturalmente testate che risponde al brand “Serra e Fonseca”, tutto vero, dove, fra i vari prodotti, spicca e brilla sobriamente l’“Eau de moi”, una fragranza accompagnata da un racconto esclusivo del medesimo Michele Serra, c’è tutto nel sito, nero su bianco, lo dico ai molti che non credevano fosse tutto vero, pensando semmai che si trattasse di una mia invenzione situazionista comprensiva di falso banner e istruzioni.
Adesso il Lei è d’obbligo. Domanda: Scusi, Serra, ma se Lei, insieme alla sua apprezzata e amata consorte Giovanna Zucconi (tralascio gli altri cognomi per brevità repubblicana, compreso quel Fonseca che figura nel logo) ma se Lei, proprio Lei, maestro di satira, co-realizza, come dire, una sorta di “Arbre magique” per hipster di sinistra cui è cara la cosiddetta, sebbene esclusiva, “vocazione maggioritaria”, si aspetta forse plauso da noi “fascisti”, e tuttavia ancora adesso votati agli acidi del marxismo-mandrakismo?
Dimenticavo, all’obiezione che anche Maurizio Crozza si è premurato di riprendere nel suo show televisivo la nostra rivelazione, Lei ha risposto senza esitazioni: “Infatti Crozza è un fascista” (sic), testuale, mi smentisca se dico bugie, e all’ulteriore mia obiezione, “E dunque anch’io a questo punto lo sarei, fascista?” Ha concluso: “Sì, anche tu sei un po’ fascista”.
Sempre accompagnato dalla complicità del dirigente della radiofonia già citato. Dimenticavo, anche quest’ultimo ha lamentato un mio precedente vergognoso twitt dove immaginavo un’apoteosi per l’opera omnia teatrale di Concita De Gregorio proprio al già Teatro Valle Occupato di Roma, altro luogo della narrazione per anime belle di cui sopra, aggiungendo, con benevolenza, “… ciononostante ho continuato a invitarti in radio a presentare il tuo libro”, testuali anche queste affettuose parole. E’ davvero istruttivo il Salone del libro di Torino.
Dimenticavo, lì in radio sarò io a non voler rimettere mai più piede, neppure se dovessero venirmi a prendere, quassù su uno dei Sette Colli dove abito, con la portantina, come ho scritto già sulla mia pagina Facebook: non siete voi a lasciarmi fuori, sono io a chiudervi dentro al vostro monolocale di turisti del pensiero, della letteratura e della politica, come già ho fatto quando nel 2014 ho autocandidato il mio romanzo al Premio Strega “contro la P2 culturale di sinistra”, e perfino della satira, talvolta perfino “organica”, come quella di Staino, che ha infatti dato del “bullo” a Crozza nella difesa d’ufficio PD di Serra; quanto invece al Lingotto, mi sa che l’anno prossimo, giusto per dare conforto alle opinioni di Serra, conto di giungere sul cavallo bianco del mancato ingresso di Mussolini ad Alessandria d’Egitto, sono questi i veri lussi che un artista deve donare a se stesso.
Massimo Colaiacomo per “la Repubblica - Edizione Roma” il 18 luglio 2022.
Come trasformare un museo da deposito, prezioso e importante quanto si vuole, di testimonianze e memorie artistiche in un luogo che parla al presente del visitatore e alza il velo sul futuro? Una domanda simile pareva improponibile a metà del Novecento e non poteva certo avere risposte ovvie e scontate.
Palma Bucarelli, storica direttrice della Gnam (la Galleria nazionale di arte moderna di Roma ) dal 1942 al 1975, è stata in questo una pioniera, una visionaria che ha rivoluzionato per quel tempo la fruizione dell'arte. Grande apertura culturale e preparazione scientifica, indipendenza di giudizio, viaggiatrice infaticabile, protagonista della vita mondana e curiosa di ogni novità, erano qualità che in lei si esaltavano grazie anche a un carattere forte e asseverativo.
Nata a Roma nel 1910, Palma si era laureata con Piero Toesca in storia dell'arte. Al corso di perfezionamento post- laurea conosce Giulio Carlo Argan, storico dell'arte e futuro sindaco di Roma, con il quale stabilisce un rapporto, personale e professionale durato l'intera vita.
Dopo aver vinto un concorso " per la carriera direttiva degli storici dell'arte", lavora per un periodo alla Galleria Borghese, prima di essere trasferita a Napoli dove rimane per un anno. Nel 1937 torna a Roma, ispettrice alla Sovrintendenza del Lazio. Su questa circostanza aleggiavano già all'epoca non poche voci: si disse che il suo rientro a Roma fosse stato favorito da Paolo Monelli, prestigioso giornalista, suo compagno e molto amico di Giuseppe Bottai, ministro della Cultura nel regime fascista.
Oppure da Argan, collaboratore, con Cesare Brandi, dello stesso ministro. Senza escludere che sia stato lo stesso Bottai, di sua iniziativa, invaghito della giovane Bucarelli, ad accogliere la richiesta di trasferimento. Perché Palma aveva bellezza e fascino, capace di sedurre chiunque. Il buon Monelli ne fu ammaliato, se è vero che dal loro primo incontro, nel 1936, aspettò 27 anni prima di sposarla, nel 1963.
Sulla vita privata di Bucarelli, però, fa aggio il suo profilo di sovrintendente innovatrice se non proprio rivoluzionaria alla Galleria.
Amante e mecenate della pittura astratta e informale, la sua apertura all'arte contemporanea, con la costruzione di percorsi didattici e cicli di conferenze per favorirne la comprensione a un più ampio pubblico incontrò non pochi ostacoli e resistenze, al punto che arrivarono interrogazioni parlamentari.
Come quelle di Mario Alicata, geloso custode dell'ortodossia estetica marxista, nel 1951, mentore di quel "realismo socialista" lontano dai gusti della Bucarelli. E l'anno dopo, una nuova interrogazione per denunciare l'acquisto di opere di Klee, Ernst, Giacometti e Picasso. Fra gli italiani Morandi, Scipione, Savinio.
E ancora Perilli, Consagra, Dorazio, Turcato, Corpora, Scialoja, Capogrossi.
A ogni acquisto e a ogni grande mostra ( Picasso, Scipione, Mondrian) si accompagnano polemiche infuocate da parte della politica. Solo negli anni Sessanta arrivano i primi importanti riconoscimenti. È il caso del ciclo di conferenze, nel 1961, negli Stati Uniti e la nomina, nel 1962, a commendatore della Repubblica da parte del presidente Antonio Segni.
L'ansia di promuovere quelle novità che incontrano il suo gusto non cessa con gli anni. Diventa anzi febbrile se è vero che Palma decide di imprimere un'inedita svolta all'attività della Galleria ospitando gli spettacoli di Tadeusz Cantor, i concerti di Nuova Consonanza, la mostra di Piero Manzoni ( 1971) con il controverso acquisto della " Merda d'artista", con ovvie e inevitabili nuove interrogazioni parlamentari. La sua vita pubblica si conferma un crocevia di polemiche feroci seguite automaticamente da altrettanti riconoscimenti. Così nel 1972 riceve la Légion d'Honneur e diviene Accademica di San Luca, per essere nominata, nel 1975, Grande ufficiale della Repubblica. Lasciata la Galleria per la pensione, prima di morire, nel 1998, dona una sessantina di opere d'arte a quella che era stata la sua casa e in cui effettivamente abitò, dal 1952, dopo averne ricavato un piccolo appartamento.
Gli antimoderni che dicono no a ogni novità. Vincenzo Trione su Il Corriere della Sera il 12 Luglio 2022.
C’è un ampio gruppo di intellettuali di sinistra impegnato a opporre rifiuti ideologici a qualsiasi cambiamento, portato a fare barricate contro ogni riforma e iniziativa che riguardi i beni culturali
Le concessioni dei siti archeologici per i concerti (Circo Massimo per i Måneskin e Caracalla per l’opera lirica)? Il trasferimento della Biblioteca di Storia dell’arte da Palazzo Venezia a Palazzo San Felice (a Roma)? Lo spostamento della Biblioteca Nazionale di Napoli all’Albergo dei poveri? E ancora: il patrimonio dei libri di Umberto Eco diviso tra Brera e Università di Bologna? Il prestito all’estero di alcuni capolavori? L’esposizione delle straordinarie sculture della controversa famiglia Torlonia? E l’arena da costruire al Colosseo? Domande diverse alle quali la risposta è sempre la stessa. «Io preferirei di no», come ripete il Bartleby di Melville.
Potrebbe essere, questa, la battuta utilizzata dai tanti iscritti all’ampio, diffuso e trasversale partito degli antimoderni di sinistra. Nella maggior parte dei casi, si tratta di intellettuali che condividono inclinazioni conservatrici. Da anni questo partito è in azione, impegnato a opporre rifiuti ideologici a qualsiasi cambiamento, portato a fare barricate contro ogni riforma dei beni culturali. Pur indossando la maschera dei progressisti, gli animatori del gruppo sembrano non essere mai usciti dal Novecento.
Mirano a non intaccare lo status quo, attenti a non alterare consuetudini oramai ridotte a ritualità svuotate di senso, afflitti da un passatismo rigido, ostili nei confronti di ogni avanguardia e di ogni contaminazione, interpreti di un’Italia che guarda soprattutto dietro di sé, ancorata al culto dell’antichità e del Rinascimento. I rischi insiti nelle sistematiche e prevedibili interdizioni sono chiari. Incapaci di farsi coscienze critiche, gli antimoderni di sinistra tendono a valutare in modo pregiudiziale iniziative e provvedimenti volti ad alterare l’ordine delle cose, senza entrare davvero nel merito di quelle proposte. Voci di un Paese che troppo spesso vive il presente non come opportunità né come domanda aperta, ma come inciampo della storia.
Rivoluzionari, cattolici, anarchici ed elitari. Il pantheon è questo. Francesco Giubilei il 14 Luglio 2022 su Il Giornale.
Il conservatorismo ha tante facce e va da Gioberti e Croce fino ai giornalisti-intellettuali di destra
Se Giuseppe Prezzolini ha rappresentato nel '900 una figura centrale per il conservatorismo italiano, nel secolo scorso è esista una tradizione di pensiero conservatore caratterizzata da numerose figure di primo piano. Sebbene in Italia il termine conservatore non abbia mai goduto di buona stampa (d'altro canto già Leo Longanesi affermava «Sono un conservatore in un Paese in cui non c'è nulla da conservare»), è possibile tracciare un pantheon del conservatorismo italiano pur con alcune necessarie precisazioni.
In Italia il conservatorismo è stato spesso identificato come un'area culturale legata al mondo americano e anglosassone, anche se esiste una tradizione latina con proprie specificità. Dovendo riscontrare una genesi del conservatorismo italiano, possiamo identificarla già nell'antica Roma con il concetto di mos mairoum e nel Medioevo cristiano in cui si forma l'identità italiana ma anche nelle figure di Giambattista Vico e Vincenzo Cuoco, nel pensiero di Giacomo Leopardi e nel Del Primato morale e civile degli italiani di Vincenzo Gioberti.
Eppure è nel '900 che si concretizza un pensiero conservatore ben definito a partire dalla pubblicazione de La filosofia di Marx di Giovanni Gentile (uscito nel 1899) e Materialismo storico ed economia marxista di Benedetto Croce pubblicato l'anno successivo. Sebbene né Gentile né Croce siano stati conservatori tout court, troviamo in loro tratti di conservatorismo (come nel Perché non possiamo non dirci cristiani crociano). D'altro canto, a posteriori si possono individuare nel pensiero di autori che in vita non si sono definiti conservatori, posizioni vicine al conservatorismo, non essendo un'ideologia ma uno stato di natura e un modo di essere.
Fucina del pensiero conservatore nostrano a inizio secolo sono le riviste letterarie fiorentine, dal Leonardo a La Voce passando per Lacerba, con i rispettivi protagonisti e il trittico Prezzolini, Giovanni Papini e Ardengo Soffici.
Come parlare di una singola destra sarebbe sbagliato poiché esistono tante destre, allo stesso modo il conservatorismo non è un monolite, lo testimonia l'esistenza di un pensiero rivoluzionario conservatore che, sebbene sia nato in Germania nei primi anni Venti del '900, si sviluppa anche nella penisola. Riferimento è il movimento di Strapaese rappresentato da Mino Maccari, Curzio Malaparte e Leo Longanesi e le rispettive riviste Il Selvaggio, Italia Barbara e L'Italiano (antesignano di questo filone è il romagnolo Alfredo Oriani). C'è anche un conservatorismo cattolico il cui principale esponente è Augusto Del Noce, uno nazionale rappresentato da Enrico Corradini, uno estetico incarnato da Mario Praz e uno contrario alle derive della massa interpretato da Panfilo Gentile. Non a caso i teorici delle élite, Vilfredo Pareto, Gaetano Mosca e Roberto Michels, costituiscono un riferimento indiscutibile.
Un contributo spesso sottostimato nella diffusione della cultura conservatrice lo hanno avuto gli editori a partire da Attilio Vallecchi, passando per Giovanni Volpe nel dopoguerra e Alfredo Cattabiani come direttore editoriale della Rusconi, oltre a Leo Longanesi, al quale si deve la rivista Il Borghese (trampolino di lancio per Gianna Preda) e il ruolo insuperabile di scopritore di talenti tra cui Ennio Flaiano. Sorte diversa toccò a Giuseppe Tomasi di Lampedusa il cui Gattopardo (romanzo a tutti gli effetti conservatore), fu pubblicato da Giangiacomo Feltrinelli. Se i temi affrontati nei libri di Guido Piovene, Carlo Sgorlon e anche Dino Buzzati con i suoi racconti intrisi di spiritualità (lo spiega la critica di Fausto Gianfranceschi all'autore bellunese) rientrano in una visione del mondo conservatrice, lo è senz'altro il piccolo mondo antico dell'autore italiano più venduto al mondo: Giovannino Guareschi.
Che dire poi del mondo giornalistico? Sarebbe sufficiente citare l'anarco conservatore Indro Montanelli ma non si può dimenticare Giovanni Ansaldo, così come il direttore del Corriere della Sera Mario Missiroli.
Essere conservatori significa avere a cuore la forma tanto quanto la sostanza, vuol dire amare l'eleganza, la bellezza, l'educazione, rispettare la natura e il sacro, credere nello spirituale ancor prima che nella vita materiale, conservare la propria identità proiettandola nel futuro, amare la patria e la famiglia, difendere i più deboli, rispettare la legge, credere nel principio di autorità. Essere conservatori è prima di tutto uno stile di vita e, chiunque incarni questi valori, rientra di diritto nel pantheon del conservatorismo.
110 anni dalla nascita. Chi era Joseph Gabel, il sociologo che smascherò la falsa coscienza. Giulio Laroni su Il Riformista il 13 Luglio 2022.
Walter Benjamin diceva che le potenzialità rivoluzionarie di un’opera o di un fatto passato si esprimono pienamente solo in una certa epoca, in un momento propizio in cui si compie la sua “ora della conoscibilità”. Per nessuno ciò è così vero come per Joseph Gabel (1912-2004), nato il 12 luglio di 110 anni fa, il cui pensiero si abbatte come uno choc improvviso sul nostro presente. Autore di un testo fondamentale come La falsa coscienza (1962), il più importante e attendibile studio esplicitamente dedicato alla reificazione, fu uno dei più interessanti sociologi marxiani del Novecento ed ebbe un’influenza profonda sul pensiero di Guy Debord. Fu anche un attento indagatore delle dinamiche del razzismo, del maccartismo, della tortura giudiziaria.
L’intera opera di Gabel è leggibile alla luce di un tragico episodio che accade alla sua famiglia, che egli ricorda nella dedica dell’edizione in inglese de La falsa coscienza: la morte di sua madre ad Auschwitz, nel 1945. Auschwitz può infatti essere inteso come un vero e proprio luogo di reificazione, animato dall’intenzione di togliere agli esseri umani la loro facoltà di totalità concrete e di trasformarli in cose, in numeri. In termini gabeliani, si potrebbe dire che l’universo concentrazionario esprime idealmente un rifiuto assoluto della dialettica e di ciò a cui essa in ultima analisi conduce: il riconoscimento e la libertà. Esponente di un “marxismo aperto”, come lui stesso lo definisce, Gabel è immerso in un orizzonte culturale audace ed eterodosso: c’è ovviamente il Lukács di Storia e coscienza di classe, l’Adorno degli Studi sulla personalità autoritaria, la psichiatria fenomenologica di Eugène Minkowski e Ludwig Binswanger (egli ha anche una formazione psichiatrica), l’assiologia di Eugène Dupréel. E, anche se non è tra i suoi autori di riferimento, si sente in lui una profonda affinità con l’umanesimo di Erich Fromm.
Ne La falsa coscienza i temi della reificazione, dell’alienazione e dell’ideologia vengono sottoposti ad una serrata indagine filosofica, sociologica e psichiatrica, che porta alla luce il rapporto prima misconosciuto che li lega alle strutture della schizofrenia. Scopriamo dunque che certe forme di propaganda politica, di etnocentrismo, di populismo hanno in comune con il linguaggio schizofrenico un numero sorprendente di meccanismi. La prospettiva di Gabel è all’insegna di una critica immanente, che lascia parlare l’oggetto e rifiuta di imporsi dall’esterno su di esso. Il pensiero reificato è per lui soprattutto un pensiero non dialettico, un pensiero cioè che rifiuta di farsi campo di tensioni e così facendo si pietrifica, si dogmatizza, si trasforma in codice etico binario. La dialettica, parafrasando Georges Lapassade, è invece per lui una “logica della libertà”.
Incredibilmente attuali sono le sue riflessioni sul garantismo giuridico, nelle quali sottolinea il carattere reazionario del giustizialismo – che lui definisce “alienazione giudiziaria” – e afferma appassionatamente la funzione progressiva del principio della prescrizione. Questa, secondo lui, contribuisce a rendere la giustizia più dialettica e personalizzante, facendosi inoltre portatrice di un’istanza di temporalità storica. “Per il pensiero totalitario – scrive ne La falsa coscienza – l’attività antistatale è extratemporale al pari dello stato stesso. Quali che siano le sue formulazioni teoriche, è certo che in materia politica la giustizia totalitaria si preoccupa scarsamente di questioni di prescrizione e di non-retroattività.” Secondo Gabel il diritto non è separabile da una certa quota di reificazione, ma esistono degli strumenti “dereificanti” che in qualche modo arginano questa tendenza, prima fra tutti la figura dell’avvocato, da lui associata a quella dello psicoanalista.
Ma l’impressionante attualità del suo pensiero si estende a molte altre questioni. Egli ci dà ad esempio una chiave di lettura per approfondire la psicologia del razzismo andando oltre la mera denuncia. Alla base del comportamento razzista, ci dice Gabel, agisce un processo di essenzializzazione. L’individuo di etnia diversa viene visto non come una “sintesi dialettica di qualità e di difetti”, come lo sono tutti gli esseri umani, ma come un soggetto privo di sfumature, tipizzato, spersonalizzato e dunque trasformato in cosa. La sua eterogeneità viene quindi negata dalla percezione razzista, che proietta su di lui un’immagine caricaturale e pretende di ricondurlo a uno schema sempre ripetibile. Ciò ci mette in guardia dai paradigmi di tipo identitario ed essenzialista oggi così diffusi anche a sinistra, che rischiano di riprodurre a volte consciamente e a volte involontariamente i meccanismi stessi della percezione razzista.
Gabel si sofferma anche sul fenomeno del sociocentrismo (inteso qui in un senso mutuato da Piaget), attraverso il quale i convincimenti egemoni di una certa società vengono considerati come portatori di verità assolute, quasi divine, alle quali le coscienze degli individui debbano necessariamente sottomettersi. Di questa forma di egocentrismo collettivo, lo stesso che nei fascismi induce all’autorepressione del dissenso, egli indaga la funzione delirante e reificazionale. Una nozione che può rivelarsi preziosa in un tempo, come il nostro, nel quale la società – e l’assetto capitalistico che ne è alla base – viene elevata a natura, in cui sono tornate di gran moda le sanzioni sociali e i roghi delle streghe, in cui il pensiero di gruppo minaccia qualsiasi approccio dialogico al dibattito culturale. Tra le espressioni del sociocentrismo vi è anche la cosiddetta “ideologizzazione della sensibilità storica” o “storia riscritta”, che induce a dare della storia un’interpretazione piegata alle convenienze del contesto sociale in cui si vive. Un processo che Gabel definisce “reificazione del tempo” (affine a quella che oggi chiamiamo “cancel culture”) e che ritrova anche nella clinica della schizofrenia. Per spiegarlo fa l’esempio di un generale americano che si sia distinto per una condotta di grande nobiltà e che poi abbia tradito il suo Paese.
Secondo una concezione ideologizzata della storia, il suo tradimento rivela la sua intima natura di traditore. Secondo una lettura dialettica, invece, egli non si è mostrato all’altezza dei successi prima ottenuti. Con un’espressione particolarmente affascinante, Gabel ci invita a cogliere di questo generale la “melodia vitale”, il percorso di vita, a non usare il suo tradimento come lente attraverso cui rileggere la sua vita passata. Inutile dire che ciò nulla ha a che vedere con letture revisionistiche del fascismo (che sin dai suoi esordi ha rivelato la sua natura mortifera), ma anzi offre argomenti per contestarle. Gabel si occupa anche di molti altri temi. Compie ad esempio un’interessante critica dell’aggressività come comportamento antidialettico e, al contrario, allude alla carica rivoluzionaria e dereificante dell’erotismo. Dal suo pensiero radicale, umanistico e libertario potrebbe nascere, domani, una sinistra nuova. Giulio Laroni
Gianni Bonina per “Libero quotidiano” il 4 luglio 2022.
Se nell'Ottocento Rubempré di Balzac poteva pensare che per diventare famoso gli fosse necessario scrivere un romanzo, oggi la regola è che per scrivere un libro bisogna essere già celebri. Di conseguenza un autore di talento si vede scavalcato, nelle scelte di editori e agenti letterari, anche da un concorrente di Masterchef che abbia avuto i suoi cinque minuti di notorietà.
In libreria e negli store book arriva perciò ogni piacioneria e faciloneria, per modo che chiunque si sente legittimato a scrivere un libro, non occorrendo più qualità ma corrività. Il risultato è l'inondazione di testi inediti che si riversa su case editrici e agenzie letterarie costrette ad alzare dighe nei modi più diversi e strenui.
La più curiosa è della Laura Ceccacci Agency che gratuitamente accetta solo i primi tre testi inoltrati per email a inizio di ogni mese, cosicché ha qualche labile chance chi è più abile su internet che chi sappia scrivere meglio. A volerne qualcuna in più occorre pagare, così da avere una scheda di lettura da conservare come effimero attestato.
Al pari della Ceccacci operano tutte le agenzie, non più solo letterarie ma soprattutto di servizi editoriali, compresi corsi di scrittura ed editing. Del resto, se incassano non più di 30 centesimi per ogni libro di 20 euro che si vende, quando ne pagano in media 100 al lettore cui affidano un inedito da valutare, farsi pagare equivale a sopravvivere.
Ma avverte Giulio Mozzi, pioniere delle scuole di scrittura: «Le agenzie che campano principalmente con una frazione dei diritti guadagnati dagli autori sono necessariamente serie, quelle che campano con i soldi che prendono direttamente dagli autori sono dubbie». Sono dunque in gran parte dubbie?
Persino la storica Ali, oggi Tila, si fa pagare ed è anzi la più cara. Una sua scheda può costare mille euro se l'inedito supera appena i 350 mila caratteri. Anche se tra le prime in Italia, The Italian Literary Agency è aperta a tutti.
Chiusa invece a chiunque è la Roberto Santachiara, che non ha nemmeno un sito web né una pagina Facebook. Impossibile raggiungerla se non tramite la vecchia posta ordinaria. «Di norma non parlo della mia attività - si schermisce Santachiara. - Il fatto è che non amo molto la pubblicità e in generale preferisco non apparire». Il fatto veramente è che a Santachiara non piacciono gli esordienti e gli sconosciuti. Così fan tutti gli agenti, che forse più degli editori vanno oggi sul sicuro.
«L'autore sicuro non esiste - ribatte Stefano Tettamanti, agente di lungo corso della Grandi & Associati. - Se per sicuro s' intende bravo, allora verso di lui si orientano tutti». Il problema è però che a essere bravo è chi vende, perché a decretare il talento è il mercato. Per arrivare prima a conquistarlo, oggi più di ieri, l'autore si rivolge sempre più non alle agenzie ma agli editori.
Dice Ugo Marchetti, navigato agente della Emmeeerre: «Penso che alcuni esordienti preferiscano inviare le proprie opere direttamente agli editori anche per evitare di pagare i costi dei lavori propedeutici alla presentazione dei testi. Per moltissimi agenti è diventata ormai una consuetudine chiedere un contributo d'ingresso (talvolta sostanzioso e magari non vincolato alla proposta di un mandato di rappresentanza) per le schede di valutazione e le eventuali indicazioni di microediting.
Un agente deve saper ascoltare ma, per esperienza, sa che è difficile lavorare con esordienti che, a detta loro, hanno scritto "un capolavoro che venderà almeno centomila copie».
Ma poi succede proprio questo: che, come per Volevo i pantaloni di Lara Cardella, 100 colpi di spazzola di Melissa P., La solitudine dei numeri primi di Paolo Giordano e per ultimo Le otto montagne di Paolo Cognetti, esordienti abbiano successo per ragioni proprie del mistero dell'editoria e che siano innanzitutto gli agenti a correre loro dietro.
Di regola però succede quanto confessa Tettamanti: «Credo che gli unici a mostrare interesse per gli esordienti siano gli esordienti stessi. Gli agenti letterari se ne infischiano, non parliamo degli editori. I famigliari degli esordienti poi li strozzerebbero, prima e dopo l'esordio». Una boutade che sottende l'allergia degli agenti nei confronti dei principianti.
Chi valuta i testi gratuitamente e non fornisce schede di valutazione (ma lascia che a pagamento l'esordiente possa rivolgersi alla Scuola Palomar che le fa da prima istanza) è l'americana Vicky Satlow che promette: «Per chi sente il bisogno o il desiderio di rivolgersi ad un'agenzia, le mie porte sono sempre aperte».
Una vera rarità nell'attuale scenario, com' è anche nel caso della Piergiorgio Nicolazzini, che valuta testi in generale senza imporre prezzi e condizioni, ma non lascia invero le sue porte sempre spalancate.
A fare pagare ogni servizio, secondo anche la cura dedicata al testo, è la Mala Testa che non ha alcuna remora a proclamare sul proprio sito come la passione di chi lavora nel mondo dei libri non sia di per sé una ricompensa. Lo pensava già negli anni Ottanta anche Pier Vittorio Tondelli, scrittore pronto a parlare dei suoi libri solo se pagato bene.
Gli agenti letterari hanno da allora imparato come si fa e anziché i talent -scout si sono addetti a fare i talent-school. Tettamanti può così, in nome della categoria, lasciarsi sorprendere dalla svolta: «Dice davvero? Ma è sicuro? Non me ne ero accorto, ora però quasi quasi ci penso».
I libri hanno un profumo che cambia a seconda delle edizioni. Michele Mirabella su La Gazzetta del Mezzogiorno il 03 Luglio 2022.
Sfoglio un libro e ne annuso le pagine. I libri hanno un profumo che cambia a seconda delle edizioni: si va dal perentorio sentore di robusta carta al profumo elegante di certi volumi rari e preziosi, allo svolazzo tenue di un sentore di colla e fiori frammisti. Ragazzi, frequentatori di librerie, annusammo molti libri in via di verità e in metafora. Mi torna in mente questo vezzo, oggi, mentre in molti luoghi si fa fiera e mercato ragguardevole del libro.
Libro: etimologia. Viene dal latino librum, una delle tre parti della corteccia dell’albero, la più interna e morbida. Nel papiro o il lino, il libro è una lamina fibrosa. Staccata e fatta seccare, fu usata dagli antichi Egizi per scrivere. Sotto Alessandro Magno, apparve un’antenata della carta, fatta con filamenti di papiro tessuti tra loro, impastati con il fango del Nilo e lasciati asciugare. Libro passò per estensione a indicare l’insieme di fogli uniti e contenenti uno scritto. Anche il termine greco byblos (dal fenicio gybl) nasce con lo stesso significato.
Prima della foga edificatoria che, tra gli anni Cinquanta, laboriosi, e i dolcissimi e distratti anni Sessanta, cambiò il volto di Bari, le librerie furono siti rassicuranti e tentatori: Laterza era su via Sparano in angolo con Via Dante. Noi, giovani di pelo primo e ambizioso, ma anche molto civettuolo, azzardavamo paradossi e battute, bighellonando in quel «Mean corner» immancabile per gli strusci, le «vasche» fitte di conversari. Nacque la definizione del colore dell’immobile vecchiotto: «Ha il colore delle opere di Croce» edite da Laterza disse qualcuno e tutti approvammo. Quando lo rifecero, quel palazzotto, il colore restò: austero e sobrio come una lezione del Croce.
Nella vecchia libreria le file di volumi erano custodite, anzi vigilate, oltre che da pazienti e occhiuti commessi, anche da cordicelle che impedivano il prelievo, anche temporaneo, dei libri. Qualcuno i libri li rubava, ebbene si, qualcuno non resisteva e involava sotto il cappotto prede tentatrici e ambite. Non avevo cuore di fare il delatore, di allarmare il libraio. Chi lo avrebbe fatto?
Ma c’erano le bancarelle di libri usati e d’occasione che soddisfacevano le curiosità e placavano la fame di libri di quelli che non saltavano le cordicelle di Laterza: i prezzi erano miti, la varietà garantita. Trovai, una volta, intatti, volumi di letteratura che un mio compagno di scuola ricco e viziato aveva comprato tre o quattro volte per rivenderli immediatamente onde trasformarli in benzina per la motocicletta. Si trattava di quei libri preziosi e rari che in pochissimi compravano e che, nel catalogo scolastico, figuravano, con sublime ipocrisia, tra i «consigliati». Voleva dire che nessun insegnante s’aspettava che li leggessimo, né tanto meno che li comprassimo. Il compagno ricco, discolo e molto ciuccio, contava su genitori distratti e prodighi che non stavano certo a guardare quanti e quali libri comprasse il figliolo. E investiva: comprava e affrettava a rivenderli e noi, avidi di letture, a ricomprarli dalle bancarelle. Affari convenienti si consumavano sotto gli alberi di Piazza Umberto. Oggi, un luogo di orrore.
A quei tempi non c’erano le feste del libro. Una città libreria come la smagliante Polignano, non era pensabile ai tempi delle cordicelle e del libro elargito con prudenza e circospezione da un’editoria che non pensava che sarebbe diventata un’industria. M’è capitato di essere invitato e m’aggiravo tra le esposizioni opulente, tra le insegne, le luci, l’abbondanza mediatica di tentazioni e stimoli. I libri traboccano dai banchi, invadono i tavoli d’esposizione, tracimano dagli scaffali, giganteggiano su pile e torri, invitanti, tentatori, bellissimi.
È ovvio che cerco con lo sguardo la rassicurante presenza delle cose famigliari, dei nomi di casa mia, come Laterza e dei punti fermi della mia biblioteca mentale, ricordate Borges? Lo annusai tempo fa. Nessuna cordicella, nessun apparente controllo. Sembra che il libro chieda di venir via, di esserti compagno in una fuga immediata e urgente. Resistere è impensabile. Il pubblico passeggia, legge, s’incanta e s’informa, ammira e sfoglia. Si accodano cittadini, turisti e curiosi tra i quali riconosco quelli di una specie antropologica particolare che riconoscerei anche altrove: il lettore di libri. Le sue caratteristiche sono, tra l’altro, lo sguardo curioso, l’atteggiamento da cercatore, l’aspetto misto tra il modesto e sobrio e il fantasioso e gentile. Sembra che la congregazione ammicchi e renda tutti complici di un amore che solo noi sappiamo riconoscere. La folla è folla silenziosa: si sente solo un brusio ronzante d’alveare sveglio Non è cambiato molto da quando pensavamo che qualcuno dipingesse palazzi e case del colore dei libri. Mi guardo in giro scopro che ci si saluta come quando si va per mare; anche senza conoscersi. Andandomene che è quasi buio mi giro a guardarmi indietro: chi sa perché m’era parso che un codazzo di libri mi seguisse. Con i loro profumi.
La piccola editoria porta luce al Sud. «Pubblicare libri quaggiù, oltre a un problema prettamente fisico comporta di base un ostacolo concettuale». Omar Di Monopoli su La Gazzetta del Mezzogiorno il 03 Luglio 2022.
Astenebrare il linfatico buiore del nostro Sud sono spesso i fari delle piccole, coraggiose realtà culturali che, a dispetto di una fatica e di un impegno solitamente mal ripagati dagli organi preposti, hanno scelto di operare sul territorio. Di sicuro possiede una sua autentica capacità d’irrorazione la luce giovane della Fallone Editore, minuta - ma combattiva - casa editrice indipendente, pugliese «per tassonomie geografiche» e radicata «nella storia e nella cultura millenarie di questa terra», eppure proiettata su una linea d’azione nazionale, sia per la distribuzione del prodotto editoriale che per l’eterogeneità degli autori in catalogo (composto, vivaddio, non solo da prosa e poesia ma anche da saggistica, letteratura per l’infanzia, scienze ermetiche e una varia che spazia dalla cinotecnica alla musicologia passando per le arti figurative, la culinaria, il fumetto e la botanica).
«Pubblicare libri quaggiù, oltre a un problema prettamente fisico (essere operativi geograficamente qui e non a Milano significa doversi spostare per tutto, con costi che pesano sul budget a disposizione), comporta di base un ostacolo concettuale: da noi non è ancora ben chiaro cos’è una casa editrice e soprattutto cosa NON è: non è una tipografia, non è un’agenzia letteraria. E il problema è che spesso ciò non è chiaro neanche agli aspiranti autori o agli addetti ai lavori in genere», ci rivela Enrica Fallone, giovane imprenditrice tarantina a capo del progetto sin dal suo varo, nella primavera del 2017. «A Taranto credo di avere un solo autore, perché dagli scrittori tarantini mi sono stati proposti spesso e volentieri solo opere di storia locale che, lo dico con tutto il rispetto, a me non interessano poiché non sono letteratura. Insomma, persiste un problema di visione, di convincimenti errati da smantellare».
Vero è che, fortunatamente, la persistenza di questi equivoci assieme alle sopracitate difficoltà legate all’ubicazione periferica rispetto ai ai gangli dell’editoria che conta, non hanno scoraggiato il lavoro di rabdomantica ricerca di talento da parte della Fallone, che fin dal suo esordio pubblica opere intelligenti e sempre di grande valore. Ci preme a tal guisa segnalare «Voce del verbo essere» di Riccardo Fiore, un romanzo-mondo di mille e passa pagine capace di evocare maestri come Bufalino e D’Arrigo; oppure il più recente «Reliquiario carnale» di Giancarmine Fiume (poesia, collana Il fiore del deserto, con la prefazione di Maurizio Cucchi); ma anche l’imminente «Incompiuta Bellezza» di Cristina Trinci (collana La Sorgente di Satyria): un giallo che è anche romanzo sentimentale, ma senza scadere nel sentimentalismo. Fallone, che luce sia, allora!
Netflix, Disney, Amazon e le altre, i nuovi padroni della fantasia: «Schiavi dell’algoritmo e del politically correct». Lo sbarco anche in Italia dei colossi digitali ha portato a un boom di produzioni. Tra grandi aspettative e vecchie diffidenze è stato uno shock per cinema e piccolo schermo. Ma non mancano le voci critiche (che temono però di essere citate per nome). Fabio Ferzetti su L'Espresso il 27 giugno 2022.
Per capire che nei rapporti fra il cinema italiano e i colossi dello streaming c’è un problema di fondo basta fare qualche domanda in giro. Tutti hanno voglia di parlare dei nuovi padroni dell’etere, ma quasi nessuno vuole essere citato. «Ti prego lasciami fuori, con me sono stati principeschi, come faccio a criticarli?», si schermisce un prestigioso regista arruolato dalle piattaforme. «Dovevano svecchiare il nostro modo di fare cinema e tv, invece anche loro soffrono di burocrazia, lentezza e cattivo gusto», attacca uno storico sceneggiatore e regista con due progetti in cantiere. «Sono schiavi dell’algoritmo e del politicamente corretto, possono chiederti di mettere una rapina in un film ambientato nel III secolo dopo Cristo o di inserire un africano in una serie sulla mafia», insiste un autore satirico sotto contratto con una grande piattaforma. «Noi però non ci siamo mai visti eh, ho firmato un accordo di riservatezza».
E allora? Allora forse questa matassa di fatti e leggende rivela soprattutto l’eterna ansia italica di fronte agli americani. Aggravata da uno sconvolgimento planetario che in pochi anni ha travolto Hollywood e trasformato forse per sempre il consumo di audiovisivi. Fino ad alimentare, quando Netflix, Disney e Prime Video hanno iniziato a lavorare in Italia, aspettative sovreccitate e diffidenze ancestrali.
Del resto, basta dividere gli apocalittici dagli integrati per scoprire che i detrattori delle piattaforme sono in genere maschi, maturi e collettivisti, mentre giovani, donne e registi non ancora consacrati sono più morbidi e aperti alla trattativa individuale. Anche se il dubbio di fondo resta: questi nuovi soggetti dai mezzi illimitati, che grazie alle loro sedi italiane incassano anche i generosi sostegni pubblici all’audiovisivo, trasformeranno autori e produttori di casa nostra in obbedienti esecutori di scelte venute da lontano? O innescheranno una nuova ondata di creatività? In altre parole: il fiume in piena di serie e film destinati al mercato locale (e talvolta internazionale) avranno ancora qualche peso culturale o saranno solo puri, globalizzati, deperibilissimi prodotti di consumo?
Le voci che rimbalzano dai set non sono sempre rassicuranti. C’è chi dice che le case madri decidono tutto, perfino quali obiettivi usare («Normale - ribattono i difensori - hanno standard tecnici da rispettare»). Chi prende le distanze da serie girate senza potersi nemmeno scegliere il cast («Ma è televisione non cinema, pensate che in Rai fosse meglio?»). E chi, lavorando sul comico, lamenta una rigidità che certe scene proibisce addirittura di immaginarle («Loro vogliono cast multirazziali, noi personaggi multirazzisti, se no che satira è?»). Anche se in nome di una dialettica nata col cinema e cresciuta con la televisione, finisce che delle scene più controverse magari si girano due versioni: una come da copione, una ripulita e corretta, come piace alla piattaforma.
I problemi però sono anche altri. Dietro la bolla manca un’ambizione complessiva, una cultura reale che ispiri e sostenga il boom in corso. Troppi titoli nascono come semplici prodotti realizzati per occupare spazi, sfruttando incentivi economici esistenti solo in Europa. «Temo che le piattaforme abbiano in odio i creativi, autori o produttori che siano», azzarda un importante regista che ha attraversato molte stagioni di cinema e tv. «Tolti pochi grandi nomi che servono a vendere abbonamenti e vincere Oscar, vogliono solo esecutori. Così però demotivano i nostri produttori, errore fatale perché il nostro miglior cinema lo hanno sempre fatto loro, i produttori».
Ragionamento confermato anche in termini statistici da Andrea Marzulli, direttore della sezione Cinema della Siae: «La curva del prodotto locale è sempre in calo, dall’avvento delle tv commerciali e poi della pay tv fino allo streaming, sia per numero di opere prodotte che per quote di mercato e peso del prodotto locale nell’offerta complessiva. La percentuale di contenuto italiano presente oggi sulle grandi piattaforme è irrisoria». E se fra i produttori sono in pochi ad aver tuonato contro l’ingresso delle piattaforme in Anica, Associazione Industrie Cinematografiche, c’è chi chiede norme «che impediscano di assegnare il 90 per cento dei contributi statali a gruppi stranieri che non pagano nemmeno le tasse in Italia, e il 10 per cento agli indipendenti». Anche perché il danno non è solo economico.
Lo dimostrano scelte non sempre coraggiose, come trasformare in serie grandi successi editoriali e titoli mitici. Ma se a estendere e aggiornare “Le fate ignoranti” (Disney) ha pensato il gruppo originario, Ferzan Ozpetek e Gianni Romoli con Tilde Corsi in produzione, cosa verrà fuori dalla serie Netflix ispirata al “Gattopardo” scritta e diretta da americani? E non è tutto. «Nessuno ha mai pensato di serializzare “La casta” di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella, che uscì con pari successo nello stesso anno dello spremutissimo “Gomorra” di Saviano», nota uno sceneggiatore blasonato. «Lo diceva già “Boris”, il film: “La casta” non si può sceneggiare. Non è vero, si potrebbe benissimo. Solo che è un argomento tabù, e in questo fra Rai e piattaforme non vedo differenze. Peccato perché resto convinto che le serie siano la prosecuzione del cinema con altri mezzi, basta pensare a cosa ha fatto proprio Netflix in Turchia con la bellissima “Ethos”. Qui da noi però ancora non succede e c’è da chiedersi perché».
Certo è difficile immaginare che colossi quotati in Borsa come le grandi piattaforme, sensibili a ogni minima fluttuazione, possano ritrovare la spinta e il coraggio del cinema quando si reggeva sul mercato delle sale. La nostalgia però non è una buona consigliera. «Ricordiamoci che le piattaforme, anche quando fanno film, sono televisione e non cinema», ammonisce Andrea De Sica, creatore di “Baby”, tre stagioni e un successo internazionale che ha sorpreso perfino Netflix. «Gli estremismi sono provinciali. Quando le OTT sono sbarcate in Italia tutti sono andati all’arrembaggio, poi hanno scoperto che hanno logiche industriali, non da cinema indipendente. Ma la tv ha sempre controllato i contenuti più del cinema, anche Lynch per fare “Twin Peaks” doveva passare sotto le forche caudine. Il problema è capire se il tuo progetto si addice alle piattaforme e viceversa. Ma il dialogo è indispensabile».
Prosegue l’ultimo De Sica: «Quando ho fatto “Baby” avevo 35 anni e venivo da un film piaciuto ai critici che era uscito d’estate facendo due lire, “I figli della notte”. È bastato questo a farmi affidare una serie internazionale, in Italia non sarebbe mai successo. Ma ho capito che se il film è del regista, la serie è del gruppo: gli sceneggiatori, i produttori, gli altri registi, Anna Negri, Letizia Lamartire. E il broadcaster ha l’ultima parola, come alla Rai. Abbiamo discusso e anche litigato ma è stato un processo di crescita. Io avevo una visione più scioccante del mondo delle baby prostitute. Poi ho capito che il pubblico va preso per mano e portato dentro un certo sentimento poco alla volta. Il final cut, cioè l’edizione definitiva, resta a loro, in tv è sempre così. In compenso abbiamo lanciato un cast tutto nuovo».
