Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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 L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

ANNO 2022

L’AMMINISTRAZIONE

QUARTA PARTE

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

  

 

 

 

L’AMMINISTRAZIONE

INDICE PRIMA PARTE

 

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI. (Ho scritto un saggio dedicato)

L’Insicurezza.

La Burocrazia.

La malapianta della Spazzacorrotti.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Ponte sull’Italia.

La Sicurezza: Viabilità e Trasporti.

La Strage del Mottarone.

Il Mose.

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Disuguaglianza.

I Bonus.

Il Salario Minimo.

Il Reddito di Cittadinanza.

Quelli che…meglio poveri.

Quelli che …dei call-center.

Il Lavoro Occasionale.

Le Pensioni.

L’Assistenza ai non autosufficienti.

Gli affari sulle malattie.

Martiri del Lavoro.

Il Valore di una Vita: il Capitale Umano.

Manovre di primo soccorso: Il vero; il Falso.

L'attività fisica allunga la vita.

La Sindrome di Turner.

Il Sonno.

Attenti a quei farmaci.

Le malattie più temute.

Il Dolore.

I Trapianti.

Il Tumore.

L’Ictus.

Fibromialgia, Endometriosi, Vulvodinia: patologie diffuse ed invisibili.

La Sla, sclerosi laterale amiotrofica.

La Sclerosi Multipla.

Il Cuore.

I Polmoni.

I calcoli renali.

La Prostata.

L'incontinenza urinaria.

La Tiroide.

L’Anemia.

Il Diabete.

Vampate di calore.

Mancanza di Sodio.

L’Asma.

Le Spine.

La Calvizie.

Il Prurito.

Le Occhiaie.

La Vista.

La Lacrimazione.

La Dermatite. 

L’ Herpes.

I Denti.

L’Osteoporosi.

La Lombalgia.

La Sarcopenia.

La fascite plantare.

Il Parkinson.

La Senilità.

Depressione ed Esaurimento (Stress).

La Sordità.

L’Acufene.

La Prosopagnosia.

L’Epilessia.

L’Autismo.

L’Afasia.

La disnomia.

Dislessia, disgrafia, disortografia o discalculia.

La Balbuzie.

L’Insonnia.

I Mal di Testa.

La Gastrite.

La Flatulenza.

La Pancetta.

La Dieta.

Il Ritocchino.

L’Anoressia.

L’Alcolismo.

L’Ipotermia.

Malattie sessualmente trasmesse.

Il Parto.

La Cucitura.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Covid ed il Fallimento del Sistema Sanitario Nazionale.

L'Endemia. L’Epidemia. La Pandemia.

Le Epidemie.

Virus, batteri, funghi.

L’Inquinamento atmosferico.

HIV: (il virus che provoca l'Aids).

L’Influenza.

La Sars-CoV-2 e le sue varianti.

Alle origini del Covid-19.

Le Fake News.

Morti per…Morti con…

Il Contagio.

Long Covid.

Da ricordare… 

Protocolli sbagliati.

Io Denuncio…

I Tamponati…

Le Mascherine.

Gli Esperti.

 

INDICE QUINTA PARTE

 

IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)

Vaccini e Cure.

Succede in Svezia.

Succede in Inghilterra.

Succede in Germania.

Succede in Cina.

Succede in Corea del Nord.

Succede in Africa.

Il Green Pass e le Quarantene.

Chi sono i No Vax?

Gli irresponsabili.

Covid e Dad.

Il costo.

Le Speculazioni.

Gli arricchiti del Covid.

Covid: Malattia Professionale.

La Missione Russa.

Il Vaiolo delle scimmie.

Il virus del Nilo occidentale (West Nile virus, in inglese). 

Gli altri Virus.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI. (Ho scritto un saggio dedicato)

  

 

 

 

L’AMMINISTRAZIONE

QUARTA PARTE

 

IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Il Covid ed il Fallimento del Sistema Sanitario Nazionale.

Una persona può essere sana o avere qualche malattia.

Le malattie sono curabili secondo l'evoluzione della scienza riconosciuta dalle istituzioni e dalle lobby farmaceutiche, e/o la preparazione dei medici, e/o nel caso della prevenzione e della scoperta nei tempi giusti.

La sanità italiana non permette la prevenzione o la cura adeguata, tenuto conto delle liste di attesa dovute alla gestione privatistica della sanità dei baroni e, spesso, della svogliatezza e dell’impreparazione dei medici.

Un malato: o è curabile o è terminale.

Al malato curabile si somministrano le terapie necessarie prescritte da uno specialista voglioso e preparato.

Il malato terminale, in base al censo ed alla famiglia, si abbandona o gli si somministrano le terapie palliative.

La parola palliativo deriva dalla parola latina pallium che significa mantello, protezione.

Per cure palliative si intende “l'insieme degli interventi terapeutici, diagnostici e assistenziali, rivolti sia alla persona malata sia al suo nucleo familiare, finalizzati alla cura attiva e totale dei pazienti la cui malattia di base, caratterizzata da un'inarrestabile evoluzione e da una prognosi infausta, non risponde più a trattamenti specifici”. (Legge n.38/1 Art. 2-Definizioni)

Le cure palliative, quindi, sono quell'insieme di cure, non solo farmacologiche, volte a migliorare il più possibile la qualità della vita sia del malato in fase terminale che della sua famiglia.

La cura palliativa per i pazienti agiati in Italia diventa, spesso, accanimento terapeutico. I familiari, o solo per imposizione di alcuni di essi in contrasto con il resto della famiglia, o il malato, servito e riverito,  protraggono egoisticamente la cessazione della vita di qualche giorno, al costo di immani sofferenze per il malato stesso con interventi chirurgici e cure inutili, che non vuol cessare una vita, spesso inutile per sè stesso e per la società, e con molti oneri assistenziali per loro da parte dei familiari e della sanità pubblica.

Quando si decide di dire basta alle cure palliative, non è eutanasia egoistica, ma vero senso di carità per una morte dignitosa e caritatevole.

Quale valore affettivo vuol significare vedere il proprio caro sofferente in perenne stasi o in catalessi con il catetere per l'urina, la pala al culo, la flebo attaccata, il sondino per l'alimentazione. l'occhialino dell'ossigeno?

Quale interesse è per il malato terminale a cui si danno false speranze di guarigione, facendolo morire disperato, anziché accompagnarlo ad una morte serena e consapevole?  

Paolo Russo per la Stampa il 28 dicembre 2022.

Con quasi 100 milioni di visite ambulatoriali saltate durante il Covid e in parte da recuperare, un milione e 774mila ricoveri in meno rispetto all'era pre-pandemica, le liste d'attesa si allungano all'infinito. Tanto che una recente indagine di Cittadinanzattiva denuncia che il 71% degli assistiti si è trovato ad attendere oltre i limiti stabiliti dalla normativa nazionale. Il 53% dei casi ha riguardato gli interventi chirurgici e gli esami diagnostici, il 51% le visite di controllo. Cosi si arrivano ad attendere fino a due anni per una mammografia, circa un anno per una ecografia, una tac o un intervento ortopedico. 

Perché ad aggravare la situazione negli ospedali, già sguarniti di letti e personale, c'è la fuga di medici e infermieri verso il privato. Al quale, si rivolgono sempre più anche gli assistiti. Quando possono permetterselo. Perché, come rivela l'Istat, tanti rinunciano del tutto alle cure.

Erano 3,1 milioni nel 2019, sono saliti a 4,8 l'anno successivo per arrivare a 5,6 lo scorso anno.

Questo mentre anziani e cronici sono in aumento, e l'Adi, l'assistenza domiciliare integrata, si fa carico appena del 2,9% di loro. Per chi dal medico può ancora andare con le sue gambe c'è invece la piaga di un'assistenza territoriale che, come la pandemia ha ampiamente dimostrato, fa acqua da tutte le parti. Perché i medici di famiglia sono sempre meno, hanno orari di apertura dei loro studi formato small e non lavorano in team con gli specialisti ospedalieri. 

Occorrono parecchie righe per scattare solo un flash sulla lenta agonia della nostra sanità. Il sistema più universalistico del mondo. Quello che sulla carta offre tutto gratis, o quasi, a tutti, ma che di fatto sta escludendo le fasce più deboli della popolazione dalle cure.

Perché il tempo passa, la popolazione anziana e i malati cronici aumentano e i finanziamenti non seguono il passo della domanda di salute. Così, se grazie anche alla bravura dei nostri professionisti della salute fino a ieri si è retto facendo miracoli, ora quei 37 miliardi tagliati alla sanità nei dieci anni precedenti al Covid stanno facendo affondare la barca. 

Il rapporto del mese scorso dell'Ocse indica che durante la pandemia tutte le nazioni hanno aumentato la spesa sanitaria, ma l'Italia resta comunque sotto la media Ue, con 2.609 euro di spesa pro-capite contro una media europea di 3.159. Ma con Paesi equiparabili al nostro come la Germania a quota 4.831, la Francia a 3.764, la Gran Bretagna a 3.494, ma anche lì con problemi di tenuta del sistema che giorni fa ha visto attuare il primo sciopero degli infermieri della storia del Regno. E, sempre secondo l'Ocse, l'Italia è fanalino di coda in Europa per prestazioni saltate durante la pandemia: -22,7% di assistiti con problemi di disordine mentale, -16% di screening oncologici, -14,6% di accessi ospedalieri di malati cronici, -12,3% di Tac e risonanze eseguite. C'è persino un 14,9% che ha dovuto posticipare interventi di rimozione di un tumore.

A corto di soldi e personale, il sistema sanitario pubblico continua a perdere terreno anziché recuperarne. A certificarlo sono i dati di Agenas, l'Agenzia per i servizi sanitari regionale. Nei primi sei mesi di quest' anno ci sono state 3,4 milioni in meno di visite di controllo rispetto al 2019, mettendo così a rischio la salute di malati oncologici, diabetici, cardiopatici. E se il sistema pubblico arretra, quello privato avanza. 

L'ultimo monitoraggio della spesa sanitaria condotto dal Mef sul 2021 indica che dai 34,8 miliardi del 2019 la spesa sostenuta di tasca propria dagli assistiti è salita a 37 miliardi. E ad arginare questa deriva a poco serviranno i 2,15 miliardi in più di fondo sanitario portati faticosamente a casa dal ministro della Salute, Orazio Schillaci. 

Vuoi perché ben 1,4 miliardi sono assorbiti dal caro bollette e vuoi anche per quei 3,8 miliardi di buco pregresso per i costi non coperti del caro energia e delle spese per il Covid. Soldi che le Regioni dovranno metterci di tasca propria. Il che lascerà poco spazio agli investimenti. A cominciare da quelli che servirebbero per ripopolare corsie e ambulatori di medici e infermieri. Lavoro di per sé improbo, visto che nemmeno questa Finanziaria ha rimosso il paradossale vincolo imposto alla Regioni di non superare per il personale la spesa del lontano 2004, diminuita pure dell'1,4%.

E così, con gli stipendi tra i più bassi d'Europa, condizioni di lavoro sempre più dure che impongono anche doppi turni senza riposo, tra medici e infermieri è iniziata la grande fuga dall'Ssn. Magari per lavorare a gettone, visto che con due o tre turni ci si porta a casa lo stipendio mensile di un dipendente. Le proiezioni sui dati Agenas dicono che entro il 2027 andranno in pensione 41mila tra medici di famiglia e ospedalieri, che diventano 50mila se si considerano anche gli ambulatoriali. A questo si aggiungono gli 8mila camici bianchi che secondo il sindacato Anaao dal 2019 al 2021, stanchi di fare gli eroi, si sono licenziati. 

Magari per andarsene all'estero dove gli stipendi sono più alti e le condizioni di lavoro migliori. Se a portare in agonia il malato sono state le politiche di taglio ai fondi e una cattiva programmazione della formazione medica, una spintarella verso il precipizio gliel'ha data anche la disorganizzazione. Come quella documentata dal rapporto appena pubblicato dal ministero della Salute sulle Sdo, le schede di dimissioni ospedaliere. 

Su quasi 5 milioni di ricoveri l'anno, il 27,04%, quasi uno su tre, è «inappropriato». Dato persino in leggera crescita rispetto all'anno precedente. Detto così non fa ancora effetto, ma in termini assoluti si tratta di oltre 1,3 milioni di ricoveri che si sarebbero potuti evitare se ci fosse un'assistenza territoriale in grado di farsi carico dei casi meno urgenti e complessi. L'altra piaga è quella dello spezzatino dei reparti, attuato più per conservare il posto ai primari che non per la sicurezza del ricoverato, visto che questa va a farsi benedire quando si fanno pochi interventi l'anno, perché gli errori poi chiaramente aumentano.

Prendiamo il by-pass coronarico. Un decreto ministeriale indica che sotto 200 interventi l'anno è meglio chiudere o accorpare, ma solo il 33% delle strutture rispetta lo standard di sicurezza. Stesso discorso per il tumore della mammella, dove è oltre la soglia di sicurezza solo il 16%, mentre lo standard di mille parti l'anno è rispettato solo da 142 punti nascita su 500. Inefficienze che spetterebbe ai manager sanitari nominati la politica rimuovere. Se la politica badasse a questi e non ad altri parametri di giudizio.

Pa. Ru. Per la Stampa il 28 dicembre 2022.

Prima una manina che sfila dal pacchetto degli emendamenti del governo quello messo lì dal ministro della Salute, Orazio Schillaci, per rifinanziare con appena 10 milioni il Piano oncologico per il 2023, altrettanti l'anno successivo. Soldi che servono per prevenzione, diagnosi e assistenza di 3,5 milioni di malati di cancro. Poi la stessa mano, lesta, fa sparire l'altro emendamento annunciato sempre dal titolare della salute: 200 milioni di indennità speciale a medici e infermieri del pronto soccorso.

Che lavorano come pochi, non fanno attività privata, hanno quindi redditi inferiori a molti loro colleghi e per questo sono in fuga dalla prima linea dell'emergenza-urgenza. «Il vero problema è che i giovani da avviare alle scuole di specializzazione non sono più attratti da quelle come medicina di emergenza e urgenza o anestesiologia, per cui dobbiamo cercare di rendere più attrattive queste specialità», dichiarava qualche giorno fa Schillaci a La Stampa. Un segnale di attenzione verso i medici sull'orlo di una crisi di nervi che alla fine non si è visto. 

È proprio dai particolari che si misura la differenza tra gli annunci elettorali e la realtà della "Melonomics" (la politica economica del nuovo governo) applicata alla sanità. «Sviluppo della sanità di prossimità e territoriale; incremento dell'organico di medici e operatori sanitari; estensione delle prestazioni esenti da ticket» e perfino «aggiornamento del piano oncologico»: è il programma sanitario del centrodestra, ma potrebbe essere attribuito anche alla sinistra. 

Il problema è che poi in manovra dei 2,2 miliardi in più di finanziamento restano appena 800 milioni perché 1,4 se ne vanno per il caro bollette. E con quello zero virgola qualcosa del fondo sanitario bisogna recuperare decine di milioni di prestazioni saltate con il Covid, arginare la fuga dei medici dagli ospedali, assumere personale nelle case e negli ospedali di comunità: le prime destinate a far filtro rispetto agli ospedali, facendo lavorare in team medici di famiglia, specialisti e infermieri, i secondi per dare una risposta ai pazienti fragili che non hanno più bisogno di restare in corsia ma nemmeno possono essere abbandonati a casa senza assistenza. «Con la necessità di aiutare famiglie e imprese stritolate da inflazione a caro bollette sinceramente non si poteva fare di più» si difende il ministro Schillaci.

Attento a ricordare che «la sanità è stata definanziata dal 2013 al 2019, mentre qui abbiamo il maggior rifinanziamento di sempre: 4,2 miliardi in più, considerando quelli già programmati» dal governo Draghi. Una conta che non convince più di tanto le Regioni, che lamentano un buco di 3,8 miliardi per maggiori spese pregresse per Covid e caro energia non coperte dal governo. 

Ma il ragionamento di Federico Spandonaro, economista sanitario dell'Università San Raffaele di Roma, esperto tra i più accreditati, oltre che direttore del Cergas, si basa su altri numeri.

«Dal Duemila ad oggi la nostra sanità ha viaggiato a un ritmo di crescita della spesa del 2,8% l'anno contro il 4,2% in media degli altri Paesi Ue e questo ha comportato una costante crescita della spesa sanitaria privata con conseguente riduzione del livello di equità del sistema di protezione». Il problema per Spandonaro non è tanto se si poteva o meno fare di più, «quanto il fatto che il Paese nel suo insieme non cresce, per via dell'enorme sommerso. Quindi bisognerebbe recuperare l'evasione e decidere quali settori possono dare un maggior contributo all'aumento del Pil. E uno di questi può essere a mio avviso proprio la sanità». Parole che cozzano con un altro capitolo della "Melonomics", questo sì applicato in pieno, delle sanatorie fiscali. Ben 12 quelle finite in manovra.

«Siamo in una situazione di emergenza e invece la finanziaria risponde con misure ordinarie», rincara la dose Pierino De Silverio, segretario nazionale dell'Anaao, il più forte sindacato dei camici bianchi ospedalieri. «Il Covid ha fatto emergere il disamore dei medici per la sanità pubblica, generato da condizioni di lavoro e retributive sempre in peggioramento. Il nostro contratto 2019-21 è già scaduto e non ci hanno ancora convocato, anche se sappiamo che con 618 milioni sul piatto non si andrà oltre aumenti medi di 80 euro al mese.

Mentre i vuoti in pianta organica costringono medici e infermieri a turni sempre più massacranti e le prospettive di carriera sono state pressoché azzerate dal taglio di ben 7mila unità operative in 10 anni». Poi però «si è avvantaggiato chi lavora a gettone nelle cooperative estendendo la flat tax fino a 85mila euro di reddito. Il dubbio che si voglia spostare la sanità verso il privato c'è». Anzi, per De Silverio «è già realtà, visto che oggi il 54% degli italiani si cura privatamente». E a chi non può permetterselo non resta che rivolgersi alla provvidenza. Come quando la parola welfare non esisteva. Pa. Ru.

La sanità italiana è al collasso: ma ecco cosa succede in Germania, Francia e Spagna. Alessandro Trocino su Il Corriere della Sera il 16 Dicembre 2022

In 10 anni, nella sola Lombardia, sono stati chiusi 111 ospedali e 13 pronto soccorso, e ci sono 29 mila medici in meno. Trovare un medico di base è complicatissimo in diverse zone d’Italia, e i pronto soccorso sono al collasso. Ma perché? E cosa succede nel resto d’Europa?

La sanità italiana non è forse mai stata così malata.

Il Covid ha messo in luce il grave deficit della medicina territoriale in una delle Regioni che sembrava più attrezzata, la Lombardia. In 10 anni sono stati chiusi 111 ospedali e 13 pronto soccorso. Rispetto al 2012 ci sono 29 mila medici in meno. Il pensionamento anticipato (nei prossimi cinque anni andranno a casa in 41 mila) e il mancato ricambio hanno dato origine a quel fenomeno deprecabile che sono i medici a gettone .

Trovare un medico di base è ormai quasi impossibile in alcune zone d’Italia e i pronto soccorso sono al collasso.

I dati lo confermano: tra ospedale e territorio, mancano più di 20mila medici, 4.500 nei pronto soccorso, 10 mila nei reparti ospedalieri, 6 mila medici di medicina generale. Se ne è parlato molto sui giornali (sulla Rassegna Stampa del Corriere, da cui è tratto anche questo articolo e che gli abbonati possono ricevere ogni giorno, abbiamo pubblicato un pezzo eloquente di Margherita De Bac) e tra la gente, disorientata per il degrado del sistema e per l’allungamento dei tempi di interventi e visite.

Molto meno nella politica, più preoccupata di ragionare su tetto di contanti e su altre amenità identitarie e ideologiche piuttosto che di questioni centrali come questa.

A Roma hanno manifestato sette sindacati di categoria, mentre il ministro Orazio Schillaci ha promesso aumenti di stipendi. Ma la spesa sanitaria programmatica si sta riducendo sotto il 6,6% del Pil, che per l’Ocse è il limite sotto il quale il sistema rischia il collasso.

Colpa di venti anni di disinteresse, per i quali dovrebbero fare mea culpa diversi governi e partiti, di destra e di sinistra. Ma anche il governo attuale, per ora, non sembra avere colto l’urgenza della situazione.

E l’Europa come sta?

Un’inchiesta del Guardian consente di guardare il fenomeno in una dimensione più larga e di scoprire che la sanità vive un momento difficile in tutta Europa. Le cause, oltre alle politiche nazionali, sono note: l’invecchiamento della popolazione, l’aumento delle malattie a lungo termine, la crisi di reclutamento e di mantenimento del personale e l’effetto Covid e post-Covid. Una combinazione di fattori che chiedono una reazione urgente dei governi e dei Parlamenti.

Qualche dato, per capire.

In Francia ci sono meno medici rispetto al 2012. Più di 6 milioni di persone, tra cui 600.000 con malattie croniche, non hanno un medico di base regolare e il 30% della popolazione non ha un accesso adeguato ai servizi sanitari.

In Germania, l’anno scorso sono rimasti vacanti 35.000 posti nel settore sanitario, il 40% in più rispetto a un decennio fa, mentre un rapporto di quest’estate sostiene che entro il 2035 più di un terzo di tutti i posti di lavoro nel settore sanitario potrebbe non essere coperto.

In Spagna, a maggio il ministero della Salute ha dichiarato che più di 700.000 persone erano in attesa di un intervento chirurgico e 5.000 medici di base e pediatri di Madrid sono in sciopero da quasi un mese per protestare contro anni di sottofinanziamento e sovraccarico di lavoro.Secondo un rapporto della sezione europea dell’Oms, in un terzo dei Paesi del continente almeno il 40% dei medici ha più di 55 anni. Anche quando i medici più giovani hanno continuato a lavorare nonostante lo stress, i lunghi orari e la retribuzione spesso bassa, la loro riluttanza a lavorare in aree remote o in centri urbani degradati ha creato «deserti medici» che si rivelano quasi impossibili da riempire. «Tutte queste minacce rappresentano una bomba a orologeria che potrebbe portare a risultati sanitari scadenti, lunghi tempi di attesa, molti decessi evitabili e potenzialmente anche al collasso del sistema sanitario», ha avvertito Hans Kluge, direttore regionale dell’Oms per l’Europa.

Il caso dei medici di base

Prendiamo i medici di base. La Francia ha una situazione particolarmente difficile. Già nel 1971 ha imposto un tetto al numero di studenti di medicina del secondo anno, attraverso il numero chiuso, con l’obiettivo di tagliare la spesa sanitaria e aumentare i guadagni.Il risultato è stato un crollo del numero di studenti annuali - da 8.600 all’inizio degli anni ‘70 a 3.500 nel 1993 - e anche se da allora le assunzioni sono aumentate un po’ e il tetto è stato tolto del tutto due anni fa, ci vorranno anni prima che la forza lavoro si riprenda.

L’anno scorso i medici più anziani che hanno abbandonato la professione sono stati più numerosi dei nuovi arrivati, che erano comunque il 6% in meno rispetto a dieci anni fa. C’è un problema sul territorio, visto che lontano dalle città e nella Francia più rurale le difficoltà aumentano. «Di fatto, l’87% della Francia potrebbe essere definito un deserto medico», ha detto il mese scorso il ministro della Salute Agnès Firmin Le Bodo.

La Germania è il Paese che spende per l’assistenza sanitaria più di qualsiasi altro Paese al mondo.

Eppure è in crisi.

Il sistema è imploso con lo scoppio del virus respiratorio dei bambini, con pazienti che hanno viaggiato centinaia di chilometri per essere curati. Più di 23.000 posti rimangono scoperti negli ospedali tedeschi dopo diversi anni di scarse assunzioni e recenti dimissioni di massa, soprattutto nelle terapie intensive e nelle sale operatorie, da parte del personale che lamentava carichi di lavoro estremi.

In Spagna non va meglio. A Madrid, a metà novembre, almeno 200.000 persone sono scese in piazza per difendere l’assistenza sanitaria pubblica dalla privatizzazione strisciante e per esprimere preoccupazione per la ristrutturazione del sistema di assistenza primaria da parte del governo regionale.

Il Guardian cita anche l’Italia: «Anche il servizio sanitario pubblico italiano deve far fronte a gravi carenze di personale, aggravate dalla pandemia, che ha innescato un esodo di personale che è andato in pensione anticipata o è passato a ruoli nel settore privato. Le amministrazioni regionali hanno stipulato contratti con medici freelance per coprire i turni in ospedale quando necessario, evidenziando i bassi stipendi del settore sanitario pubblico italiano».

«Ci sono buchi che devono essere riempiti ovunque, soprattutto nelle unità di emergenza», spiega al Guardian Giovanni Leoni, vicepresidente di una federazione di medici italiani. «Il problema è che i liberi professionisti guadagnano da due a tre volte di più, fino a 1.200 euro per un turno di 10 ore».

SANITÀ INQUINATA. Angelo Vitolo su L’Identità il 29 Dicembre 2022

Un sistema sanitario che contribuisce alle emissioni climalteranti e, in definitiva, all’inquinamento del nostro pianeta? Una questione non solo italiana, che un recente studio ha analizzato. Ne sono autori gli 11 componenti di un team che ha pubblicato l’Opinion Article “Decarbonization of the Italian healthcare system and European funds. A lost opportunity?”.

“Primum non nocere”, principio fondamentale della pratica medica, apre la loro introduzione. Così non è, se rapporti di studio dimostrano che il settore sanitario contribuisce in modo determinante al cambiamento climatico, come l’Health Care’s Climate Footprint Report che tre anni fa evidenziava che l’impronta climatica dei sistemi sanitari mondiali è pari a 514 centrali elettriche a carbone, il 4,4% delle emissioni globali di gas serra. E quindi se il sistema sanitario globale fosse considerato un unico Paese, sarebbe il quinto più grande responsabile di questo inquinamento della Terra. Da qui l’urgenza di questo tema nell’agenda globale. Perciò il Consiglio delle accademie europee e la Federazione delle accademie europee di medicina hanno recentemente invocato l’urgente necessità che il sistema sanitario raggiunga obiettivi ambiziosi di decarbonizzazione in tutta l’Unione europea e oltre.

In questo quadro, il sistema sanitario italiano – come sottolinea l’Opinion Article – ha un’impronta pari al 4% dell’impronta nazionale ma, nonostante il via ad investimenti nella transizione ecologica e a policy di efficientamento energetico delle infrastrutture sanitarie a partire dagli ospedali, evidenzia un PNRR che non menziona esplicitamente il sistema sanitario riguardo alle emissioni climalteranti. Tutto questo, in un Paese ove l’82% delle costruzioni è stato realizzato prima del 1990 e il 58% prima del 1970, quindi prima della legge 10 del 1991 attraverso la quale l’uso razionale dell’energia ha cominciato a essere significativamente regolato.

“L’Italia – dice la farmacologa Silvia Ussai, coautrice dell’articolo – si trova in un’occasione unica per investire in un cambiamento del proprio sistema sanitario tramite il PNRR. Poiché si prevede che il contributo del sistema sanitario alla crisi climatica crescerà ulteriormente nei prossimi anni, è necessario avviare e rendere prioritarie politiche specifiche di decarbonizzazione in questo settore, adottando linee guida già esistenti a livello nazionale ed europeo”. “Una di queste misure – precisa – potrebbe essere quella utile a garantire lo sviluppo del sistema di monitoraggio previsto dal Decreto Ministeriale 77, per indirizzare gli interventi sulla prevenzione integrata, strettamente legata all’assistenza sanitaria di tipo comunitario”.Con policy, questo l’auspicio, che dovrebbero riguardare la catena di fornitura sanitaria e le sue emissioni dirette e indirette, la formazione professionale, la governance e i modelli di finanziamento. silvia Ussai lo ribadisce: E’ necessario pensare ad infrastrutture – esistenti e future – efficienti dal punto di vista energetico, oltre che attuare politiche di risparmio e ottimizzazione dell’energia, ad esempio, con l’utilizzo di lampadine a led. Un ulteriore tema molto impattante è la prevenzione dei rifiuti alimentari e l’adozione di diete sane, stagionali e sostenibili all’interno degli ospedali. Inoltre, l’Italia continua a soffrire sotto il profilo della gestione sostenibile dei rifiuti sanitari: oggi, il 30% delle strutture sanitarie non è attrezzato per gestire i carichi di rifiuti esistenti”.

Paolo Russo per “la Stampa” il 29 Dicembre 2022.

«Con la presente si comunica che al momento non sono più disponibili barelle per garantire l'osservazione dei pazienti nel dipartimento di emergenza e accettazione», dispaccio delle tre di notte del 27 dicembre dell'ospedale Maria Vittoria di Torino. «Sette pazienti in area rossa piena. Non disponibili posti monitor», stesso giorno, stessa città, "Ordine Mauriziano Umberto I". 

Il grande imbuto della nostra sanità malata. Dove il territorio fa poco filtro. Che conta 40 mila letti tagliati in 10 anni che rendono un'impresa trovare posto in reparto a pazienti lasciati anche giorni e giorni su scomode e affastellate lettighe nelle astanterie o nei corridoi.

 Con la conseguenza che poi finiscono per restare bloccate nei parcheggi anche le ambulanze che senza barella non possono partire. Il tutto reso più drammatico da una carenza cronica di personale. Mentre chi resta, stanco e demotivato, pensa alla fuga. Magari per andare a far soldi nelle cooperative che poi affittano a gettone gli stessi camici bianchi pagati però quattro volte tanto i dipendenti.

Il pronto soccorso non è solo la prima linea della nostra Sanità, ma è anche l'emblema dei suoi mali atavici. Anche se quando questi si riversano dove a volte si lotta per la vita le conseguenze diventano tragiche. Simeu, la Società scientifica della medicina di emergenza e urgenza dalla ricognizione di studi internazionali in materia, stima un aumento del 30% della mortalità quando i dipartimenti di emergenza sono affollati. 

E la stessa causa è correlabile a incidenti ed errori nei pronto soccorso, dove «l'affollamento è associato a ritardi nel riconoscimento e nel trattamento di condizioni a elevato rischio evolutivo, come infarto miocardico, ictus cerebrale, polmoniti», riporta un documento della stessa società scientifica. 

Nei nostri pronto soccorso mancano di fatto 3 medici su dieci e solo il 58% dei camici bianchi che ci lavorano è un dipendente. Gli altri vengono pescati qua e là tra i medici convenzionati, che specialisti non sono. Oppure si fa ricorso sempre più massicciamente alle cooperative che affittano i medici a gettone, con tariffe orarie da tre a sei volte superiori a quelle dei loro colleghi interni. 

Tanto che Giuseppe Busia, presidente dell'Anac, l'Authority anticorruzione, tempo fa ha preso carta e penna per sollecitare al titolare della Salute Schillaci e al ministro dell'Economia Giorgetti un decreto che faccia chiarezza sull'utilizzo dei gettonisti, fissando dei criteri che stabiliscano prezzi congrui. Perché secondo Simeu sono oramai 15mila i medici in affitto che erogano 18 milioni di prestazioni l'anno nei nostri ospedali. Spesso giovani neo laureati senza specializzazione alle spalle.

O magari ortopedici spediti in rianimazione piuttosto che cardiologi alle prese con fratture. Pagati fino a 90 euro l'ora mentre ai dottori dipendenti per fare prestazioni aggiuntive se ne danno 60, che diventano poi 40 netti. Controsensi di una programmazione sanitaria che fa acqua da tutte le parti. 

«Ma più ancora della carenza cronica di personale -spiega Fabio De Iaco, presidente Simeu- il problema è quello dell'uso improprio del pronto soccorso, perché arrivano da noi pazienti che non vengono filtrati dal territorio e, soprattutto, il fenomeno diffusissimo del bording. Ossia dei pazienti assistiti da noi anche per giorni in lettiga perché nei reparti non ci sono letti disponibili».

E in queste condizioni finisce per ritrovarsi anche chi dovrebbe avere assistenza in un hospice o in casa propria. «E se proprio devono finire in ospedale che almeno abbiano il diritto di andarsene non da soli su una barella, ma nel letto di un reparto, stringendo la mano dei propri cari», ci tiene a dire De Iaco. 

Ma troppo spesso non è così. Perché il medico di famiglia non si trova, la guardia medica si limita a consigliare di chiamare il 118 e così l'imbuto del pronto soccorso si ingolfa sempre più. La controprova viene dal fatto che, dove ci sono medicina di gruppo o case della salute aperte tutto il giorno i codici bianchi e verdi si riducono ai minimi termini. Anche se non pochi di questi sono di chi al pronto soccorso ci va non perché ne abbia bisogno, ma per non pagare il ticket e saltare le liste di attesa.

Ad aggravare il tutto c'è poi la conseguenza dei tagli selvaggi ai posti letto subiti dai reparti. Così in attesa di «salire in reparto» si passa fino a una settimana nell'astanteria di un pronto soccorso, ha rilevato un'indagine del Tribunale dei diritti del malato. In questo modo però medici e infermieri invece di affrontare le emergenze finiscono per sostituirsi ai vari specialisti, facendosi carico di assistenza e accertamenti diagnostici. 

Un sovraccarico di lavoro che costringe a saltare i turni di riposo, a fare in media sette notti al mese, il tutto per uno stipendio base che è di 2.800 euro quando parliamo di medici, di 1.500 per gli infermieri. Che arrivano poi a 1.900, ma dopo 30 anni.

«Spero di riuscire ad anticipare al prossimo anno i 200 milioni stanziati dalla manovra per il personale dei pronto soccorso», aveva detto alla vigilia delle votazioni sulla manovra il ministro Schillaci. Ma l'emendamento non è stato nemmeno sottoposto al voto. 

Così non ci si può poi stupire se i più dal pronto soccorso fuggano. E nemmeno a dire che ci siano chissà quali giovani leve pronte a rimpiazzare chi lascia. L'ex ministro Speranza nel tentativo di tamponare questa emorragia aveva portato il numero di accessi ai corsi di specializzazione a 1.100, ma il 61% dei posti non è stato assegnato perché nessuno si è presentato, documenta un'indagine del sindacato medico Anaao.

Intanto più del 50% dei malati che necessitano di una risposta urgente aspetta per non meno di 9 ore in sala d'attesa. Anche se in alcune realtà, rileva un'altra indagine del Tribunale dei diritti del malato, si superano i tre giorni. Esperienza vissuta nell'ultimo anno da 300mila assistiti, intrappolati nell'imbuto dei pronto soccorso, specchio di una sanità da riformare.

Malati cronici, 10 anni per avere una diagnosi. Redazione L'Identità il 14 Dicembre 2022

Ci vogliono dieci anni, a un malato di patologie croniche su tre, per ottenere una diagnosi. Un paziente su quattro è costretto a spostarsi altrove per potersi curare. Questi sono alcuni dei dati che Cittadinanzattiva ha diffuso, ieri, nel rapporto sulle politiche della cronicità. Un quadro allarmante a cui la pandemia Covid ha dato la mazzata finale allungando le liste d’attesa e, per un malato su due, i temi per esami clinici necessari non solo per la diagnosi ma per valutare l’andamento della situazione di salute.

Si tratta di un problema che affligge una parte di popolazione ben più vasta di quella che potrebbe sembrare. Secondo l’Istat, infatti, ben quattro italiani su 10 soffrono “di almeno una malattia cronica” e due su 10 “di due o più malattie croniche”. Le stime parlano di circa due milioni di cittadini affetti da malattie rare, moltissimi dei quali in età pediatrica.

Tra i cittadini intervistati (871 pazienti e ottantasei presidenti di associazioni di malati e famiglie), è emerso che oltre il 26% è in cura per una patologia (cronica o rara) diagnosticata da più di 20 anni; il 19% da 11 a 20 e da 6 a 11 anni, il 18,5% da 3 a 5 anni. Il rapporto ha evidenziato “come più di un paziente su 3 ha atteso oltre 10 anni dalla comparsa dei primi sintomi alla diagnosi e quasi uno su 5 da 2 a 10 anni. I motivi dei ritardi nella diagnosi sono, per 2 pazienti su 3, la scarsa conoscenza della patologia da parte del medico di famiglia o del pediatra; per oltre la metà la sottovalutazione dei sintomi; per il 45% circa la mancanza di personale specializzato sul territorio, e per quasi il 26% le liste di attesa”.

Non è finita qui. Stando ai dati contenuti nel rapporto Cittadinanza attiva: “Solo il 39% di coloro che ha una patologia rara è in cura presso un centro che parte della rete delle malattie rare, istituita nel 2001; il 28% non sa se il centro fa parte o meno di una rete di malattie rare; il 18% dice che non ne fa parte, e il 14% non è in cura presso nessun centro”. Insomma, si legge nel rapporto: “Oltre il 60% dei malati rari non riceve cure standardizzate sul territorio e un ulteriore 17,5 per cento si affida a un centro privato. Inoltre, circa il 27% è costretto a spostarsi presso un’altra regione: il 38% dichiara di migrare per ricevere le cure di cui ha bisogno verso la Lombardia, il 14% verso il Lazio, la Liguria e la Toscana, il 9,5% verso l’Emilia Romagna, e circa il 5% verso Campania e Veneto”.

Il turismo sanitario è solo uno, seppur tra i più rilevanti, indicatori delle disparità e dei divari territoriali esistenti: “Il grido di allarme delle associazioni riguarda poi le disuguaglianze sul territorio, dove la salute non è uguale per tutti”, denuncia Cittadinanzattiva. E dunque: “ Per oltre l’80% delle associazioni le disparità fra i territori si annidano nella modalità di gestione delle prenotazioni e dei tempi di attesa; per il 78,6% nella garanzia di un sostegno psicologico e nelle differenze nel riconoscimento di invalidità, accompagnamento e handicap; per circa il 76% nella presenza o meno di centri specializzati e di rete; per il 73% nella diffusione a macchia di leopardo dei servizi di telemedicina, teleconsulto, monitoraggio online; per la stessa percentuale nella presenza di percorsi di cura o Pdta, e per il 50% nell’accesso all’innovazione”.

Sanità, chi usa male i nostri dati e perché. Le assurdità che paghiamo tutti. Milena Gabanelli e Simona Ravizza su Il Corriere della Sera il 14 dicembre 2022.

Quando parliamo della nostra salute incrociare i dati è fondamentale. Per ciascuno di noi sarebbe molto importante avere un rapido accesso dal computer alle informazioni su esami e visite, tra specialisti diversi o in altre Regioni senza dovere ripetere inutilmente i controlli medici o portarci dietro ogni volta plichi di documenti. A livello collettivo incrociare i dati serve per individuare su larga scala in quanti soffrono di che cosa, con quali fattori di rischio, e quali cure possono essere più efficaci in base a N varianti. E tutto ciò è indispensabile anche per fare una buona programmazione sanitaria valutando come il Ssn risponde a chi ha bisogno di cosa.

Casi concreti

Qualche esempio per capire meglio. Individuare in tempo reale se chi finisce in ospedale per il Covid ha delle patologie pregresse mi permette di stabilire in modo rapido chi il virus colpisce di più e l’efficacia del vaccino: gli studi eseguiti durante la pandemia sono stati possibili solo con un decreto ad hoc e in ogni caso senza riuscire a sapere prima le comorbilità di ogni singolo paziente (soprattutto di quelli non vaccinati).

Una donna su 8 nel corso della propria vita si ammala di cancro al seno. L’intervento chirurgico tempestivo può essere salva-vita. E quindi per capire i buchi del Servizio sanitario e correggerli è utile sapere quanto tempo passa dalla diagnosi all’intervento. Ma le strutture private non hanno obbligo d’informazione e il dato sulle mammografie a pagamento manca.

Prendiamo il caso dei 3,5 milioni di donne e uomini con il diabete. Le informazioni oggi a disposizione sono contenute nell’anagrafe assistiti, nelle schede di dimissione ospedaliera, negli accessi al Pronto soccorso e nei registri sui farmaci. In questi flussi di dati sanitari manca il valore della pressione arteriosa, importante da sapere per capire su larga scala come può incidere sulla malattia ed evitare che si aggravi. Questi valori sono contenuti nei registri clinici dei diabetologi e dei medici di medicina generale: ma questi sistemi non si parlano tra loro e non si parlano con gli altri citati.

Degli 800 mila malati di Parkinson non si sa praticamente nulla di quelli ricoverati nelle residenze protette e sui risultati della riabilitazione. I dati ci sono ma non sono collegati alle altre informazioni in possesso della Sanità pubblica.

E la lista può continuare. Tutti i dati che servirebbero ci sono. Ma non sempre sono di buona qualità e soprattutto non siamo in grado di utilizzarli al meglio. Vediamo perché.

Perché succede

I dati amministrativi su chi siamo sono contenuti nella tessera sanitaria elettronica che fa attualmente da anagrafe degli assistiti e fa capo al Mef. Le informazioni sulla nostra salute come analisi del sangue, esami diagnostici, referti istologici, visite specialistiche, ricoveri in ospedale e accessi al Ps dovrebbero essere contenuti nel Fascicolo sanitario elettronico da 10 anni, ma finora non ha funzionato perché i dati introdotti sono pochi, non sono inseriti in modo omogeneo perché i sistemi informativi aziendali sono diversi e spesso molto arretrati (manuali, fogli Excel, fotografie, pdf) e ogni Regione va per conto suo (qui l’inchiesta di Dataroom): solo di recente con l’intervento dei ministeri di Salute, Transizione digitale e Mef del governo Draghi la situazione stava migliorando (il Pnrr stanzia 1,38 miliardi per adottare un unico sistema informatico sanitario nazionale e dare alle Regione gli strumenti e le competenze necessari a caricare davvero i dati clinici dei pazienti e condividerli tra medici, ospedali pubblici e privati accreditati).

La cartella clinica elettronica non è usata ovunque e dove viene usata ogni ospedale può avere la sua, così come ogni medico (medici di medica generale o specialista) e non sempre sono raccolte in un archivio, cioè sono usate solo per la cura del singolo paziente.

Le schede di dimissione ospedaliera, gli accessi al Ps, i certificati di assistenza al parto sono contenuti nel cosiddetto Sistema informativo nazionale (Sis) che fa capo al ministero della Salute.

Le cause di morte sono contenute nei registri dell’Istat che le ricevono dalle Asl (solo in alcune Regioni è attivo il registro di mortalità per causa).