Su questo le tv italiane sono sicuramente più caute. Ma fiuto e rapidità delle piattaforme non si fermano ai più giovani. Un talento come Renato De Maria, classe 1958, regista di film come “Paz!” (su Andrea Pazienza), “La prima linea”, “La vita oscena”, è rinato grazie al successo mondiale di un action adrenalinico con Riccardo Scamarcio, “Lo spietato”, mai uscito in sala causa pandemia. Comprato da Netflix e visto in 190 paesi, ha permesso al regista di proporre “Rapiniamo il Duce”, spettacolare thriller in costume «lontanamente ispirato alla figura del Bandito dell’Isola che in “Italian Gangsters” avevo accostato in forma documentaria», racconta De Maria, ora al mix del suo film «più ambizioso e costoso». Con Pietro Castellitto capo di un gruppo di sbandati che sopravvive facendo borsa nera e progetta di impadronirsi del tesoro di Mussolini, nascosto nel capoluogo lombardo in attesa che il duce fugga in Svizzera.
«La postproduzione è laboriosa, siamo in una Milano bombardata tutta ricostruita al computer». Laboriosa e costosa: il budget di “Rapiniamo Mussolini”, ovviamente segreto, le piattaforme non comunicano mai i dati, supera i 10 milioni, molto per l’Italia. Nel cast figurano nomi come Filippo Timi, Isabella Ferrari, Tommaso Ragno, Matilda De Angelis, Maccio Capatonda. Sui metodi di Netflix comunque De Maria, che non è certo uno accomodante, non ha nulla da ridire.
«C’è un reparto per ogni momento della lavorazione, devi convincerli di ogni scelta, ma è molto stimolante. Non mi hanno mai scavalcato, anzi ti spingono a pensare in grande. Certo non regalano niente, bisogna visualizzare tutto prima con cura. Ma il film è totalmente mio. A fine montaggio mi hanno dato un’altra settimana sul set per girare nuove scene preziose. Con gli italiani te lo sogni. Il loro stile di lavoro è contrario alla nostra tradizione... ma quale tradizione? Ne abbiamo avute tante. Io mi rifaccio al cinema di genere anni Settanta, quello di Sergio Leone e Fernando Di Leo. Dobbiamo preoccuparci per la nostra cultura? Forse, ma non ci sono solo loro sul mercato. E non dicano che l’algoritmo impone una rapina nei primi cinque minuti. Da quando lavoro mi sento dire metti tutto nei primi 10 minuti, se no il pubblico ti molla! Il primo a dirmelo fu Angelo Guglielmi a Raitre».
La cultura a rischio fallimento. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 25 Giugno 2022.
Tutto quello che non pensiamo sia cultura è cultura. Tutto quello che pensiamo sia cultura è a rischio fallimento, in certi casi a fallimento totale. Come testimonia «ItsArt», «la Netflix italiana della cultura», secondo la definizione del suo promotore, il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini.
Il bilancio del 2021 di «ItsArt», controllata da Cassa depositi e prestiti e dalla piattaforma Chili, dice che la società ha perso quasi 7,5 milioni di euro nel corso del primo anno di attività.
Di fatto ha dimezzato la sua liquidità, visto che l’impresa era decollata con circa 15 milioni di euro effettivi.
Secondo un’analisi di Luciano Capone sul Foglio, la piattaforma ha grosse perdite e incassi bassissimi: 240 mila euro (0,7 € l’anno per utente). La riserva messa da Cdp è finita e servono altri soldi.
La cosa più triste non sono i tre amministratori delegati cambiati in poco tempo, ma la totale mancanza di una linea culturale: «ItsArt» è un modesto catalogo di varia umanità: con i soldi investiti, Rai Cultura avrebbe ora un’offerta più ricca e interessante, anche internazionale.
Tempo fa, Franceschini aveva accusato la tv, pubblica e privata, di aver fatto danni alla cultura, tali da richiedere un risarcimento. Ecco, se il risarcimento è «ItsArt» significa che cultura è tutto ciò che non si può programmare.
Maria Francesca Troisi per mowmag.com il 25 giugno 2022.
Estate, tempo di concerti e di stadi, dai Måneskin a Vasco. E non ci sembra mica vero, dopo due anni e più di clausura, di tornare a cantare a squarciagola in spazi aperti e pure tutti azzeccati.
E “pazienza” se creperemo perché ci tolgono l'acqua, per rivendere le bottigliette dentro, e a prezzo maggiorato. Ma per una prima fila a San Siro o all'Olimpico, si fa questo e altro, accampandosi fuori fin dalle prime luci dell'alba (del giorno prima, è chiaro).
E quindi è un continuo di live su live, in ogni salsa possibile e immaginabile. E anche di cantanti, che a onor del vero, non avresti mai pensato potessero calcare il tappeto verde di un campo di calcio.
Come se fosse un'associazione scontata, garantire a chiunque abbia infilato un pezzo in classifica, la possibilità di cantare in uno stadio, davanti a qualche migliaio di appassionati (veri o "edulcorati"?).
E se alcune "star" non hanno problemi a fare sold out su sold out, c'è anche chi arranca, magari perché è passato di moda, o non è abbastanza risonante.
E così, anche Marco Molendini, tra i più accreditati critici musicali (nonché colonna storica de "Il Messaggero") si insinua a gamba tesa sulla faccenda, con un post sibillino a favor di social: "La regola del pop: se non fai gli stadi non sei nessuno". Per cui l'abbiamo contattato, assicurandoci il suo punto di vista sulla liason cantanti - stadi. E da Ultimo alla Amoroso... si salvi chi può! (Inclusi i Måneskin!)
“Se non fai gli stadi non sei nessuno”, scrive. Si spieghi meglio.
Da qualche anno vige questa regola. E fare gli stadi è diventato un biglietto da visita. Infatti, chi è in grado di raccogliere un pubblico così importante vede crescere il suo status, e il suo nome acquista valore.
Alla fine diventa come un obbligo, e se non hai un pubblico reale per riempire, qualche escamotage si trova comunque. Insomma, non è affatto detto che siano tutti realmente capaci di raccogliere 50/60 mila spettatori.
Escamotage di che tipo? E include anche i nomi che ha messo in fila? (Cremonini, Mengoni, Ultimo…)
No, li ho citati casualmente, anzi forse sono tra i pochi che riempiono veramente. Ma come non ricordare il caso dei Modà di qualche anno fa, protagonisti di un picco di successo improvviso, e grazie esclusivamente a Rtl. E fecero subito gli stadi, senza simili precedenti.
Da allora il meccanismo di riproduzione del percorso non si mai arrestato. E così, l’artista che viene lanciato da radio e discografici, viene improvvisamente portato a fare il gladiatore nello stadio. Ma bisognerebbe verificare quanti biglietti si vendono, e quanti sono regalati.
Quindi si “gonfiano” i sold out…
Certo. Una volta gli stadi erano solo per i grandi artisti. Ed è giusto così, con tutta la voglia possibile di ritrovarsi, dopo oltre due anni di clausura, gli stadi non possono essere per tutti. Quest’estate, invece, c’è un eccesso impressionante. Basta una canzone in classifica, e regalano gli stadi…
Sa che su tik tok, specialmente, era in atto una vera e propria corsa a rivendere i biglietti di Ultimo? Come se lo spiega?
Lui paga di sfortuna. Infatti, nel suo momento di crescita maggiore, siamo stati attaccati dal Covid. E chiaramente la condizione è cambiata, rispetto all’estate del 2020, considerando la concorrenza di colleghi che nel frattempo sono diventati più appetibili.
Ma la Amoroso riempie San Siro come i Rolling Stones?
Questa è una bella domanda. Riempie? Come, non lo so. Con tutta la simpatia possibile, non è una cantante che può mettere insieme il pubblico di uno stadio. Se non con biglietti regalati o dimezzati. Insomma, non tutti i nomi sono rilevanti allo stesso modo. Alla fine è un’esagerazione che illude lo stesso artista.
E intanto spopola la polemica sulla mancanza d’acqua durante i live. Una storia che resiste da decenni, provocando malori, visto il caldo. La soluzione qual è, rivedere l’organizzazione?
Direi di sì, la mancanza d’acqua, e col caldo d’estate, specie per i ragazzi che sono in fila da ore, è inconcepibile.
E poi è un controsenso, buttare le bottigliette d’acqua (non solo i tappi!) prima di entrare, e rivenderle dentro a prezzi esorbitanti (oltre 3 euro per mezzo litro).
E certo, mica è sicurezza, è guadagno.
Come mai da Vasco tutto filo liscio?
Dipende sempre dall’organizzazione, dal suo staff e dalle loro disposizioni.
Intanto i Måneskin hanno suonato allo Stadio Teghil (Lignano Sabbiadoro). Quindi sono pronti per un vero tour negli stadi?
Sicuramente funzionano, ma il loro successo è gonfiato oltremisura. In fondo vanno avanti grazie a una cover. Per cui bisogna vedere nel tempo, se reggeranno ancora. Più che altro, è bravo lo staff che lavora al prodotto.
Fuori dalla bolla. In questa era dell’inconsistenza c’è bisogno di editori liberali. Tiziano Gianotti su L'Inkiesta il 20 Giugno 2022.
Il mondo della cultura non può arrendersi alle mode passeggere. Le case editrici devono avere figure dotate di razionalismo critico per indirizzarle, edificarle e guidarle. Anche se la tendenza va nella direzione opposta.
Le case editrici sono fatte degli uomini che le ideano, le indirizzano, le impongono – sono gli editori. Un editore ha l’animus del costruttore: ha l’educazione del letterato e umanista aperto alla scienza, una educazione completa e affinata nel tempo: pure tutto questo lievita solo se la pasta è quella del costruttore. Costruire un catalogo editoriale è un’arte affine all’architettura. Un editore ragiona in base a un ordine: e un ordine porta con sé misure e così proporzioni; e quell’ordine è tutto, è l’editore. Gli editor sono gli assistenti di studio a cui è chiesto di sviluppare il catalogo secondo quell’ordine e quelle misure. L’editore è l’architetto.
Succede che in Italia la cultura ha trovato luogo e respiro – il respiro è importante – molto più nelle case editrici che nelle università. (Le ragioni sono evidenti a tutti –be’, quasi – coloro che sono passati dall’università italiana: non vale approfondire, non oggi e non qui). Le case editrici sono state per almeno cent’anni i bastioni della cultura italiana: lì si pubblicavano e si traducevano i testi della Modernità, le nuove edizioni e a volte critiche dei classici della letteratura italiana, europea e atlantica. Tutto questo secondo un disegno e l’ordine che dimorava nella mente degli editori: loro accoglievano i letterati adatti a diventare editor e al meglio.
(Una precisazione: intendo le case editrici di cultura, non le case editrici dette “generaliste”, ossia che pubblicano libri di ogni genere – Mondadori, Rizzoli –, oppure le case editrici che un tempo sono state luoghi dell’editoria di cultura e oggi sono anfibie, buone per la terraferma della letteratura e ottime e ben disposte per i laghi d’inconsistenza della “pura narratività” e della “pura comunicatività”, la post-saggistica – Einaudi, Feltrinelli, Garzanti – ed è un’amarezza).
L’editore è una figura fondamentale della Modernità – come l’industriale: anche lui costruttore e produttore. Non è un caso che siano due figure e due parole divenute desuete, non pertinenti alla Postmodernità: oggi, nell’Età dell’Inconsistenza, si dice imprenditore, vale a dire un mercante di denari e un venditore, non un produttore (quanto al costruttore: per la carità…); e non si dice più editore (intendo per case editrici di notevoli dimensioni): c’è l’amministratore delegato-editore, il perfetto funzionario dell’imprenditore proprietario (a volte ne è l’alias o ne porta il berretto): di nuovo un mercante e un gestore, non un produttore: un funzionario, magari del se stesso imprenditore. Non è un romanzo distopico: è l’Età dell’Inconsistenza. (Una domanda agli interessati: come hanno potuto gli industriali, i produttori a volte costruttori di modernità, accettare di confondersi e sciogliersi nella blesa galassia degli imprenditori? Mi pare di poter dire che è stato non molto onorevole, e miope). Tutto questo ha comportato una perdita secca per la cultura: il venir meno dei bastioni che in Italia sono state le case editrici – e quando dico Italia intendo quel paese europeo di recente costituzione e privo di una vera, per integrità e sostanza, cultura liberale. Le case editrici di cultura non hanno saputo affrontare la sfida posta dalla nuova Età e la sua nube tossica: l’avvento dell’impero della comunicazione, dapprima con la ondata delle televisioni, commerciali o di stato non cambia molto, poi col dilagare dell’inconsistenza, alimentata dai nuovi trabiccoli elettronici preludio al successivo dilagare dei camping della comunicazione (Facebook, Instagram) a uso del coro dei giubilanti. Le case editrici si sono adeguate e senza esitazioni. Come si è potuti arrivare a una simile débâcle dell’orgoglio e del senso editoriale? La risposta è semplice: sono venuti meno gli editori, i costruttori.
Le case editrici sono l’editore – è una certezza. L’editore è sempre, in ogni scelta: dall’ordine che dispone lo spazio del catalogo agli autori e le opere che ne sono gli elementi strutturali; dalla scelta della grafica di copertina alla gabbia tipografica, dalla scelta del carattere di stampa alle norme redazionali, fino ai particolari minuti. (Vale per i libri e vale per i bollettini editoriali, per ogni foglio a stampa che circola e esce dalla casa editrice). Indirizza gli editor e il grafico, poi li lascia lavorare in pace. Guai però all’editor o altro che non si ponga in consonanza allo stile dell’editore e così della casa. Il fatto è che sono pochi a poter essere editori.
L’editore ideale e il principe degli editori è stato Giulio Bollati: aveva tutte le doti e le conoscenze necessarie, e al meglio: era un costruttore e di Modernità. (Di lui, Giulio Bollati, ho scritto nella pagina del Diario lo scorso 14 maggio). Giulio Bollati è morto nel maggio del 1996; Giulio Einaudi è morto nel 1999, lo stesso anno di Mario Spagnol; per Cesare De Michelis l’anno della morte è il 2018; e infine, Roberto Calasso se n’è andato lo scorso anno. Calasso è stato l’ultimo degli editori. (Intendo proprietario in toto o in parte di una casa editrice: e così libero di lavorare). Dopo di lui, il più giovane, nessun editore di grande rilevanza.
Grande rilevanza non significa grande dimensioni: riguarda l’ampiezza dello spazio editoriale, la perspicuità dell’ordine che lo determina, la convenienza dello stile che lo contraddistingue. Ecco un esempio, per capirci: la Marsilio, fondata e diretta da Cesare De Michelis: una casa editrice nata e cresciuta a Venezia. De Michelis, docente di letteratura Italiana all’ateneo di Padova, ha saputo accogliere in casa editrice il meglio della cultura veneta e non solo: ha potuto farlo per aver costruito una casa editrice completa: dai classici della letteratura alla narrativa d’oggi, dalla saggistica contemporanea (filosofia, letteratura, cinema, arti figurative) ai libri illustrati e i cataloghi d’arte. Cesare de Michelis non avrebbe mai rinunciato a una soltanto delle stanze editoriali della Marsilio: non lo ha fatto e gli va reso il merito. Nella splendida collana Letteratura universale, a sua volta divisa in stanze affidate a letterati studiosi della singola letteratura, ha pubblicato libri e traduzioni che sono indispensabili al lettore educato: la traduzione in prosa della Iliade e della Odissea, dono letterario di Maria Grazia Ciani; le Mu’allaqāt, la poesia araba delle origini, a cura di Daniela Amaldi, e Il Corano più antico, le sure più antiche, per la cura di Sergio Noja; le Cinque vite di eremiti di Domenico Cavalca, a cura di Carlo Delcorno, e l’edizione in due volumi di Tutte le poesie di Alessandro Manzoni, a cura di Gilberto Lonardi; Cronaca della luna sul monte, raccolta dei racconti di Nakajima Atsushi, a cura di Giorgio Amitrano, e i Racconti di pioggia e di luna più i Racconti della pioggia di primavera di Ueda Akinari, per le cure di Maria Teresa Orsi; fino al recente Malvina di Maria Wirtemberska, capolavoro della letteratura polacca, a cura di Luigi Marinelli. Lungo sarebbe l’elenco dei saggi notevoli della collana riservata: bastino i nomi di Giacomo Debenedetti e Carlo Diano per la letteratura, di Robert Bresson e François Truffaut per il cinema; e non mancano gli scrittori italiani scoperti e pubblicati da De Michelis, a partire da Susanna Tamaro. Piccola casa editrice, grande catalogo – ecco un vero editore.
(Ho scelto di proposito una casa editrice non celebrata, come per esempio Adelphi: è per lasciar intendere come, al di là della qualità del catalogo, conti molto il respiro dello spazio editoriale, che altro non è che il risultato dell’apertura di pensiero e della cultura dell’editore. Vale dire come questo significhi un impegno intellettuale e materiale notevolissimo: solo chi ha praticato l’attività editoriale può intenderlo in pieno: pure il lettore può riconoscerlo. È l’editoria di cultura).
L’interrogativo è: può un editore lavorare al suo edificio nell’Età dell’Inconsistenza e al tempo dei camping della comunicazione? Certo che può farlo. Bollati, Einaudi e gli altri non hanno avuto modo di dimostrarlo: al contrario Calasso ha avuto modo e il tempo di farlo. La tattica è quella più lontana dalla natura trasformista dell’italiano: ha ignorato i camping, come ha fatto per i campioni della “pura narratività” e il resto. Letteratura amena sì, qual è il problema? “pura narratività” no, mai: non a casa mia. Ha potuto farlo essendo l’editore. Nelle case editrici di cultura rimaste senza editore è stata scelta la strada già intrapresa dai quotidiani e i settimanali: quella più facile: hanno inseguito il nuovo pubblico, quello dei giubilanti dei camping. (Nei giornali è così partita l’acquisizione dei pifferai della Generazione Io, i campioni dei camping: il seguito di giubilanti nei camping è diventato un atout decisivo per una carriera). Le case editrici orfane di editore hanno seguito e di filata. È la via più facile: sono capaci tutti, basta “organizzarsi” (l’odioso imperativo principe degli Anni di Merda); sono contenti tutti: gli imprenditori, che rispettano i moltiplicatori e salvano i fatturati, i funzionari, che salvano il posto di lavoro, sempre a rischio in un settore debole come l’editoria; i pifferai della Generazione Io, che sono entrati nei cataloghi di case editrici che, in presenza di un editore, non avrebbero mai visto se non in fotografia. Vale ripeterlo: è solo una bolla, quella dell’inconsistenza: scoppierà.
La vera domanda è: ha senso, c’è spazio per la figura dell’editore in questa realtà? Certo, e oggi più che mai – e vale anche per l’industriale, il politico, l’uomo comune. A un patto: che si abbia la forza di stare fuori dalla bolla, ignorare i camping, rifiutare l’equivoco della “pura narratività” e la “pura comunicatività”, che non sono altro che narrativa di consumo; infine, che si resti fedeli all’idea della Modernità. L’editore, come tutti i produttori e costruttori, è seguace del razionalismo critico, che è il midollo del pensiero liberale; ha un solo impegno e prima di tutto con se stesso: la critica costante della realtà e il farne un catalogo; e ha un solo ideale, oggi fuori corso: la durata. Lo stesso ideale che muove il letterato, da Goethe a Handke. L’editore è un costruttore e lavora alla durata – il resto non importa.
Le truffe dell'egemonia culturale. Alessandro Gnocchi il 15 Giugno 2022 su Il Giornale.
È interessante che sia un editore di area conservatrice, Historica di Giubilei-Regnani, a pubblicare una ampia antologia di Antonio Gramsci sulla Egemonia culturale.
È interessante che sia un editore di area conservatrice, Historica di Giubilei-Regnani, a pubblicare una ampia antologia di Antonio Gramsci sulla Egemonia culturale (pagg. 160, euro 16). A destra non manca il pensiero, mancano invece la organizzazione e una comunicazione efficace. Mancano, invece, la volontà, e forse la capacità, di fare politica culturale. A cosa servono? A creare, per dirla brutalmente, il consenso necessario a far passare riforme e programmi. Il centrodestra dà l'impressione di considerare insignificante la cultura, salvo poi domandarsi come mai gli elettori non si scaldano per i referendum sulla giustizia, tanto per citare l'ultimo dei fatti. Sarebbe stato necessario spiegare e diffondere i vantaggi di un giusto processo e non farne (solo) una serie di casi personali. L'esatto contrario di quello che abbiamo visto. Chiaro dunque il senso dell'operazione editoriale. C'è qualcosa di sorprendente negli scritti gramsciani. L'egemonia è innanzi tutto un mezzo di selezione dei migliori attraverso l'istruzione. C'è una egemonia marxista ma potrebbe anche esistere una egemonia liberale. Gramsci si lamenta perché gli Usa non sono ancora riusciti a formare una classe intellettuale egemone di stampo liberale. L'accento è sempre sull'educazione e sull'insegnamento. Francamente, in questa antologia, non c'è spazio per l'egemonia culturale così come l'abbiamo sperimentata in Italia. Non si parla affatto di cordate per impadronirsi e poi tenere in pugno festival, premi, cattedre universitarie, direzioni di qualsiasi cosa, dai giornali ai musei, e l'intera burocrazia ministeriale. Nel nostro sistema il merito non c'entra nulla: se va avanti uno che è anche bravo, meglio, ma il requisito principale è stare dalla parte giusta e tessere la rete di amicizie giuste. Così nasce il triste fenomeno dei falliti di successo. Coli a picco un salone del libro? Te ne danno un altro. Fai chiudere un giornale storico? Hai subito un programma in tv. Distruggi il prestigio di una casa editrice? Ecco pronta un'altra collana da imbottire di amici. E così via, in una corsa verso il fondo del barile dove ormai risiede l'insignificante cultura italiana. Gramsci è proprio una lettura aurea. Ad esempio si capisce come i comunisti abbiano fatto accettare alcune menzogne come articoli di fede. Facciamo qualche esempio. La cultura in generale è solo di sinistra. Falso. Sappiamo bene quanta cultura abbia prodotto la destra. Tutta la sinistra è comunista. Falso. Come se Piero Gobetti, che certo era di sinistra ma non comunista, non fosse mai esistito... L'antifascismo coincide con il comunismo. Falso. Erano antifascisti anche cattolici, liberali, monarchici. L'antifascismo coincide con la democrazia e la libertà. Falso. Per appartenere alla famiglia democratico-liberale è necessario essere sia antifascisti sia anticomunisti. Sono tutte ovvietà ma non in Italia dove la propaganda, organizzata dal Pci e foraggiata dai soldi pubblici, ha ingannato il popolo. Chissà cosa avrebbe detto Antonio Gramsci.
Giancarlo De Cataldo per “la Repubblica” il 14 Giugno 2022.
«La musica esprime quello che costituisce la comunione delle anime, l'emozione pura e indeterminata, la possanza emozionale dell'animo». Fra il 1915 e il 1919 un giovanissimo Antonio Gramsci tiene sull'Avanti! rubriche di teatro e musica. E se le cronache teatrali sono ampiamente note - fu Italo Calvino a riscoprirle negli anni Cinquanta -, quelle musicali sono rimaste in parte inedite sino a questo prezioso volumetto curato da Maria Luisa Righi e Fabio Francione: è la stessa Righi, peraltro, ad attribuire a Gramsci, sulla base di un'accurata ricognizione filologica, alcuni dei pezzi più interessanti, in origine anonimi.
La raccolta rivela un Gramsci per certi versi inedito: nonostante alcune precise testimonianze dirette, lo si è ritenuto a lungo poco interessato alla musica. E, invece, da queste pagine emerge molto più di uno spettatore colto o di un "cronista" culturale, come soleva definirsi, rifiutando, a suo dire per carenza degli strumenti del mestiere, la definizione di "critico". Per il Gramsci socialista, la musica, come il teatro, la narrativa, la poesia, è un poderoso veicolo di crescita e affrancamento del proletariato.
«L'umanità sarà migliore e meno violenta quanto più si avvicinerà a Beethoven» scrive in piena Prima guerra mondiale, quando i soliti idioti vogliono proibire la Quinta Sinfonia perché Ludwig Van era tedesco, dunque nemico. Beethoven «impone silenzio, agita, trasporta, violenta le anime elevandole a vette vertiginose () è la bufera che travolge e sconvolge ogni bassezza d'animo, che fortifica e umilia, che offende i vili e spinge i buoni».
Ma come "portare" Beethoven al proletariato, che la Storia ha tagliato fuori dal gusto del bello? Eppure, «il cuore proletario è un tesoro immenso ed ancora inesplorato di sensibilità artistica». Basta solo coinvolgerlo. E qui il discorso si fa attualissimo, e sarà ripreso nei Quaderni dal carcere.
Riguarda la dicotomia fra l'intellettuale che "sa", cioè possiede gli strumenti di conoscenza, e il popolo che "sente", ma non "sa", perché di quegli strumenti è ignaro. «Non si fa storia politica senza passione, cioè senza essere sentimentalmente uniti al popolo». La musica, come tramite formidabile di un agire e sentire politico e culturale: Gramsci, suo grande ammiratore, conoscerà Arturo Toscanini e lo convincerà a dirigere Beethoven per gli operai. E Toscanini dirà alla Stampa di aver provato una delle più grandi emozioni della vita.
Ma ci sono pagine più leggere, in cui il pensatore profondo cede il passo allo spettatore. Uno spettatore esigente, che non esita a ricorrere al sarcasmo: «al Liceo musicale. Serata grigia. Sgonnellamenti serici di scimmiette ammaestrate dell'aristocrazia che vengono a farsi titillare i nervi dai decolletès delle rivali e dalla musica di Beethoven. Un ufficiale di marina; marsine e frack che fasciando del vuoto non si sa come rimangon dritte () La mia fantasia si liquefà nell'ardente fornace animalesca in cui è caduta () l'ambiente finisce per conquistare anche me. Anche il mio modesto abito di proletario non fascia che il vuoto».
Gramsci è melomane di gusti netti e precisi. Detesta Puccini, «elegiaco e smanceroso », e riserva alla Rondine un'acre stroncatura: «melodramma senza passione, operetta senza giocondità () né soddisfa i commessi viaggiatori che amano le freddure da vaudeville () né commuove i pizzicagnoli smaniosi di rifarsi del denaro speso, innaffiando di lagrime l'avverso destino del tenore e della prima donna».
Ironizza sulla Lodoletta : «Mascagni si compiace tanto da strafare. Si ha l'impressione che tratto tratto si consegni dei pizzicotti sulla punta del naso per far che duri questo suo provvidenziale intenerimento. E Flammen non si stanca di sospirare, e Lodoletta non si decide a morire».
Adora Verdi, si commuove ed esalta per un Rigoletto al Politeama Chiarella (che anni dopo diverrà tempio dei Futuristi), loda il Tristano , esalta grandi concertiste, come la pianista Helena Morsztyn, e in generale mostra estremo rispetto per quanti - cantanti, coristi, strumentisti - "fanno" la musica, con la loro presenza, con il loro lavoro. E, infine, affiora a volte l'insoddisfazione per il manierismo che sembra affliggere la scena musicale.
«Per la musica siamo in pieno umanesimo. I classici ritornano a ogni stagione, la sensibilità rimane limitata, un po' accademica (un po' per eufemismo) la solita buona vecchia musica, che il pubblico accorre sempre a sentire, che il pubblico impara a memoria», consegnandosi a una vita culturale che è diventata «un'esumazione di impressioni imbalsamate». Gramsci avverte l'urgenza di qualcosa di più, qualcosa di nuovo, qualcosa di rivoluzionario. Sono passati cent' anni, e quell'urgenza la avvertiamo ancora in tanti.
Super classifica show. La demolizione dei fatti e di quel che resta dell’editoria. Guia Soncini su l'inkiesta il 4 Giugno 2022.
Nella nostra epoca così impegnata a far finta che i numeri e le classi sociali non esistano, non c’è niente di peggio di chi ci fa notare la realtà: nessuno compra i libri, pochi guardano le dirette Instagram e tutti invidiano quei pochi autori di romanzi che vendono trentamila copie
Ho sempre creduto che la soglia dell’adultità fosse a quarant’anni: tutto quello che fai prima non vale, non fa media, non è rilevante (sì, lo so: Orson Welles e altre dodici eccezioni che corriamo tutti a citare).
Ora, però, guardandomi intorno e vedendone l’abuso e il trionfo a trent’anni dalla sua prima apparizione in un articolo di giornale, mi chiedo se si possa dichiarare adulto il concetto di post-verità, evidentemente pronto a passare dal campionato delle brillanti promesse a quello dei soliti stronzi.
La demolizione dei fatti è cominciata con la sparizione dei numeri. L’ultimo posto in cui sono rimasti sono le dirette Instagram: qualche settimana fa il più importante attore italiano era in diretta con l’account Instagram del più venduto quotidiano italiano, e insieme totalizzavano ben quattrocento spettatori.
Fissavo il contatore e pensavo: ma chi glielo fa fare? Sì, lo so: i giornali, nel disperato inseguimento dei social, impongono la diretta Instagram nel pacchetto, tu vuoi la pagina di carta – che fa prestigio ma nessuno legge – sul tuo nuovo film, ma io voglio la diretta Instagram, che magari prima o poi mi trasforma l’account in quello della Ferragni, e a quel punto guadagna Zuckerberg e non il giornale, ma è un problema che ci porremo quando si presenterà.
Lo so come si attiva il meccanismo, ma quel che è interessante è a chi venga in mente di attivarlo; considerato che non ci fa una bella figura nessuno. Si fa tanto per millantare rilevanza, e poi ci si fa vedere nudi e infreddoliti con quattrocento miseri spettatori?
L’altra sera il marito della Ferragni ha fatto una diretta Instagram per presentare la sua nuova canzone, c’era anche la moglie, avevano sessantamila spettatori (ed era quasi l’una di notte, non esattamente un orario di punta); poi però non si poteva stare collegati in più di quattro, occorreva far spazio al tizio che canta con lui, e quindi Chiara (che era in un collegamento separato, trovandosi al mare) si è sconnessa. Poco dopo è apparso un impietoso commento: è andata via Chiara e hai perso trentamila spettatori. (I trentamila rimasti erano comunque tantissimi, ma resta il fatto che ormai le dirette Instagram sono tra gli ultimi luoghi novecenteschi dei quali conosciamo i numeri).
Poiché nessuno paga più niente, anche i numeri delle vendite dei libri (rilevamenti ai quali devi essere abbonato, e che ci si guarda bene dal diffondere: se vogliamo millantare rilevanza, dobbiamo far credere al pubblico che i libri si vendano a milioni) sono trattati come un mistero filosofico.
L’altro giorno ho fatto un tweet in cui facevo notare che sì, il libro di Renzi era primo in classifica, ma non era una buona notizia per il mercato editoriale: aveva venduto poco più di settemila copie, un settore in cui il primo in classifica vende settemila copie è un settore morto.
Poiché se a nessuno frega dei fatti figuriamoci se gli frega di qual è il punto, mi sono arrivate le risposte più assurde, gente che linkava articoli di gennaio sul fiorente mercato editoriale, persino un sito di pizzini che ha fatto l’elegantissimo titolo «Sui quotidiani è tutto un fiume di saliva per le vendite del libro di Renzi, lo smonta Guia Soncini». Invece di dire la verità, cioè che ero invidiosa delle sue settemila, io che ci metto un anno a venderle.
Nel frattempo sono arrivati i dati della settimana successiva, che dimostrano il talento di Renzi e del suo editore (Piemme) nello scegliere la settimana in cui uscire. Quella scorsa a Renzi è riuscito d’esser primo con settemila copie; questa sono usciti un po’ di gialli e i numeri sono risaliti: il primo di questa settimana, Joël Dicker, è primo con quasi trentatremila copie (invidissima).
Ogni volta facciamo finta di non sapere i numeri perché in fondo l’ha detto anche Einstein che tutto è relativo, e se diciamo «ristampa» possiamo darci un tono, e c’è sempre qualche autore che ha venduto cento copie e annuncia una ristampa come se fosse un segno di bestsellerismo e non del fatto che l’editore aveva fatto una prima tiratura di quindici copie, e io ogni volta mi chiedo: ma non lo sanno che chiunque bazzichi il settore correrà a guardare i dati e dirà mamma mia che imbarazzo?
Ogni volta qualcuno mi risponde: eh ma sul pubblico non del mestiere fa effetto. Eh ma se avessi un pubblico non del mestiere forse venderesti più di cento copie, no? O forse gli editori mentono agli autori? Forse sono tutti convinti davvero d’essere Joël Dicker?
Qualche tempo fa una psicologa dell’Instagram ha annunciato ai follower che, nella settimana d’uscita, il suo libro aveva venduto trentamila copie. L’ha annunciato il venerdì, quindi coi dati a disposizione da un giorno e mezzo, quindi consapevole d’averne vendute seimila (tantissime, invidissima).
Il dibattito che ne è seguito in quella fondazione culturale che è il mio telefono affrontava molti punti. La psicologa è forse l’unica autrice di parecchi libri a non sapere che i bollini promozionali e le pubblicità si fanno col numero di copie stampate, non con quello delle copie vendute, e che quindi bisogna tenersi sul vago e che dichiarare un venduto di trentamila è la versione cuoricinabile del falso in bilancio? La psicologa è vittima d’una menzogna dell’editore che le ha detto «ne hai vendute trentamila», e poi quando lei pretenderà royalties conseguenti chissà come glielo spiegherà? Andreste a farvi curare da una psicologa così insicura da bluffare sulle vendite?
Qualche tempo dopo uno scrittore molto venduto, con un libro all’epoca già uscito da qualche mese, è risalito nelle vendite (sarà andato in tv, mormora la mia invidia mentre pieni di pianto ha gli occhi). Mentre ero lì che mi mangiavo le mani guardando i dati di vendita, egli ha giustamente annunciato il successo ai propri amici di Facebook: il libro è risalito nelle vendite, è tornato in classifica, all’ottavo posto della generale, e va in ristampa.
Nei commenti, compare un mortale: uno di noi carneadi, uno che aveva annunciato una ristampa dopo aver venduto duecento copie, e i suoi amici di Facebook erano corsi a felicitarsi (ma non erano evidentemente corsi a comprare il libro: un altro dei pochi numeri visibili oggi sono gli amici di Facebook, ragione per cui tutti siamo disposti a chiamare «amici» migliaia di sconosciuti; sennò sembro solo al mondo, sennò un domani un libro a chi lo vendo, se non ho i like su cui contare).
Commenta il mortale: bravo, non c’è parola più appagante di «ristampa»; risponde quello, col tono con cui Lucio Dalla diceva «siamo dèi, figli del sole, invece tu chi sei, tuo padre è stato il dolore»: «sì, assieme a “nella generale”». La mia è una ristampa da quattromilaecinquecento copie vendute in una settimana, caro lei. Non c’è niente di peggio, in un’epoca impegnata a far finta che i numeri, le classi sociali, i fatti non esistano, che incontrare qualcuno così maleducato da ricordarti che altroché se esistono.
Il mio maleducato preferito è un autore televisivo del Novecento, quel secolo in cui non esisteva la frammentazione. Ogni volta che qualcuno se la mena con un successo apparente di questi minuscoli del presente, in cui si dichiarano trionfi per programmi che non arrivano a due milioni di spettatori, lui rievoca quella volta che un dirigente Rai arrivò minaccioso a dire che, se continuavano così, quel fallimento di programma che stavano facendo sarebbe stato chiuso. Era quasi una quarantina d’anni fa, e quindi questo è un aneddoto quasi adulto. Il programma lo guardavano dodici milioni di persone.
I saloni delle polemiche, la letteratura infiamma gli animi. ISABELLA MARCHIOLO su Il Quotidiano del Sud l'1 giugno 2022.
L’argomento è un terreno minato, ad altissimo rischio di lese maestà e ostracismi nel cerchio magico attorno ai nomi che contano. È l’editoria, bellezza, e dalla Calabria fucina di scrittori veri e presunti fino alla Roma caput mundi della Repubblica delle Lettere, tante cose si pensano ma non si possono dire.
Ovviamente tranne che sui social, dove i premi letterari e le manifestazioni blasonate scatenano roventi battaglie di hater che neanche il Covid, Putin e l’Eurovision. Non è un male che si parli, e anche in modo critico, di libri, anzi ben venga. Soprattutto se, al netto della prevedibile quota di shitstorming, talvolta qualcuno estraneo all’agorà (e che quindi non teme di essere additato come rosicone) si azzarda a dire l’indicibile.
Per esempio, che gli autori presenti al 34esimo Salone del libro di Torino senza editore siano stati un po’ tanti e che l’aver accettato chiunque disposto a pagare il suo posticino ha penalizzato gli editori; e poi che l’invasione di editori a pagamento di ogni foggia con i loro altrettanto variopinti autori abbia tolto spazio agli editori veri. In casi del genere non conviene fare nomi e cognomi, e non sarebbe nemmeno giusto perché si tratterebbe di sparare sulla Croce Rossa: le stroncature devono avere ben altri bersagli che gente tutto sommato ingenua, alla ricerca del warholiano quarto d’ora di celebrità pagato di tasca propria e abbastanza salato (tariffa per esporre un solo titolo in massimo 30 copie, 420 euro).
Di certo il trend topic del Salone, tra meme e divertite battutine nel gruppo degli scrittori fieramente renitenti (o esclusi?) è stato che a questo giro ci sono andati davvero tutti, foss’anche con le chat scritte durante la quarantena e poi pubblicate – perché, dài, in fondo rientra nell’autofiction. Nell’arioso stand della Regione Calabria ma anche in autonomia, i nostri autori a Torino sono stati numerosi e per fortuna nessuno di loro era un improvvisato (citiamo Vito Teti, Gioacchino Criaco, Domenico Dara, Carmine Abate).
Protagonisti di dibattiti interessanti, ma al Salone si va pure per vendere, giusto? E una delle debolezze della manifestazione torinese è stata quella di aver imposto un biglietto d’ingresso non supereconomico (18 euro il giornaliero), che ha fatto da deterrente soprattutto per i lettori fuori sede intenzionati a fare una gita culturale: tra costo del viaggio, alloggio e accesso nel mondo dei “Cuori Selvaggi” dell’evento, l’unica cosa su cui si è tirata la cinghia alla fine è stata l’acquisto dei libri.
A proposito di Salone, attuale direttore è Nicola Lagioia (e qui mettiamo un asterisco), un soggetto di cui parlare con cautela nella comunità letteraria. Tanto ha osato il romanziere Mimmo Gangemi, che su Facebook ha commentato la vittoria di Lagioia al Premio Sila ’49 con parole che toccano un tasto dolente per i calabresi, quello dell’atavico complesso d’inferiorità nei confronti dei forestieri.
Esordisce senza eufemismi, Gangemi: «Il premio Sila non si smentisce, mai una volta che si assegni a un calabrese, a causa di un pensiero contorto, sempre alla rovescia, che discrimina i locali, quasi che, a farlo rimanere nella regione, vi si possa vedere un imbroglio, una diminuzione. Siamo colonia pure in questo campo, insomma, facciamo vincere gli altri anche quando i nostri sono migliori, come non succede altrove in Italia».
E prosegue impavido citando un altro nome “reverenziale”: «Emanuele Trevi, che è la voce dominante all’interno della giuria e riesce a spuntarla su intellettuali di peso che ne fanno parte (penso a Veltri o alla Petrusewicz), forse dovrebbe rammentare che lui, lo Strega, lo ha vinto con “Due vite”, un romanzo di grande mediocrità, perché nel suo caso valgono le cordate e non i meriti letterari». Diretto e severissimo. Affermare che “Due vite” sia un romanzo mediocre è molto ingeneroso, ma nell’arte ogni opinione è sacra. Il vero pungiglione, però, arriva dopo.
«La speranza – conclude Gangemi – è che al nostro Trevi non sia tornato utile lisciare o ricambiare Nicola Lagioia, un personaggio di grande autorevolezza e potere nel mondo letterario. Intanto, registro l’anomalia che dura da anni e che non succede nel resto d’Italia». Ne sa qualcosa proprio lo scrittore di Santa Cristina d’Aspromonte (che non era tra i candidati del Sila), ricordando come «anni fa dal Premio Alvaro fu perpetrata una vergogna ai miei danni, “per questione personale”, al punto da minacciare le dimissioni se il mio romanzo fosse stato confermato in finale».
Che nei salotti culturali calabresi, quando si tratta di assegnare i premi siamo abbagliati da una ossequiosa “esterofilia”, è un fatto. Lo dimostrano le risatine circolate nei giorni della presentazione delle candidature al Premio Strega all’indirizzo di qualche autore conterraneo ritenuto lì fuori luogo, e gli infastidite sollecitazioni di alcuni intellettuali nostrani a moderare l’orgoglio paesano sui media per “i calabresi allo Strega”. E’ anche vero che qualcuno degli scrittori presentati allora calcò la mano autopromuovendosi ai limiti del ridicolo. E, sembrerà snob, ma va detto con chiarezza. Al premio Strega come al Salone di Torino non è un bene che ci siano un Gangemi accanto a un autore di pensierini della domenica, o un libro su cui un editore ha investito accanto a uno pubblicato a pagamento. Non è democratico. Volendo accantonare il malcostume di marchette e favori, è innanzitutto deriva culturale. Una differenza, insomma – quella che non c’è stata a Torino con l’apertura all’autopubblicazione e che non c’è stata nelle proposte di candidature ai cortometraggi dei David di Donatello, un altro imbarazzante porto di mare – deve restare.
Per i lettori vecchi e nuovi, deve restare. Tornando a Lagioia (ricordate l’asterisco?), durante il Salone è stato bersaglio di una tremenda mitragliata di Striscia la Notizia, che ha riesumato uno scontro di oltre vent’anni fa tra lui e Melissa Panarello (un’irripetibile frase sessista per commentare il successo di “Cento colpi di spazzola”). Poi i due si chiarirono ma mai pubblicamente, a fronte di una frase davvero brutta e che la stessa Melissa P. aveva al tempo commentato come offesa sul suo blog. Eppure oggi, segnala Striscia, Panarello fa fotografie al Salone abbracciata a Lagioia e soprattutto firma un podcast su Apple, “Love Stories”, con Chiara Tagliaferri, moglie dello scrittore pugliese e lanciatissima con il suo romanzo mondadoriano “Strega comanda colore”. Pace fatta o calcoli di opportunità? Secondo Lagioia e Panarello semplicemente un attacco gratuito per danneggiare la manifestazione (qualcuno ha chiesto anche le dimissioni del direttore). L’hashtag del Salone del Libro 2022 è stato #ioc’ero. L’importante è esserci, giusto. Possibilmente distinguendosi, anche.
Dagospia il 20 maggio 2022. Anticipazione da “Striscia la Notizia”.
«Con lei c’è una sola cosa da fare. La prendi. La metti a novanta appoggiata a un tavolo. Poi prendi Lolita di Nabokov. Strappi le pagine. Gliele infili una per una nel c**o. Dopo un po’, per osmosi, qualcosa assimila per forza». Questa frase sessista e volgarissima indirizzata contro la collega Melissa Panarello l’ha pronunciata anni fa lo scrittore barese Nicola Lagioia, direttore del Salone del Libro in corso a Torino.
Oggi l’inviata Rajae (qui il link per rivedere il primo servizio) è tornata sul campo, a Torino, per capire come mai questo enunciato non abbia scandalizzato e indignato tutti gli intellettuali che partecipano al Salone, che si autoproclama “dell’inclusione”.
«Inaccettabile, meglio non aggiungere null’altro se non chiedere all’autore di questa frase di domandare scusa», dice Ferruccio De Bortoli. «Frase non adeguata e non accettabile», secondo la ministra dell’Università e della Ricerca Maria Cristina Messa.
Ma dal cosiddetto “Cerchietto magico” sfuggono in tanti. L’influencer e sex columnist Carlotta Vagnoli proprio non ha tempo per commentare: «Devo andare a lavorare». «Trovo la domanda che mi fate sgradevole. Non voglio commentare», dice concitatissima la scrittrice Chiara Valerio.
Luciana Littizzetto, invece, “cade dal pero”, ma chiede un applauso per Striscia e per tutte le donne che scrivono libri per le altre donne. E il Salone risponde.
Da striscialanotizia.mediaset.it il 25 maggio 2022.
Nicola Lagioia accusa noi di Striscia la notizia di essere dei violenti che mistificano e manipolano. Ci accusa anche di subire nostre campagne mediatiche dal 2009.
Falsità: di lui ci siamo interessati soltanto due volte. Per legittima difesa, quando Lagioia aveva appoggiato chi aveva definito il nostro servizio sul CARA di Bari “il più nazista della storia della televisione”, commettendo l’errore di scambiare per una prigione il centro di accoglienza per i richiedenti asilo (2016). Successivamente, l’anno dopo, quando un uomo della cultura (forse un mitomane) aveva rivelato di aver ricevuto una sollecitazione dal ministro pugliese Massimo Bray per far diventare Lagioia direttore del Salone del libro. Altro che persecuzione: ma se abbiamo pure fatto pubblicità in trasmissione al suo libro La Ferocia! (Einaudi).
Strano, poi, che Lagioia accusi di violenza proprio la nostra Rajae, dopo tutte le botte che lei ha ricevuto sul campo. Ma il “Cerchietto magico” del direttore del Salone non ha mai detto una parola in difesa della nostra inviata, vittima di attacchi sessisti e percosse, dimostrando che esistono due pesi e due misure. Come quelli utilizzati per la frase, violenta e perversa, che Lagioia ha rivolto a Melissa P. Stroncatura del primo romanzo della scrittrice che lui ha pubblicamente pronunciato quando aveva trent’anni compiuti. Altro che giovane inconsapevole.
«Con lei c’è una sola cosa da fare. La prendi. La metti a novanta appoggiata a un tavolo. Poi prendi Lolita di Nabokov. Strappi le pagine. Gliele infili una per una nel c**o. Dopo un po’, per osmosi, qualcosa assimila per forza».
Ci resta ancora un dubbio (o meglio, abbiamo una certezza). Ora che Melissa Panarello è entrata nel suo omertoso “Cerchietto magico” e sono amichetti, Cento colpi di spazzola prima di andare a dormire è diventato un capolavoro mondiale?
Da striscialanotizia.mediaset.it il 25 maggio 2022.
Nicola Lagioia, direttore uscente del Salone del libro di Torino, ha indicato come suo successore la giornalista-scrittrice Loredana Lipperini, una delle più accalorate accolite del suo omertoso “Cerchietto magico”. La stessa Lipperini di cui Striscia si occupò nel 2011, quando un suo articolo finì su varie testate internazionali - tra cui il New York Times e il sito del quotidiano francese Le Figarò – facendo fare una magra figura all’Italia e agli italiani.
La futura direttrice del Salone sosteneva che in Italia in televisione la donna interpretava il ruolo di “bella e muta”. Ma non era vero niente! Infatti, sfortunatamente, lo stesso giorno della pubblicazione dell’articolo su Canale 5 andavano in onda un’infilata di programmi tutti condotti da donne: Federica Panicucci conduceva Mattino 5, Rita Dalla Chiesa Forum, Maria De Filippi Amici, Barbara D’Urso Pomeriggio 5, Alessia Marcuzzi il Grande Fratello, Paola Rivetta il Tg5 delle 13 e Cristina Parodi quello delle 20. Quell’anno Michelle Hunziker era al timone di Striscia la notizia con Ezio Greggio e le Veline del Tg satirico ballavano mute per 30 secondi, ma parlavano nei 70 secondi dedicati allo spazio pubblicitario.
Questo è spaccio internazionale di fake news. E dire che Loredana Lipperini, probabile futura direttrice del Salone del libro di Torino, dovrebbe invece diventare la garante di un sistema della cultura e dell’informazione indipendente, libero e soprattutto veritiero.
Lagioia, Striscia, Melissa e vecchie ruggini. Luigi Mascheroni il 21 Maggio 2022 su Il Giornale.
Lo show attacca ancora il direttore, che in passato aveva stroncato "Drive In".
Torino. Al Salone si punta all'alta Letteratura, ma a volte si scivola nella bassa polemica. Fra gli stand, un po' meno sui giornali, troppo allineati alla manifestazione, si chiacchiera sul caso Ricci-Lagioia. L'inviata di Striscia la notizia Rajae Bezzaz da giorni mette sotto attacco il direttore del Salone per una frase sessista di molti anni fa contro la scrittrice Melissa Panarello, all'epoca la Melissa P. di Cento colpi di spazzola, frase così pesante che se l'avesse detta un giornalista del Giornale lo avrebbero radiato dall'Ordine. Lagioia si è scusato, mentre il Comitato di salute pubblica del Salone gli ha stretto intorno un cordone sanitario difensivo, fatto soprattutto di silenzio. Intanto da due giorni un gruppo di iperfemministe manifesta fuori dal Lingotto contro Lagioia, distribuendo volantini (ieri c'era un banchetto per raccogliere firme di protesta). E così ecco condannato per sessismo il direttore del Salone più inclusivo che si possa immaginare. Morale: chi di politicamente corretto pontifica, di politicamente corretto si strangola. Intanto, Striscia continua a picchiare duro. Secondo Rajae Bezzaz - suo anche il sondaggio per capire quanti spettatori sono favorevoli alle dimissioni di Lagioia (65%) - «Le parole sono pietre: l'importante è non dimenticare la storia, soprattutto di questi tempi in cui l'indignazione su temi come il sessismo e le discriminazioni è altissima e spesso pure retroattiva». Ha le sue ragioni. Come ce le ha Lagioia: Antonio Ricci, uno che le cose se le lega all'Auditel, rimase malissimo quando, era il 2009, Lagioia nel romanzo Riportando tutto a casa infilò una micidiale stroncatura del suo Drive In...
Che poi. La cosa strana poi, non è tanto che Melissa Panarello oggi collabori a un podcast con la moglie di Lagioia, presentato qui al Salone. Ma che nel programma del Lingotto svetti quello di Lorenzo Beccati, scrittore e storico autore di Striscia la notizia e di Drive In. Com'è piccolo (in tanti sensi) il Salone.
Luigi Mascheroni per ilgiornale.it il 20 maggio 2022.
Sembrava di esserne appena usciti, sette mesi fa, edizione numero XXXIII, postdatata causa pandemia, era ottobre, e rieccoci qua, siamo a maggio, il mese tradizionale del Salone del Libro, ed è già la numero XXXIV... Il Lingotto è come una porta girevole, entri ed esci, senza neanche accorgertene. Vorremmo non chiudesse mai.
Intanto, si riapre: stamattina - cioè ieri per chi legge ancora i quotidiani, che sono persino meno dei già pochi che leggono i libri - inaugurazione molto understatement, in puro stile torinese. «È l'edizione più grande e più bella di sempre» ha detto il direttore Nicola Lagioia di fronte alle autorità civili, religiose, militari e intellettuali del Paese. Si segnalano: il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, del quale viene letto messaggio di rito; due ministri, Dario Franceschini per la Cultura e Patrizio Bianchi per l'Istruzione (discorsi molto istituzionali, niente di notevole);
il sindaco di Torino Stefano Lo Russo, sinistra, e il Governatore del Piemonte Alberto Cirio, destra, che lavorano sempre più in sinergia, indistinguibili nei programmi e nei valori (Cirio ha stappato champagne quando hanno eletto Lo Russo: il segreto per lavorare bene è che destra-sinistra si dividano nello stesso mandato Comune e Regione); e infine Nicola Lagioia, grande maître à penser di cerimonie, al suo penultimo anno di direzione.
Dall'anno prossimo sarà affiancato da una spalla, ancora da nominare (Loredana Lipperini, sotto la tutela di Marino Sinibaldi), alla quale lascerà poi nel 2024 la direzione assoluta. Lagioia è stato bravissimo nel suo mandato, pur essendosele attirate tutte: ha fatto dimenticare i guai finanziari-gestionali e lo scandalo degli ingressi gonfiati del passato, ha vinto la guerra dei Saloni contro Milano, ha tenuto in piedi due edizioni, una in streaming e una azzoppata, durante l'emergenza Covid, e ora festeggia con un Salone 2022 della ritrovata normalità e ricco di 1.400 incontri, 893 editori e 542 stand... Lagioia ha resistito a polemiche, rivalità, lotte intestine, virus, guerre. Per poi cadere sulla più banale delle accuse, quella di molestie sessuali (verbali).
Qualche giorno fa - e non si capisce davvero perché rivangare una storia vecchia 17 anni - Striscia la Notizia ha tirato fuori una frase del 2005 dello scrittore, all'epoca non ancora Premio Strega né direttore del Salone, rivolta a Melissa Panarello, allora semplicemente Melissa P., la quale aveva riscritto a suo modo Lolita in Cento colpi di spazzola prima di andare a dormire: «Con lei c'è una sola cosa da fare. La prendi. La metti a novanta appoggiata a un tavolo.
Poi prendi Lolita di Nabokov. Strappi le pagine. Gliele infili una per una nel culo. Dopo un po', per osmosi, qualcosa assimila per forza», disse Lagioia. Che a suo modo era anche una stroncatura divertente. Ma si sa... la nuova micidiale onda moralista del combinato disposto #MeToo, neofemminismo e cancel culture non dimentica. Nessuno è immune da colpe, un cadavere prima o poi si trova nell'armadio di chiunque, basta cercalo, e nessuno è davvero puro.
O comunque: c'è sempre qualcuno più puro di te. E così, nemesi di una edizione strapiena di incontri sull'inclusione, parità di genere, asterischi, schwa e rispetto reciproco, e inaugurata da discorsi tutti aperti da «Amiche e amici...», e tutti chiusi da «Buon salone a tutte e a tutti» - là dove abbondano i femminismi, i maschili sovraestesi sono banditi - ieri mattina, fuori dai cancelli del Lingotto, un piccolo gruppo di iperfemministe ha distribuito ai visitatori un simpatico volantino con la frase incriminata, firmata «Il direttore del Salone del Libro, Nicola Lagioia».
Morale: se tiri giù una statua di uno schiavista di quattrocento anni fa, poi non ti lamentare se qualcuno ti boicotta per una battuta del 2005... E cosa dicono ora le Murgie-Tagliaferri-Valerio-Selvaggia Lucarelli?
Cuori selvaggi - titolo del Salone di quest'anno - e pubblico ipereducato, il Lingotto, per il resto, è quello di sempre. Soliti visitatori entusiasti, oggi sono tornate addirittura le scolaresche che ci mancavano così tanto!, le solite parole d'ordine («Fluido è bello!»), i soliti slogan: «Leggere rende liberi», solita festa e soliti festival. Librai, bibliotecari, editori, scrittori, visitatori, critici, carta, ebook, audiolibri, TikTok, «Avanti, chi è?». Vorremmo che non finisse mai.
L'inizio è promettente. Stretta fra l'Eurovision e la finale di Champions League (femminile e femminista), Torino attraversa un momento spumeggiante, e il Salone ne guadagna. La cultura per una volta è protagonista, la quantità non si discute, la varietà neppure, la qualità è quella, tante parole, ancora più idee, niente mascherine Ffp2, tanto LGBTQ+, il Salone è una gioia, e un po' anche una Lipperini. Saranno cinque giorni fantastici. La parola d'ordine, lanciata dal direttore poco prima della lectio inaugurale di Amitav Ghosh, è «Molteplicità».
Il Salone - forte della lezione datagli da Christian Raimo che tre anni fa stilò la delirante lista di proscrizione contro l'editore Altaforte, reo di aver pubblicato un libro su Matteo Salvini - deve essere polifonico, accogliere tutte le voci e i punti di vista. E cosa minaccia la molteplicità? «Mettere a tacere qualcuno!». A volte - scorrendo l'elenco dei soliti nomi noti presenti, e quello dei soliti nomi noti che mancano - basta non invitarli. Buon Salone a tutti. Massì. E anche a tutte.
Dagospia il 21 maggio 2022. Riceviamo e pubblichiamo:
Il silenzio risentito delle scrittrici che addirittura reagiscono piccate, con tono di lesa maestà danti al microfono dell'inviata di "Striscia la notizia" al Salone del libro di Torino sul caso Nicola Lagioia-Melissa Panarello conferma plasticamente, antropologicamente, rionalmente la sostanza di ciò che si ha modo di definire “amichettismo”, cioè un patto di appartenenza assoluto ed esclusivo che sembra cancellare ogni dialettica o ancor peggio uccide il bene dell’ironia.
La palma d’oro in questa storia va alla scrittrice Chiara Valerio che così risponde risoluta alla cronista: "Trovo la domanda molto sgradevole!" (sic).
Con sicumera di chi sembra dire a noi nulla importa di questa “provocazione”, a noi è gradita la stima di Concita De Gregorio, nulla ci importa di Antonio Ricci, dunque possiamo ritenerci culturalmente autosufficienti. Cui ancora segue quel non meno risentito "Sto lavorando" di tal Carlotta Vagnoli.
Alla fine, ciò che appare agli occhi è una pagina di inenarrabile assenza di estro e, ripeto, di ironia; reticenza imbarazzante.
Per chi dovesse ignorare l’antefatto, anni fa, forse venti, in un accesso di polemica letteraria, usando un’iperbole che sarebbe certamente piaciuta a un Louis-Ferdinand Céline, l'attuale direttore del Salone, Nicola Lagioia, appunto, aveva così commentato la sostanza dell'opera letteraria di Melissa P.:
«Con lei c’è una sola cosa da fare. La prendi. La metti a novanta appoggiata a un tavolo. Poi prendi Lolita di Nabokov. Strappi le pagine. Gliele infili una per una nel culo. Dopo un po’, per osmosi, qualcosa assimila per forza».
La sensazione finale della querelle mostra un infelice e asserragliato in se stesso tinello letterario convinto di sé, segnato dall'assenza di vere individualità; sprezzante conformismo da comitiva.
Compreso il sottotesto moralistico implicito: con noi è "Fahrenheit" di Radiotre, mica "Striscia" che ci fa semplicemente orrore; parole assolutamente simmetriche a ciò che potrebbe pronunciare Nanni Moretti davanti allo spettro di Berlusconi.
Qualcuno, comprensibilmente, potrebbe obiettare, riferendosi alle parole “sgradevoli” di Lagioia, che si tratti di una battuta vecchia di vent’anni, e come tale caduta “in prescrizione”.
Vero, ma al contrario il senso d’appartenenza ora e sempre “amichettistica” in questa vicenda non sembra mai cancellarsi, andare in prescrizione, così come l’assenza di ironia. Da cui reazioni degne di chi è convinto della propria superiorità morale.
Eppure sarebbe bastata, ripeto, una risposta ironica, adulta, lontana dal livoroso gne-gne letterario adolescenziale per chiudere la cosa; e invece su tutto alla fine prevale la difesa d’ufficio dell’amichetto Nicola.
Nessuna individualità, solo l’impressione di comitiva complice, tutti in pullman verso Ansedonia a cantare “La canzone del sole” di Lucio Battisti, o piuttosto “Che coss’è l’amor” di Vinicio Capossela.
Il sottotesto del loro rifiuto a commentare è semplice: noi non riconosciamo autorità morale alcuna a "Striscia", cioè a Ricci, ergo all’empio Berlusconi, noi siamo la Radiotre di Sinibaldi-Lipperini; il nostro Re Sole è semmai Veltroni.
Se solo ci fosse stata invece Felpa Iemma, l’apprezzata autrice dei romanzi-bestseller “Perdite bianche” e infine proprio “Le amichette”, lei, sì, avrebbe trovato le parole esatte, la risata seppellitrice. Fulvio Abbate
LA REPLICA DEL GABIBBO A FULVIO ABBATE: Caro Dago, Fulvio Abbate ha toppato. L’empio Berlusconi è piuttosto riconducibile ai due autori in questione, di cui è l’editore. Ricordiamo infatti che Melissa Panarello pubblica con Mondadori e Nicola Lagioia è il cocchino di Einaudi (Berlusconi). Cordialità Il Gabibbo
E la scure "ultracorretta" colpisce il Salone buonista. Luigi Mascheroni il 20 Maggio 2022 su Il Giornale.
L'inaugurazione all'insegna dell'"inclusione" viene segnata dai volantini e dalle proteste contro il direttore Lagioia.
Sembrava di esserne appena usciti, sette mesi fa, edizione numero XXXIII, postdatata causa pandemia, era ottobre, e rieccoci qua, siamo a maggio, il mese tradizionale del Salone del Libro, ed è già la numero XXXIV... Il Lingotto è come una porta girevole, entri ed esci, senza neanche accorgertene. Vorremmo non chiudesse mai.
Intanto, si riapre: stamattina - cioè ieri per chi legge ancora i quotidiani, che sono persino meno dei già pochi che leggono i libri - inaugurazione molto understatement, in puro stile torinese. «È l'edizione più grande e più bella di sempre» ha detto il direttore Nicola Lagioia di fronte alle autorità civili, religiose, militari e intellettuali del Paese. Si segnalano: il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, del quale viene letto messaggio di rito; due ministri, Dario Franceschini per la Cultura e Patrizio Bianchi per l'Istruzione (discorsi molto istituzionali, niente di notevole); il sindaco di Torino Stefano Lo Russo, sinistra, e il Governatore del Piemonte Alberto Cirio, destra, che lavorano sempre più in sinergia, indistinguibili nei programmi e nei valori (Cirio ha stappato champagne quando hanno eletto Lo Russo: il segreto per lavorare bene è che destra-sinistra si dividano nello stesso mandato Comune e Regione); e infine Nicola Lagioia, grande maître à penser di cerimonie, al suo penultimo anno di direzione.
Dall'anno prossimo sarà affiancato da una spalla, ancora da nominare (Loredana Lipperini, sotto la tutela di Marino Sinibaldi), alla quale lascerà poi nel 2024 la direzione assoluta. Lagioia è stato bravissimo nel suo mandato, pur essendosele attirate tutte: ha fatto dimenticare i guai finanziari-gestionali e lo scandalo degli ingressi gonfiati del passato, ha vinto la guerra dei Saloni contro Milano, ha tenuto in piedi due edizioni, una in streaming e una azzoppata, durante l'emergenza Covid, e ora festeggia con un Salone 2022 della ritrovata normalità e ricco di 1.400 incontri, 893 editori e 542 stand... Lagioia ha resistito a polemiche, rivalità, lotte intestine, virus, guerre. Per poi cadere sulla più banale delle accuse, quella di molestie sessuali (verbali).
Qualche giorno fa - e non si capisce davvero perché rivangare una storia vecchia 17 anni - Striscia la Notizia ha tirato fuori una frase del 2005 dello scrittore, all'epoca non ancora Premio Strega né direttore del Salone, rivolta a Melissa Panarello, allora semplicemente Melissa P., la quale aveva riscritto a suo modo Lolita in Cento colpi di spazzola prima di andare a dormire: «Con lei c'è una sola cosa da fare. La prendi. La metti a novanta appoggiata a un tavolo. Poi prendi Lolita di Nabokov. Strappi le pagine. Gliele infili una per una nel culo. Dopo un po', per osmosi, qualcosa assimila per forza», disse Lagioia. Che a suo modo era anche una stroncatura divertente. Ma si sa... la nuova micidiale onda moralista del combinato disposto #MeToo, neofemminismo e cancel culture non dimentica. Nessuno è immune da colpe, un cadavere prima o poi si trova nell'armadio di chiunque, basta cercalo, e nessuno è davvero puro. O comunque: c'è sempre qualcuno più puro di te. E così, nemesi di una edizione strapiena di incontri sull'inclusione, parità di genere, asterischi, schwa e rispetto reciproco, e inaugurata da discorsi tutti aperti da «Amiche e amici...», e tutti chiusi da «Buon salone a tutte e a tutti» - là dove abbondano i femminismi, i maschili sovraestesi sono banditi - ieri mattina, fuori dai cancelli del Lingotto, un piccolo gruppo di iperfemministe ha distribuito ai visitatori un simpatico volantino con la frase incriminata, firmata «Il direttore del Salone del Libro, Nicola Lagioia». Morale: se tiri giù una statua di uno schiavista di quattrocento anni fa, poi non ti lamentare se qualcuno ti boicotta per una battuta del 2005... E cosa dicono ora le Murgie-Tagliaferri-Valerio-Selvaggia Lucarelli?
Cuori selvaggi - titolo del Salone di quest'anno - e pubblico ipereducato, il Lingotto, per il resto, è quello di sempre. Soliti visitatori entusiasti, oggi sono tornate addirittura le scolaresche che ci mancavano così tanto!, le solite parole d'ordine («Fluido è bello!»), i soliti slogan: «Leggere rende liberi», solita festa e soliti festival. Librai, bibliotecari, editori, scrittori, visitatori, critici, carta, ebook, audiolibri, TikTok, «Avanti, chi è?». Vorremmo che non finisse mai.
L'inizio è promettente. Stretta fra l'Eurovision e la finale di Champions League (femminile e femminista), Torino attraversa un momento spumeggiante, e il Salone ne guadagna. La cultura per una volta è protagonista, la quantità non si discute, la varietà neppure, la qualità è quella, tante parole, ancora più idee, niente mascherine Ffp2, tanto LGBTQ+, il Salone è una gioia, e un po' anche una Lipperini. Saranno cinque giorni fantastici. La parola d'ordine, lanciata dal direttore poco prima della lectio inaugurale di Amitav Ghosh, è «Molteplicità». Il Salone - forte della lezione datagli da Christian Raimo che tre anni fa stilò la delirante lista di proscrizione contro l'editore Altaforte, reo di aver pubblicato un libro su Matteo Salvini - deve essere polifonico, accogliere tutte le voci e i punti di vista. E cosa minaccia la molteplicità? «Mettere a tacere qualcuno!». A volte - scorrendo l'elenco dei soliti nomi noti presenti, e quello dei soliti nomi noti che mancano - basta non invitarli. Buon Salone a tutti. Massì. E anche a tutte.
Striscia la rivoluzione. Se ci tieni tanto che si parli di uno scandalo, parlane te. Guia Soncini su L'Inkiesta il 23 Maggio 2022.
La risposta migliore all’inviata di Antonio Ricci al Salone del libro che pretendeva condanne per una vecchia frase di Nicola Lagioia è arrivata da Carlotta Vagnoli, che, avendo fatto la barista, sa liquidare gli ubriachi molesti e anche le intervistatrici insistenti. Eppure la colpa di tutto questo, per certi versi, è proprio di Vagnoli in quanto simbolo di questo tempo in cui si feticizza la fragilità.
Da quando mi hanno detto che la chiacchiera più chiacchierata del Salone del Libro aveva a che vedere con Antonio Montecristo Ricci che da anni covava rancore contro Nicola Lagioia, e con una vecchia battutaccia di Lagioia su un libro d’una tizia nel frattempo divenuta per anzianità autrice rispettabile, e con “Striscia la Notizia” che ci difende dal patriarcato (se campi abbastanza a lungo, le vedi veramente tutte), penso molto a Gaia Servadio che non riusciva a pubblicare il suo primo libro.
«Avevo dato a Nicola Chiaromonte una trentina di pagine dattiloscritte del mio romanzo. Me le restituì con l’aria mesta dell’intellettuale meridionale, come per dire, Ma perché non provi un altro mestiere». Penso a Lagioia che dentro di sé scuote la testa come Chiaromonte, ma fuori invece di scuotere la testa opta per la battutaccia, in anni in cui una battutaccia poi non diventava uno screenshot da rinfacciarti a vita.
Se c’è una cosa che in Italia tutti quelli che si conoscono si ripetono è che in Italia non si può fare la rivoluzione perché ci conosciamo tutti. Se c’è una cosa che mi ripeto io è che la rivoluzione non la fa chi la deve fare, perché mai dovrei farla io (perché mai dovrebbe farla il cinema, diceva Ugo Tognazzi nella “Terrazza”).
Ci conosciamo tutti, e io ho come tutti paurissima di Ricci, e pure di Lagioia, pur non conoscendo nessuno dei due ma essendo come tutti a un grado di separazione da tutti. Di Melissa Panarello – per anzianità divenuta autrice – no, ed evidentemente non sono l’unica, ad aver paura di tutti tranne che di lei, perché quando c’è stato da andare a rompere i coglioni al Salone la coraggiosa inviata di “Striscia” non è andata a chiedere a Lagioia «ma le sembra una cosa da dire», bensì è andata a chiedere conto alla Panarello del suo essere ancella del patriarcato: non abbastanza offesa da non stare lì, vent’anni dopo, non abbastanza arroccata da tenere il muso a uno che le aveva detto le brutte cose. (Io neanche mi ricordo i nomi di quelli che vent’anni fa non mi richiamavano dopo avermi scopata, ma sono in effetti una persona molto distratta).
Ora, sto per certificare l’impossibilità della rivoluzione, confermandovi che l’unico modo per prendersi la libertà di parlar male di tutti è non conoscere mai nessuno, e lo faccio usando Carlotta Vagnoli, che tre giorni dopo essersi sputtanata presentando il mio libro ha certificato la propria inadeguatezza di santino postmoderno dicendo all’inviata di “Striscia” – che pretendeva di questo scandalo si parlasse – «e allora parlane te», che m’è parsa la risposta perfetta (per il caso specifico ma anche per la pretesa dei varietà giustizieri di macinare Siae facendoti collaborare gratis: parla di me, se ci tieni, ma senza la mia apparizione non retribuita nel tuo pezzettino di tv).
Penserete che lodi la risposta di Vagnoli perché una volta che la gente la incontri poi smetti di mostrificarla e qualunque disaccordo ti pare più ragionevole, ma c’è un altro elemento, e riguarda la ferma condanna di Vagnoli da parte delle militanti cancellette: loro gliel’hanno data, loro gliela tolgono.
Il punto è che la colpa è proprio di Vagnoli. Giuro. Tutta questa vicenda qui è la perfetta sintesi d’un tempo creato illudendo le menti meno attrezzate d’un po’ tutte le generazioni che non esista niente: non lo stato di diritto, non l’onere della prova, non la prescrizione, non la possibilità di fottersene, non l’eventualità che non te ne freghi niente se uno t’insulta, non l’ipotesi che se un insulto è sessuale non sia su un livello di speciale imperdonabilità, non la gestione privata degli scazzi pubblici, non il rattoppare i rapporti senza pubbliche contrizioni, non il fare un po’ come cazzo ti pare senza renderne conto alle tifoserie, non i rapporti di forza che cambiano nel tempo e a volte persino all’insaputa degli uno che continuano a valere uno. Tutto è tribunale della folla, tutto è da consumarsi nella pubblica arena, e tutto – ogni meccanismo – si rivolta prima o poi verso chi l’ha creato.
Certo, rivoltarlo è più facile se sei Antonio Ricci e stai vent’anni sulla riva del fiume ad aspettare paziente il giorno in cui potrai accusare Nicola Lagioia di maschilismo tirando fuori la volta in cui disse che a Melissa Panarello bisognava ficcare nel culo le pagine di Nabokov così magari imparava. Per osmosi, precisava imprecisamente Lagioia, e io son tre giorni che penso ma magari: fosse così facile, sai gli aerosol di «(picnic, lightning)» che mi farei; «(picnic, fulmine)» è lo stupendevole passaggio in cui, con due parole tra parentesi, il narratore di “Lolita ”sintetizza lo strano incidente che uccise sua madre, è la frase che chiunque ami le parole darebbe un rene e cinque posti in classifica per aver ideato, è il capolavoro che nessuna osmosi ti procura.
Ricci, a fare Ricci, è più bravo delle imbarazzate (quasi tutte donne) ospiti del Salone molestate dall’inviata di “Striscia” richiedente contrizione e pubblica condanna. Nessuna dice all’inviata: ma, con questo criterio del rinfaccio perpetuo d’ogni stronzata mai detta, dovremmo ancora star qui a parlare di voialtri che vi tirate gli occhi per fare i cinesi. Con questa indignazione perpetua si fanno i cuori sull’Instagram, ora vogliamo farci anche la tv?
Nessuna glielo dice, ma la migliore è Vagnoli perché – spero di venire condannata per il classismo di quest’affermazione, per variare rispetto alle abituali condanne per sessismo – ha fatto la barista: cosa vuoi che si spaventi d’un’inviata di “Striscia”, se sa liquidare gli ubriachi molesti. Per questo dico che è colpa sua, sua in quanto simbolo di questo sistema di feticizzazione della fragilità: perché meglio di altre sa che cavarsela è possibile, che non cedere ai prepotenti è possibile, e che non restare attaccate a vita alla sbucciatura che ci fece male è possibile.
Cavarsela è possibile, non restarci male è possibile, restarci male e farsela passare è possibile. Dopo vent’anni, e soprattutto quando la battutaccia Lagioia l’aveva fatta mentre la Panarello piangeva fino in banca: non stava esattamente infierendo su un soggetto debole, ma su una ragazza all’epoca molto più di successo di lui. Non che possa rivendicarlo, giacché viviamo in un gigantesco format di scuse perpetue e mai bastanti, e quindi sabato gli è toccato fare il suo contrito post ribadendo cenere sul capo: forse si potrebbero cominciare a produrre industrialmente, post di scuse per bisticci di vent’anni prima come un tempo si producevano in serie i biglietti di buon compleanno. Sarebbe una app di sicuro successo.
La Servadio raccontava che poi era andata da un agente, Erich Linder, che l’aveva rassicurata: «Non si preoccupi, gli editori italiani non capiscono niente». Invece gli scrittori. Invece gli autori televisivi. Invece noi.
Salone, i grandi scrittori di ieri e la solita intellighenzia di oggi. Luigi Mascheroni il 23 Maggio 2022 su Il Giornale.
Buzzati-Guareschi-Bianciardi stravincono. Boom Barbero Rula Jebreal fa la diva. E poi parte un lungo tappetto "rosso".
STRANE STORIE Secondo un rapporto di Save the Children di due giorni fa, metà dei ragazzi italiani non riesce a comprendere il significato di un testo scritto. L'altra metà, ieri mattina, dopo una delle code più tortuose della storia delle code di tutta la settimana del Salone, era in Sala 500 - da cui il numero dei posti - ad ascoltare Alessandro Barbero, romanziere premio Strega nel 1996, una storia sulla Bella vita e guerre altrui di Mr. Pyle, gentiluomo, e storico arrivato al successo attraverso diversi canali, il più veloce dei quali è YouTube. Titolo dell'incontro: «Come si spiega la Storia in pubblico». Risposta: come Barbero. Divertendosi a studiarla, che è la strada più sicura per divertire spiegandola; sapere che dietro a un minuto di divulgazione ci sono 99 ore di ricerca; senza spocchia (come, un po', ce l'ha Laura Pepe, accanto a lui); autoironia; e un po' di coraggio (o, nel suo caso, ci sembra, ingenuità): quella che a volte ti porta a dire cose non correttissime, ma magari più vere di quelle troppo corrette. Libera Storia tra liberi libri.
Sì O NO? «Quando una donna dice NO, è NO. E l'uomo lo deve capire». È stato l'incipit molto agitato, ma anche l'explicit, altrettanto nervoso, dell'incontro di Rula Jebreal. E il NO era reiterato all'inviato della trasmissione di Massimo Giletti, che la inseguiva tra gli stand per intervistarla. Ma la giornalista italo-israeliana-palestinese è stata chiara: quella di Giletti non è informazione, è un talk pieno di bugiardi, sciamani, stregoni, negazionisti, propagandisti, e non vuole andarci. «Una donna ha il diritto di dire No a un uomo, e l'uomo ha il dovere di capirlo». È un diritto di Rula. Ma anche un dovere notare due cose, a margine. Uno: l'inviato che lo inseguiva era una donna. Due: per fortuna che Giletti lavora per La7 di Cairo-Corriere della sera. Lavorasse con Berlusconi? Diocenescampi. Non è l'Arena Bookstock.
«LEGGETE!» Consiglio del regista e scrittore Werner Herzog, protagonista assoluto della domenica Salottiera: «Bisogna conoscere il cuore delle persone. Se non lo si conosce non bisognerebbe fare film o scrivere libri. Spesso i giovani registi vengono da me e mi chiedono cosa devono fare, io gli dico viaggiate a piedi e leggete leggete leggete leggete».
CLAP CLAP CLAP! Fra insegnamenti, inseguimenti, divismi giornalistici, code e un caldo cambogiano, la giornata ha regalato tre grandi incontri (bisognerebbe selezionare di più: programma più snello fa rima con programma più bello): l'omaggio a Dino Buzzati, starring Lorenzo Viganò; lo show su Giovannino Guareschi messo in scena da Enrico Brizzi; la performance dedicata a Luciano Bianciardi da Tiziano Scarpa. Imperdibili.
«E QUINDI!?» Cose invece di cui non ci interessa un Lingotto. Come Alessandro Gassmann è diventato green. Il sequel di Fai bei sogni di Massimo Gramellini, dieci anni dopo, e anche fra altri dieci. I bagni «no gender» di Cathy La Torre. Che al Salone si fa fatica a trovare liberi quelli normali.
NON NE USCIREMO MAI Percorsi strani. Ce ne sono di due tipi, qui. Miracolosi: come quello di Mircea Cartarescu, che fino a 5-6 anni fa era un oscuro scrittore dell'Est, ospitato di straforo nello stand dell'Istituto Romeno di Cultura umanistica di Venezia, e ieri mattina presto riempiva la sala Azzurra dove parlava del romanzo Solenoide. E poi Misteriosi: come si esce vivi da una settimana di Salone?
TUTTO A SINISTRA! Ieri l'intellighenzia più bella e democratica, la Sinistra di festival e di potere, ha fatto percorso netto. Dalle ore 10 in avanti, in ordine sparso fra tre padiglioni e l'Oval, si potevano ascoltare: Massimo Recalcati, Loredana Lipperini, Umberto Galiberti, Mario Calabresi, Altan e Luca Bottura, Andrea Cortellessa, Marino Sinibaldi, Rula Jebreal («Ho detto NO!»), Erri De Luca, Massimo Giannini, Umberto Galiberti (ancora), Michele Serra, Teresa Ciabatti, Chiara Tagliaferri (è la moglie di Nicola Lagioia), Sandro Veronesi, Lidia Ravera, Loredana Lipperini (ancora), Beppe Severgnini, Veronica Raimo (la sorella di Christian Raimo), Zerocalcare, Massimo Giannini, Marino Sinibaldi (ancora), il ministro degli Esteri Luigi Di Maio (in visita privata), Fabrizio Gifuni, Gianrico Carofiglio, Cecilia Strada (figlia di), La rappresentante di lista, Massimo Gramellini (e tre), l'ala ultradestra della Sinistra Travaglio-Gomez-Barbacetto, Loredana Lipperini (e quattro), Walter Veltroni (in sala Rossa) e Laura Boldini (in sala Bianca). Sono le 19,30. Ed è abbastanza.
Salone del libro e Circolo dei lettori: non regaliamoli alla sinistra. Francesco Giubilei il 22 Maggio 2022 su Il Giornale.
Il centrodestra ha l'opportunità di influenzare la scelta del prossimo direttore del Salone del libro di Torino e il presidente del Circolo dei Lettori, un'oppurtunità da non sprecare.
Nei giorni in cui migliaia di visitatori affollano i padiglioni del Salone del libro di Torino, tra gli addetti ai lavori del mondo editoriale e culturale c’è fibrillazione per due importanti nomine che influenzeranno nei prossimi anni le politiche culturali italiane. Si tratta della scelta del nuovo direttore del Salone del libro che dovrà succedere a Nicola Lagioia e del nuovo presidente del Circolo dei Lettori di Torino. Se nel primo caso c’è ancora tempo per arrivare a una decisione, per il Circolo dei Lettori si è alle battute finali. Istituzione torinese con prestigio nazionale, la nomina del nuovo direttore spetta alla regione che è governata dal centrodestra. In queste settimane sono circolati vari nomi e la partita è ancora aperta con due ipotesi in campo: da un lato tecnici che rischierebbero di non essere tali ma sbilanciati a sinistra, dall’altro una figura di spessore con valori assimilabili al mondo del centrodestra.
Tra i nomi circolati c’è quello dell’avvocato Stefano Commodo, personalità con legami nella società piemontese e soprattutto apprezzato anche nel mondo editoriale per le sue iniziative culturali. Sarebbe una scelta importante perché garantirebbe la nomina di un profilo culturale e valoriare ben definito. Il rischio di affidarsi a figure “tecniche” ma vicine all’apparato culturale della sinistra potrebbe avvenire per il Salone del libro di Torino di cui nel 2024 verrà indicato il nuovo direttore.
Si tratta di una questione di principio: quando la sinistra è al governo a livello nazionale, regionale, comunale, tende a compiere (attualizzando la lezione dell’egemonia gramsciana) un’occupazione dei posti chiave in ambito culturale. Siano essi teatri, fondazioni, circoli letterari, nulla viene lasciato al caso e nessuna posizione viene concessa a chi proviene da una diversa tradizione politico-culturale. Quando il centrodestra ha l'opportunità di governare, è necessario seguire lo stesso modus operandi e promuovere personalità, a livello locale e nazionale, che non solo non siano ostili ma provengano da un campo di gioco ben definito. Ciò non significa per forza scegliere figure con una connotazione partitica bensì orientarsi verso nomi che abbiano una visione valoriare condivisa. Solo così si potrà incidere riuscendo a realizzare programmi, eventi, iniziative che promuovano temi e autori spesso (ingiustamente) lasciati ai margini o che non trovano spazio quando la gestiione è di segno opposto. Il Salone del libro e il Circolo dei lettori rappresentano una doppia occasione da non perdere dal momento in cui il centrodestra governa in Piemonte e ha la possibilità di far sentire la propria voce.
I booktoker che fanno leggere i ragazzi della generazione Z. Stefania Vitulli il 20 Maggio 2022 su Il Giornale.
Minirecensioni, slogan, riti: i tiktoker sono diventati i "critici di riferimento" degli adolescenti. E gli editori...
Balletti e canzoncine, tutorial sul cibo, la tazzina di caffè o gesta posh e gestacci trash delle star? Forse all'inizio. Ma come tutti i mezzi di comunicazione, anche TikTok trova forme insospettabili, almeno dai boomer, per rendersi popolare e rendere popolari modi e mode dettati dagli influencer. Da qualche tempo sotto la lente di questa popolarità sono finiti i libri e il target è rimasto quello dei giovanissimi. Chi pubblica sulla piattaforma brevi video sui libri si chiama booktoker, termine che deriva dall'unione di book e tiktoker: sono recensioni lampo, di pochi secondi. Durata che accende la creatività, anziché limitarla, il che è forse uno dei motivi per cui quelle recensioni, se inserite nell'hashtag giusto, possono moltiplicare fino a nove volte il volume delle vendite di un titolo, uscito di recente o meno.
È successo a La canzone di Achille di Madeline Miller (Marsilio) nell'estate del 2020 negli Stati Uniti: a nove anni dall'uscita, è d'un tratto ripartito a razzo con 10mila copie al giorno. Mistero felice, e subito svelato: la diciottenne Selene Velez, @moongirlreads_ su TikTok, che conta oltre 160mila follower, lo inserisce nella sua lista dei «libri che vi faranno piangere»: in pochi giorni dal migliaio di copie medie di vendita su cui si era attestato (nonostante l'Orange Prize vinto nel 2012: meglio TikTok o un premio letterario? Pensiamoci su), il titolo decuplica, mentre l'hashtag #songofachilles sfora il tetto dei venti milioni di visualizzazioni. Questo era solo l'inizio: oggi i booktoker sono un fenomeno riconosciuto: non solo dal consueto pubblico adolescenziale e spesso infantile, bensì, udite udite, da esperti del settore ed editori. Merito dei numeri, certo, ma anche del rivitalizzarsi di una speranza: vuoi vedere che abbiamo trovato il modo di parlare di libri? Le parole rivoluzionarie per i teen sono brevità, spontaneità, emotività, anche se, come accade spesso con le piattaforme giovanili, TikTok sta diventando anche giovanilistico e gli over 40 non vedono l'ora di girare i propri video in cui recensire i libri del cuore.
Prendiamo l'hashtag #booktok: supera i 50 miliardi di visualizzazioni (mentre per #booktokitalia siamo a quasi 600milioni) e per editori e influencer è diventato un punto di riferimento per la promozione di titoli young adult, romance, fantasy sotto forma di suggerimento, recensione o anche soltanto un meme divertente: l'ecommerce di libri ha creato nuove categorie dedicate a BookTok come «TikTok made me buy it!» su Amazon UK o il BookTok sullo store di Barnes & Noble, mentre prendono piede hashtag sempre più specifici come #RomanceBooks, #RomanceTok, #BookRecs o #BookRecommendations. Il popolo di internet va su TikTok quando deve decidere che cosa va letto in quel momento a seconda dell'umore - ed ecco i titoli «che ti fanno piangere» o quelli che «non riesci a metter giù» - corredati da consigli che fanno la fortuna di chi ha l'idea più bizzarra, tipo «Che vestito indossare per entrare in un castello con l'amore della tua vita» o «i segni zodiacali di Hunger Games». Fra i titoli che devono dire grazie alle booktoker ci sono Heartstopper di Alice Oseman (Mondadori, anche serie Netflix), It ends with us. Siamo noi a dire basta di Coleen Hoover (Sperling&Kupfer) e un fenomeno nel fenomeno, Erin Doom e il suo Fabbricante di lacrime (Magazzini Salani). La Doom ha esordito con il nickname DreamsEater su Wattpad, piattaforma di autopubblicazione che è anche network per scrittura e recensioni collettive, e il nome è in realtà lo pseudonimo di una giovane scrittrice italiana: un gioco digitale di scatole cinesi che a ogni ingresso in una nuova piattaforma produce un aumento esponenziale di popolarità, follower e vendite.
Che il mezzo sia dirompente lo ha capito anche il Salone del Libro di Torino, che ha accolto la richiesta de ilLibraio.it di mettere l'ascesa di BookTok al centro di un vero e proprio miniworkshop tra addetti ai lavori: domani (Arena BookStock, 15.45) Antonio Prudenzano, che promuove l'incontro, la filosofa Maura Gancitano, Enrico Galiano, noto come uno dei prof più attivi sui social e scrittore, il direttore editoriale di Magazzini Salani Marco Figini, la redattrice de ilLibraio.it Jolanda Di Virgilio e soprattutto due tra le booktoker italiane più amate, Megi Bulla alias @labibliotecadidaphne e Valentina Ghetti alias @book.addicted discuteranno di «Cosa (e come) legge la generazione TikTok», senza dimenticare Wattpad, YouTube, Twitch e l'impatto dell'autopubblicazione su tutti questi media.