Le prescrizioni farmaceutiche sono monitorate direttamente dal ministero della Salute, con l’eccezione dei farmaci ad alto costo monitorati direttamente dall’Aifa. L’Aifa è in realtà un ente vigilato dal ministero della Salute e dal Mef quindi lavora su loro mandato, ma con una grande autonomia che a volte rende difficile lo scambio delle informazioni.

I registri di patologia sono tenuti dall’Istituto superiore di Sanità.

Le banche dati di genomica sono gestite dalle Società scientifiche e alcune anche dall’Istituto superiore di Sanità.

Studi con dati limitati

Il problema è che non tutti i sistemi informativi comunicano tra di loro oppure lo fanno con difficoltà. I vari database sono stati attivati in tempi diversi, con sistemi di codifica differenti e linguaggi informatici diversi. Non sempre è presente un codice univoco, come il codice fiscale o un altro codice che permette di mantenere l’anonimato, ma di identificare in modo inequivocabile quel determinato soggetto in modo da tracciarne gli accessi alle cure senza violarne l’identità. La conseguenza è che oggi le informazioni sull’efficacia sul campo delle cure, sui rischi di chi può vedere peggiorare la propria malattia e perché, e sulla capacità del Ssn di rispondere ai bisogni della popolazione sono parziali, sono affidati a ricerche singole, su periodi di tempo limitati, e su gruppi di soggetti selezionati.

Cosa bisogna fare

Il Consiglio superiore di Sanità con un gruppo di lavoro multidisciplinare molto qualificato coordinato da Paolo Vineis (qui il documento) propone uno schema di riforma dei sistemi informativi sanitari in modo da superare la loro frammentarietà e i linguaggi informatici diversi unificandoli in un «sistema dei sistemi». La sua realizzazione spetta al Governo e riguarda tutti noi.

Circolazione dei dati

Una riforma che deve essere accompagnata anche dalla possibilità di una maggiore circolazione dei dati sanitari oggi stoppata dall’Autorità del garante della Privacy in base a norme di 20 anni fa che non possono più considerarsi in linea con l’Ue (qui il documento). Per dire: oggi degli scienziati se vogliono studiare l’appropriatezza e la sicurezza a lungo termine nella pratica clinica di un farmaco su categorie di pazienti che si sono curati 10 anni fa e che hanno dato il consenso non solo al trattamento terapeutico ma anche all’uso dei propri dati, devono fare ogni sforzo possibile per ottenere per ogni singolo nuovo studio l’autorizzazione specifica del singolo partecipante e da parte dell’Autorità Garante con una trafila infinita che fa perdere la voglia a chiunque. E se il Garante non si esprime entro 45 giorni vale la regola del silenzio-dissenso. È urgente trovare un equilibrio tra la necessità di garantire la privacy e quella di avere risposte rapide indispensabili per la Salute pubblica.

Il delitto di San Donato Milanese. Aggredito con un’accetta nel parcheggio del Policlinico San Donato, morto il medico Falcetto: dubbi sulla versione del killer. Redazione su Il Riformista il  14 Dicembre 2022

È morto in serata, quando le sue condizioni già critiche sono ulteriormente peggiorate. È deceduto all’ospedale San Raffaele di Milano il medico chirurgo Giorgio Falcetto, 76 anni colpito alla testa con un’accetta nel parcheggio del Policlinico San Donato martedì 13 dicembre.

L’aggressore, un 62enne pregiudicato per truffa e porto d’armi, era stato identificato e sottoposto a fermo immediatamente dopo il fatto dai Carabinieri della Compagnia di San Donato Milanese.

La vittima, in pensione ma che lavorava ancora come chirurgo nel pronto soccorso del San Donato, era stato sottoposto già ieri a due interventi d’urgenza per le profondissime lesioni causate dai fendenti scagliati dal suo aggressore.

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Quest’ultimo dopo una breve caccia all’uomo era stato fermato nei pressi della sua abitazione a Rozzano, a una ventina di chilometri di distanza da dove è avvenuta la brutale aggressione.

Sentito dai carabinieri, il 62enne aveva ammesso le sue responsabilità, anche se nell’ambito di un racconto confuso dei fatti agli inquirenti. I due, secondo quanto raccontato, si conoscevano: “Sì che lo so chi è il dottore. Mi aveva fatto una flebo quattro mesi fa“, avrebbe detto ai carabinieri della compagnia di San Donato che lo hanno interrogato, scrive Repubblica, ma a quanto pare il “problema” di cui soffriva il 62enne “non era stato risolto” da Falcetto.

Ma l’analisi della documentazione sanitaria eseguita dai carabinieri non ha dato riscontro di questo fatto. Non torna anche la circostanza sulle motivazioni della sua visita al Policlinico: non sono emersi appuntamenti per visite ambulatoriali né una registrazione al triage del pronto soccorso.

Il 62enne ha ammesso di aver colpito Falcetto al culmine della banale lite dopo aver tamponato in retromarcia con la sua auto quella del chirurgo biellese. “Ho urtato per sbaglio in retromarcia la sua auto parcheggiata – ha confessato – Lui è uscito e abbiamo iniziato a discutere. Poi non ci ho capito più nulla e l’ho colpito”, spiegando così di averlo colpito alla testa con l’arma da taglio dopo una lite per motivi di viabilità.

L’arma del delitto è stata rinvenuta dai militari nella cantina del suo appartamento di Rozzano. I carabinieri lo avevano poi fermato per tentato omicidio e portato a San Vittore in attesa della convalida: il reato però cambierà in omicidio dopo la morte del chirurgo.

Il killer del medico Giorgio Falcetto e la visita due anni fa: «Quelle flebo mi hanno rovinato la vita». Cesare Giuzzi e Pierpaolo Lio su Il Corriere della Sera il 16 Dicembre 2022.

Trovato il referto di un controllo di Benedetto Bifronte in pronto soccorso. La lite nel parcheggio: «L’ho rivisto e ho perso la testa, ho pensato a tutto quello che mi aveva fatto»

«Mi ha rovinato la vita». Sono da poco passate le 15.30 di martedì, e Benedetto Bifronte, davanti ai carabinieri della compagnia di San Donato che lo hanno fermato per l’aggressione al dottor Giorgio Falcetto, avvenuta poche ore prima, prova a dare un senso alla furia che nel parcheggio del Policlinico di San Donato ha riversato con un’accetta contro il medico 76enne, che morirà dopo 36 ore di agonia. Lo accusa di avergli fatto in una precedente visita «due flebo» che gli avrebbero causato «vari e gravi problemi di salute»: «A causa di queste due flebo — racconta il 62enne residente a Rozzano — ho sempre mal di testa e nausea».

Per quasi due giorni, di quel «precedente» tra assassino e vittima non si trova traccia. Il riscontro arriva giovedì mattina, quando negli uffici della struttura sanitaria i militari trovano il referto di una vecchia visita. È del 2 febbraio del 2021: Bifronte si presenta in pronto soccorso attorno a mezzogiorno. A visitarlo è Falcetto. Il 62enne lamenta di far fatica a respirare. «Stato di agitazione e riferito dolore toracico con dispnea», racconta la cartella clinica scovata dagli investigatori del Reparto operativo dei carabinieri, guidato dal colonnello Antonio Coppola, e della compagnia di San Donato. La diagnosi finale, però, dice altro: «Cervicalgia e influenza, non Covid», con una cura da seguire e sette giorni di prognosi.

Anche l’altro giorno, il 62enne originario di San Fratello nel Messinese ma da anni residente a Rozzano, una ex moglie e un figlio 30enne che gestisce un bar nel Pavese e in passato vecchi precedenti per truffa e armi, si è alzato dal letto con dolori: «Stamattina mi sono svegliato con un dolore al petto e avevo la pressione alta», mette a verbale dopo l’omicidio. È il motivo per cui Bifronte, alle 10 di martedì mattina, si trova con la sua Alfa 147 blu nel parcheggio del pronto soccorso. Constata però che c’è troppa attesa da fare, e decide di uscire senza farsi neanche registrare.

È però davanti all’ingresso che vede (e riconosce, pur affermando di non saperne il nome) il medico giudicato la causa dei suoi recenti mali. Si scatena quindi un primo diverbio, dopo il quale Bifronte cerca di allontanarsi in auto ma urterebbe accidentalmente proprio la Chevrolet Aveo bordeaux del dottor Falcetto, scatenando — nella versione fornita dal 62enne subito dopo l’arresto — l’accesa reazione della vittima: «Ero tranquillo ma il medico era agitato». È a quel punto che «ho pensato a tutto quello che mi aveva fatto», prosegue Bifronte: «Ho perso la testa. Sono tornato alla macchina, ho aperto il bagagliaio e ho preso un’accetta con cui l’ho colpito alla fronte».

Un racconto a tratti confuso, ancora al vaglio degli inquirenti. Per il gip Chiara Valori, Bifronte — che deve rispondere di omicidio volontario e che ieri si è avvalso della facoltà di non rispondere al giudice — è pericoloso e deve restare in carcere: l’uomo sarebbe violento e incapace di controllare i propri impulsi di aggressività, come dimostrerebbe anche l’arma trasportata nel bagagliaio.  

Terra dei miracoli. In Italia non c’è una cosa che funzioni, non vedo perché la sanità debba fare eccezione. Guia Soncini su L’Inkiesta il 2 Dicembre 2022

Mamme milanesi che si lamentano delle interminabili ore d’attesa al pronto soccorso per il catarro dei figli, ma se il barista medio non sa farti il cappuccino della temperatura giusta e il fattorino medio non ha voglia di fare le scale per consegnarti la cena, per quale motivo medici e infermieri dovrebbero saper fare il loro lavoro?

Potrei partire dall’inverno del 1982 e dalla mia schifa infanzia, ma comincerò invece dall’autunno 2022 e dalle schife infanzie dei vostri figli. Partirò da una serie di tweet di una madre milanese il cui figlio aveva la febbre.

Cronaca di molteplici vane telefonate al pediatra, di ore d’attesa al pronto soccorso con bambini seduti per terra tutti marci di catarro e plausibilmente veicoli di contagio, di questa è Milano signora mia, il tutto con molti tag fotografia del paese reale e della di esso idea di chi siano i risolutori di problemi: Assia Neumann e Report, Myrta Merlino e il comune di Milano.

Sotto, una sleppa di anch’io: anche a me il pediatra privato viene a casa ma quello pubblico no, anche il mio puccettone ha avuto la febbre senza che si mobilitasse il ministro della Sanità, anch’io madre disperata da quando la pediatra come-le-facevano-una-volta è andata in pensione.

Ho letto questa conversazione nella sala d’attesa d’un medico, privatamente retribuito, il quale mi ha visitata con un’ora di ritardo e dopo un quarto d’ora smaniava per concludere la visita. Comunque meglio del medico della mutua (di base, si dice in neolingua) che avevo a Milano, una dottoressa che al terzo minuto in cui le elencavi i tuoi sintomi già stava andando verso la porta per far entrare il successivo paziente della catena di montaggio.

Di recente ho rivisto Il medico della mutua, il film del 1968 in cui Sordi interpretava per la prima volta il dottor Guido Tersilli, all’epoca neolaureato e smanioso di accumulare pazienti non solventi: lo Stato gli avrebbe corrisposto cifre tanto più alte quanti più ne avessero affollato l’ambulatorio. Se ricordo bene nell’ultima scena, che doveva farci capire come ormai il dottor Tersilli fosse diventato avido e disinteressato al benessere dei malati, la sua segretaria gli fissava un appuntamento ogni mezz’ora, poveri pazienti come polli da batteria.

Mi rendo conto che come-si-stava-meglio-nel-Novecento è un’attitudine stucchevole e noiosissima, ma è difficile negare che si stesse meglio quando non eravamo otto miliardi, quando le risorse pubbliche non erano state drenate da gente ipocondriaca quanto me ma determinata a farsi fare gratuitamente tutti gli esami superflui, quando mezz’ora non era un tempo di visita nel quale non puoi sperare neanche se quello specialista lo paghi alcune centinaia di euro.

Il medico della mutua milanese riceveva due pomeriggi a settimana (mai capito cosa facesse il resto del tempo lavorativo che le mie tasse contribuivano a remunerarle, visto che a domicilio abbiamo conferma dalle mamme che non ci vengono neanche in caso di morte imminente), e non sono mai riuscita a farmela passare al telefono: la segretaria di Joe Biden è probabilmente un filtro meno efficace della sua.

Quella di Bologna, non so se perché in mezzo c’è stata la pandemia o perché è giovane e ha più disinvoltura con la tecnologia, un giorno mi ha perfino richiamata: stavo per mettermi a piangere come quando il biondino per cui avevo avuto una cotta per tutte le medie mi dichiarò il suo amore dopo che ero andata a vivere a quattrocento rassicuranti chilometri di distanza.

Purtroppo la giovinezza garantisce familiarità con WhatsApp ma anche una certa qual incapacità di capire alcunché. Il dottore che ho avuto prima di lei sosteneva che il colesterolo a 258 non necessitasse di medicinali (commento mio: ma poverino, è del ‘93, lei si ricorda quant’era scemo a 29 anni?; risposta del mio cardiologo ultrasessantenne: meno di così). A una giovane farmacista (il dramma dei giovani farmacisti inetti potrebbe diventare una grande commedia) ho dovuto spiegare io che no, sul computer a Bologna non le compare la ricetta dell’antibiotico che mi ha scritto un medico romano: la sanità è a gestione regionale, ha fatto di recente le medie, se le ricorda le regioni?

Quand’ero giovane e raccomandata, era tutto più semplice: il medico della mutua era amico di papà, la farmacista era amica di papà, gli specialisti essendo amici di papà non solo ti ricevevano senza appuntamento ma neppure li pagavi. Quando nell’inverno dell’82 il pediatra venne alle undici di sera, appena arrivammo a casa dall’aeroporto, venne perché all’epoca il servizio sanitario nazionale era giovane e tonico, o perché era amico di papà? E quando, dopo dieci giorni di convinzione di tutti – mio padre medico e i quattro primari suoi amici con cui eravamo in villeggiatura africana – ch’io avessi la malaria, spiegò come mai dieci giorni di chinino non mi avessero abbassato la febbre con un icastico «E tu saresti un medico? È varicella», stava forse offrendoci uno squarcio di futuro?

Non è, non vorrei minare le certezze delle mamme di puccettoni con pediatri a chiamata retribuita, neanche un problema di sanità pubblica – che ovviamente è peggio, come tutte le cose illusoriamente gratuite; ma, rispetto a quando sul pianeta eravamo la metà, è peggioratissima anche quella privata. Quest’estate ho dato, a un centro milanese privato, l’equivalente d’un medio stipendio e mezzo per un check-up. A parte l’episodio dell’infermiere Mario, già narrato su queste pagine, mi hanno dimenticata due ore in sala d’attesa, alcuni specialisti erano irritati perché in ritardo per la pausa pranzo e non avevano tempo per ascoltare i miei sintomi, e l’agosto italiano è sacro, quindi i risultati sono arrivati due mesi dopo e gli esami del sangue erano ormai inattendibili e da rifare.

D’altra parte, il barista medio non sa farti il cappuccino della temperatura giusta; il fattorino medio non ha voglia di fare le scale per consegnarti la cena (Just Eat, ancora aspetto il rimborso della sera in cui m’hai lasciata digiuna, ormai due settimane fa); portare i broccoli a domicilio pare sia impresa che richieda un praticantato alla Nasa (Cortilia, ancora aspetto tu mi restituisca i soldi della spesa fradicia e frammista a vetri esplosi, neanche venisse da Beirut, che ti ho rimandato indietro quaranta giorni fa: fai pure con calma); il tassista medio non conosce le strade, l’avvocato medio non conosce i codici, il giornalista medio non conosce la grammatica. Per quale anomalia statistica la sanità dovrebbe invece essere una terra dei miracoli i cui abitanti sanno fare il loro lavoro e in cui tutto funziona come fosse il Novecento e i titoli di studio e le qualifiche professionali significassero qualcosa?

Estratto dell'articolo di Clemente Pistilli per “la Repubblica - Edizione Roma” il 13 dicembre 2022.

Oltre mille pazienti in attesa di ricovero. Il record negativo, da tempo particolarmente temuto perché considerato dai medici dell'emergenza la spia del collasso degli ospedali, ieri nel Lazio è stato raggiunto. Nei pronto soccorso un inferno di barelle, con utenti costretti ad attendere ore ed ore in situazioni di enorme disagio e ambulanze bloccate.

Un girone dantesco verificatosi nonostante la Regione Lazio abbia appena approvato un nuovo piano per evitare il sovraffollamento e specificato in quel documento che chi rischia di più la vita è proprio chi è costretto a lunghe attese nelle strutture di emergenza. «Se superiamo i mille pazienti sono guai», hanno ripetuto a lungo i medici dei pronto soccorso. Ieri a incrociare le dita affinché venisse dato loro presto un posto letto erano ben 1.100 persone.

Una situazione pesantissima soprattutto all'Umberto I. Il boom di ricoveri si è verificato con l'arrivo del primo vero freddo, complice l'influenza, ed è stato caratterizzato da pazienti in gravi condizioni, con insufficienze respiratorie, complicanze appunto dell'influenza e pure un aumento, seppure leggero, di vittime di forme aggressive del Covid. «Sono diminuiti i posti letto mancando medici e viviamo una situazione del genere nonostante non vi sia ancor il picco dei contagi con il virus influenzale, previsto tra Natale e Capodanno», precisa Giulio Maria Ricciuto, presidente regionale Simeu. «Vengono occupati i pronto soccorso - aggiunge - e in questo modo si bloccano anche le ambulanze». 

Il record negativo è stato registrato nonostante il nuovo piano regionale contro il sovraffollamento, dove è specificato che proprio il boarding, l'attesa di un posto letto nelle strutture di emergenza, «influisce in modo «diretto e rilevante sulla efficienza ed efficacia del soccorso extra- ospedaliero e sul rispetto dei tempi target indicati nel nuovo sistema di garanzia». Peggiora insomma il 118, con rischi notevoli per chi è in seria difficoltà e ha bisogno urgente di un'ambulanza. […]

E l'inquietante particolare è evidenziato nello stesso piano regionale, specificando che «i decessi in pronto soccorso richiedono attenzione, perché riguardano nel 55% persone con oltre 12 ore di permanenza» . «Il rischio è alto» , conferma un'autorevole fonte della medicina d'emergenza. Ma di frequente l'attesa di un ricovero supera le 24 ore e ieri ad attendere un posto letto erano oltre mille pazienti.

Finché c'é la salute. Report Rai. PUNTATA DEL 05/12/2022 di Claudia Di Pasquale

Collaborazione di Cecilia Bacci e Eleonora Zocca

Negli ultimi anni abbiamo assistito a tagli ingenti del sistema sanitario.

Il Sistema Sanitario Nazionale ha avuto, negli ultimi anni, tagli ingenti, è crollato il numero dei posti letto, sono stati chiusi i pronto soccorso, sono stati smantellati interi reparti. Ora però a risollevare le sorti della sanità arriveranno i soldi del Pnrr. Circa due miliardi saranno investiti per realizzare 1350 case di comunità, mentre 1 miliardo servirà per aprire 400 ospedali di comunità. Che cosa sono esattamente? E quali servizi dovrebbero offrire? Nelle case di comunità un ruolo centrale dovrebbero averlo i medici di base, che però sono in grave sofferenza numerica, così come c'è una carenza ormai cronica di personale medico ospedaliero. E quindi chi andrà a lavorare dentro le strutture finanziate coi soldi del Pnrr?

FINCHÉ C’È LA SALUTE Di Claudia di Pasquale Collaborazione Cecilia Bacci, Eleonora Zocca Immagini Giovanni De Faveri, Andrea Lilli, Paolo Palermo Montaggio Daniele Bianchi, Andrea Masella

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Abbiamo adesso un’occasione importante: due miliardi di euro dal Pnrr. Verranno utilizzati per investire su 1.350 case di comunità, di strutture sanitarie in alcuni casi già aperte che offriranno – aperte fino a 24 ore, 7 giorni su 7 – offriranno la possibilità al cittadino che entra di trovare medici base, specialisti, infermieri e anche i servizi sociali. Cioè, il cittadino avrà a disposizione tutta quella assistenza che potrebbe consentirgli di evitare di riversarsi e affollare il pronto soccorso. Poi un altro miliardo di euro verrà investito in 400 ospedali di comunità. Non si tratta di veri e proprio ospedali ma di strutture con 20 posti letti che saranno gestite per lo più da infermieri, 7-9 infermieri, con un medico presente 4-5 ore. Servono soprattutto a coloro che non hanno la possibilità di curarsi da soli a casa. Ecco, insomma, servirà tutto questo a risollevare la sanità dopo la pandemia? Siamo andati a vedere quella regione che più è stata colpita dal virus, i cui amministratori sono finiti sotto accusa proprio per la mancanza della medicina territoriale. Si è dimesso per questo l’assessore al Welfare Gallera, è subentrata Letizia Moratti che con il presidente Attilio Fontana ha riformato la sanità. Ecco, un anno fa hanno cominciato a inaugurare a raffica case e ospedali di comunità. Insomma, è un modo anche per far vedere che si sta investendo e che si vuol essere vicini ai cittadini proprio ricostruendo quel tessuto di medicina territoriale. Insomma, però, come stanno i cittadini della Val Seriana, quelli che sono stati più colpiti dal covid e che ancora stanno piangendo i loro morti? La nostra Claudia Di Pasquale.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Castione della Presolana è un piccolo comune della Val Seriana di 3.400 abitanti. A distanza di due anni dalla pandemia ben 2.600 sono rimasti senza il medico di base.

CLAUDIA DI PASQUALE Lei ce l'ha il medico?

SIGNORE No.

CLAUDIA DI PASQUALE Da quanto tempo?

SIGNORE Dal primo di gennaio.

CLAUDIA DI PASQUALE E come fa?

SIGNORE E come faccio? Ehhh, si salvi chi può.

CLAUDIA DI PASQUALE Lei ce l'ha il medico?

SIGNORE 2 Nessuno ha il medico. Io adesso dovrei andare a prendermi delle pastiglie per lo stomaco. Dovrei fare una ricetta. Io non so cosa fare.

CLAUDIA DI PASQUALE Ce l'ha il medico di base?

SIGNORE 3 No, non ce l'ho il medico di famiglia.

CLAUDIA DI PASQUALE Come fa se vuole avere una ricetta?

SIGNORE 3 O devo andare in un altro paese dove ci sono i medici per farmi fare una ricetta altrimenti devo aspettare.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Il 31 dicembre 2021 a Castione sono andati in pensione due medici di base. L'azienda sanitaria non ha trovato sostituti e così quest'estate ha chiesto aiuto alle farmacie per trovare qualche medico disponibile sparso sul territorio.

STEFANO PERSONENI – FARMACISTA Noi prenotavamo il medico: c'era una tabella dove i medici davano la loro disponibilità però alla fine capitava che andassero in comuni a distanza 40, 50, 60 chilometri dove c'era il medico.

CLAUDIA DI PASQUALE Di fatto le persone, quindi, trovandosi in questa situazione, in che modo hanno sopperito?

STEFANO PERSONENI - FARMACISTA Si sono organizzati con medici privati che hanno dovuto poi pagare. E poi è capitato anche che qualche anziano in farmacia proprio ha detto basta, non mi curo più tanto ho 85 anni.

FABIO MIGLIORATI – ASSESSORE AL WELFARE CASTIONE DELLA PRESOLANA (BG) Qui erano gli ambulatori che erano occupati dai medici di medicina generale sino al giorno che sono andati in pensione. Prego. Sono locali di proprietà del Comune, pronti ad accogliere la gente. Bollette, energia elettrica, utenze le paga il Comune ma i medici non ci sono.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Il Comune ha quindi scritto all'azienda sanitaria ordinandole di riattivare urgentemente almeno la guardia medica diurna. E solo dopo questa lettera il servizio è stato ripristinato.

FABIO MIGLIORATI – ASSESSORE AL WELFARE CASTIONE DELLA PRESOLANA (BG) Però cosa succede? Sono medici che si alternano con una certa frequenza, per cui il paziente ogni volta si trova di fronte un medico nuovo al quale deve raccontare tutta la sua storia e tutta la sua genesi. Gente che è nel letto, che era abituata a vedere il medico venire nella propria abitazione una volta alla settimana, a volte anche due, a volte anche più. E di punto in bianco tutto questo svanisce.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Eppure, proprio nel bergamasco, lo scorso febbraio, il presidente Fontana e la ex vicepresidente Moratti hanno inaugurato a Gazzaniga una casa di comunità proprio per potenziare la medicina territoriale.

25/02/2022 INAUGURAZIONE CASA DI COMUNITÀ GAZZANIGA (BG) ATTILIO FONTANA - PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA Dobbiamo guardare al futuro per cercare di migliorare ogni tipo di servizio a favore dei cittadini.

CLAUDIA DI PASQUALE Io cittadino vado in una casa della comunità. Cosa dovrei trovare?

ALESSANDRO NOBILI - CAPO DIPARTIMENTO POLITICHE PER LA SALUTE - ISTITUTO MARIO NEGRI Devono esserci i medici di medicina generale, i pediatri di libera scelta, gli assistenti sociali, gli infermieri.

CLAUDIA DI PASQUALE Quindi, io le case della comunità le dovrei trovare aperte anche sabato e domenica.

ALESSANDRO NOBILI - CAPO DIPARTIMENTO POLITICHE PER LA SALUTE - ISTITUTO MARIO NEGRI Esattamente. Quelle hub sicuramente.

CLAUDIA DI PASQUALE E di notte?

ALESSANDRO NOBILI - CAPO DIPARTIMENTO POLITICHE PER LA SALUTE - ISTITUTO MARIO NEGRI Dovrebbe sempre esserci la presenza di un medico.

CLAUDIA DI PASQUALE Quindi in generale io dovrei trovare almeno un medico h24, sette giorni su sette.

ALESSANDRO NOBILI - CAPO DIPARTIMENTO POLITICHE PER LA SALUTE - ISTITUTO MARIO NEGRI Almeno. Io, se ho un bisogno di salute e mi rivolgo alla casa della comunità, evito di andare al pronto soccorso.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Andiamo a Gazzaniga un sabato pomeriggio per vedere se la casa di comunità inaugurata da Fontana e Moratti è aperta sette giorni su sette, h24, come previsto dalla norma.

CLAUDIA DI PASQUALE C'è nessuno? C'è nessuno? La casa della comunità?

GUARDIANO Sopra, dove c'è quel padiglione marrone scuro.

CLAUDIA DI PASQUALE Ma è tutto chiuso.

OPERATORE Eh sì, oggi sì. Oggi non ci sono.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO La casa di comunità di Gazzaniga il sabato chiude alle 14 mentre domenica e di notte è chiusa. Torniamo lunedì per verificare se, almeno negli orari di apertura, ci sono i medici di base.

OPERATRICE Ci sono gli infermieri a domicilio.

CLAUDIA DI PASQUALE E invece non ci sono medici con cui poter parlare, medici di famiglia?

OPERATRICE Quello no, io ho sempre visto infermieri.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Saliamo allora al secondo piano ma troviamo un centro vaccinale.

CLAUDIA DI PASQUALE Vorrei sapere se già c'erano dei medici di famiglia che lavoravano nella casa della comunità.

OPERATRICE 2 Non lo so. Noi stiamo vaccinando quindi non lo so.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Altre stanze sono vuote. Proviamo dunque a chiedere spiegazioni agli uffici.

OPERATRICE 3 Non ho notizie io sulla casa della comunità.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Lo scorso febbraio nel bergamasco è stata inaugurata un'altra casa della comunità, a Calcinate, ma anche questa non è aperta h24. Il sabato chiude alle 14, di domenica e di notte non c'è nessuno mentre nei giorni feriali troviamo due infermieri.

OPERATORE Un giorno ci saranno anche qua i medici di base, però ancora siamo in fase embrionale. Ci siamo solo noi che siamo infermieri di comunità.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO In tutto questo, a Calcinate, prima che venisse inaugurata la casa della comunità, c'era già un POT, cioè un presidio ospedaliero territoriale, con vari ambulatori, costato ben 5 milioni di euro e inaugurato nel 2018 dall'ex assessore al Welfare Giulio Gallera.

CLAUDIA DI PASQUALE E a Calcinate quindi qual è la differenza oggi rispetto al presidio ospedaliero territoriale?

ROBERTO ROSSI - SEGRETARIO GENERALE FUNZIONE PUBBLICA CGIL BERGAMO Nulla. I servizi che erogava il POT di Calcinate sono quelli che eroga la casa della comunità di Calcinate. Calcolate che Calcinate originariamente era un ospedale a tutti gli effetti con tanto di pronto soccorso e sale operatorie, eh.

CLAUDIA DI PASQUALE E a Gazzaniga invece cosa c'era?

ROBERTO ROSSI - SEGRETARIO GENERALE FUNZIONE PUBBLICA CGIL BERGAMO C'era un ospedale con tanto di pronto soccorso.

CLAUDIA DI PASQUALE Gli ambulatori per le visite specialistiche c'erano già in precedenza?

ROBERTO ROSSI - SEGRETARIO GENERALE FUNZIONE PUBBLICA CGIL BERGAMO C'erano già in precedenza. Abbiamo cambiato nome a una struttura che già c'era.

CLAUDIA DI PASQUALE Cioè, che senso hanno avuto queste inaugurazioni?

ROBERTO ROSSI - SEGRETARIO GENERALE FUNZIONE PUBBLICA CGIL BERGAMO Dalle mie parti si chiama propaganda elettorale, visto che poi si deve votare.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Nel 2021, sempre all’ex ospedale di Calcinate, l'ex vicepresidente Moratti ha inaugurato un hospice con quattordici posti letto.

18/06/2021 INAUGURAZIONE HOSPICE CALCINATE (BG) LETIZIA MORATTI - VICEPRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA 2021-2022 La sanità di prossimità si ottiene con una collaborazione con le istituzioni locali. L'altro aspetto importante è la collaborazione con il privato.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO L'Hospice di Calcinate, infatti, non è gestito dal pubblico ma da una fondazione privata, la Ferb, a fronte di un canone annuo di 62mila euro più iva.

FRANCO CAMMAROTA - PRESIDENTE FERB ONLUS Lì non ha partecipato nessuno alla gara di Calcinate.

CLAUDIA DI PASQUALE Nessuno.

FRANCO CAMMAROTA - PRESIDENTE FERB ONLUS No. Siamo intervenuti noi e abbiamo vinto perché eravamo i soli a partecipare.

CLAUDIA DI PASQUALE Ma voi avete difficoltà a trovare personale medico?

FRANCO CAMMAROTA - PRESIDENTE FERB ONLUS Medico e infermieristico: enorme difficoltà. Stiamo vedendo di fare delle convenzioni con una struttura che importa gli infermieri dall'India. Non si trovano più neanche i romeni, non si trova più niente eh.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Nel corso degli anni tra Milano e Bergamo sono stati chiusi 8 pronto soccorso. I rispettivi ospedali sono stati quindi depotenziati, riconvertiti o trasformati in presidi territoriali, e in alcuni casi i servizi sono stati affidati ai privati. Per esempio, la Ferb è presente in ben quattro ex ospedali pubblici, dove gestisce rispettivamente un centro di riabilitazione specialistica, un centro di eccellenza per malati di Alzheimer, un hospice e una struttura di riabilitazione neuromotoria e cardiorespiratoria, per un totale complessivo di 209 posti letto.

CLAUDIA DI PASQUALE Voi pagate comunque un canone. All'incirca?

FRANCO CAMMAROTA - PRESIDENTE FERB ONLUS Il totale dei canoni sono circa 2,8-2,9 milioni l'anno.

CLAUDIA DI PASQUALE Il pubblico invece cosa vi dà?

FRANCO CAMMAROTA - PRESIDENTE FERB ONLUS I drg. Cioè, ci dà le rette giornaliere per i malati.

CLAUDIA DI PASQUALE Quanto riuscite, diciamo, ad avere come giro di fatturato?

FRANCO CAMMAROTA - PRESIDENTE FERB ONLUS Sono circa 20 milioni all'anno.

CLAUDIA DI PASQUALE Avevo letto valore produzione 24 milioni all'incirca.

FRANCO CAMMAROTA - PRESIDENTE FERB ONLUS Sì, sì. 24 milioni è il totale che noi… compreso l'ambulatoriale, compreso tutto, eh.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO All'ex ospedale di Trescore Balneario, per esempio, la FERB gestisce 87 posti letto più diverse attività ambulatoriali accreditate col servizio sanitario pubblico. Le liste d'attesa però possono essere lunghe: 233 giorni per una visita cardiologica, 341 per una visita pneumologica. Se però si prenota la stessa visita privatamente, la Ferb riesce a darla in due settimane a tariffe agevolate.

CLAUDIA DI PASQUALE Voi avete Trescore dal 2003.

FRANCO CAMMAROTA – PRESIDENTE FERB ONLUS Sì. Quando noi siamo arrivati a Trescore c'era Formigoni.

CLAUDIA DI PASQUALE E in quel caso fu fatta una gara, in origine, o no?

FRANCO CAMMAROTA – PRESIDENTE FERB ONLUS No, in origine no perché era una sperimentazione gestionale. Dopo sette anni, invece, siamo andati a gara.

CLAUDIA DI PASQUALE E quante gare ci sono state, diciamo, nel corso di questi anni?

FRANCO CAMMAROTA - PRESIDENTE FERB ONLUS Almeno quattro.

CLAUDIA DI PASQUALE E le avete sempre vinte voi.

FRANCO CAMMAROTA - PRESIDENTE FERB ONLUS Le abbiamo sempre vinte noi, sì.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO In provincia di Bergamo è stata inaugurata un’altra casa di comunità a Sant'Omobono Terme, in questo edificio, dove già c'era in precedenza un presidio sociosanitario.

22/07/2022 INAUGURAZIONE CASA DI COMUNITÀ SANT’OMOBONO TERME LETIZIA MORATTI - VICEPRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA 2021-2022 In questa casa di comunità si realizza un bellissimo lavoro di squadra tra medici di medicina generale già presenti in questa casa di comunità, infermieri di famiglia.

CLAUDIA DI PASQUALE Ci sono medici di famiglia qui? OPERATRICE Non ne abbiamo ancora. C'è la postazione della guardia medica dalle 20 alle 8. Però siccome sempre c'è carenza di medico non tutte le notti sono coperte dal medico.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Anche a Bergamo città lo scorso febbraio Letizia Moratti e Attilio Fontana hanno inaugurato una casa di comunità, a Borgo Palazzo.

25/02/2022 INAGURAZIONE CASA DI COMUNITÀ BORGO PALAZZO (BG) ATTILIO FONTANA – PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA Presa in carico della persona prima ancora che del malato, prima valutazione ed eventualmente anche visita con lo specialista, tutto all'interno della stessa struttura.

LETIZIA MORATTI – VICEPRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA 2021-2022 C'è un'equipe che è fatta da medici, infermieri e assistenti sociali che accolgono le persone. E c'è una presa in carico della persona e della famiglia. Quindi non la cura della malattia ma la cura della persona.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Andiamo alla casa di comunità di Borgo Palazzo per vedere come funziona l'accoglienza della persona.

CLAUDIA DI PASQUALE Salve, buongiorno, posso sapere se era possibile parlare con un medico di base?

OPERATRICE Signora, qua non ci sono medici di base. Qua eventualmente si sceglie il medico di base.

CLAUDIA DI PASQUALE Cioè, non c'è nessuno in questo momento?

OPERATRICE No. Se può aspettare stasera alle otto, che apre la guardia medica, si fa visitare dalla guardia medica.

CLAUDIA DI PASQUALE Ma qua c'era già la guardia medica prima?

OPERATRICE Sempre, sì.

OPERATRICE 2 Questa è la guardia medica attiva solo dalle otto di sera alle otto del mattino ma deve prendere l'appuntamento e non è detto che glielo diano.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Nessun medico di base e neanche la certezza di poter avere un appuntamento con la guardia medica. Andiamo allora dalla direttrice della ASST, Maria Beatrice Stasi.

CLAUDIA DI PASQUALE Com'è che avete inaugurato questa casa della comunità che non ci sono medici?

MARIA BEATRICE STASI - DIRETTRICE GENERALE ASST PAPA GIOVANNI XXIII Allora, la casa della comunità, c'è un punto unico di accesso dove partecipano infermieri di famiglia e di comunità, dove c'è l'assistente sociale del Comune di Bergamo.

CLAUDIA DI PASQUALE Ma medici di famiglia ce ne sono?

MARIA BEATRICE STASI - DIRETTRICE GENERALE ASST PAPA GIOVANNI XXIII I medici di famiglia stanno nei loro ambulatori perché la loro convenzione prevede che aprano nei loro ambulatori. Quello che avevo messo...

CLAUDIA DI PASQUALE Cioè, cosa è cambiato rispetto a prima, mi scusi dottoressa.

MARIA BEATRICE STASI - DIRETTRICE GENERALE ASST PAPA GIOVANNI XXIII Ascolti, però, lei mi sta facendo un'intervista.

CLAUDIA DI PASQUALE Un'intervista, certo.

MARIA BEATRICE STASI - DIRETTRICE GENERALE ASST PAPA GIOVANNI XXIII Che io non avevo, perfetto. Se vuole andare a rivedere, vada.

CLAUDIA DI PASQUALE Avremmo voluto vedere con lei, magari ce lo spiegava, dottoressa.

MARIA BEATRICE STASI - DIRETTRICE GENERALE ASST PAPA GIOVANNI XXIII Ci saranno altre occasioni. Ci saranno altre occasioni.

CLAUDIA DI PASQUALE Io sinceramente ho pensato che non ha voluto fare l'intervista perché in effetti non c'era molto da mostrare.

MARIA BEATRICE STASI - DIRETTRICE GENERALE ASST PAPA GIOVANNI XXIII No, assolutamente no. Noi abbiamo molti contenuti da mostrare a Borgo Palazzo.

CLAUDIA DI PASQUALE Però sono stati inaugurati questi posti, no?

MARIA BEATRICE STASI - DIRETTRICE GENERALE ASST PAPA GIOVANNI XXIII Sì, sono stati inaugurati perché li abbiamo…

CLAUDIA DI PASQUALE Presentandola come una cosa innovativa e rivoluzionaria per potenziare il territorio.

MARIA BEATRICE STASI - DIRETTRICE GENERALE ASST PAPA GIOVANNI XXIII Ma io rivendico che noi abbiamo inaugurato.

CLAUDIA DI PASQUALE Poi uno arriva lì e ci sono i servizi che c'erano già in precedenza.

MARIA BEATRICE STASI - DIRETTRICE GENERALE ASST PAPA GIOVANNI XXIII Ma questo lo dice lei, è una sua valutazione.

CLAUDIA DI PASQUALE Secondo il DM 77, mi scusi dottoressa, la presenza medica h24 è obbligatoria.

MARIA BEATRICE STASI - DIRETTRICE GENERALE ASST PAPA GIOVANNI XXIII Perfetto. Però l'obiettivo non è prendere tutti i medici negli ambulatori, nei posti più lontani e portarli in un luogo fisico ma è collegarli in rete.

CLAUDIA DI PASQUALE Eh, però mi conferma che non ci sono medici di famiglia al momento.

MARIA BEATRICE STASI - DIRETTRICE GENERALE ASST PAPA GIOVANNI XXIII Le confermo che ci sono i servizi di continuità assistenziale che fanno parte dell'accordo collettivo nazionale della medicina generale.

CLAUDIA DI PASQUALE Che sono solo notturni e non diurni.

MARIA BEATRICE STASI - DIRETTRICE GENERALE ASST PAPA GIOVANNI XXIII Guardi, mi ha fatto parlare troppo.

CLAUDIA DI PASQUALE Dottoressa, non sono, non ci sono.

MARIA BEATRICE STASI - DIRETTRICE GENERALE ASST PAPA GIOVANNI XXIII Arrivederci. Ci saranno, spero che ci saranno. Lo auspico come medico.

CLAUDIA DI PASQUALE Eh, ma quanti mesi fa l'avete inaugurata, però? A febbraio, dottoressa.

MARIA BEATRICE STASI - DIRETTRICE GENERALE ASST PAPA GIOVANNI XXIII Buona giornata.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Ci sono, non ci sono, forse ci saranno. L’importante è inaugurare. Insomma, l’ex assessore al Welfare, Letizia Moratti, con il presidente Fontana avevano in mente di investire su 216 case di comunità, ne hanno inaugurate già 32, a raffica. Insomma, a dicembre scorso avevano firmato la riforma della sanità. Una settimana dopo sono andati a inaugurare la prima casa di comunità: un record. Poi però entri dentro e scopri l’inghippo. Perché? Perché si tratta di strutture, strutture ospedaliere o sanitarie, già esistenti, qualche volta anche già inaugurate, pagate qualche anno fa. Avevano un nome diverso: pot, presst, adesso case di comunità. Insomma, però, si tratta di strutture, di ospedali che sono stati chiusi o depotenziati o pronto soccorso chiusi. Ora, basta cambiare una targa, basta dare una verniciata e salacabula, magicabula, ecco la nuova struttura. Peccato che ruoti intorno al medico di base: non ce ne sono, Moratti e Fontana lo sanno benissimo ma fanno finta di nulla. È stata una figura un po’ bistrattata negli anni, quella del medico di base, salvo poi accorgersi che è fondamentale per evitare che, sotto il covid se ne sono accorti, di riempire i pronto soccorso. Bisognerebbe tornare al rapporto originale: mille pazienti per medico. Invece negli anni hanno alzato il plafond, si è arrivati a 1.800, poi c’è anche chi ne ha di più. I medici ovviamente sono stati zitti, perché incassano di più, ma si sono sovraccaricati di assistiti e anche di lavoro burocratico. Ma questo alzare il plafond ha anche implicitamente fatto capire che forse non c’era così bisogno di medici di base nel tempo e quindi ci sono stati meno corsi di formazione che non avvengono nelle università, come per le altre specializzazioni, ma sono corsi regionali. Quelli della Lombardia li fa la Polis e vengono coordinati spesso da medici del sindacato FIMMG. Ora, però, siccome si tratta di professionisti che sono convenzionati col sistema sanitario nazionale – non sono dipendenti – non puoi obbligarli, se non vogliono andare nelle case di comunità, se non vogliono servire o seguire altri clienti, pazienti o se non vogliono andare nei comuni di montagna. Però c’è un problema: nelle case di comunità chi ci va? Perché, se non ci vanno loro, capace che forse ci vanno i privati. La riforma di Moratti e Attilio Fontana ha previsto proprio questo: ha equiparato la sanità pubblica con quella privata. Non è che poi un giorno si prenderà cura di noi la famiglia reale del Liechtenstein?