Ma come sono queste video/recensioni, quasi sempre sotto il minuto? Sicuramente ai profani conviene partire dalle booktoker italiane per capirci qualcosa, magari proprio da Megi Bulla e Valentina Ghetti, che al momento hanno ottimi numeri - 186mila follower la prima e oltre 85mila la seconda - e che rivelano un vero e proprio canone: bisogna essere molto naturali e poco patinati, l'algoritmo premia chi rimane lontano da filtri e perfezione tipici di Instagram, cioè, ma gli obiettivi di comunicazione devono essere comunque rilevanti e trasparenti, dagli insert di altri video nel proprio al second screen, ai tour tra gli scaffali della propria libreria e alle sfide di lettura di un volume in 24 ore. Megi ad esempio ha trovato il suo modus nei «live di lettura» dalle 21 alle 23 sulla sua poltrona gialla davanti alla libreria e guai a chi ha la suoneria del telefono accesa: i libri diventano un ulteriore elemento di appartenenza generazionale e i codici devono essere condivisi, pena l'insuccesso o, peggio, l'invisibilità.
Pacifismo, ecologia, genere: i soliti temi e i soliti protagonisti. Paolo Bianchi il 20 Maggio 2022 su Il Giornale.
Gli editori sgraditi? Esclusi. Si parla solo di "certe cause". E i relatori sono sempre gli stessi, legati a triplo filo.
Anche i puri tengono famiglia. A corollario della polemica che ha coinvolto il direttore del Salone Lagioia, notiamo che la fiera di Torino è ormai diventata talmente inclusiva da risultare esclusiva per tutti gli altri. Abbiamo notizia (senza fare i nomi per non causare dannazioni perpetue) di scrittori e editori di tutto rispetto, in campo da decenni, a cui la direzione di questa baracca ha negato spazio e facoltà di parola. Forse erano colpevoli di non aver proposto interventi su uno o più dei seguenti temi: violenza di genere, linguaggio non binario, difesa degli omosessuali bullizzati, pacifismo da salotto, ecologia generica. In compenso, basta scorrere i nomi di quelli che parlano sempre, per accorgersi della vastità di spazio pubblico loro garantito. Praterie. Anche qui, non faremmo nomi, anche perché chiunque può andare a controllare di persona sul sito di questo Minculpop di detentori delle chiavi d'accesso.
Narcisisti invadenti che si costruiscono la carrierina sull'ecolalia del loro Verbo infuso. Ecco le istruzioni per fare come loro: come avrebbe detto Eduardo De Filippo «Mettiti un povero al fianco, ci camperai tutta la vita». Parafrasando, prendere una donna oppressa, un gay sbeffeggiato, un fuggiasco dalle pallottole, una vittima dell'inquinamento, e strepitare ai quattro venti quanto la loro condizione ti commuova e quanto sia colpa della destra. Dare del fascista a chi dubita della tua buona fede (soprattutto dopo aver constatato quanta pubblicità personale tu ti stia facendo nello sventolio della tue insegne di purezza). Mettersi dalla parte della ragione senza contraddittorio. Acquisire il potere di stabilire chi può parlare sempre e chi mai, e poi compilare il calendario con amici e parenti. Essere, per questo profumatamente pagati con uno stipendio a cinque zeri, in modo da sistemare anche la discendenza.
Intellettuali organici che parlano in cinque, sei, nove, anche undici incontri in tre giorni. Abbastanza faticoso, a ben dire. Ma vuoi mettere i vantaggi. Parlerai dei tuoi libri, di quelli dei tuoi amici (i quali poi parleranno benissimo di quelli di tua moglie), e avrai sempre nuovi amici che ti renderanno il favore (finché sei in sella, poi ciao).
Certo, ti toccherà indignarti a favore delle donne che vogliono giocare a pallone con i maschi; equiparare una Resistenza con un'altra a ottant'anni di distanza e al di fuori di ogni analogo contesto storico; lacrimare per l'albero segato; intenerirsi per la presenza dei trans su TikTok; tendere, ma solo metaforicamente, e quindi a costo zero, la mano al povero Cristo del Terzo mondo. Poi, mentre ci sei, parlare del tuo ultimo libro, esaltarlo, esaltare te stesso, tromboneggiare, paragonarti, chessò, a Ennio Flaiano, metterti sullo stesso piano di Giovanni Papini, di Anna Maria Ortese, di Mario Rigoni Stern. Tanto sono tutti morti, mica possono uscire dalla tomba e venirti a prendere a calci nel sedere.
Che Veronica Raimo (oops, ci è sfuggito un nome), il cui fratello, stretto collaboratore dell'attuale direttorino, tre anni fa ha fatto cacciare dal Salone una casa editrice perché non gli piacevano i suoi libri; che costei, dunque, visto che vuol vincere il Premio Strega, debba godere di un'esposizione di gran lunga superiore a qualunque altro concorrente; che la moglie del direttorino strapagato possa intervenire a far pubblicità a se stessa nelle fasce orarie più appetibili. Che la candidata alla prossima direzione (e al prossimo stipendio) possa intervenire ovunque, è accettato come cosa naturale.
Tutto in nome dei deboli e degli emarginati. Nel nome della famiglia, purché sia la propria.
Premio Pulitzer 2022, ecco tutti i vincitori. Il Domani il 10 maggio 2022
Al Washington Post è andato il premio Pulitzer – medaglia d’oro – per la categoria giornalistica “servizio pubblico”. Premio speciale invece ai giornalisti dell’Ucraina «per il coraggio, la perseveranza e l’impegno dei resoconti veritieri durante la spietata invasione del loro paese da parte di Vladimir Putin»
I vincitori del premio Pulitzer 2022 sono stati annunciati ieri sera, 9 maggio, alla Columbia University di New York che è l’istituzione che ne cura l’assegnazione. Considerato come l’onorificenza più prestigiosa del giornalismo americano e internazionale, il premio fu istituito per volontà dell’editore e giornalista Joseph Pulitzer e assegnato per la prima volta nel 1917.
Le categorie premiate sono 21, 15 riguardano il giornalismo e sette le arti e le lettere. I vincitori di ogni categoria ricevono un premio di 15mila dollari, a eccezione del premio per il servizio pubblico, che ottiene una medaglia d'oro.
LE CATEGORIE
Le 15 categorie dedicate al giornalismo comprendono: servizio pubblico (Public Service), ultim’ora (Breaking News Reporting), divulgativo (Explanatory Reporting), investigativo (Investigative Reporting), locale (Local Reporting), nazionale (National Reporting), internazionale (International Reporting), miglior articolo (Feature Writing), commento (Commentary), critica (Criticism), editoriale (Editorial Writing), vignetta editoriale (Editorial Cartooning), fotografia di ultim'ora (Breaking News Photography), servizio fotografico (Feature Photography), poscast (Audio Reporting).
Le sette categorie dedicate alle artie a alle lettere invece includono: narrativa (Fiction), drammaturgia (Drama), storia (History), biografia e autobiografia (Biography or Autobiography), pesia (Poetry), saggistica (General Non-Fiction), musica (Music).
I VINCITORI
Servizio pubblico (Public Service)
La medaglia d’oro per il “servizio pubblico” è andata al quotidiano statunitense Washington Post per aver documentato l’attacco di Capitol Hill del 6 gennaio 2021, quando i sostenitori del ex presidente Donald Trump assaltarono il Congresso. Secondo la giuria, il quotidiano ha fornito «al pubblico una comprensione completa e incrollabile di uno dei giorni più bui della nazione».
Ultim'ora (Breaking News Reporting)
Il premio per la categoria “breaking news” è andata allo staff del quotidiano di Miami Herald (Florida) per aver fornito «una scrittura chiara e compassionevole con notizie complete e rapporti di responsabilità» nel coprire con urgenza il crollo di un complesso condominiale a nord di Miami Beach, avvenuto il 24 giugno 2021.
Giornalismo investigativo (Investigative Reporting)
Premio Pulitzer per la categoria “giornalismo investigativo” ai giornalisti Corey G. Johnson, Rebecca Woolington e Eli Murray del Tampa Bay Times, quotidiano di St. Petersburg, in Florida, per il lavoro intitolato Poisoned. «Una denuncia convincente sui rischi altamente tossici all’interno dell’unico impianto di riciclaggio di batterie della Florida che ha costretto l'attuazione di misure di sicurezza per proteggere adeguatamente i lavoratori e i residenti nelle vicinanze».
Tampa Bay Times. Da sinistra, l'editore e vicepresidente del Tampa Bay Times, Mark Katches, posa con i giornalisti investigativi Rebecca Woolington, Corey C.Johnson ed Eli Murrray, la squadra che ha ricevuto il Premio Pulitzer 2022 per i rapporti investigativi, per "Poisoned"
Giornalismo divulgativo (Explanatory Reporting)
Nella categoria del “giornalismo divulgativo” il premio è andato alla redazione della rivista scientifica on line Quanta Magazine e in particolare Natalie Wolchover, per aver restituito «la complessità della costruzione del telescopio spaziale James Webb», a raggi infrarossi, lanciato in orbita il 25 dicembre 2021 dlla Guiana Francese, «progettato per facilitare la ricerca astronomica e cosmologica rivoluzionaria».
Giornalismo locale (Local Reporting)
Il premio per il “giornalismo locale” è andato ai giornalisti Madison Hopkins, dell’associazione di giornalismo investigativo indipendente Better Government Association, e Cecilia Reyes, del quotidiano Chicago Tribune. Hanno svolto un’inchiesta sulla lunga storia di violazioni delle misure di sicurezza nell’edilizia di Chicago, causa di decine di morti sul lavoro.
Giornalismo nazionale (National Reporting)
Al New York Times il premio nella categoria “giornalismo nazionale”, per l’inchiesta sulle pratiche usate dalla polizia durante i controlli stradali, che avrebbero portato all’uccisione centinaia di persone disarmate negli ultimi cinque anni. «Un progetto ambizioso che ha quantificato un modello inquietante di arresti mortali del traffico da parte della polizia, mostrando come si sarebbero potute evitare centinaia di morti».
Giornalismo internazionale (International Reporting)
Anche il premio del “giornalismo internazionale” è andato al New York Times, «per i rapporti coraggiosi e implacabili che hanno messo in luce» le vittime civili degli attacchi aerei guidati dagli Stati Uniti» nei teatri operativi di Iraq, Siria e Afghanistan, «sfidando resoconti ufficiali».
Miglior articolo (Feature Writing)
Vincitrice di questa categoria è stata Jennifer Senior della rivista culturale statunitense The Atlantic, «per un ritratto risoluto» sulla perdita in occasione del ventesimo anniversario dell’attacco alle Torri gemelle dell’11 settembre. Il lavoro ha raccontato il lutto e le ricerche dei famigliari di un ragazzo morto durante l’attentato «intrecciando la storia con resoconti sensibili che rivelano la lunga portata del dolore».
Commento (Commentary)
Premio per il miglior commento a Melinda Henneberger del quotidiano Kansas City Star, che con articoli persuasivi ha chiesto «giustizia per le presunte vittime di un ex poliziotto in pensione accusato di essere uno stupratore».
Critica (Criticism)
Nella categoria “critica” troviamo di nuovo il New York Times, ad aggiudicarselo è stato Salamishah Tillet, «per la scrittura colta ed elegante» che racconta gli afroamericani nell’arte e nella cultura pop, «un lavoro che unisce con successo il discorso critico accademico e non accademico»
Editoriale (Editorial Writing)
A Lisa Falkenberg, Michael Lindenberger, Joe Holley e Luis Carrasco del quotidiano texano Houston Chronicle, il premio per la categoraia “editoriale”. Hanno svolto una «campagna che, con rapporti originali, ha rivelato tattiche di repressione degli elettori, ha respinto il mito della diffusa frode elettorale e ha sostenuto riforme elettorali sensate».
Vignette (Editorial Cartooning)
Il premio per le illustrazioni è andato a Fahmida Azim, Anthony Del Col, Josh Adams e Walt Hickey di Insider, per il racconto in fumetti della storia «dell’oppressione cinese degli uiguri, rendendo il problema accessibile a un pubblico più ampio».
Fotografia di ultim'ora (Breaking News Photography)
Premi fotografici a Marcus Yam del quotidiano Los Angeles Times, «per le immagini crude e urgenti della ritirata degli Stati Uniti dall'Afghanistan» e a Vinci McNamee, Drew Angerer, Spencer Platt, Samuel Corum e Jon Cherry dell’agenzia fotografica di Seattle Getty Images, «per foto complete e sempre avvincenti» relative all'attacco al Campidoglio degli Stati Uniti.
Servizio fotografico (Feature Photography)
Premio per il miglior servizio fotografico ai fotoreporter dell’agenzia stampa Reuters Adnan Abidi, Sanna Irshad Mattoo, Amit Dave e al defunto Siddiqui di Reuters per le immagini sul Covid in India, «che hanno bilanciato intimità e devastazione, offrendo agli spettatori un maggiore senso del luogo».
Poscast (Audio Reporting)
Il premio per la sezione multimediale del giornalismo audio è andato alla redazione dell’organizzazione di giornalismo multimediale, Futuro Media di New York, e all’organizzazione di giornalismo audio Prx di Boston, per il podcast Suave, che racconta il ritorno nella società di un uomo dopo una pena di trent’anni in carcere.
Drammaturgia (Drama)
Il premio per la “drammaturgia” se lo è aggiudicato l’opera teatrale Fat Ham , di James Ijames. «Una commedia divertente e toccante che traspone abilmente "Amleto" in un barbecue di una famiglia» degli Stati Uniti del Sud.
Storia (History)
Nella sezione “storia” sono stati premiati i libri Covered with Night, di Nicole Eustace (edito da Liveright/Norton) e Cuba: An American History, di Ada Ferrer (edito da Sribner). Raccontano rispettivamente dell’amministrazione della giustizia tra gi indigeni e di come l’isola di Cuba sia diventata un’ossessione per molti presidenti americani.
Biografia e autobiografia (Biography or Autobiography)
Chasing Me to My Grave: An Artist's Memoir of the Jim Crow South , dell’artista afroamericano Winfred Rembert venuto a mancare nel marzo 2021, raccontato a Erin I. Kelly (edito da Bloomsbury). «Un bruciante resoconto illustrato in prima persona della vita dell’artista negli anni Cinquanta e Sessanta, in un angolo del profondo sud: un resoconto di abusi, resistenza, immaginazione e trasformazione estetica».
Poesia (Poetry)
Premio “poaesia” all’opera Frank: sonetts , di Diane Seuss (edito da Graywolf Press), «una raccolta virtuosistica che espande in modo inventivo la forma del sonetto per affrontare le contraddizioni disordinate dell'America contemporanea, inclusa la bellezza e la difficoltà della vita della classe operaia nella Rust Belt», la regione sttatunitense compresa tra i monti Appalachi settentrionali e i Grandi laghi, un tempo cuore dell'industria pesante statunitense.
Saggistica (General Non-Fiction)
Nella “saggistica generale” il Pulitzer 2022 è stato assegnato al libro Bambino invisibile: povertà, sopravvivenza e speranza in una città americana, di Andrea Elliott (edito da Random House). «Un racconto toccante» di una ragazza che diventa maggiorenne durante la crisi dei senzatetto di New York. «Un ritratto di resilienza nel mezzo del fallimento istituzionale che fonde con successo la narrativa letteraria con l'analisi politica».
Musica (Music)
Voceless Mass, del musicista Raven Chacon, si è aggiudicato il premio Pulitzer “musica”, «un'opera originale e affascinante per organo».
Premio speciale
Infine, il premio speciale Pulitzer 2022 è stato assegnato ai giornalisti dell’Ucraina «per il loro coraggio, la perseveranza e l’impegno messo nei resoconti veritieri, durante la spietata invasione del loro paese da parte di Vladimir Putin e la sua guerra di propaganda in Russia».
«Nonostante i bombardamenti, i rapimenti, l’occupazione e persino le morti nei loro ranghi, hanno persistito nel loro sforzo di fornire un quadro accurato di una terribile realtà, facendo onore all'Ucraina e ai giornalisti di tutto il mondo», si legge nelle motivazioni della giuria.
Premio Strega: politicamente corretto. Marcello Fois: «Il Premio Strega determina o subisce il mercato?».
Marcello Fois su L'espresso il 23 maggio 2022.
Lo scrittore sciorina una serie di domande scomode intorno al più importante riconoscimento letterario italiano. Tra le altre: “Un romanzo in classifica è, necessariamente, da cinquina?”
Qualche tempo fa, in un salotto bolognese, dopo aver assistito alla presentazione di un romanzo, si discuteva sul fatto che, per ragioni apparentemente imperscrutabili, il Premio Strega avrebbe, come dire, cambiato pelle. La qual cosa, ben inteso, non è un male di per sé, ma lo diventa se questo cambiamento rappresentasse un travisamento, se non un vero e proprio tradimento, della sostanza che ha fatto diventare questo riconoscimento il più importante dell’editoria, a volte anche della letteratura, italiana. Gli argomenti sul tavolo erano vari. Primo fra tutti quello che riguarda il mercato come punto attraverso il quale si possa monitorare il peso, crescente o calante, della manifestazione. Ma il Premio Strega il mercato lo determina o lo subisce? Si chiedeva qualcuno. Una domanda tutt’altro che peregrina considerato il fatto che, nella composizione delle cinquine sempre più spesso si fa riferimento alla presenza di romanzi che sono già sul mercato e hanno già manifestato un riscontro da parte dei lettori. Perciò la domanda, presa d un altro punto di vista sarebbe: un romanzo in classifica è, necessariamente, da cinquina? O meglio: la presenza in classifica favorisce l’ingresso in cinquina qualora quel romanzo sia stato proposto, poi selezionato per i dodici e così via? È una domanda che attiene ad un punto diciamo deontologico di un premio di questa caratura e cioè il vezzo di sondare la scrittura del nostro Paese sorvolando le secche di ciò che va di moda e tenendo la barra su ciò che si propone, ed è progettato, per resistere. Si capisce da subito che tutte le domande che la società letteraria può farsi su questo argomento su questo argomento sono necessariamente domande scomode. Innanzitutto perché una delle caratteristiche dell’agire intellettuale, è proprio di non aver nessuna paura delle domande scomode.
Scomodissima è la domanda sul fatto che sia lecito o meno favorire l’ingresso di esordienti assoluti nel novero dei candidati e qualche volta dei vincitori. La nota teoria Pirandello metteva in guardia dall’ammettere ai premi letterari, che non fossero dedicati specificatamente a quella categoria, esordienti assoluti, o opere prime. E questo perché, affermava il nostro Nobel, ci sono premi che prospettano carriere e premi che certificano carriere. Mi sembra una questione seria, che ha a che fare ancora una volta col peso specifico che un riconoscimento pubblico deve, o dovrebbe considerare, prima dell’assegnazione. Ora qualcuno obbietta che una manifestazione consolidata come il Premio Strega ha anche il dovere di sondare il nuovo che avanza non solo di attestare carriere in corso. Secondo altri inseguire la novità significa troppo spesso confondere il nuovo col nuovismo e adattarsi supinamente all’idea che basti essere giovani, o, peggio, giovanili per garantirsi un posto tra i candidati. Poi c’è la questione annosa di quello che i detrattori chiamano “Cencelli editoriale” e sarebbe: davvero tutte le case editrici o varie, grandi e piccole, debbono necessariamente essere rappresentate al Premio Strega? Faccio la domanda diversamente: stiamo parlando di una gara tra autori e romanzi o tra case editrici? Chiarisco che se dovesse assodarsi la seconda ipotesi non ci sarebbe niente di male. Ma, al momento, il nostro premio, pare ancora attribuirsi ad opere di narrativa, con tutte le estensioni del caso. E se venisse fuori che in un anno specifico tre romanzi di un’ipotetica cinquina sono dello stesso editore? Sarebbe un problema? Vale a dire: si può escludere un ottimo romanzo di una casa editrice per far posto ad un mediocre romanzo di un’altra casa editrice in deficit di rappresentatività? E la quota per le piccole case editrici? E se capitasse un anno che tutti i libri degni della cinquina, secondo gli Amici della Domenica siano di piccole case editrici?
E qui sorge la domanda delle domande. Il Premio Strega ha finito per decretare il suo vincitore attraverso il doppio turno tra giuria “tecnica” e “giuria popolare” come il Campiello, o è rimasto quel Premio di cui la Bellonci affermava essere l’unico deliberato da un’ampia giuria di pari provenienti dal mondo della letteratura, dell’arte, del cinema, dello sport, della società civile? Le novità di questi anni per quanto riguarda proposta, selezione ed esclusione dei candidati pare far propendere proprio per quel modello in cui questa giuria di pari avrebbe un nucleo di più pari che decide per tutti. E lo dico da amico della domenica che ogni anno, spero con grazia, svolge al meglio che può il suo compito di giurato. Lo dico anche da passato candidato alla cinquina. Ho un grande rispetto e stima per i miei colleghi che si sono presi l’onere di far parte del gruppo dei più pari, ma non nego che spesso soffro questa sperequazione, perché se mi si dice che ho libertà di proposta, che cioè posso segnalare al premio un romanzo che secondo me merita attenzione, quell’attenzione deve avere un senso. La mia presenza nel gioco dei pari deve essere equipollente. Se no mi si dica con chiarezza che, per mutazione genetica, questa parità non esiste o che viene congelata fino a che i più pari non avranno stabilito una dodicina sui libri proposti. E quest’anno sono stati 74. Ad essere schietti si dovrebbe avere il coraggio di dire che le riforme continue del sistema di voto dello Strega hanno trasformato parte della giuria di pari in una giuria popolare. E, ancora e sempre, non ci sarebbe niente di male in questo a patto però che non si proclamasse il contrario. A patto cioè che non si insista con la retorica del Premio a sé. Un libraio presente nel salotto bolognese da cui questa mia riflessione ha preso il via, ha concluso amaramente, proprio prima che ci congedassimo, che il Premio Strega ormai offre una cassa di risonanza notevole solo ai libri che già funzionano e che non è più in grado di determinare un’alternativa all’attuale, generare un Pantheon, consacrare una carriera letteraria. Lo faceva, dice il libraio, non lo fa più.
Mario Desiati ha vinto il premio Strega. Il Domani l'08 luglio 2022
Lo scrittore pugliese ha ottenuto il premio con Spatriati, un romanzo ambientato nella sua Martina Franca e dedicato all’emigrazione dal sud Italia
Lo scrittore Mario Desiati ha vinto ieri sera il Premio Strega con il romanzo Spatriati, edito da Einaudi una storia di amore e di emigrazione dal mezzogiorno. Quella di ieri è stata la prima edizione con sette finalisti. Al secondo posto è arrivato Claudio Piersanti con Quel maledetto Vronskij, Rizzoli. Al terzo Alessandra Carati, con E poi saremo salvi, Mondadori. Quarto posto Veronica Raimo, vincitrice dello Strega Giovanni 2022, con il romanzo Niente di Vero, Einaudi. Al quinto posto è arrivato Marco Amerighi con Randagi, Bollati Boringhieri. Sesto e settimo posto, rispettivamente, per Fabio Baca con Nova, Adelphi, e Veronica Galletta con Nina sull’argine, minimum fax.
Desiati, 45 anni, è nato a Locorotondo, in provincia di Bari, ma è cresciuto a Martina Franca, la città dove è ambientato il suo romanzo. Per Domani, Desiati ha pubblicato il racconto Storia di un matrimonio che nessuno ha celebrato.
Premio Strega 2022, vince Mario Desiati. LUCA ZANINI su Il Corriere della Sera l'8 luglio 2022.
Al Ninfeo di Villa Giulia la serata conclusiva. L’autore di «Spatriati» (Einaudi) stravince e ricorda l’amico Alessandro Leogrande. Sul podio Claudio Piersanti e Alessandra Carati. L’omaggio a Raffaele La Capria
Un’edizione senza scossoni, fatta eccezione per l’acquazzone che all’inizio ha costretto tutti sotto i portici nel Ninfeo di Villa Giulia. Battesimo bagnato dunque per Mario Desiati, che si aggiudica il Premio Strega 2022 con Spatriati (Einaudi). Lo scrittore, dato per favorito fin dalla semifinale di Benevento, conquista il podio undici anni dopo la sua prima promozione nella cinquina del concorso fondato nel 1947 da Maria e Goffredo Bellonci: all’epoca, partecipava con il romanzo Ternitti (Mondadori).
La conferma è arrivata dopo mezzanotte nel cortile del Museo Nazionale Etrusco di Roma, quando Giuseppe D’Avino, presidente di Strega Alberti Benevento, l’azienda che fin dalla prima edizione sostiene lo Strega, ha proclamato il vincitore. Desiati non ha bevuto, come da tradizione, il liquore Strega in diretta tv avanti al tabellone: «Lascerò questa bottiglia intonsa — ha detto —. La berrò in Puglia, in ricordo degli scrittori della mia terra, a cominciare da Maria Teresa Di Lascia, che lo vinse nel 1995 e non poté ritirarlo perché morì qualche mese prima. E vorrei aprirla vicino a dove è Alessandro Leogrande, che è un mio amico: la avremmo bevuta insieme».
Desiati ha vinto con un netto distacco: 76 voti sul secondo classificato, Claudio Piersanti con Quel maledetto Vronskij (Rizzoli). I voti degli aventi diritto nel seggio presieduto da Emanuele Trevi, vincitore del Premio Strega 2021 (si sono espressi l’81% dei 400 Amici della Domenica, nucleo storico della giuria, dei 220 studiosi, traduttori e intellettuali italiani e stranieri selezionati da Istituti italiani di cultura all’estero, e 40 tra lettori forti e voti collettivi) sono stati chiari. Sul totale di 537 preferenze, Desiati ha avuto 166 voti; Piersanti 90 voti; Alessandra Carati, E poi saremo salvi (Mondadori) 83 voti; Veronica Raimo, Niente di vero (Einaudi) 62 voti; Marco Amerighi, Randagi (Bollati Boringhieri) 61 voti; Fabio Bacà, Nova (Adelphi) 51 voti; Veronica Galletta, Nina sull’argine, (minimum fax) 24. A Veronica Raimo, già vincitrice dello Strega Giovani è andato anche lo Strega Off.
Nella serata presentata da Geppi Cucciari all’inizio sotto l’ombrello, la sfida tra Spatriati e Quel maledetto Vronskij, si è giocata negli ultimi minuti ma l’esito era ampiamente previsto. «Il confronto con gli altri autori è stato emozionante — ha detto Desiati, occhi truccati, completo di Valentino, camicia di seta bianca pochette, scarpe rainbow e ventaglio—, perché uno scrive per alimentare i dubbi e non per dare le risposte». Lui che ha vissuto tra la Puglia e Berlino (oggi è a Roma, ma torna spesso in Germania) racconta nel suo romanzo la crescita di due ragazzi «in fuga dagli stereotipi e dalla pressione sociale», trapiantati all’estero ma che rifiutano «il lamento degli expat», che invitano a non sottovalutare «i semi della poesia, l’intreccio delle nostre radici, il nostro mondo interiore». Il tema comune ai due libri è l’esistenza difficile, in giovane come in tarda età, dei protagonisti: «Nel mio primo libro raccontavo degli italiani che emigravano in cerca di lavoro e si ammalavano — ha spiegato Desiati —, perché l’Italia è uno dei Paesi da cui si emigra di più; in questo, ho cercato di rappresentare i giovani che cercano fortuna fuori dal loro ambito familiare, che fuggono. E che possono fallire. Quelli che per scelta o per destino non incarnano i modelli sociali vincenti della nostra società, eppure non per questo rappresentano una generazione persa».
I suoi «spatriati» Francesco e Claudia crescono insieme e si inseguono tra la Puglia e Berlino, andata e ritorno, giovani «divergenti e inquieti» alla ricerca di un equilibrio che non arriva mai, spinti da una volontà strenua di trovare sé stessi e un posto nel mondo, ma ostacolati dai propri dubbi. Mentre nel bel libro di Piersanti, la parabola di una coppia affiatata che, nonostante l’amore, si piega al ricatto della malattia e poi ritrova un’apparente ma caduca serenità, riesce a commuovere chi si avvicina alla terza età con timore e speranza.
È stata una serata all’insegna della partecipazione ritrovata. Con il pubblico delle grandi occasioni e migliaia di spettatori a seguire la diretta su RaiTre in cui c’è staro anche l’omaggio a Raffaele La Capria, scomparso il 26 giugno, che nel 1961 vinse per un solo voto di scarto, con Ferito a morte: «La Capria è stato un maestro della leggerezza e mi piace ricordarlo con il suo sorriso sornione, felpato» ha detto il regista Roberto Andò.
Nella selezione che lo scorso 8 giugno a Benevento aveva portato alla «settina» — conducendo in finale, per la prima volta nella storia dello Strega, ben sette autori anziché i consueti cinque — gli equilibri erano già apparsi chiari nella conta dei voti: in semifinale Desiati era dato per superfavorito, con 244 preferenze a Spatriati e un vantaggio di 66 sul secondo classificato, Piersanti (178), separato di soli tre punti dal terzo, Marco Amerighi (175) che con Randagi ha portato per la prima volta allo Strega Bollati Boringhieri.
Cosa resta, per chi ha giàpotuto leggere i romanzi dei sette finalisti, di questo Premio Strega? C’è come un senso di resa, il cordoglio per le sofferenze altrui, lo sconforto per le incomprensioni familiari che si perpetuano. Solo con la menzogna, nel sapersi inventare un’esistenza diversa e magari mai vissuta, si può sopravvivere ai rovesci della vita e ai sabotaggi perpetrati dai parenti più stretti, sembra dirci Raimo in Niente di vero. Eppure, in questo mare di occasioni mancate e svolte sbagliate, di sliding doors che si aprono sul futuro più grigio, precludendo vite dignitosamente serene, c’è chi trova la forza di sopravvivere: chi reinveste in passioni brucianti il dolore del male di vivere.
Il pugliese Mario Desiati vince il «Premio Strega 2022». Lo scrittore di Martina Franca trionfa al più ambito riconoscimento letterario italiano con il libro "Spatriati". Aldo Losito su La Gazzetta del Mezzogiorno l'8 Luglio 2022
Il Premio Strega torna in Puglia, con Mario Desiati che vince l'edizione 2022. E' intitolato "Spatriati" (Einaudi) il libro del 45enne scrittore di Martina Franca, che segue nel palmares Emanuele Trevi vincitore nel 2021. «Spatriati è una parola del dialetto martinese che vuol dire, appunto, irregolare. E' un seme dentro tutti noi. E' un modo anche per insultare e indicare una persona, che non obbedisce alle regole generali». Così Desiati ha spiegato il suo libro nella cerimonia conclusiva svolta al Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia a Roma con la conduzione di Geppi Cucciari, e andata in diretta tv su Rai3. Desiati era il favorito della vigilia, e non ha tradito le attese. «Aprirò la bottiglia della vittoria in Puglia, per festeggiare tutti gli scrittori della mia terra», le sue parole alla consegna del premio.
«La Puglia è una terra di frontiera. Sono cresciuto con gli scrittori pugliesi del Novecento, una di queste era Mariateresa Di Lascia che vinse qui nel 1995 ma non potè ritirare questo premio perché morì alcuni mesi prima. Lo dedico a lei e ai lavoratori dell’editoria italiana e alle anime che lavorano al mondo del libro italiano. Non basta la passione, ci vuole un contratto vero» ha detto a caldo Mario Desiati, vincitore con 166 voti del Premio Strega 2022, con la bottiglia di Strega in mano.
Gli irregolari. Il giorno in cui scoprii che mia madre era andata via di casa. Mario Desiati su L'Inkiesta il 27 Aprile 2021
Un romanzo che comincia con una separazione e un amore giovanile. È “Spatriati”, di Mario Desiati (Einaudi), una storia di relazioni e crescita, dalla provincia al mondo intero che riassume le complessità di una generazione senza radici.
Per Claudia i primi tempi non esistevo. Era la più alta della scuola, i capelli rossi sfavillavano sul collo – la tonalità delle marasche che i miei nonni avrebbero raccolto in estate per trasformarle in barattoli di confetture granata e amaranto. Gli occhi di un colore diverso l’uno dall’altro, marrone chiaro e verde azzurro, quegli occhi che qui chiamano «di bosco». Aveva ossa sporgenti, zigomi appuntiti, il viso magro e allungato.
Durante la ricreazione l’atrio del Tito Livio si svuotava, gli studenti correvano ad accalcarsi contro il muro per abbeverarsi d’ombra. L’unica al sole era lei. Se qualcuno avesse potuto osservare il quadrato dell’atrio dall’alto avrebbe visto un deserto d’asfalto con un puntino rosso al centro.
Si portava addosso alcuni miei stessi vizi antisociali: si toccava il naso e si arrotolava una ciocca di capelli attorno all’indice. Tra i suoi libri spiccava il cartoncino colorato dei manga di Rumiko Takahashi, arrivava a scuola ascoltando musica con le cuffie senza curarsi di nessuno.
Nel cambio d’ora affilavo matite stando nei suoi paraggi, chiacchieravo con insipidi compagni dalle facce squadrate e l’alito di Philip Morris.
Un giorno sentii lo squallido interrogatorio al quale era stata sottoposta da un drappello di usurpatori delle sue attenzioni: «Perché stai sola?», «Perché non fai come gli altri?» Intendevano dire: «Perché sei come sei e non sei come noi?» Insistevano con aria melliflua, la incalzavano, e Claudia rispose: – È già difficile essere uguale a me, figuriamoci essere uguale agli altri.
Facile rifugio l’amore non corrisposto, per le adolescenze solitarie e insicure, quelle di chi ancora non sa chi è, e io non sapevo quasi niente di me, e tutto ciò che ero stato fino ad allora lo tenevo nascosto, terrorizzato che potessero giudicarmi inadatto.
Venivo da un’infanzia di oratori di campagna e squadracce di calcio di periferia, con allenatori che allungavano le mani e preti con la gamba di legno che si facevano frizionare l’arto monco in sagrestia, mentre nella chiesa vuota i più ribaldi giocavano a pallone usando l’altare come porta.
I Veleno non parevano preoccupati dei segni rossi che mi disegnavano le gambe, non si preoccupavano che pregassi o peccassi, nemmeno quando tornavo dalla campagna pieno di terra, umiliazione e odore di concime.
Era appena finito l’anno scolastico, l’estate si spalancava in distese di papaveri e grano. Rientrato a casa non trovai nessuno.
Mi abbandonai al silenzio, poi al crepuscolo che annerì le stanze e mi immalinconì. Mangiai solo del pane bagnato in acqua con sale e pomodori, la mia cena quando mia madre faceva il turno serale e mio padre spariva dietro le sue ambigue commissioni. Mi addormentai sul divano.
Al mattino la casa rimase silenziosa, nessuno dei trambusti che mi svegliavano di solito quando mia madre tornava dall’ospedale o mio padre riempiva il lavabo per la barba parlandosi allo specchio. Vuota. Con occhi di catrame e la gola inaridita vagai stordito, finché non rinvenni sulla scrivania di fòrmica – un banco di scuola che mio padre aveva trafugato dal suo istituto tecnico per farne il mio scrittoio – una busta bianca: «Alla mia Uva nera». Ebbi la sensazione che mia madre l’avesse scritto più per lei che per me.
Sono dovuta uscire e non c’eri. Ti parlerò di questi giorni che verranno. Ti aspetto in ospedale.
C’era il tempo futuro e questo non mi rassicurava. Misi piede per la prima volta in ospedale e nelle narici salì un odore simile alla benzina, i corridoi semivuoti rimandavano lo scalpiccio sul pavimento, le grandi vetrate si sporgevano a valle e dentro le stanze con le porte socchiuse ombre impalate vegliavano corpi avvolti nel bianco.
Mia madre apparve con le spalle erette, in uniforme, un paio di sabot e le calze trasparenti. Il viso luminoso, gli occhi infuocati e lucidi, i capelli costretti in un pugno biondo sulla cima della testa.
Mi abbracciò più del solito, la sua carezza sulla schiena assomigliava a un energico massaggio, il trasferimento di un codice tra me e lei, animali della stessa specie che si riconoscono.
Profumava di domenica mattina e mi teneva la mano spingendomi nella sala dei medici dove saremmo stati tranquilli. Fischiettava il motivetto di Vacanze romane dei Matia Bazar.
Era felice, mentre io faticavo a trattenere il nervosismo, cosa c’era da essere felici in quel posto? Disse svariate cose che il mio cervello elaborava e subito rimuoveva, il sorriso con cui mi aveva accolto man mano si trasformava in un’espressione di circostanza, severa.
– Saremo lontani, ma solo per un po’, abbiamo bisogno di spazio –. Giunse al punto: aveva lasciato mio padre.
– Piú avanti capirai, – concluse.
Tornai a casa prosciugato, concentrato sul suono che fanno le scarpe di gomma sull’asfalto.
– Tanto torna, tornano tutte, – proclamò il fanfarone, mio diretto ascendente, vedendomi sulla soglia pieno di lacrime non piante e di urla trattenute.
La routine delle nostre giornate cambiò, lui portava in casa i piatti di pasta preparati dalla nonna avvolti in uno straccio tiepido, oppure riscaldava delle zuppe pronte bruciandole con puntualità e rovesciando contumelie contro pentole, fiamme del gas, produttori di zuppe.
Non era mai colpa sua, sempre di qualcun altro, ma ancora non riconoscevo i cercatori di capri espiatori e non sapevo come trattarli. Covavo rabbia ardente sotto la cenere dell’apparenza mite, non perché i miei genitori si erano separati, ma perché non lo avevo capito prima.
da “Spatriati”, di Mario Desiati, Einaudi, 2021, pagine 288, euro 20
© 2021 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino Pubblicato in accordo con Grandi & Associati, Milano
"Chi si libera fa paura. Come i miei Spatriati". Stefania Vitulli il 9 Luglio 2022 su Il Giornale.
Il vincitore del Premio Strega spiega la genesi del suo libro: "Scrivere è un esercizio spirituale". I pronostici sono stati rispettati: Mario Desiati con il suo Spatriati (Einaudi) si è aggiudicato il Premio Strega al Ninfeo di Villa Giulia. La scuderia Einaudi era in gara con ben due titoli (Veronica Raimo e il suo Niente di vero era l'altro) su sette invece che cinque finalisti - la vera novità di quest'anno - dovuta alla quota per i piccoli editori e all'ex aequo tra Fabio Bacà, con Nova, (Adelphi) e Alessandra Carati, con E poi saremo salvi (Mondadori) nel giro di votazioni per la selezione della cinquina. Spatriati ha vinto con 166 voti, staccando il secondo, Claudio Piersanti e il suo Quel maledetto Vronskij (Rizzoli) di ben 76 preferenze.
Chi un posto al mondo non ce l'ha ha trovato in questo romanzo di Desiati un inno e un manifesto. È la storia di Claudia e Francesco che crescono insieme, indipendenti a tutto e a se stessi, ma anche appartenenti: all'inquietudine, alla gioventù, a una terra franca, ardente, ai limiti della sprezzatura. Desiati, 45 anni, non è nuovo allo Strega: partecipò già nel 2011, quando arrivò penultimo con Ternitti e a vincere fu Edoardo Nesi. Tra gli altri suoi romanzi, Il paese delle spose infelici (Mondadori) divenuto un film, e Candore, sempre con Einaudi.
Desiati, il giorno dopo lo Strega non è facile per nessuno: come va?
«Non sono ancora lucido e non sono molto affine ai territori promozionali».
Il romanzo non è uscito da poco: un bilancio.
«È un libro a lunga gestazione, che ho iniziato a scrivere nell'ottobre del 2015, quando stavo a Berlino. Sono arrivato a scriverlo in tanti anni perché stavo cambiando come persona e cambiava il mio sguardo sul mondo. Lasciavo l'editoria per dedicarmi alla vita più sociale, lontano dalla mondanità con la quale avevo a che fare per il mio lavoro di editore».
Chi si può ritrovare in un libro come questo, uscito un anno e mezzo fa ma probabilmente presto tra i più venduti in Italia?
«Spatriati è la storia di persone che non si vogliono definire, perciò in questo anno e mezzo alcuni lettori ci si sono senza dubbio ritrovati, ma altri per niente. È un romanzo che divide, perché parla di persone che si liberano e perciò fa paura, perché chi fa un cammino di liberazione fa paura. Io tifo perché nessuno si rappresenti nel libro, perché vorrebbe dire che ho fatto un calco della realtà, solo una copia».
Come è arrivato allo Strega?
«Questo libro per me era archiviato da ottobre 2021: avevo fatto le presentazioni, chiuse con un bell'incontro al Salone Off del Libro di Torino ed ero partito per la Germania, dove mi trovavo per lavorare al nuovo romanzo. Poi, il ritorno. Tanti amici, a cominciare da Alessandro Piperno con il suo Io ti voglio presentare allo Strega, hanno cominciato a sostenere questa necessità: Merita di partecipare, dicevano. Ammetto che non volevo. E infatti al Ninfeo c'erano persone che bonariamente mi hanno rinfacciato: E tu che non ci volevi andare!».
E perché non ci voleva andare?
«Perché so quanto è stressante partecipare a un premio letterario come lo Strega, lo sapevo anche undici anni fa. E allora come oggi, quando partecipano gli amici, dico che è un gioco, ma è un gioco serio. Noi quest'anno abbiamo fatto trenta presentazioni in un mese e mezzo. Condividi tutto con altre persone che conosci lì per lì - gli altri candidati - per un lungo periodo. Io sono stato fortunato, perché ho trovato persone che stimo, ma pensa se mi trovavo con degli stronzi: due mesi, con degli sconosciuti, in un clima di competizione. Non avevo nessuna voglia».
Tanta pressione?
«Rispetto alle presentazioni tradizionali, entrano in gioco altre dinamiche: il valore del libro, il valore dell'autore rispetto agli altri. Per chi è un po' meno stabile, come me, che non mi sento una persona saldissima, c'è pressione».
C'è bisogno di isolamento, allora, per scrivere?
«È un esercizio spirituale, che va fatto in un certo tipo di condizione. Se sei distratto rischi di perdere la lucidità. Ti puoi isolare anche in un contesto di vita sociale, ma nel caso mio ho bisogno di un tempo dove non deve essere l'esterno a contatto con me, ma il contrario».
Quindi si disconnette, anche?
«Quando ero più giovane stavo nei social, ora ho solo dei profili semimorti, che non uso quasi mai. Ogni tanto di nascosto metto una foto su Instagram, ma seguo più che altro quello che scrivono gli altri».
Altra conseguenza dell'essere «spatriati»?
«No, del mio essere insofferente».
Di che cosa parla il suo prossimo romanzo?
«È una indagine genealogica. La storia di un protagonista della mia stessa età e stessa terra che ricostruisce il suo albero genealogico e scopre alcune cose che dal 1800 al 2023 sono state omesse dalla sua famiglia».
A che punto è di questa indagine?
«Avevo scritto un terzo del libro, e io faccio le stesure, quindi mi mancavano due anni e mezzo di lavoro».
Poi è arrivato questo Strega...
«E infatti: devo rivedere i piani. Puntavo alla fine del 2024 ma ormai sarà almeno per il 2025».
Torniamo al presente: perché ha vinto lei?
«Non esistono vincitori e vinti in letteratura, esistono libri e lettori. Poi c'è un premio, che è un gioco, che incontra il gusto di quelle specifiche persone che votano».
Detto questo, qual è l'X factor di questo romanzo?
«Forse è legato al momento storico: dopo due anni di pandemia un libro che si chiama spatriati...».
Li prende tutti?
«Prende una giuria che si è sentita spatriata e prende gli italiani che sono spatriati di natura, che è un altro dei temi del libro. Oggi si migra per motivi economici, ma anche esistenziali e l'Italia è un Paese ad altissima migrazione. Mediamente un tedesco mi chiede: Ma com'è che tu, italiano, clima pazzesco, settanta per cento delle bellezze del mondo, Paese evoluto, minimo dei diritti civili presenti, con questo standard di vita migri?».
E com'è?
«Non saprei. Io da scrittore non so nulla. Se no facevo altro nella vita».
Il vincitore con "Spatriati". Intervista al Premio Strega Mario Desiati: “Società patriarcale gabbia anche per i maschi”. Biagio Castaldo su Il Riformista il 9 Luglio 2022
In principio fu la foglia. Alles ist Blatt, «tutto è foglia». Il principio goethiano, nutrito dalle suggestioni del suo viaggio in Italia e confluito nel saggio tradotto con il titolo La metamorfosi delle piante, si innesta sulla forma archetipica della foglia intesa come «il vero Proteo della natura che sa celare e manifestare insieme tutte le forme». Al culmine della sua metamorfosi, la foglia produce il calice del fiore, la cui corolla serba, inscindibili, il principio maschile e il principio femminile destinati a combinarsi nel frutto. La teoria di una tale dualità erotica convergente nella perfezione del fiore androgino darà a Goethe la possibilità di realizzare idealmente l’unico essere vivente immune alla Sehnsucht, il desiderio del desiderio, la nostalgia di un infinito irrealizzabile.
Quel fiore androgino Klimt lo trasfigurerà, più che in tutti gli abbracci aurei della sua pittura, in un Girasole dalla fisionomia antropomorfa, che riveste di una lussureggiante trama di foglie, e che Bernardo Bertolucci ha poi ricomposto nel riflesso di uno specchio tripartito, nella celebre scena voyeuristica in cui la macchina da presa spia i tre protagonisti di The dreamers, addormentarsi, strafatti, in una vasca da bagno di schiuma e sangue mestruale. La «scultura di carne e sudore» che Mario Desiati intravede in un’orgia, rinchiusa in una gabbia di un noto locale fetish berlinese, nel romanzo Spatriati (Einaudi), vincitore del Premio Strega 2022, chiude una riuscita sequenza narrativa fatta proprio di rifrazione negli specchi, di armonia cromatica, ermafrodita, in un threesome di lingue e di fard. Francesco e Claudia sono due spatriètə – che in dialetto pugliese, con vocale indistinta e inclusiva, denota gli irregolari, i raminghi, i dispersi – perché rinunciano a conformarsi alla cellula eteronormata, preferendo “mettersi” trasversali rispetto a una tradizione di supremazia provinciale, fatta di autoelogi e di piccoli soprusi.
L’evanescenza di una storia d’amore che si rincorre dalla Puglia a Berlino, tra la chimerica Claudia e Francesco Veleno, maschio beta e “illegittimo” – spregiativo pugliese per omosessuale – li proclama campioni di precarietà emotiva e professionale, prima che questi approdino alla consapevolezza per cui crescere significa essere depositari del fardello dei segreti più scabrosi dei propri genitori. Evocato con il fischio dei venti che scuotono gli ulivi, dal sapore dei germogli di malva e dalle distese di papaveri e grano, il paesaggio bucolico intorno a Martina Franca conserva ancora quel machismo dei riti e delle processioni cristiane, i precetti secondo i quali alle donne spetta sgranare i rosari, agli uomini sudati spostare pesanti statue. Una scena che ricorda quella mirabile processione del Venerdì Santo a Correggio a cui prende parte Leo in Camere separate di Tondelli – citato peraltro nel romanzo di Desiati come «geniale» – nell’immagine cristologica di un uomo che nella sua separatezza è inconsapevolmente uno spatriato.
La serata al Ninfeo di Villa Giulia ha visto l’estetica queer di un Desiati truccato, con ventaglio rosa e collare leather al seguito, entrare nell’albo dei vincitori dello Strega, e con lui, l’omaggio a due conterranei: Mariateresa di Lascia, Premio Strega postumo nel 1995 con Passaggio in ombra, e all’amico Alessandro Leogrande, scrittore lucidissimo in difesa degli ultimi e dei ferocemente sfruttati, scomparso prematuramente nel 2017. Ma il queer è politica, pertanto il ricordo più eversivo nella cornice della cultura istituzionalizzata di un Paese abbandonato alla deriva fascio-meloniana è il pensiero che rivolge a Cloe Bianco, uccisa dall’emarginazione sociale di matrice omotransfobica in un furgone in fiamme, da una collettività in cui per Desiati «la gentilezza è così rara che la scambio sempre per amore».
Spatriati non sono solo Francesco e Claudia, emigrati a Berlino, ma anche gli immigrati albanesi, romeni, somali sbarcati in Puglia e guardati con sospetto xenofobo dai locali. Ha ancora senso interrogarsi in letteratura su un’idea di patria che non sia un’incostante e volatile Heimat?
Ogni tema ha un senso se trattato con un’angolatura originale. Credo alla somma dei punti di vista diversi che danno un totale ancora più diverso. In Spatriati ho cercato di raccontare un’idea più esistenziale e psicologica di quel concetto a cui allude la domanda. A un certo punto il protagonista riconosce la sua appartenenza più che a un luogo a una serie di legami, tanto che Francesco dice che Claudia è la sua patria.
Francesco Veleno è un personaggio profondamente cattolico. La Chiesa riveste per lui il ruolo della scoperta delle sue pulsioni omoerotiche e dove subisce l’umiliazione della libidine dei preti. Come si racconta la spiritualità, il rito cattolico della preghiera in un romanzo liberale?
Claudia e Francesco scoprono l’infinita visione che regala l’arte grazie all’ultima cena di Domenico Carella, un quadro misterioso della Basilica di San Martino a Martina Franca, dove sugli apostoli e il Cristo aleggia un’esplosione di fuoco e luce che sembra essere qualsiasi cosa, da un candelabro a un disco volante. L’arte è un’esperienza che molti italiani hanno fatto per la prima volta in una chiesa, nel corso dei secoli è sempre stato un mezzo formidabile di evangelizzazione. Francesco vede nel rito e nella celebrazione qualcosa che lo avvicina alle esperienze della vita. I riti nascono proprio per preparare le anime ai rovesci, vivere la passione del Vangelo, perché tutti prima o dopo sappiano che ne vivranno in grande o in piccolo una simile.
Credo che per “Spatriati” si possa parlare anche di un altro genere di ritualità, quella del clubbing fetish, leather e del crossdressing. Travestimenti e decorazioni che conservano una sacralità ormai persa dalla chiesa…
Ho studiato anni fa e ancora oggi ci ritorno per ragioni molto personali, il saggio della grande junghiana Marie-Louise von Franz, dove parla dell’Asino d’oro di Apuleio, il più complesso e integro romanzo che arriva dalla letteratura latina. Nel saggio c’è una esegesi di molte delle scene di quel libro. E tra queste, la parte dei riti che è fondamentale nel racconto. I riti servono a far confluire e rendere accettabili alcune pulsioni umane che altrimenti sarebbero non soltanto inopportune, ma anche pericolose. È un discorso che meriterebbe un approfondimento, ma sicuramente tutto quello che avviene in certe feste libere, alcune delle quali ho provato a raccontare in Spatriati, rappresenta più di quel che appare.
A Francesco piace truccarsi, solo così sentiva «un’altra umanità, un altro essere maschio, niente più che essere persona. Piena, realizzata, vera». A Claudia diverte truccare i suoi uomini, alcuni accondiscendenti, alcuni riluttanti. Crede che sia il momento editoriale giusto per interrogarsi sulla rappresentazione estetica di una mascolinità altra?
Sinceramente non credo esista un momento editoriale giusto. Non credo negli algoritmi. Un grande editore e scrittore come Antonio Franchini dice sempre, che se si sapesse cosa va in quel momento tutti gli editori lo farebbero. E invece la scrittura di un libro è come una camminata nel deserto dove le oasi sono rare. (Leggere, Possedere, Vendere, Bruciare, Marsilio). Forse oggi c’è una maggiore sensibilità sui temi che vedono in discussione quel sistema di potere che identifichiamo come Patriarcato. Francesco Veleno in Spatriati scopre che adeguarsi a dei modelli di potere decisi dagli altri rende una vita più semplice, ma meno libera. Ecco io credo molto all’idea che una società patriarcale, con quei codici di potere prestabiliti, sia una gabbia anche per i maschi.
Cosa risponde a coloro che – a torto – hanno avvicinato “Spatriati” a “Parlarne tra amici” e in generale a tutta la produzione letteraria di Sally Rooney?
Non discuto mai i punti di vista dei lettori, ascolto e leggo, quel che dicono o scrivono riferimenti mi intrigano perché a volte scopro libri che non conosco. Non è il caso di Rooney che ho letto in questi anni con ammirazione. La speranza è di scrivere un libro dove il lettore non si senta rappresentato dai protagonisti, abbia dei dubbi, rimanga inquietato o turbato. I romanzi di Rooney segnano bene il nostro tempo, anche se da narratore pugliese mi sento più vicino alla nuova leva degli scrittori mitteleuropei.
“Spatriati” è un romanzo con una discreta rete intertestuale, intessuta di citazioni e allusioni musicali, poetiche, televisive, sciolta nell’epilogo “Note dallo scrittorio o stanza degli spiriti”. Come ha pensato a questo scioglimento scongiurando l’idea di cadere nel didascalico?
Ho sempre sognato di dare corpo a una stanza degli spiriti, così come la definì Robert Walser in un racconto clamoroso come La passeggiata. Gli spiriti sono quella brezza delle esperienze che abbiamo fatto, letto, visto, che resta dentro di noi per sempre, a volte senza nomi. Spatriati mi è sembrato il libro giusto dove provare a dare un nome a questi spiriti.
Quanto Bertolucci c’è in “Spatriati”?
Bertolucci è una delle figure più importanti della mia formazione intellettuale. Uscii dalla visione di The dreamers con un animo inquieto. Il finale politico di quel film deviò la discussione con i miei compagni, ma io amai molto il modo lieve, poetico, sensuale con cui era stato raccontato quel triangolo. Chissà forse quell’immagine mi è rimasta dentro, ed è uno degli spiriti a cui non sono ancora riuscito a dare nome.
Biagio Castaldo
Spatriati al Ninfeo. Mario Desiati vince lo Strega in cui tutti sono stregati da Veronica Raimo. Guia Soncini su L'Inkiesta il 7 Luglio 2022
Il vincitore ha parlato invano del suo libro per 10 minuti con Geppi Cucciari, ma nessuno lo ha ascoltato perché a casa eravamo impegnati a guardare i crimini commessi dal suo stylist (e i presenti alla premiazione a pensare e ad aspettare la sorella del soccombente)
Chissà quanto deve aver diluviato a Roma per staccare gli intellettuali presenti alla finale del premio Strega dal feticcio culturale che meglio li rappresenta: i tavoli dove mangiare e bere gratis. Quando comincia la diretta, l’eroica Geppi Cucciari è Fiorello al Sanremo 2021: una che fa battute davanti al vuoto (non quello esistenziale: quello della platea). Gli scrocconi culturali sono fuggiti sotto il portico – «Sembra che sia passata la finanza» – e lì stanno, del tutto disinteressati alla sua brutta fatica. «Simulate un minimo di umanità e fate un applauso. Benissimo: un appello caduto nel vuoto».
Dietro di lei, Emanuele Trevi vestito nella versione beige di Don Johnson in Miami Vice rappresenta il vero gender gap: non conquisteremo mai il mondo, finché ci toccherà metterci i tacchi tra i sanpietrini piovosi, e loro potranno indossare le Adidas a una serata di gala.
Spererei, ma so che le lettere italiane ancora una volta mi deluderanno, in un romanzo sui due rimasti in mezzo al Ninfeo sotto un ombrello, per i primi minuti unica platea della Cucciari: chi sono, perché non si sono allontanati, spererei in due amanti clandestini che pur di non separarsi per un secondo vengono indicati, inquadrati, scoperti dai coniugi a casa.
Speravo molto anche che tra i finalisti ci fosse Antonio Pascale, perché da anni attendo il romanzo che forse solo Francesco Piccolo, tra coloro che sono stati finalisti, avrebbe potuto scrivere: la storia dei finalisti dello Strega, che si odiano ma devono fingere di affratellarsi in nome della cultura, portati in giro per l’Italia a bere liquore giallo come in una gita scolastica controvoglia, nelle settimane che precedono la finale.
Invece i finalisti sono gente che dice «questa è una frase che arriva da Adorno», «la storia con la esse maiuscola», «trasformare questa fatica in qualcosa di gemmativo», «all’ennesima potenza di queer», «è come se questo libro fosse il mio canto funebre per quello che è stata Berlino» (frasi comunque meno spaventevoli di quella di Stefano Petrocchi, il signor Strega, che all’«Esistono ancora i salotti letterari?» della Cucciari risponde serissimo «Esistono i social network»).
Sono gente che nei filmati girati sui luoghi dei romanzi ha jeans sformati che in confronto l’elettricista che è venuto l’altro giorno a farmi le prese comandate era elegantissimo: bisognerà prima o poi trovare una via di mezzo tra lo scrittore sponsorizzato da qualche stilista e quello conciato come uno scappato di casa.
Sono gente che l’anno scorso si scriveva DdLZan sulla mano, e quest’anno ha enormi spille sulla giacca con scritto «My body my choice» o «Liberi fino alla fine», o fazzoletti arcobaleno nel taschino: a ogni nuova militanza letterata, mi è più simpatico il tizio cui fanno valutare i libri dalla copertina sulla spiaggia di Cesenatico, tizio che a ogni filmato ribadisce che lui non ha mai letto un libro in vita sua. A ogni accessorio contenutista, ripenso al Mattarella fatto sentire all’inizio, quello che diceva che se vogliamo che tutti leggano non è «per diventare letterati o poeti».
E poi c’è Veronica Raimo, che come i grandi attori nei film con pochi soldi arriva a tre quarti della serata, ma tutti l’hanno vista nei titoli di testa e pensano solo a lei, aspettano solo lei, sanno che non vincerà ma non riescono a distrarsi. Lei lo sa e sa che da lei vogliono essere épaté, e non li delude: «Non volevo che fosse una seduta di analisi, piuttosto una seduta sulla tazza del cesso».
Veronica Raimo che, nella metà delle settimane d’uscita, ha già venduto il doppio di Desiati, vincitore annunciato (ogni anno, oltre ai pettegolezzi sulla gita in pulmino dei finalisti, la cosa più interessante dello Strega è il casino che combina Einaudi, che si trova sempre con un finalista sostenuto dalla casa editrice e un altro che è quello al quale converrebbe apporre la fascetta delle vittoria, moltiplicatrice di copie che tanto più fa guadagnare quante più sono le copie di partenza).
Veronica Raimo il cui irresistibile fascino è da mesi l’unico argomento di conversazione dei letterati romani (sarà sessismo? Sarà ingiusto vantaggio? Quando si poteva parlare dell’aspetto dei romanzieri senza che le code di paglia ideologiche prendessero fuoco, le foto della quarta di copertina erano un tema: Alessandro Baricco o Bret Easton Ellis avrebbero avuto le stesse carriere, fossero stati bruttini?).
Veronica Raimo il cui fratello forse ora è figlio unico: è più facile voler bene a tua sorella quando vende poco? Le si può perdonare d’aver trovato il successo con la storia della vostra famiglia, che forse avresti potuto scrivere tu? Christian Raimo è il soccombente che nessun Bernhard italiano sa scrivere, prima all’ombra del sodale Nicola Lagioia poi a quella della sorella minore?
Infine vince, come si sapeva da mesi, Mario Desiati, che parla invano dieci minuti con Geppi Cucciari del proprio libro. Dieci minuti in cui nessuno lo ascolta perché siamo tutti impegnati a fissare il suo ventaglio rosa e a pensare ai crimini degli stylist, una categoria che la storia – maiuscola, direbbe una finalista – dovrà processare per molte ragioni, tra cui l’aver convinto i maschi che la creatività nell’abbigliamento fosse alla loro portata. È un peccato, che il ventaglio ci distraesse, perché a un certo punto Desiati ha detto «La gentilezza è così rara che io la scambio sempre per amore», una frase in cui c’era più letteratura che in tutto il resto della serata.
Da mowmag.com l'8 luglio 2022.
Ieri sera si è tenuta la finale del Premio Strega, uno dei più famosi concorsi nazionali per la narrativa. Quest’anno l’evento è stato peculiare e ha visto, al posto della solita cinquina di finalisti, ben sette autori in gara per il premio: Mario Desiati con Spartiati (Einaudi), Claudio Piersanti con Quel maledetto Vronskij (Rizzoli), Marco Amerighi con Randagi (Bollati Boringhieri), Veronica Raimo con Niente di vero (Einaudi), Fabio Bacà con Nova (Adelphi), Alessandra Carati con E poi saremo salvi (Mondadori) e Veronica Galletta con Nina sull’argine (Minimum Fax).
L’evento si è svolto tra interviste e dichiarazioni, nonostante la pioggia. La conduzione è stata affidata a Geppi Cucciari, al suo umorismo e a un tono informale raramente corrisposto dai suoi interlocutori. Ad allungare il brodo, dei videoclip di lettori e lettrici in spiaggia, seduti a un tavolino per giudicare il libro dalla copertina – forse in omaggio ai diritti del lettore di Daniel Pennac, chissà – con uscite che ricordavano le interviste imbruttite (per esempio: “Ma non c’è un’immagine, è tutto in bianco e nero!” [sorride]).
La vittoria è andata con 165 voti a Marco Desiati per il suo libro sui giovani irregolari, un “romanzo sull’appartenenza e l’accettazione di sé” (così si legge nella quarta di copertina). Spatriati. Tuttavia la bottiglia storica del premio non è stata stappata, per preservarla intatta fino al ritorno in Puglia, sua regione d’origine, dove l’avrebbe aperta in onore di amici e autori corregionali scomparsi.
Umberto Saba sosteneva che i premi letterari fossero una crudeltà, soprattutto per chi non li vinceva. La sensazione che abbiamo avuto facendo un giro di chiamate tra alcune delle più importanti penne dei nostri quotidiani è stata che forse, almeno a volte, la crudeltà sia anche verso i critici letterari. In un’intervista qui su «Mow» del marzo dell’anno scorso, parlando dello Strega, la firma de «Il Giornale» Gian Paolo Serino aveva sostenuto che i premi fossero più cosa da cavalli che non da scrittori, opinione analoga a quella del collega Davide Brullo che parla di “effetto Morgana sul Tevere” e di un unico nodo fondamentale di questi eventi: i soldi.
Proprio tra i critici, da cui ci si aspetterebbe un’attenzione particolare per i titoli del momento, non abbiamo cavato un ragno dal buco. Che dico: una ragnatela dal buco, un granello di polvere, niente. Qualcuno non sapeva neanche che si fosse tenuta la manifestazione, come Antonio D’Orrico del Corriere: “Mi scusi, ma non so chi ha vinto...”. O non aveva letto il libro vincitore, come Valerio Magrelli di Repubblica: “Purtroppo non ho letto Spatriati e non ho visto nulla...”. Ancora più disinteressato Goffredo Fofi, decano della critica, che ha liquidato la kermesse prendendone le distanze: “Non mi interessa seguirla...”. Queste reazioni, quindi, ci hanno posto un interrogativo: ma quanto conta, davvero, il Premio Strega? Uno Strega senza polemiche è davvero influente?
Non bisogna scomodare Yuval Noah Harari, con il suo Sapiens, ma quando si parla dell’invenzione del gossip come snodo fondamentale della rivoluzione cognitiva decine di migliaia di anni fa, non possiamo che trovare conferma nella curva d’interesse che crolla al calare della polemica. Non sono più i tempi in cui Moravia veniva attaccato con l’accusa di aver barato, i tempi in cui lo Strega sembrava un’arena tra editori con scarso fair play, come accadeva per esempio nel 2017 nello scontro tra Neri Pozza e Mondadori. Ma anche un anno sembra tanto e ci appare lontana la bagarre dovuta alla rumorosa esclusione di Teresa Ciabatti.
Alberto Moravia vince lo Strega tra le polemiche nel 1952
In tutto questo, dove sono i libri? Se nemmeno i critici leggono più i volumi in finalissima, come possiamo davvero giudicare questi premi? Ultimamente le vittorie sono annunciate e il totostrega non solleva più i brividi di un tempo, nessun dubbio, tutto chiaro all’orizzonte. Nel 2019 Alberto Grandi paragonò su «Wired» i libri del panorama italiano ai Big Mac, prodotti seriali distribuiti a rischio zero da editori poco coraggiosi. Ma forse il problema è persino peggiore. Non si tratta solo della qualità in sé dei titoli, nonostante lo scarso interesse degli addetti ai lavori sia quanto meno un segnale dello stato di salute dei romanzi italiani più popolari; ma della totale scomparsa della letteratura dai premi. Neanche una letteratura fantasma, ma una letteratura che è solo ricordo. Certo, i vincitori potranno arrivare anche a quintuplicare le vendite, ma questo ha poco a che fare con i libri.
La sensazione è che la letteratura si sia trasferita in altri ambienti, in altri contesti, e abbia abbandonato alcuni luoghi canonici cari al club dei letterati. “I grandi premi non vengono mai dati allo scrittore, ma ai suoi lettori. Poveracci, se li meritano” diceva il Cardarelli de La solitudine del satiro di Ennio Flaiano (Adelphi 1996). Magari, Vincenzo, almeno verrebbe premiato lo sforzo del lettore. Ciò che emerge è invece l’allergia verso la fatica, prima fra tutti quella necessaria a promuovere buona letteratura senza le impalcature dello spettacolo d’intrattenimento e senza la cordata di polemiche che assicurano ai premi quel tanto di brio che il pubblico da sempre cerca.
Fulvio Abbate per Dagospia l'8 luglio 2022.
Da qualche anno, colpa o impagabile merito della pandemia, il Premio Strega, nel suo spolvero pubblico, capitolino, satyriconiano, ministeriale assomiglia sempre più a un evento privato, con "prenotazione obbligatoria", meglio, a un “trattenimento” da sponsale, come usano pronunciare da certe parti nel Sud.
Riservato ai pochi convinti, convintissimi prescelti, ora per ragioni di ammessa candida ambizione personale ora per dovere clientelare-editoriale, un modo di presidiare il territorio dei possibili altrimenti inafferrabili lettori; insomma, un qualcosa di irrinunciabile, porta d’ingresso nel “successo” autoriale, moltiplicazione di vendite con annesso momento del firmacopie, soddisfazione parentale, gioia per le insegnanti del ceto medio riflessivo che costituiscono la spina dorsale del pubblico leggente.
Per queste ragioni, trovando singolare la desertificazione voluta del necessario vario ed eventuale umanissimo pubblico di contorno, nelle scorse ore, ho sentito doveroso inviare al direttore della manifestazione, Stefano Petrocchi, queste sincere e preoccupate parole attraverso la bottiglia affidata al mare dei social: “Caro Stefano, posso, di grazia, sapere con quale criterio sono stati fatti gli inviti per la serata conclusiva del Premio Strega di ieri al Ninfeo di Villa Giulia? La bella gente della P2 culturale di sinistra, da quel che si è subito notato dalla imbarazzante diretta di Raitre, era tutta presente in spolvero platealmente clientelare, idem il mondo “amichettistico”, ovvero delle scrittrici che non distinguono tra “recherche” proustiana e mancato sogno adolescenziale d’essere provinate da Boncompagni per accedere a “Non è la Rai”, magistrali nella poetica degli emoji; ma gli altri, cominciando dal generone romano ornato di ciaffi, i signori avvocati di Prati o Flaminio con abito acquistato da “Davide Cenci” a Campo Marzio o i giovani con outfit da cresima alla parrocchia di Ponte Milvio, e incredibilmente gli stessi “Amici della domenica”, in nome di quale spietata e insieme galante ragione non sono stati avvisati con messaggio ufficiale, se non recante firma e sigillo di ceralacca della Fondazione Bellonci, almeno una semplice mail, così da presenziare anche loro? Grazie. Auguri comunque a Mario Desiati per la vittoria meritata”.
Il Premio Strega, lo si sappia, nella sua acme pubblica, il Sarcofago degli Sposi Etruschi silenziosamente a presenziare a sua volta, muto, di spalle, è una prosecuzione instacabile della “commedia all’italiana”, così come appare tra “Il sorpasso”, “I mostri”, “I nuovi mostri”, “In nome del popolo italiano” e "Febbre da cavallo".
Per averne contezza, basterebbe un piano sequenza sui volti di coloro che puntualmente ambiscono a occuparne i tavoli riservati in attesa dello spoglio estenuante. Peccato che quest’anno, mancando l’invito, personalmente il mio canale, Teledurruti, non abbia potuto fare dono al pubblico di questa inenarrabile parata spettacolare, sempre e comunque in grado di restituire nella sua sostanza narcisistica, antropologica, municipale, rionale, ministeriale il succo dell’evento.
Me ne scuso, ma, come appena narrato, non sembra che gli inviti siano stati diramati; sia detto da “Amico della domenica”, immeritato titolo che devo alla grazia della compianta Anna Maria Rimoaldi, lei che, dopo la dipartita di Maria Bellonci, ha rappresentato la figura apicale dell’istituzione; la ricordiamo impenetrabile al momento della “cinquina” e dei prevedibili magheggi, così nell’appartamento di via Fratelli Ruspoli ai Parioli già frequentato da Moravia, Morante, Piovene, Flaiano, Raffaele La Capria, di cui, diversamente da Pasolini, si rammentono più i foulard che non le opere, e così via, in picchiata, fino a Emanuele Trevi, Michela Murgia, Chiara Valerio.
La sensazione, riguardo all’altra sera, in assenza del già decantato generone romano e d’altre presenze comprensibilmente interessate soprattutto al gratuito sollazzo spettacolare e al meritato buffet, in grado appunto di sorridere compassionevolmente delle bassezze, della banalità e ulteriori relative miserie del piccolo anerotico mondo letterario nazionale, fa supporre che lo Strega sia sempre più esclusiva pertinenza della bella gente amichettistica che ha trovato nella P2 culturale di sinistra il suo presidio impenetrabile. Sia detto in attesa di una possibile risposta circa il tratto sempre più esclusivo della manifestazione, quasi a volersi gemellare con la pizza con pata negra di un Briatore, tuttavia mantenendo lo sguardo al sublime letterario.
P.S.
Accludo video di una trascorsa edizione, affinché ciò che abbiamo indicato sia plasticamente riscontrabile anche dal profano che mai ebbe modo di metter piede al Ninfeo. E ancora di Inge Feltrinelli cui domandavamo cosa penserebbe il nostro Giangiacomo dei nuovi tempi.
PREMIO STREGA. Chi era Maria Bellonci, la scrittrice che diede vita al premio Strega.
Il premio Strega nacque grazie all'idea di una scrittrice, Maria Bellonci, che nel 1944 decise di radunare i maggiori autori e intellettuali dell'epoca nel suo salotto di Roma. Fu il principio di una tradizione letteraria che prosegue ininterrotta da oltre settantasei anni. Scopriamo la vita e le opere della donna che inventò il premio Strega. Alice Figini il 07-07-2022 su sololibri.net.
Il più prestigioso premio letterario italiano nacque dall’idea di una donna, o meglio di una scrittrice: Maria Bellonci, il cui nome è ormai inestricabilmente legato al premio Strega.
È stata lei a compiere il sortilegio di radunare i maggiori scrittori e intellettuali italiani sotto l’egida della letteratura in un tempo incerto in cui l’Italia raccoglieva a fatica le forze, prostrata dalla lunga guerra.
Era il 1944, spirava un vento foriero di cambiamento, tutto stava per mutare e Maria Bellonci decise di spalancare le porte del proprio salotto romano, in viale Liegi, a un gruppo di scrittori, pensatori, poeti. Entrarono così in casa Bellonci Elsa Morante, Giuseppe Ungaretti, Alberto Moravia, Carlo Levi, Carlo Emilio Gadda, Natalia Ginzburg, Cesare Pavese e molti altri. Lei conversava amabilmente con tutti e faceva servire loro il tè.
Alla prima riunione, l’11 giugno 1944, erano presenti tra gli altri Massimo Bontempelli, Guido Piovene, Carlo Bernari, Paola Masino, Paolo Monelli, Palma Bucarelli e Alberto Savinio.
Questa vivace combriccola di artisti, pensatori, scrittori e giornalisti denominata “Gli amici della domenica” si radunava in un unico luogo. Ogni fine settimana si ritrovavano nel salotto di casa Bellonci per chiacchierare e discutere di letteratura, politica, società. Da un simile incontro di menti non poteva che nascere qualcosa di straordinario e infatti germogliò l’ispirazione per un nuovo premio letterario che doveva essere un unicuum nel panorama nazionale.
Maria Bellonci si fece portavoce di quella comune richiesta e si adoperò con ogni mezzo per raccogliere i fondi tramite il socio Guido Alberti, un impresario a capo dell’azienda produttrice del Liquore Strega. Fu grazie all’entusiasmo e alla perseveranza di questa donna che tutto ebbe inizio, più di settant’anni fa.
Il premio Strega ancora oggi ci parla del suo amore per i libri e dei suoi ideali: lei voleva che fosse un premio il più possibile democratico e che soprattutto desse la parola ai lettori.
Il premio Strega è ancora il fiore all’occhiello dell’editoria nazionale, ma la figura della sua storica ideatrice Maria Bellonci rischia di rimanere nell’ombra, eclissata dalle dinamiche commerciali ed economiche che ruotano attorno al Premio. Scopriamo la storia e le opere di questa donna che fu, prima di tutto, una scrittrice animata da una grande e tenace passione per la letteratura.
Maria Bellonci: la vita
Maria Villavecchia, questo il suo nome da nubile, nasce a Roma nel novembre 1902. Suo padre, Girolamo Vittorio, era discendente di una ricca famiglia piemontese e si era distinto come chimico e professore universitario di merceologia.
Fin dalla più tenera età Maria sviluppa una forte passione per la scrittura, che in lei si mescola agli insegnamenti del padre, studioso votato alla ricerca e all’indagine minuziosa. A vent’anni la giovane scrittrice decide di sottoporre all’attenzione di Goffredo Bellonci, illustre giornalista e critico del Giornale d’Italia, un suo romanzo intitolato Clio o le amazzoni. L’opera colpisce Bellonci, che tuttavia invita la giovane esordiente a irrobustire il proprio talento tramite una più adeguata preparazione culturale. Il loro incontro, in seguito, si trasforma in una frequentazione assidua. Maria e Goffredo Bellonci si sposano a Roma nell’agosto del 1928 nella chiesa di Santa Maria degli Angeli.
Dal marito Maria apprende l’amore per la cultura e per l’arte e la passione per i classici. Nel 1939, dopo oltre otto anni di ricerche, dà alle stampe il suo primo romanzo Lucrezia Borgia , una biografia romanzata della controversa dama rinascimentale. Quello stesso anno il libro si aggiudica il premio Viareggio e giunge in breve tempo alla sua terza edizione.
Il successo le arride, ma Maria non perde tempo, è già immersa nelle ricerche per un nuovo libro. Nel 1947, lo stesso anno dell’ideazione del primo premio Strega, pubblica I segreti dei Gonzaga.
È ormai una personalità affermata nel mondo culturale romano e non solo, continua a lavorare alacremente scrivendo per giornali, tra cui Il Messaggero, e numerose riviste. Nell’estate 1964 la morte del marito Goffredo, compagno di una vita, la getta in un dolore profondo. Reagisce gettandosi ancora una volta a capofitto nella scrittura e affinando le sue doti di giornalista.
Nel romanzo Tu, vipera gentile raccoglie tre racconti ambientati tra Medioevo e Rinascimento. In questi anni conosce la regista teatrale e sceneggiatrice Anna Maria Rimoaldi con cui avvia una feconda collaborazione e una profonda amicizia. Alla sua morte Maria Bellonci la nominerà sua unica erede.
Nei suoi ultimi anni di vita Maria si impegna nella scrittura di un romanzo che sarà il suo capolavoro, Rinascimento privato, una biografia romanzata di Isabella d’Este scritta in prima persona. Il libro, pubblicato nell’autunno del 1985, si rivela un successo acclamato da pubblico e critica, ma la salute di Maria è sempre più malferma. L’anno seguente la vede protagonista proprio del Premio da lei ideato quarant’anni prima. Il 13 maggio 1986, alla vigilia della presentazione del premio Strega, Maria Bellonci muore.
Quell’anno il premio stregato andò a lei, la sua creatrice, che purtroppo non ebbe mai il privilegio di ritirarlo. Oggi la Fondazione Bellonci continua il lavoro di Maria, promuovendo la passione per la lettura e diffondendo nel mondo la letteratura italiana contemporanea.
Maria Bellonci: le opere
Ricordiamo in particolare l’esordio letterario di Maria Bellonci, Lucrezia Borgia, che tuttora rimane uno dei suoi titoli più famosi. Il romanzo rivelò al pubblico - e all’autrice stessa - il suo talento narrativo. La penna di Bellonci analizza un personaggio storico controverso facendone emergere tutte le contraddizioni, addentrandosi nell’analisi psicologica e restituendo un quadro completo dei complicati rapporti di potere che si intrecciavano ai legami familiari.
Lucrezia Borgia
Nel suo secondo romanzo I segreti dei Gonzaga narra la corte di Mantova e il mondo sontuoso che la circonda. È un racconto amaro e a tratti crudele che ci restituisce l’ingiustizia insita nelle leggi della natura e della vita. Ragioni dinastiche, dinamiche di potere e ricchezza si intrecciano nella ricerca di una verità privata che si affianca a quella storica facendo emergere dei personaggi immortali.
I segreti dei Gonzaga
Rinascimento privato è infine il grande capolavoro, l’esito conclusivo dell’opera di Maria Bellonci. In queste pagine narra la vicenda romanzata di Isabella d’Este, divenuta marchesa di Mantova dopo il matrimonio con Francesco Gonzaga. Protagonista assoluta è proprio Isabella, che ormai alla soglia dei sessant’anni rievoca in prima persona la propria vita da quando, sedicenne, giunse a Mantova e in un periodo tumultuoso per la storia italiana. A lei il merito di aver costruito un regno di perfetto splendore.
Purtroppo la morte precoce non consentì a Maria Bellonci di godere appieno il successo riscosso dal suo ultimo romanzo, ancora oggi acclamato e oggetto di studio in varie università del mondo.
Rinascimento privato
Con Rinascimento privato Maria Bellonci vinse il premio da lei ideato, che le fu consegnato postumo nel 1986. A oggi il Premio Strega ha premiato poche donne nel corso della sua storia. La prima a vincerlo fu Elsa Morante nel 1957, l’ultima Helena Janeczek nel 2018. A oltre settant’anni dalla nascita del premio Strega le edizioni vinte dalle donne sono state solo undici. Chissà che la serata del 7 luglio 2022 non porti una nuova vittoria al femminile, in omaggio alla sua creatrice: la scrittrice “stregata” da cui il sortilegio letterario ebbe inizio.
Premio Strega: tutti i vincitori dal 1947 ad oggi. Il Premio Strega nasce nel 1947 e da quel momento ogni anno è stato selezionato il miglior libro secondo quello che è il Premio letterario più seguito in Italia. Di seguito vediamo tutti i vincitori fino ad oggi. Chiara Ridolfi il 03-08-2021 su sololibri.net.
Ripercorriamo insieme la storia del Premio Strega e la lista dei vincitori dal 1947 ad oggi.
Il Premio Strega, ideato da Maria Bellonci e da Guido Alberti, proprietario della casa produttrice del liquore Strega, nasce nel 1947. Il riconoscimento viene creato per cercare di trainare la ripresa della cultura italiana nel dopoguerra, da cui l’Italia usciva particolarmente dopo l’esperienza del fascismo.
Si forma così un gruppo coeso di letterati, artisti, giornalisti e scrittori che formano la selezione dei testi e che diventeranno poi i famosi Amici della Domenica.
Il Premio Strega è stato vinto due volte solo da due scrittori:
Paolo Volponi nel 1965 con il romanzo “La macchina mondiale” e nel 1991 con “La strada per Roma”
Sandro Veronesi nel 2006 con Caos Calmo e nel 2020 con Il colibrì
La lista di tutti i vincitori del Premio Strega
Di seguito vediamo tutti i vincitori del Premio Strega dal giorno della sua fondazione sino ad oggi:
1947 Ennio Flaiano, "Tempo di uccidere";
1948 Vincenzo Cardarelli, “Villa Tarantola”
1949 Giovanni Battista Angioletti, “La memoria”;
1950 Cesare Pavese, “La bella estate”;
1951 Corrado Alvaro, “Quasi una vita”;
1952 Alberto Moravia, “I racconti”;
1953 Massimo Bontempelli, “L’amante fedele”;
1954 Mario Soldati, “Le lettere da Capri”;
1955 Giovanni Comisso, “Un gatto attraversa la strada”
1956 Giorgio Bassani, “Cinque storie ferraresi”;
1957 Elsa Morante, “L’isola di Arturo”;
1958 Dino Buzzati, “Sessanta racconti”;
1959 Giuseppe Tomasi di Lampedusa, “Il Gattopardo”;
1960 Carlo Cassola, “La ragazza di Bube”;
1961 Raffaele La Capria, “Ferito a morte”;
1962 Mario Tobino, “Il clandestino”;
1963 Natalia Ginzburg, “Lessico famigliare”;
1964 Giovanni Arpino, “L’ombra delle colline”
1965 Paolo Volponi, “La macchina mondiale”;
1966 Michele Prisco, “Una spirale di nebbia”;
1967 Anna Maria Ortese, “Poveri e semplici”;
1968 Alberto Bevilacqua, “L’occhio del gatto”;
1969 Lalla Romano, “Le parole tra noi leggere”
1970 Guido Piovene, “Le stelle fredde”;
1971 Raffaele Brignetti, “La spiaggia d’oro”;
1972 Giuseppe Dessì, “Paese d’ombre”;
1973 Manlio Cancogni, “Allegri, gioventù”;
1974 Guglielmo Petroni, “La morte del fiume”;
1975 Tommaso Landolfi, “A caso”;
1976 Fausta Cialente, “Le quattro ragazze Wieselberger”;
1977 Fulvio Tomizza, “La miglior vita”
1978 Ferdinando Camon, “Un altare per la madre”;
1979 Primo Levi, “La chiave a stella”;
1980 Vittorio Gorresio, “La vita ingenua”;
1981 Umberto Eco, “Il nome della rosa”
1982 Goffredo Parise, “Sillabario n.2”
1983 Mario Pomilio, “Il Natale del 1833”;
1984 Pietro Citati, “Tolstoj”;
1985 Carlo Sgorlon, “L’armata dei fiumi perduti”;
1986 Maria Bellonci, “Rinascimento privato;
1987 Stanislao Nievo,”Le isole del paradiso";
1988 Gesualdo Bufalino, “Le menzogne della notte”;
1989 Giuseppe Pontiggia, “La grande sera”;
1990 Sebastiano Vassalli, “La chimera”
1991 Paolo Volponi, “La strada per Roma”;
1992 Vincenzo Consolo, “Nottetempo, casa per casa”;
1993 Domenico Rea, “Ninfa plebea”;
1994 Giorgio Montefoschi, “La casa del padre”;
1995 Mariateresa Di Lascia, “Passaggio in ombra”;
1996 Alessandro Barbero, “Bella vita e guerre altrui di Mr. Pyle, gentiluomo”
1997 Claudio Magris, “Microcosmi”;
1998 Enzo Siciliano, “I bei momenti”;
1999 Dacia Maraini, “Buio”;
2000 Ernesto Ferrero, “N.”;
2001 Domenico Starnone, “Via Gemito”;
2002 Margaret Mazzantini, “Non ti muovere”;
2003 Melania Gaia Mazzucco, “Vita”;
2004 Ugo Riccarelli, “Il dolore perfetto”;
2005 Maurizio Maggiani, “Il viaggiatore notturno”;
2006 Sandro Veronesi, “Caos Calmo”;
2007 Niccolò Ammaniti, “Come Dio comanda”;
2008 Paolo Giordano, “La solitudine dei numeri primi”;
2009 Tiziano Scarpa, “Stabat Mater”;
2010 Antonio Pennacchi, “Canale Mussolini”
2011 Edoardo Nesi, “Storia della mia gente”;
2012 Alessandro Piperno, “Inseparabili. Il fuoco amico dei ricordi”;
2013 Walter Siti, “Resistere non serve a niente”;
2014 Francesco Piccolo, “Il desiderio di essere come tutti”;
2015 Nicola Lagioia, “La ferocia”;
2016 Edoardo Albinati, “La scuola cattolica”;
2017 Paolo Cognetti, “Le otto montagne”;
2018 Helena Janeczek, “La ragazza con la Leica”;
2019 Antonio Scurati, “M. Il figlio del secolo”
2020 Sandro Veronesi, Il colibrì
2021 Emanuele Trevi, Due vite
Tutte le donne vincitrici del Premio Strega. Il Premio Strega 2018 è stato vinto da una scrittrice. Quante sono le donne vincitrici del noto premio letterario dalla sua nascita ad oggi? Scopriamolo! Rachele Landi - Valentina Pennacchio il 09-10-2018 su sololibri.net.
Il Premio Strega è uno dei premi letterari più prestigiosi d’Italia. Istituito nel 1947, viene assegnato ogni anno all’autore/autrice che abbia pubblicato un libro in Italia tra il 1º aprile dell’anno precedente e il 31 marzo dell’anno in corso. Il Premio Strega 2018 è stato assegnato alla scrittrice Helena Janeczek, autrice del romanzo “La ragazza con la Leica”.
Da quanti anni una donna non vinceva il Premio Strega? Da 15 anni! L’ultima vittoria risaliva al 2003, anno in cui trionfò Melania Gaia Mazzucco con “Vita”.
Vediamo chi e quante sono state le donne vincitrici del Premio Strega nel corso degli anni.
Premio Strega: ecco tutte le donne vincitrici
In 70 anni di Premio Strega, le edizioni vinte da donne sono solamente 11.
Ecco tutte le donne vincitrici del Premio Strega, con indicazione del libro premiato e anno:
Elsa Morante - L’isola di Arturo (1957);
Natalia Ginzburg - Lessico famigliare (1963);
Anna Maria Ortese - Poveri e semplici (1967);
Lalla Romano - Le parole tra noi leggere (1969);
Fausta Cialente - Le quattro ragazze Wieselberger (1976);
Maria Bellonci - Rinascimento privato (1986);
Mariateresa Di Lascia - Passaggio in ombra (1995);
Dacia Maraini - Buio (1999);
Margaret Mazzantini - Non ti muovere (2002);
Melania Gaia Mazzucco - Vita (2003).
Helena Janeczek - La ragazza con la Leica (2018)
Premio Strega: la storia della prima edizione. Il prestigioso premio letterario italiano fu istituito a Roma nel 1947 da Maria Bellonci e Guido Alberti, proprietario della casa produttrice del liquore Strega. Il 5 luglio 1947 fu decretato il primo vincitore: lo scrittore Ennio Flaiano. Scopriamo la storia della prima edizione del premio Strega. Alice Figini il 05-07-2022 su sololibri.net.
Il 5 luglio 1947 si concludeva la prima edizione del premio Strega con il trionfo di Ennio Flaiano che con il romanzo Tempo di uccidere, edito da Longanesi, vinceva il prestigioso premio letterario italiano.