CLAUDIA DI PASQUALE Ci sono dei medici di famiglia all'interno di queste case comunità inaugurate in provincia di Bergamo?

PAOLA PEDRINI – SEGRETARIA GENERALE FEDERAZIONE ITALIANA MEDICI DI MEDICINA GENERALE – LOMBARDIA No, non ci sono ma non c’è ancora l’accordo collettivo nuovo dei medici di famiglia in cui viene normata la loro presenza all’interno delle case della comunità. Quindi le case della comunità inaugurate, in cui sono stati tagliati i nastri, in realtà stanno andando avanti a fare quello che veniva fatto anche prima.

CLAUDIA DI PASQUALE In base al decreto ministeriale 77 si dice che deve esserci la presenza medica h24.

PAOLA PEDRINI – SEGRETARIA GENERALE FEDERAZIONE ITALIANA MEDICI DI MEDICINA GENERALE – LOMBARDIA Non è specificato che la presenza medica sia il medico di famiglia.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO La regione Lombardia ha firmato questo accordo integrativo con i medici di base. Le indicazioni sulle case di comunità restano però generiche, si dice solo che le aggregazioni dei medici di famiglia possono avere la sede fisica nelle case di comunità o essere collegate funzionalmente ad esse.

CLAUDIA DI PASQUALE Che significa?

PAOLA PEDRINI – SEGRETARIA GENERALE FEDERAZIONE ITALIANA MEDICI DI MEDICINA GENERALE – LOMBARDIA Eh, lo deve chiedere anche a Regione.

CLAUDIA DI PASQUALE L’ha firmato lei, però, anche questo accordo

PAOLA PEDRINI – SEGRETARIA GENERALE FEDERAZIONE ITALIANA MEDICI DI MEDICINA GENERALE – LOMBARDIA Sì, l’ho firmato anche io.

CLAUDIA DI PASQUALE Me lo spieghi lei.

PAOLA PEDRINI – SEGRETARIA GENERALE FEDERAZIONE ITALIANA MEDICI DI MEDICINA GENERALE – LOMBARDIA Dirle in concreto che cosa verrà fatto, non è ancora stato stabilito.

CLAUDIA DI PASQUALE Lei ci andrebbe alla casa di comunità a lavorare?

GIUSEPPE GERACITANO – MEDICO DI MEDICINA GENERALE TREVIGLIO (BG) Se avessi tempo sì ma non ho minimamente tempo.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Il dottor Geracitano lavora a Treviglio, finita sulle cronache nazionali per la carenza di medici di base.

CLAUDIA DI PASQUALE Oggi a Treviglio quanti medici di medicina generale ci sono?

GIUSEPPE GERACITANO – MEDICO DI MEDICINA GENERALE TREVIGLIO (BG) Nell'ambito di Treviglio, che fa parte anche Calvenzano e Caseirate, siamo rimasti in undici medici.

CLAUDIA DI PASQUALE E quanti dovreste essere?

GIUSEPPE GERACITANO – MEDICO DI MEDICINA GENERALE TREVIGLIO (BG) Qui se ne mancano almeno otto o dieci siamo sempre su una carenza di circa 10mila persone senza medico di medicina generale.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Il personale medico manca anche all'ospedale di Treviglio, dove il pronto soccorso è sempre regolarmente sovraffollato.

CLAUDIA DI PASQUALE Quanti medici lavorano oggi al pronto soccorso di Treviglio?

ANDREA PAVONE – MEDICO – DELEGATO FUNZIONE PUBBLICA CGIL TREVIGLIO (BG) Siamo sei in tutto.

CLAUDIA DI PASQUALE Quanti dovrebbero essere?

ANDREA PAVONE – MEDICO – DELEGATO FUNZIONE PUBBLICA CGIL TREVIGLIO (BG) Almeno il doppio.

CLAUDIA DI PASQUALE In che modo l'azienda ha cercato di sopperire a questa mancanza?

ANDREA PAVONE – MEDICO – DELEGATO FUNZIONE PUBBLICA CGIL TREVIGLIO (BG) I turni vacanti sono stati coperti da personale già assunto dall'ospedale in altri reparti.

CLAUDIA DI PASQUALE E quindi toglie tempo al proprio reparto.

ANDREA PAVONE – MEDICO – DELEGATO FUNZIONE PUBBLICA CGIL TREVIGLIO (BG) Assolutamente.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Alla luce della carenza di personale, la CGIL ha chiesto alla ASST di Bergamo Ovest anche i dati su visite, ricoveri e interventi.

ROBERTO ROSSI - SEGRETARIO GENERALE FUNZIONE PUBBLICA CGIL BERGAMO Non ci hanno dato i dati, assolutamente.

CLAUDIA DI PASQUALE E come hanno giustificato questo diniego?

ROBERTO ROSSI - SEGRETARIO GENERALE FUNZIONE PUBBLICA CGIL BERGAMO Il direttore generale definisce la sanità lombarda un quasi mercato. Quello che noi chiedevamo era segreto commerciale. Insomma, sarebbe stata concorrenza sleale nei confronti della sanità privata.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO È lo stesso call center della Regione Lombardia a indicare le strutture private accreditate. Lo sa bene il signor Pessoni, che aveva l'esigenza di prenotare una risonanza magnetica per il cuore.

MELCHIORRE PESSONI Mi hanno indirizzato all'Humanitas Gavazzeni.

CLAUDIA DI PASQUALE Che è comunque accreditato privato.

MELCHIORRE PESSONI Esatto. Humanitas mi ha detto che praticamente con il Servizio sanitario nazionale nel 2022 non c'era posto e si andava al 2023. Allora io cosa ho fatto? Ho chiesto se c'era la possibilità di farla privata e mi hanno detto di sì. Nel giro di una settimana avrei potuto farla però con un costo di 900 euro.

CLAUDIA DI PASQUALE Quanto costava?

MELCHIORRE PESSONI 900 euro. Ma hanno anche aggiunto che in quella settimana in cui ho chiamato c'era uno sconto del 50 per cento. Pensavo di essere al supermercato quando praticamente ti fanno le promozioni.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO A Bergamo è possibile fare una visita medica anche al centro commerciale. Tra un negozio di vestiti e una piadineria c'è la Smart Clinic del gruppo San Donato.

CLAUDIA DI PASQUALE La Regione Lombardia ha approvato una riforma alla fine dello scorso anno, dove ha equiparato la sanità privata e la sanità pubblica.

GIUSEPPE REMUZZI – DIRETTORE ISTITUTO MARIO NEGRI La Regione Lombardia ha questa tradizione di dire libera scelta e mercato devono regolare la sanità. Mercato vuol dire fatturato. Il fatturato è esattamente quello che il servizio sanitario pubblico non deve avere come obiettivo del suo lavoro.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Il prestigioso Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri sta realizzando uno studio proprio sulle case di comunità già inaugurate in Lombardia.

SILVIO GARATTINI – PRESIDENTE ISTITUTO MARIO NEGRI L'idea che si possano realizzare le case della comunità in pochi mesi è un’idea completamente sbagliata. In ogni situazione c’è bisogno di capire che cosa veramente serve. In certi posti sarà molto più importante certe attività domiciliari, in altri saranno più importanti più attività ambulatoriali.

CLAUDIA DI PASQUALE Insomma, sarebbe stato meglio non inaugurare queste case della comunità secondo lei?

SILVIO GARATTINI – PRESIDENTE ISTITUTO MARIO NEGRI Ma insomma, la propaganda… Diciamo che non bisogna mettere le targhe dove non ci sono le cose completamente realizzate.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Lo scorso aprile in Brianza è stata inaugurata un'altra casa della comunità all’ex ospedale di Giussano, fino al 2015 dotato di pronto soccorso. Qui c'era già un presidio territoriale con attività ambulatoriali. Si vedono ancora i buchi della targa precedente. Dentro hanno ridipinto le pareti, ma altri ambienti sono rimasti come erano prima. Inoltre, la casa di comunità non è neanche aperta h24 sette giorni su sette. Basta andare nel weekend per trovarla vuota. Stessa storia alla casa di comunità inaugurata a Vimercate, chiusa di notte e nei giorni festivi. Questa invece è la continuità assistenziale di Cesano Maderno.

CLAUDIA DI PASQUALE Quali strumenti avete per visitare i cittadini che vengono qua?

FABIO BIONDI – MEDICO DI CONTINUITÀ ASSISTENZIALE CESANO MADERNO (MB) Eh, cosa abbiamo? I guanti che finiscono quasi sempre e sono indispensabili. Cotone per medicare, insomma, forbici, la clorexidina per disinfettare, insomma. E questo è quello che abbiamo. Non abbiamo altro. Tutto il resto, tutto il resto del materiale è nostro.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO E mancano anche i medici.

FABIO BIONDI – MEDICO DI CONTINUITÀ ASSISTENZIALE CESANO MADERNO (MB) Se non ci sono medici cosa fanno? Chiedono ad altri medici presenti sul territorio di lavorare il doppio.

GIORGIO BARBIERI – COORDINATORE MEDICI DI MEDICINA GENERALE FUNZIONE PUBBLICA CGIL LOMBARDIA Laddove una postazione resta scoperta, non c'è il medico, il medico della postazione di fianco che già copre il lavoro di tre medici, viene obbligato a questo punto a farsi carico anche della postazione di fianco, cioè lavora per sei medici.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO In Brianza mancano anche i medici di base. Entro la fine dell'anno si stima che 70mila cittadini non ne avranno più uno.

TINA LICCIARDELLO Noi siamo senza medico da quattro anni, da quando il nostro bravo medico è andato in pensione.

CLAUDIA DI PASQUALE E non è arrivato un sostituto?

TINA LICCIARDELLO No, dovevamo andare noi a cercarcelo.

GIROLAMO FOSSATI Abbiamo avuto quattro medici a rotazione perché uno è andato in pensione, quell'altro ha cambiato posto, quell'altro di nuovo è andato in pensione.

CLAUDIA DI PASQUALE Quanta gente a Limbiate oggi è senza medico di famiglia?

TINA LICCIARDELLO Sono circa 4.000 persone.

CLAUDIA DI PASQUALE Quanti medici di base, di medicina generale, mancano oggi in Lombardia?

GIORGIO BARBIERI – COORDINATORE MEDICI DI MEDICINA GENERALE FUNZIONE PUBBLICA CGIL LOMBARDIA Mancherebbero 3.000 medici se calcolassimo, come previsto, un medico ogni 1000 assistiti.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Significherebbe 3 milioni di cittadini senza medico. Per correre ai ripari la Regione Lombardia ha alzato già nel 2007 ha alzato il rapporto ottimale a 1.300 assistiti e oggi ha consentito ai medici di base di averne fino a 1.800, che con gli iscritti provvisori possono diventare anche 2.000.

GIORGIO BARBIERI – COORDINATORE MEDICI DI MEDICINA GENERALE FUNZIONE PUBBLICA CGIL LOMBARDIA Questo ha determinato il problema di oggi, non si dichiarava che mancavano i medici quindi non è stata programmata la formazione e il ricambio.

LUCA FORESTI – AMMINISTRATORE DELEGATO CENTRO MEDICO SANTAGOSTINO Quello che è successo fino ad ora è niente rispetto a quello che succederà nei prossimi sei anni: andranno in pensione 36.000 medici di base ed entreranno dalla formazione un minimo di 6.000, un massimo forse di 10.000. Quindi la situazione sarà drammatica.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Luca Foresti è l'amministratore del centro medico Santagostino, un network di 35 poliambulatori privati con prezzi accessibili. Lo scorso anno hanno lanciato a Milano un nuovo servizio: la guardia medica diurna a pagamento.

LUCA FORESTI – AMMINISTRATORE DELEGATO CENTRO MEDICO SANTAGOSTINO Ovviamente essendo noi un soggetto privato, è una prestazione a pagamento. Il pagamento ha una cifra ragionevolmente bassa.

CLAUDIA DI PASQUALE Quanto costa?

LUCA FORESTI – AMMINISTRATORE DELEGATO CENTRO MEDICO SANTAGOSTINO 45 euro.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Nel 2019 l’85 per cento del Gruppo è stato acquisito dal fondo L-Gam.

LUCA FORESTI – AMMINISTRATORE DELEGATO CENTRO MEDICO SANTAGOSTINO È un fondo di private equity di diritto lussemburghese con sede a Londra.

CLAUDIA DI PASQUALE Tra gli investitori c'è anche la famiglia reale del Liechtenstein.

LUCA FORESTI – AMMINISTRATORE DELEGATO CENTRO MEDICO SANTAGOSTINO La famiglia del Liechtenstein - che io non ho mai incontrato, non conosco, non ho nessuna relazione, ovviamente - ha deciso di investire su L-GAM, che è questo fondo.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Intanto a Milano il 22 dicembre 2021 è stata inaugurata in pompa magna la prima casa di comunità in via Rugabella.

22/12/2021 INAUGURAZIONE CASA DI COMUNITÀ VIA RUGABELLA – MILANO ATTILIO FONTANA - PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA È una struttura che è una novità assoluta. Qui si incontreranno medici di base e specialisti.

LETIZIA MORATTI – VICEPRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA 2021-2022 Sono già attivati cinque medici di medicina generale, pediatri di libera scelta, 40 medici specialisti, dieci infermieri. E sarà aperta sette giorni su sette, 24 ore al giorno.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Quando entriamo, però, alla casa di comunità di via Rugabella siamo proprio sfortunati. Il primo piano, dove dovrebbero esserci i medici di base, lo troviamo completamente vuoto.

INFERMIERE Qui abbiamo tre medici di base, se va a vedere giù ci sono gli orari. Però oggi non c'è nessuno mi sa.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Verifichiamo che i pochi medici di base presenti lavorano in media 2 ore al giorno, esclusi i weekend, e ricevono per appuntamento solo i loro assistiti. Al secondo piano ci sono invece gli ambulatori specialistici, ma quelli c'erano già prima.

CLAUDIA DI PASQUALE Ora che c'è la casa della comunità cosa è cambiato? Mi ricordo che qua c'era anche un poliambulatorio, no?

OPERATRICE Non è cambiato niente. È cambiato che in più ci sarà la guardia medica la sera.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO La sera a mezzanotte in punto, il medico della continuità assistenziale chiude i cancelli e se ne va via. Nel weekend smonta addirittura alle ore 21. Altro che casa della comunità aperta h24, come scritto sul sito della Regione. Stessa storia alla casa di Comunità a Villa Marelli, inaugurata sempre a Milano, dove già c’era un poliambulatorio: di notte è al buio e chiusa. Per parlare con la guardia medica bisogna chiamare un call center. Di giorno invece ci sono cinque medici di base, ma per accedere agli ambulatori specialistici serve l'impegnativa del proprio medico, prenotare al Cup ed entrare nel girone delle liste d'attesa.

CLAUDIA DI PASQUALE Per una visita cardiologica?

OPERATRICE Nei 30 giorni non riusciamo a stare e neanche nelle urgenze dei dieci giorni quindi rischiamo di non riuscire a dargliela la visita.

CLAUDIA DI PASQUALE Io posso andare dai medici di famiglia che sono qui e farmi fare l'impegnativa?

OPERATRICE Credo che dovrebbe andare dal suo medico.

CLAUDIA DI PASQUALE Il fatto che si chieda l'impegnativa per la prenotazione rende già il servizio…

ALESSANDRO NOBILI – CAPO DIPARTIMENTO POLITICHE PER LA SALUTE - ISTITUTO MARIO NEGRI Rende il servizio né più né meno di quello che succedeva prima che venisse messa l'etichetta della casa della comunità. Cioè, io cosa faccio? Un giorno vado dall'ambulatorio al mio medico, il giorno dopo vado in una casa comunità? Se non lo trovo vado in casa della comunità e chi trovo nella casa della comunità?

CLAUDIA DI PASQUALE I medici di medicina generale che ruolo dovrebbero svolgere all'interno delle case della comunità?

SILVIO GARATTINI - PRESIDENTE ISTITUTO MARIO NEGRI Si devono occupare di tutto. Si devono occupare ovviamente prevalentemente dei loro assistiti ma devono supplire anche ad altre necessità.

CLAUDIA DI PASQUALE Potrebbero o dovrebbero occuparsi anche degli altri cittadini.

SILVIO GARATTINI - PRESIDENTE ISTITUTO MARIO NEGRI Certo. Ogni medico ha i suoi pazienti. Solo che questi pazienti hanno il vantaggio che se non c'è quel medico, c'è qualcun altro che se ne può occupare senza dover andare al pronto soccorso.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Nel decreto sulle case di comunità si legge che l'attività ambulatoriale dei medici di base sarà aggiuntiva rispetto a quella svolta nei confronti dei propri assistiti.

CLAUDIA DI PASQUALE Quindi io capisco che il medico di medicina generale dovrebbe occuparsi anche degli altri pazienti.

PAOLA PEDRINI – SEGRETARIA GENERALE FEDERAZIONE ITALIANA MEDICI DI MEDICINA GENERALE – LOMBARDIA Occuparsi, come? Se io devo pensare che a un certo punto della giornata devo uscire dal mio ambulatorio e andare in casa della comunità, ma non mi è stato ancora spiegato a fare che cosa.

CLAUDIA DI PASQUALE Ma voi ci volete entrare o no? Mi sembra un po' di no.

PAOLA PEDRINI – SEGRETARIA GENERALE FEDERAZIONE ITALIANA MEDICI DI MEDICINA GENERALE – LOMBARDIA Se sappiamo a fare cosa.

SILVESTRO SCOTTI – SEGRETARIO GENERALE NAZIONALE FEDERAZIONE ITALIANA MEDICI DI MEDICINA GENERALE Le dico la verità, a noi medici di famiglia il concetto ore non è che ci piace tanto. Diciamocelo francamente. A noi piace il concetto tempo. Io non avrei problemi a stare tempo nella casa di comunità. Però in quel caso il medico di scelta fa un'attività riferita al proprio paziente. Perché se no, mi scusi, ma a che serve la fiduciarietà?

CLAUDIA DI PASQUALE Non ho capito quante ore sareste disposti a stare dentro la casa della comunità, voi, come medici?

SILVESTRO SCOTTI – SEGRETARIO GENERALE NAZIONALE FEDERAZIONE ITALIANA MEDICI DI MEDICINA GENERALE Dipende dalla distanza dall'ambulatorio. Io oggi ho un contratto che fino a che ho persone all'interno del mio ambulatorio, le devo visitare.

CLAUDIA DI PASQUALE Insomma, non mi vuole dire quante ore sareste disposti.

SILVESTRO SCOTTI – SEGRETARIO GENERALE NAZIONALE FEDERAZIONE ITALIANA MEDICI DI MEDICINA GENERALE Ma io non ho un contratto a ore. Perché io dovrei risponderle in ore?

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Il problema dei medici di base si era già posto nel 2007 quando l’allora ministra della Salute Livia Turco aveva promosso la sperimentazione delle case della salute, le antenate di quelle di comunità: una struttura polivalente, aperta h24, sette giorni su sette con dentro tutti i servizi del territorio, gli specialisti e, soprattutto, i medici di medicina generale.

LIVIA TURCO – MINISTRA DELLA SALUTE 2006-2008 Questo progetto incontrò molte ostilità.

CLAUDIA DI PASQUALE Mmm.

LIVIA TURCO – MINISTRA DELLA SALUTE 2006-2008 Da parte delle regioni, la preoccupazione che si volesse imporre un modello. E poi le ostilità da parte dei medici di famiglia che non volevano essere parte della casa della salute.

CLAUDIA DI PASQUALE Per quale motivo?

LIVIA TURCO – MINISTRA DELLA SALUTE 2006-2008 Per il loro sistema di convenzionamento, per cui loro sono liberi professionisti.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Ma la lezione non è servita e ora il problema si ripropone con le case di comunità.

GIUSEPPE REMUZZI – DIRETTORE ISTITUTO MARIO NEGRI Se noi abbiamo delle case della comunità che sono vuote, alla fine diventano case della comunità in cui i privati ci mettono i loro medici. Uno va nella casa della comunità privata, viene indirizzato all'ospedale privato. E allora diventa veramente la medicina delle assicurazioni, la medicina di fatto di chi se lo può permettere.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Chi scalpita per entrare nelle case di comunità sono le cooperative private che raggruppano gli stessi medici di base: sono state previste da più riforme sanitarie della Regione Lombardia e si occupano della gestione dei pazienti cronici. Una di queste è la Medici Insubria.

CLAUDIA DI PASQUALE Quanti medici sono iscritti alla vostra cooperativa?

GIANNI MARTINO CLERICI – PRESIDENTE MEDICI INSUBRIA SOCIETÀ COOPERATIVA 240 medici.

CLAUDIA DI PASQUALE Voi avete in carico quanti pazienti?

GIANNI MARTINO CLERICI – PRESIDENTE MEDICI INSUBRIA SOCIETÀ COOPERATIVA 40/45.000.

CLAUDIA DI PASQUALE E la Regione vi riconosce, anche…

GIANNI MARTINO CLERICI – PRESIDENTE MEDICI INSUBRIA SOCIETÀ COOPERATIVA Ci riconosce un compenso di.. da 35 a 25 euro per ogni paziente.

CLAUDIA DI PASQUALE Quindi all'incirca in totale quanto vi dà la Regione Lombardia ogni anno?

GIANNI MARTINO CLERICI – PRESIDENTE MEDICI INSUBRIA SOCIETÀ COOPERATIVA Un milione.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO L'ultima riforma della sanità, voluta da Moratti e Fontana, ha equiparato la sanità pubblica e quella privata.

CLAUDIA DI PASQUALE Questo principio consentirà a cooperative come la vostra di entrare dentro queste case della comunità?

GIANNI MARTINO CLERICI – PRESIDENTE MEDICI INSUBRIA SOCIETÀ COOPERATIVA Ma noi vogliamo, Medici Insubria vuole entrare nella casa della comunità. Secondo me ha le caratteristiche per poter entrare nella casa della comunità.

CLAUDIA DI PASQUALE Lei è stato pure sindaco.

GIANNI MARTINO CLERICI – PRESIDENTE MEDICI INSUBRIA SOCIETÀ COOPERATIVA Sì, ad Appiano Gentile dal 2007 al 2012.

CLAUDIA DI PASQUALE E con quale partito era?

GIANNI MARTINO CLERICI – PRESIDENTE MEDICI INSUBRIA SOCIETÀ COOPERATIVA Con centrodestra, chiamiamo.

CLAUDIA DI PASQUALE Più vicino a Forza Italia o alla Lega?

GIANNI MARTINO CLERICI – PRESIDENTE MEDICI INSUBRIA SOCIETÀ COOPERATIVA No, più vicino a Forza Italia, non c'è dubbio.

CLAUDIA DI PASQUALE Vi sentite anche vicini alla Moratti?

GIANNI MARTINO CLERICI – PRESIDENTE MEDICI INSUBRIA SOCIETÀ COOPERATIVA No, mi sento molto vicino alla Moratti. Del resto, Appiano Gentile è conosciuto in tutta Italia perché c’è la struttura sportiva dell’Inter.

CLAUDIA DI PASQUALE Cioè, che voi siete allineati alla Regione mi sembra super evidente.

GIANNI MARTINO CLERICI – PRESIDENTE MEDICI INSUBRIA SOCIETÀ COOPERATIVA Siamo come diceva Agnelli, siamo filogovernativi.

CLAUDIA DI PASQUALE Assolutamente. Non avevo dubbi.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Incontriamo Letizia Moratti poche settimane prima delle sue dimissioni.

CLAUDIA DI PASQUALE Vicepresidente, scusi, siamo di Report, ci stiamo occupando di case e ospedali di comunità. Lei ne ha già inaugurati diversi. Queste case della comunità non funzionano. Non ci sono dentro i medici. Perché le avete inaugurate? Cioè, promettete dei servizi ai cittadini che di fatto non ci sono? Le prego di risponderci.

MEMBRO STAFF LETIZIA MORATTI Non possiamo, ci stanno aspettando di sopra, scusi.

LETIZIA MORATTI Ci stanno aspettando, mi scusi.

CLAUDIA DI PASQUALE Ci avete già negato l'intervista. Io non so sinceramente in che modo possiamo farle queste domande. Noi le abbiamo visitate. Siamo stati a Rugabella, siamo stati a Bergamo. A Bergamo, a Borgo Palazzo, non ci sono i medici addirittura.

ADDETTO SICUREZZA Signori, scusate.

CLAUDIA DI PASQUALE Salve Presidente, sono Di Pasquale di Report, come va?

ATTILIO FONTANA – PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA Buongiorno. Bene, grazie.

CLAUDIA DI PASQUALE Posso fare soltanto una domanda?

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Proviamo anche a parlare con il presidente Attilio Fontana, ma l'ufficio stampa ci blocca più volte.

CLAUDIA DI PASQUALE È una questione di trasparenza nei confronti dei cittadini, presidente.

ADDETTO STAMPA Appunto. Certo, certo, certo. Te hai bisogno di fare un po' di teatro.

CLAUDIA DI PASQUALE Io non voglio nessun teatro.

ADDETTO STAMPA Ma certo.

CLAUDIA DI PASQUALE Presidente, le volevo spiegare, noi abbiamo visitato queste case di comunità che voi avete già inaugurato. Però o non ci sono.

ATTILIO FONTANA – PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA Guardi, non la capisco. Non la capisco.

ADDETTO STAMPA Ancora?

CLAUDIA DI PASQUALE Non ci sono i medici, non sono aperte h24.

ADDETTO STAMPA Te l'ho spiegato, te l'ho spiegato già.

CLAUDIA DI PASQUALE Non c’è trasparenza.

ADDETTO STAMPA Tu non lo sai, tu non lo sai.

CLAUDIA DI PASQUALE No. Quello che sta provando a spiegarle, presidente, è che voi avete inaugurato, anche lei…

ATTILIO FONTANA – PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA Guardi, non la capisco.

CLAUDIA DI PASQUALE …delle case delle comunità dove non ci sono i medici, sono scatole vuote. No, io non riesco a comprendere perché avete inaugurato queste case della comunità.

ATTILIO FONTANA – PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA Non faccia finta di non… No, è perché lei non capisce, guardi.

CLAUDIA DI PASQUALE Dove ci sono dei servizi già c'erano, è stata soltanto cambiata un'insegna.

ADDETTO STAMPA Ma che vergogna che siete, veramente.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Proprio grazie al cambio di nomi si è consumato negli anni la chiusura degli ospedali, quella dei pronto soccorso e anche il declassamento dei presidi sanitari. Ora, anche il decreto ministeriale 77 prevede la presenza fisica all’interno delle case di comunità dei medici, 24 ore su 24, per 7 giorni su 7. Noi saremo stati sfortunati ma questa presenza non l’abbiamo trovata. Ora, a luglio del 2022 la regione Lombardia ha approvato una delibera e si scrive che nelle case di comunità la continua assistenziale h24 è garantita dal numero 116117, cioè dal numero unico europeo per le cure non urgenti. E insomma, formalmente, la Lombardia è a posto anche se non c’è una presenza medica h24 nelle case di comunità. Però basta esser chiari con i cittadini, soprattutto se ti candidi a governarli. Ora, questa confusione però potrebbe nascondere la consapevolezza dell’impossibilità di risolvere un problema cioè la carenza dei medici di famiglia. Anche il decreto ministeriale 77 non dice esattamente quanti medici di base dovrebbero essere presenti in una casa di comunità e quante ore dovrebbero lavorare. L’Agenas, che è un’agenzia nazionale che monitora i sistemi sanitari regionali, un anno fa aveva indicato dai 30 ai 35 medici generici presenti nelle case di comunità. Noi al massimo, in Lombardia, ne abbiamo trovati 5. Ecco, e adesso siamo alla vigilia di un blackout perché tra 6 anni saranno 36mila i medici di base che andranno in pensione. Come risolvi il problema? Come ce li porti nelle case di comunità i pochi nuovi che subentreranno? Insomma, per questo l’Istituto Mario Negri vorrebbe renderli dipendenti pubblici. Favorevoli quelli della CGIL, contrari i sindacalisti della FIMMG. Ora, in attesa che si mettano d’accordo potrebbero infilarsi nelle case di comunità i privati e la Lombardia diciamo che è maestra in questo anche perché ha equiparato sanità pubblica con quella privata nella sua riforma. È dagli anni ’90 che si sono infilati i privati nelle strutture pubbliche quando, nel ’92, era stato dato il via dal governo alle sperimentazioni gestionali: cioè pubblico e privato gestivano insieme le strutture pubbliche dividendosi poi gli utili. È da allora che la Lombardia ha cominciato a chiudere ospedali, pronto soccorso e a declassare i presidi ospedalieri, i presidi sanitari. Taglia taglia, insomma, ma quanti pronto soccorso sono rimasti? Tra trenta secondi lo vedremo. Rieccoci qui. Allora, nel 1997, quando è cominciato Report, in Lombardia c’erano 147 strutture di ricovero pubbliche e ora 58. Quasi 90 in meno. I dipartimenti di emergenza e accettazione erano 30, oggi 37, cioè 7 in più ma i servizi di pronto soccorso sono passati da 104 a 40: 64 in meno. Ecco, quindi il saldo è abbondantemente in rosso per il pubblico. E ora in Veneto, che è anche questa tra le regioni che hanno più chiuso i pronto soccorso.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO In provincia di Verona il Pnrr prevede la realizzazione di 19 case di comunità. Dentro dovrebbero andarci i medici di base ma anche qui sono ormai una specie in via di estinzione. A Trevenzuolo, 2.700 abitanti, ne è rimasto solo uno.

OSVALDO ZOCCATELLI – MEDICO DI MEDICINA GENERALE TREVENZUOLO (VR) Io sono il medico del comune di Trevenzuolo, qui a Trevenzuolo, ormai da 36 anni e pochi mesi. Da maggio io potevo andare in pensione. Come si fa ad andare in pensione lasciando, di fatto, tutto il paese senza medico? Non me la sono sentita.

CLAUDIA DI PASQUALE C’era la possibilità di trovare un suo sostituto?

OSVALDO ZOCCATELLI – MEDICO DI MEDICINA GENERALE TREVENZUOLO (VR) Cosa crede, che io non ci abbia provato? Ma sa quante telefonate ho fatto a colleghi? Ti do tutto, ti lascio l’ambulatorio già arredato, ti passo tutti i pazienti. Io non ho trovato nessuno.

 CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Secondo gli ultimi dati in Veneto ci sono ben 586 zone carenti, cioè senza medico di base. È così che la Regione ha consentito ai medici di aumentare il numero degli assistiti da 1.500 a 1.800. La dottoressa Mara Cabriolu ne conta addirittura 1.956.

MARA CABRIOLU – MEDICO FEDERAZIONE ITALIANA MEDICINA GENERALE – VERONA Purtroppo, il Pnrr ha stanziato soldi per i muri. E non ha pensato a chi mettere a lavorare in questi muri. Le ha disegnate, nel veronese, in una maniera assolutamente schifosa.

CLAUDIA DI PASQUALE Schifosa? MARA CABRIOLU – MEDICO FEDERAZIONE ITALIANA MEDICINA GENERALE – VERONA Schifosa. Mi permetto proprio questa cosa. Che cosa dovrebbero fare i medici a isorisorse? Tradotto: lo Stato non deve spendere una sola lira più di quella che spende adesso. Dovrebbero usare sei ore del loro tempo per andare a fare qualcosa, che non è ancora ben delineato, all’interno di queste case di comunità. Ci sono zone, penso alla mia zona, ha una casa di comunità disegnata a Caprino. Il posto più lontano è Sant’Anna d’Alfaedo.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Da Caprino a Sant’Anna d’Alfaedo ci sono circa 30 chilometri e l’ultimo tratto è pieno di curve.

MARA CABRIOLU – MEDICO FEDERAZIONE ITALIANA MEDICINA GENERALE – VERONA Ce n’è uno ancora più distante. Il medico di Malcesine – che è praticamente la punta del lago, subito dopo c’è il Trentino – deve arrivare a Bussolengo: 49 chilometri.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Da Malcesine a Bussolengo c’è un’ora di distanza e un’unica strada, quella che costeggia il lago di Garda, regolarmente trafficata.

MARA CABRIOLU – MEDICO FEDERAZIONE ITALIANA MEDICINA GENERALE – VERONA E tuo nonno che non ha la patente come ci va? Se lui abita a Malcesine cosa se ne fa di un medico disponibile qualche ora, che non lo conosce nemmeno, lì a Bussolengo?

CLAUDIA DI PASQUALE Quante case della comunità e quanti ospedali della comunità sono previsti?

PIETRO GIRARDI – DIRETTORE GENERALE ULSS 9 SCALIGERA – VERONA 34, mi sembra, case della comunità.

CLAUDIA DI PASQUALE Sono 34? PIETRO GIRARDI – DIRETTORE GENERALE ULSS 9 SCALIGERA – VERONA 37.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Il direttore dell’Ulss 9 ci invia poi questa mappa, dove le case di comunità diventano addirittura 45. In realtà, però, quelle finanziate dal PNRR sono 15. Altre 4 sono già inserite nella programmazione regionale mentre tutto il resto fa ancora parte delle buone intenzioni. Chi vivrà, vedrà.

CLAUDIA DI PASQUALE E quanti ospedali della comunità realizzerete?

PIETRO GIRARDI – DIRETTORE GENERALE ULSS 9 SCALIGERA – VERONA 19 ospedali di comunità. Finanziati, 6.

CLAUDIA DI PASQUALE Dal Pnrr.

PIETRO GIRARDI – DIRETTORE GENERALE ULSS 9 SCALIGERA – VERONA Dal Pnrr, per circa 24 milioni di euro.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Il 24 novembre 2020 l’Ulss 9 ha annunciato alla stampa l’apertura dell’ospedale di comunità di Bussolengo, che altro non è che un reparto con 24 posti letto a gestione infermieristica.

CLAUDIA DI PASQUALE A Bussolengo c’è già l’ospedale di comunità o no?

PIETRO GIRARDI – DIRETTORE GENERALE ULSS 9 SCALIGERA – VERONA Allora, Bussolengo è uno dei tre che prossimamente che apriremo.

CLAUDIA DI PASQUALE Oggi l’ospedale di Bussolengo è vuoto, quindi.

PIETRO GIRARDI – DIRETTORE GENERALE ULSS 9 SCALIGERA – VERONA Oggi l’ospedale di…

CLAUDIA DI PASQUALE Cioè, non ci sono pazienti.

PIETRO GIRARDI – DIRETTORE GENERALE ULSS 9 SCALIGERA – VERONA In che cosa, nell’ospedale?

CLAUDIA DI PASQUALE Dentro l’ospedale di comunità Bussolengo.

PIETRO GIRARDI – DIRETTORE GENERALE ULSS 9 SCALIGERA – VERONA L’ospedale di comunità di Bussolengo in questo momento non è aperto, è ancora chiuso.

CLAUDIA DI PASQUALE Perché è stato inaugurato a novembre del 2020.

PIETRO GIRARDI – DIRETTORE GENERALE ULSS 9 SCALIGERA – VERONA Non è stato mai… l’ospedale di comunità di Bussolengo, inaugurato? Era stato attivato.

CLAUDIA DI PASQUALE È una finta inaugurazione.

PIETRO GIRARDI – DIRETTORE GENERALE ULSS 9 SCALIGERA – VERONA Vi invito anche… No no, ma non c’è scritto inaugurazione peraltro nel titolo.

CLAUDIA DI PASQUALE Qua c’è scritto “l’inaugurazione dell’ospedale di comunità”.

PIETRO GIRARDI – DIRETTORE GENERALE ULSS 9 SCALIGERA – VERONA Attivato ospedale di comunità.

CLAUDIA DI PASQUALE Eh, qua c’eravate voi presenti.

PIETRO GIRARDI – DIRETTORE GENERALE ULSS 9 SCALIGERA – VERONA Eh, vabbè.

CLAUDIA DI PASQUALE Però non era l’ospedale di comunità, va fatto ancora insomma.

PIETRO GIRARDI – DIRETTORE GENERALE ULSS 9 SCALIGERA – VERONA Se l’avessimo fatto, l’avremmo già aperto.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO In pratica nel 2020 hanno preso dei posti letto di medicina, li hanno riconvertiti in posti letto covid e hanno detto di aver attivato l’ospedale di comunità, che in realtà fa parte degli investimenti del Pnrr ed è ancora in fase di realizzazione. Un ospedale di comunità l’hanno, invece, già aperto al centro sanitario di Valeggio sul Mincio. Si trova al terzo piano e conta 24 posti letto. Dal quarto piano in poi, invece, l’ingresso è interdetto perché l’edificio non è mai stato completato.

CLAUDIA DI PASQUALE Cioè dal quarto piano in poi non è stato mai finito l’ospedale...

PIETRO GIRARDI – DIRETTORE GENERALE ULSS 9 SCALIGERA - VERONA No.

CLAUDIA DI PASQUALE ...di Valeggio?

PIETRO GIRARDI – DIRETTORE GENERALE ULSS 9 SCALIGERA - VERONA Penso che… all’epoca io non c’ero ma la programmazione è cambiata e quindi è rimasto lì.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Un altro ospedale di comunità l’hanno aperto all’interno dell’ospedale di San Bonifacio, dove, però, hanno chiuso il reparto di lungodegenza.

CLAUDIA DI PASQUALE A San Bonifacio tagliati 42 posti di lungodegenza.

PIETRO GIRARDI – DIRETTORE GENERALE ULSS 9 SCALIGERA – VERONA A San Bonifacio è stato…

CLAUDIA DI PASQUALE Trasformazione in ospedale di comunità, quanti posti sono quelli dell’ospedale di comunità?

PIETRO GIRARDI – DIRETTORE GENERALE ULSS 9 SCALIGERA – VERONA 18.

CLAUDIA DI PASQUALE Cioè da 42 a 18?

PIETRO GIRARDI – DIRETTORE GENERALE ULSS 9 SCALIGERA – VERONA Da 42 a 18.

CLAUDIA DI PASQUALE Qual è la differenza sostanziale tra reparto di lungodegenza e ospedale di comunità?

ANNA MARIA BIGON – CONSIGLIERA REGIONE VENETO – PARTITO DEMOCRATICO Che il reparto di lungodegenza era completamente gratuito per il cittadino, mentre l'ospedale di comunità è in compartecipazione come costo anche alla famiglia e quindi all’ospite. Dal 61esimo giorno abbiamo il pagamento appunto di 25 euro giornalieri in media e successivamente poi si sale a 45 euro.

CLAUDIA DI PASQUALE E a livello invece di equipe medica?

ANNA MARIA BIGON – CONSIGLIERA REGIONE VENETO – PARTITO DEMOCRATICO L'ospedale di comunità è una struttura intermedia e la figura che fa da padrone in questa struttura è l'infermiere. La lungodegenza, invece, è un reparto completamente ospedaliero, fornito anche di medici.

CLAUDIA DI PASQUALE Quanti reparti di lungodegenza sono stati cancellati?

ANNA MARIA BIGON – CONSIGLIERA REGIONE VENETO – PARTITO DEMOCRATICO Quasi tutti completamente nel Veneto.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Anche in provincia di Verona dal 2019 è stata prevista la cancellazione dei reparti di lungodegenza. Ne hanno lasciato solo uno, quello dell’Ospedale Sacro Cuore di Negrar, che però è privato.

CLAUDIA DI PASQUALE Dove sono rimasti i reparti di lungodegenza in provincia di Verona?

PIETRO GIRARDI – DIRETTORE GENERALE ULSS 9 SCALIGERA – VERONA Non ce n’è più nessuno in tutto il Veneto.

CLAUDIA DI PASQUALE Non è vero.

PIETRO GIRARDI – DIRETTORE GENERALE ULSS 9 SCALIGERA – VERONA Ce ne sarà rimasto uno di lungodegenza, però...

CLAUDIA DI PASQUALE Nel pubblico è stato tolto tutto, nel privato no.

PIETRO GIRARDI – DIRETTORE GENERALE ULSS 9 SCALIGERA – VERONA Allora, nel privato accreditato?

CLAUDIA DI PASQUALE Sì. Se si stabilisce che la lungodegenza è inutile, allora la togli a tutti. Ma se la lasci solo al privato…

PIETRO GIRARDI – DIRETTORE GENERALE ULSS 9 SCALIGERA - VERONA Io vedo l’integrazione nel pubblico-privato, eh, sennò.

MANUELA LANZARIN – ASSESSORA SANITÀ REGIONE VENETO Se noi abbiamo sostituito i reparti di lungodegenza con reparti di recupero funzionale e abbiamo…

CLAUDIA DI PASQUALE E con ospedali di comunità.

MANUELA LANZARIN – ASSESSORA SANITÀ REGIONE VENETO E abbiamo aggiunto a questi gli ospedali di comunità, non abbiamo per forza depotenziato la rete ospedaliera.

CLAUDIA DI PASQUALE Non ne è rimasto neanche uno, li avete lasciati solo ai privati.

MANUELA LANZARIN – ASSESSORA SANITÀ REGIONE VENETO Allora, ci sono diversi tipi di riabilitazione. Quindi abbiamo a verificare di quale tipo di riabilitazione stiamo parlando.

CLAUDIA DI PASQUALE Mi dica un ospedale pubblico con un reparto di lungodegenza.

MANUELA LANZARIN – ASSESSORA SANITÀ REGIONE VENETO No, io non ho detto che… allora, io ho detto…

CLAUDIA DI PASQUALE Sono spariti. Li avete tolti.

MANUELA LANZARIN – ASSESSORA SANITÀ REGIONE VENETO Io ho detto che i reparti di lungodegenza sì.

CLAUDIA DI PASQUALE Chiaramente è una questione economica, perché costa di più, immagino, un posto.

MANUELA LANZARIN – ASSESSORA SANITÀ REGIONE VENETO No no, non è una questione economica. È una questione di riorganizzazione interna.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO La riorganizzazione ha portato nel 2019 a prevedere l’aumento dei posti letto ai privati accreditati. Da 508 a 549 per l’Ospedale Sacro Cuore di Negrar, e da 258 a 327 posti letto per la casa di cura Pederzoli di Peschiera del Garda. Nel corso degli anni, invece, diversi ospedali pubblici sono stati colpiti dai tagli a partire da quello di Bussolengo.