Tutto nacque dall’idea prodigiosa di una scrittrice. È il 1944 quando Maria Bellonci decide di organizzare un salotto letterario capace di ospitare i maggiori intellettuali e artisti dell’epoca. La sede prescelta per gli incontri fu la sua abitazione, in viale Liegi a Roma, nei pressi di Viale Regina Margherita.
Proprio nel suo salotto di casa Maria Bellonci, insieme al marito Goffredo illustre giornalista e critico, dischiuse le porte alla cultura nel clima di cauta speranza del secondo dopoguerra. Un segno di rinascita per l’Italia logorata dal ventennio di dominazione fascista che ora tornava a sognare nel nome della letteratura e dell’arte. Le prime riunioni furono mosse da un desiderio di fratellanza intellettuale, dalla necessità di far fronte al comune sentimento di incertezza nei confronti del futuro.
Scrive Maria Bellonci nel libro testimonianza Come un racconto. Gli anni del premio Strega (1969):
Cominciarono, nell’inverno e nella primavera 1944, a radunarsi amici, giornalisti, scrittori, artisti, letterati, gente di ogni partito unita nella partecipazione di un tema doloroso nel presente e incerto nel futuro. Poi, dopo il 4 giugno, finito l’incubo, gli amici continuarono a venire: è proprio un tentativo di ritrovarsi uniti per far fronte alla disperazione e alla dispersione.
La letteratura divenne il collante di quel “tentativo di tenersi uniti”, una voce attraverso cui narrare le imperscrutabili vicissitudini della storia dando a esse una forma e, infine, una visione. Da questa straordinaria e irripetibile comunione di intenti nacque l’idea di un Premio che avrebbe avuto l’arduo compito di salvare la cultura italiana dispersa dalla guerra.
L’origine del premio Strega
Nel luogo di ritrovo romano iniziarono a radunarsi grandi personalità, quali Elsa Morante, Alberto Moravia, Carlo Levi, Giuseppe Ungaretti, Carlo Emilio Gadda. Scattò la scintilla e il fervore culturale fu immediato, ben presto il gruppo decise che aveva bisogno di un nome. Si chiamarono Amici della domenica, in onore del giorno in cui avevano luogo le loro riunioni. La vivace fucina di menti, stimolata dal confronto continuo, decise ben presto di voler dar vita a un premio letterario, unico nel suo genere, diverso da quelli già presenti sul territorio nazionale e più democratico.
Serviva però un finanziatore. Maria Bellonci lo trovò in Guido Alberti, proprietario dell’omonima fabbrica di torroni e del liquore Strega che infatti diede il nome al premio. Alberti era un amico della famiglia Bellonci, non solo impresario ma anche vivace uomo di cultura che aveva anche intrapreso la carriera di attore, diretto da importanti registi quali Federico Fellini e Pierpaolo Pasolini.
Il premio fu istituito ufficialmente il 27 febbraio 1947 con un fondo di duecentomila lire messo a disposizione dai fratelli Alberti della ditta Strega. Maria Bellonci ne celebrò la nascita con un articolo pubblicato sulla rivista Fiera letteraria. Dopo i ringraziamenti dovuti a Guido Alberti, da lei definito “uomo di gusto e di cultura”, Bellonci proseguì nell’illustrare il regolamento del premio. Avevano diritto al voto tutti gli amici che frequentavano le riunioni domenicali. La prima edizione ne contava un totale di centocinquanta.
Dopo un primo scrutinio volto a sorteggiare cinque opere di narrativa pubblicate negli ultimi dodici mesi si sarebbe proseguito con una seconda votazione, sempre su scheda segreta, volta a eleggere il vincitore il primo giovedì di luglio.
Ciò che più colpisce dell’articolo di Maria Bellonci è il ritratto della giuria, da lei definita “vasta e democratica”: scrittori illustri del calibro di Morante e Piovene si confrontavano infatti con lettori senza alcun merito artistico a parità di voto.
Premio Strega: il nome derivato da un liquore
Fu dunque un liquore a base di erbe a battezzare il nuovo premio letterario. Si trattò di un nomen omen, come direbbero gli antichi, un nome presagio che ne decretò in qualche modo il destino. La denominazione del liquore si ricollegava infatti alle leggende sulla stregoneria: a Benevento infatti si credeva nelle janare, le streghe che popolavano il mondo agreste e contadino. Secondo la credenza popolare queste donne demoniache uscivano solo di notte ed erano solite riunirsi in un sabba sotto un grande noce. Più di ogni altra cosa temevano la luce del sole. Di giorno assumevano sembianze umane. L’unico modo per riconoscerle era attendere le ultime donne che abbandonavano la chiesa dopo la messa di Natale.
Questa leggenda folkloristica popolare si legò a doppio filo al premio letterario: del resto cos’è la letteratura se non un sortilegio, un atto di stregoneria?
Premio Strega: il primo vincitore
Il primo giovedì di luglio, come disposto da Maria Bellonci, fu proclamato il vincitore della prima edizione del premio Strega. Nell’incandescente cinquina si fronteggiavano grandi nomi: Corrado Alvaro, Gianna Manzini, Ennio Flaiano, Giuseppe Berto e il poeta Libero Bigiaretti.
Vinse Ennio Flaiano con il romanzo Tempo di uccidere edito da Longanesi.
Il romanzo appariva controverso e scomodo, distante dagli standard narrativi dell’epoca. Per scriverlo Flaiano, giornalista e drammaturgo all’epoca noto soprattutto come sceneggiatore di Felllni, si ispirò alla propria esperienza militare in Etiopia. Lo scrisse di getto, in soli tre mesi, su commissione di Leo Longanesi. Raccontava le vicende di un tenente italiano in Abissinia che durante la guerra si trova a confrontarsi con gli aspetti più oscuri di se stesso e dell’animo umano. Un libro duro, tragico, che svelava l’ipocrisia racchiusa dietro le missioni belliche coloniali.
Fu l’unico romanzo scritto da Ennio Flaiano nella sua lunga carriera e letteraria costellata di racconti brevi, articoli, diari ed elzeviri. Stroncato inizialmente dalla critica, Tempo di uccidere fu poi paragonato da Alberto Moravia a Lo straniero di Albert Camus.
In attesa di conoscere il vincitore della settantaseiesima edizione del Premio Strega, che sarà svelato giovedì 7 luglio al Ninfeo di Villa Giulia a Roma, è affascinante ripercorrere i passi di chi l’ha preceduto riscoprendo i vincitori che si sono susseguiti negli anni. Una lunga storia letteraria, tra tradizione e innovazione, che racconta dell’amore per la cultura di un intero paese e soprattutto la volontà di riscatto della narrativa che prende forma e si fa racconto a sé stante, epopea, leggenda svincolandosi dalle briglie dittatoriali della Storia.
Il premio Strega inaugurava una nuova visione della letteratura, non più elitaria, ma democratica e alla portata di tutti. La guerra era finalmente conclusa, si era dischiuso un nuovo orizzonte fatto di diritti civili e politici dove “tutti potevano essere lettori”: questo era il messaggio racchiuso nella nascita del più grande premio letterario nazionale.
Una tradizione che prosegue da settantasei anni e ancora porta la memoria di una donna, la sua storica ideatrice: Maria Bellonci. Con lei, in quel lontano 1947, tutto ebbe inizio.
Quanto è cultural chic l'abbuffata di prefazioni. Luigi Mascheroni il 31 Marzo 2022 su Il Giornale.
Giornalisti, premi Strega, volti tv sono preferiti ai critici per firmare testi introduttivi e curatele. E c'è chi esagera...
Prefazióne, dal latino praefatio, onis, derivato di praefari: «premettere, dire prima», nel senso che nelle case editrici si dice prima il nome cui affidare una prefazione, poi si sceglie il libro cui appiccicarla. «Paolo Di Paolo! Facciamo firmare una bella prefazione a Paolo Di Paolo! Scrive così poco...». «Buona idea! Prefazione a cosa?!». «Boh, qualcosa gli troviamo...». Diminutivo: «prefazioncina», «prefazioncèlla», ma anche: «prefaziùncola».
Fra prefazioncine e prefaziuncole, l'editoria italiana vive di prefazioni. Adora le prefazioni. Vorrebbe stampare solo prefazioni! Firmate da premi Strega, da bestselleristi, da giornalisti tivù. Del tutto a caso. «A chi facciamo scrivere la prefazione alla riedizione di Achille Campanile?». «A Beppe Severgnini, cosa dici? Fanno ridere tutti e due...».
«La prefazione è quella cosa che si scrive dopo, si stampa prima, e non si legge né dopo né prima», diceva Pitigrilli. Il quale, essendo informatore dell'Ovra, non è affidabile. Infatti oggi le prefazioni sono le uniche che si leggono, e che fanno vendere. «Scusa, ma hai mai letto il Mestiere di vivere di Cesare Pavese? No, ma ho letto la prefazione di Nadia Terranova».
Anche George Orwell: i romanzi sono così così, ma le prefazioni di Walter Veltroni, o dei Wu Ming (è uguale), sono imperdibili.
Una prefazione non si nega a nessuno. L'importante è che a firmarle siano nomi mainstream che più mainstream non si può. Di tutto un pop. Unica regola, ferrea: per scrivere una prefazione l'importante è conoscere pochissimo, o per niente, il prefato. I classici non si leggono. Si citano.
Prefatori delle opere di Cesare Pavese, le cui opere dal 2021 sono fuori diritti: Paolo Di Paolo, Nadia Terranova, Claudia Durastanti, Eva Cantarella, Franco Arminio... E prima ancora: Paolo Giordano, Wu Ming, Donatella Di Pietrantonio, Tiziano Scarpa, Nicola Lagioia, Domenico Starnone...
Nicola Lagioia ha anche prefato Beppe Fenoglio. Silvia Avallone Madame Bovary di Gustave Flaubert. La Durastanti Dracula di Bram Stoker e Ghiaccio di Anna Kavan. La Terranova, oltre Pavese, Una donna quasi perfetta di Madeleine St John, Company Parade di Margaret Storm Jameson, il Quaderno proibito di Alba De Céspedes, Guerra di infanzia e di Spagna di Fabrizia Ramondino, La vacanza di Dacia Maraini, Piccole donne di Louisa May Alcott, Favola del castello senza tempo di Gesualdo Bufalino... e ci fermiamo qui. Di norma, le autrici donne sono prefate da donne, gli autori siciliani da siciliane, le antologie femminili e femministe tutte dalla Lipperini, quelle delle donne scrittrici o donne lettrici da Daria Bignardi. E quello che rimane fuori, dal Diario di Anna Frank alle lezioni di scrittura di Pontiggia, di solito lo danno a Paolo Di Paolo. «Ma va', dài. Paolo Di Paolo?! Mica gli daranno anche, chessò, Comisso?». «Sì, l'opera omnia».
L'importante è non affidare le prefazioni a specialisti, critici, critici militanti, ricercatori, italianisti, americanisti, francesisti. Semplici scrittori e giornalisti vanno benissimo.
I premi Strega, ad esempio: sono i più gettonati per prefazioni, introduzioni, postfazioni e curatele. Emanuele Trevi, che negli ultimi tempi ha firmato prefazioni a Philip Dick, Giuseppe Berto, Nathaniel Hawthorne, Herman Melville e Bernard Malamud (autore prefato anche da Marco Missiroli...), mettendo insieme due vecchie prefazioni ai libri di Rocco Carbone e Pia Pera, con Due vite appunto - ha addirittura vinto al Ninfeo. Sandro Veronesi invece ha prefato, tra gli altri, Alberto Moravia, W.H. Auden, Robert Louis Stevenson, persino Fabrizio De André e, per chiudere il cerchio, ha anche introdotto la riedizione del primo romanzo di Emanuele Trevi, I cani del nulla.
Io prefacio te e tu prefaci me. Da cui il detto: «Avere la prefacia come il c**o». E i romanzi con gli asterischi li preface la Murgia.
Tutti posso prefare tutto. La competenza sull'autore di cui si scrive è, come si dice, accessoria. Due giorni fa è uscita la riedizione del romanzo di Giovanni Arpino Il fratello italiano. Forse perché lavoro al Giornale e per racconti raccontati ho imparato a conoscere bene Arpino e soprattutto a conoscere chi conosceva benissimo Arpino, potrei citare dieci nomi di giornalisti o scrittori che su Arpino potrebbero scrivere prefazioni capolavoro. E invece l'hanno affidata a Mario Desiati. Bravissimo. Ma.
L'importante è che il prefatore-prefatrice sia un collaboratore-collaboratrice dei grandi quotidiani e dei magazine femminili. Ciò garantisce anticipazioni, stralci e recensioni. Esempi. Chiara Valerio ha firmato ultimamente le prefazioni di America oggi di Raymond Carver (per equilibrare l'introduzione è di Robert Altman...), Frankenstein di Mary Shelley, Paradiso di José Lezama Lima... Fra i prefatori più attivi il giro (ex) minimum fax - Nuovi Argomenti - Einaudi è il più operativo. Christian Raimo spazia dall'epistolario di Charles Bukowski ai racconti di John Cheever, da Donald Barthelme a Alan Pauls. Valeria Parrella da Elizabeth Strout ai racconti di Raymond Carver, dalle storie a fumetti di Milo Manara a Bonjour tristesse di Françoise Sagan. Lagioia a parte Fenoglio e Pavese - da Roberto Bolaño a Vonnegut, da Richard Yates a Francis Scott Fitzgerald. E Roberto Saviano da Dante Virgili (ma perch?!) fino a Pasolini...
Ma appunto stiamo parlando di prefatori famosi. Poi ci sono le quote rosa (moltissime), le quote queer (arriveranno i romanzi Lgbt prefati solo da Jonathan Bazzi) e infine le quote etniche. Il caso più fantastico (si può dire «più fantastico»?) è stato qualche mese fa - la riedizione Mondadori del romanzo del 1961 di Enrico Emanuelli Settimana nera, che assieme a Tempo di uccidere di Ennio Flaiano rappresenta una delle poche opere di narrativa sulla presenza italiana in Somalia e Etiopia. Prefazione? Di Igiaba Scego, scrittrice italiana di origine somala. Domanda: in casi simili si dice «diritto di prefazione» o «diritto di prelazione»?.
«L'unica prefazione di un'opera è il cervello di chi la legge», scrisse Fernando Pessoa in un abbozzo per una prefazione alle sue Poesie. Ma almeno Pessoa lo prefaceva soltanto Antonio Tabucchi.
Federico Rampini, "su venti libri nove sono suoi": lo zar del Corriere, uno strano caso in via Solferino. Libero Quotidiano il 10 marzo 2022.
Federico Rampini, da domani venerdì 11 marzo sbarca in edicola con il Corriere della Sera con una collana di saggi "per capire gli scenari internazionali con gli strumenti della geopolitica, scelti da Federico Rampini", così recita il lancio dello stesso quotidiano diretto da Luciano Fontana. Ma i volumi - segnala La Verità - sono più che altro scritti proprio da Rampini. Su 20 libri previsti, ben 9 portano la firma del'editorialista del Corriere, ex Repubblica.
Nella presentazione dell'opera Rampini scrive, "ai lettori del Corriere propongo un'antologia di testi davvero essenziali: insieme ai miei libri con cui da 20 anni cerco di illuminarvi sul mondo com'è sul mondo che verrà, ho scelto i grandi classici...". Il piano dell'opera prevede uscite settimanali fino al 22 luglio.
Una bella presentazione che però dimentica di citare che quasi la metà di quei libri sono scritti da lui. Vengono definiti grandi classici e così Rampini si autoincensa. Chissà che ne penseranno i lettori del Corriere e se apprezzeranno la collana di libri di geopolitica, presentata da un autore che si definisce "classico".
Gustavo Bialetti per “La Verità” il 10 marzo 2022.
Federico Rampini, l'uomo che si fece collana. Stufi di ascoltare in tv esperti di geopolitica che parlano di guerre e fonti di energia con la stessa chiarezza di un convegno di virologi? Non vi orientate bene tra tutti questi «centri di alti studi», finanziati da non si sa bene chi e che tracciano scenari più o meno foschi? Niente paura, da domani arriva in edicola con il Corriere della Sera una collana di saggi «per capire gli scenari internazionali con gli strumenti della geopolitica, scelti da Federico Rampini», come recita il lancio di ieri.
Ma forse sarebbe stato più corretto dire che i volumi sono più che altro scritti da Rampini. Già, perché su 20 libri previsti, ben 9 portano la firma del cotonatissimo giornalista ex Repubblica. Nella presentazione dell'opera, pubblicata ieri sul giornale diretto da Luciano Fontana, va detto che c'è già un segno premonitore di questo One Rampini show.
Con la simpatia di un Sergej Lavrov, il Rampini medesimo avvertiva: «Ai lettori del Corriere propongo un'antologia di testi davvero essenziali: insieme ai miei libri con cui da 20 anni cerco di illuminarvi sul mondo com' è sul mondo che verrà, ho scelto i grandi classici...».
Devono essere stati i lunghi anni alla corte di Eugenio Scalfari ad avergli messo questa voglia di «illuminare» le genti. In ogni caso, il giornalista genovese rischia già di finire nel Guinness dei primati per essersi scritto in autonomia quasi la metà di un'intera collana.
Il piano dell'opera, più che altro un a solo intervallato da qualche ospite, prevede uscite settimanali fino al 22 luglio. Non sappiamo se quel giorno ci sarà la pace, o se Vladimir Putin sarà già capo del mondo. Ma possiamo anticipare che la luce di Rampini illuminerà le nostre menti, come e meglio di un pannello solare. Alla faccia del gas russo.
Rampinomics del sé. Guia Soncini ha trovato chi ha un ego più grande del suo e ne è ammirata. Guia Soncini su L'Inkiesta l'11 Marzo 2022.
I saggisti che si citano nelle note a piè di pagina sono a un livello avanzato, ma il vero maestro è Federico Rampini, precursore dell’esporre nei collegamenti televisivi le copertine dei suoi libri, che da oggi satura il canone geopolitico occidentale in edicola col Corriere.
L’altro giorno un tizio mi si è avvicinato e mi ha detto: io la leggo sempre e la stimo molto. Ho risposto: anch’io mi stimo molto. Ha concluso: sì, si vede dalle cose che scrive. Tutto questo per dire che non ho niente contro l’ego: ho moltissimo ego, e ci vado molto d’accordo.
D’altra parte, i temi di cui scegliamo di occuparci dicono qualcosa di noi, e non avrei deciso di scrivere del commercio del sé e del fatto che il mondo è una vetrina per vendere prosciutti e divenire noi stessi prosciutti (esce la prossima settimana: accattatevill’) se non fossi dotata anch’io d’una certa qual vocazione a mettermi in vetrina.
È perciò con sorpresa e ammirazione e un qualche spirito competitivo che, di tanto in tanto, scopro gente che ce l’ha più grosso del mio, l’ego. La settimana scorsa sfogliavo una raccolta di saggi di autori italiani. Nelle note – il posto in cui se siete me mettete i vostri fragili nervi e lo spirito di patate, e se siete uno che ci tiene a venir preso sul serio mettete la bibliografia – ci sono giochi di specchi mica male.
Il saggio di Federica D’Alessio ha in nota «Ne avevo parlato anche io nell’articolo [eccetera]»; quello di Federico Faloppa ci invita in nota a «cfr. Federico Faloppa» in vari contesti, pubblicazioni di Oxford, della Crusca, e un suo libro di qualche anno fa; l’affare si fa incestuoso quando si arriva alla bibliografia di Vera Gheno, che prima invita a «cfr. anche Vera Gheno», poi in una nota successiva mette un libro di Faloppa, e poi uno di Faloppa e Gheno.
Ma, poiché l’Italia è un po’ il Café Russe (il ristorante che doveva essere l’unico aperto a Los Angeles negli anni Novanta, giacché tutti i protagonisti di Beautiful andavano sempre e solo a cena lì), il bello arriva nelle note successive, quelle al saggio di Jennifer Guerra. La quale ha in nota Faloppa e Gheno (in Italia non si può fare la rivoluzione perché ci conosciamo tutti), ma anche un post di Guerra stessa su Medium.
Cinzia Sciuto ha come prima nota un articolo su Micromega di, indovinate, Cinzia Sciuto; ma la sua mia nota preferita è la quarta, in cui – con un distacco che neanche Otelma – si cita come fosse un’altra: «Sul velo e il suo significato, non solo nella tradizione musulmana, ho parlato diffusamente in C. Sciuto, “Non c’è fede che tenga”». In note successive cita altri due suoi articoli (Sciuto si stima molto: se non la capisco io); l’ultimo che cita, alla nota 15, è introdotto dalle parole «Rimando al mio». Sembra ieri che colpevolizzavamo i baroni universitari che assegnavano come testi per l’esame quelli scritti da loro stessi.
Quando in quel volume sono arrivata alle note degli autori (due, se non ho contato male) che in bibliografia avevano qualcuno che non fosse lo specchio, mi sono sembrati dei campioni di sobrietà e basso profilo, praticamente gli eredi del Dalai Lama.
Tuttavia questi dilettanti hanno tutto da imparare da Federico Rampini, un maestro per tutti noi piazzisti di prosciutto. Quando ieri ho visto il suo ultimo capolavoro di vetrinista sono stata molto felice di avergli tributato il giusto riconoscimento nel mio imminente prosciutto (non ricordo se vi ho già detto che esce la settimana prossima e accattatevill’).
Rampini fu infatti precursore d’una metodologia di piazzismo che poi in pandemia hanno (abbiamo) adottato tutti, ma lui lo faceva da prima, lui lo fa meglio, la sua spudoratezza è un talento naturale, non un gusto acquisito. È un po’ il Funari degli eleganti, Rampini: ha il commercio nell’anima.
La ragione per cui l’avevo citato è che, vivendo per la maggior parte del tempo negli Stati Uniti, Rampini faceva già da prima la cosa che in pandemia abbiamo cominciato a fare tutti: collegarsi coi programmi televisivi da casa e a quel punto, nella libreria alle nostre spalle (alle spalle abbiamo sempre una libreria, mai un cesto dei panni sporchi), tenere di faccia il prosciutto da noi appena pubblicato, acciocché se ne veda bene la copertina e le folle accorrano a comprarselo assieme a una batteria di pentole.
Tuttavia ieri si è superato (il commercio del sé è una disciplina assai competitiva, in cui ogni giorno vengono stabiliti nuovi primati). Il Corriere si accinge a pubblicare alcuni libri fondamentali per capire la geopolitica, visto che improvvisamente gli italiani sono interessati a una cosa che non si sono mai filati in vita loro, cioè gli scenari internazionali. La collana è a cura di Federico Rampini e viene presentata da un articolo di Federico Rampini. Di fianco all’articolo di Federico Rampini che presenta la collana curata da Federico Rampini c’è il piano dell’opera, ovvero la lista dei titoli con data d’uscita. Ogni tanto c’è qualche nome minore tipo Henry Kissinger o Ian Bremmer, ma la collana è dominata dall’unico vero esperto di politica internazionale mai pubblicato in Italia.
È di Federico Rampini il primo libro che esce, oggi. Suo è quello che uscirà il 25 marzo, quello dell’8 aprile e quello del 22, e il 6 e il 20 di maggio i lettori del Corriere potranno comprare preziose opere del Rampini, e ancora il 3 giugno e poi il 17, e persino il primo luglio, volumi di Federico Rampini aiuteranno il lettore del Corriere a decodificare gli scenari internazionali. Fanno nove opere di Rampini su venti: si è fatto da parte e ha lasciato ad altri più della metà dei titoli, io mica lo so se avrei avuto altrettanta continenza.
Mi vengono in mente i film di Soderbergh in cui Soderbergh, oltre che regista e sceneggiatore, è pure direttore della fotografia e montatore. È difficile, per noialtri che abbiamo la malattia dell’autostima ipertrofica, credere che chiunque altro possa fare un qualsivoglia lavoro meglio di noi. Però Soderbergh il montaggio e la fotografia li firma con due pseudonimi (uno dei quali femminile: sarà appropriazione culturale?), per risparmiare allo spettatore di vedere troppissime volte il suo nome nei titoli di testa. Rampini no. Forse. Siamo sicuri che Henry Kissinger non sia un suo pseudonimo?
Arnoldo Mondadori, «nato umile e contadino». «Io, Michele Placido, sento di essere come lui». Roberta Scorranese su Il Corriere della Sera il 24 Maggio 2022.
L’attore sulla Rai sarà il grande editore del ‘900 nella docu-fiction “I libri per cambiare il mondo”: «Lui del Nord, io del Sud, ma veniamo entrambi da piccoli paesi di provincia». Con gli Oscar portò il romanzo al grande pubblico. Il nipote Formenton: «Pubblicò D’Annunzio e Topolino».
L’aggettivo «novecentesco» inquadra perfettamente una figura come Arnoldo Mondadori, fondatore dell’omonimo gruppo editoriale, intellettuale che ha cambiato la lettura degli italiani. «Novecentesco perché colto, rigoroso, geniale anche se concreto», dice Luca Formenton, nipote di Arnoldo e a sua volta editore (è presidente de Il Saggiatore e della Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori). A poco più di 50 anni dalla morte, Mondadori viene ricordato innanzitutto al Salone del Libro di Torino — con due appuntamenti venerdì 20 e sabato 21 maggio — e poi in autunno con il lancio di una docu-fiction nella quale a prestargli volto e voce sarà Michele Placido ( «Arnoldo Mondadori. I libri per cambiare il mondo» è prodotta da Gloria Giorgianni per Anele in collaborazione con Rai Fiction e il sostegno di Film Commission Torino Piemonte). «In un certo senso mi sento legato a Mondadori», dice Placido, presente a Torino, venerdì 20 maggio, per l’anteprima -, «entrambi siamo originari di piccoli paesi di provincia, siamo nati in famiglie umili».
Figlio di una famiglia molto povera
«Però io vengo dal Foggiano, lui era un uomo del Nord, anche se era nato in un minuscolo borgo del Mantovano. Ecco perché all’inizio ero reticente, pensavo che fosse un personaggio troppo diverso da me. Poi però ho letto la scrittura della docu-fiction e mi sono convinto». In effetti Mondadori nasce in una famiglia molto povera, anche se, fa notare Formenton, sua madre Gilda «era detta la signora, perché di modi raffinati, molto intelligente». Ma in casa non c’è da mangiare per i sei figli e così la famiglia fa quel che può. Il padre apre un’osteria a Ostiglia, la madre si arrangia. Arnoldo deve smettere di studiare per cominciare a lavorare, eppure in lui si fa strada un’ossessione che non lo abbandonerà mai. «Il libro, inteso come oggetto fisico, come elemento concreto, di carta, di inchiostro», rivela Formenton, tra i protagonisti del dibattito a Torino, il 21 maggio, dal titolo L’importanza dell’investimento nella cultura e nell’editoria: Il caso Arnoldo Mondadori. «Per interpretarlo, naturalmente ho studiato la sua vita, mi sono informato», continua Placido, «e ho scoperto un altro aspetto che ci accomuna: così come per lui i libri e l’editoria sono stati una forma di riscatto dalle umili radici, così anche io mi sono rifatto con il mestiere dell’attore. Che per me è ricerca continua, esplorazione senza fine della cultura».
Dalla bottega di un tipografo all’editoria
Già, Mondadori si impiega nella bottega di un tipografo, poi rileva una stamperia, più grande, si mette in proprio e acquisisce dimestichezza con la dimensione fisica dei volumi. Ragiona sui prezzi, sulla diffusione. Nel 1912 firma come editore il suo primo libro ( Aia madama di Tomaso Monicelli), guarda all’editoria scolastica e per ragazzi, strada più sicura all’epoca. «Perché quello che poi lui inventerà, cioè un ibrido tra editoria di qualità e libri popolari, non esisteva ancora», rileva Formenton. Sì, all’epoca erano pochi gli editori come Treves che pubblicavano i best seller. Per esempio, quelli di Gabriele D’Annunzio, l’autore più letto del tempo. E così quando Arnoldo va a trovare il Vate, glielo dice molto chiaramente: «Comandante, di solito sono gli editori che danno lustro agli scrittori, ma se lei pubblica con me sarò io ad avvantaggiarmene in termini di fama». C’è un problema: D’Annunzio vuole un milione di vecchie lire. Mondadori non le ha. Però alla fine in qualche modo le trova, e così avviene la svolta. «Che poi, in seguito, vorrà dire avere nella sua squadra autori come Montale, Pirandello, Ungaretti, Hemingway», dice il nipote, «e con ognuno di essi mio nonno imbastirà rapporti personali, coltiverà amicizie, insomma, inaugurerà un nuovo modo di fare l’editore».
La spinta ad esplorare l’editoria per tutti
Un po’ come Rizzoli, il grande rivale. Ma in Mondadori persisterà sempre un’asprezza contadina, quella che Placido ha cercato di rendere anche nei suoi aspetti più ruvidi, cosa molto apprezzata dal nipote. «Ad un certo punto della mia carriera», dice l’attore, «ho pensato che dovevo andare oltre la recitazione e così ho fondato una casa di produzione con mia moglie, Federica Vincenti. Come Mondadori, che decise di imprimere una svolta nuova alla sua carriera, esplorando l’editoria per tutti». Già, perché il sogno di Arnoldo era quello di portare un libro in ogni casa e la collana Oscar è stata la realizzazione perfetta di questa intuizione. «La sua idea si più riassumere in una frase, conclude Formenton: «mio nonno ha pubblicato D’Annunzio e Topolino, una lezione di equilibrio che mi ha sempre accompagnato, nel lavoro e non solo». Verranno poi i gialli, le riviste come Grazia, le collane più raffinate e i tanti altri progetti imprenditoriali. Però questo accostamento tra D’Annunzio e Topolino, questo sapersi destreggiare tra l’alto e il popolare, restano i cardini di Mondadori, a tutti gli effetti un uomo del Novecento.
Marina de Ghantuz Cubbe per “la Repubblica – ed. Roma” il 30 maggio 2022.
Una delle librerie più grandi d'Italia, con sede in un luogo prestigioso come la Galleria Alberto Sordi in piazza Colonna: dovrebbe essere un luogo di cultura propulsivo. Invece chiuderà i battenti andando ad allungare l'elenco delle librerie che non ce la fanno. Non in Centro storico.
In concomitanza con la ristrutturazione degli spazi della Galleria Alberto Sordi a giugno, la casa editrice abbasserà le serrande per riaprire in altre zone meno costose dal punto di vista degli affitti e dove circola un numero maggiore di persone.
Feltrinelli potrebbe infatti optare per quartieri come Centocelle o Monteverde, lontano dal passaggio mordi e fuggi di chi va a fare shopping nei negozi di lusso o dei marchi internazionali.
Complice il fatto che via del Corso e dintorni sono diventati negli anni sempre più ad uso e consumo dei turisti (spariti nei due anni di pandemia), le librerie non riescono a consolidare la presenza di un proprio pubblico. Né sono sufficienti gli eventi di presentazione di libri scritti da personaggi famosi.
L'annuncio ufficiale della chiusura dello store dovrebbe arrivare a giugno e nel frattempo l'assessore al Commercio del I municipio Jacopo Scatà si augura «che il gruppo Feltrinelli scelga di riaprire la sede una volta terminati i lavori di ristrutturazione che rappresentano un altro tassello per il rilancio del Centro storico di Roma».
Così non è andata due anni fa, quando sempre Feltrinelli decise di chiudere la libreria in via Giovanni Pierluigi da Palestrina, all'angolo con Piazza Cavour e di mettere fine all'esperienza di International in via Vittorio Emanuele Orlando, a due passi da piazza della Repubblica. Lo scorso anno ha chiuso anche la Red Feltrinelli in via Tomacelli, che ora diventerà un supermercato dell'Esselunga, senza contare le serrande abbassate anche dalla Libreria del Viaggiatore in via del Pellegrino e della Libreria Coliseum in via del Teatro Valle, un vero tempio per i bibliofili.
I lavoratori della Galleria Alberto Sordi, circa una ventina, saranno riassorbiti nelle altre librerie della casa editrice in attesa delle decisioni sul futuro delle sedi ma intanto rimane l'amarezza per la perdita dell'ennesimo luogo di distribuzione (e discussione) di libri.
Tanto più che ad essere abbandonati sono il cuore di Roma e uno spazio moderno e allo stesso tempo storico come la Galleria, che nel 1922 era stato concepito proprio per rispondere all'esigenza della borghesia nascente di vivere una mondanità scandita da passeggiate familiari, incontri al caffè e acquisti in negozi eleganti.
Altri tempi. Il centro commerciale sorto nel 2003, dopo un complesso lavoro di restauro, era stato scelto da Feltrinelli per l'ubicazione eccezionale (che ha contribuito a rendere la libreria una delle più belle e prestigiose di Roma), per la presenza continua di visitatori italiani e stranieri, i collegamenti del trasporto pubblico.
Tutti elementi che non bastano più: «Quando chiudono strutture così, a perderci sono i romani - commenta il presidente della commissione Commercio in Campidoglio Andrea Alemanni - È ovvio che al centro di Roma ci siano i grandi marchi, ma non è neanche possibile che ci sia una omologazione totale con solo multinazionali. Il rapporto tra costo dell'affitto e redditività sostanzialmente consente solo ai grandissimi gruppi internazionali di resistere».
Gli spazi esterni saranno ristrutturati a giugno ma la zona non è più considerata appetibile perché legata soprattutto ai consumi di lusso La vetrina La libreria di Galleria Sordi è una delle più prestigiose d'Italia, una vetrina per il gruppo Feltrinelli.
Dago-flash il 30 maggio 2022 da “Untold - la vera storia di Giangiacomo Feltrinelli” di Ferruccio Pinotti.
Che Guevara muore in Bolivia, durante una delle fasi più calde della grande rivoluzione anticolonialista, innescata dalla seconda guerra dei trent’anni (1914-15). L’ex modella Sibilla Melega, ultima moglie di Feltrinelli, rammenta come il marito si gettò nella mischia: «Sì, lui voleva portare dei fondi a Che Guevara. Aveva fatto arrivare dei soldi da New York presso la Banca nazionale boliviana. I funzionari dell’istituto hanno subito avvisato i servizi segreti, perché si trattava di una somma importante. Aveva anche affittato un aereo per andare nella selva, dove si trovava Che Guevara».
Sibilla racconta l’interrogatorio che subì dalla Cia dopo essere stata arrestata insieme a Feltrinelli: «Arriva uno che aveva l’aria di essere della Cia, cercava di farmi parlare in spagnolo, ma io gli ho detto di parlarmi in inglese perché si sentiva che era la sua lingua madre. Poi mi fa una visita intima e mi dice: “Feltrinelli non ha comprato due biglietti aerei per il Costa Rica bensì uno solo, voleva lasciarla qua e andarsene”. Ha cercato di metterci l’uno contro l’altra. In seguito Giangiacomo mi ha raccontato la storia dell’aereo, dei soldi per il Che… lui voleva vedere Che Guevara e incontrarlo».
Equipaggiato alla tirolese, divisa in panno verde, berretto ponpon con stella alpina d’ordinanza, piccozza, borraccia, scarponcini, corde e ganci da arrampicata, Feltrinelli va in Alto Adige per guadagnare alla Rivoluzione l’irredentismo trentino, proprio quando la questione altoatesina si fa bollente.
Racconta Martha De Biasi, vedova dell’avvocato Sandro Canestrini: «Giangiacomo Feltrinelli veniva a casa nostra in Trentino e siamo anche stati ospiti da lui nel suo chalet a Oberhof. Lui e mio marito parlavano spesso della questione del Sudtirolo. Feltrinelli voleva conoscere tramite mio marito le persone che avevano messo la dinamite sotto ai tralicci».
I detrattori dell’editore pensano che lui si recò fra le brume trentine (e fra i nuraghi sardi) per strappare l’assenso di nuove reclute confidando nel fatto che, parlando poco l’italiano, non avrebbero capito bene cosa lui gli diceva? Fisime da malfidati. I lettori di Untold leggeranno infatti un’autorevole ammissione di uno dei ras di Potere Operaio, secondo cui Feltrinelli aveva capito più di loro la questione altoatesina.
Pinotti ha raccolto dall’ in-intervistabile Franco Freda i di lui racconti relativi ai sulfurei intenti attuativi che lo stratega nero della cultura vergò ne La disintegrazione del sistema, con i quali strizzava l’occhio alla frangia opposta, decisamente bazzicata da Giangiacomo, al fine di distruggere l’ordine borghese: «Vede, se il nemico c’è, cerco di abbattere il nemico con quelli che sono i suoi nemici. Il dialogo fra le estreme in chiave anti-Stato rientrava nelle aspirazioni nostre e anche nelle aspirazioni di qualcuno della cosiddetta estrema sinistra di allora».
La storia ha dimostrato a Freda che i suoi intenti sono rimasti sulla carta? Lui le risponde “e chi se ne Freda”: «Ho appena compiuto 81 anni e sono in grado di sottoscrivere ancora quelle parole che Freda, allora, aveva scritto».
Perchè Feltrinelli si dilegua una settimana prima della strage di piazza Fontana? Secondo Giorgio Marenghi, strenuo ricercatore di storie e verità venete che ha reso ad Untold un’analisi sfiziosa, «l’editore fu sempre destinatario delle “attenzioni” dei servizi segreti di mezzo mondo.
L’amicizia con Castro, l’operazione di “esfiltrazione” dal territorio sovietico dei manoscritti di Pasternak del romanzo Il dottor Zivago in combutta con la rete dell’ex generale nazista Gehlen, capo dei servizi segreti tedesco-occidentali (Bnd), fa capire che gli interessi politici su Feltrinelli, tipici di una stagione come la Guerra fredda, erano molteplici».
Allora, secondo Marenghi, «Con questo background alle spalle, cosa doveva fare Feltrinelli, se non immergersi in una provvisoria “irreperibilità”? Una cosa mi ha sempre colpito: che Feltrinelli abbia goduto della protezione di settori di numerosi Servizi, di centri di potere che rispondevano a logiche che per noi sembrano paradossali, ma che invece erano il pane di ogni giorno per gli apparati.
Così fu per il Pci, suo nemico ufficiale, ma in camera caritatis attento protettore; così fu per la rete tedesca occidentale che puntava al dissenso nell’Europa Orientale e che vedeva nel filocastrista Feltrinelli un “guastatore” di qualità».
In Untold compare un’intervista all’ex agente Sismi Francesco Pazienza, 76 anni di avventure e missioni, che racconta la sua amicizia con Umbertino D’Amato, il re dell’Ufficio Affari Riservati del Viminale: «D’Amato l’ho conosciuto bene: era diabolico e simpaticissimo al contempo, un mix raro; oltre che un raffinato esperto nell’arte ricattatoria. Sicuramente fu la più grande spia italiana di tutti i tempi».
Le imprese dello spione dell’Uar erano connotate da una doppiezza che gli fecero conquistare una grande stima non solo a Ovest, ma pure a Est: «Fu - svela Pazienza - «invitato dal Kgb all’Hermitage di San Pietroburgo e a Mosca».
Il cinico e mellifluo Umbertino aveva Feltrinelli nel mirino e la sua gelida manina giocava a incunearsi nel Pci per arrivare all’editore; testimonia Pazienza: «D’Amato mi raccontava che il nemico principale della struttura che presiedeva era il Pci. Aveva una bussola da seguire: capire se e quanto ci si poteva incuneare fra l’anima democratica e quella rivoluzionaria di quel partito e agire a seconda delle convenienze del momento. Paragonava fra loro quelle che per lui erano le due anime del Pci, Di Vittorio e Secchia; di quest’ultimo diceva che fosse un rivoluzionario irredimibile. E se conoscete bene i rapporti fra Secchia e Feltrinelli, beh, allora due più due fa quattro».
In questo mondo di ladri c’era anche Giovanni Rossi, che si dedicava al furto di automobili che venivano “taroccate” in un’officina di Segrate - vicinissima al fatale traliccio - e poi vendute. Al proprietario dell’officina - il fondatore del Mar (Movimento d’Azione Rivoluzionaria) Carlo Fumagalli - Untold dedica notevole spazio: «chiacchieratissimo ex partigiano “bianco” della Valtellina, in odore di traffici di tutti i tipi, impelagato in situazioni losche e “politicizzate”».
Secondo il ricettatore Rossi, Fumagalli aveva «un capannone a Segrate, è vicino al traliccio dove è morto da poco il Feltrinelli. Feltrinelli e Fumagalli erano soci, anzi l’editore passava ogni mese a Fumagalli la somma di lire 800.000 più le spese che erano per la copertura dell’attività che veniva svolta nel capannone, c’erano anche cinque o sei operai che venivano anch’essi pagati dal Feltrinelli». Il lettore di Untold scoprirà come, secondo Rossi, i vassalli di Fumagalli pestarono i calli all’editore la sera della morte.
Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 16 marzo 2022.
In questi giorni si celebra su ogni quotidiano nazionale e provinciale il cinquantesimo anniversario della morte di Giangiacomo Feltrinelli, un importante editore che oltre a stampare libri di buon successo, tipo Il dottor Zivago di Pasternak, un russo di grande talento letterario, si dilettava nell'organizzare una rivoluzione comunista casareccia.
E fu durante una sua azione scellerata contro l'odiato capitalismo, di cui egli era comunque un esponente di spicco, che tirò le cuoia. Si arrampicò non si sa come su un traliccio di Segrate e nel tentativo di abbatterlo per protestare si ignora contro chi, nella esplosione rimase secco.
Non appena accaduto il fattaccio, cronisti, polizia e carabinieri si diedero da fare per scoprire le cause che avevano portato al decesso dell'imprenditore. Nessuno all'inizio sospettò che il capitalista volesse compiere un attentato tanto cretino, però le indagini confermarono che l'editore, improvvisatosi bombarolo della mutua, a causa della propria imperizia quale terrorista, era rimasto vittima della medesima. Una sorta di suicidio in differita.
Nessuno ha mai capito perché un uomo della sua fama, dotato di un reddito invidiabile, si sia arrampicato sul citato traliccio con l'intento di abbatterlo senza una ragione di qualche rilievo. Vero che a quei tempi c'erano in giro più comunisti che passanti, la moda rossa aveva conquistato milioni di persone che sognavano di istituire in Italia un regime di genere sovietico. Ma nessuno poteva immaginare che un imprenditore quale Feltrinelli potesse arruolarsi nelle file dei terroristi.
La morte di Giangiacomo suscitò uno scalpore senza precedenti. Molta gente all'epoca, data la moda comunista, apprezzò l'iniziativa del famoso personaggio. Il popolo in pratica alimentò la tesi che l'editore fosse stato assassinato. Da chi e perché? Nessuno lo spiegò per il semplice fatto che l'ipotesi dell'assassinio era una semplice fantasia. Feltrinelli, mai pensando di crepare in quel modo, non ha lasciato alcun documento, neppure una letterina, per illustrare le ragioni del suo gesto.
Semplicemente erano note le sue simpatie per il proletariato organizzato, e questo bastò per giustificare il suo gesto che definire folle significa usare un eufemismo. Mezzo secolo fa il comunismo era una sorta di religione che affascinava molti cittadini, compresi i campioni del capitalismo. Basti pensare alla signora Crespi, padrona del Corriere della Sera, la quale, avendo sposato le idee marxiste come una commessa qualsiasi, favorì l'uscita da via Solferino di Indro Montanelli. Una impresa storica oltre che idiota. Oggi chiunque si rende conto del dominio dei fessi sull'opinione pubblica, ma in quegli anni di ubriachezza generale abbiamo bevuto tutti il veleno e l'alcol moscovita.
Chi ha ammazzato Feltrinelli? La sua ossessione rivoluzionaria. Stenio Solinas il 15 Marzo 2022 su Il Giornale.
Aldo Grandi ricostruisce la fine dell'editore-attivista che nella lotta contro lo Stato borghese sacrificò ogni cosa.
Quattro flash. Nel primo Carlo Feltrinelli spiega a Curcio e a Franceschini, ovvero alle Brigate rosse, lo «zainetto del rivoluzionario». Va tenuto sempre pronto: «L'esperienza della guerriglia in America latina e gli insegnamenti di che Guevara lo indicano come indispensabile». Deve contenere documenti, soldi, vestiti di ricambio, il necessario insomma per la latitanza cittadina. E anche «un pacchetto di sale e dei sigari» conclude. Perplessi i due bierre chiedono chiarimenti su quest'ultimo punto. «Il sale in America latina è un bene prezioso» è la replica. Sì, ma loro sono a Milano è la controreplica, «e il sale si trova ovunque». È una tradizione, controbatte Feltrinelli, e le tradizioni, si sa, vanno rispettate E i sigari, allora, perché i sigari? «Perché Che Guevara diceva che il miglior amico del guerrigliero nelle ore di solitudine è il sigaro: anche questa è una tradizione e va rispettata». È il 1971, gli appuntamenti sono di regola fissati ai giardini di Piazza Castello, e da lì si va poi in uno dei tanti appartamenti più o meno segreti dell'editore, il cui nome di battaglia è «Fabrizio».
Il secondo flash è del maggio 1968, tre anni prima dunque. Feltrinelli è reduce da una marcia per il Vietnam a Berlino: ha sfilato con i manifestanti a fianco della sua compagna Sibilla Melega, è stato riconosciuto, è stato applaudito. Adesso vorrebbe dire la sua nella tumultuosa assemblea-corteo che alla facoltà di Architettura di Roma fa il punto sugli scontri del marzo precedente. Prende la parola, ma parte la contestazione. «A Feltrine', dacce li sordi» è il grido di battaglia che lo sommerge, frutto dello spontaneismo interessato dei militanti del periodico La Sinistra, a cui l'editore ha tagliato di colpo i finanziamenti.
Il terzo flash è del febbraio '70. Feltrinelli è espatriato due mesi prima, ma due mesi dopo la magistratura ha provveduto a revocare ogni provvedimento restrittivo nei suoi confronti. Può, insomma, andare e venire come vuole, non è un ricercato, non è considerato un pericolo, non lo si vede come un guerrigliero. Così però si vede lui, perennemente travestito, che sia in casa a Milano o nella baita in Carinzia, e autoconvinto di nascondersi nella boscaglia.
L'ultimo flash è del marzo 1972, quando il cadavere dilaniato di quello che adesso si fa chiamare «il compagno Osvaldo» viene ritrovato ai piedi di un traliccio a Segrate. È in un titolo, o forse in un articolo, di un giornale di estrema destra, icastico e senza pietà, e però veritiero: «Il più grande boom dell'editoria», c'è scritto.
Messi in fila e riuniti insieme, questi quattro segmenti rimangono come punti fermi e segni distintivi di una vita di cui Aldo Grandi da ora conto, a cinquant'anni di distanza, con certosina pazienza nel suo Gli ultimi giorni di Giangiacomo Feltrinelli (Chiarelettere, pagg. 234, euro 18). Raccontano un'illusione e un fraintendimento, uno scollamento dalla realtà e una sottovalutazione, l'ansia di voler essere preso sul serio, l'amara sensazione di restare sempre e comunque «una vacca da mungere», quello che ha i soldi, in parole povere, e che a dare i soldi dovrebbe limitarsi. La rivoluzione, quando e se ci sarà, non è compito suo, ma delle mille sigle politico-ideologiche che in quella fine anni Sessanta hanno preso a impazzare, dei mille leader che della rivoluzione hanno fatto una professione e insieme un gioco, rischioso magri, ma fino a un certo punto, contro lo Stato, ma nel confortevole clima intellettuale che quell'essere contro benedice e l'essere pro addita al pubblico ludibrio: repressione, strategia della tensione, golpe in agguato e istituzioni corrotte... Da un lato, in fondo, ci sono sempre e comunque dei «compagni che sbagliano», ma che, sempre e comunque, appunto, sono «compagni», dall'altro c'è il moloch dello Stato fascista, quello che non si cambia, quello che va abbattuto È, lo si capirà nel tempo, una gigantesca tragicommedia degli equivoci, ma è il tempo quello che a Feltrinelli manca: lui sogna prima un movimento separatista in Sicilia, poi la Sardegna come la Cuba del Mediterraneo, con annesso bombardamento di Porto Cervo, infine un esercito rivoluzionario che non esiste nella pratica, ma che nella teoria ha tutto dentro la sua testa e di cui, naturalmente, è il comandante in capo. Quando passerà all'azione diretta, lo farà in fondo per dimostrare che, sotto il profilo operativo, il comandante in capo dà l'esempio, è in prima linea, sceglie l'obiettivo da colpire, un obiettivo che nella sua immaginazione precipiterebbe l'Italia nel buio, così come nel 1965, a New York, l'improvviso black out della corrente aveva lasciato senza elettricità circa 30 milioni di americani del Nord-Est del Paese. Milano però non è New York e la manualità di Feltrinelli è talmente impacciata da avere difficoltà a piantare un chiodo nel muro per appendervi un quadro
Come e perché Feltrinelli fosse vittima, è il caso di dirlo, della sua ossessione rivoluzionaria, Grandi cerca di spiegarlo riandando alla sua infanzia solitaria e infelice, alle frustrazioni familiari, al cattivo rapporto con la madre e con il patrigno, Luigi Barzini, jr., al conflitto fra il suo essere un privilegiato, un miliardario e quindi un capitalista, e il suo voler essere dalla parte degli sfruttati, tutte cose pertinenti, ma è dallo stesso Feltrinelli, quello più intimo, quello più sofferto, che viene fuori come di quella ossessione egli fosse perfettamente consapevole, in grado cioè di esaminarla razionalmente, di comprenderne l'assurdità. È tutto messo nero su bianco nelle lettere inviate alla sua compagna Sibilla Melega nel settembre del 1968, lì dove ammette che il suo «misticismo della montagna» non era «che un tentativo di fuga», un tentativo «di risolvere in una certa maniera certe mie interne contraddizioni». «Le esaltazioni mistiche - aggiunge - fanno perdere il senso della realtà» e, aggiunge ancora, «forse, finalmente sto diventando un uomo che non sfugge da se stesso (). Per migliorare o modificare il mondo dobbiamo anzitutto trovare una serenità e tranquillità interna, una sicurezza che ci permette di meglio usare i mezzi e gli strumenti a nostra disposizione, a operare con più intelligenza ed efficacia, senza mai rinnegare la realtà, senza ricorrere a mitici olocausti o suicidi».
Ciò che allora razionalmente Feltrinelli è ancora in grado di analizzare, nel biennio successivo cede però il passo a una nuova forma di ossessione che sostituisce e in fondo sublima quella da lui così ben diagnosticata. È l'ossessione del golpe, la controrivoluzione in atto che minaccia ogni forma di speranza e quindi giustifica, in quanto autodifesa, «il misticismo della montagna». Grandi riporta in proposito le considerazioni del giudice Guido Viola, il magistrato incaricato di indagare sulla sua tragica fine. Secondo quest'ultimo, «l'idea di un colpo di Stato di destra non era peregrina o fantapolitica», né «priva di un certo contenuto di serietà e fondatezza». Lo stesso Grandi, a proposito del cosiddetto Golpe Borghese osserva che «si cercò di far passare il tutto come una commedia all'italiana, ma così non era stato. Si era trattato effettivamente di un piano eversivo». Sull'esistenza di quest'ultimo, non c'è da dubitare, il che però non dice nulla sulla sua reale efficacia. Fatto sta che «i centri del potere nella capitale» non vennero occupati, se non, di notte e per un paio d'ore, il ministero degli Interni, «l'appoggio di unità militari e soggetti più o meno disparati e disperati», ovvero guardie forestali e estremisti di destra, fa capire quanto velleitarismo ci fosse dietro.
Come che sia, quando Feltrinelli muore è, singolarmente, come nota ancora Grandi, «il momento in cui la lotta armata arriva al suo punto di non ritorno. In quello stesso mese di marzo le Bierre compiono il loro primo sequestro, il dirigente della Sit Siemens Idalgo Macchiarini, Milano viene messa a ferro e fuoco dagli scontri tra manifestanti e forze dell'ordine. Il tappo è saltato e l'insurrezione sembra imminente». L'ultimo oltraggio a quel corpo ritrovato mutilato e senza più vita ai piedi di un traliccio glielo daranno i compagni chic della Milano parolaia e firmaiola. «È stato assassinato» scriveranno, ammazzandolo così una seconda volta.
A 50 ANNI DALLA MORTE. La straordinaria avventura di Giangiacomo Feltrinelli. BRUNO CARTOSIO su Il Domani il 13 marzo 2022
Dall’immediato dopoguerra agli anni Sessanta, Giangiacomo Feltrinelli seppe circondarsi delle persone necessarie e giuste per quello che aveva in mente.
Un gruppo di giovani ha usato i libri come manifesto per una rivoluzione che era sia sociale sia culturale.
A distanza di mezzo secolo alcuni dei loro sogni si sono avverati, con una particolare vocazione europea.
Gli anniversari e l’età invitano a prendere le mosse dall’autobiografia. Per chi, come me, apriva gli occhi sul mondo negli anni Sessanta i libri e le riviste erano il pane quotidiano.
Gli editori di riferimento erano Einaudi, Feltrinelli e Laterza, e a Milano la libreria Feltrinelli era il luogo del pellegrinaggio a esplorare la foresta delle riviste. E poi, per chi era più avanti o aveva già finito gli studi, esisteva l’accesso al santuario laico dell’Istituto (aperto come “biblioteca” nel 1949).
Come se Giangiacomo Feltrinelli fosse venuto al mondo per noi e per metterci tutto a portata di mano. La libreria di via Manzoni, aperta nel 1857, era per tutti. L’Istituto, trasferito in via Romagnosi nel 1961, era per pochi adepti. E ancora meno erano quelli che giravano l’angolo con via Andegari e salivano alla casa editrice, nata nel 1954 in via Fatebenefratelli, e allora a pieno ritmo. Ma lì saliva solo chi aveva qualcosa da fare o da dire con i libri. Io quell’ascensore l’ho preso per la prima volta nel 1972.
DAL PASSATO AL FUTURO
Giangiacomo Feltrinelli non lo incontravi. Però sapevi che c’era, nume tutelare e benemerito di una eccezionale concentrazione di luoghi del sapere che prima di lui non esisteva: nell’Istituto la raccolta, archiviazione e conservazione di “tutto” ciò che era importante, nella casa editrice la scelta delle opere che valeva la pena di far conoscere, l’intero mondo dei libri in circolazione reso disponibile in libreria.
Qualche volta hai pensato che di tutto quanto lui era il solo padrone, e anche, però, che la Resistenza e la militanza comunista ne avevano fatto un “traditore della sua classe” e che era una fortuna che fosse tanto anomalo da usare i suoi soldi in quei modi.
Certo, volevi bene anche a Laterza e ancor più a Einaudi e, in nome dell’amore per i libri, avevi il dovuto rispetto per Bompiani e i Mondadori. Ma in nessun altro caso la “carta stampata” come veicolo di senso era così proiettata dal passato al futuro come lo era per lui.
LA CRESCITA
Riguardando le cose da lontano: dei primi 21 libri pubblicati nel 1955, solo due erano “italiani” (e qualificanti: Una spia del regime, a cura di Ernesto Rossi, e Fascismo e resistenza,); cinque anni dopo, i libri pubblicati erano 107 (inclusi Zivago e Gattopardo) e gli autori italiani erano poco meno della metà.
Credibilità e produzione erano cresciute in fretta, e avevano preso corpo rapidamente l’ampio ventaglio internazionale degli autori e il drenaggio della saggistica e narrativa che avrebbero caratterizzato “la Feltrinelli” d’allora in poi. Con ancora un handicap alla partenza che sarebbe stato cancellato nei decenni successivi: in quei primi cinque anni le autrici italiane pubblicate non arrivavano a 10.
IL PATRIMONIO
Ma allora non ci si faceva caso. Era molto più importante trovare tutte quelle finestre aperte. Libri e riviste suscitavano domande, in Istituto cercavi le risposte. La porta di via Romagnosi si aprì, per me, intorno alla metà degli anni Sessanta.
Il campo della mia ricerca accademica si stava aprendo sull’America. Erano tempi che chiamavano lettori e militanti a esplorazioni vaste: la storia e i teorici del movimento operaio internazionale, naturalmente, poi i movimenti in atto: la decolonizzazione, l’America latina (dopo Cuba), e l’America del nord.
All’americanista in formazione erano gli eventi sociali e politici negli Stati Uniti a porre le domande più stringenti sulle ragioni, i protagonisti e le radici dei movimenti. In Istituto non c’era tutto; per esempio, c’erano molti materiali ufficiali dell’American federation of labor, ma non quelli del C.I.O., né quelli dell’I.W.W.: la nuova storiografia della classe operaia sarebbe arrivata dopo gli anni Settanta.
Ma c’erano libri di storia, sociologia ed economia (tra questi i dieci volumi della Documentary History of American Industrial Society) e altrimenti introvabili collezioni di riviste delle sinistre statunitensi, vecchie (come la International Socialist Review e la New Review, o New Masses) e nuove (come la Nation, Partisan Review, Monthly Review, New Republic..).
A sorpresa, accanto alle collezioni “scomplete” delle riviste della New Left (Guardian, Liberation…), c’erano persino numeri unici o sparsi di giornali della cultura hippie e underground del momento (e su molte delle fascette dell’invio per posta risultavano indirizzate a Giuseppe Del Bo, cosa che testimoniava della sua curiosità…), le cui fantasiose copertine sono state poi esposte in Fondazione nel 2010, 2013 e 2018.
UN GRUPPO
Nello stupore per la ricchezza di materiali di un Istituto nato dal nulla pochi anni prima, mi facevo domande sui modi, i luoghi e i costi delle acquisizioni. La soggezione mi ha sempre impedito di fare domande al professor Del Bo, il direttore. Alla fine, è stato Carlo Feltrinelli a fornire le risposte in Senior Service. Tra l’altro, dando un’idea sia dell’impegno finanziario per il padre, sia rendendo evidente la passione che metteva di persona nella ricerca e nei contatti con i librai antiquari in giro per l’Europa.
Anni pieni, inutile dirlo. La sera in cui nella libreria di via Manzoni tre professori presentavano Sempre più nero di LeRoi Jones, nel maggio 1968, le loro voci furono coperte da quelle di un corteo operaio, le tute bianche della Pirelli in testa, che andava alla Triennale in solidarietà con gli artisti che la occupavano. Anni ricchi, in cui letteratura e storia, arte e politica si intrecciavano con lo studio e la militanza nei percorsi della crescita personale. Per questo erano preziosi gli archivi per la ricerca e l’intelligenza per le scelte di che cosa pubblicare. Nessuna di queste “cose” poteva farle una persona da sola.
Dall’immediato dopoguerra agli anni Sessanta, Giangiacomo Feltrinelli seppe circondarsi delle persone necessarie e giuste per quello che aveva in mente. La Biblioteca crebbe e divenne Istituto nel 1960 e sarebbe diventata Fondazione nel 1974. L’iniziativa di quell’ultimo passo era stata sua, ma a quel punto lui non c’era più. Spettò ai suoi collaboratori e amici più stretti, Giampiero Brega in casa editrice e Giuseppe del Bo in Istituto (e certo, ad altri dopo di loro), continuarne l’opera.
GIOVANI INNOVATORI
Due cose, in conclusione. Per quanto riguarda la Biblioteca-Istituto-Fondazione e le finalità dichiarate nel 1949, non solo l’ambizione di farne un luogo esemplare in Europa non è stata mai ridimensionata da lui e dai suoi continuatori; l’obiettivo è stato raggiunto.
Ma forse, più ancora della crescita, è la nascita a essere stupefacente: nel 1948, Giangiacomo Feltrinelli aveva 22 anni (era del 1926), e Giuseppe Del Bo, che lo affiancò fin dall’ideazione del progetto, era nato nel 1919 e di anni ne aveva 29.
BRUNO CARTOSIO. Bruno Cartosio (1943) insegna Storia dell’America del nord all’Università di Bergamo. Si occupa da anni di storia sociale e culturale degli Stati Uniti.
Dagospia il 13 marzo 2022. Nel 1959, durante il suo primo viaggio negli Stati Uniti, Giangiacomo Feltrinelli è intervistato per Wriet Radio da Barney Rosset, fondatore di Grove Press, editore anche di Samuel Beckett e Jack Kerouac. L'intervista inedita capitolo del libro che pubblichiamo in anteprima.
Un capitolo di “Senior Service”, di Carlo Feltrinelli (ed. Feltrinelli), pubblicato da “La Stampa”.
Barney Rosset: Signor Feltrinelli, potrebbe dirmi potrebbe dire a uno come me, che da non troppo tempo si occupa di editoria, quando ha cominciato a pubblicare dei libri e che tipo di libri ha pubblicato in Italia?
Giangiacomo Feltrinelli: Abbiamo iniziato a pubblicare nel 1955 e, tranne qualche eccezione, quei primi libri erano piuttosto brutti.
BR: Perché è venuto in America in questo momento?
GF: Sono venuto in America perché oggi pubblichiamo libri decisamente migliori, e vorremmo pubblicarne ancora di migliori. Ho pensato che avere contatti diretti e personali con editori americani poteva essere un passo importante per sviluppare la nostra attività, per aggiungere nuovi autori al nostro Catalogo e per farci un'idea più precisa della produzione letteraria americana.
BR: Ci sono degli scrittori di cui ha sentito parlare che le hanno fatto una buona impressione e le sono rimasti impressi nella mente? Ci sono tre o quattro scrittori che avrebbero buone probabilità di essere pubblicati da lei in Italia?
GF: Non ne ho trovati molti. È un periodo di transizione. C'è qualche nuovo venuto che probabilmente diventerà un grande scrittore tra qualche anno: James Purdy, Jack Kerouac, anche se non è più tanto giovane. Speriamo di avere nel nostro catalogo molti di questi libri.
BR: Lei ha pronunciato la parola Beatnik. Io sono allergico a questa parola. Cosa intende quando la dice?
GF: Una nuova generazione di autori tosti e di scrittori che raccontano i fatti della vita come la vedono, aspramente, usando un linguaggio crudo.
BR: Lei crede che questo sia un bene o un male? Pensa che sia questo il modo di scrivere che piacerebbe a lei e ad altri lettori in Italia?
GF: Io penso che questo modo di scrivere abbia molte frecce al suo arco. Scarta ogni ciarlataneria, qualunque cosa tracci un quadro roseo e mistificatore della vita. In ogni paese ci sono dei problemi, e ci sono il bene e il male, e l'unico modo di affrontarli è scriverne o parlarne in termini diretti.
BR: È piuttosto insolito che una figura come la sua sia arrivata a occupare il centro della scena negli ultimi anni. Non capita spesso che un editore attiri tutta l'attenzione che ha attirato lei, signor Feltrinelli. Questa attenzione si è incentrata soprattutto sulla pubblicazione del libro di Boris Pasternak, Il dottor Zivago. Potrebbe dirci come è riuscito a pubblicarlo?
GF: Il romanzo mi è arrivato nel più semplice dei modi. A Mosca avevo un amico che cercava talenti per me, e mi diceva cosa c'era di nuovo.
BR: Mi scusi, ma trovo che questo sia un punto molto interessante. Come si fa ad avere un amico che sta a Mosca e cerca talenti per te? È una faccenda che mi ingelosisce, e mi domando come sia possibile.
GF: A Mosca ci sono molti giovani italiani che per due o tre anni studiano all'università. Uno di loro, prima di partire, mi ha chiesto se mi interessava ricevere regolari notizie sulla nuova letteratura russa o sulla saggistica. Ho detto di sì, naturalmente. Quando questo amico era là, nel 1956, sentì parlare di un libro di Pasternak di prossima pubblicazione. Gli dissi: «Okay, va' avanti».
Lui contattò l'autore. Prese gli accordi necessari per la pubblicazione del libro in Italia. Il libro doveva ancora uscire nell'Unione Sovietica. Non c'erano problemi di permessi. Questo amico mi portò il manoscritto originale. Io ritirai il manoscritto a Berlino. Era battuto a macchina con le correzioni e le cancellature originali.
BR: Durante quel periodo lei seppe qualcosa da Pasternak in persona?
GF: Ricevetti molte lettere da Pasternak, che sembrava interessato a pubblicare il libro in Italia.
BR: Qui, in questo paese, leggiamo che a un certo punto ci fu un cambiamento: qualcuno cambiò idea, lui o altre persone nell'Unione Sovietica.
GF: Nell'autunno del '56, dopo l'annuncio della pubblicazione del libro, a Mosca ci fu un cambiamento. Dapprima mi chiesero di ritardare la pubblicazione fino all'ottobre del 1957, richiesta che accolsi perché la traduzione non era pronta.
Dopodiché l'idea di pubblicarlo (in Russia) fu scartata definitivamente. Vennero a trovarmi molti rappresentanti di scrittori sovietici, soprattutto Aleksej Surkov, che era il presidente dell'Unione degli scrittori sovietici. Parlammo del libro, e lui era molto critico. Cercò di dissuadermi dal pubblicarlo.
BR: Cosa pensò di questi tentativi di dissuaderla?
GF: Si sentiva che i giudizi politici di Surkov erano influenzati da una curiosa ristrettezza di vedute, direi. Non aveva niente a che fare con un giudizio obiettivo del libro, che io non considero un romanzo antisovietico o anticomunista. È un romanzo sui tempi difficili che attraversa un paese. Parla di esseri umani e della loro lotta per la vita. Contiene molte lezioni fondamentali che si applicano a ogni essere umano in una società moderna.
BR: L'avrebbe pensata diversamente se fosse stato un romanzo antisovietico?
GF: Il problema per me è la qualità. Non credo che l'arte letteraria possa essere giudicata strettamente in base a problemi e schemi politici.
BR: Sono pienamente d'accordo con lei. Ma quando Surkov pensò che il libro non si doveva pubblicare a causa di quella che per lui era la sua natura antisovietica, questo le fece cambiare certe opinioni sulla stessa Unione Sovietica?
GF: Ero sorpreso che un paese, quarant' anni dopo una rivoluzione riuscita, con i sovietici ancora al potere, che i sovietici si preoccupassero ancora tanto di un romanzo. Lo trovavo assolutamente ridicolo. Le esperienze dei suoi personaggi sono praticamente uguali sotto ogni governo di ogni paese.
BR: Personalmente, come editore, ho sempre avuto un grande interesse per la censura. La censura è sempre stata un problema importante negli Stati Uniti. La libertà di stampa. Noi pensiamo che lei abbia fatto delle esperienze di prima mano in questo campo da quando ha pubblicato Il dottor Zivago.
Lei crede che dovrebbe esistere una censura o da parte della Chiesa o dello Stato per ragioni morali, politiche o di oscenità? In altri termini, crede che in una società libera debba esistere la censura?
GF: Io credo che in una società libera non possa esistere la censura.
Giangiacomo Feltrinelli. «Vi racconto chi è stato mio padre. Giangiacomo Feltrinelli» Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera l'8 Marzo 2022.
Carlo, figlio dell’editore trovato morto 50 anni fa: «Io e mia madre dovevamo vederlo a Lugano il giorno dopo, lasciò detto a un compagno che lo faceva per me»
Giangiacomo Feltrinelli a una manifestazione
Carlo Feltrinelli, qual è il primo ricordo di suo padre?
«Metà Anni Sessanta, il mare della Corsica in tempesta, le onde alte come nei cartoni animati. Ma io non avevo paura, perché al timone dell’Eskimosa c’era mio padre Giangiacomo. Il capitano dava sicurezza».
Perché Eskimosa?
«In onore di mia madre Inge, che secondo papà aveva gli zigomi da eschimese».
Sono bei ricordi?
«Molti sono legati alle vacanze, all’Argentario o in Austria. I Natali in cui andavamo nella neve a dar da mangiare ai cervi: rape, barbabietole, fieno, sale… E poi gli ultimi anni, quando lo vedevo di nascosto».
Tutta la storia della famiglia Feltrinelli ha qualcosa di grandioso e di tragico. Suo nonno Carlo aveva tre fratelli, e tutti ebbero una sorte drammatica.
«Giuseppe era un cacciatore. Si affezionò a un cucciolo di orso, che allevò come fosse un cane. Ma era un orso e quando un giorno gli saltò al collo per giocare lo azzannò. La ferita non guarì. Per lenire il dolore divenne morfinomane e morì a 35 anni. Un altro zio di mio padre, Pietro, si suicidò a 28 anni per amore di una ballerina romena. L’altro prozio, Antonio, fu investito nel 1942 da un camion militare. Lo curarono con impacchi di pepe: morì di setticemia in pochi giorni. Quando lo deposero nella bara il corpo si aprì in due, pieno di vermi».
Restava nonno Carlo. Legname, edilizia. Presidente della Edison e del Credito Italiano. Il suo amministratore delegato in una battuta di caccia sparò a sua moglie.
«Sì, mia nonna Giannalisa si prese una fucilata in volto. Perse un occhio; ricordo per casa le boccettine con l’occhio di vetro. Era eccentrica, bellissima, gelida. Mi raccontò che era stata vittima di un disgraziato irresponsabile; ma non si esclude la gelosia d’amore».
Carlo Feltrinelli cadde in disgrazia durante il fascismo e morì. Si parlò di ictus, ma anche di suicidio.
«Non si è mai saputo bene. Un testimone, Giacinto Motta, scrisse di un “gesto pazzesco”. Io credo all’emorragia cerebrale. Fatto sta che muore all’improvviso, a 54 anni. Giangiacomo ne aveva otto».
Nonna Giannalisa si risposò con Luigi Barzini junior.
«Il giornalista più famoso d’Italia si univa alla vedova più ricca. Alle nozze Giangiacomo e sua sorella Antonella furono costretti a tirare, anziché il riso, monete d’argento. Lui e il patrigno si detestarono fin dall’inizio. Papà veniva chiuso in cantina a pane e acqua per giorni, e divenne claustrofobico. Ricordava Barzini con certi accappatoi da gangster e pantofole di velluto. Più tardi avrebbe contribuito a dare un’immagine folkloristica di mio padre e del suo impegno culturale e politico».
Barzini e nonna Giannalisa finirono al confino.
«Lui si era fatto prendere da frenesie spionistiche. Fece intendere agli inglesi che i servizi italiani leggevano le loro comunicazioni. Quelli verificarono subito, inviando all’ambasciata un messaggio con le parole di Barzini, citandolo. Il regime lo punì. Ma fu un confino dorato: ad Amalfi, all’hotel dei Cappuccini».
Giannalisa comprò dal Duce un titolo nobiliare per suo padre.
«Marchese di Gargnano. Chissà se è trasmissibile…» (Carlo Feltrinelli sorride).
L’8 settembre li colse nella villa dell’Argentario.
«Papà si diede al bosco: scappò armato di pistola con il futuro macellaio del paese. Voleva battersi, e ne ebbe occasione: si arruolò nel Corpo di combattimento Legnano, che risaliva la penisola con la Quinta Armata americana».
Le parlò della guerra?
«Un colpo di mortaio lo mancò di pochissimo. Lui tentò di recuperare il bossolo; e mentre lo raccontava faceva proprio il gesto di scavare con le mani».
Poi Giangiacomo entrò nel Pci.
«Sua madre, legatissima a Umberto II, l’aveva portato in Portogallo dal re, ma lui fuggì per tornare in Italia. Fuggì anche nonna Giannalisa, prima in Brasile poi in Canada, dove comprò un passaporto per diventare canadese e poter diseredare i figli degeneri. Antonella le fece causa, mio padre lasciò perdere».
E finì in galera per la prima volta.
«Nel 1948, dopo l’attentato a Togliatti: si fece cinque giorni a San Vittore, per affissione di manifesti non autorizzati. La sua prima moglie, Bianca, gli portava in carcere il cestino del mangiare».
La vostra casa, la leggendaria Villa Feltrinelli sul lago di Garda, era stata requisita per alloggiare il Duce.
«Ricordo i bunker scavati nella roccia, con i telefoni funzionanti. Nel 1949 mio padre organizzò nel parco un campeggio per quindici giovani comunisti. Qualcuno venne reclutato nella “banda Ciappina”, detta anche “banda ovunque”, che con le armi della Resistenza faceva le rapine. Papà non c’entrava nulla, ma fu arrestato di nuovo».
Togliatti gli propose di creare una biblioteca che raccontasse le lotte degli operai di tutto il mondo.
«Gli disse che l’idea veniva da un prete. La Fondazione Feltrinelli nacque così».
E suo padre scoprì Il Dottor Zivago.
«Seppe che Boris Pasternak stava per finire un romanzo straordinario, e gli scrisse in francese per offrirsi di pubblicarlo. Pasternak rispose con un bigliettino scritto su una carta di sigaretta, che conservo tutt’ora. Dice: d’ora in avanti ci scriveremo solo in francese; se lei riceverà una mia lettera in un’altra lingua, sappia che non sono io. Per maggior sicurezza, mio padre inventò il sistema della banconota tagliata».
Come funzionava?
«Nelle lettere per Pasternak infilava metà banconota, e l’emissario che gliele portava aveva con sé l’altra metà, per dimostrare che erano parole autentiche. Furono accorgimenti utili».
Perché?
«Krusciov bloccò il libro. Pietro Secchia, che pure era amico di mio padre, gli chiese di non pubblicarlo. Lui disobbedì. Pasternak gli scrisse prima in italiano, poi in russo, intimandogli di rinunciare; ma subito dopo arrivavano lettere in francese, in cui diceva di andare avanti. Legga qui: “Non trovo parole sufficienti per esprimervi la mia riconoscenza. L’avvenire ci ricompenserà”. Pasternak vinse il Nobel e Zivago vendette milioni di copie in tutto il mondo».
Poi arrivò Il Gattopardo.
«Rifiutato da tutti gli editori. Fu Elena Croce, la figlia di don Benedetto, a segnalarlo a Bassani, dicendo che era opera di “una signorina aristocratica siciliana…”».
Equivoco o scherzo?
«Non si è mai saputo. Doveva uscire all’inizio del ’59, ma una copia destinata a Del Bo, collaboratore di mio padre, fu mandata per sbaglio a Carlo Bo, che sulla Stampa scrisse una recensione entusiasta. Così Il Gattopardo fu anticipato al Natale 1958. Si era creato un gruppo formidabile: Mario Spagnol, Giampiero Brega, Valerio Riva, Luciano Bianciardi…».
Bianciardi definì Giangiacomo «ignorante come un tacco di frate».
«Una volta gli chiesi: tu quanti libri hai letto? Tanti, non tantissimi, rispose».
Nel 1958 incontrò sua madre Inge, ad Amburgo.
«Lei era appena tornata dal Ghana, aveva già fotografato Hemingway e Picasso. Giangiacomo era diretto al Polo Nord, con la tenda e lo zaino, dove c’erano le bozze del Gattopardo. Si videro a una festa dell’editore Rowohlt. Parlarono tutta la notte su una panchina di fronte all’Alster. Se è per questo, papà aveva passato un’intera notte con un compagno ad ascoltare musica popolare jugoslava…».
Lei Carlo nasce il 6 febbraio 1962.
«A San Marino, perché era l’unico posto dove fosse possibile riconoscere il figlio di una coppia illegittima. Anche se in realtà mio padre ha sempre sposato le donne che amava: Bianca, Nanni, Inge, Sibilla. Con mamma si sposarono in una catapecchia in Messico. Per la mia nascita telegrafarono Gianni Agnelli e Pietro Secchia. Secchia poi venne a casa di persona, per chiedere come mai di secondo nome mi avessero chiamato Fitzgerald».
Già: perché? Come Scott Fitzgerald o come John Fitzgerald Kennedy?
«Né l’uno né l’altro. Inge diceva che Fitzgerald in irlandese significa “figlio di nessuno”; come Esposito in napoletano. Ma perché abbia scelto quel secondo nome proprio non lo so».
Alcuni descrivono suo padre come brusco, altri come cortesissimo. Com’era nella realtà?
«Diffidente, con un grande senso dell’umorismo. Trattava tutti alla pari, tutti allo stesso modo: molti gli hanno voluto bene per questo, è una delle cose che mi ha insegnato. Poteva essere scostante, arcigno. Mia madre diceva che era malinconico».
E con lei?
«Protettivo. Pieno di affetto. Mi dava grande sicurezza. Anche quando era lontano. Per il nono compleanno mi mandò una conchiglia e questa lettera: “Il regalo più bello che posso farti è lottare per un mondo migliore, per un mondo più giusto”. Mi colpisce sempre quando ci ripenso. Spesso giocavamo a scacchi».
Chi vinceva?
«Ovviamente lui. Era un modo di insegnarmi a ragionare, a confrontarmi. Seguivamo le sfide tra Fischer e Spasskij. Qualcuno mi ha detto che come scacchisti eravamo simili: forti in attacco, meno in difesa».
A suo padre accadeva di incontrare Enrico Cuccia e Fidel Castro.
«Con Cuccia andò malissimo. Lo presentò a un funzionario: “Questo è il famoso signor Feltrinelli, con l’hobby dell’editoria…”. Feltrinelli si alzò e se ne andò, senza salutare».
E con Castro?
«Fidel si aspettava un capitalista con le ghette. Cominciò a parlargli di affari: Cuba poteva esportare zucchero e bestiame in cambio di prodotti chimici… Mio padre gli ricordò che era lì per un libro. Poi annotò: Castro non è comunista né marxista, è un idealista».
Ma anche un oppressore.
«La Cuba dei primi anni 60 era la capitale del mondo inquieto. Non solo la centrale delle lotte anticolonialiste; il rifugio di scrittori e artisti. Mio padre vi incontrò Calvino, tornato per la prima volta sull’isola dov’era nato. E comunque il libro non si fece».
Perché?
«Castro pensava a memorie militari noiosissime, come quelle che poi ha pubblicato: “Un giorno sulla Sierra Maestra…”. Giangiacomo voleva un libro di attualità e di prospettiva».
Dopo piazza Fontana entrò in clandestinità.
«La parola non mi piace. Dovette rendersi irreperibile: ci bruciavano le librerie, la polizia perquisiva la sede di via Andegari… C’è un libro di Paolo Morando, “Prima di Piazza Fontana”, che racconta bene la fase preparatoria, il tentativo di incolpare gli anarchici. Mio padre era uno dei bersagli».
Anche i Gap, l’organizzazione fondata da lui, fece attentati: ai cantieri, alla Ignis…
«Erano gesti simbolici, dimostrativi. Come le interferenze radio con cui nel 1969 papà interruppe Tito Stagno, che raccontava l’allunaggio, per chiamare i genovesi alla rivolta contro il comizio di Almirante. Piazza Fontana fu una strage fascista di Stato. Aprì una strategia che mio padre aveva intuito».
Il golpe di destra non ci fu.
«Certo. Ma ci furono i tentativi di Borghese, della Rosa dei Venti e, sia pure in un contesto del tutto diverso, di Edgardo Sogno. Molti fatti hanno confermato l’analisi di mio padre. Compreso il coinvolgimento delle basi Nato da cui venne l’esplosivo per piazza della Loggia».
Sua madre però tentò di fermarlo.
«Certo. Giangiacomo commise un grave errore. Ma è il momento di andare oltre la visione caricaturale del miliardario sovversivo. È tempo di storicizzare quella stagione. Di riconoscere la densità umana e intellettuale di una persona che ha avuto diverse vite. È stato uno degli editori più importanti, non solo in Italia. Ha creato istituzioni che restano, a testimonianza di una vita libera, piena di intrapresa e di spirito rivoluzionario».
Non ci fu neppure la rivoluzione.
«Era un anacronismo storico, in quel momento, nel nostro Paese. Ma non per questo si può parlare di parodia della rivoluzione. Non riconosco né le narrazioni orrorifiche, né quelle idilliache. Le rivoluzioni hanno momenti imprevedibili».
«Un rivoluzionario è caduto» titolò Potere operaio dopo la sua morte. Inge Feltrinelli era convinta che fosse stato ucciso.
«Lo so. Ma mia madre non poteva esserne sicura al cento per cento. Io credo alla versione ufficiale, all’incidente. Ma neppure io posso esserne sicuro al cento per cento».
Lei ha parlato con «Gallo», il compagno che era con suo padre sotto il traliccio di Segrate.
«Ci fu l’esplosione. Gallo fuggì a piedi con un altro compagno, morto giovane. Non avrebbero potuto salvarlo. Doveva essere un atto dimostrativo. Non sapremo mai con esattezza se il timer fosse stato manomesso. Per il magistrato che chiuse l’inchiesta, la morte di Feltrinelli restava un mistero. Di sicuro mio padre era sfuggito a diversi tentativi di sequestro. Aveva nemici da cui dovette guardarsi».
Ebbe un ruolo nella vendetta per la morte di Che Guevara.
«Questa è un’altra storia. Diede a Monika Ertl, credo in Francia, la pistola con cui lei sparò al colonnello Quintanilla, l’uomo che aveva mozzato le mani al Che per certificarne la morte. E che aveva torturato Inti Peredo, il fidanzato di Monika. Che peraltro era figlia di un nazista…».
Quali sono i suoi ultimi ricordi di suo padre?
«Capodanno 1971, una battaglia a palle di neve: c’era anche un giovane militante di Potere Operaio, Valerio Morucci; papà costruì un igloo vero. E Capodanno 1972: fuochi d’artificio sulla neve, un minirazzo sparato con il paracadute. In Italia lo vidi una volta sola».
Dove?
«Nella nostra casa in Piemonte, a Villadeati. Era il maggio del 1971. Mamma l’aveva invitato per farlo desistere dalla sua lotta. C’erano anche Régis Debray e Moravia, che però non aveva capito, continuava a parlare di sesso, di incesto… Era già un po’ sordo, si informava se Debray fosse pederasta a voce troppo alta. Io non dovevo sapere nulla; mi alzai nella notte sentendo il trambusto. Papà mi abbracciò».
Nome di battaglia Osvaldo, documenti intestati a tale Vincenzo Maggioni.
«Il commissario Calabresi intuì che il cadavere sotto il traliccio era lui. Venne in via Andegari a prendere Giovanni, il portiere, e lo portò all’obitorio. Giovanni lo riconobbe, ma tacque».
Come seppe della sua morte?
«Me lo disse mia madre. La mattina del 15 marzo 1972 dovevamo vederlo in un caffè di Lugano; ma lui era morto la sera prima. Nel portafoglio aveva la mia foto. “Lo faccio per mio figlio” aveva lasciato detto a un compagno».
Come ricorda i funerali?
«Partecipai alla cerimonia privata, tra i grandi editori venne solo Giulio Einaudi. Mi fu risparmiata quella pubblica, dove c’erano cinquemila persone e cinquemila celerini. I librai Feltrinelli portarono la bara. Il Monumentale di Milano, con cappella di famiglia babilonese, non è il posto che avrei voluto per Giangiacomo. Mia nonna commentò, atroce: “Ho finito di soffrire”. In realtà tutti, mia madre Inge per prima, sentivamo che dovevamo andare avanti. E l’abbiamo fatto, anche per lui».
Roberto Calasso. "Viaggi, libri e misteri. Ecco cosa è stato per me Roberto Calasso, avventuriero metafisico". Tedesca, scrittrice e traduttrice, Anna Katharina Fröhlich vive dagli anni Ottanta sul lago di Garda. Si conobbero alla Fiera di Francoforte nel '95. Luigi Mascheroni il 30 Luglio 2022 su Il Giornale.
Elegante, cinquant'anni ma lasciandosene dietro quindici che non si vedono, una vitalità luminosa, scrittrice e traduttrice, Anna Katharina Fröhlich è tedesca, nata a Bad Hersfeld, land dell'Assia, ma vive stabilmente in Italia dalla metà degli anni Ottanta. «Mio padre, Hans Jürgen Fröhlich era pianista, critico letterario e promotore in Germania di molti scrittori italiani del '900. Passò un anno a Villa Massimo a Roma, poi, innamorato dell'Italia, comprò assieme a mia madre nel 1970 una casa sul lago di Garda, a Mornaga, a mezza strada fra Villa Feltrinelli a Gargnano e il Vittoriale degli italiani a Gardone. Io nacqui nel '71. È lì che vivo, ed è lì che siamo stati a lungo insieme, io e lui».
Lui è Roberto Calasso, e da lui Anna Katharina Fröhlich ha avuto due figli, Josephine e Tancredi, 23 anni la prima, 14 il secondo. A loro Roberto Calasso per il quale, come è noto, non era indifferente chi fosse il proprietario della casa editrice morendo, un anno fa, ha lasciato la maggioranza relativa di Adelphi: il 48 per cento. Di per sé un'investitura. Il resto delle sue quote è andato al nipote Roberto Colajanni, attualmente l'amministratore delegato della casa editrice (ha il 10%) e alla moglie Fleur Jaeggy (il 13%): e fa il 71%. Il resto è diviso tra la famiglia Zevi e l'imprenditore Francesco Pellizzi. E la domanda è: Ora, cosa sarà di Adelphi?.
«Adelphi è una parola greca che racchiude l'idea di fratellanza, sodalizio. Esprimeva, allora, la comunanza d'intenti tra i soci fondatori. E tanto più vale oggi tra gli attuali soci. Significa che nessuno può fare da solo. Roberto Calasso con quel testamento, non lasciando a un'unica persona il potere decisionale assoluto, è come se ci avesse detto: Dovete aiutarvi, collaborare, decidere assieme. Nessun azionista può fare da solo. La regola è il confronto, che è un altro modo di dire fratellanza».
E i due fratelli, Josephine e Tancredi? Cosa fanno? Che ragazzi sono?
«Tancredi studia, Liceo classico a Salò. Di fatto è molto simile a Roberto Calasso... con più capelli in testa. Sento in lui lo stesso fervore di pensiero del padre, gli stessi silenzi eloquenti, lo stesso sguardo analitico di chi vuole sempre capire. Josephine, che ha vissuto negli ultimi anni con Roberto e con Fleur Jaeggy, sta per finire uno stage di sei mesi in Adelphi. Le piacerebbe seguire le orme del padre. Credo che entrambi sentano il compito che Calasso ha affidato loro: occuparsi di Adelphi. Roberto non faceva mai nulla a caso. Era così».
Com'era Roberto Calasso?
«Nato un 30 maggio, Gemelli. Era come se avesse due nature: una più evidente, che mostrava al mondo. L'altra più nascosta, che riservava a pochi. È stato l'uomo più intellettualmente seducente che abbia mai conosciuto: è stato un avventuriero metafisico. Si ricorda che Roberto diceva di Bobi Bazlen che era l'uomo più religioso che avesse mai conosciuto? Ecco: io posso dire la stessa cosa di Calasso».
Lei quando Calasso è morto ha scritto un obituary affascinante e misterioso.
«Il logos trafigge in un atomo del tempo ciò che i rapsodi erano avvezzi a ricucire e a ripetere per fumose notti senza fine. Mi sono affidata all'antica pratica delle sortes vergilianae. Ho aperto a caso un suo libro e la prima frase su cui è caduto il mio occhio mi è sembrata perfetta. Dice tante cose di noi».