CLAUDIA DI PASQUALE Quali reparti c'erano in questo ospedale?

ANNA PAUCIULO - COMITATO UNITI PER L’ORLANDI Sono andati via da Bussolengo 14 reparti. Sono stati trasferiti a Villafranca, presso il Magalini.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Alcuni reparti dell’ospedale di Bussolengo sono stati trasferiti all’ospedale di Villafranca, inaugurato nel 2018, ma anche questo oggi è in sofferenza.

CRISTINA CERIANI – COMITATO PER L'OSPEDALE MAGALINI Durante la prima ondata-la seconda ondata di Covid è stato chiuso completamente al pubblico.

 CLAUDIA DI PASQUALE Cioè, tutti i reparti?

CRISTINA CERIANI – COMITATO PER L'OSPEDALE MAGALINI Tutti i reparti, compreso il pronto soccorso. Quindi 100.000 abitanti dovevano rivolgersi altrove.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Capita che sia lo stesso cup a suggerire di rivolgersi ai privati accreditati.

MADDALENA SALGARELLI – CONSIGLIERA COMUNALE LISTA CIVICA ISOLA NOSTRA – ISOLA DELLA SCALA (VR) Ho provato a prenotare ultimamente un’impegnativa per un’ecografia al polso e non solo non ho trovato posto qui a Isola della Scala ma nemmeno in tutto il mio distretto dell’Ulss quindi il primo posto disponibile andava sei mesi dopo.

CLAUDIA DI PASQUALE E l’impegnativa invece diceva?

MADDALENA SALGARELLI – CONSIGLIERA COMUNALE LISTA CIVICA ISOLA NOSTRA – ISOLA DELLA SCALA (VR) Priorità a trenta giorni.

CLAUDIA DI PASQUALE Ma cosa le ha detto il cup in quell’occasione?

MADDALENA SALGARELLI – CONSIGLIERA COMUNALE LISTA CIVICA ISOLA NOSTRA – ISOLA DELLA SCALA (VR) Si offrono comunque, cosa un po’ strana, di prenotarti il tuo esame diagnostico nelle strutture private di Negrar e Peschiera.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Maddalena Salgarelli fa parte di un altro comitato, quello a difesa dell’ex ospedale di Isola della Scala, dismesso definitivamente nel 2018 quando è stato chiuso anche il pronto soccorso. Al suo posto ci sarebbe dovuto essere almeno un punto di primo intervento ma ad oggi l’ingresso è completamente sbarrato.

CLAUDIA DI PASQUALE Oggi invece cosa c'è?

MADDALENA SALGARELLI – CONSIGLIERA COMUNALE LISTA CIVICA ISOLA NOSTRA – ISOLA DELLA SCALA (VR) È rimasto un punto prelievi, diciamo così. Una radiologia che funziona a giorni alterni per 2-3 ore al mattino.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Dentro, al piano terra, sono rimasti degli ambulatori ma quando entriamo i corridoi sono semideserti. Gli altri piani invece sono inaccessibili perché i reparti sono chiusi. Eppure, qui la Regione aveva previsto almeno la realizzazione di un ospedale di comunità con 24 posti letto. L’avrebbero dovuto attivare due anni fa ma, siccome non l’hanno fatto, ora sarà finanziato con i soldi del Pnrr.

CLAUDIA DI PASQUALE Il problema di Isola della Scala è che se uno ci va, trova al pianoterra qualche ambulatorio per qualche ora al giorno. Poi c’è un bellissimo cartello “vietato salire” e dal primo piano in su è tutto vuoto?

PIETRO GIRARDI – DIRETTORE GENERALE ULSS 9 SCALIGERA – VERONA L’ospedale in questo momento, a parte il pianoterra, è vuoto.

CLAUDIA DI PASQUALE Oltre al punto di intervento, che non c’è, era prevista un’ambulanza?

PIETRO GIRARDI – DIRETTORE GENERALE ULSS 9 SCALIGERA – VERONA Sì.

CLAUDIA DI PASQUALE Col medico?

PIETRO GIRARDI – DIRETTORE GENERALE ULSS 9 SCALIGERA – VERONA Sì.

CLAUDIA DI PASQUALE C’è questa ambulanza col medico?

PIETRO GIRARDI – DIRETTORE GENERALE ULSS 9 SCALIGERA – VERONA Ma guardate che i medici delle ambulanze.

CLAUDIA DI PASQUALE Neanche l’ambulanza c’è?

PIETRO GIRARDI – DIRETTORE GENERALE ULSS 9 SCALIGERA – VERONA Allora attenzione, in questo… siamo dentro gli standard, sì.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Il giorno dopo la nostra intervista a Isola della Scala è arrivata l’ambulanza. Il punto di primo intervento, invece, è sempre chiuso. Mentre a circa 30 chilometri il pronto soccorso dell’ospedale di Legnago è regolarmente sovraffollato.

ANNA MARIA FERRAZZANO – VICESINDACA DI BOVOLONE (VR) Mancano i medici a Legnago, mancano almeno sei unità.

CLAUDIA DI PASQUALE Qual è l’attesa media?

ANNA MARIA FERRAZZANO – VICESINDACA DI BOVOLONE (VR) Si può andare dalle 3-6 ore fino ad arrivare alle 12 ore.

CLAUDIA DI PASQUALE Ma i pazienti vengono ricoverati al pronto soccorso?

ANNA MARIA FERRAZZANO – VICESINDACA DI BOVOLONE (VR) Purtroppo, i pazienti possono sostare dalle 24 ore ai cinque-sei giorni.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO A venti chilometri di distanza da Legnago c’è un altro ospedale, quello di Bovolone, dove una decina di anni fa il pronto soccorso è stato chiuso e declassato a punto di primo intervento. E proprio qui lavorava come medico la dottoressa Ferrazzano.

ANNA MARIA FERRAZZANO – VICESINDACO DI BOVOLONE (VR) Io arrivo a Bovolone nel 2007. Avevamo una diagnostica tac, una tomografia.

CLAUDIA DI PASQUALE E in quel momento che reparti c'erano?

ANNA MARIA FERRAZZANO – VICESINDACO DI BOVOLONE (VR) Noi avevamo le sale operatorie. Anche le biopsie venivano fatte, c'era l'ortopedia…

CLAUDIA DI PASQUALE Di questi reparti oggi cosa è rimasto?

ANNA MARIA FERRAZZANO – VICESINDACO DI BOVOLONE (VR) Niente. Zero.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Oggi a Bovolone non è rimasto neanche il punto di primo intervento, nonostante avesse una media di 14mila accessi l’anno. Il servizio è stato sospeso già due anni fa per carenza di personale. L'unico periodo in cui l'hanno riaperto è stato da settembre a novembre 2021, in coincidenza con le elezioni amministrative.

ORFEO POZZANI – SINDACO DI BOVOLONE (VR) Se parte una campagna elettorale il primo di settembre, i primi di settembre, e ci insediamo a fine ottobre e come arrivo io la prima cosa che fanno mi chiudono il punto di primo intervento, vuol dire che dietro c'era qualcosa che non era legato alla salute dei cittadini ma forse a un interesse politico.

CLAUDIA DI PASQUALE Hanno riaperto il punto di primo intervento soltanto sotto le elezioni?

ORFEO POZZANI – SINDACO BOVOLONE Sì, perché è partita la campagna elettorale proprio i primi di settembre. Non è stato aperto sei mesi, un anno: è stato aperto un mese e mezzo.

PIETRO GIRARDI – DIRETTORE GENERALE ULSS 9 SCALIGERA (VR) Siamo stati costretti a sospendere il punto di primo di intervento di Bovolone a causa della mancanza dei medici…

CLAUDIA DI PASQUALE Se manca il personale, manca anche sotto le elezioni. Perché proprio sotto le elezioni avete riaperto?

PIETRO GIRARDI – DIRETTORE GENERALE ULSS 9 SCALIGERA (VR) Avevamo una procedura in corso a quell’epoca con possibilità di poter assumere delle persone, poi purtroppo non tutte quelle che si erano iscritte si sono presentate.

CLAUDIA DI PASQUALE Ho capito, ma avete riaperto proprio sotto la campagna elettorale. Eletto il sindaco, chiuso.

 PIETRO GIRARDI – DIRETTORE GENERALE ULSS 9 SCALIGERA (VR) Le coincidenze succedono. In quel caso è successa una coincidenza.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Secondo l’Annuario del ministero della Salute, in Veneto nelle strutture di ricovero pubbliche, dal 1997 al 2020, i dipartimenti di emergenza e accettazione sono scesi da 19 a 12 mentre i pronto soccorso da 69 a 15. Il risultato è che dagli anni ‘90 in poi, in provincia di Verona, sono stati dismessi e riconvertiti diversi ospedali e questo ha portato alla chiusura dei relativi pronto soccorso, di cui solo oggi uno è attivo come punto di primo intervento su tre previsti.

CLAUDIA DI PASQUALE Quello che noi abbiamo potuto verificare, con nostra sorpresa devo dirle, è che negli ultimi venti ma anche dieci anni, la regione Veneto è tra le regioni italiane che ha tagliato il maggior numero di pronto soccorso.

MANUELA LANZARIN – ASSESSORA SANITÀ REGIONE VENETO Non mi risulta questa cosa, voi avrete i dati nazionali. A me non risulta. Ci sono dei punti di primo intervento che funzionano anche h24.

CLAUDIA DI PASQUALE Intanto erano previsti dei punti di primo intervento che non sono stati mai attivati o che comunque sono stati chiusi. Penso a Bovolone ma anche a Isola della Scala.

MANUELA LANZARIN – ASSESSORA SANITÀ REGIONE VENETO Non sono stati chiusi.

CLAUDIA DI PASQUALE Sono sbarrati.

MANUELA LANZARIN – ASSESSORA SANITÀ REGIONE VENETO C’è una difficoltà oggi che non neghiamo e non nascondiamo, per essere chiari e corretti, rispetto alla carenza di personale nei confronti dell’emergenza/urgenza.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Ci mancherebbe pure che la nascondessero. Insomma, quella messa in fila di ospedali abbandonati una volta l’avresti vista in Calabria. E invece stiamo parlando della sanità che è stata eletta come la migliore sanità del nostro paese. Tuttavia, l’amarezza aumenta perché stiamo guardando nella pancia di quella terra che ha dato i natali alla madre del servizio sanitario nazionale, Tina Anselmi. Servizio sanitario nazionale che ha cominciato nel 1978 a servire i cittadini, ecco, che è stato però disgregato nel giro di 25/30 anni. E il metodo è sempre lo stesso, quello che abbiamo visto in Lombardia. Si è cominciato col chiudere gli ospedali dei piccoli centri, poi i pronto soccorso, a declassare i presidi sanitari. Ora però arriveranno 250 milioni dal Pnrr. E insomma, è una bella notizia, peccato che però sono destinati a finanziare le mura, non le persone che ci lavorano dentro. E il Veneto è stata la regione che più ha creduto negli ospedali di comunità: 69, ne hanno già inaugurati 38. Ma il tema vero è: chi ci lavorerà dentro? Dove lo prenderanno il personale?

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Con i suoi sei milioni di turisti l'anno Cavallino-Treporti è la seconda spiaggia d'Italia e la prima del Veneto. A seguire c’è il litorale di Jesolo che fa altri 5.300.000 bagnanti. E proprio a due passi dalla spiaggia si trova questo ospedale storico.

SALVATORE ESPOSITO – COMITATO DIFESA SANITÀ ULSS 4 – JESOLO (VE) Noi vorremmo capire con quale ratio si è smobilitato l'ospedale di Jesolo. Prima era un ospedale completo di tutto, c'era anche ginecologia, c’era ostetricia, aveva le sale operatorie. Ora non c'è più niente di questo.

CLAUDIA DI PASQUALE Prima a Jesolo c'era anche il pronto soccorso?

SALVATORE ESPOSITO – COMITATO DIFESA SANITÀ ULSS 4 – JESOLO (VE) C’era il pronto soccorso, che era anche ben organizzato.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Ora con i soldi del Pnrr a Jesolo saranno realizzati un ospedale di comunità e una casa della comunità, ma di fatto non è più un ospedale per acuti: ha perso la chirurgia, la lungodegenza e nel 2020 il pronto soccorso è stato declassato a punto di primo intervento. Significa che i casi gravi vanno trasferiti al pronto soccorso di San Donà di Piave, che si trova a 45 minuti di distanza da Cavallino-Treporti.

PASQUALE PICCIANO – DIRIGENTE MEDICO PRONTO SOCCORSO DI JESOLO 1991-2020 Il problema è di informare la popolazione che qui non c'è più il pronto soccorso, perché se noi andiamo a chiedere alla popolazione viene considerato sempre un pronto soccorso. Allora, almeno se non altro cambiare la cartellonistica: noi vediamo qui che c'è ancora scritto pronto soccorso.

CLAUDIA DI PASQUALE Quando non è più un pronto soccorso.

PASQUALE PICCIANO – DIRIGENTE MEDICO PRONTO SOCCORSO DI JESOLO 1991-2020 Quando non è più un pronto soccorso.

CLAUDIA DI PASQUALE Su Jesolo, perché non c'è scritto che è un punto di primo intervento e c'è scritto che è un pronto soccorso? Non è rischioso per le persone?

MANUELA LANZARIN – ASSESSORA SANITÀ REGIONE VENETO Cosa vuol dire non è rischioso per le persone?

CLAUDIA DI PASQUALE Che pensano di andare al pronto soccorso e in realtà non c'è.

MANUELA LANZARIN – ASSESSORA SANITÀ REGIONE VENETO Le persone vengono seguite nel momento che hanno un'emergenza e poi vengono sennò subito trasportate dove c'è chi può prendersi in carico e cura di quella persona.

CLAUDIA DI PASQUALE Questo è il portale della sanità della Regione Veneto. Viene chiamato pronto soccorso Jesolo: è un punto di primo intervento. Se io vado a vedere le liste d'attesa io trovo scritto che è un pronto soccorso. È falso, cioè, non so come dire.

MANUELA LANZARIN – ASSESSORA SANITÀ REGIONE VENETO …

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO In tutto questo la gestione del punto di primo intervento di Jesolo è stata affidata a delle cooperative private: la Castel Monte di Montebelluna e la Medical line Consulting di Roma.

GIOVANNI LEONI – SEGRETARIO REGIONALE SINDACATO CIMO – VENETO Pochi mesi fa siamo arrivati al 70 per cento dei pronto soccorso del Veneto che hanno una parte dei turni integrata dalle cooperative.

CLAUDIA DI PASQUALE Di fatto al pubblico costano di più.

GIOVANNI LEONI – SEGRETARIO REGIONALE SINDACATO CIMO – VENETO Sì, siamo partiti da 30-35 euro lordi all'ora e siamo arrivati a 100 euro. E in qualche caso, in Lombardia, ho sentito parlare anche di 120 euro lordi. Quindi alla fine un libero professionista prende il doppio di un medico dipendente, pur non avendo i requisiti e magari il curriculum di un medico che è specializzato e si è fatto dieci, venti, trent'anni di lavoro.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO La Regione Veneto ha quindi accettato di pagare i turni aggiuntivi dei medici ospedalieri nei pronto soccorso 100 euro l’ora, ma il resto delle ore viene pagato come da contratto, cioè la metà. Quest'estate, poi, è scoppiato il caso di un professionista che vive alle Canarie, che è arrivato in Veneto in aereo, ha fatto 66 ore di fila al pronto soccorso e ha guadagnato 6.600 euro lordi in meno di tre giorni.

CRISTIAN MANUEL PEREZ – ANESTESISTA RIANIMATORE – PRESIDENTE CMP GLOBAL MEDICAL DIVISION Non è l'unico. Ci sono tanti professionisti che, ripeto, concentrano magari la propria attività in dieci giorni di turno e poi 15 giorni magari vanno a svernare da qualche parte. Ripeto, la libera professione offre questo.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Collezionista di Lego, campione mondiale di nuoto, carabiniere, medico anestesista e anche cavaliere dell'Orden del Camino de Santiago.

CLAUDIA DI PASQUALE Lei l’ha fatto il cammino di Santiago?

CRISTIAN MANUEL PEREZ – ANESTESISTA RIANIMATORE – PRESIDENTE CMP GLOBAL MEDICAL DIVISION Sì, sì sì che l’ho fatto. Una tappa eh, non tutto.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Cristian Manuel Perez è il fondatore della CMP, una delle più grandi cooperative di medici con oltre 69 appalti negli ospedali di tutta Italia e un fatturato che è passato da 1.400.000 nel 2017 a 12.800.000 nel 2021.

CLAUDIA DI PASQUALE Quanti professionisti collaborano con voi?

CRISTIAN MANUEL PEREZ – ANESTESISTA RIANIMATORE – PRESIDENTE CMP GLOBAL MEDICAL DIVISION Tra medici e infermieri siamo più meno un migliaio in tutta Italia.

CLAUDIA DI PASQUALE In che modo trovate invece il personale?

CRISTIAN MANUEL PEREZ – ANESTESISTA RIANIMATORE – PRESIDENTE CMP GLOBAL MEDICAL DIVISION Allora, noi diamo la possibilità ai nostri professionisti di organizzarsi il proprio tempo in massima libertà. Quindi se mi piace andare in montagna, vado a fare un turno a Merano. Mi piace il mare, vado a fare un turno in Sicilia o in Calabria o in qualche posto dove c'è il mare.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO In Veneto la CMP è presente in ben 14 ospedali. Uno di questi è quello di Trecenta, in provincia di Rovigo, inaugurato nel 1997 dall’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, con 250 posti letto già attivati e una capacità potenziale di 350.

PIETRO TOSARELLO – COMITATO SALVIAMO L'OSPEDALE SAN LUCA Immediatamente dopo sono cominciati i tagli, fino a ridurre un ospedale che aveva più di 200 posti letto ad averne, in teoria, 130. Abbiamo perso il punto nascite, abbiamo perso ostetricia e ginecologia.

CLAUDIA DI PASQUALE Almeno il pronto soccorso è rimasto?

PIETRO TOSARELLO – COMITATO SALVIAMO L'OSPEDALE SAN LUCA No, non abbiamo più il pronto soccorso da quando è iniziata l'epidemia di Covid. C'è un punto di primo soccorso il cui compito sostanzialmente è dirottare i pazienti sull'ospedale di Rovigo.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Al punto di primo intervento lavorano due medici: uno interno fino alle ore 16, l'altro della cooperativa CMP, che però deve occuparsi anche del 118.

CLAUDIA DI PASQUALE Il medico interno copre il turno, lei mi ha detto, 8-16. Cioè, dopo le 16 che succede?

CRISTIAN MANUEL PEREZ – ANESTESISTA RIANIMATORE – PRESIDENTE CMP GLOBAL MEDICAL DIVISION Smonta, va a casa e rimane solo il medico del 118.

CLAUDIA DI PASQUALE Quindi il turno h24 è coperto da voi?

CRISTIAN MANUEL PEREZ – ANESTESISTA RIANIMATORE – PRESIDENTE CMP GLOBAL MEDICAL DIVISION Sì, però se siamo fuori, se siamo fuori per un'urgenza - a volte durano anche 2/3 ore le urgenze lì perché il territorio è vasto - rimangono solo gli infermieri.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO E pensare che l'ospedale di Trecenta è nato per sostituire quattro ospedali dell'Alto Polesine. Tre sono poi stati riconvertiti in presidi territoriali mentre l'ex ospedale Casa Rossi, che si trovava nel centro storico di Trecenta, è ridotto così.

CLAUDIA DI PASQUALE Questo ospedale non è stato più usato.

PIETRO TOSARELLO – COMITATO SALVIAMO L'OSPEDALE SAN LUCA Non è stato più usato in nessun modo e, come vedete, adesso rischia di crollare.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Un altro ospedale è stato dismesso a Badia Polesine. Oggi qui, con i soldi del Pnrr, sarà realizzata una casa di comunità.

CLAUDIA DI PASQUALE E qui c'era un pronto soccorso anche?

PIETRO TOSARELLO – COMITATO SALVIAMO L'OSPEDALE SAN LUCA Qui c'era il pronto soccorso, c'era tutto.

CLAUDIA DI PASQUALE Trecenta era un ospedale che ha sostituito quattro ospedali, a sua volta è stato svuotato, tagliato e non ha manco il pronto soccorso.

MANUELA LANZARIN – ASSESSORA SANITÀ REGIONE VENETO Oggi Trecenta ha…

CLAUDIA DI PASQUALE Questo voglio dirle.

MANUELA LANZARIN – ASSESSORA SANITÀ REGIONE VENETO Oggi Trecenta ha una sua programmazione e risponde a un bisogno individuato da parte appunto dell'azienda e della programmazione in quella zona.

CLAUDIA DI PASQUALE Qual è il bisogno? Cioè, il punto di primo intervento ha un medico solo. Poi c'è la cooperativa privata con un medico che fa anche il medico soccorritore e quindi se esce non c'è nessuno e restano gli infermieri.

MANUELA LANZARIN – ASSESSORA SANITÀ REGIONE VENETO Basta che apriamo un telegiornale, un giornale e abbiamo visto quanto i pronto soccorso oggi siano in affanno in tutta Italia. È chiaro che per garantire i servizi, fatti i bandi, fatti i concorsi andati deserti, non riuscendo a recuperare nessun tipo di personale, l'ultima spiaggia è quella delle cooperative.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Anche in provincia di Padova, a Schiavonia, è stato inaugurato nel 2014 un nuovo ospedale, l’avveniristico Santa Madre Teresa di Calcutta, che ha sostituito altri quattro ospedali che alla fine degli anni ‘90 contavano insieme più di 800 posti letto. Uno di questi era quello di Monselice, che aveva anche il pronto soccorso.

FRANCESCO MIAZZI – CONSIGLIERE COMUNALE LISTA CIVICA AMBIENTE E SOCIETÀ – MONSELICE (PD) Era un ospedale molto importante per tutto il territorio del monselicense.

CLAUDIA DI PASQUALE E oggi è completamente chiuso?

FRANCESCO MIAZZI – CONSIGLIERE COMUNALE LISTA CIVICA AMBIENTE E SOCIETÀ – MONSELICE (PD) Funzionano solamente alcune ali per servizi amministrativi, punto tamponi, vaccini.

CLAUDIA DI PASQUALE E i reparti?

FRANCESCO MIAZZI – CONSIGLIERE COMUNALE LISTA CIVICA AMBIENTE E SOCIETÀ – MONSELICE (PD) Chiusi. È tutto vuoto, tutto inutilizzato.

CLAUDIA DI PASQUALE L'Ospedale di Monselice è vuoto.

MANUELA LANZARIN – ASSESSORA SANITÀ REGIONE VENETO L'Ospedale di Monselice ha una parte legata al distretto.

CLAUDIA DI PASQUALE Cioè, quelle strutture basse che ci sono diciamo all'ingresso. E tutto l'ospedale, che è enorme, è chiuso?

MANUELA LANZARIN – ASSESSORA SANITÀ REGIONE VENETO È chiuso, è stato riaperto per il covid come un… è stato temporaneamente messo in utilizzo per il Covid, per le persone.

CLAUDIA DI PASQUALE Ma non è stato poi usato per il Covid.

MANUELA LANZARIN – ASSESSORA SANITÀ REGIONE VENETO No. Era pronto per essere aperto. No no, era pronto per essere aperto come abbiamo fatto in altri ospedali.

CLAUDIA DI PASQUALE È veramente grande, assessore. È vuoto dentro?

MANUELA LANZARIN – ASSESSORA SANITÀ REGIONE VENETO Sì.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORICAMPO Alla fine, durante la pandemia, ad essere utilizzato come covid hospital non è stato il vecchio ospedale di Monselice ma quello nuovo di Schiavonia.

FRANCESCO MIAZZI – CONSIGLIERE COMUNALE LISTA CIVICA AMBIENTE E SOCIETÀ – MONSELICE (PD) Quindi per due anni, fino a qualche mese fa, l'ospedale è rimasto praticamente per la maggior parte chiuso.

CLAUDIA DI PASQUALE Il pronto soccorso?

FRANCESCO MIAZZI – CONSIGLIERE COMUNALE LISTA CIVICA AMBIENTE E SOCIETÀ – MONSELICE (PD) Pronto soccorso chiuso e trasformato in punto di primo intervento. Quindi c'erano 180mila persone che non avevano un pronto soccorso.

CLAUDIA DI PASQUALE Chi ha costruito il nuovo ospedale?

FRANCESCO MIAZZI - CONSIGLIERE COMUNALE LISTA CIVICA AMBIENTE E SOCIETÀ MONSELICE (PD) Il nuovo ospedale è stato costruito da una cordata di ditte che in buona parte sono state anche toccate dal cosiddetto scandalo Mose. Facevano parte di un sistema denominato sistema Galan e alla fine della giostra la parte pubblica, l'USL, paga un affitto annuale a questa società che si è costituita per la costruzione e la gestione del nuovo ospedale.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Quella a cui abbiamo assistito è la lenta erosione del servizio sanitario nazionale. L’ospedale di Trecenta è un po’ una metafora in questo nostro racconto: era nato per sostituire i quattro piccoli ospedali che erano presenti in un territorio, uno dei quali è rimasto abbandonato, tre sono stati declassati a presidi sanitari, dentro due ci infileranno le case di comunità. Per quello che riguarda invece l’ospedale di Trecenta, che doveva essere appunto il punto di riferimento di un territorio, negli anni invece gli hanno tolto, hanno fatto chiudere alcuni reparti. È rimasto un punto di primo intervento che però, dopo le 16, trovi un medico delle cooperative private, un gettonista che si occupa pure del 118. L’assessora alla sanità dice ma guardate che i punti di primo intervento sono stati stabiliti e decisi secondo i bisogni ma i bisogni di chi? Poi ammette che, insomma, lo sfacelo dei pronto soccorso e della sanità va in onda a reti unificate ed è impossibile assumere nuovo personale. Bene, però tutto questo non è che è il frutto di una manina anonima o del destino. È il frutto di una scelta politica. Nel 1988 il ministro della Sanità Donat Cattin ha chiuso gli ospedali sotto i 120 posti letto e poi, negli anni ’90, era rimasta comunque una media di sei posti letto ogni mille persone. Una bella sforbiciata invece è arrivata nel 2012, col ministro Balduzzi, che ha dimezzato questa media portata a 3,7 posti letto ogni mille abitanti. E infine, bisognava però poi potenziare il servizio medico territoriale, l’assistenza territoriale, cosa che non è stata fatta come abbiamo visto. Poi è arrivata la Lorenzin e lì è arrivato un bel taglio: sono stati tutti quegli ospedali, presidi sanitari che non garantivano gli standard di qualità. Ecco, invece di innalzarli quegli standard li hanno buttati via questi presidi ospedalieri e sono stati anche chiusi pronto soccorso. Ora, il risultato qual è? Che ci sono gli ospedali rimasti che sono in sofferenza perché hanno troppi pazienti da curare. Pazienti poi che affollano anche il pronto soccorso che però, non avendo alle spalle i posti letto dove ricoverare i pazienti che cosa fanno? Sequestrano le barelle dalle ambulanze per tenere i pazienti anche fino a sei giorni e, di fatto, sequestrano anche le ambulanze che rimangono ferme. Ecco, questa è la fotografia. Ora anche il Veneto, che fino a poco tempo fa aveva mantenuto alta la bandiera del servizio pubblico sanitario, ha ceduto ai privati. Allora, bentornati. Stiamo parlando di sanità. L’Italia punta fortemente a rafforzare la medicina sul territorio. Arriveranno 2 miliardi di euro dal Pnrr da investire su 1.350 case di comunità. Si tratta di strutture sanitarie che andranno per lo più dentro vecchie strutture sanitarie declassate o depotenziate, ex poliambulatori, e dovranno offrire un servizio ai cittadini con un medico di base, medici specialisti, infermieri, assistenti sociali. Un altro miliardo arriverà invece per finanziare 400 ospedali di comunità. Non si tratta di veri ospedali ma di reparti con 20 posti letto gestiti per lo più da infermieri con un medico generico che è lì 4-5 ore. Ora, siamo in Veneto, che ha dato i natali a Tina Anselmi, la madre del servizio sanitario nazionale. Un Veneto che negli anni ha avuto anche lei un’erosione del servizio pubblico. È passata da 19 a 12 dipartimenti di emergenza e accettazione ed è passata da 69 a 15 pronto soccorso, mettendo in difficoltà migliaia e migliaia di cittadini.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Qui siamo in provincia di Belluno, nel Comelico, tra le Dolomiti che ogni anno contano oltre quattro milioni di presenze turistiche.

YASMIN POCCHIESA Se c'è un'emergenza, il tempo di percorrenza da qui all'ospedale è superiore all'ora.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Yasmin abita tra queste valli, a Padola. Due anni fa, alla 34esima settimana di gravidanza, ha avuto un distacco di placenta. Di corsa l'ambulanza l'ha portata all'ospedale di Belluno, che però si trova a quasi un’ora e mezza di distanza.

YASMIN POCCHIESA È stata problematica la sua nascita perché quando l'hanno estratto, ecco, non era, insomma, hanno detto che non era presente. È rimasto senza l'aria. Non sapevano se aveva anche qualche problema neurologico. Il dottore è venuto a parlarci in camera, ecco, ha detto può darsi che viva oppure anche, ha detto, non vi do nessun tipo di speranza.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Il figlio di Yasmin è stato subito portato in terapia intensiva neonatale a Padova e per fortuna oggi sta bene. YASMIN POCCHIESA Era stato un distacco di placenta, hanno detto, parziale perché se fosse stato totale l'emorragia avrebbe causato la nostra morte. Cioè, non può essere che una comunità debba stare con la paura di anche solo di essere incinta come ero io, perché l'ospedale è a un’ora.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Nel weekend, però, quando c'è il pienone di turisti, si può restare bloccati nel traffico anche 3-4 ore. A complicare la situazione prossimamente ci sarà la partenza dei lavori di manutenzione di questa galleria.

ROSANNA QUANDEL – ASSOCIAZIONE COMELICO NUOVO Questa sarebbe l'alternativa se la galleria verrà chiusa.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO La strada alternativa alla galleria è il cosiddetto Passo Sant'Antonio, un valico alpino a 1.476 metri che d'inverno si ricopre di neve.

CLAUDIA DI PASQUALE Percorrendo questa strada, da qui fino all'ospedale di Belluno, quanto tempo..?

ROSANNA QUANDEL – ASSOCIAZIONE COMELICO NUOVO Non è tantissimo in più. Però noi stiamo salendo a 1.400, riscendiamo a 900. Ed è tutta tornanti. La allunghiamo sicuramente di mezz'ora.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Eppure tra le Dolomiti bellunesi si contano ben quattro ospedali. Uno di questi è quello di Agordo, che ufficialmente ha ancora il pronto soccorso che è stato addirittura ristrutturato.

GUIDO TRENTO – COMITATO SANITÀ AGORDINA Noi siamo contenti che è stato ristrutturato. Però, in effetti serve a poco il pronto soccorso se non ci sono i reparti che funzionano, è una presa in giro.

CLAUDIA DI PASQUALE Qui ad Agordo cos’è stato tagliato?

GUIDO TRENTO – COMITATO SANITÀ AGORDINA La radiologia, il laboratorio analisi ed è stato tagliato, è stata eliminata la chirurgia 24h.

CLAUDIA DI PASQUALE Se uno arriva qua al pronto soccorso che succede?

GUIDO TRENTO – COMITATO SANITÀ AGORDINA Se ha una patologia tempo-dipendente non succede niente, viene trasferito in ospedale a Belluno.

MANUELA LANZARIN – ASSESSORA SANITÀ REGIONE VENETO È chiaro che l'ospedale hub in questo caso è l'ospedale di Belluno. Le situazioni di emergenza e urgenza vengono garantite sempre.

CLAUDIA DI PASQUALE Il problema sono i tempi perché o mi viene a prendere l’elicottero..

MANUELA LANZARIN – ASSESSORA SANITÀ REGIONE VENETO C'è l'elicottero, c'è un elicottero a Pieve di Cadore, altrimenti interviene l'elicottero di Treviso. E abbiamo aggiunto da quest'estate anche un elicottero a Cortina.

GUIDO TRENTO – COMITATO SANITÀ AGORDINA L'elicottero non vola 365 giorni all'anno.

CLAUDIA DI PASQUALE Quanti giorni può non volare un elicottero?

GUIDO TRENTO – COMITATO SANITÀ AGORDINA Mah, si stima qui da noi, tenendo conto del tempo, che circa metà dell’anno non può volare.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Quest'estate a Pieve di Cadore è stata inaugurata questa nuova pista per l'elisoccorso, costata oltre tre milioni di euro. L'ospedale, invece, nel corso del tempo ha subito tagli pesanti.

ENZO BOZZA – MEDICO DI MEDICINA GENERALE VODO DI CADORE (BL) A Pieve non c'è più una ginecologia, non c'è più una pediatria, non c'è più una psichiatria e non si fa più una chirurgia, diciamo, di base.

CLAUDIA DI PASQUALE Ufficialmente, però, a Pieve di Cadore c'è un pronto soccorso.

ENZO BOZZA – MEDICO DI MEDICINA GENERALE VODO DI CADORE (BL) Il problema è il personale, la diagnostica, il laboratorio, la radiologia. Dopo, dopo le cinque, non c'è più. Ecco, vietato ammalarsi dopo le cinque.

CLAUDIA DI PASQUALE Giovanni Monico trasporta a titolo volontario gli anziani di queste valli negli ospedali di Feltre e Belluno, soprattutto da quando quello di Pieve è stato depotenziato.

GIOVANNI MONICO – PRESIDENTE AUSER VOLONTARIATO PIEVE DI CADORE (BL) Se partiamo dai margini del territorio di questa Ulss - Comelico da una parte e Ampezzo dall'altra - abbiamo 30 chilometri da Pieve, 50 a Belluno, 30 a Feltre. Far fare a un anziano un viaggio di 220 chilometri più la coda nell'ospedale, significa mettere l'anziano in una seria difficoltà.

CLAUDIA DI PASQUALE Ma Pieve è un pronto soccorso o un punto di primo intervento?

MANUELA LANZARIN – ASSESSORA SANITÀ REGIONE VENETO Pieve di Cadore è un pronto soccorso.

CLAUDIA DI PASQUALE Però dietro l'ospedale non ha più nulla.

MANUELA LANZARIN – ASSESSORA SANITÀ REGIONE VENETO È vuoto secondo lei il presidio di Pieve di Cadore?

CLAUDIA DI PASQUALE Quasi.

MANUELA LANZARIN – ASSESSORA SANITÀ REGIONE VENETO Ma ci sono ancora diversi reparti. C'è la medicina.

CLAUDIA DI PASQUALE Poi?

MANUELA LANZARIN – ASSESSORA SANITÀ REGIONE VENETO La medicina. Ci sono altri reparti.

CLAUDIA DI PASQUALE Tipo?

MANUELA LANZARIN – ASSESSORA SANITÀ REGIONE VENETO Adesso non mi ricordo, cioè, dovrei aprire le schede ospedaliere. È impossibile per me su 68 ospedali ricordarmi i reparti che ci sono in ogni singolo ospedale.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Entriamo nell’ ospedale di Pieve di Cadore. Al primo piano, in effetti, troviamo un reparto di ortopedia e traumatologia. A gestirlo, però, non è il pubblico ma un privato: il gruppo Villa Maria, del romagnolo Ettore Sansavini, che al secondo piano ha anche la disponibilità della sala operatoria.

OPERATRICE A Pieve abbiamo la sala operatoria al piano di sopra. E dopo l'intervento vengono ricoverati qua. Comunque, c'è modo anche di fare la visita qui, direi.

GIOVANNI MONICO – PRESIDENTE AUSER VOLONTARIATO PIEVE DI CADORE (BL) Sono affari loro. Se la gestiscono loro: sala operatoria e poi si gestiscono il reparto, capito? Hanno affittato la sala operatoria.

CLAUDIA DI PASQUALE Se io vado a Pieve, però, uno sale al primo piano e trova il privato che fa ortopedia. Quindi Pieve il suo reparto di ortopedia non ce l'ha, ma il privato dentro Pieve ha la possibilità di usare dieci posti letto e le sale operatorie.

MANUELA LANZARIN – ASSESSORA SANITÀ REGIONE VENETO A Pieve di Cadore c'è una convenzione con chi oggi è stato individuato come futuro gestore dell'ospedale di Cortina.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Tutto parte nel 2019 quando il Gruppo Villa Maria si aggiudica la concessione ventennale per la gestione della struttura ospedaliera di Cortina D’Ampezzo, dove oggi però sono in corso dei lavori di ristrutturazione.

CLAUDIA DI PASQUALE Loro, diciamo, hanno la possibilità di stare a Pieve perché Cortina è in ristrutturazione. Ma i lavori di ristrutturazione chi li paga?

MANUELA LANZARIN – ASSESSORA SANITÀ REGIONE VENETO I soldi sono all'interno di un programma che è stato stipulato e che vede anche una parte con finanziamenti Inail, una parte con finanziamenti regionali.

CLAUDIA DI PASQUALE Non sembra, diciamo, un'operazione conveniente, vista così.

MANUELA LANZARIN – ASSESSORA SANITÀ REGIONE VENETO Se è stata intrapresa, vuol dire che si rivede la convenienza ma soprattutto il servizio pubblico.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora, la fotografia del servizio sanitario nazionale è impietosa. Siamo partiti dal 1997 come data simbolica perché quell’anno è nato Report. Che cosa abbiamo calcolato? Abbiamo calcolato i pronto soccorso che sono stati chiusi all’interno degli istituti di ricovero pubblici. E all’epoca, nel 1997, si contavano 782 pronto soccorso. Sono diventati 410, praticamente la metà. Andiamo regione per regione: provincia di Bolzano, da 8 è scesa a 7; Trento, da 10 è scesa a 7; la Valle d’Aosta ne aveva uno e uno è rimasto. Andiamo avanti con delle altre regioni: Friuli Venezia-Giulia da 16 a 7; Liguria da 23 a 9, l’Emilia-Romagna da 44 a 20. Le altre regioni, ancora: Toscana da 34 a 32, ha resistito; l’Umbria da 7 a 9, è l’unica che ha aumentato; poi le Marche da 34 a 8 addirittura. E poi, ancora, Lazio da 69 a 40; Abruzzo da 20 a 16; il Molise da 6 a 3. E ancora avanti, altre regioni: la Campania da 59 a 43; la Puglia da 70 addirittura a 29; la Basilicata da 12 addirittura a 2. E poi ancora avanti: la Calabria da 32 a 18; la Sicilia da 77 a 57; la Sardegna da 26 a 21. Ora, questi sono dati dall’Annuario del ministero della Salute. Gli unici presidi che sono aumentati di emergenza sono i dipartimenti di emergenza da 202 a 270: 68 in più ma di fronte a 372 pronto soccorso chiusi. Ecco, capite perché quelli rimasti sono sempre affollati. Ora, si cerca di mettere un filtro potenziando la medicina territoriale, con le case e gli ospedali di comunità. Ma non è un’idea nuova questa: già nel 2007 la ministra della Salute Livia Turco aveva ipotizzato le case della salute, dei centri polivalenti che avevano a disposizione vari servizi territoriali, specialisti ambulatoriali, cup, assistenza domiciliare, telemedicina, soprattutto medici di medicina generale. E aveva anche garantito, l’idea era quella di garantire un’assistenza h24, sette giorni su sette. La Turco aveva a disposizione 10 milioni di euro e uno dei motivi per cui era fallita poi questa idea era il solito nodo, il solito problema: la carenza di medici di base. Ora a disposizione invece ci sono due miliardi del Pnrr ma che finanzieranno solo le mura, non il personale che abbiamo visto che manca anche negli ospedali e nei pronto soccorso. A beneficio delle cooperative private che colmano quei vuoti che contribuiscono anche loro a creare perché ci sono dei medici che si licenziano perché hanno capito che c’è da guadagnare. Ora, però, questo potrebbe mettere a rischio non solo le case della salute pubblica ma anche quelle della qualità del servizio espresso. I carabinieri dei NAS, guidati da Paolo Carra, il generale, sono entrati in strutture pubbliche accreditate per verificare la qualità del personale messo a disposizione da alcune di queste cooperative e hanno scoperto la jungla: infermieri, operatori sanitari senza titoli medici, privi della specializzazione in medicina d’urgenza all’interno del pronto soccorso; medici sopra i 70 anni; medici generici messi nei reparti di ginecologia e ostetricia pur non essendo in grado di condurre un parto cesareo. E poi medici in pediatria che facevano turni di oltre 24 ore mettendo a rischio anche la loro lucidità. Ora, se nel sistema sanitario nazionale si continuano a salvare delle vite non lo si deve ai manager o alle politiche sanitarie ma a chi ogni mattina, a quei dipendenti pubblici del servizio sanitario pubblico, che ogni mattina onorano l’articolo 32 della Costituzione: la tutela della salute come valore fondamentale dell’individuo ma anche nell’interesse della collettività, garantendo le cure a chi è indigente.

Caos Pronto Soccorso. Report Rai.PUNTATA DEL 05/12/2022 di Chiara De Luca

Collaborazione di Giulia Sabella

A Torino i pronto soccorso sono nel caos.

Mancano posti letto e i pazienti restano in attesa nei corridoi dei pronto soccorso per giorni, privati della necessaria assistenza. In Piemonte dal 2010 a oggi si stima siano stati tagliati circa 2000 posti letto.

DOMANDE E RISPOSTE AGGIUNTIVE REPORT - Cosa si intende per utilizzo flessibile? L’impiego delle risorse “in modo flessibile” è stato definito e autorizzato dal decreto legge n. 146 del 21 ottobre 2021, con applicazione dal 31 dicembre 2021. In Piemonte sono stati investiti in tutto 128 milioni di euro per il potenziamento dell’assistenza domiciliare integrata e l’assunzione in larga prevalenza di infermieri e operatori socio sanitari, di cui una parte attraverso il DL in oggetto. È stato assunto tutto il personale sanitario reclutabile, data la difficoltà di reperire le risorse umane del settore durante la pandemia, e laddove non è stato possibile i fondi sono stati impiegati in modo flessibile, secondo le indicazioni nazionali, principalmente sempre per assumere personale a servizio della gestione dell’emergenza. - Come sono stati spesi e rendicontati gli 87 milioni di euro del 2021? Degli 87 milioni 167.840 euro assegnati dal Dl 34/2020 per l’anno 2021, 23 milioni 210.691 euro sono stati utilizzati secondo le finalità individuate dallo stesso Decreto di assegnazione e i restanti 63 milioni 957.150 euro per le finalità di copertura della spesa Covid, secondo i criteri di flessibilità individuati dal Decreto legge 146 del 21 ottobre 2021. L’utilizzo delle risorse “flessibili” è avvenuto per l’acquisto di prestazioni sanitarie e non sanitarie correlate all'emergenza pandemica, l’assunzione di altro personale del ruolo sanitario e di personale del ruolo tecnico e amministrativo per prestazioni correlate all'emergenza pandemica. Nel dettaglio: - dei 25 milioni 131.703 euro assegnati per l’Assistenza domiciliare integrata, sono stati utilizzati 5 milioni 230.678 euro e “flessibilizzati” 19 milioni 551.025 euro. - dei 35 milioni 350.937 euro assegnati per l’assunzione degli infermieri, sono stati utilizzati 7 milioni 411.847 euro e “flessibilizzati” 25 milioni 819.090 euro - l’assegnazione di 1 milione e 125.000 euro per le Centrali operative territoriali è stata utilizzata totalmente - dei 18 milioni 056.769 euro assegnati per ulteriori assunzioni di personale (art 2, c7), sono stati utilizzati 7 milioni 807.157 euro e “flessibilizzati” 9 milioni 791.224 euro - dei 7 milioni 503.432 euro assegnati per ulteriori assunzioni di personale (art 2, c5), sono stati utilizzati 1 milione 636.009 euro e “flessibilizzati” 5 milioni 867.423 euro - Quale cifra alla fine è stata dedicata al potenziamento dell’assistenza domiciliare integrata e quale cifra all’assunzione di infermieri? Riguardo alle risorse assegnate dal Decreto legge 34/2020, sono stati spesi per l’Assistenza domiciliare integrata 5 milioni 230.678 euro e per l’assunzione degli infermieri 7.411.847 euro. A queste risorse, vanno aggiunti i 116 milioni di euro di fondi europei che la Regione Piemonte ha utilizzato nello stesso periodo per l’assunzione di infermieri e operatori socio sanitari. Complessivamente, sono stati dedicati al potenziamento dell’assistenza domiciliare integrata e all’assunzione in larga prevalenza di infermieri oltre 128 milioni di euro (12 milioni dal Dl 34/2020 e 116 milioni dai fondi europei), senza contare che i 61 milioni della “flessibilità” sono comunque stati spesi in gran parte per l’acquisizione di altro personale del ruolo sanitario, tecnico e amministrativo a tempo determinato o con altre forme atipiche per prestazioni correlate all'emergenza pandemica. DOMANDE E RISPOSTE AGGIUNTIVE A REPORT (2 e 3) Cogliamo l’occasione per chiedervi, per completezza, se la flessibilizzazione ha riguardato anche i fondi del 2020 oltre che quelli del 2021 e, se sì, quanti di questi sono stati flessibilizzati e quanti sono stati utilizzati secondo le finalità individuate dal dl 34/2020. Dei 122,8 milioni previsti dal DL 34, nel 2020 non sono stati flessibilizzati importi. Le risorse sono state utilizzate per il reclutamento di tutto il personale possibile (si sottolinea che i bandi per il reclutamento di personale sanitario per l’emergenza Covid-19 sono rimasti aperti per tutto il 2020, a significare la straordinaria difficoltà a reperire le risorse professionali richieste) e dove non utilizzate dalle Aziende sanitarie regionali (61,2 milioni di euro) sono state accantonate e usate nel 2021 (in particolare 6,7 milioni per le finalità del DL 34 e il resto flessibilizzato per la gestione della pandemia in linea con le disposizioni normative nazionali). Si ribadisce che anche nel 2021 è stato assunto tutto il personale reclutabile. In attesa di una risposta in merito ai fondi 2020 avremmo bisogno di avere altre informazioni in particolare, in riferimento ai fondi del decreto 34/2020 flessibilizzati. Dalle nostre ricerche emerge che i suddetti fondi siano stati utilizzati per coprire le perdite di bilancio delle aziende sanitarie a partire dalla nota prot. 4336 del 04/02/2022 inviata dalla Regione Piemonte alle ASR in occasione della predisposizione dei rendiconti economici preconsuntivi 2021 secondo cui: considerata la situazione di perdita provvisoria dichiarata nei conti economici 2021, le Aziende sanitarie sono autorizzate all’utilizzo flessibile delle risorse Covid assegnate negli anni 2020 e 2021, per tutte le attività rese nel 2021, prescindendo dalle singole disposizioni in relazione a ciascuna linea di finanziamento. Indicazione che è stata ribadita nella nota regionale prot.28903 del 01/08/2022 che al punto 3 indica: “le aziende sanitarie pubbliche del SSR sono tenute, diversamente da quanto indicato dai precedenti provvedimenti di Giunta regionale, a rendere disponibili le risorse 2021 previste dalle normative nazionali, per tutte le attività assistenziali rese nel 2021, prescindendo dalle singole disposizioni in relazione a ciascuna linea di finanziamento. In conclusione, vi chiediamo di confermarci se i suddetti fondi siano stati utilizzati per coprire le perdite di bilancio delle aziende sanitarie. Cogliamo l’occasione anche per chiedervi se potete indicarci l’articolo e il comma del decreto legge n.146 del 21 ottobre 2021 che autorizza l’utilizzo flessibile delle risorse del 34/2020. L’utilizzo flessibile delle risorse del DL 34/2020 è avvenuto attraverso l’articolo 16, comma 8-novies, del decreto legge 21 ottobre 2021, n.146. Non si tratta, quindi, di “coprire perdite di bilancio”, ma di utilizzare le risorse della flessibilizzazione per tutte le attività assistenziali Covid, nel pieno rispetto della normativa nazionale. Si ribadisce che l’impiego dei fondi flessibili è avvenuto laddove era stato assunto tutto il personale sanitario reclutabile.

CAOS PRONTO SOCCORSO di Chiara De Luca collaborazione Giulia Sabella immagini Fabio Martinelli, Paco Sannino montaggio Andrea Masella

PAZIENTE 1 Aiuto, aiuto.

PAZIENTE 2 Sto da tanto tempo così, mi fa male il collo.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Siamo a Torino. A quasi tre anni dall’inizio della pandemia i pronto soccorso continuano a essere nel caos: i malati abbandonati nei corridoi chiedono aiuto anche a noi.

PAZIENTE 2 Venga qua.

CHIARA DE LUCA Mi dica.

PAZIENTE 2 Io sto da tanto tempo così, ho bisogno di riposare un pochino, nessuno viene, ho bisogno di una infermiera.

SOCCORRITORE È una condizione di disumanità alla quale assistiamo in modo molto frequente, con persone che sono ammassate nei corridoi degli ospedali e una sull’altra senza un minimo di dignità.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Alla centrale operativa del 118 arrivano sempre più spesso questi fax: a causa dell’elevato afflusso di pazienti e l’assenza di posti letto e di barelle, si invita a inviare eventuali urgenze in altri presidi. Gli ospedali sono pieni e cercano di inviare i pazienti altrove.

STEFANO DE AGOSTINIS - INFERMIERE CENTRALE OPERATIVA 118 – SINDACATO NURSIND TORINO Gli ospedali segnalano le loro difficoltà nel ricevere pazienti e lo fanno attraverso i cosiddetti fax, ma sono consultivi e non vincolanti quindi se abbiamo la necessità di mandare i pazienti in ospedale e siamo costretti a farlo, continuiamo a farlo.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO In mancanza di spazio, i pazienti vengono riversati nei corridoi.

INFERMIERE 1 Queste barelle davanti al bancone della sala visite non dovrebbero esistere. Qua ce ne sono sette, sono tutti appiccicati.

INFERMIERE 2 Non ci sono i posti letto quindi i pazienti rimangono qua tre, quattro giorni e quando hai un paziente qua lo devi trattare come se fosse un ricoverato.

CHIARA DE LUCA Adesso ci sono anche pazienti che sono qui anche da tre, quattro giorni?

INFERMIERE 2 E sì, quella è la norma.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Questa è la prassi, la regola invece raccomanderebbe che i pazienti stazionino in pronto soccorso al massimo otto ore.

MATTEO TRAVERSA - MEDICO D’URGENZA - RESPONSABILE SINDACATO ANAAO GIOVANI PIEMONTE Il problema principale del sovraffollamento è il fenomeno del boarding: sono i pazienti che rimangono in barella per due, tre, quattro giorni in attesa del ricovero. Sono pazienti che sono già stati visti da noi al pronto soccorso, sono pazienti che sono stati visitati, curati, a cui si è data indicazione a un ricovero.

CHIARA DE LUCA E questo cosa comporta?

MATTEO TRAVERSA - MEDICO D’URGENZA - RESPONSABILE SINDACATO ANAAO GIOVANI PIEMONTE I pazienti rimangono in barella in un corridoio, uno accanto all’altro, non c’è sicurezza perché non c’è modo di arrivare nel caso di un’emergenza, non c’è privacy, ovviamente, perché i pazienti sono fermi lì, tutti in mezzo nello stanzone.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO La Regione Piemonte dal 2010 a oggi ha tagliato circa 2.000 posti letto. Inoltre, secondo l’annuario statistico del ministero della Salute, in Piemonte, nelle strutture di ricovero pubbliche, dal 1997 al 2020 i dipartimenti di Emergenza e Accettazione sono scesi da 27 a 24, mentre i pronto soccorso da 61 a 26.

CHIARA DE LUCA I pronto soccorso, in questo modo, sono un luogo sicuro?

CARLO PICCO - COMMISSARIO AZIENDA ZERO - PIEMONTE È una criticità credo che sia a livello nazionale, ci sono, ovviamente, dei pazienti che stazionano eccessivamente in pronto soccorso, questo è, però, ci sono anche dei reparti in pronto soccorso. Io credo che l’assistenza sanitaria sia garantita, sia garantita a livello di qualità; quello che non è garantito è certamente il comfort alberghiero di questi pazienti che si trovano un po’ a essere in qualche modo gestiti in una struttura che non è una struttura di degenza.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Quello che il commissario della neo azienda Zero piemontese definisce comfort alberghiero è il diritto e non il lusso per i pazienti, a essere assistiti in modo dignitoso.

PAZIENTE 3 C’è qualcuno per togliere la pipì? INFERMIERE Ah sì, adesso te lo chiamo.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO E anche il personale sanitario tutto non se la passa meglio.

FABIO DE IACO - PRESIDENTE NAZIONALE SOCIETÀ ITALIANA MEDICINA DI EMERGENZA – URGENZA Noi facciamo delle cose sui cittadini e sui pazienti che non condividiamo. Siamo gli esecutori fallimentari di un fallimento che non è responsabilità nostra.

GIUSEPPE SUMMA - SEGRETARIO SINDACATO NURSIND TORINO Quotidianamente riceviamo chiamate dai colleghi che ci chiedono proprio di abbandonare la professione perché non ce la fanno più a lavorare in queste condizioni.

CHIARA DE LUCA Cioè, è peggio del Covid?

GIUSEPPE SUMMA - SEGRETARIO SINDACATO NURSIND TORINO È peggio del Covid, assolutamente.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Per coordinare uno dei settori più carenti, la medicina territoriale, tre mesi fa la Regione Piemonte ha messo a punto l’Azienda Zero.

CARLO PICCO - COMMISSARIO AZIENDA ZERO - PIEMONTE Qualcosa dobbiamo fare a medio, a lungo termine e a breve termine; fare monitoraggi, trovare setting di dimissione, potenziare magari l’assistenza domiciliare, creare una rete che sostenga l’uscita dei pazienti dagli ospedali.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO La Regione Piemonte per il 2021 aveva ricevuto con il decreto Rilancio, 87 milioni di euro anche per potenziare la medicina territoriale attraverso l’assistenza domiciliare integrata e l’assunzione di infermieri di famiglia.

CHIARA DE LUCA La regione Piemonte ha autorizzato le aziende, considerata la situazione di dichiarata perdita nei conti economici 2021, a utilizzare questi fondi in maniera flessibile. Cosa significa in maniera flessibile?

CARLO PICCO - COMMISSARIO AZIENDA ZERO - PIEMONTE Noi eravamo in piena pandemia e che c’era necessita di reclutare personale a tutto campo. Quelli che siamo riusciti a reclutare li abbiamo reclutati, dopodiché ne abbiamo utilizzato tutte le forme possibili, magari non utilizzando quello specifico serbatoio. Sono stati utilizzati in un contesto di fondi che, ripeto, la Regione deve ancora avere

FRANCESCO COPPOLELLA - SEGRETARIO SINDACATO NURSIND PIEMONTE Questi fondi sono stati utilizzati indistintamente, non sono stati utilizzati per le linee di finanziamento ai quali erano stati dedicati. Ci dite quegli 80 milioni di euro come li avete spesi? Pensiamo che un’amministrazione pubblica abbia il dovere di rendicontare. Li hai spesi per altro? Mi dici come li hai spesi.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora la Regione ci scrive che su 87 milioni, 23 sono stati impiegati per assunzioni di infermieri e per l'assistenza domiciliare. Gli altri 64 sono stati spesi per altro: secondo la Regione, per il Covid. Ora, però, se tu vuoi evitare che il problema te lo ritrovi a valle, dovresti agire a monte, cioè potenziare la medicina del territorio.

I migliori ospedali italiani, nella «classifica» Agenas. Chiara Daina su Il Corriere della Sera il 7 Dicembre 2022

Humanitas di Rozzano (Milano) e Umberto I di Ancona premiati per i risultati ottenuti in 6 aree cliniche su 7. L’ospedale Del Mare di Napoli primo nel trattamento degli infarti

L’impatto del Covid sugli ospedali italiani non è finito. Anche se le ospedalizzazioni e l’accesso ai trattamenti sono senz’altro in ripresa rispetto al 2020, l’annus horribilis della pandemia.

Lo dimostrano i risultati dell’ultima edizione del Programma nazionale esiti dell’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (Agenas), che ha misurato la qualità dell’assistenza sanitaria riferita al 2021 allo scopo di valutare l’appropriatezza clinica e organizzativa e l’equità di accesso alle cure garantite dal Servizio sanitario nazionale.

I ritardi nei trattamenti urgenti

Il primo dato rilevante è che si sono registrati 500mila ricoveri in più, nonostante il volume sia rimasto sotto i livelli prepandemici (1,2 milioni in meno rispetto al 2019). La riduzione complessiva nel biennio 2020-2022 è stata pari a 2,9 milioni di ricoveri. Nel 2021 perdura una riduzione anche dei ricoveri urgenti rispetto al 2019: circa 11.300 in meno quelli per l’infarto miocardico acuto e circa 5.800 in meno quelli per la frattura del femore.

I trattamenti urgenti non sono stati erogati con la tempestività raccomandata in oltre la metà delle strutture italiane.

I primi dieci ospedali nell’area cardiovascolare

I pazienti con infarto sottoposti a un intervento di angioplastica coronarica entro i 90 minuti dal ricovero sono stati in media il 50,6%.

Nei primi dieci posti della classifica nazionale ci sono l’ospedale del Mare di Napoli, dove la procedura è stata garantita secondo gli standard assistenziali nell’84,2% dei casi, il Policlinico Tor Vergata di Roma, con l’84% dei casi, l’ospedale Spaziani di Frosinone, con l’82,8%, seguito dall’ospedale Giovanni Paolo II di Sciacca (82,1%), l’ospedale Maria Vittoria di Torino (77,8%), l’ospedale S. Antonio Abate di Erice (77,3%), l’ospedale Centrale di Bolzano (76,3), l’ospedale Mater Domini di Catanzaro (75,4%), l’ospedale Maria Santissima Addolorata di Eboli (75%) e l’ospedale Infermi di Rimini (74,8%).

La mortalità dopo un infarto

Cala la mortalità a 30 giorni dopo un infarto cardiaco dall’8,4% nel 2020 al 7,7% nel 2021. Un trend che si riavvicina a quello prepandemico (7,3%).

Tra le strutture con almeno 350 casi in due anni, non ha registrato nessun caso di decesso l’ospedale Umberto I di Ancona. Al secondo posto l’ospedale Santa Maria della Misericordia di Udine (0,5%). Al terzo, la Casa di cura Montevergine di Mercogliano (0,67%). A seguire: l’ospedale Del Cuore Pasquinucci di Pisa (1,19%), l’Heperia hospital di Modena (1,32%), l’ospedale San Giovanni Di Dio e Ruggi D’Aragona di Salerno (1,43%), il policlinico Gemelli (1,63%), l’ospedale Ss. Annunziata di Chieti (1,96%), l’ospedale di Treviso (2,34%) e l’ospedale di Vicenza (2,38%).

Frattura di femore

Mentre la mortalità a un mese dal ricovero per frattura di femore nel 2021 è rimasta pressoché la stessa del 2020: 6,4% contro 6,6%. E resta più alta di quella rilevata nel 2019 (5,1%).

Al vertice della graduatoria per capacità di assicurare un intervento chirurgico per frattura del femore entro 48 ore dall’ospedalizzazione c’è l’ospedale Umberto I di Siracusa, con il 98,2% dei casi. Secondo in classifica l’ospedale Pertini di Roma (94,8%), seguito dal policlinico Campus Bio medico di Roma (94,7%), l’ospedale San Giovanni Di Dio di Agrigento (93,6%), l’ospedale di San Donà di Piave (90,9%), l’ospedale Humanitas di Rozzano (89,3%), l’ospedale Guzzardi di Vittoria (89,3%), l’ospedale San Camillo di Roma (88,7%) e lo Stabilimento di Jesi (88,3%).

Bypass aorto-coronarico

Per quanto riguarda gli interventi di bypass aorto-coronarico isolato, nel 2020 si è verificata una drastica contrazione della casistica (pari a una riduzione del 24% rispetto al valore atteso). C’è stato un parziale recupero della contrazione della casistica registrata nel 2020 (meno 24% rispetto al 2019, con uno scostamento dal trend stimabile intorno al 14% (pari a circa 1.900 ricoveri in meno). Nel biennio 2020-2021, l a riduzione complessiva rispetto al trend è quantificabile in circa 5 mila ricoveri.

Protesi d’anca e di ginocchio

In crescita gli interventi programmati di protesi d’anca (più 18mila) e di protesi di ginocchio (più 14mila). Tuttavia, permane il gap in confronto con il 2019: tra il 2020 e il 2021 sono stati persi in tutto 27mila interventi di protesi d’anca e 39mila di protesi al ginocchio.

Sale la quota anche dei ricoveri in day surgery rispetto al 2020 (più 27,5%), comunque ridimensionata del 31,2% rispetto ai valori prepandemici.

Tumore maligno della mammella

L’assistenza in ambito oncologico, infine, ha segnato un recupero importante. Per esempio, i ricoveri per tumore maligno della mammella si sono riallineati ai livelli del periodo pre-Covid, con un volume che ha superato di poco quello del 2019 (più 1%).

Nel 2020 avevano subìto una flessione del 10% (circa 6mila interventi in meno). La maggiore casistitica di interventi è stata rilevata all’Istituto europeo di oncologia di Milano (2716).

A seguire nella classifica per volume di attività: il Policlinico Gemelli di Roma (1208), l’ospedale Humanitas di Rozzano (1031), l’Istituto nazionale dei tumori di Milano (887), l’azienda ospedaliera Careggi di Firenze (846), l’ospedale Bellaria di Bologna (796), l’ospedale Sant’Anna di Torino (768), l’Humanitas di Misterbianco in provincia di Catania (739), l’Istituto oncologico veneto di Padova (722) e l’azienda ospedaliera di Pisa (715).

Tumore della prostata

La quota di interventi chirurgici per tumore maligno della prostata, invece, seppur aumentata rispetto al 2020, resta sotto del 13% rispetto a quella prepandemia (pari a 2774 ricoveri in meno).

La casistica più elevata si è concentrata nell’azienda ospedaliera Careggi di Firenze (621), seguita dall’Istituto europeo di oncologia di Milano (505), dalla Casa di cura Pederzoli di Peschiera del Garda (367), dall’ospedale san Raffaele di Milano (354), dall’ospedale Sant’Orsola di Bologna (321), l’ospedale Miulli di Acquaviva delle Fonti (305), l’azienda ospedaliera San Luigi di Orbassano (271), l’ospedale Humanitas di Rozzano (255), l’Istituto regina Elena di Roma (249) e l’ospedale Sacro cuore don Calabria di Negrar (248).

La Lombardia premia gli operatori che spingono i cittadini verso la sanità privata. Salvatore Toscano su L'Indipendente l’8 Dicembre 2022

Un premio in busta paga per chi riesce a convincere un paziente a rivolgersi alla sanità privata piuttosto che a quella pubblica. Questo lo schema seguito in Lombardia da MultiMedica, una struttura ospedaliera privata accreditata al servizio sanitario regionale che ha come motto “prima di tutto viene l’etica”. A denunciare tale meccanismo di premialità è stata la trasmissione “37 e 2” di Radio Popolare, condotta da Vittorio Agnoletto ed Elena Mordiglia. All’interno di un’inchiesta sulla lunghezza delle liste di attesa per accedere alla sanità pubblica, è stata raccolta e mandata in onda la testimonianza di una dipendente di MultiMedica, che ha reso noto il beneficio indirizzato ai centralinisti in grado di attrarre i cittadini verso la sanità privata. La stessa azienda ha confermato, prima in una lettera inviata alla radio e poi in una nota, tale meccanismo.

«Qui è tutto il sistema che non funziona», ha dichiarato in un’intervista a L’Indipendente Vittorio Agnoletto, ex deputato impegnato da anni nella tutela del diritto alla salute. «Quando una struttura privata procede con l’accreditamento al sistema sanitario regionale mette a disposizione un certo numero di interventi o, se dotata, di letti. Ne restano così altri slegati dalla collaborazione con la sanità pubblica». Si tratta di un’offerta completamente privata che finisce per essere indirizzata ai cittadini che contattano il centro per usufruire delle prestazioni sanitarie tramite il solo pagamento del ticket (come accade con le strutture pubbliche) ma a cui, di fronte ai lunghi tempi d’attesa, viene proposto di passare al privato. In sostanza, la struttura accreditata al SSR gode di un’enorme pubblicità dovuta al settore pubblico che, come un’esca, usa per riempire le proprie liste private, con o senza il meccanismo di premialità rivolto agli operatori.

Un’idea per risolvere tale conflitto d’interessi che va unicamente a discapito del cittadino potrebbe essere, come propone Agnoletto, una soglia alta (come al 90%) di interventi o posti letto da dedicare alla collaborazione instaurata con l’ente pubblico, nell’ambito dell’accreditamento al sistema sanitario regionale. Un’ipotesi difficile da realizzare dal momento che l’attuale status quo va a vantaggio «non solo delle aziende accreditate – che guadagnano in termini di pubblicità e dunque di affluenza anche ai propri reparti interamente privati – ma anche delle Regioni», come sottolinea Vittorio Agnoletto. L’ente pubblico, infatti, non erogando le visite attraverso il servizio sanitario non deve pagare i rimborsi alla struttura privata accreditata. Un compromesso che fa contenti tutti, tranne i cittadini. Questi ultimi, visti i problemi della sanità italiana, devono fare i conti con una disapplicazione degli articoli 32 della Costituzione, che tutela il diritto alla salute, e 3 (comma 2), che recita: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”. [di Salvatore Toscano]

Milano, la visita impossibile di un bambino con febbre a 40: «All'ospedale lista d’attesa da 6 a 10 ore». Giovanna Maria Fagnani su Il Corriere della Sera il 2 Dicembre 2022

L'odissea di due genitori con il figlio di 20 mesi al pronto soccorso del Buzzi: «Due ore solo per  l’accettazione, poi seduti a terra, abbiamo deciso di tornare a casa. Le famiglie non riescono a contattare i pediatri»

Un bimbo di 20 mesi con i sintomi influenzali, da una settimana. La febbre che sale fino a 40 gradi e non scende con gli antipiretici. Il bimbo che piange, inconsolabile. E l’impossibilità di trovare un pediatra che lo visiti, nemmeno in pronto soccorso.

È l’odissea vissuta da una coppia di genitori che hanno affidato a Twitter il loro sfogo, ricevendo decine di testimonianze simili. Giorgia e suo marito hanno due maschietti, il maggiore di venti mesi e l’altro di soli due. Domenica scorsa, il più grande, che frequenta il nido, comincia ad accusare febbre e tosse. La temperatura sale fino a 40 gradi. I genitori lo curano con gli antipiretici e lunedì cercano di contattare il loro pediatra, che non risponde. «E non lo ha fatto per un disinteresse, ma perché era talmente bombardato di telefonate e messaggi, che il telefono era costantemente occupato, non riusciva nemmeno a prendere la nostra chiamata» racconta Giorgia.

Nei giorni successivi, la situazione non migliora, la febbre non scende mai sotto i 39. Alle 22 di mercoledì sera, mamma e papà portano il bimbo al pronto soccorso del Buzzi, dove restano fino alle 2, poi decidono di tornare a casa. «Era un delirio: decine e decine di famiglie in attesa con bimbi con gli stessi sintomi del nostro. Ci abbiamo messo due ore per superare l’accettazione, ci hanno valutato come codice verde e, a quel punto, abbiamo scoperto di avere altri 42 codici verdi prima di noi in attesa. Un infermiere ci ha prospettato un’attesa dalle sei alle dieci ore. Peraltro, non essendoci più posti a sedere, ci eravamo sistemati per terra, come altri. La febbre era momentaneamente scesa con un antinfiammatorio e abbiamo deciso di tornare a casa».

Durante l’attesa, i genitori si scambiano le esperienze con i vicini: «C’era chi aveva fatto il giro dei pronto soccorso, ma aveva trovato lo stesso problema ovunque. Tutti riferivano di non riuscire a raggiungere i pediatri: chi non rispondeva, chi non aveva spazio per le visite». Ieri, in serata, finalmente Giorgia ha potuto contattare il suo pediatra e fissare una visita. «È vero che non bisognerebbe andare al pronto soccorso, se non è necessario, ma un genitore, di fronte a una febbre a 40 gradi che persiste da giorni, senza un parere medico cosa può fare? Non c’è solo l’influenza a dare febbre alta, ci sono anche patologie più gravi, come la meningite» spiega la mamma.

«Questa situazione è un cane che si morde la coda. I pediatri hanno troppi pazienti, i genitori respinti, in presenza di certi sintomi, si spaventano e vanno nei pronto soccorso che così si ingolfano. Al Buzzi il personale ha fatto del suo meglio, ma parlavano di 150 accessi solo quel giorno». Una soluzione sembra lontana. «Il pediatra ci ha parlato di un’estrema vulnerabilità dei bimbi dopo il Covid. Quelli che vanno al nido sono ancora più esposti alle infezioni ma non si può non portarli. È il sistema sanitario che deve rispondere con i servizi di base. Deve mettere il proprio personale in condizione di rispondere. Anche questa è malasanità».

Influenza, picco tra i bambini da 0 a 4 anni: «A Milano pediatri introvabili e pronto soccorso assaltati». Sara Bettoni su Il Corriere della Sera il 2 Dicembre 2022

Posti letto insufficienti e sale d’attesa colme. Al Buzzi arrivati 144 bimbi in 24 ore: «Troppe carenze nel sistema territoriale». In città 120 specialisti che spesso hanno già raggiunto il tetto di pazienti fissato a 1.400 bambini

L’influenza riempie i pronto soccorso pediatrici di Milano e non solo. «La situazione è critica, viviamo in grave sovraffollamento da tre settimane — dice Giuseppe Bertolozzi, responsabile del reparto d’urgenza della De Marchi (Policlinico) —. Viaggiamo su una media di 90 accessi quotidiani». A seconda delle giornate, i bambini con sintomi simil-influenzali passano dai 30 ai 60. «Hanno febbre, tosse secca anche violenta. I piccoli da due mesi fino a un anno a volte soffrono di bronchioliti e hanno bisogno di ossigeno. Nei casi più gravi li ricoveriamo». 

I posti letto del pronto soccorso però sono solo otto ed è difficile far fronte alle necessità, anche perché all’epidemia di stagione, in anticipo rispetto agli anni pre Covid, si sommano altri virus. «Due medici coprono i turni sia nei giorni feriali sia nei festivi, ma il lavoro è tanto. Di conseguenza abbiamo persone in corridoio, cittadini in sala d’attesa che si lamentano». Si può aspettare anche 4 ore per una visita.

Non va meglio al Buzzi. Gian Vincenzo Zuccotti, direttore della Pediatria e del pronto soccorso pediatrico, parla di 144 richieste d’aiuto nelle ultime 24 ore, 46 delle quali in codice giallo, quindi mediamente gravi. «Siamo presi d’assalto da un po’ di tempo — spiega —, in queste condizioni abbiamo rallentamenti per le situazioni meno urgenti», ovvero i codici verdi e bianchi. «Le attese sono lunghe, si creano disagi. Tutto ciò non aiuta a lavorare con serenità e concentrazione». Anche al Buzzi gli spazi rischiano di essere insufficienti, tanto che in alcuni momenti della giornata l’atrio si trasforma in una terza sala d’accoglienza. «Ci stiamo confrontando con il primo anno di vero ritorno alla normalità, dopo la pandemia di Covid — aggiunge Zuccotti —. Il sistema immunitario dei bambini è disabituato a combattere i virus. Ma paghiamo anche le carenze dell’assistenza territoriale, che a sua volta ha criticità».

Per correre ai ripari, il primario sta cercando di organizzare i turni di guardia con un medico aggiuntivo, oltre ai due già presenti. «Ma non possiamo sostituirci completamente ai pediatri di libera scelta». Anche gli ambulatori vivono momenti di difficoltà e alzano bandiera bianca. «Stiamo avvertendo molto il peso dell’influenza e le famiglie se ne accorgono» ammette Roberto Marinello dal suo studio nel quartiere Chiesa Rossa. Secondo la rete di sorveglianza Influnet, infatti, il virus colpisce soprattutto i piccoli da 0 a 4 anni. L’incidenza è considerata in generale «molto alta» e in questa fascia d’età tocca i 48,3 casi ogni mille assistiti. «E in mezzo agli influenzati c’è chi ha problemi particolari e richiede maggiore attenzione». Ma gli specialisti a disposizione sono pochi: 340 in tutta l’Ats di Milano (compresa la provincia di Lodi), più 24 con incarichi temporanei. In città se ne contano circa 120, molti dei quali hanno già raggiunto il tetto di pazienti. In particolare, il Municipio 1 vive momenti di difficoltà.

«In Lombardia il massimale è di 1.400 bambini per pediatra, anche se la convenzione nazionale sarebbe di 880» dice Marinello, ricordando l’annoso problema del calcolo delle necessità del territorio. Il conteggio viene fatto in base al numero di bimbi fino ai 6 anni d’età. Molte famiglie tuttavia ritardano il passaggio al medico di famiglia fino ai 14 anni. E così i pediatri non bastano. «Colpa di un’errata programmazione in passato — per Marinello —. Oggi all’incirca c’è un nuovo inserimento ogni tre pensionamenti. Dovremmo essere più capillari sul territorio». Unica consolazione, la buona risposta all’ultimo bando lanciato dall’Ats per reclutare pediatri nei quartieri sguarniti. Tutti i posti sono stati assegnati. Ma servirà qualche settimana perché gli incaricati prendano servizio.

Estratto dell’articolo da "la Repubblica" l’1 Dicembre 2022.

Duecento giorni per una risonanza magnetica a Napoli, sei mesi per una gastroscopia a Bari, una visita oculistica non prima di febbraio a Torino. Da Nord a Sud, chi ha dolore alla schiena, mal di stomaco o il bisogno di un controllo al cuore spesso si trova a un bivio: aspettare o pagare. Viaggio nell'Italia in lista d'attesa, nel Paese in cui, come raccontato ieri da Repubblica , le prestazioni di controllo sono calate del 20% rispetto al 2019, l'anno prima del Covid, mentre l'attività privata cresce.

Quanto tempo ci vuole per una visita o un esame con priorità "D" ("differibile"), da garantire entro trenta o sessanta giorni? In molti casi, secondo i dati raccolti da Repubblica in diverse città italiane, meglio bussare nel 2023: a Napoli per la gastroscopia c'è posto in aprile, fra 137 giorni. Tempi simili a Torino anche per la risonanza. A Roma bisogna aspettare gennaio per andare dal cardiologo o dall'oculista. Non sono tempi da trascurare, perché in genere si tratta del primo contatto fra un paziente e il suo medico, il possibile inizio di un percorso.

Per questo è importante anche monitorare le prestazioni di classe "B", quelle da garantire entro dieci giorni perché si ritiene che la risposta debba essere "breve": in alcuni casi, ce ne vogliono dieci volte tanti. Ne servono il doppio a Palermo per una risonanza, quasi il triplo a Genova per l'ecografia all'addome, tre in più del dovuto a Milano per una gastroscopia, anche se il capoluogo lombardo, assieme a Firenze, è tra le città più in regola. La Toscana, in generale, è la realtà locale che ha visto un aumento delle prime visite nei primi sei mesi del 2022 rispetto allo stesso periodo del 2019. Tutti gli altri hanno prodotto meno attività sanitaria.

Fuga nel privato

Le alternative si trovano. Pagando. «Ho la sclerosi multipla e l'esenzione - racconta Antonella, 39 anni, della provincia di Brindisi - ma sono costretta a spendere tanti soldi per le visite perché è impossibile prenotarle con il pubblico. La mia piccola pensione non basta. Ho dovuto pagare anche per un'ecografia alla tiroide». […]

C'è chi dice no. E aspetta Francesca, professionista bolognese, da sei mesi cerca di aiutare i suoi genitori - il papà di 70 anni e la mamma di 65 - a prenotare due esami. A suo padre, l'estate scorsa, il medico ha consigliato un esame, l'agoaspirato, dopo aver trovato dei noduli alla tiroide. Lui è ancora in fila. «Se ci fosse qualcosa di grave, avremmo perso sei mesi. Privatamente ci hanno chiesto 250 euro. Mio padre sarebbe esente. In più, per principio, non vuole pagare visto che esiste un'Ausl», racconta sua figlia.

I medici sono preoccupati: «Quando chiediamo una risonanza entro trenta giorni, non sempre viene garantita e rischia di essere fatta troppo tardi», dice Salvatore Bauleo, dottore di famiglia di Bologna. Pier Luigi Bartoletti, segretario della Federazione medici di medicina generale di Roma, avverte: «Chi ha determinate patologie non può attendere tempi lunghi».

Il decalogo lombardo

Anche la Lombardia corre ai ripari. Sono dieci le prestazioni per le quali si aspetta molto più del dovuto e la giunta ha approvato una delibera per migliorare i tempi di attesa. Il presidente Attilio Fontana e l'assessore al Welfare Guido Bertolaso promettono che 66 mila cittadini ai quali è stato dato un appuntamento fuori dai tempi massimi previsti (3mila di questi avevano l'urgenza a dieci giorni), tra gennaio e giugno 2023, saranno richiamati per anticipare la data. […]

«Hai fatto tutti i controlli?» Ospedali in affanno salta una visita su 5, chi può sceglie il privato. Michele Bocci su La Repubblica il 30 Novembre 2022

Colpa del ritardo accumulato negli anni di pandemia e della mancanza di personale  I dati peggiori al Sud. E vola la spesa per la sanità a pagamento: 37 miliardi

Cala l’attività pubblica, cresce quella privata. Si potrebbe riassumere così, molto schematicamente, quanto sta accadendo alla sanità italiana dopo il Covid. E già così sarebbe preoccupante per chi crede in un sistema universalistico che dà a tutti assistenza e sempre della stessa qualità (possibilmente alta) gratuitamente o al costo del ticket. Ma le cose sono un po’ più complesse e per niente positive.

Asl e ospedali non riescono ancora a recuperare il lavoro andato perso nel drammatico 2020 del Covid. C’è un dato particolarmente significativo, quello delle visite di controllo. Cioè dell’attività specialistica destinata a chi ha già avuto una diagnosi e quindi è malato. Spesso cronico, cioè diabetico, cardiopatico e così via, oppure oncologico. Ebbene, nei primi sei mesi di quest’anno le Regioni italiane hanno fatto circa 13,7 milioni di accertamenti di questo tipo, 3,4 milioni in meno rispetto al 2019. Il 20% in meno, un dato altissimo. Occorre insistere, ricordando che non si parla di prime visite, pure quelle in forte calo, che possono anche avere una quota di inappropriatezza (ossia essere non indispensabili), ma di accertamenti ritenuti necessari da un medico per vedere come e se una patologia evolve.

I dati sono di Agenas, l’Agenzia sanitaria nazionale delle Regioni, che ha un monitoraggio molto aggiornato sul lavoro delle amministrazioni locali. Tra le realtà medie e grandi che vanno peggio con i controlli ci sono la Sardegna (-36%), la Calabria (-30%) e la Sicilia (-29%). La migliore invece è la Toscana, (-10%), seguita da Marche, Puglia, Emilia-Romagna e Lombardia (- 15%).

"La colpa non è dei professionisti o dei pazienti ma dell’organizzazione sanitaria — spiega Ciro Indolfi, presidente della Società italiana di cardiologia — Gli ambulatori sono ridotti perché il sistema si è focalizzato sul Covid. Le cose non sono uguali in tutta Italia, il Sud soffre storicamente di maggiore inefficienza". Non si tratta di visite ma Giovanni Esposito di Gise, la società di cardiologia interventistica, dice che le angioplastiche sono ancora l’8% in meno rispetto a prima della pandemia. Secondo Nino Cartabellotta di Gimbe, fondazione privata che si batte per il servizio pubblico e si occupa di corsi di aggiornamento a pagamento per il personale sanitario, "il nodo è sempre la carenza di personale. Il sistema per le difficoltà di organico sta rallentando, figurarsi se riesce a recuperare. Le Regioni dovevano investire un miliardo per le liste di attesa ma non è servito e non hanno nemmeno speso tutti i soldi".

E mentre il servizio pubblico non si riprende dal Covid, i privati fanno affari. Di recente è uscito il monitoraggio della spesa sanitaria del Mef relativo al 2021, anno nel quale, tra l’altro, le visite di controllo pubbliche andavano ancora peggio di adesso. Il ministero certifica che la spesa cosiddetta out of pocket, appunto completamente a carico del cittadino, l’anno scorso è salita a ben 37 miliardi di euro, contro i 34,8 del 2019. E in cinque anni la crescità è di quasi di 10 miliardi. Gli italiani comprano più attività privata, cioè visite, esami, farmaci, prestazioni dentistiche. Le strutture private accreditate e autorizzate, ad esempio, incassano circa 800 milioni di euro in più del 2019. Cala al contrario di 400 milioni la quota di partecipazione, cioè il ticket per le prestazioni nel pubblico. Due dati eloquenti.

Evidentemente ci sono persone che non riescono a fare i controlli nel pubblico a causa delle liste di attesa e comprano una prestazione privata, a un prezzo tra 50 e 250 euro se si tratta di una visita, anche di più per un esame. Ma non tutti possono permetterselo. Difficile stimare quanti restino ad aspettare nel pubblico perché non hanno soldi per il privato. "Stime precise non ce ne sono", dice Cartabellotta, che pure si occupa di anche di studi sull’attività sanitaria. Si tratta di cittadini “invisibili”. Per risparmiare, chi può si fa un’assicurazione sanitaria. "Le polizze individuali non sono in crescita — dice il presidente di Gimbe — Le assicurazioni lavorano soprattutto agganciate ai pacchetti welfare, quindi con le società private. Così si crea una differenza tra chi ha un lavoro retribuito e chi no, che resta senza aiuto. E nelle aziende, comunque, il manager ha un piano sanitario migliore dell’operaio". Un po’ schematico anche questo ma rende l’idea.

"Lei ha uno scompenso". E il paziente spara e uccide il cardiologo a Favara. Alan David Scifo su La Repubblica il 29 Novembre 2022

L'assassino si è dato alla fuga ma è stato preso dai carabinieri. La pistola, una 7,65, è risultata rubata

Una diagnosi non condivisa dal paziente. Potrebbe essere questo il motivo del diverbio che ha portato il 47enne Adriano Vetro, bidello incensurato di Favara, ad uccidere il proprio cardiologo, Gaetano Alaimo, a colpi di pistola nel suo studio medico in via Bassanesi. All’uomo era stato diagnosticato uno scompenso cardiaco ma la notizia non sarebbe stata presa bene da Vetro che, dopo una lite, ha deciso di estrarre la pistola ed uccidere il medico nella sala d’attesa, davanti gli altri pazienti e i suoi segretari in un pomeriggio di terrore per chi ha assistito alla scena. Subito dopo i colpi esplosi alle spalle del medico, l’uomo è scappato rifugiandosi nella casa di campagna.

Le testimonianze di chi ha assistito all’omicidio hanno permesso ai carabinieri della tenenza di Favara di identificare l’assassino, trovato nel giro di poche ore, rifugiato nella sua casa di campagna con ancora la pistola, una calibri 7,65 risultata rubata. Sul posto anche il procuratore facente funzioni della procura della Repubblica di Agrigento, Salvatore Vella, e i militari del nucleo investigativo. L'uomo è adesso in caserma per l'interrogatorio. L'arma, nelle prossime ore, verrà inviata al Ris di Messina per essere sottoposta a tutti gli accertamenti balistici ritenuti necessari.

"Non è pensabile e accettabile - dichiara il sindaco di Favara Antonio Palumbo - che a Favara possano continuare a tuonare le pistole. Basta. Non intendo entrare nel merito delle ultime vicende, rispetto alle quali faranno spero presto chiarezza gli inquirenti, ma da primo cittadino tornerò a chiedere con forza una maggiore presenza dello Stato nella nostra città. C'è ancora troppa gente convinta che la violenza sia una lingua accettabile, e noi siamo qui a dire a tutti loro che non c'è più spazio a Favara per gente così. Favara non vi vuole".

Estratto dell’articolo di Alan David Scifo per "la Repubblica" il 30 novembre 2022.