Voi come vi siete conosciuti?
«Alla Frankfurter Buchmesse, la Fiera del libro di Francoforte. Era il 1995. Io ci andavo sin dall'infanzia, con mia madre. Per noi era un appuntamento fisso: mamma aveva tradotto Seminario della gioventù di Aldo Busi in tedesco, e il suo secondo marito, Günther Maschkle, anch'egli editore, è stato uno dei massimi studiosi di Carl Schmitt; il suo terzo marito è stato Thomas Ross, appartenente alla famiglia Ullstein, fondatrice di una delle più importanti case editrici europee della prima metà del '900, e corrispondente della Frankfurter Allgemeine Zeitung. Mentre mio padre, come le ho detto, è stato uno scrittore e traduttore, appassionato di letteratura austro-ungarica - Joseph Roth era il suo autore dell'anima e aveva frequentato Elias Canetti. Se vogliamo trovare un bandolo, parola che a Roberto piaceva molto, tra la nostra famiglia e Adelphi... beh, sono molti...».
Cosa accadde a Francoforte?
«Eravamo vicino allo stand di Adelphi. Roberto Calasso ci venne incontro: guardò mia madre, poi il suo sguardo rimase fermo su di me. Avevo 23 anni. Ogni anno, alla Fiera del Libro, il venerdì Calasso andava a cena al Restaurant Français con Vladimir Dimitrijevic, il fondatore delle Éditions L'Âge d'Homme. Invece quella sera invitò me. Dissi di sì».
Di cosa parlaste?
«Di libri, ovviamente. Parlare di libri è stata la prima cosa che abbiamo fatto, e anche l'ultima. In quel momento aveva appena finito di scrivere Ka. E incredibilmente mi chiese di tradurlo in tedesco... Ricordo che mi disse una cosa strana. Che le persone intelligenti non dovrebbero frequentare l'università, perché un'arida impronta accademica può essere pericolosa per le menti più aperte... Poi, per prepararmi alla traduzione del suo libro, che è una narrazione intrecciata dei miti, della storia e del pensiero indiano, mi fece spedire un enorme pacco di libri dall'India: era l'opera omnia del filologo e orientalista Max Müller. Il profumo di curry e di polvere che si sentì quando lo aprii, è un ancora oggi un ricordo fortissimo».
Quali sono i ricordi più belli che ha di Calasso?
«I viaggi in Grecia, per esempio le due estati che passammo nella casa che Patrick Leigh Fermor costruì con le sue mani negli anni Cinquanta, a Kardamili, dove poi furono sparse le ceneri di Bruce Chatwin. Sono ricordi inverosimili nella casa più bella della Grecia. Al sabato la casa era aperta ai visitatori. Roberto, i bambini e io restavamo lì, chi a lavorare chi a giocare, come se avessimo fatto parte dell'arredamento... E poi ricordo i viaggi: Parigi, Praga, Londra, e soprattutto India».
Ha mai pensato di scrivere un libro su di lui, su di voi?
«Sì. È possibile che lo scriva».
Lei ha pubblicato quattro romanzi in Germania. Mai in Italia, però. Calasso Le ha mai chiesto di pubblicare in Adelphi?
«Non è importante questa domanda. Ancora meno la risposta».
Si favoleggia della biblioteca personale di Calasso. Dov'è?
«Sono circa 60mila libri, di cui un nucleo più prezioso, diciamo storico, di un migliaio di volumi. Attualmente sono sparsi in tre luoghi: la sua casa a Milano, dove viveva con Fleur; un altro appartamento milanese adibito a biblioteca; e il suo studio in casa editrice. Gli eredi sono i nostri due figli e Roberto Colajanni, ma Calasso non voleva che la biblioteca venisse mai smembrata. Per ora, restano dove sono».
Ho saputo che, per un inventario redatto ai fini della successione, la biblioteca è stata valutata circa 1,2 milioni di euro.
«Non credo che a Roberto la cosa interessasse».
A Calasso interessava molto la casa editrice. Cosa succederà adesso alla Adelphi?
«Continuerà ad essere quella che è sempre stata. Forte del suo catalogo straordinario e pronta a pensare nuovi titoli che siano perfettamente coerenti con la sua storia. Proprio per questo sarebbe necessaria la collaborazione tra tutti coloro che hanno a cuore la casa editrice. Come lo erano Matteo Codignola, che era un pilastro di Adelphi, e come lo è Ena Marchi. Ora serve rafforzare un gruppo eccellente di persone che leggano per la casa editrice, che sappiano consigliare, trovare nuovi autori».
E crede che in questo gruppo ci sia spazio anche per i vostri figli?
«Certo. Loro ora non sono editori. Ma devono imparare a diventarlo».
Chi era Roberto Calasso? Lo può definire?
«No. A lui non sarebbe piaciuto essere definito».
Mario Baudino per la Stampa il 2 agosto 2022.
«Eine neue Inge?», titola “Die Zeit”, il colosso dei settimanali tedeschi diretto da Giovanni di Lorenzo, che come dice il nome è di origine italiana e forse per questo più attento di altri a quanto accade nel nostro Paese. Anche, e soprattutto, nella cultura.
Di conseguenza – non sembra necessario tradurre il titolo, di per sé esplicito e comprensibilissimo - non si è lasciato sfuggire una vicenda che fino ad oggi almeno è rimasta un po’ sotto traccia da noi, nonostante due interviste rilasciate da Anna Katharina Fröhlich, la scrittrice e traduttrice madre dei due figli di Roberto Calasso, erede con loro del 48 per cento dell’Adelphi.
Dunque, azionista di maggioranza, considerato che l’eredità del grande editore è stata attentamente distribuita fra il nipote Roberto Colajanni (con il 10 per cento è ora amministratore delegato e direttore editoriale), e la moglie Fleur Jaeggy (13 per cento, mentre altre quote sono controllate dalla famiglia Zevi e dall’imprenditore Francesco Pelizzi).
A un anno dalla scomparsa, a quanto sembra, non tutto va benissimo fra i soci. O meglio, Anna Katharina Fröhlich ha deciso di rendere pubblico una sorta di disagio, di quelli che in genere restano confinati e protetti nell’ambiente ovattato dei consigli d’amministrazione.
Fra i tanti ricordi interessanti, teneri, quasi commoventi di una vita di coppia all’insegna dei libri (lei ha tradotto in tedesco le opere di lui) e della libertà rispetto alle convenzioni più borghesi (il rapporto di Calasso con la moglie Fleur non è mai stato interrotto), c’è un assaggio, significativo, ad esempio nell’intervista con Luigi Mascheroni (per “Il Giornale”), dove con tono felpato e gentile dice qualcosa di piuttosto serio: sottolinea infatti che «sarebbe necessaria la collaborazione tra tutti coloro che hanno a cuore la casa editrice.
Come lo erano Matteo Codignola, che era un pilastro di Adelphi, e come lo è Ena Marchi. Ora serve rafforzare un gruppo eccellente di persone che leggano per la casa editrice, che sappiano consigliare, trovare nuovi autori».
Si noti il condizionale. Ena Marchi, grande francesista e storica colonna della redazione, è ancora lì, con una consulenza. Matteo Codignola, da sempre stretto collaboratore di Calasso, responsabile della comunicazione, traduttore e autore in proprio è invece migrato alla Garzanti, si dice perché deluso al nuovo organigramma.
Anna Katharina Fröhlich fa capire – e “Die Zeit” sottolinea proprio questo aspetto -, che la parte da lei rappresentata vuole avere più voce in capitolo, in altre parole che Colajanni non ha carta bianca. Anche perché, dice, finora i titoli usciti sono ancora quelli scelti da Calasso, ma adesso bisognerà inventare, e nella continuità. Temi analoghi con Repubblica: «Non ci sono cambiali in bianco, né tantomeno investiture divine – aveva detto -. Colajanni deve sapere che può contare sulla nostra lealtà, ma anche che, da parte nostra, contiamo sulla sua volontà di coinvolgimento».
Gli eredi principali vogliono evidentemente pesare di più. Che sia cominciata la vera guerra di successione all’ormai mitico trono di San Giovanni sul Muro? I tedeschi (la polemica è stata ripresa ampiamente anche dal Börsenblatt, l’autorevole rivista degli editori e dei librai) non sembrano aver dubbi. Per loro almeno, una nuova Inge Feltrinelli, figura come nessun altro carismatica, è alle porte. E chissà che non abbiano colto nel segno.
I Rizzoli. Andrea Tomasi per “Vanity Fair” il 28 luglio 2022.
Due del pomeriggio, Ljuba Rizzoli si è svegliata da venti minuti, «comme d’habitude». Nelle tre ore a seguire il francese le verrà spesso in soccorso, a volte punteggiatura, altrove chiosa, spesso graffio.
«Ho passato una vita ad attraversare le notti cancellando le mattine, sono ancora tarata sul fuso Ljuba. Faccio sempre la stessa colazione con noci, mandorle, Perrier e limone e antidepressivi, poi ispeziono casa come se dovessero arrivare da un momento all’altro decine di invitati.
Peccato che tutte le persone che ho amato o conosciuto siano morte. Mi rimangono giusto quella martire di Lucia – la governante che ogni mattina minaccia di andarsene ma che dopo trent’anni e ancora qui –, qualche amico prezioso, i croupier del casino e il fedele compagnon Rolland Courbis, ramo football, senza il quale sarei fritta. E atroce».
Una controindicazione piuttosto inevitabile quando si arriva a 90 anni, meta suo malgrado che la signora accetta si di celebrare con il giornale che per tre lustri ha ospitato la sua rubrica Ici la Cote, ma che si guarderà bene dal festeggiare per una ragione semplice e straziante: il 27 giugno, infatti, oltre al suo compleanno ricorre anche quello di Isabella, la figlia-miracolo (a seguito di uno stupro i medici l’avevano dichiarata sterile) avuta dal secondo marito Andrea Rizzoli, ramo editoria, morta suicida a 22 anni.
«Ho smesso di vivere nel momento stesso in cui ho visto il suo corpo sul marciapiede sotto casa. Come potrei anche solo pensare di fingere felicita sapendo che lei non c’è più? Dopo tanti anni sono pero arrivata a una pace relativa: Isabella ha voluto liberarsi dei suoi mali. E stata coraggiosa».
Quindi cosa farà?
«Quello che faccio sempre quando sono depressa: mi vesto bene, metto addosso qualche brillo e me ne vado all’Hotel de Paris con Lucia. Montecarlo e casa, conosco chiunque e tutti mi vogliono bene, compreso il mio adoratissimo principe Alberto. Certo la mondanità non e più quella di una volta, ai miei tempi nessuno si sarebbe mai azzardato di uscire dopo le 17 se non apparecchiato da gran sera...
Con Lucia ce ne stiamo lì a osservare questo nuovo jet-set, queste ragazze che in abiti generosi affollano il bar. A un certo punto mando in avanscoperta Lucia per capire se sono anche intelligenti, poi ci parlo e spiego loro che Montecarlo non è il posto giusto dove cercare marito, pas d’histoire. I riccastri che passano di qui generalmente una moglie ce l’hanno già».
Lo stigma della cacciatrice di dote l’ha vissuto anche lei.
«Me ne sono sempre fregata, mi creda. E’ vero, sia Tagliabue (Ettore, ramo petroli, ndr) che Rizzoli mi hanno dato agi e ricchezze esagerati, ma non mi sono innamorata di loro per i soldi. I belli o quelli della mia età non mi sono mai interessati, cercavo piuttosto una figura paterna».
Eppure un padre, presente e benestante, lei lo aveva.
«Sono giunta alla conclusione di non aver mai amato mio padre. Vede, mi capita spesso di sognare le persone a cui ho voluto bene, ma mai mio padre. Era severo e possessivo, voleva a tutti i costi farmi sposare un certo Peppino che aveva una fabbrica di fuochi d’artificio a Napoli. In fondo non credo volesse la mia felicita. Le dico solo che la sera prima di sfilare per Miss Italia mi raso i capelli nel sonno deturpandomi».
E uno dei tanti episodi della sua vita da serie tv, una vita lungamente trascorsa, parole sue, a piangere di felicita. Le dico i titoli che ho pensato per un paio di puntate: Il principe e il toupet.
«Una sera Andrea mi manda in perlustrazione al casino per vedere se c’era gente. Arrivata ai tavoli del baccarat vedo questo gruppo di uomini con le gonne lunghe, al centro uno di loro che mi squadra da capo a piedi. Dopo qualche minuto, il responsabile di sala mi dice: “Contessa, il principe Fahd d’Arabia vorrebbe che lei lo raggiungesse in camera”. Insomma, mi aveva presa per una di quelle...».
E lei?
«Vado da mio marito, che per ridere mi fa: “Ljuba, quello ha i petrodollari, vacci di corsa”. Lo invitammo a Cap Ferrat, inizio un mese piuttosto movimentato. Ho dovuto persino fare l’agente speciale per conto di Ranieri III».
Racconti.
«Ovviamente il casino diede la possibilità al principe di giocare ben sopra i massimi, convinti che il gruppo di arabi sarebbe rimasto un solo weekend. Per colpa mia invece si trattennero ben di più, continuando a vincere. Mi chiamo quindi Ranieri: “Ljuba, ti prego, devi farli partire, ci stanno mandando sur la paille”».
E cosi arriviamo al toupet.
«Un giorno, Fahd mi tende l’agguato. Lo raggiungo per pranzo alla Reserve di Beaulieu con la Rolls-Royce ciclamino che mi aveva regalato, ma anzichè trovarlo con tutta la corte e lì da solo che mi aspetta.
Inizia un corteggiamento serratissimo, praticamente un assalto. Mi supplica di seguirlo nella sua dependance, che io conoscevo bene perchè era quella che affittava Andreotti tutte le estati con la sua famiglia. A un certo punto, per sfuggire alle sue braccia che andavano dappertutto, il postiche che rendeva la mia chioma fluente rimase incastrato sotto al suo gomito. Io ero imbarazzatissima, lui incurante continuava a parlarmi della dependance...».
E alla fine ci e andata?
«Sono passati tanti anni, chi se lo ricorda...». (ride
Vuole lasciare il dubbio anche su Gianni Agnelli?
«Casa nostra era sempre aperta per lui. Andrea era un po’ geloso, per questo l’Avvocato veniva a trovarmi quando lui non c’era, complice la nostra governante che metteva una bandiera sulla torretta di Cap Ferrat per segnalargli che la via era libera.
A differenza di mille altre donne che gli ronzavano attorno, io pero non pendevo dalle sue labbra. A questa pletora di supplici dicevo sempre: “Non fatevi illusioni, per lui siete soltanto un numero, non lascerà mai Marella. E poi, con la scusa che gira senza contanti, si fa pure pagare il conto al ristorante!”».
Quindi nessun flirt?
«Ma si, qualche coup de canape c’è stato, ma niente che potesse compromettere la nostra amicizia. Cercavamo di essere discreti, ma un giorno il destino ci si è messo contro. Eravamo a una festa all’Hotel de Paris, a un certo punto Gianni mi dice: “Saliamo su alla suite Churchill”.
Lo seguo, entriamo in quella stanza sfarzosissima dagli enormi lampadari in cristallo e ci mettiamo ad amoreggiare. Poco dopo vediamo i lampadari muoversi e tintinnare: il terremoto. Afferriamo due accappatoi e corriamo giu per le scale, ritrovandoci cosi nella hall nudi. Che fou rire».
Suo marito sapeva?
«Quando si ammalo, fu lui il primo a dire: “Ljuba, matrimonio open”. Andrea sapeva l’amore che provavo per lui, di non avere nulla da temere. Soprattutto con Gianni, che non era certo il mio tipo fisico. Troppo raffinato».
E qui arriviamo a un altro episodio: Un biglietto nella notte.
«Alain Delon! Per carità, bellissimo, ma di quella bellezza eccessivamente femminile per i miei gusti. Eravamo a Megeve, altro corteggiamento ai fianchi. Non demordo, lui neppure. Dopo una serata piuttosto animee io e Marina Cicogna ci ritroviamo in una stanzetta nel sottotetto, una chambre des skieurs. Tempo qualche minuto e sentiamo un fruscio: qualcuno ci aveva infilato un pezzo di carta sotto la porta. Lo apriamo: “Ti aspetto alla camera 104. Alain”. Marina non ci penso su un secondo e corse giu. Il mattino dopo, in sala colazioni, Delon non mi rivolse la parola».
Il finale di questa serie e ancora da scrivere. Come se lo immagina?
«Di nuovo assieme a Isabella e Andrea, in una specie di aldilà. Non ho nessuna paura della morte, a febbraio mi hanno ricoverata due mesi e mezzo per Covid e mi creda se le dico che gli unici pensieri erano chi avrebbe pagato il conto dell’ospedale e non poter più andare al casino, la panacea di tutti i miei mali.
Ma ho superato anche questa, nonostante non fossi vaccinata. Marina Cicogna mi faceva telefonate minacciose ogni giorno per via della mia reticenza, ma io mi dicevo: “Se sei sopravvissuta a nove elettroshock dopo la morte di Isabella, sopravviverai anche a questo virus senza bisogno del vaccino”. Avevo ragione, ma sono stata scema».
Valentino Bompiani. Mirella Serri per “la Stampa” il 6 marzo 2022.
Sulla copertina della sua autobiografia uscita di recente, La penultima illusione (Feltrinelli), c'è una foto dell'autrice Ginevra Bompiani all'età di tre anni, vicino a sua sorella e a suo padre Valentino, il conte editore, così chiamato per via del titolo nobiliare, tutto preso dal suo solitario di carte.
Valentino Bompiani, scrittore e drammaturgo, è stato uno dei maggiori protagonisti delle lettere italiane e, con la sua celebre casa editrice nata nel 1929, ha promosso gran parte della cultura italiana del Novecento. Ed è stato definito il grande amico dei suoi autori.
Nella foto di copertina non guarda le figlie e Ginevra sembra nervosa e stringe il piccolo pugno. Signora Bompiani, suo padre era anche amico delle sue figlie?
«Umberto Eco ha sottolineato molto il rapporto che legava mio padre ai suoi scrittori. Sosteneva, cito quasi a memoria, che "Bompiani aveva per i suoi autori un rispetto quasi religioso".
E aggiungeva che questo non voleva dire che ne ignorasse i difetti e le debolezze ma che li considerava difetti di un "Autore" con la maiuscola e che di ognuno di loro ricordava aneddoti e pagine memorabili. Sia io che mia sorella abbiamo lavorato con papà. Con mio marito, Giorgio Agamben, ho messo in piedi all'interno della casa editrice una collana, il "Pesanervi".
Mio padre sosteneva che non dovevo avere alcun privilegio, quindi sgobbavo il doppio. Giorgio sceglieva titoli e pubblicavamo autori di grande prestigio, come Adolfo Bioy Casares, ma io mi occupavo anche della parte pratica. Valentino era famoso non solo per la dedizione con cui sovrintendeva alla casa editrice ma anche per il rispetto e il tremore, è la parola giusta, che incuteva.
Con lui bisognava fare attenzione non solo a quello che si diceva ma anche - è un paradosso - a come si taceva. Anche da ragazzina, ecco l'origine del pugno chiuso nella foto, ero molto decisa e testarda. Ed ero spesso investita dalle sue scenate». Quello messo in piedi da Bompiani è stato un catalogo straordinario che accoglie le opere di alcuni dei più influenti autori della letteratura italiana, tra cui Alberto Moravia, Umberto Eco, Vitaliano Brancati, Corrado Alvaro, Raffaele La Capria ed Elio Vittorini, e della poesia, filosofia e narrativa internazionale, come T.S. Eliot, J.R.R. Tolkien, Albert Camus, John Steinbeck, James Cain, Erskine Caldwell, Archibald Joseph Cronin, André Gide, Patricia Highsmith e Jean-Paul Sartre. Sono state dunque necessarie grandi lotte e tanta autorevolezza per convogliare nella casa editrice milanese questo meraviglioso bottino?
E altrettanto si può dire per la costruzione di un monumento come il "Dizionario letterario delle opere e dei personaggi di tutti i tempi e di tutte le letterature"?
«Un critico ha parlato, a proposito della conduzione della casa editrice, di "signorilità, gusto, rigore e determinazione": direi che questa è stata la cifra di papà. Non ero la sola a essere destinataria delle ire paterne. Però alcuni erano esentati.
Eco, che dagli anni Cinquanta diresse collane di studi e pubblicò da Bompiani i propri scritti, non era mai un bersaglio. Lo sa qual era la sua arma di difesa? L'ironia. Arrivava in ufficio la mattina alle undici, e questo irritava l'editore che gli chiedeva come mai si presentasse a quell'ora, ed Eco lo smontava con una battuta. Il giorno dopo se sedeva alla scrivania alle dodici. Era l'unico che chiamasse mio padre zio Val».
Eravate una grande famiglia, insomma?
«Non c'è dubbio. Mi ricordo che in occasione di un'eclisse di sole mio padre rientrò e trovò la casa editrice deserta. Eravamo tutti sull'autostrada a guardare il fenomeno celeste. La sera ci ritrovavamo in casa Berio oppure nelle balere. Quando molto tempo dopo ho dato vita a "Nottetempo", una mia casa editrice, cercai di ricreare quell'atmosfera con la squadra di lavoro e con gli autori».
C'erano anche grandi rivalità con Einaudi, Mondadori, Feltrinelli e altri editori?
«Gli editori andavano insieme alle Fiere e si davano consigli. Mi ricordo come mio padre a Francoforte cercasse invano di frenare Alberto Mondadori da acquisti scriteriati. Parlavano di libri, però, non di fatturato. E tra gli editori militanti non c'era solo Einaudi ma anche Bompiani che pubblicava le opere di Vittorini. Sotto il fascismo la casa, con un gesto di indipendenza dal regime, per esempio, aveva fatto uscire l'antologia Americana a cura di Vittorini con la prefazione di Emilio Cecchi».
Però ha dato alle stampe anche la traduzione italiana del Mein Kampf di Adolf Hitler la cui pubblicazione è stata sovvenzionata da Mussolini. Lei che è sempre stata un'intellettuale di sinistra come ha giudicato questa scelta di suo padre?
«Papà alle accuse ribatteva: "Ma volevi che non si facesse conoscere agli italiani un'opera così? Anzi, la cosa che mi dispiace è che non l'abbiano letta tutti gli italiani".
Quando nel dopoguerra vennero in Italia Sartre e la de Beauvoir ci accusarono di essere di destra. Non era vero, ma si scandalizzarono perché vennero a cena da noi e si ritrovarono in una casa borghese in cui c'erano i camerieri a servirli. Valentino è stato un editore che si è spremuto come un limone nella sua faticosa avventura editoriale».
Scrittori che non sono rientrati nella scuderia Bompiani e che suo padre si è addolorato di non aver pubblicato?
«Con Pier Paolo Pasolini, che era ospite a casa nostra al mare per lunghi periodi, aveva una grande intimità e consuetudine. Sicuramente avrebbe pubblicato volentieri le opere ma editò solo un paio di numeri della rivista Officina. Erano così amici che quando io avevo 15 anni Pier Paolo gli chiese farmi recitare in Mamma Roma.
"Avrei per Ginevra una parte da puttanina simpaticissima". Mio padre inorridì e rifiutò. Elsa Morante una sera gli portò il dattiloscritto di Menzogna e sortilegio e gli intimò: "Mi dia una risposta domani mattina". Erano circa seicento pagine e papà fu costretto a rimandare l'offerta al mittente. Quando Elsa prendeva le anfetamine, che secondo lei l'aiutavano a scrivere, era animata da una forza interiore che la rendeva intrattabile».
Suo padre vendette la Bompiani nel 1972 al gruppo Rcs, fu per lui una grande sofferenza?
«Direi proprio di sì. Ma continuò ad andare in casa editrice con tutta la sua energia e la sua fierezza. Mantenne le sue abitudini. Non si sedeva mai nel suo ufficio, salvo quando doveva ricevere qualcuno. Si metteva nell'ampia stanza della segreteria e come aveva sempre fatto si dedicava a ritagliare e a disegnare le copertine per cui aveva una speciale passione.
Mi ricordo che il giorno in cui l'editrice fu venduta io ero all'università per sostenere un esame di letteratura italiana contemporanea che doveva integrare il corso di laurea che avevo frequentato in Francia anni prima. Il professore mi chiedeva di Moravia, Brancati e Alvaro... A me a sentire quei nomi veniva da piangere per la commozione.
Anche Eco, che nel 1980 pubblicò da Bompiani Il nome della rosa si rammaricò molto per l'uscita di papà dalla proprietà della casa editrice. Era cresciuto proprio lì e il successo planetario del suo libro aveva le sue radici nell'atmosfera creata da papà Valentino, l'"editore protagonista", come lo chiamavano, una figura di professionista che oggi si è estinta per sempre».
Lobby e cultura. Mariella Palazzolo, Lobbista, su Il Riformista il 24 Febbraio 2022.
Quando si parla di lobbying si pensa principalmente alle grandi aziende di beni e servizi e difficilmente ci si riferisce agli operatori culturali. È una falsa percezione, perché anche queste realtà sono attive nella rappresentanza dei propri interessi presso le istituzioni.
Va da sé che un esempio lampante arrivi dagli Stati Uniti, dove il lobbying, seppur di matrice diversa e in un contesto istituzionale anch’esso diverso dal quello europeo, ha una lunga e consolidata tradizione. L’università di Harvard nel 2020 ha speso 555 mila dollari in lobbying, superando le altre sette università appartenenti alla blasonata Ivy League, che comprende gli istituti di formazione più elitari del Paese. Quali sono i temi che hanno impegnato Harvard nella relazione con il Congresso e la Casa Bianca? Aspetti come gli aiuti economici per gli studenti, i finanziamenti per la ricerca, la pressione fiscale, le leggi sull’immigrazione e le regole relative alla pandemia. Le altre università della Ivy League non hanno speso molto meno. Solo qualche esempio: Yale si è attestata sui 530 mila dollari, la Cornell sui 520 mila e la Penn sui 430 mila (Harvard’s 2020 Lobbying Expenditures Top Ivy League, Focusing on Pandemic, Immigration Legislation, Jasper G. Goodman and Kelsey J. Griffin, Crimson Staff Writers, 23 febbraio 2021, thecrimson.com).
Per la rubrica di Telos A&S Lobby Non Olet, abbiamo parlato di cultura e lobby, binomio che da noi è considerato esotico, con Sergio Scalpelli, presidente de Linkiesta ed ex responsabile dei rapporti istituzionali di Fastweb. Guarda l’intervista.
“Alla cultura servirebbe una fortissima, potente e strutturata attività di lobby ma dal mondo della cultura si fa fatica a costruire una coesione minima necessaria perché questa attività di lobby e protezione degli interessi del settore possa essere effettivamente efficace” ha dichiarato Scalpelli.
Malgrado l’apparente stranezza della coppia lobby-cultura, anche nel nostro Paese le grandi realtà del settore sono impegnate nel curare le relazioni con le istituzioni, insieme alle organizzazioni di natura sociale. In Italia fanno lobby i centri di ricerca, le associazioni e le Chiese. Però, come sottolinea Scalpelli, le piccole organizzazioni sono poco, pochissimo o per niente rappresentate. Come del resto anche in altri settori, manca la cultura del fare squadra per avere voce in capitolo nei confronti del decisore pubblico. Ma lo stesso problema riguarda le piccole imprese che rappresentano una fetta fondamentale dell’economia italiana. Se anche i “piccoli” facessero lobby, e se fossero perlomeno ascoltati, avremmo una regolamentazione più aderente ai problemi e alle necessità del Paese. Quindi, come ho detto più volte, il guaio dell’Italia non è l’eccessiva presenza di attività di lobbying, ma esattamente il suo contrario.
Fabbriche culturali. Bompiani: il non mestiere dell’editore. Così lo definiva il grande Valentino, scomparso trent’anni fa. Fu lui a portare in Italia la letteratura americana e a pubblicare Eco e Moravia. Paolo Mauri su La Repubblica il 22 febbraio 2022.
Trent’anni fa, esattamente il 23 febbraio del 1992, moriva Valentino Bompiani. Un po’ di anni prima era scomparso Erich Linder, il grande agente letterario, per tanto tempo l’unico a dominare la scena italiana e internazionale. Bompiani aveva scritto di lui. «Sapeva tutto dalla nascita. Era per una tradizione millenaria il migliore di tutti nel sapere cosa sono i libri e cosa si deve fare nei libri».
Gli intellettuali hanno deciso di cancellare il dibattito. GIANFRANCO PASQUINO, accademico dei Lincei su Il Domani il 23 febbraio 2022
“Gli editorialisti di questo giornale non debbono criticarsi a vicenda nei loro articoli”. Questa frase, ripetutami più volte, mi è rimasta impressa. Ho prestato maggiore attenzione a quello che gli editorialisti di quel quotidiano e del suo concorrente più diretto scrivevano e ne ho trovato conferma. Talvolta i loro articoli argomentavano in maniera diversa e offrivano interpretazioni divergenti, persino anche se raramente, in maniera plateale. Tuttavia, l’interlocutore non veniva citato.
Difficile dire se i lettori cogliessero le differenze e considerassero positivo il silenzio sui nomi degli autori che si contrapponevano. Se la buona informazione democratica passa anche, direi soprattutto, da un dibattito pubblico di idee e di interpretazioni, non è questo che trovo sui quotidiani italiani.
Leggo, invece, di frequente quegli stessi editorialisti che, con opportuna distanza temporale, recensiscono i loro rispettivi libri quasi mai sollevando dubbi, rilevando mancanze, individuando problemi. Anche questo è in linea con il forte consiglio (sic) a non criticarsi reciprocamente.
Impossibile, non solo per il lettore medio abituale, ma anche per lo specialista, sapere da quella recensione se quel libro apporta davvero qualcosa di nuovo, contribuisce a spiegare avvenimenti, fornisce visioni alternative.
Sicuro, però, che considerevole è l’effetto pubblicitario di una recensione a tutta pagina, magari non direttamente sulle vendite, ma sulla visibilità.
L’autore, chiedo scusa, l’autrice sarà chiamata a parlare del suo libro in due/tre salotti televisivi nei quali sarà messa in bella mostra la copertina del libro. Poiché è improbabile che conduttrice e conduttore né gli altri ospiti abbiano letto il libro, non ne seguirà nessuna discussione.
Nessuna conseguenza possibile in termini di arricchimento delle conoscenze che non esclude affatto che quel libro sia originale, colto, bello da leggere, gratificante. Non lo sapremo da quei salotti. Eppure gli invitati dovrebbero essere interessati a saperne di più, a discutere.
Per lo più si trattengono. Se la discussione vertesse prima o poi sul libro che hanno scritto meglio non essersi creati nemici con eventuali critiche passate. Ciascuno degli invitati parlerà solo se interpellato da chi presiede al salotto.
Dopo avere sistematicamente lodato l’eventuale servizio esterno dal quale prende le mosse il dibattito, l’invitato, tranne se politicamente schierato, darà sistematicamente ragione, con qualche rara, ma prevedibile eccezione, a chi gli/le ha fatto la domanda: “Assolutamente, sì!” Gli ospiti che intervengono successivamente non menzioneranno chi li ha preceduti, troppo onore, meno che mai se sono in dissenso.
Più facile dirsi d’accordo il che per lo più conduce alla menzione del proprio intervento da parte dell’ospite successivo.
Non so quanto sia vero che i telespettatori dei talk show televisivi vi assistono distrattamente salvo fare salire la curva dell’audience quando gli ospiti si accapigliano. So che ci sono guastatori di mestiere, spesso invitati per questa loro precipua propensione.
Naturalmente, da questi incidenti non scaturisce mai informazione, non discendono elementi conoscitivi, non si costruisce un dibattito pubblico istruttivo.
Scrivo questo articolo mentre sui giornali si ricorda il centesimo anniversario della nascita di Pier Paolo Pasolini. Mi trovai spesso in disaccordo sulle sue prese di posizione nelle quali riconobbi sempre vera sostanza. Dove (su quale quotidiano?, oso: in quale salotto televisivo?) sono finiti gli intellettuali pubblici in grado di discutere con Pasolini?
GIANFRANCO PASQUINO, accademico dei Lincei, Professore emerito di Scienza politica all'Università di Bologna, dal 2005 è socio dell'Accademia dei Lincei.
IL RISO COME CRITICA. In Italia tutto viene preso sul serio, tranne le cose serie. CLAUDIO GIUNTA su Il Domani il 19 febbraio 2022
A un certo punto della vita adulta bisogna fare una scelta e decidere da che parte stare. C’è la parte di Flaiano, che pensava che la cosa più importante fosse sorridere e far sorridere, senza pronunciare proclami, elaborare visioni del mondo, firmare manifesti.
E c’è la parte di Fortini, che – come Jorge da Burgos nel Nome della rosa – pensava che con tutto il male che c’è nel mondo ridere è nella migliore delle ipotesi una leggerezza e nella peggiore un crimine, o la complicità in un crimine.
E dunque ci si domanda: chi mettere in questo canone? Chi riesce a far ridere o sorridere, tra gli scriventi attuali? La domanda vorremmo girarla al lettore. A noi è sembrato di indicare dei filoni.
CLAUDIO GIUNTA. Professore di Letteratura italiana all’Università di Trento, è uno specialista di letteratura medievale (La poesia italiana nell’età di Dante, Il Mulino 1998; Due saggi sulla tenzone, Antenore 2002; Versi a un destinatario, Il Mulino 2002; Codici. Saggi sulla poesia del Medioevo, Il Mulino 2005). Nel corso dell’ultimo decennio è stato visiting professor, tra l’altro, nelle università di Chicago, Tokyo (Todai), Sydney, Rabat, e ha insegnato come volontario alla Asian University for Women di Chittagong, nel sud del Bangladesh. È stato fellow dell’American Academy di Roma, dello Harvard Center for Renaissance Studies di Firenze e del Warburg Institute di Londra. Ha insegnato Didattica della letteratura nei corsi del TFA e del PAS organizzati all’Università di Trento; e insieme ad altri insegnanti del Trentino ha curato un seminario dal titolo Cosa insegnare a scuola.
Dai messaggi cifrati di Sallusti-Palamara all’epica di Allende. BEPPE COTTAFAVI su Il Domani il 19 febbraio 2022
Nel mercato contratto da bollette e Covid arriva a marzo anche il libro del generale Figliuolo con Beppe Severgnini S’intitola Un italiano, che fa un po’ Toto Cotugno.
Nel caso della seconda puntata del Sistema, Lobby & Logge, è stata solo ritardata l’uscita da Rizzoli. Dopo l’elezione del presidente della Repubblica.
Lei è forte, indipendente, coraggiosa. Si chiama Violeta e nasce in una notte tempestosa del 1920, prima femmina dopo cinque turbolenti maschi. E il suo romanzo, Violeta, da Feltrinelli, scritto da Isabel Allende, la regina della narrativa popolare.
Sono due i libri che comandano la classifica di questa settimana.
Che testimonia di un mercato contratto dopo molti mesi di splendore. Affaticato. Dalle bollette, dall’inflazione, dalla pandemia. E sono libri molto diversi.
Appartengono a due generi consolidati. Il romanzo popolare e epico di una star della narrativa mondiale, Isabel Allende, e l’inedito giornalismo di testimonianza (e di omissioni e di messaggi incrociati e cifrati) su Il sistema, fortunato clone della Casta.
Fatto da Alessandro Sallusti insieme a Luca Palamara, un magistrato che, radiato per indegnità dalla magistratura, fa la morale alla magistratura stessa. Un po’ come se il coronavirus facesse le pulci alle chiacchiere narcisistiche dei virologi e alle strategie di Speranza, prima con Conte poi con Draghi, e del generale Figliuolo. Pure lui atteso in libreria. L’8 marzo, da Rizzoli. Con Severgnini al posto di Sallusti. Un italiano. Che è un titolo che fa un po’ Toto Cotugno.
Ne è uscita la storia di «un ragazzo meridionale di periferia» che, dopo il liceo classico a Potenza e l’Accademia militare a Modena, segue il consiglio del colonnello che comandava il distretto della sua città: «Francesco, tu devi andare in artiglieria da montagna, perché lì si fanno le cose seriamente. E poi noi di Potenza siamo montanari». Così diventa alpino («L’alpino, quello vero, è tutto d’un pezzo, segue le regole, porta lo zaino, porta anche due zaini se qualcuno non ce la fa. Però è anche portato a riflettere, a pensare e a esprimere i giudizi. Ecco, questo non tutti lo capiscono.
Sono un alpino, ma non sono stupido») e l’idea di fare le cose seriamente è il principio che guida la sua carriera, dalle difficili missioni in Kosovo e in Afghanistan al comando logistico dell’Esercito. Fino al nuovo ruolo di Commissario e coordinatore della campagna vaccinale. Riuscita.
IL LIBRO PERDUTO
Qui vale la pena ricordare che anche il ministro Speranza aveva incautamente scritto per Feltrinelli un libro, Perché guariremo, di cui s’è persa traccia, ritirato quando già stava in libreria. Chissà che c’era scritto? Mentre nel caso della seconda puntata del Sistema, Lobby & Logge, è stata solo ritardata l’uscita da Rizzoli. Dopo l’elezione del presidente della Repubblica.
Basti qui sapere che a pagina 118 c’è un capitolo intitolato “Messaggini dal Quirinale. Quello che ancora non si sa della notte all’Hotel Champagne”. L’ex magistrato radiato a seguito di un’indagine sul suo ruolo di mediatore all’interno del sistema delle correnti della magistratura e il direttore di Libero affrontano i misteri del “dark web” del Sistema. La ragnatela oscura di logge e lobby che da sempre avviluppa imprenditori, faccendieri, politici, alti funzionari statali, uomini delle forze dell’ordine e dei servizi segreti, giornalisti e, naturalmente, magistrati.
Logge e lobby che decidono se avviare o affossare indagini e processi e che, come scrive Sallusti, «usano la magistratura e l’informazione per regolare conti, consumare vendette, puntare su obiettivi altrimenti irraggiungibili, fare affari e stabilire nomine propedeutiche ad altre e ancora maggiori utilità. Per cambiare, di fatto, il corso naturale e democratico delle cose».
DALLA SPAGNOLA AL COVID
Ma veniamo al libro numero uno. Lei è forte, indipendente, coraggiosa. Si chiama Violeta e nasce in una notte tempestosa del 1920, prima femmina dopo cinque turbolenti maschi. E il suo romanzo, Violeta, da Feltrinelli, scritto da Isabel Allende, la regina della narrativa popolare, l’autrice di La casa degli spiriti, si prende la testa della classifica. Raccontata attraverso gli occhi di questa donna che vive un secolo di sconvolgimenti con determinazione e senso dell’umorismo, Isabel Allende ci consegna ancora una volta una storia epica e passionale che esalta e emoziona le sue lettrici. L’ultimo dei 28 romanzi pubblicati dall’autrice 79enne.
È la storia di una donna centenaria che attraversa il XX secolo e scrive al nipote Camilo per lasciargli una testimonianza. Di una vita segnata da avvenimenti straordinari, l’eco della Grande guerra, il virus dell’influenza spagnola che sbarca sulle coste del Cile nel momento esatto della sua nascita. Sullo sfondo delle sue alterne fortune, un paese di cui Violeta impara a decifrare gli sconvolgimenti politici e sociali. Ed è grazie a questa consapevolezza che avviene la sua trasformazione con l’impegno nella lotta per i diritti delle donne.
Una vita eccezionalmente ricca e lunga un secolo, che si apre e si chiude con una pandemia. Il romanzo inizia con l’influenza spagnola e si chiude con il Covid. BEPPE COTTAFAVI
Estratto dell’articolo di Matteo Nucci per espresso.repubblica.it il 17 febbraio 2022.
Mi dica i cinque scrittori decisivi del Novecento.
«Gadda su tutti. Elsa Morante, Landolfi. Parise e Bassani già li ho nominati».
E stranieri?
«Proust. Poi Mann, il sublime Musil, Durrell e Lowry».
E oggi?
«Javier Marías e Pamuk. Verso Pamuk nutro un’invidia enorme, ma un’invidia sana, buona. Che scrittore!».
Giovani italiani?
«Mencarelli. “Tutto chiede salvezza” mi era piaciuto molto. Ha una bella e lunga strada davanti».
Scrittrici?
«Nessuna. È una cavalcata delle Valchirie».
In che senso?
«Non sente la musica? Ogni volta che esce un nuovo libro di una scrittrice italiana tutte le altre si affannano a gridare che ha cambiato le loro vite. Ma quante volte cambiano vita? Quante vite hanno?».
Luigi Mascheroni per “il Giornale” il 17 febbraio 2022.
Tempo fa un libraio di Bologna, temerariamente della Feltrinelli, e su Repubblica per di più, in un'intervista disse di non leggere libri di donne. E per fortuna non disse «femmine». Si può immaginare come finì. Intervenne persino Inge Feltrinelli (era il 2015) e un'orda di scrittrici urlò alla discriminazione, contro l'«ottuso maschilismo» e bla bla bla, qua qua qua.
Ma oggi succede di peggio. Giorgio Montefoschi, in occasione dell'uscita del suo nuovo romanzo Dell'anima non mi importa (La nave di Teseo), intervistato dal sempre ottimo Matteo Nucci su l'Espresso - solo per fatalità testata di riferimento del mondo transfemminista, Lgbt, «no gender» e #MeToo - alla domanda sulle sue scrittrici preferite, risponde, icasticamente: «Nessuna. È una cavalcata delle Valchirie». In che senso? «Non sente la musica? Ogni volta che esce un nuovo libro di una scrittrice italiana tutte le altre si affannano a gridare che ha cambiato le loro vite. Ma quante volte cambiano vita? Quante vite hanno?».
E potremmo fermaci qui. Ci piace l'odore del napalm quando scoppia una guerra fra le scrittrici italiane e il resto del mondo.
Prima cosa che ci è venuta in mente quando abbiamo letto la frase «Ogni volta che esce un nuovo libro di una scrittrice italiana tutte le altre si affannano a gridare che ha cambiato le loro vite»: le recensioni incrociate, via quotidiani, festival, tv o social fra Murgia-Valerio-Stancanelli-Lattanzi-Tagliaferri.
«Amo'!!», «Bella», smack, «Ti Lovvo» cuoricini e hashtag #LeNuoveEroidi... La seconda, quei racconti a staffetta per magazine rosa, tipo Avallone-Postorino-Gamberale-Ciabatti... Emoticon: faccino che sbadiglia.
Comunque. L'intervista è del 6 febbraio, ma nessuno se ne accorge fino a quando, su Twitter, Valeria Parrella scatena con un post le scrittrici vergini guerriere. A un certo punto si capisce che c'è anche una chat privata su cui la Parrella discute con una compagine di valchirie dell'intervista di Montefoschi («I commenti? Irripetibili»), ma per divertirsi bastano e avanzano i tweet pubblici che si riversano contro Montefischi, Montefiaschi, Montecazzi...
Fra le divinità norrene che partecipano alla cavalcata si segnalano, fra le altre: Viola Ardone, Annalisa Cuzzocrea, Helena Janeczek, Loredana Lipperini, Letizia Pezzali, Laura Campiglio, Giulia Blasi... Neofemminismo, Walkürenritt, ironia e suscettibilità... La Rete sarà il tuo Walhalla.