Il medico era per lui, cardiopatico, l'ultimo ostacolo per ottenere il rinnovo della patente. Al culmine dell'ultima lite, il paziente ha estratto una pistola e lo ha ucciso. Nel poliambulatorio, davanti agli altri assistiti in sala d'attesa, atterriti. Gaetano Alaimo aveva 65 anni ed era un cardiologo molto amato nella sua Favara, grosso centro dell'Agrigentino. Un medico che faceva bene il suo lavoro.

Corretto, scrupoloso: troppo, secondo il suo assassino, Adriano Vetro, 47 anni, collaboratore scolastico che senza la sua auto si sentiva finito. Ma i problemi cardiaci non gli permettevano più di mettersi alla guida, e a nulla erano servite le pressioni sul medico per avere il certificato o sottoporsi a un intervento che potesse risolvere la sua malformazione al cuore.

Non si dava pace, per quel diniego. E ieri, nel primo pomeriggio, mentre gli altri pazienti erano in attesa dell'apertura dello studio del medico, in via Bassanesi, e i segretari annotavano i nomi a turno per le visite, il bidello ha raggiunto l'ambulatorio, nonostante non avesse un appuntamento, e ha fatto irruzione brandendo una pistola.

Adriano Vetro non aveva intenzione di farsi visitare ancora una volta per ricevere un altro no dal medico che lo seguiva da anni. Un attimo: un colpo di pistola alle spalle, davanti a decine di persone, e Alaimo è caduto a terra, in una pozza di sangue, mentre l'assassino scappava con l'arma in mano.

La sua fuga è durata poco: i carabinieri lo hanno trovato ben presto nella sua casa di campagna, dove abita con i genitori. Aveva ancora con sé la pistola con cui aveva sparato. Condotto in caserma, accanto al suo avvocato ha confessato tutto, chiarendo il movente di un delitto assurdo. E il movente è la sua ossessione per la patente negata.

Il caso è chiuso. Almeno così sembra, anche se il procuratore della Repubblica reggente di Agrigento, Salvatore Vella, e il pubblico ministero Elenia Manno stanno cercando di chiarire ogni dettaglio della vicenda. Per Vetro è scattato il fermo con le accuse di omicidio premeditato e porto abusivo di arma da fuoco.

Qualche minuto dopo le 21, l'omicida ha lasciato il comando provinciale dei carabinieri ed è stato trasferito nel carcere di Agrigento. Il suo difensore, l'avvocato Santo Lucia, ha detto che il bidello era in terapia da uno psichiatra da diversi anni. […]

Sanità, i due pesi e due misure che ancora spaccano il Paese. VINCENZO DAMIANI su Il Quotidiano del Sud l’11 Novembre 2022.

Nell’attuazione della gestione sanitaria emergono ancora una volta i due pesi e due misure che nella sanità ancora spaccano il Paese

Terminata la fase emergenziale legata alla pandemia Covid-19, nella sanità italiana sono riemersi i vecchi problemi. A cominciare dalle “differenze territoriali sempre meno accettabili” che “sono alla base di saldi negativi di mobilità sanitaria per ben 14 regioni, in prevalenza nel Mezzogiorno”.

A bacchettare ancora una volta lo Stato è la Corte dei Conti nella nota di aggiornamento del Def 2022: il Paese continua a essere spaccato in due, con il Sud danneggiato dai minori trasferimenti ricevuti negli ultimi 20 anni. “Nel 2021 – annotano i magistrati contabili – dopo la pausa legata alla pandemia e alle relative difficoltà di mobilità, tende nuovamente a crescere il volume di risorse per pagamenti di prestazioni rese fuori regione, a testimonianza del permanere di criticità nell’assistenza garantita in alcune realtà territoriali. I primi 9 mesi del 2022 registrano, infine, una riduzione della spesa per investimenti di oltre il 13 per cento.

Una flessione che sembra interrompere quest’anno la crescita che si era registrata nel triennio trascorso con variazioni del 19-18 per cento annue e che interessa tutte le aree del Paese, ma con punte più accentuate nelle regioni meridionali continentali (-26,3 per cento)”. Insomma, siamo punto e accapo. O quasi.

SOS PNRR

Un allarme non indifferente considerando la necessità di “correre” nella spesa dei fondi Pnrr. E a proposito del Piano di ripresa e resilienza, la Corte dei Conti lancia un altro monito: “Andrà verificato – si legge nella relazione trasmessa al parlamento – se un profilo di finanziamento (e di spesa) quale quello prefigurato nei quadri tendenziali sia compatibile con le necessità che ancora caratterizzano il comparto e, in particolare, con la soddisfazione dei fabbisogni di personale legati anche alla riforma dell’assistenza territoriale prevista dal Pnrr e con le spese connesse all’aumento dei costi dell’energia”.

I TEMI DI SANITÀ CHE SPACCANO IL PAESE: MANCANO 65MILA INFERMIERI

E poi c’è il problema delle piante organiche, sia mediche che infermieristiche, “pesantemente sottodimensionate in molte aree e nel confronto con standard europei”, si legge nella relazione. “Secondo i dati Oecd – scrivono i magistrati – nel 2019 in Italia operavano 4,1 medici per 1.000 abitanti, superiore alla media europea del 3,6. Nello stesso anno, in Germania e in Spagna si registravano 4,4 medici per 1.000 abitanti, in Francia 3,2 e 3,0 nel Regno Unito.

All’opposto, per il personale infermieristico, lo stesso indicatore si attesta al 6,2 infermieri per ogni mille abitanti, leggermente più alto della Spagna (5,9), mentre la media europea è dell’8,8. In Germania si registravano 13,9 infermieri ogni 1.000 abitanti, in Francia 11,1 e nel Regno Unito 8,2. Mettendo in relazione lo standard internazionale 1:3 per il personale infermieristico (3 infermieri per un medico) ai dati presenti nell’Annuario statistico, sia per il personale del sistema sanitario nazionale che per quello operante nelle strutture equiparate, nel 2020 si registrava una carenza di infermieri di circa 65mila unità”.

I TEMI DI SANITÀ CHE SPACCANO IL PAESE: IL NODO LISTE DI ATTESA

Strettamente legato alla mobilità passiva è il tema “liste di attesa”: “Come emerge dai piani per il riassorbimento delle prestazioni mancate negli anni della pandemia – evidenzia la Corte dei Conti – in molte regioni il recupero è ancora in atto ed è previsto completarsi nel prossimo anno”. Quelle più in difficoltà sono le Regioni del Sud, anche perché i fondi destinati a questo capitolo vengono ripartiti sulla base del criterio della popolazione residente, anziché sulle reali esigenze.

E, come noto, al Sud è in atto ormai da anni un intenso fenomeno di spopolamento. “In tema di recupero dei tempi di attesa – è scritto ancora – i dati diffusi di recente dal Ministero della salute e da Agenas confermano il permanere di criticità: sono, ad esempio, ben 14 le regioni che presentano performance peggiori di quelle del 2019 nel caso degli interventi cardio vascolari caratterizzati da maggiore urgenza (classe A) che dovrebbero essere eseguiti entro 30 giorni. Solo di poco migliore l’andamento per quanto riguarda i tumori maligni: sono 12 le regioni che hanno peggiorato le loro performance.

Anche le prestazioni di specialistica ambulatoriale non hanno recuperato i livelli del 2019: nel primo semestre 2022 le prestazioni erogate risultavano in media nazionale inferiori del 12,8 per cento a quelle dello stesso periodo del 2019 e 13 regioni si collocavano al di sotto della media (di cui 7 segnavano cali superiori di oltre 6 punti percentuali)”.

LA RIFORMA DEL TERRITORIO HA BISOGNO DI PERSONALE

Infine, i magistrati pongono l’attenzione sulla riforma dell’assistenza territoriale. “Con la sottoscrizione dei contratti istituzionali di sviluppo – viene evidenziato – tra il Ministero e le Regioni avvenuta nel 2022 si è avviata la riforma dell’assistenza territoriale disegnata dal Dm 77 e prevista dal Piano che prevede l’istituzione di almeno 1.350 Case della comunità, 400 Ospedali di comunità, 600 centrali operative territoriali e lo sviluppo della telemedicina, che dovrà poter assistere a domicilio almeno 800.000 persone con oltre 65 anni. Una riforma che necessita di una adeguata dotazione di personale e per la quale è funzionale un incremento della formazione medico specialistica.

Per quanto attiene alla formazione medico specialistica, nel 2021, ai 13.200 contratti statali finanziati con le risorse del Fondo sanitario nazionale, se ne sono aggiunti ulteriori 4.200 finanziati dal Pnrr, per un totale di 17.400 contratti (a fronte dei 13.400 del 2020). Se ciò nel medio periodo consentirà di rispondere meglio alle esigenze di cura, nel breve non potrà impedire che continuino a persistere difficoltà di risposta alle urgenze, come testimoniano i ritardi registrati nei pronto soccorso o nel riassorbimento delle liste d’attesa”.

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Abbiamo un bene prezioso che difendiamo ogni giorno e che ogni giorno voi potete verificare. Questo bene prezioso si chiama libertà. Abbiamo una bandiera che non intendiamo ammainare. Questa bandiera è quella di un Mezzogiorno mai supino che reclama i diritti calpestati ma conosce e adempie ai suoi doveri.  

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La triste storia di un 71enne. La disavventura di un manduriano: in attesa di un posto in ospedale, la chiamata arriva due giorni dopo il suo funerale. La Redazione de La Voce di Manduria martedì 15 novembre 2022.

E’ di Manduria il protagonista della tristissima storia che mette ancora una volta in risalto l’inadeguatezza del servizio sanitario pubblico in questa zona e in tutta la regione più in generale. E’ la storia di un uomo di 71 anni che per circa 50 giorni ha atteso che si liberasse un posto letto in un spedale specializzato per la sua malattia ma che è morto prima che la disponibilità arrivasse. La sorte si è poi accanita sulla famiglia che ha ricevuto la tanto attesa chiamata tre giorni dopo i funerali.  

Ha atteso, invano, quasi 50 giorni perchè si liberasse un posto nell’ospedale Miulli, in provincia di Bari, ma la disponibilità è arrivata in ritardo, due giorni dopo il suo funerale. È il triste epilogo di un 71enne della provincia di Taranto ricoverato all’ospedale San Giuseppe Moscati di Taranto per una severa patologia respiratoria che doveva essere trattata nel centro specialistico del barese. In queste date, le tragiche tappe che hanno segnato gli ultimi giorni di vita dell’uomo che sino ad una settimana prima del decesso aveva fatto una lunga e serena video telefonata con i parenti che stavano a casa. Già in cura domiciliare per i suoi problemi polmonari, il 22 settembre scorso, d’accordo con il suo medico curante, il 71enne è stato ricoverato nella pneumologia del Moscati. Dopo aver inquadrato la compromissione di alcuni organi, i sanitari dell’ospedale tarantino hanno detto ai familiari che bisognava trasferirlo nel centro specialistico di Acquaviva delle Fonti dove avrebbe trovato le apparecchiature e le cure necessarie per la sua patologia. Purtroppo, però, al Miulli non c’erano post liberi e bisognava aspettare. Così, almeno, i medici tarantini hanno riferito ai famigliari che si sono messi in paziente attesa sperando che da un giorno all’altro arrivasse la telefonata. Il 20 ottobre le sue condizioni sono migliorate tanto da consigliare le dimissioni per l’attesa della chiamata a casa. «Abbiamo chiesto noi di tenerlo ancora sino a quando non si fosse liberato questo benedetto posto e i medici del Moscati hanno cortesemente accettato», spiega il genero che ringrazia i sanitari del presidio tarantino per avere accolto la richiesta. Con la speranza della chiamata e con le valige sempre pronte per il viaggio della speranza, il parente ricorda di aver parlato l’ultima volta con il suocero agli inizi di novembre. «Lo abbiamo visto sereno e sembrava si stesse pian piano riprendendo, non aveva più il casco ma solo dei tubicini per l’ossigeno alle narici, quella è stata l’ultima volta che l’ho visto», racconta l’uomo. Martedì scorso è arrivata una telefonata ai parenti, ma non era quella che attendevano, era il medico del Moscati che annunciata l'inatteso lutto.

«La cosa che ci ha fatto ancora più male – spiega ancora il genero – è stata la telefonata che abbiamo ricevuto dal Miulli sabato scorso, era una signora che finalmente ci annunciava la disponibilità di un posto letto e che ci sollecitava di fare in fretta». Il giorno prima il povero uomo era stato sistemato in un posto dove non esiste fretta e né tempo. «Siamo arrabbiati, cinquanta giorni per un posto letto, e se poteva salvarsi?», si tormentano i parenti che non si danno pace. «Vorremmo in qualche modo che si andasse infondo a questa assurda storia, ma non sappiamo cosa fare, forse qualcosa la potrebbero fare le istituzioni sanitarie e darci un po’ di pace perché forse non abbiamo fatto abbastanza per salvare il nostro parente. Forse avremmo dovuto bussare a qualche porta?», si chiede con angoscia l’uomo che a nome della famiglia ringrazia i medici e tutto il personale dell’ospedale Moscati «che hanno fatto il possibile ed anche l’impossibile per salvare mio suocero», conclude. Nazareno Dinoi

Sanità, negli ospedali mancano i medici: ecco chi ha sbagliato e cosa ci aspetta. Milena Gabanelli e Simona Ravizza su Il Corriere della Sera il 31 Ottobre 2022.

La salute non è un tema burocratico: ognuno di noi quando ha un problema serio pretende, giustamente, di essere curato in fretta e al meglio. Perché ciò sia possibile devono essere innanzitutto accorciate le liste di attesa che continuano a tenere in ostaggio chiunque debba fare un esame o una visita e non può permettersi di pagare di tasca propria. È necessario, poi, che ci sia il medico giusto nel posto giusto e che abbia il tempo necessario da dedicarci. Tutto questo oggi non avviene per una ragione su tutte: negli ospedali italiani mancano medici. Ce l’ha dimostrato in modo drammatico la pandemia Covid, e lo tocchiamo con mano ogni volta che dobbiamo prenotare una prestazione medica. E adesso dobbiamo fare anche i conti con il fenomeno dei medici a gettone, pagati a turno e portati in corsia dalle cooperative per tappare i buchi di organico, ma senza garanzie di qualità dell’assistenza per i pazienti: si tratta di neolaureati, o specializzati che possono finire in reparti diversi dalla loro competenza. In assenza di controlli lo stesso gettonista, fra turni diurni e notturni può fare anche 36/48 ore di fila saltando da un Pronto soccorso all’altro.

Gli errori del passato

Siamo scivolati in questo colabrodo per due ragioni. La prima: le corsie si sono via via svuotate per il blocco del turnover scattato dal 2005 (art. 1 comma 198) con il governo Berlusconi 2 e proseguito con il Prodi 2, Berlusconi 3, Monti, Letta, Renzi. Come media a livello nazionale su 100 medici andati in pensione, 10 non sono stati sostituiti. Ma in Regioni come il Lazio, la Sicilia e la Campania il numero sale a 31. 

La seconda: cattiva programmazione. Negli anni i ministeri preposti non hanno tenuto il conto di quanti medici uscivano dal sistema sanitario nazionale per andare in pensione formandone altrettanti in grado di entrare. Risultato: tra il 2015 e il 2022 il saldo negativo tra pensionati e nuovi specialisti è stato di 15.585. 

Il ministero della Salute corregge il tiro a partire dal 2019, quando il ministro Giulia Grillo sblocca il turnover (portando le assunzioni possibili a un più 10%) e aumenta il numero dei posti per le scuole di specializzazione. Siccome per formare uno specialista sono necessari 4-5 anni, almeno fino al 2024 sconteremo gli effetti della programmazione sbagliata. Per il 2022 e il 2023 il saldo tra pensionabili e nuovi specialisti è ancora negativo: meno 1.189. 

La domanda che s’impone adesso è: da qui al 2027 avremo un numero di medici sufficiente a garantire l’assistenza necessaria? Vediamo cosa dicono i dati che Agenas, l’Agenzia Nazionale per i servizi sanitari regionali che fa capo al ministero della Salute, ha elaborato in esclusiva per Dataroom.

Le previsioni per il futuro

Su 103.092 medici che oggi lavorano negli ospedali, nei prossimi 5 anni maturano i requisiti per andare in pensione in 29.331. Gli attuali buchi di organico non sono quantificabili, ma sappiamo che il 10% non è stato sostituito per il blocco del turnover, vuol dire che almeno altri 13 mila medici mancano all’appello. Il fabbisogno totale al 2027 è dunque di 42.331 ospedalieri. Quanti nuovi specialisti saranno sfornati per allora dalle Scuole di Specialità? Siccome per formarli ci vogliono 4-5 anni, dobbiamo prendere i contratti di specialità messi a disposizione tra il 2017/18 e il 2021/2022 (passati da 6.200 a 14.378 l’anno). In totale sono complessivamente 62.350. Tenuto conto che il 10% non finisce gli studi e il 25% non resta a lavorare nel Ssn, vuol dire che per gli ospedali pubblici saranno pronti, sempre al 2027, 42.086 specialisti. Le entrate e le uscite sono quindi in equilibrio. Va inoltre calcolato che con gli interventi straordinari per la pandemia sono stati assunti a tempo indeterminato 1.350 medici e altri 9.409 a tempo determinato fino a dicembre 2022, e se saranno confermati daranno una boccata d’ossigeno per arrivare al 2027. Tutto bene quindi. Non proprio: i conti tornano sulla carta, ma nella realtà le cose vanno in tutt’altra maniera. 

I problemi da risolvere

Banditi i posti nelle Scuole, alcune specialità, tra l’altro proprio quelle di cui c’è più bisogno, non vengono scelte: quest’anno in Medicina d’emergenza e urgenza il 57% dei posti non è coperto; in Anestesia e rianimazione il 17%; in Radioterapia il 74%. E la lista può continuare. Oggi il 71% dei primi 1.000 in graduatoria che hanno passato il concorso scelgono 7 specialità su 51, ossia quelle con più appeal: cardiologia, dermatologia, pediatria, neurologia, oculistica, endocrinologia e chirurgia plastica. Per risolvere il problema chi fa programmazione (il ministero della Salute) e chi bandisce i posti nelle scuole di specializzazione (il Miur) deve bilanciare l’offerta riducendo i posti nelle specialità più richieste. Solo così è possibile andare a coprire le reali esigenze del Ssn che emergono drammaticamente dall’infinità di concorsi pubblici per assumere medici ospedalieri che vanno deserti.

A Flourish data visualization

Inoltre vanno aggiunti riconoscimenti economici per rendere attrattivo il lavoro in ospedale dove oggi si registra una grande fuga: solo nel 2021 hanno deciso di licenziarsi 2.886 medici, sfiniti dalla vita in corsia.

I dati della Federazione europea dei medici specialisti del 2017 dicevano che in Italia gli ospedalieri guadagnavano poco più di 80 mila euro, contro gli 85 mila dei pari grado francesi, i 130 mila dei colleghi inglesi e i 150 mila dei tedeschi

In questi 5 anni nel resto d’Europa gli stipendi sono aumentati ancora, quelli dei nostri medici sono rimasti fermi (qui il documento), tranne un aumento di 170 euro al mese per chi firma il diritto di esclusiva, e non si intravede un passo per riconoscere il valore dell’ospedaliero, nonostante l’eroica dedizione dimostrata nei momenti più drammatici della pandemia.

Infermieri e medici di famiglia

Lo stesso discorso vale per i medici di famiglia e gli infermieri che sono gli assi portanti del potenziamento delle cure sul territorio previsto dal Pnrr con le case e gli ospedali di comunità. Anche qui dai dati Agenas risulta che l’offerta formativa è in grado di coprire i numeri di pensionamenti per lo stesso periodo. Degli oltre 264mila infermieri di oggi matureranno i requisiti per la pensione in 21 mila, mentre 13.200 mancano per coprire i buchi di organico. Al 2027 completeranno la formazione in 61.760. Per quella data dovremmo quindi farcela a coprire anche la richiesta necessaria per fare funzionare ospedali e case di comunità. 

La stessa situazione riguarda i medici di base: dei 40.250 oggi in servizio, tra il 2022 e il 2027 ne andranno in pensione 11.261, e saranno disponibili, a legislazione costante, 13.895 posti per la formazione. Ma ancora una volta sono solo conti sulla carta. Basta guardare cosa succede in Lombardia: nel febbraio 2022 al corso di formazione per diventare dottori di famiglia sono messi a disposizione 626 posti, al test si presentano in 502, accettano in 379, e i frequentanti oggi sono 331, cioè la metà. D’altronde, finché la borsa di studio dei neolaureati che si iscrivono al corso di formazione triennale è di 11 mila euro l’anno contro i 26 mila di chi sceglie il corso di specializzazione, è evidente che la professione del medico di famiglia è considerata di serie B. 

Questo è il risultato prodotto da una politica nazionale miope che sta distruggendo il miglior sistema sanitario al mondo. Una mano gliela danno i partiti, che dai ministeri ai vertici delle aziende sanitarie hanno troppo spesso infiltrato i loro dirigenti più fedeli, non i più capaci, mortificando il personale sanitario.

Dal nuovo governo guidato da Giorgia Meloni e dal ministro Orazio Schillaci si attende un segnale di presa in carico del problema. Per il momento solo fumo e il rischio di un azzardo

Il fumo è il reintegro dei medici no vax (gran parte liberi professionisti) perché il loro ritorno in servizio era già previsto per il 31 dicembre. Il rischio d’azzardo è l’abolizione dell’obbligo della mascherina negli ospedali, quando il buon senso suggerirebbe di mantenerla vista la condizione di fragilità di chi li affolla.

Andrea Camurani per corriere.it il 28 novembre 2022.

Soldi ai dipendenti dell’obitorio di Saronno in cambio di servizi cimiteriali, somme elargite da quattro aziende funebri che così si accaparravano clienti: è uno dei fatti contestati nell’inchiesta della procura della repubblica di Busto Arsizio che ha visto firmare dal giudice per le indagini preliminari 10 misure cautelari eseguite lunedì mattina per ipotesi di reato che vanno da corruzione di incaricato di pubblico servizio al peculato, dalla truffa al furto, al falso ideologico. Dei soggetti destinatari delle misure, uno è in carcere in custodia cautelare, uno ai domiciliari, a due è stato notificato il divieto di esercizio di professione medica, a quattro il divieto di esercitare l'attività di impresario funebre, a due la sospensione dall'esercizio delle mansioni di addetto all'obitorio con divieto di concludere contratti di lavoro con la pubblica amministrazione. 

Le indagini sono state eseguite in provincia di Varese e in quella di Como dai carabinieri della compagnia di Saronno a seguito di alcune segnalazioni giunte dalla direzione sanitaria dell’ospedale nel novembre del 2020 in ordine a una somma di denaro ricevuta - a titolo non meglio precisato - da un addetto all'obitorio da parte di un impresario funebre del posto. 

Secondo la ricostruzione degli inquirenti è emerso che quattro titolari di onoranze funebri, disgiuntamente tra loro, elargivano somme di denaro in favore di alcuni dipendenti (uno di questi colpito da misura in carcere) dell'obitorio dell'ospedale di Saronno così da «orientare i parenti dei defunti alla scelta dell'impresa cui affidare il servizio funebre, ottenere informazioni, effettuare trattamenti di vestizione e tanatocosmesi sulle salme quando non previsto, ostentare le salme ai congiunti anche quando queste risultavano positive al Covid-19, in violazione delle norme anti-contagio». 

Sempre secondo le accuse due medici di base operanti all'interno dello stesso ambulatorio accreditato Asst, rilasciavano false attestazioni di malattia a dipendenti pubblici e privati che ottenevano così indebite percezioni per assenza dal lavoro. A un’addetta all'obitorio dell'ospedale di Saronno (destinataria della misura degli arresti domiciliari), durante i periodi di assenza dal lavoro per malattia - falsamente attestata dai due medici - è accusata di prestare la propria opera lavorativa come impiegata presso l'ambulatorio dei medesimi sanitari.

In ultimo due soggetti entrambi dipendenti dell'obitorio dell'ospedale di Saronno sono accusati di essersi impossessavano di materiale sanitario e di pulizia di proprietà dell'ospedale di Saronno per poi cederli a terzi.

Giulio De Santis per roma.corriere.it il 20 luglio 2022.

Dagli 800 ai 3.500 euro. Sono le somme chieste ai familiari dei defunti dai titolari di tre agenzie di pompe funebri per procedere presso il cimitero Flaminio-Prima Porta per la cremazione delle salme. Soldi che non avrebbero dovuto essere versati. Le salme sono state infatti inumate da Ama. Nove le famiglie raggirate, secondo la Procura, che ha chiesto il rinvio a giudizio di quattro imprenditori e un dipendente. 

L’accusa contesta dal pubblico ministero Silvia Sereni: truffa. In questo caso i magistrati hanno configurato anche la presenza dell’aggravante della minorata difesa a danno dei familiari. Secondo l’accusa, gli imputati, infatti, si sarebbero approfittati della debolezza dovuta alla perdita di una persona cara per raggirare i clienti. 

Sono nove i casi riscontrati dagli inquirenti. Sette di questi sono avvenuti in coincidenza del lockdown tra il 9 marzo e l’10 maggio del 2020 imposto dall’emergenza Covid. Periodo nel quale i familiari delle persone scomparse non hanno potuto accedere al cimitero o svolgere i funerali per il pericolo dei contagi. Altre due truffe invece sarebbero avvenute nell’estate di due anni fa. Ama, attraverso l’avvocato Giuseppe Di Noto, si costituirà parte civile.

Ecco l’elenco di chi rischia il processo. Innanzitutto è imputato Alessandro Manca, titolare dell’agenzia «Af». Gli episodi ricondotti alla sua ditta sono quattro e gli avrebbero garantito un incasso di 3.600 euro. Nella lista degli accusati figura il nome di Emanuele Alesse, alla guida dell’agenzia «Roma», che avrebbe intascato tremila e 500 euro per una cremazione mai svolta.

A rischiare il processo ci sono pure Roberto Caprioli, a capo dell’agenzia «Chiericoni», e Alessandro Biagetti, alle dipendenze della società «Caprioli». In questo caso sono tre le truffe, per un valore di duemila e 700euro, commesse dalla coppia d’imputati, secondo quanto sostiene la Procura. La lista si chiude con Carlo Bruni, titolare dell’agenzia funebre «San Giovanni». All’imprenditore viene ricollegata una sola truffa, che gli avrebbe consentito di intascare mille e 400 cento euro.

Questo il sistema escogitato dai cinque imputati, almeno secondo quello che viene contestato loro dall’accusa. E’ il 14 marzo del 2020 quando il telefono di Manca squilla. A voler parlare con lui, è una signora di 70 anni che ha appena perso un parente. L’uomo gli spiega – secondo gli inquirenti – che si occuperà della cremazione della salma. Per il servizio chiede 950 euro. La donna versa quanto chiesto. Intanto, stando alla ricostruzione della Procura, la salma del defunto viene sistemata presso la camera mortuaria del cimitero Flaminio.

La cremazione non viene eseguita dall’agenzia «Af». L’operazione d’inumazione viene portata a termine dall’Ama. La famiglia del defunto si accorge però del raggiro e denuncia Manca. Lo stesso accadrà con gli altri quattro imputati, tutti segnalati ai magistrati. Lo scorso giugno si è aperto il processo a 13 dipendenti Ama, accusati di aver estratto tre salme dai loculi del cimitero di Prima Porta per sezionarle e ridurle in pezzi. Lo scopo: riporre i resti nella cassetta delle ossa e poi chiedere ai familiari il pagamento di una somma per il servizio di estumulazione del cadavere.

Quattro le agenzie funebri finite nei guai. Cimitero Flaminio, la truffa delle finte cremazioni: nell’urna terra al posto delle ceneri. Mariangela Celiberti su Il Riformista il 29 Gennaio 2022.

Credevano che le ceneri del loro caro defunto fossero nell’urna cineraria ricevuta dopo averne richiesto la cremazione. Non sapevano che invece, al suo interno, c’era solo della terra, mentre il corpo del parente era stato sepolto nell’area comune del cimitero. Dolore su dolore. È successo al cimitero Flaminio nei primi sei mesi del 2020: nell’orribile truffa sono coinvolte almeno 4 agenzie funebri.

L’inchiesta sulle finte cremazioni

La Procura di Roma aveva scoperto il primo caso nel gennaio 2020: da allora i carabinieri del nucleo radiomobile hanno individuato altri casi simili. Undici le bare individuate nell’area comune del camposanto, ossia dove finiscono quelle prive di una tomba, nonostante i familiari avessero pagato la cremazione per i propri cari. 

Il sostituto procuratore Silvia Sereni indaga per truffa e ha chiesto il rinvio a giudizio per quattro titolari di altrettante agenzie di pompe funebri.

Approfittando della vulnerabilità di chi aveva appena perso una persona amata, gli indagati riuscivano a falsificare i documenti e a dare delle spiegazioni di comodo agli ignari parenti. Proponevano inoltre prezzi vantaggiosi e tempi ridotti, per un’operazione che solitamente prevede costi più elevati. Gli investigatori ipotizzano che potessero contare sull’aiuto di chi lavora all’interno del cimitero.

Sedici indagati per vilipendio di cadavere

La truffa sulle finte cremazioni è l’ennesimo scandalo che riguarda il cimitero Flaminio. In un’inchiesta parallela sono finite ben sedici persone a processo con accuse che vanno dalla truffa al vilipendio di cadavere. I fatti si sono verificati tra gennaio e febbraio 2020.

Secondo la legge, trascorsi 30 anni dalla sepoltura deve avvenire l’estumulazione della bara. Di solito i cadaveri sono mineralizzati, quindi si procede alla raccolta delle ossa, che vengono spostate nell’ossario comune in modo che il loculo venga liberato. Capita però che i corpi siano ancora in buono stato: i parenti così devono pagare per la cremazione. Ed è in questo ultimo caso che i truffatori hanno pensato di agire, proponendo ai parenti delle soluzioni più economiche (e ovviamente in nero). Un modo per arrotondare che però comprendeva una macabra procedura: i corpi non venivano cremati, bensì dissezionati e fatti a pezzi.

Sarebbero tre i casi finora accertati, che avrebbero coinvolto tre imprese funebri e alcuni dipendenti infedeli dell’Ama. Mariangela Celiberti

Imputati 13 dipendenti Ama e tre operai di diverse agenzie funebri. Facevano a pezzi i cadaveri e chiedevano soldi ai parenti: orrore al cimitero, dipendenti incastrati da telecamere. Roberta Davi su Il Riformista l'8 Giugno 2022 

Vilipendio di cadavere e truffa in concorso. Sono questi i reati di cui dovranno rispondere 13 dipendenti Ama e tre addetti di diverse agenzie funebri di fronte al Tribunale di Roma.

Gli imputati sono infatti accusati di aver sezionato almeno tre salme e di aver chiesto dei soldi ai familiari per l’estumulazione: secondo le indagini però la procedura non sarebbe stata regolare. A incastrarli i filmati di alcune telecamere nascoste dai carabinieri tra i loculi del cimitero Prima Porta di Roma, come riportato da Il Messaggero.

La vicenda

Gli episodi contestati si sarebbero verificati nel mese di gennaio del 2020. In particolare il giorno 27 sei dipendenti Ama, armati di coltello, avrebbero prima fatto in pezzi una salma, che si trovava in una cappella del cimitero Prima Porta, dopo aver ricevuto l’ordine da un addetto di un’agenzia funebre. Poi sarebbero passati all’azione con i parenti, pretendendo 300 euro per trasferire i resti in una casetta più piccola e lucidare la lapide.

Secondo la Procura però, gli imputati avrebbero fatto credere alla persona contattata che i soldi fossero necessari per poter procedere con una ‘legittima attività di estumulazione‘, mentre si sarebbero accaniti sui cadaveri per poi riporre i resti nella cassetta ossea. Un ‘copione’ che si è ripetuto in altre due occasioni,  il 22 e il 30 gennaio 2020, quando ai familiari di due defunti sono stati chiesti rispettivamente 300 e 50 euro. Cifre che sarebbero servite ad ‘arrotondare’ lo stipendio.

Le immagini

Dai filmati delle telecamere piazzate dai Carabinieri le immagini dell’orrore: i dipendenti Ama si disponevano intorno alla salma e poi iniziavano a sezionarla e a farla a pezzi, con i resti gettati nell’ossario comune.

La prossima udienza è fissata per ottobre: verranno ascoltati i testimoni dell’accusa. Roberta Davi

Il record degli ospedali pugliesi: un lavoratore su 3 ha limitazioni. Boom di inidoneità e «leggi 104» tra il personale sanitario. L’assessore Palese: «Numeri enormi, bisogna intervenire sono 11mila su 37mila». Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 31 Ottobre 2022.

Il sistema sanitario pugliese impiega 43mila persone, di cui 5.300 a tempo determinato. Ma il 27% del totale (il 31%, se si escludono i contratti a termine) presenta un qualche tipo di limitazione oppure fruisce dei permessi della legge 104. Negli ospedali, insomma, lavorano 11mila dipendenti che per un motivo o per l’altro sono a metà servizio.

È un numero enorme: uno studio del Cergas, alcuni anni fa, stimava la media nazionale al 10%. Ma è ancora più incredibile che la percentuale del 31% valga anche per le Sanitaservice, le aziende in-house delle Asl che si occupano di pulizie e ausiliariato, con un picco del 51% in quella del Policlinico di Bari. Il dato è emerso nell’ambito della ricognizione che l’assessorato alla Salute della Regione ha effettuato per valutare le risorse e gli spazi assunzionali disponibili in previsione della stabilizzazione dei precari, ed è legato a doppio filo con ogni possibile ragionamento sull’aumento dei turni e della produttività funzionale allo smaltimento delle liste d’attesa.

«Non immaginavamo - ammette l’assessore alla Sanità, Rocco Palese - che l’incidenza delle limitazioni fosse questa. Ma è stata una grande sorpresa la situzione nelle Sanitaservice, che sono nate da meno di 10 anni e che assumono giovani. Quel 51% è un numero esorbitante». Le limitazioni sono infatti legate alle patologie dei lavoratori, che crescono con l’avanzare dell’età. Il personale sanitario è «vecchio», e dunque certi numeri sono fisiologici anche se - la fonte è sempre la ricerca del Cergas - una limitazione su due è costituita dall’inidoneità alla movimentazione dei carichi (il dipendente non può maneggiare oggetti pesanti): può essere superata dotando i reparti di sollevatori automatici, ma nelle Asl pugliesi è stato fatto soltanto nella Bat.

Le altre limitazioni alle mansioni riguardano le posture, lavoro notturno e reperibilità, e meno di frequente il rischio biologico, il contatto con i pazienti o l’impossibilità di operare in specifici reparti o di svolgere azioni particolari.

Dopo la pandemia c’è stata una escalation nel ricorso ai permessi della legge 104 (che sono un diritto del lavoratore): se ne registrano 8.195 nel sistema sanitario e 922 nelle Sanitaservice. Il problema delle inidoneità è invece più articolato, perché le limitazioni non impattano solo sull’orario di servizio e dunque sul livello dell’assistenza ma spesso comportano il trasferimento del lavoratore vicino al luogo di residenza (per cui si creano anche scoperture degli organici). Nelle Sanitaservice sono invece il grimaldello utilizzato per imboscarsi: non sono rari i casi di avvocati o commercialisti assunti come pulitori che ottengono un certificato del medico competente e vengono illegittimamente spostati a fare gli amministrativi. «È un problema che dovremo approfondire - spiega Palese - perché in alcuni casi il personale viene adibito a mansioni che non rientrano tra quelle affidate alle Sanitaservice».

La ricognizione (contenuta in una delibera approvata la scorsa settimana dalla giunta regionale) consente per la prima volta di sapere quanti sono davvero (6.662) i dipendenti delle Sanitaservice. E ha consentito di quantificare le risorse destinabili alle assunzioni, pari a 55 milioni di euro complessivi da suddividere tra le singole aziende sanitarie.

La partita più delicata riguarda i precari, per i quali la Regione ha posto due paletti. La stabilizzazione partirà entro novembre e durerà fino al 2024. Ma le assunzioni a tempo indeterminato di chi ha maturato i requisiti previsti dalla legge non potranno superare il 50% del totale delle risorse stanziate anno su anno. E, soprattutto, potranno riguardare soltanto chi è entrato attraverso una procedura ad evidenza pubblica o comunque in base a una disposizione di legge: niente stabilizzazione, insomma, per chi è stato reclutato a chiamata diretta. Il segnale è evidente: bisogna seguire le regole, non ci potranno essere corsie preferenziali per nessuno.

La nota del Policlinico

I giudizi di idoneità con limitazione al Policlinico di Bari incidono solo per il 6,4% dei dipendenti e riguardano per il 37% turni, reperibilità e urgenze, per il 19% rischio chimico, per il 16% rischio biologico. È quanto emerge dal report annuale 2021 sulla sorveglianza sanitaria elaborato dall’Unità operativa di Medicina del Lavoro universitaria del Policlinico di Bari diretta dal prof. Luigi Vimercati. L’ospedale universitario barese è ben sotto la media italiana: lo studio Bocconi Cergas, mirato a valutare la presenza nelle aziende sanitarie e ospedaliere italiane di giudizi di idoneità con limitazione, ha stimato una percentuale media nazionale pari all’11,8%.

Grazie allo screening svolto attraverso le visite periodiche e di prevenzione effettuate dalla Medicina del lavoro, inoltre, sono state individuate nel corso del 2021 44 nuove patologie a carico dei dipendenti riguardanti l’apparato cardiocircolatorio, la tiroide, gli apparati digerente, respiratorio e osteoarticolare, nefropatie e patologie oculari. “Grazie ad una meticolosa sorveglianza sanitaria siamo in grado di monitorare costantemente lo stato di salute dei lavoratori del Policlinico, circa 6mila, e di rilevare in maniera precoce l’insorgenza di alcune patologie che consentono al lavoratore di intervenire con immediatezza ed efficacia nelle cure necessarie” spiega il prof. Vimercati.

Dal rapporto, stilato dalla Medicina del Lavoro, emerge come il numero di infortuni sul lavoro all’interno del Policlinico di Bari in 10 anni si è più che dimezzato e incide per lo 0,04% rispetto alla popolazione complessiva che ogni giorno prende servizio nelle strutture ospedaliere. La tipologia di infortuni più comuni riguarda le cadute accidentali, gli infortuni in itinere sul percorso di lavoro e le punture accidentali. Una discesa frutto degli interventi fatti con il Servizio di prevenzione e di protezione coordinato dal dott. Fulvio Fucilli.

“Il Policlinico è una delle pochissime aziende che ha adottato e sta mantenendo il sistema di gestione e sicurezza sul lavoro attraverso piani di audit e focus mirati sulle unità operative, per capire se tutte le procedure messe in atto per la sicurezza sono conosciute e correttamente applicate. Si tratta di feedback importanti per conseguire obiettivi di garanzia di sicurezza e salute sul luogo di lavoro” spiegano Vimercati e Fucilli.

Paolo Russo per “la Stampa” il 31 ottobre 2022.

Prima il malore, poi la corsa in ospedale dal quale era stata dimessa da poco. Una nottata di dolori allucinati e la morte, dopo che la sorella minore, Rebecca, aveva chiamato quattro volte il 118, tra le 13,03 e le 15,29, per ottenere un’ambulanza, racconta la denuncia presentata alla Procura di Roma che ora dovrà stabilire le responsabilità. Paola Onofrei se ne è andata così, in casa propria in un quartiere della periferia romana, per un’ulcera duodenale perforata, ha stabilito l’autopsia. Un caso come tanti, troppi nell’ultimo anno.

C’è la donna morta di infarto aspettando l’ambulanza arrivata dopo un’ora e mezzo. La 35enne spirata a Napoli appena arrivato il mezzo di soccorso, ma dopo 50 minuti d’attesa. C’è anche chi, come Marco a Roma, di ore ne ha aspettate ben 9 prima di essere richiamato dall’Ares 118 per sapere se il mezzo serviva ancora. Tra carenze di personale nelle centrali operative del 118, mezzi in fila davanti ai pronto soccorso intasati che per questo non riescono a «sbarellare» i pazienti e chiamate improprie le ambulanze si stanno sempre più impantanando, lasciando scoperta la prima linea della nostra sanità: quella dell’emergenza-urgenza.

Le immagini dei mezzi in coda davanti ai pronto soccorso e che per questo non riescono a ripartire sono oramai sempre più frequenti in buona parte delle città italiane. A Roma questa estate di mezzi bloccati sotto il sole ce n’erano 60 in una sola mattinata. «In larga parte per colpa del cosiddetto boarding, ossia della permanenza dei pazienti in pronto soccorso oltre il necessario per la carenza di letti in reparto, dove dovrebbero essere trasferiti se non fossero stati tagliati 30 mila letti i 10 anni», spiega Fabio De Iaco, presidente di Simeu, la società scientifica dei medici di emergenza e urgenza.

E se i mezzi non riescono a scaricare i pazienti è chiaro che nemmeno possono rimettersi in pista. In Italia i Lea, i livelli essenziali di assistenza validi in tutte le regioni, stabiliscono che dal momento della chiamata il mezzo di soccorso debba essere sul posto entro e non oltre 18 minuti. Indipendentemente dal colore assegnato in base alla gravità dell’intervento. E l’equipaggio deve essere pronto a salire a bordo in 120 secondi. In realtà, secondo un’indagine di Cittadinanzattiva, sette regioni avrebbero tempi medi superiori: 21 minuti la Valle d’Aosta, 19 il Trentino, 20 il Veneto, 22 l’Abruzzo, 23 il Molise, mentre in Basilicata si sale a 33 e in Calabria a 26.

I numeri sono stati rilevati in epoca pre-Covid, ma ora sarebbero persino peggiorati proprio per l’intasamento ulteriore dei servizi generato dalla pandemia. E poi si tratta di medie, che nascondono picchi di attesa in più di un caso rivelatisi fatali. Come spesso succede nella nostra sanità, la situazione peggiora al Sud. Ma le cose vanno male anche nelle aree meno abitate e nelle località più difficili da raggiungere.

Perché ce lo spiega uno che i problemi del soccorso in ambulanza li tocca con mano tutti i giorni, Andrea Andreucci, presidente Siiet, la società scientifica degli infermieri dell’emergenza territoriale. «Al Nord c’è un forte apporto del volontariato delle varie “Croci”, che funziona e consente di allargare l’offerta dei servizi. Il privato ci mette il soccorritore, l’azienda sanitaria pubblica i suoi professionisti».

 Al Sud il privato resta invece ai margini e il servizio va ancora più in affanno. Ma a complicare le cose c’è anche la cattiva distribuzione dei mezzi. Un provvedimento di inizio 2000 ha stabilito infatti una dotazione di un mezzo ogni 60 mila abitanti, senza considerare come la popolazione è distribuita sul territorio. Perché a Milano significa dover coprire un quartiere, in Basilicata o in Val di Fassa chilometri e chilometri quadrati che non consentono di raggiungere chi ne ha bisogno entro i fatidici 18 minuti fissati per legge.

Spesso si è sentito accusare dei ritardi il 112, che poi smista le chiamate ai Carabinieri così come al 118 sanitario. «Ma le cose non stanno così, dopo due squilli rispondono e ti passano la centrale operativa del 118 dove avviene l’intasamento, perché manca il personale, ma anche per colpa di chi chiede l’ambulanza quando non serve, magari illudendosi così di saltare la fila arrivati in pronto soccorso», spiega Andreucci. Lo farebbero metà delle persone che chiamano, secondo le stime della Siiet.

«Usano l’ambulanza come un taxi, l’altro giorno ha chiamato un ragazzo che aveva preso un colpetto al dito del piede giocando a calcetto e ha preteso di farsi portare in ambulanza. Potresti lasciarlo lì ma se poi il dolore al dito nasconde un’ischemia che fai?». A peggiorare le cose ci si è messo anche il Covid, perché ogni volta che si trasporta un positivo poi occorrono 20 minuti per sanificare il mezzo. «Che diventano due ore e passa quando l’igienizzazione la si fa in centrali di sanificazione che magari distano 40 km dall’ospedale», denuncia sempre Andreucci.

Un falso problema, secondo i direttori generali delle Asl e la stessa Siiet, è invece il l’assenza del medico a bordo. Così è per sette mezzi su 10. In alcune realtà anche di più. «Il medico in ambulanza serve ormai nel 3, massimo 5% dei casi più gravi, per il resto con la formazione specialistica che ho li so trattare benissimo io», mette in chiaro Andreucci. Con o senza medici serve però che qualcuno tiri fuori le ambulanze dal pantano dove anni di tagli alla sanità le hanno fatte finire.

Tutte le spine della sanità: pronto soccorso al collasso, dimissioni e rinuncia alle cure. Ma c’è l’aumento per i dottori. Maria Sorbi il 29 Ottobre 2022 su Il Giornale.

I medici si dimettono, esausti per le condizioni di lavoro. I pazienti rinunciano alle cure, scoraggiati dai tempi di attesa per un esame. E chi finisce in pronto soccorso deve farsi il segno della croce, sperando di non capitare nelle mani di un medico in turno da 48 ore filate. La sanità post pandemia è malata, stanca e con mille nodi da sciogliere. Ora che l’emergenza Covid è finita, non è concepibile che i problemi tornino ad essere quelli di sempre.

IN FUGA DAL PRONTO SOCCORSO

Otto medici al giorno abbandonano gli ospedali pubblici: sono ben 9mila le lettere di dimissioni presentate dal 2019 al 2021 e l’ondata non cessa, soprattutto nei pronto soccorso. Come mai? Stipendi risicati rispetto alla mole di lavoro, doppi turni e ferie saltate per non lasciare «buchi». E così sempre più concorsi banditi dalle aziende sanitarie e ospedaliere vanno deserti, com’è accaduto pochi mesi fa al pronto soccorso dell’ospedale Cardarelli di Napoli. Il lavoro in prima linea ha perso il suo appeal. Una risposta parziale arriverà dal contratto collettivo, che sarà chiuso la prossima settimana e che prevede aumenti medi di 175 euro al mese per 600mila dipendenti, corrispondenti ad una percentuale di rivalutazione del 7,22%.

I MEDICI A GETTONE

Per non lasciare sguarnito il servizio dei pronto soccorso, gli ospedali ricorrono ai medici a gettone, un esercito di 15mila camici bianchi, giovani e non, gestiti dalle cooperative. Prendono una cifra moto più alta rispetto a quella di uno specializzando o di un medico a inizio carriera: anche mille euro a turno, 3.600 per un servizio di 48 ore. Esternalizzare il servizio era stato dichiarato illegale dal 2018 per non creare la doppia corsia di medici iper pagati ma poco esperti e spediti di volta in volta in ospedali a loro sconosciuti e di medici più ferrati ma umiliati con stipendi bassissimi. Con la pandemia, sono tornati i medici a gettone e mai più smantellati. Tanto che, in base al rapporto Simeu (società di medicina di emergenza e urgenza) rappresentano spesso la metà del personale.

MANCANO DOTTORI

Mancano all’appello circa 4mila medici. E mancando anche posti letto negli ospedali, oltre a un sistema del 118 organizzato in maniera non omogenea su tutto il territorio nazionale. Per superare queste criticità occorre una legislazione di emergenza: per questo la Fiaso, federazione delle aziende ospedaliere, propone un provvedimento straordinario, che resti in vigore per 24-36 mesi, che consenta di assumere nei pronto soccorso sia i laureati in Medicina e Chirurgia abilitati all’esercizio della professione, sia gli specializzandi in regime di libera professione, durante il loro percorso formativo.

CHI RINUNCIA ALLE CURE

Dal nuovo rapporto Istat risulta che nel 2021 l’11% delle persone (circa 6 milioni di persone) ha dovuto rinunciare a visite specialistiche o esami diagnostici di cui aveva bisogno per problemi economici o legati alle difficoltà di accesso al servizio (nel 2019 erano il 6,3%). Le lista d’attesa del sistema pubblico hanno scoraggiato la prevenzione.

MEDICINA SOTTO CASA

I medici Fimmg chiedono di recuperare la prossimità e rafforzare la «base» della medicina con pediatri e specialisti ambulatoriali. Promettente il discorso della neo premier Giorgia Meloni, che ha deciso di puntare anche su presidi territoriali e cure domiciliari, utilizzando per molti servizi anche la rete delle farmacie: «Bisogna riportare la sanità verso i territori, valorizzare il ruolo dei medici di medicina generale e coinvolgere il sistema delle farmacie perché sono fra i primi presidi sul territorio».

Medici a gettone, chi ci guadagna (non i pazienti): fino a 1.800 euro per un turno di 12 ore. Simona Ravizza e Giovanni Viafora su Il Corriere della Sera il 29 Ottobre 2022.

Il lungo blocco del turnover e gli orari sempre più massacranti, specie per il Covid, hanno fatto crescere il numero dei dottori «nomadi», che possono fare turni di 36-48 ore (guadagnando super stipendi). Specie nei pronto soccorso 

Il loro ingresso nelle corsie d’ospedale avviene soprattutto durante i turni di notte dalle 8 di sera alle 8 di mattina, il sabato e la domenica e nei giorni di festa. Il loro lavoro è occuparsi prevalentemente delle urgenze: parti, bambini con problemi di salute e, su tutti, Pronto soccorso. Oggi in queste circostanze abbiamo una probabilità su quattro di essere assistiti da un medico a gettone. Possibilità che in alcuni ospedali – paradossalmente i più importanti e di città come Milano, Venezia e Torino – ormai sono diventate una su due (all’ospedale di Cirié, nel Torinese, per esempio l’unico strutturato ormai è il primario, mentre tutti gli altri sono gettonisti). Sono medici che lavorano per una cooperativa e pagati per il turno che svolgono. Adesso in un posto, domani in un altro.

70%: E' IL POSSIBILE INCREMENTO DELLO STIPENDIO DI UN MEDICO CHE RINUNCIA ALL’ASSUNZIONE IN OSPEDALE E DECIDE DI AFFIDARSI ALLE COOPERATIVE E LAVORARE COME LIBERO PROFESSIONISTA

Il fenomeno è rimasto sottotraccia e in dimensioni trascurabili per anni, fino a esplodere negli ultimi mesi. Specie dopo lo tsunami del Covid. Le richieste degli ospedali che devono fronteggiare i buchi di organico sono diventate pressanti: la presenza dei gettonisti ormai è capillare. Il meccanismo funziona così: l’ospedale in difficoltà a coprire i turni fa una gara d’appalto con cui sceglie una cooperativa (spesso quella che assicura il minor prezzo), e una volta ingaggiata le invia i turni scoperti. In parallelo la cooperativa raccoglie le disponibilità dei propri medici con annunci sul proprio sito, ma soprattutto su social come Telegram, e poi esegue il gioco d’incastri. «Senza di noi» dicono i professionisti intervistati per 7 «il Sistema sanitario nazionale crollerebbe». 

Già, ma chi sono i medici a gettone? Un po’ nuovi E.R. di un’epoca infausta, in cui vanno in prima linea i medici a gettone perché gli ospedali sono in grave crisi di professionisti. Un po’ globetrotter della salute che indossano il camice dove più gli conviene. Nessuno di loro vuole sentirsi chiamare mercenario. Estremamente vari per età e competenze, i loro profili possono essere racchiusi in sei tipologie.

SEI CATEGORIE

Uno. Il medico ospedaliero andato in pensione a 62-63 anni e che desidera continuare a esercitare il mestiere percependo anche un doppio reddito: pensione e gettoni. In teoria, al di fuori delle norme nate per l’emergenza Covid, chi lavora per il Servizio sanitario nazionale non può andare avanti a starci una volta in pensione. Lo dice la riforma Madia: la normativa consente come unica eccezione la possibilità di ottenere incarichi a titolo gratuito. Nel caso dei pensionati-gettonisti, però, la legge può essere facilmente aggirata: l’ospedale ha un contratto con la cooperativa, che a sua volta ha un rapporto con il medico libero professionista. Nella triangolazione le regole vanno a farsi benedire. Nulla vieta, poi, di cumulare pensione e nuovi redditi (ci sono dei paletti ma solo per casi specifici come i «Quota 100 e 102»). 

Due. Il medico più giovane e potenzialmente nel pieno della carriera, ma che decide di licenziarsi dal posto fisso in ospedale. Lo fa provato da orari e turni massacranti, senza nessuna gratificazione emotiva né riconoscimenti economici. L’emblema di questa categoria è diventato l’ex direttore del Policlinico di Monza e poi viceprimario a Paderno, Riccardo Stracka, 44 anni, che si è messo a fare il gettonista tra Lombardia, Piemonte e Veneto. Il suo stipendio è aumentato del 60-70%; e la qualità di vita gli è radicalmente cambiata perché finalmente ha la possibilità di organizzarsi. Tra questi ci sono anche tutti coloro che si sentono mortificati a lavorare in corsia da dipendenti, mentre al loro fianco hanno giovani colleghi a gettone che guadagnano cifre da capogiro. Il pensiero, che rischia di diventare sempre più ricorrente: «Chi me lo fa fare?».

2019 L’ANNO IN CUI L’ALLORA MINISTRA GIULIA GRILLO HA SBLOCCATO (IN PARTE) LA SITUAZIONE: I VINCOLI DI SPESA PER LE ASSUNZIONI SONO STATI ALLENTATI DOPO ANNI DI BLOCCO DEL TURNOVER CI SONO NEOLAUREATI CHE DIVENTANO “GETTONISTI” E FINISCONO IN CORSIA SENZA AVER MAI NEMMENO AUSCULTATO UN CUORE

Tre. Il medico con un altro lavoro. Finita la giornata in studio, va a prendersi il gettone. Per esempio: ginecologo di giorno, ostetrico di notte. Qualche sera fa, uno dei principali Pronto soccorso di Milano, era gestito da un medico che certifica il rinnovo delle patenti. Dai racconti emerge che può essere un modo per ricordarsi davvero che cosa vuol dire fare il medico: essere lì, in prima linea. Sicuramente è anche un modo per arrotondare un bel po’. 

Quattro. I medici liberi professionisti per vocazione o interesse, che non sono mai entrati in ospedale da dipendenti. Gli specializzandi oggi possono fare il concorso per essere assunti in ospedale due anni prima di terminare gli studi, in modo da avere già il posto fisso una conclusa la specializzazione. Cosa succede in realtà? In molti ci rinunciano e in quell’ospedale tornano da gettonisti. Il loro ragionamento è: 20 notti per 20 mila euro lordi al mese su per giù. È vero che c’è il rischio di ammalarsi e di restare senza stipendio, ma è un rischio che vale la pena di correre per comprarsi casa nel giro di due-tre anni. 

Cinque. I neolaureati. Durante i 6 anni di studi in Medicina è obbligatorio fare 3 mesi di tirocinio in modo che presa la laurea arrivi anche l’iscrizione all’Ordine dei medici (abilitazione professionale). Un mese di tirocinio è in un ambulatorio di un medico di famiglia, gli altri due in ospedale. Qui il più delle volte, come ammettono loro stessi, vanno a reggere i muri. Per il resto, durante i sei anni di Medicina, possono aggiungersi altre giornate in corsia, ma molto dipende dell’ateneo in cui uno studia. La preparazione teorica è elevata, l’esperienza zero. Risultato: ci sono neolaureati che diventano gettonisti in Pronto soccorso senza aver mai auscultato neppure un cuore. I più decidono di diventare medici a gettone in attesa del concorso per entrare in specialità. Altri lo fanno se non superano il concorso, in attesa di ripeterlo l’anno successivo. L’ingaggio con le cooperative avviene con il passaparola o, ancora una volta, con le chat.

48 ORE: LA DURATA DI ALCUNI TURNI DEI MEIDICI «A GETTONE», CHE A VOLTE LAVORANO SENZA RISPETTARE IL NECESSARIO RIPOSO DI 11 ORE TRA UN TURNO E L’ALTRO

Sei. I medici stranieri. In Italia ci sono 19mila medici di origine straniera: il 65% non ha la cittadinanza italiana o di un Paese comunitario e non vengono ammessi ai concorsi pubblici. Alle cooperative arrivano richieste da romeni, albanesi, ma anche argentini, brasiliani e cubani. Il problema è la lingua. Romeni e albanesi sono i più abili a comprendere, in altri casi non è così. 

Il medico a gettone tipo, in ogni caso, è sempre in movimento: altro che lavoro di squadra! Gli spostamenti possono essere anche dal Centro-Sud al Nord, in pullman o con il Frecciarossa. Vengono raggruppati turni per cinque/sei giorni in ospedali vicini per poi tornare a casa con lo stipendio che può bastare per un mese. E i turni possono essere anche uno di fila all’altro: 36/48 ore in corsia senza interruzione. Ci si affida alla buona fede e alla coscienza del singolo medico, perché ad oggi la legge non pone vincoli di alcun tipo. Ma a noi pazienti quale tipo di professionalità viene garantita?

QUALI RISCHI

Può andarci bene o andarci male. Del resto, anche tra i medici ospedalieri con il posto fisso ci può essere il più competente e quello meno. Ci sono però differenze sostanziali che non possono essere taciute. Al di là delle capacità del singolo professionista, il «sistema dei medici a gettone» presenta di per sé più rischi per il malato. 

Chi viene assunto in un Pronto soccorso deve avere superato un concorso pubblico: la partecipazione è vincolata al possesso di un lungo elenco di requisiti come la specializzazione in Pronto soccorso e Terapia d’urgenza, Medicina d’urgenza oppure titoli equipollenti e c’è da superare una prova scritta, una orale e una pratica. La scelta del medico a gettone, invece, avviene a discrezione della cooperativa. Senza nessuna regola. Quella seria fa una selezione accurata dei professionisti, quella orientata solo agli affari punta semplicemente ad avere a disposizione più medici a gettone possibili per coprire più turni possibili (su ogni turno viene trattenuta una percentuale che va dal 7 al 15%). E, purtroppo, i bandi di gara degli ospedali non sembrano fatti per scegliere la cooperativa più seria: il criterio spesso è semplicemente il minor prezzo perché più i requisiti del bando sono severi (come la richiesta di riposo obbligatorio tra un turno di 12 ore e l’altro) più è difficile trovare cooperative che partecipino. Così gli ospedali per non fare andare deserti i bandi rinunciano a requisiti stringenti: il Pronto soccorso non può essere lasciato senza medici! Chi poi ci troviamo davanti è un problema di noi pazienti: che lucidità può avere un medico che sta lavorando da 36 ore di fila? 

Un’altra importante controindicazione del «sistema dei medici a gettone» è che viene perso totalmente il lavoro di squadra fondamentale anche per curare al meglio le patologie tempo-dipendenti come l’ictus: pochi minuti possono fare la differenza nel salvarci la vita o non condannarci a delle disabilità. Ma che intesa ci può essere tra medici che non hanno mai lavorato insieme e che non conoscono l’organizzazione dell’ospedale? Insomma, in assenza di regole questo sistema, ora degenerato, porta con sé vulnus preoccupanti: un intero settore nevralgico della Sanità è di fatto fuori dal controllo pubblico.

DECENNI DI ERRORI

Dev’essere ben chiaro, però, che i medici a gettone non sono la causa dei problemi del nostro Sistema sanitario, ma il loro effetto. Dietro questo fenomeno ci sono decenni di errori fatti da chi ci ha governato: dal 2005 con i governi Berlusconi 2, Prodi 2, Berlusconi 3, Monti, Letta e Renzi è stato bloccato il turnover, che vuol dire che i pensionati non sono stati sostituiti con lo stesso numero di nuovi assunti. Le corsie si sono svuotate. 

Un provvedimento del 2019 del ministro Giulia Grillo sblocca la situazione: i vincoli di spesa per le assunzioni vengono allentati. Ma a quel punto i professionisti da assumere non si trovano: le Scuole di specializzazione non ne hanno formati abbastanza. Per anni i ministeri della Salute e dell’Istruzione hanno fatto una programmazione al ribasso del numero di medici che bisognava formare per sostituire chi va in pensione. 

Di fronte ad organici sempre più scarni i turni si fanno massacranti e pagati poco. Così oggi sono sempre di più quelli che decidono di lavorare arruolati da una cooperativa perché bastano cinque-sei gettoni per guadagnare come in un mese un medico ospedaliero a inizio carriera, sette-otto gettoni per raggiungere lo stipendio di un medico dipendente da più di 15 anni di anzianità e nove-dieci gettoni per arrivare alla busta paga di un primario. Il tutto con la possibilità di organizzarsi, con benefici importanti per la vita privata e familiare.

SCHEDA - IL CONFRONTO

Un confronto tra turni, orari e retribuzioni tra un medico ospedaliero e un medico a gettone. Tutte le cifre sono lorde. 

Il medico ospedaliero ha un contratto da 38 ore a settimana, con obbligo di 11 ore di riposo tra un turno e l'altro, 1 turno di notte e 1 reperibilità a settimana. Ma nella realtà le ore a settimana arrivano a 50, e notti e reperibilità di moltiplicano. 

La retribuzione è, a inizio carriera, di 5.000 euro (su 12 mesi), e 60 mila euruo all'anno; con più di 15 anni di anzianità 6.900 euro (su 12 mesi) e 83 mila euro l'anno; un primario guadagna 9.300 euro (su 12 mesi) o 112 mila euro l'anno. 

Il medico a gettone è un libero professionista che lavora su turni di 12 ore. In assenza di regole e controlli, può accumulare anche due/tre turni di fila fino a lavorare 36 ore consecutive. 

La retribuzione è, per un gettone «pronto soccorso» (codici bianchi e verdi) di 700-900 euro per un turno di 12 ore (60-90 euro l'ora); per un gettone «anestesia e rianimazione» di 1.200-1.800 euro per un turno di 12 ore (100-150 euro l'ora); per un gettone altri reparti (ortopedia, pediatria, cardiologia...), di 780-1.200 euro per un turno di 12 ore (65-105 euro l'ora). 

Il medico a gettone, con 5-6 gettoni, guadagna come un mese un medico ospedaliero a inizio carriera; con 7-8 gettoni come uno con più di 15 anni di anzianità; con 9-10 come un primario. I gettonisti fanno anche più di 20 turni al mese.

I medici a gettone arruolati in chat senza controlli: «Guadagnano 3.600 euro in 48 ore». Simona Ravizza e Giovanni Viafora su Il Corriere della Sera l'1 Ottobre 2022.

La grande fuga dagli ospedali e il business delle cooperative. Ecco le offerte e i prezzi nella giungla di Telegram. «Ci sono colleghi che si spostano con i pullman. Con 3 o 4 turni prendono più di un assunto in ospedale» 

Lo scorso marzo, in un ospedale del Bresciano, una giovane donna muore poche ore dopo aver dato alla luce il terzo figlio.

Uno dei medici che l’ha in cura, secondo un’autorevole testimonianza raccolta dal Corriere , è al lavoro da 36 ore. Al momento non si può dire se la circostanza ha giocato un ruolo diretto sul decesso; a stabilirlo dovrà essere la Procura, che sul caso ha aperto un’inchiesta (7 i sanitari indagati). 

Una cosa è certa: quel medico poteva stare lì dov’era anche dopo tutto quel tempo, perché a differenza dei colleghi dipendenti dell’ospedale — e quindi vincolati al rispetto degli orari — lui era lì come gettonista. Ovvero, come uno delle migliaia di professionisti che ogni giorno entrano negli ospedali italiani, ingaggiati da cooperative esterne su affidamento delle aziende sanitarie, per coprire i sempre più numerosi buchi d’organico. 

Chiamati a gettone, che vuol dire pagati per un singolo turno (di solito 12 ore), in un campo sostanzialmente senza regole. Risultato: oggi è possibile, magari spinti da necessità economiche, cumulare anche più gettoni uno di seguito all’altro. Senza che nessuno controlli. Come è successo in questo caso. Ma chi di noi si farebbe visitare da un medico in piedi da 36 ore? 

Questa è solo una delle criticità emerse dalla nostra inchiesta sul fenomeno dei gettonisti. Fenomeno ormai sempre più diffuso e che sta cambiando radicalmente la fisionomia degli ospedali italiani alle prese con organici ridotti all’osso. E che rappresenta, oltre a tutto ciò che vedremo, innanzitutto un dispendio per le casse dello Stato: per un gettone si arrivano a offrire fino a 1.200 euro a turno per singolo medico, in sostanza più della metà della paga che uno specializzando prende in un mese intero. 

Ma perché si è arrivati a questa situazione? Chi c’è dietro alle cooperative che fanno da intermediarie? E chi sono e come vengono scelti i medici che finiscono in ospedale? Sono le domande a cui abbiamo cercato di dare risposta per capire in definitiva, oggi, chi ci cura. 

I buchi negli organici

Si deve partire dai numeri (impressionanti) che riguardano la carenza di medici. Un fenomeno che si deve essenzialmente a tre ragioni.

Uno: il turnover in Sanità bloccato per 14 anni (dal 2005 con il governo Berlusconi 2 al 2019, con il Conte 1, che ha portato le assunzioni a un +10%).

Due: una programmazione miope, se non proprio del tutto errata, con contratti di specialità al ribasso per anni e mai tarati per sostituire chi va in pensione, tanto che dal 2015 al 2020 i pensionabili sono stati 37.800, a fronte di 24.752 specializzati pronti per entrare nel servizio sanitario.

Tre: una clamorosa accelerata delle dimissioni volontarie da parte dei medici ospedalieri, specie dopo il Covid, dovuta a un peggioramento generale delle condizioni di lavoro, con turni sempre più massacranti e un’aumentata conflittualità con i pazienti.

Nel 2021 si sono registrati 2.886 licenziamenti volontari: +39% rispetto al 2020. È un trend che, se confermato, porterà a una perdita complessiva tra pensionamenti e licenziamenti di 40 mila specialisti entro il 2024 (stima del sindacato dei medici Anaao). 

Il meccanismo

Qualcuno, però, in ospedale ci deve pure essere. Le aziende sanitarie, con le spalle al muro, si affidano alle cooperative: sono loro a garantire i medici pagati a gettone. Il problema riguarda soprattutto i Pronto soccorso, che sono i reparti più in crisi. Secondo un’indagine svolta per il Corriere dalla Società italiana di medicina di emergenza e urgenza, guidata da Fabio De Iaco, su un campione di 31 ospedali, oggi un paziente ha una possibilità su 4 di essere assistito in Pronto soccorso da un medico di una cooperativa. Ma nelle notti o nei weekend la proporzione può arrivare a una su due. 

Sembra un paradosso, ma trovare un medico per le cooperative non è difficile. Le aziende ospedaliere alle strette concedono bandi remunerativi, con requisiti di accesso spesso bassi (e in ogni caso ben lontani da quelli che vengono richiesti per un medico interno, che dev’essere quanto meno specializzato).  

Esempio: l’ospedale Papa Giovanni XXIII, con uno dei Pronto soccorso più importanti della Lombardia, e il cui nome ha fatto il giro del mondo come uno dei primi avamposti della lotta contro il Covid, riesce a risolvere la situazione affidandosi a una cooperativa. La determina è la numero 233 del 4 maggio 2022 dal titolo: «Affidamento del servizio di Guardia medica presso il Pronto soccorso della sede dell’Asst Papa Giovanni XXIII. Durata 7 mesi dal 01.05.2022 al 30.11.2022. Spesa complessiva presunta euro 183.382,50 Iva 5% compresa». La necessità è di coprire 175 turni, durata 12 ore ciascuno, compenso 998 euro a turno. Il criterio di scelta, come è possibile leggere testualmente, è «il minor prezzo». Punto. 

In questo contesto è facile per chi vuole sottrarsi a qualsiasi tipo di vincolo di qualità espandersi a scapito delle cooperative che invece investono in sicurezza, esperienza dei medici e legalità. È anche semplice, per chi non sostiene questi costi, poter applicare prezzi inferiori e così aggiudicarsi molti bandi di gara: si possono affidare magari a neolaureati, cosa facile tra l’altro visto che negli ultimi dieci anni sono rimasti esclusi dalle scuole di specialità 11.652 neolaureati, oppure a medici stranieri. A scapito naturalmente della sicurezza dei pazienti. 

Le offerte sui social

Incrociare la domanda con l’offerta è facile. Le cooperative mettono gli annunci sui loro siti, ma soprattutto sui social, come Telegram. Ci sono canali ad hoc, dove se si è medico ci si iscrive con un clic e si resta in attesa del gettone giusto. 

Il Corriere è riuscito ad avere accesso ad uno di questi canali, dove per qualche settimana ha potuto osservare i messaggi in arrivo. Come questi: «Qualcuno sarebbe interessato a coprire dei turni notturni codici minori in provincia di Vicenza? Compenso 65 euro l’ora». E si specifica, per chi non avesse inteso: «Facendo un semplice calcolo sono 4.680 euro per sei gettoni». 

I messaggi sono decine al giorno. Gli orari dei turni non sembrano un problema. Una società inserisce l’annuncio per un posto di guardia diurna e notturna in una clinica riabilitativa di Arezzo: «Compenso 420 euro a turno, possibilità di fare 24 ore o 48 ore consecutive (consentito dalla clinica) e turni accorpati». Un altro ancora: «Cercasi medico da inserire in organico per la copertura di turni diurni e notturni e per la gestione dei codici minori del Pronto soccorso di Nuoro. Compenso 600 euro a turno di 12 ore più alloggio. Possibilità di accorpare turni per chi viene da fuori Regione». 

L’accorpamento dei turni è considerato un benefit: «Ci sono medici trasfertisti che si organizzano in pullman, prendono 3 o 4 gettoni consecutivi lavorando fino allo stremo e poi tornano a casa con un bottino di 4-5.000 euro che basta per tutto il mese», ci riferisce un primario lombardo che chiede di parlare coperto dall’anonimato. 

Il quadro è talmente stravolto che ormai si registrano casi paradossali: l’ex direttore del Policlinico di Monza e poi viceprimario a Paderno, Riccardo Stracka, 44 anni, si è licenziato, lasciando il posto fisso, e si è messo a fare il gettonista per una cooperativa che si muove tra Lombardia, Piemonte e Veneto. Dice di guadagnare il 60-70% in più rispetto a prima; mentre la qualità di vita gli è radicalmente cambiata: possibilità di organizzarsi. E i gettoni consecutivi sono solo uno dei problemi. Un altro riguarda la continuità dell’assistenza: «Mi trovo in reparto ogni sera un medico diverso», confida un altro direttore di unità complessa della Lombardia. Senza parlare dei titoli: poche sere fa, uno dei principali Pronto soccorso di Milano era gestito da un medico dei trasporti (che certifica il rinnovo delle patenti). Finito il lavoro in azienda, è andato a prendersi il gettone da 1.200 euro.

Chi arriva in corsia?

A presidiare sulla qualità dei medici mandati in corsia sono le cooperative stesse, alla serietà delle quali è affidata la valutazione dei curricula. Ed è una giungla. 

Nessuna norma del ministero della Salute impone ai direttori generali degli ospedali le regole da seguire per stilare i bandi di gara per esternalizzare alle cooperative, per cui ciascuno può fare praticamente quel che vuole. Basta spulciare i bandi degli ultimi mesi per accorgersi che le cooperative operano in un mercato assolutamente fuori controllo. Promessi professionisti d’eccellenza, nessuna certezza su chi davvero arriva in corsia. 

Un altro aspetto rilevante è quello delle garanzie fideiussorie (bancarie o assicurative) che quasi nessuna Asl si prende la briga di controllare. «Conosco ditte che hanno presentato fideiussioni di sconosciuti enti stranieri e di Asl che, dopo aver revocato gli appalti, hanno grossi problemi a incassare le garanzie», ci dice il dirigente di una delle più importanti cooperative che operano nel Nord Italia. «E molte Asl non si prendono neanche la briga di consultare il casellario Anac sull’Anticorruzione per verificare che le ditte non abbiano avuto problemi».

Salute e affari

A spulciare tra le varie cooperative le sorprese non mancano. Una delle più attive, con appalti in decine di ospedali tra la Lombardia e l’Alto Adige (e un giro di un centinaio di medici) è per esempio la Medical Service Sudtirol. Dietro al gruppo costituto nel 2018 «con l’obiettivo — come si legge sulla modesta pagina web — di fornire professionisti della Sanità idonei a colmare il fabbisogno di personale», c’è una persona sola, il dottor Jamil Abbas, origini libanesi, da anni trapiantato a Bolzano dove lavora come libero professionista in Pronto soccorso. Le due società che operano dietro alla Medical Service sono intestate una alla moglie, l’altra al figlio 23enne (attiva dal 2021). Addetti: uno. 

Stranezze, come quella che riguarda la Venice Medical Assistance, gestita da marito e moglie, Carla Pirone e dal medico Pietro Piovesan. I messaggi con i loro annunci appaiono nelle chat dei medici: lo scorso maggio a un gettonista venivano offerti 90 euro all’ora per un posto al Pronto soccorso dell’ospedale Santorso di Vicenza. Peccato però che l’ospedale avesse l’appalto con il colosso Anthesys di Treviso (cooperativa da 390 dipendenti). Chi controlla, quindi, a chi viene affidato che cosa? «È stata un’ingenuità, avevamo semplicemente rilanciato un messaggio per conto di una persona — ci ha detto al telefono Pirone —. Noi ci occupiamo di altro». In realtà, sulle chat dei medici, nel periodo da noi osservato, ci sono altri annunci della Venice Medical Assistance. Vedi quello del 6 agosto per «turni presso il Pronto soccorso di Conegliano». Gettone: 59 euro all’ora. 

Così gli affari per le cooperative, che di solito su ogni turno trattengono una percentuale che va dal 7 al 15%, vanno a gonfie vele. La stessa Anthesys ha indicato nel 2021 ricavi quasi raddoppiati: 14 milioni di euro contro gli 8,8 del 2020. Utile 234 mila euro contro i 92 mila dell’anno precedente. 

«Il continuo ampliamento dei servizi — si legge sul bilancio — ha portato un incremento dell’attività di oltre il 64% con punte di 90 rispetto all’anno precedente». E lo stesso vale per la Medical Service Sudtirol: nel 2021 i ricavi hanno toccato 1,4 milioni di euro (+30%) con un utile di 178 mila euro. «L’esercizio è stato caratterizzato da un incremento di ricavi di prestazioni di servizi, addirittura sorpassando notevolmente i risultati degli anni precedenti».

Insulti, vessazioni e superlavoro: i medici specializzandi di Perugia registrano e denunciano la primaria. L’audio in esclusiva. Accade nella scuola di Neurologia. Venti ore di sfuriate intercettate per chiedere a rettore, Asl e Ordine di intervenire. Copia dell’esposto anche in Procura. La direzione: “Aperta un’indagine”. Gloria Riva su L'Espresso il 28 Ottobre 2022.

«Siete quattro deficienti», «Co**lioni», «Mediocri», «Il tuo modo di rispondermi corrisponde ad analfabetismo mentale», «Ieri mi hai fatto imbestialire e sono dovuta uscire per non menarti», «Se esci dalla scuola così, meglio se non ci esci», sono solo alcune delle frasi che tra luglio e ottobre la docente della scuola di Neurologia dell'Ospedale di Perugia, Lucilla Parnetti, ha rivolto ad alcuni dei suoi medici specializzandi che, stanchi di essere insultati hanno deciso prima di registrare ciò che avviene all'interno del reparto di Neurologia e poi di chiedere aiuto all'Associazione Liberi Specializzandi, Als, che tutela i giovani medici. Troppa l'umiliazione, troppo lo stress fisico e psicologico a cui i giovani camici bianchi, a sentir loro, venivano sottoposti costantemente.

L'audio e relativa denuncia sono stati inviati dal presidente di Als Massimo Minerva, al rettore dell'Università di Perugia, al direttore generale dell'Azienda ospedaliera di Perugia, al direttore sanitario, all'assessore regionale alla Salute, all'Ordine dei medici e a Procura e Ispettorato del Lavoro, dal momento che i medici specializzandi, insieme alle registrazioni hanno fornito il tabulato delle ore lavorate mensilmente: più di 330 ore per una media di circa 12 ore di lavoro al giorno.

La denuncia dei medici specializzandi di Perugia

L’audio che L'Espresso pubblica qui in esclusiva e inviato alle autorità, è solo una sintesi di oltre venti ore di registrazione in cui la docente, secondo quanto documentato dagli specializzandi, sfrutterebbe la propria posizione di forza, essendo a capo dell'intero dipartimento, per infierire sui medici in formazione nel dipartimento di Neurologia dell'Ospedale di Perugia. I futuri neurologi scrivono: «La situazione è insostenibile. Il personale medico, composto da medici strutturati del reparto e da giovani specializzandi in formazione, così come il personale non medico - infermieri, fisioterapisti, psicologi, personale di segreteria -, sono ormai da diverso tempo in balia della direttrice della clinica neurologica. Questa persona con il suo comportamento apertamente aggressivo e persecutorio, costruisce ogni giorno un clima di terrore e paura, basato su umiliazioni quotidiane, insulti, minacce e vessazioni di ogni tipo, che avvengono in modo pubblico anche davanti ai pazienti e ai loro familiari. Non è infrequente che la professoressa si rivolga ai suoi collaboratori con insulti quali “oca, grassone, tonto, cretino, stupido, superficiale, demente, m** umana, pezzo di m**” o appellativi come “cameriere” volti a demansionare e colpevolizzare l'interlocutore facendolo sentire emarginato e inadeguato. Tali atti di violenza psicologica sono rivolti primariamente, ma non esclusivamente, contro gli specializzandi, e gli episodi sono così frequenti e gravi da aver provocato in più di un'occasione lo sgomento e la paura anche di pazienti ricoverati in corsia».

In effetti nelle venti ore di registrazione ascoltate da L’Espresso sono documentate le sfuriate della docente capaci di ridurre al silenzio i giovani medici.

«In un paese civile è una pratica indegna, lesiva della dignità degli specializzandi e nessuna ragione formativa e deontologica permette che la dignità delle persone venga lesa in tal modo», scrive Minerva alle autorità, ricordando l’art. 57 del codice di deontologia medica secondo cui «il rapporto tra i medici deve ispirarsi ai principi del reciproco rispetto».

L’esposto sollecita all'Ordine dei medici di aprire un procedimento disciplinare. La vicenda di Perugia richiama la storia di Sara Pedri, ginecologa di Trento, scomparsa dopo avere subito mesi di vessazioni dal suo direttore.

«Il nostro intento è segnalare alle Autorità in indirizzo questa incresciosa situazione per una rapida risoluzione della stessa e per evitare che eventi analoghi si ripetano», scrive Minerva alle autorità.

Nella loro lettera, gli specializzandi raccontano che, sentendosi impotenti e isolati, alcuni hanno preferito rinunciare alla borsa di studio pur di sottrarsi a un clima impossibile: «Degli otto specializzandi inizialmente assegnati nel 2020 alla scuola di Neurologia di Perugia, ne sono rimasti solamente quattro», scrivono.

Per due volte consecutive la docente aggredisce gli specializzandi dicendo: «Ci sarebbe stato da sparargli». E poi ancora: «Sono uscita per non menargli». Affermazioni incassate dai medici in formazione, terrorizzati al punto di non replicare.

«L'effetto sulla gestione del reparto è pesante», spiegano i giovani specializzandi nella loro lettera: «L'intera qualità assistenziale ne risente, perché il clima di terrore in cui lavoriamo ostacola e rallenta l'attività di reparto. I pazienti stessi sono sistematicamente affidati agli specializzandi in formazione, sulle cui spalle viene fatta pesare una responsabilità e punibilità diretta per ogni decisione medica e non medica. Si viene quindi a creare un rapporto morboso tra il direttore e i suoi specializzandi, presi come unici diretti interlocutori, per cui viene considerato legittimo anche telefonare a casa dello specializzando fuori dall'orario lavorativo unicamente allo scopo di insultarlo e accusarlo, maltrattare lo specializzando che non si presenta prima di fare la notte o che non si trattiene dopo la notte per diverse ore (e le timbrature sono la prova di quanto diciamo), pretendere che non torni a casa fino a tarda sera facendo vivere il giovane specializzando sotto uno schiacciante livello di pressione fisica e psicologica».

L'azienda ospedaliera, contattata da L'Espresso per chiedere conto di quanto succede nel reparto di Neurologia risponde: «Siamo venuti a conoscenza di quanto accade in queste ore tramite la segnalazione formale che abbiamo ricevuto. La direzione provvederà ad avviare opportune indagini interne».

Da tgcom24.mediaset.it il 25 ottobre 2022.

Severino Antinori, il noto ginecologo e discusso "pioniere" della fecondazione assistita, è stato assolto dalle accuse di violenze sessuali su due pazienti perché "il fatto non sussiste". Il Tribunale di Milano lo ha anche prosciolto da altre imputazioni. Antinori, condannato in via definitiva nel 2020 a 6 anni e 6 mesi per il noto caso della "rapina di ovuli", era già stato assolto in altri procedimenti, tra cui uno sempre per abusi sessuali. 

"Il calvario che ha subito il professore Antinori è stato il frutto di una ingiustizia che l'ha travolto per un mero pregiudizio", ha commentato l'avvocato Gabriele Maria Vitiello.

Il medico, assistito dai legali Gabriele Maria Vitiello e Tommaso Pietrocarlo, è stato assolto con formula piena dalle due accuse di violenze sessuali, contestate per presunti abusi nel dicembre 2015, dalla nona sezione penale (presidente del collegio Mariolina Panasiti).

Per le altre imputazioni, che riguardavano sempre casi con al centro clienti della sua clinica e donatrici di ovuli, è stato dichiarato il "non doversi procedere" per difetto di querela, dopo la riqualificazione dei reati di furto aggravato e violenza privata in "esercizio arbitrario delle proprie ragioni" e di un'accusa di estorsione in "tentativo di truffa".

Nel novembre 2020 il ginecologo era stato condannato in via definitiva per aver prelevato, nella primavera del 2016, gli ovociti a una ragazza di 23 anni che aveva denunciato di essere stata immobilizzata, sedata e poi costretta a subire l'intervento. E il Tribunale di Sorveglianza di Milano, poco dopo, accogliendo la richiesta dei difensori, ha stabilito che il 77enne poteva scontare la pena in detenzione domiciliare e non in carcere per motivi di salute. 

Nei mesi scorsi il Tribunale milanese aveva già assolto il professore dall'accusa di abusi sessuali nei confronti di un'infermiera. Il medico, spiega la difesa, è stato anche prosciolto e assolto in altri procedimenti da accuse di associazione per delinquere finalizzata al commercio di ovociti, di violenza privata ed esercizio abusivo della professione.

(ANSA il 25 ottobre 2022) - Il Tribunale di Bari ha condannato a nove anni di reclusione l'oncologo barese Giuseppe Rizzi, 66enne, ex dirigente medico dell'Istituto Tumori Giovanni Paolo II di Bari, accusato di concussione per aver raggirato 16 pazienti terminali.

Il professionista, che fu subito licenziato per motivi disciplinari dall'Oncologico - secondo l'accusa - si è fatto pagare fino 7mila euro per ogni iniezione di un farmaco che diceva "miracoloso", dando così ai malati false speranze di guarigione e costringendoli a pagare centinaia di migliaia di euro (oltre 2,5 milioni in totale in dieci anni) per prestazioni sanitarie alle quali i pazienti avevano diritto gratuitamente.

Rizzi, che è agli arresti domiciliari dal maggio 2021, avrebbe agito con la complicità della compagna co-imputata, l'avvocatessa Maria Antonietta Sancipriani, che gestiva un Caf a Bari adibito all'occorrenza abusivamente ad ambulatorio medico. La donna, giudicata assieme al marito con rito abbreviato, è stata condannata a 5 anni e sei mesi. Il pm Marcello Quercia aveva chiesto 10 anni per il medico e quattro per la moglie.

Entrambi sono stati interdetti in perpetuo dai pubblici uffici; per Rizzi è stata disposta l'estinzione del rapporto di lavoro con l'amministrazione di provenienza. Marito e moglie sono stati inoltre condannati a pagare, in solido, la provvisionale a titolo di risarcimento alle 13 parti civili per complessivi 329mila euro.

Di questi, 30mila euro all'Oncologico, 10mila all'Ordine dei medici e la restante parte ad 11 pazienti. Ulteriore riparazione del danno potrà essere chiesta dalle parti in sede civile. L'inchiesta partì dalla denuncia dei famigliari di un paziente che avrebbe consegnato al medico 127mila euro in un anno fino ad essere costretto, quando ormai era in fin di vita e senza più soldi, a ripagare le prestazioni sanitarie lavorando come operaio edile nella villa al mare che Rizzi stava ristrutturando.

Al medico è contestato anche di aver truffato l'ospedale perchè percepiva una indennità aggiuntiva sullo stipendio di oltre mille euro mensili per non svolgere attività privata, e invece con quei pazienti terminali faceva visite private a pagamento.

Bari, soldi in cambio di farmaci: l'oncologo Rizzi condannato a 9 anni. L'accusa è di aver raggirato diversi pazienti terminali facendosi pagare prestazioni sanitarie e farmaci spacciati per “miracolosi” ai quali i pazienti avrebbero invece avuto diritto gratuitamente. Sancipriani era accusata di complicità nella truffa. Isabella Maselli il 25 Ottobre 2022 su La Gazzetta del Mezzogiorno.

Il gup del Tribunale di Bari Francesco Vittorio Rinaldi ha condannato l'oncologo barese Giuseppe Rizzi alla pena di 9 anni di reclusione e la compagna avvocato Maria Antonietta Sancipriani a 5 anni e 6 mesi di reclusione. Il medico è stato ritenuto responsabile di concussione ai danni di un pazienze, truffa ai danni di altri dieci, abuso di ufficio e truffa aggravata ai danni dell’istituto Giovanni Paolo II di Bari dove lavorava. L'accusa è di aver raggirato diversi pazienti terminali facendosi pagare prestazioni sanitarie e farmaci spacciati per “miracolosi” ai quali i pazienti avrebbero invece avuto diritto gratuitamente. Sancipriani era accusata di complicità nella truffa.

L'inchiesta è cominciata nel 2019, dopo la morte per tumore di un paziente che aveva pagato le prestazioni sanitarie 127 mila euro. La sentenza è stata emessa al termine di un processo celebrato con il rito abbreviato. Rizzi è agli arresti domiciliari dal maggio 2021. Per lui il pm che ha coordinato le indagini, Marcello Quercia, aveva chiesto la condanna a 10 anni di reclusione.

Il gup ha inoltre disposto la confisca di contanti e beni immobili per un valore di circa 3 milioni di euro, oltre al risarcimento danni nei confronti di tutte le parti civili costituite con provvisionali immediatamente esecutivo per l'ospedale oncologico (30mila euro), l'Ordine provinciale dei Medici (10mila euro) e i famigliari di alcune vittime (in totale circa 300mila euro).

Il commento dell'Istituto Tumori Giovanni Paolo II

La sentenza di condanna a 9 anni di reclusione dell’oncologo barese Giuseppe Rizzi, è «una vicenda tristissima, di cui non avremmo voluto più parlare: è giusto tuttavia che si sappia che il Tribunale di Bari ha riconosciuto al nostro Istituto, che si è costituito parte civile, una provvisionale per i danni subiti e che stiamo valutando la possibilità di un’azione giudiziaria ad hoc per il danno d’immagine che le condotte del dottor Rizzi hanno generato, oscurando il lavoro prezioso, indefesso e soprattutto onesto del personale in servizio all’oncologico di Bari». Lo afferma Alessandro Delle Donne, Dg dell’Istituto tumori Giovanni Paolo II di Bari.

«Questa sentenza - continua Delle Donne - rafforza la stima e la fiducia che questo Istituto nutre nei confronti delle forze dell’ordine, dei Carabinieri e della magistratura a cui, senza alcun indugio, avevamo segnalato i comportamenti di Rizzi che avevano già determinato il licenziamento disciplinare senza preavviso mesi prima dell’arresto. Oggi, di questa vicenda, ci resta il dolore e la vicinanza ai pazienti e ai familiari coinvolti nei fatti».

Marino Niola per “Robinson – la Repubblica” il 17 ottobre 2022.

L'abito non fa il monaco ma in compenso lo stetoscopio fa il medico. Tant' è vero che spesso fa scambiare per un dottore qualsiasi imbroglione che lo porta al collo. Perché prima ancora che nell'acutezza dei sensi, destrezza manuale, occhio clinico, udito fine, olfatto infallibile, nel nostro immaginario la medicina si identifica con i suoi ferri, che dei sensi sono il prolungamento, al principio meccanico oggi elettronico. 

A dirlo è Francesco Adami in La borsa del medico, un bel libro appena uscito da Hoepli dove l'autore ripercorre la storia degli strumenti che compongono la valigetta del dottore. E sceglie i 10 più importanti, dal termometro al laccio emostatico, dallo sfigmomanometro, meglio conosciuto come misuratore di pressione, all'ecografo, dalla siringa all'elettrocardiografo. Invenzioni che raccontano la nascita e l'evoluzione delle nostre idee di salute e malattia, diagnosi e terapia. 

Se gli oggetti sono gli ultimi idoli sopravvissuti all'eclissi del sacro, quelli medici sono idoli al quadrato perché spesso fanno miracoli. È quest' aura magica a trasformare gli strumenti clinici in altrettanti simboli. Di conoscenza del corpo, potere sugli altri, volontà di sapere, che colpiscono da sempre la fantasia di adulti e bambini.

Non a caso il play doctor (giocare al dottore) resta uno dei giochi di ruolo più amati dai ragazzini di quell'età in cui si comincia a chiedersi come siamo fatti dentro. E a scoprire il piacere di potersi prendere cura degli altri. O di aver potere su di loro. O provare quel piacere che è all'origine delle prime esperienze erotiche. Ed esattamente come la medicina dei grandi, anche quella dei piccoli fa sempre più posto agli strumenti.

Oggi sono in vendita valigette giocattolo complete di defibrillatore che simula il battito cardiaco. Il libro di Adami arriva fino alle tecnologie cliniche dei nostri giorni, l'ecografia, l'elettrogasanalisi. Ma la parte più affascinante è quella che parte dall'alba del biomedicale e racconta storia e preistoria degli strumenti più comuni. Il posto d'onore spetta, naturalmente, allo stetoscopio, emblema globale della dottorità, nato nel Settecento dall'esigenza dei dottori di auscultare il torace delle pazienti senza metterle in imbarazzo né violare le cortine dell'intimità.

Fino alla fine dell'Ottocento, infatti, a professare la medicina sono quasi esclusivamente uomini. La prima dottora, è l'americana Elizabeth Blackwell, laureata nel 1845. Mentre in Italia si deve aspettare il 1877, quando scende in corsia Ernestina Paper. A trovare la soluzione, è il clinico francese René Laennec che nel 1816, costruisce un cilindro cavo, il cosiddetto "bastone di Laennec", lungo 25 cm che, accostato all'orecchio del medico permette di ascoltare nitidamente i suoni polmonari e cardiaci. Grazie a Laennec " la medicina diventa per la prima volta medicina interna: lo stetoscopio permette infatti di «vedere» o, meglio ascoltare, quel che avviene dentro quella macchina meravigliosa e complessa che è il corpo umano".

Col tempo lo strumento perde l'ingombrante rigidità degli inizi. E il legno viene sostituito da tubicini di gomma che lo rendono sempre più tascabile. Altrettanto rivoluzionario è il cammino dello sfigmomanometro. La forza di spinta del nostro sangue, comunemente detta pressione, è sempre stata una grande questione sin dai tempi della medicina antica. Che la conosce ma non è in grado di calcolarne intensità e pericolosità.

È solo all'inizio del Settecento che le cose cambiano grazie al reverendo inglese Stephan Hales, grande conoscitore di fisiologia animale. Che compie i suoi primi esperimenti su una cavalla, inserendo nella carotide del povero animale un tubicino di ottone collegato a un tubo di cristallo graduato. 

L'altezza raggiunta dal sangue nel vetro consente di calcolare la pressione. Da allora è tutto un susseguirsi di innovazioni, per fortuna sempre meno cruente. Grazie al dottor Karl Von Vierordt che nel 1854 inventa uno strumento che insieme alla pressione prende anche la frequenza cardiaca senza operare tagli sulla pelle. E soprattutto all'italiano Scipione Rova- Ricci che nel 1896 dà allo sfigmomanometro la sua forma attuale.

Altrettanto avvincente la storia del termometro, grazie al quale la temperatura corporea non ha più segreti. A inventarlo nel 1625 è Santorio Santorio fisiologo dell'università di Padova, lo stesso che crea la bilancia pesapersone.

Si chiama termoscopio e occupa mezza stanza con ampolle, tubi, alambicchi e compassi. Eppure, senza tutto quell'armamentario la medicina non sarebbe passata dal mondo del pressappoco all'universo della precisione, dal materiale all'immateriale. E oggi non avremmo i nostri termoscanner. Che ci provano la febbre a distanza. E qualche volta a nostra insaputa.

Da corriere.it il 2 ottobre 2022.

Chiamata dall’ospedale per un intervento chirurgico dopo 11 anni di attesa. Una donna residente a Como ha ricevuto una telefonata dal personale del Sant’Anna per fissare la data di un’operazione che le era stata prescritta oltre dieci anni fa. E alla quale, nel frattempo, si era già sottoposta altrove. Il caso paradossale è stato reso noto dal quotidiano La Provincia di Como. La paziente per motivi di riservatezza non ha precisato il tipo d’intervento. Un’operazione minore, di routine e non urgente. Non certo però al punto tale da giustificare un’attesa di 11 anni.

L’inserimento nella lista d’attesa risale al 2011. Nei giorni scorsi, la donna è stata contattata dagli operatori dell’Asst Lariana. Una telefonata decisamente inattesa, per un problema di salute ormai quasi dimenticato. Il personale dell’ospedale le ha chiesto invece se fosse ancora interessata a sottoporsi all’intervento o se, diversamente, volesse essere cancellata dalla lista d’attesa.

L’Asst Lariana ha spiegato al quotidiano di non poter dare risposte precise senza conoscere i dati della paziente. Ha comunque reso noto che, dal momento in cui i ricoveri Covid sono diminuiti e dopo la pausa estiva, l’ospedale ha lavorato per ridurre il più possibile le liste d’attesa. Un impegno che si scontra anche con la carenza di personale e, ora, con la risalita dei contagi. La paziente potrebbe essere stata chiamata proprio nell’ambito della programmazione delle attività per ridurre le liste d’attesa.

Morti in corsia, la Cassazione conferma l’ergastolo a Leonardo Cazzaniga. La Stampa il 30 settembre 2022.

È stata confermata dalla Cassazione la condanna all'ergastolo per Leonardo Cazzaniga, l'ex vice primario del pronto soccorso dell'ospedale di Saronno, in provincia di Varese, accusato di aver somministrato farmaci letali a diversi pazienti tra il 2011 e il 2014. Ci sarà l'appello ter solo in relazione ad un'accusa di omicidio, mentre tutte le altre sono state confermate. Respinto il ricorso del Pg della Corte d'Appello. Due anni fa, il “dottor morte” fu condannato all’ergastolo più tre anni di isolamento diurno per dodici dei quindici omicidi volontari che gli erano contestati nell'ambito dell'inchiesta «Angeli e Demoni». Dieci vittime sono pazienti accolti al pronto soccorso in cui lavorava tra il 2011 e il 2014, a cui avrebbe applicato quello che nei corridoi era conosciuto come il «protocollo Cazzaniga». Per la Procura, un sovradosaggio, in rapida successione, di morfina e farmaci anestetici e sedativi a pazienti anziani e affetti da più patologie, al di fuori delle linee guida disposte dalla comunità scientifica. Per la difesa, un mix di medicinali che aveva il solo scopo di lenire le sofferenze di malati ormai in condizioni irreversibili. 

Sanità pubblica: i numeri del collasso nel rapporto della federazione dei medici. Marina Lombardi su L'Indipendente il 29 settembre 2022.

Sono passati due anni da quando il ministro della Salute Roberto Speranza annunciava trionfale investimenti miliardari che avrebbero portato il budget della sanità pubblica a 120 miliardi di euro. Oggi di quelle promesse rimane il lontano ricordo, mentre la realtà sullo stato del Servizio Sanitario Nazionale è resa nei suoi crudi numeri da un rapporto diffuso da CIMO-FESMED, la federazione cui aderiscono 14mila sanitari: dal 2010 al 2020 in Italia sono stati chiusi 111 ospedali e 113 pronto soccorso, con un totale di 37.000 posti letto persi. Nelle strutture ospedaliere mancano all’appello oltre 29 mila professionisti, di cui 4.311 medici. Numeri che, a cascata, hanno comportato una “riduzione drastica dell’attività sanitaria”.

Dal Dossier Sanità: Allarme Rosso, redatto dalla Federazione CIMO-FESMED risultano dati interessanti per quella che oggi tutti chiamiamo crisi sanitaria. Posti letto che non sono abbastanza, carenza di personale sanitario e taglio netto dei servizi sono tutti quanti elementi importanti per quel che riguarda la forza della sanità pubblica. Sanità invidiata da molti paesi proprio per il suo essere pubblica e universale, ma visti i dati, fino a quando riuscirà ad essere sostenibile la situazione?

L’analisi si basa sui conti economici della Regione dello stato, sul conto annuale del Ministero di economia e finanza, sui rapporti annui del Ministero della Salute, e sugli studi Istat. Dai dati rilevati, negli ultimi dieci anni risulta una drastica diminuzione dei posti letto e delle strutture ospedaliere. In particolare in questo decennio hanno chiuso i battenti 11 aziende ospedaliere, 100 ospedali a gestione diretta, 113 pronto soccorso di cui 10 pediatrici e disattivate 85 unità mobili di rianimazione. Risulta dai dati che le strutture ospedaliere pubbliche abbiano perso -38,684 posti letto, mentre quelle private ne hanno guadagnato +1,747. La chiusura delle strutture ospedaliere ha un grave impatto anche sul personale che conta una perdita di 29.284 professionisti, di cui 4.311 medici. Questi dati non considerano le assunzioni avvenute nel 2020 con la pandemia da Covid19, durante la quale abbiamo avuto una grande dimostrazione di quanto i tagli e le chiusure abbiamo rappresentato un grave problema.

Contando quindi la drastica diminuzione delle strutture ospedaliere e il taglio dei posti letto l‘offerta sanitaria ha perso un notevole valore. Infatti, negli ultimi dieci anni sono stati tagliati 700 medici di guardia medica, il che ha portato ad una diminuzione degli interventi, ossia -1.498 in meno ogni 100.000 abitanti. Questo dato ha rappresentato anche un aumento della complessità clinica dei pazienti, che ha portato ad un aumento dei ricoveri, 55 in più ogni 100.000 abitanti. Drastica la situazione anche nei pronto soccorso, dove nel 2010 erano oltre 22,4 milioni i pazienti curati, che nel 2019 diventano 2 milioni di accessi in meno. Scendono ancora nel 2020 a 8.8 milioni in meno, anno in cui complice il Covid, molti pazienti sono stati spinti ad evitare di accede in pronto soccorso. Così facendo molte visite mediche o diagnosi importanti sono state evitate o ritardate, sottovalutando la gravità clinica della malattia. Tra il 2010 e il 2020 il tasso di mortalità è aumentato del +85%. A risultare scandente è anche l’assistenza territoriale, la cui offerta sanitaria si è ridotta dal 2010 di 282,8 milioni di prestazioni. L’attività clinica in laboratorio risulta inoltre diminuita del 32%, ossia -63,9 milioni.

In conclusione dall’analisi svolta da CIMO-FESMED risulta chiaramente che nell’ultimo decennio il finanziamento del Servizio Sanitario Nazionale sia cresciuto del 16,4% (+18.548 miliardi). Allo stesso tempo però la spesa sanitaria è aumentata di 15.744 miliardi provocando un saldo positivo di 2,8 miliardi. Questo saldo è per il 20% però favorito dalla riduzione del costo dei medici. Questi numeri sono tuttavia legati al costo dei beni sanitari, e non dei servizi. Questo, insieme al mancato esercizio delle aziende di molti servizi, rendono quindi più che evidente lo scarso impegno economico su mezzi e risorse umane. Infine, i dati dell’attività sanitaria dimostrano una crisi della sanità che sta ormai rompendo ogni limite e che appare ormai al collasso. [di Marina Lombardi] 

(ANSA il 18 novembre 2022)  - Entro il 2050 i batteri super-resistenti agli antibiotici potrebbero divenire la prima causa di morte nel mondo, prima di infarto e ictus. È l'allarme lanciato da Andrea Mandelli, presidente della Federazione degli Ordini dei Farmacisti Italiani (Fofi), in occasione della Giornata europea e della Settimana mondiale di sensibilizzazione sugli antibiotici "È lo scenario che ci attende se non si mettono in pratica comportamenti individuali responsabili e in assenza di politiche e interventi mirati", insiste l'esperto. 

L'antibiotico-resistenza preoccupa in particolar modo l'Italia che continua ad essere 'maglia nera' in Europa, con 15mila morti l'anno per infezioni ospedaliere da batteri resistenti, quasi la metà del totale dei decessi, secondo l'Ecdc. Per arginare questa 'pandemia silenziosa' è quanto mai urgente intensificare gli sforzi delle istituzioni sanitarie e dei professionisti della salute su diversi fronti: promuovere un uso razionale degli antibiotici, dentro e fuori dagli ospedali, supportare la ricerca di nuove molecole e aumentare la consapevolezza della popolazione sul pericolo legato alla comparsa di batteri resistenti.

"La disinformazione - sottolinea Mandelli - è tra le principali cause di utilizzo inappropriato di antibiotici che si registra, ad esempio, per curare l'influenza o il raffreddore durante il periodo invernale". "Gli antibiotici sono una delle conquiste fondamentali della ricerca medica che rischiamo di compromettere a causa di un uso eccessivo, e in molti casi improprio, di questi farmaci. Utilizzarli correttamente è una responsabilità di tutti per evitare di ritrovarci in futuro senza strumenti efficaci per combattere le infezioni, ai danni soprattutto di chi è più fragile", conclude il presidente Fofi.

(ANSA) - Tra il 2016 e il 2020 Grecia, Italia e Romania sono stati i Paesi europei con più decessi attribuibili a batteri resistenti agli antibiotici. Sono i dati del Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (Ecdc). 

Nei quattro anni considerati, in Grecia i morti da infezioni resistenti sono stati 20 ogni 100mila abitanti, 19 in Italia, 13 in Romania. In generale, indica l'Ecdc, la resistenza agli antibiotici fa 35mila morti ogni anno in Europa (Ue e spazio economico europeo) e i numeri sono in aumento.

Anche il carico complessivo di infezioni da batteri resistenti agli antibiotici è stato stimato essere il più alto in Grecia, Italia e Romania. Inoltre, secondo un altro indicatore che misura la gravità delle malattie - il Daily, cioè l'attesa di vita corretta per disabilità' - gli anni persi a causa dei batteri antibiotico-resistenti sono stimati essere di più in Grecia, Italia e Romania.

Il maggior numero di malattie è stato causato da Escherichia coli resistente alle cefalosporine di terza generazione, seguito da Staphylococcus aureus resistente alla meticillina e Klebsiella pneumoniae resistente alle cefalosporine di terza generazione. La tendenza all'aumento di patologie legate a batteri resistenti è stata generale nel 2016-20, con un rallentamento dal 2019 al 2020. 

Nei 30 Paesi dello Spazio economico europeo (i 27 Ue più Norvegia, Islanda e Liechtenstein) si sono registrate tendenze in aumento significativo sia nel numero stimato di infezioni e sia nei decessi attribuibili alla resistenza agli antibiotici.

In particolare, è stata osservata una significativa tendenza all'aumento del numero stimato di infezioni in 18 paesi (Cipro, Cechia, Danimarca, Finlandia , Germania, Grecia, Ungheria, Islanda, Italia, Lettonia, Lituania, Paesi Bassi, Norvegia, Polonia, Spagna, Romania, Slovacchia e Svezia) e una significativa tendenza al ribasso in dieci Paesi (Austria, Belgio, Bulgaria, Croazia, Francia, Irlanda, Lussemburgo, Malta, Portogallo e Slovenia).

“Troppi i farmaci prescritti, gravi i rischi”. Al recente Congresso della Società di Medicina Interna è emerso che il 66% degli italiani assume troppi farmaci (oltre 5 continuativamente in un anno) con gravi rischi di interazioni, perciò i medici stanno valutando le "de-prescrizioni". Gioia Locati il 28 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 La polifarmacia

 Gli eventi avversi

 Troppi anche gli esami

Si cambia registro, con le prescrizioni e con l’eccesso di farmaci. Il principio ispiratore diventa “Less is more”, ossia “meno è più”. Il bisogno di sfrondare l’abitudine di ingerire pasticche arriva da una constatazione dei medici e trova conferma negli studi scientifici ed è stato oggetto di approfondimento all’ultimo Congresso nazionale della Società di Medicina interna.

In Italia il 66% degli adulti assume oltre 5 farmaci e 1 anziano su 3 oltre 10 farmaci l’anno. 

Gli esperti riuniti al congresso hanno valutato di ripensare non solo a nuove linee guida ma anche a come de-prescrivere alcune terapie.

La nuova attenzione clinica, che qualcuno ha già paragonato a un movimento di pensiero, si sta diffondendo in tutto il mondo, tra i suoi sostenitori c’è Rita Redberg, direttore della rivista scientifica JAMA Internal Medicine.

“I progressi della medicina non si registrano solo in base al numero di pillole prescritte. A volte, per il bene del paziente, è necessario fare marcia indietro, sfoltendo la loro ‘polifarmacia’, che significa prendere più di 5-6 medicine al giorno, condizione comune in almeno i due terzi degli anziani, come emerso da uno studio americano pubblicato su JAMA International Medicine nel 2016” hanno dichiarato i presenti al Congresso.

Sicuramente, l’allungamento della vita porta con sé anche la comparsa di patologie croniche, che spesso si associano in uno stesso paziente. “Per questo è indispensabile una ‘regia’ centrale, come quella offerta dal medico internista che metta al riparo i pazienti dai rischi di una ‘polifarmacia’ troppo affollata, dovuta alla ‘collezione’ di tante prescrizioni di farmaci diverse, una per ogni specialista consultato, spesso in conflitto tra loro, tanto da provocare interazioni ed effetti indesiderati, che possono pregiudicare la sicurezza del paziente" è ermerso al Congresso. Si stima che il 15% degli anziani sia a rischio di interazione farmaco-farmaco.

La polifarmacia

“Alcuni studi, condotti nell’ambito del programma REPOSI (REgistroPOliterapie della Società Italiana di Medicina Interna), un network di reparti di medicina interna e geriatria italiani, hanno messo ben in evidenza il fenomeno della polipharmacy e le sue ricadute" ha esposto il professor Giorgio Sesti, presidente della Società Italiana di Medicina Interna.

Gli eventi avversi

A rischio di effetti indesiderati sono soprattutto le persone con una ridotta funzionalità renale, condizione comune tra gli anziani. Uno studio su oltre 5 mila pazienti over 65 del registro REPOSI, ha evidenziato che almeno la metà mostrava una compromissione moderata della funzionalità renale. Tra i pazienti con ipertensione, diabete, fibrillazione atriale, coronaropatia e scompenso, all’11% veniva prescritto un dosaggio di farmaci inappropriato rispetto alla funzionalità renale. E, nel follow up, una inappropriatezza prescrittiva si associava ad un aumentato rischio di mortalità per tutte le cause del 50%.

"Il 66% dei pazienti adulti assume 5 o più farmaci e un anziano su tre assume oltre 10 farmaci in un anno (dati OsMed) – ricorda il professor Gerardo Mancuso, vicepresidente nazionale della SIMI – e questa percentuale si è consolidata negli ultimi anni, provocando un aumento delle cause di ricovero per eventi avversi per interazioni farmacologiche. La prescrizione multipla di farmaci talvolta mitiga o annulla i benefeci ed aumenta le complicanze e la mortalità. Nei pazienti anziani il delirium, le cadute, la ipotensione, l’emorragia ed altre condizioni, riconoscono come causa la politerapia. De-prescrivere le molecole farmacologiche è una attività che l’internista deve fare in tutti i pazienti, ma soprattutto negli anziani".

Troppi anche gli esami

“Il less is more – prosegue Sesti – non vale solo per le medicine, ma anche per i troppi esami, alcuni dei quali (le TAC), ad esempio, comportano rischi per la salute legati a un eccesso di radiazioni. Un articolo del National Cancer Institute pubblicato su JAMA Internal Medicine ha stimato che considerando il numero di TAC effettuato nel 2007 sarebbe lecito attendersi un eccesso di 60 mila casi di cancro e ben 30 mila morti in eccesso. Ora di certo, molti di questi esami potrebbero aver contribuito a salvare delle vite, facendo scoprire ad esempio un tumore in fase precoce. Ma la stragrande maggioranza poteva forse essere evitata. Quindi, anche in questo caso la parola d’ordine è ‘appropriatezza’, soprattutto quando un esame a ‘rischio’ viene prescritto a un paziente giovane”.

Da ansa.it il 20 dicembre 2022.

E' di 93 siti web oscurati, 21 arresti, 123 denunce e medicinali sequestrati per un valore di 3 milioni di euro il bilancio in Italia dell'attività dei carabinieri del Nas a conclusione di "Shield III", acronimo di Safe Health Implementation, Enforcement and Legal Development, operazione internazionale contro il "pharma crime": il traffico illegale e contraffazione di medicine, doping compreso.

Tra aprile e novembre 2022 sono state sequestrate 9.000 confezioni e circa 362.000 unità (compresse, fiale, iniettabili, polveri), con varia indicazione terapeutica: anabolizzanti, antibiotici, antinfiammatori, disfunzione erettile e Covid.

I medicinali generici non piacciono agli italiani: per comprare quelli 'di marca' spendiamo un miliardo in più. Michele Bocci su La Repubblica il 22 Agosto 2022.

Molti medicinali sono prodotti sulla base di brevetti scaduti, per cui è possibile 'copiare' la stessa molecola: sono i prodotti generici, uguali in tutto e per tutto a quelli 'originali'. Ma gli italiani non vogliono saperne

Chi entra in farmacia con la ricetta del medico ha una possibilità altissima di tornarsene a casa con un medicinale vecchio o vecchiotto. L’84% dei prodotti della cosiddetta classe A, rimborsati dallo Stato, hanno infatti il brevetto scaduto, cioè hanno sulle spalle almeno 10 o 15 anni di età. Talvolta anche molti di più. Ci curiamo o affrontiamo fattori di rischio come ipertensione e colesterolo alto, quindi, con molecole piuttosto antiche e ne abbiamo a disposizione tantissime, pure troppe secondo alcuni esperti.

Chiara Daina per corriere.it il 31 luglio 2022.

Cresce la spesa nazionale per i farmaci, sia a carico dello Stato sia a carico dei cittadini. Nel 2021 il conto complessivo ha toccato quota 32,2 miliardi di euro, in aumento non solo rispetto al 2020 (più 3,5 per cento) ma anche all’anno prepandemico (più 4,3). In particolare, quella pubblica (comprensiva sia degli acquisti diretti da parte di Asl e ospedali sia di quella convenzionata con il Ssn per i farmaci di fascia A erogati dalle farmacie territoriali) nell’ultimo anno è passata da 21,7 miliardi a 22,2.

Mentre quella privata ha registrato un incremento di ben oltre sei punti percentuali: da 7,1 a 9,2 miliardi, di cui circa 6,1 per i farmaci di fascia c (oltre la metà con obbligo di ricetta medica). Le categorie di medicinali più acquistati di tasca propria dai cittadini sono gli ansiolitici (a base di benzodiazepine), i contraccettivi e le molecole utilizzate per il trattamento della disfunzione erettile. Tra i farmaci per l’automedicazione, invece, la maggior spesa è stata per quelli che contengono i seguenti principi attivi: diclofenac e ibuprofene, che sono due antinfiammatori, e paracetamolo, che è un antidolorifico. Tutti prodotti indicati per la terapia contro il Covid.

Resistenza ai generici

A documentarlo è l’ultimo Rapporto nazionale sull’uso dei farmaci in Italia, relativo al 2021, a cura dell’Agenzia italiana del farmaco (Aifa). La spesa privata in costante salita da dieci anni desta una certa preoccupazione tra gli esperti. «Va considerata a tutti gli effetti come una spesa sanitaria talvolta impropria e da tenere maggiormente sotto la lente di ingrandimento delle azioni di appropriatezza prescrittiva e buon uso dei farmaci» dichiara Nicola Magrini, il direttore generale di Aifa, nella presentazione del rapporto. Non viene trascurata neanche la perdurante resistenza all’uso dei cosiddetti farmaci generici (che hanno la stessa composizione quantitativa e qualitativa in termini di principio attivo e la stessa efficacia del medicinale di marca a cui è scaduto il brevetto).

«L’Italia è al terzultimo posto in Europa nella spesa di questi farmaci, con un incidenza sul totale di appena il 21 per cento. Servono campagne di comunicazione pubblica rivolte sia agli operatori sia ai cittadini per incentivare l’utilizzo di queste molecole, parimenti efficaci e sicuri ma con un minor impatto economico» sottolinea Francesco Trotta, coordinatore scientifico del rapporto. Siamo, invece, al primo e secondo posto per spesa e consumo dei farmaci biosimilari, considerati intercambiabili con i corrispondenti farmaci biologici originali. «Vengono acquistati direttamente dalle Regioni e prescritti dal medico in ospedale» osserva Trotta.

Differenze territoriali

Con l’avanzare dell’età, l’andamento della spesa e dei consumi si alza. Gli over 65 assorbono oltre il 70 per cento delle risorse e delle dosi. La spesa pubblica media per ogni anziano trattato è di 558 euro (nello specifico: 599 per gli uomini e 525 per le donne). Quello medio riferito in generale a tutti gli utilizzatori di farmaci nella società è di 319 euro. Nel 2021 poco più di sei assistiti su dieci hanno ricevuto almeno una prescrizione.

A livello regionale il quadro resta disomogeneo. Al Nord la prevalenza d’uso è inferiore (59,3 per cento), rispetto al Centro (64,7) e al Sud (66,7). La Campania è la regione con la spesa lorda pro capite più elevata (199,9 euro) e i consumi maggiori (1.334 dosi giornaliere ogni mille abitanti). Agli antipodi si colloca la Provincia autonoma di Bolzano: 113,4 euro e 821,4 dosi per mille abitanti. Le differenze si riscontrano anche nel genere. Per il sesso femminile si registrano valori più alti sia in termini di spesa pro capite (204 contro 197 euro), sia di dosi giornaliere (1.257 ogni mille abitanti contro 1.107). Specialmente nella fascia di età tra 20 e 64 anni il ricorso ai farmaci è superiore a quello degli uomini. 

Farmaci per cuore e tumori

Tra i farmaci convenzionati con il Ssn e ritirati in farmacia dal cittadino, quelli dell’apparato cardiovascolare sono la classe terapeutica più dispensata nel 2021. «Nonostante la nota 96 emessa dall’Aifa per ridurne i consumi, si riscontra un incremento dell’1,6 per cento della spesa per la vitamina D rispetto al 2020, dovuto alla prescrizione inappropriata come protettivo anti Covid» commenta Trotta. Mentre i farmaci oncologici e immunomodulatori e i farmaci del sangue e organi emopoietici sono i prodotti farmaceutici maggiormente acquistati ed erogati dalle strutture sanitarie pubbliche. «Le nuove entità terapeutiche, cioè tutti i prodotti autorizzati centralmente dall’Agenzia europea per i medicinali negli ultimi dieci anni con esclusività di mercato, per esempio i nuovi farmaci anticancro, per la fibrosi cistica, per l’epatite C, le terapie Car-T, assorbono ben il 60 per cento della spesa di Asl e ospedali» conclude Trotta. 

Estratto dall'articolo di Carlo Picozza per “la Repubblica - Edizione Roma” l'11 agosto 2022.

Lo spettro del secondo fallimento si aggira sull'Umberto I, complice un deficit doppio di quello degli anni passati: "196,305 milioni", mentre la Regione prevede per il policlinico tra i più grandi d'Europa, un saldo negativo tra entrate e uscite di "157,557 milioni". Uno scostamento sui 40 milioni. 

Certo, sui conti è pesata l'emergenza Covid: tra il 2020 e il 2022, l'Umberto I è stato il solo ospedale pubblico (al netto dello Spallanzani, la cui missione è la cura delle malattie infettive) a impegnare risorse per i colpiti dal coronavirus, con oltre 300 letti ordinari e 80 di Terapia intensiva. Se la Regione, che ha previsto 465 milioni per i costi Covid del 2022, non ripianerà il rosso profondo, per l'ospedale è in vista il default. […]

Sta di fatto che il deficit, negli scorsi esercizi finanziari, si aggirava sui 100 milioni all'anno: nel 2020 (non si hanno dati sul 2021) è stato di 92,648 milioni. Quest'anno si raddoppia. Il direttore D'Alba, nella sua "proposta di concordamento" per il 2022, ha chiesto di approvare un disavanzo di 196,305 milioni, appunto. Non proprio una sorpresa per la Regione informata sull'ipotesi per il 2022 ( nel bilancio preventivo adottato il 31 dicembre 2021) di un deficit di "193,563 milioni": una differenza sui tre milioni.

«La proposta di bilancio che prevedeva un disavanzo sui 196 milioni», spiega D'Alba, «è stata formalizzata il primo aprile 2022 quando non c'era contezza del valore teorico dei ricavi per i quali, infatti, oggi si evidenzia la differenza dei 40 milioni, figlia della diversificazione dell'attivo di bilancio». Insomma, nonostante i maggiori costi di gestione, soprattutto quelli energetici, l'azienda Policlinico ritiene che «a fine esercizio saranno rispettati i vincoli di bilancio fissati dalla Regione, grazie anche all'aumento dell'attività assistenziale». […]

"Sei troppo giovane per la mammografia". Ora ha un tumore al quarto stadio. Nel 2018 i medici le avevano detto che era troppo giovane per sottoporsi a una mammografia, nonostante avesse un nodulo al seno. Adesso ha un tumore al quarto stadio. Valentina Dardari il 29 Ottobre 2022 su Il Giornale. 

Nel 2018 i medici a cui si era rivolta le avevano detto che era troppo giovane per sottoporsi a una mammografia, nonostante avesse un nodulo al seno. Adesso ha un tumore al quarto stadio. Questa è la tragica avventura capitata a Philecia La'Bounty, modella e ora seguitissima sul suo profilo Tik Tok, seguito da oltre 40mila followers. Come raccontato da il Messaggero, la donna, dopo aver sentito un grumolo al seno, aveva deciso di farsi visitare, ma i medici a cui si era rivolta le avevano assicurato che non vi era nulla di cui preoccuparsi visto che, a loro parere, si poteva trattare solo di un nodulo benigno.

La sua battaglia su Tik Tok

I sanitari si erano anche rifiutati di sottoporla a una mammografia perché considerata inutile data la sua giovane età. Dopo 8 mesi e diverse visite mediche, la ragazza ha scoperto di avere un tumore al seno ormai al quarto stadio. Il cancro si era infatti diffuso in altre zone del corpo, e in particolare ai polmoni, ai linfonodi e allo sterno. Subito ha confessato di aver pensato“alla morte, come fa la maggior parte delle persone quando sente la parola cancro”, sentendosi delusa e abbandonata dai medici. Dopo aver avuto la terribile diagnosi, la donna ha dovuto sottoporsi a una menopausa farmacologica, a causa dalla chemioterapia utilizzata per trattare il tumore.

Sui social la 35enne ha confessato di sentirsi ogni mattina come una vecchietta, con le articolazioni rigide, stanca e sofferente. Dopo aver scoperto che la chemioterapia avrebbe potuto renderla sterile, Philecia ha deciso di congelare dieci ovuli. La vita è cambiata non solo a lei, ma anche al marito, alla sua famiglia, e ai suoi amici più cari. “Cerco di non pensare troppo a come sarebbe potuta andare se i medici se ne fossero accorti prima. Tanto questo non mi farà scomparire la fase”, ha spiegato su Tik Tok, anche perché pensare che avrebbe potuto avere a che fare con un tumore al secondo stadio, e non al quarto, è scoraggiante.

Cosa vuol dire un tumore al quarto stadio

In linea generale, i tumori al primo stadio sono di piccole dimensioni, localizzati e solitamente curabili; allo stadio II e III sono solitamente solo localmente avanzati e/o hanno coinvolto linfonodi vicini; al quarto stadio si considerano invece i tumori inoperabili o metastatici, ovvero che hanno coinvolto altre zone del corpo, anche lontane. Secondo gli studi, in questo ultimo caso i pazienti hanno solo il 22% di possibilità di sopravvivere oltre i 5 anni dalla diagnosi. La modella ha scelto di utilizzare il social per raggiungere quante più persone, spiegando loro i rischi che si corrono senza una prevenzione adeguata, i sintomi e anche per dare informazioni riguardo la menopausa precoce. Proprio riguardo quest’ultimo aspetto, la ragazza ha spiegato: “È più comune nelle giovani donne di quanto la gente si aspetti. C'è un'epidemia di giovani donne che scoprono di avere un cancro al seno e di conseguenza sono state messe in menopausa precoce, e nessuno ne parla”. La 35enne ha detto di sentirsi orgogliosa e realizzata quando riceve dei messaggi da persone che grazie a lei non si sentono sole.

L'importanza della prevenzione

Per controllare il seno non c’è solo la mammografia. Si può iniziare da sole, facendo attenzione a eventuali cambiamenti delle sue dimensioni o della forma e con l'autopalpazione. La forma del seno infatti cambia nel corso del tempo, sia in periodo mestruale che con l’invecchiamento o la gravidanza. Nel caso in cui ci siano dei dubbi sul suo cambiamento, ci si può rivolgere a un esperto. È importante controllare anche eventuali arrossamenti o secrezioni. Se fuoriesce del liquido dal capezzolo, senza che venga pressato, è meglio recarsi dal medico per un controllo.

Gonfiori, ecco a quali fare attenzione

Si deve fare particolare attenzione alla presenza di gonfiori o grumi, non necessariamente al seno, ma anche nella zona sotto le ascelle e fino alla clavicola. Anche i grani della pelle devono essere controllati: se l’area del seno ha la forma di una buccia d’arancia è meglio fare una visita medica. Anche se il capezzolo da un momento all’altro è tirato verso l'interno o cambia forma o posizione, conviene prenotare una visita. Infine, un altro segnale può essere un dolore costante al seno o all’ascella. Anche se sentire male nella zona del seno è abbastanza normale. Per esempio potrebbe essere più indolenzito nei giorni precedenti al ciclo. Se abbiamo dei dubbi comunque meglio farci vedere, tanto per essere più tranquille.

Brindisi, l'odissea di una 37enne con un tumore al seno. La lettera e la storia della malattia per dare speranza ad altre donne. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 30 Ottobre 2022.

Riceviamo e pubblichiamo la seguente lettera alla «Gazzetta» inviataci da una mamma 37enne.

Voglio raccontare la mia storia perché quello che è accaduto a me, possa dare voce e speranza a tante altre donne che soffrono in silenzio e combattono ogni giorno la malattia. Sono madre di due splendidi bambini. Ho scoperto di avere un tumore al seno triplo negativo subito dopo la nascita della mia seconda figlia all’età di 34 anni. Dopo aver fatto tutti gli approfondimenti ed esami necessari decisi di iniziare il mio percorso di cura presso l'ospedale «Perrino» di Brindisi dov’è presente la Breast Unit per la cura del tumore al seno e dove in teoria ogni donna dovrebbe essere seguita con più attenzione, cosa che è invece purtroppo non è accaduta. Perché tutto è rimasto sulla carta.

Oggi, dopo aver subito un’operazione di mastectomia omolaterale, mi sento una donna ancora ferita ma viva, perché sono convinta che proprio nel posto in cui avrebbero dovuto curarmi e sentirmi al sicuro mi stavano invece lasciando morire, ma grazie a Dio ad altri io devo la mia vita. Prima di cominciare il mio percorso terapeutico mi spiegarono che, nel mio caso sarebbe stato più conveniente rimpicciolire e quindi ridurre la massa tumorale con la chemioterapia per poi rimuoverla successivamente con un intervento. Così l’oncologa che mi avrebbe seguita, mi illustrò il programma terapeutico da seguire e mi disse che dopo la fine dei cicli di chemioterapia, avrei dovuto subire un intervento di quadrantectomia. Prima di cominciare la chemioterapia parlai anche con lo psiconcologo (fu quello il primo e ultimo colloquio). Il mio percorso di cura prevedeva un trattamento neoadiuvante per 4 cicli ogni 21 giorni e successivamente taxolo per 12 settimane. Mi sottoposi al primo trattamento. Tutto sembrava procedere bene. Poco prima di terminare i primi 4 cicli però cominciai ad avere il sospetto che qualcosa non stesse funzionando. Nel frattempo avevo già tagliato tutti i capelli, ma della figura dello psiconcologo neppure l'ombra e io morivo dentro. Nonostante abbia sempre chiesto, se tutto stesse procedendo bene, la risposta che ricevevo è sempre stata affermativa, senza aggiungere una sola parola. Solo silenzio e mentivano. Tra la fine del primo trattamento e l'inizio del secondo non fui sottoposta ad alcun controllo, neppure ad una banale ecografia. Gli unici controlli previsti erano gli esami del sangue. Cominciai anche il secondo trattamento, quello con il taxolo, ma il tumore anziché rimpicciolirsi, cresceva ed era visibile anche ad occhio nudo.

Ho trascorso notti intere a piangere e a pregare in silenzio, impotente di fronte alla malattia, con la paura di morire giorno dopo giorno, fino a quando decisi di prendere in mano la mia vita. A quel punto decisi di fare privatamente un’ecografia e i miei sospetti purtroppo cominciarono a prendere forma. Decisi allora di chiedere spiegazioni e quando mostrai quell’ecografia, con molta freddezza e piuttosto infastidita, una dottoressa rispose che non dovevamo trarre conclusioni affrettate, che avevano dei protocolli da rispettare e delle linee guida da seguire e che, dopo mie continue e ripetute sollecitazioni, potevo approfondire con una mammografia e risonanza. L’altra presente, invece, mi disse che aveva fatto bene a fare quell’ecografia. A questo punto mi sorge spontanea una domanda, perché se tutti vedevano e sapevano che qualcosa non stava funzionando, non sono intervenuti subito, ma si sono attivati solo quando sono stati messi con le spalle muro di fronte a quella famosa ecografia, scongiurando in questo modo conseguenze ben più serie? Non metto in dubbio che i protocolli dovessero essere rispettati, ma si poteva intervenire prima.

E dov’era in tutto questo la figura dello psiconcologo che sulla carta avrebbe dovuto darmi sostegno e supporto? E ancora una volta morivo dentro, sola. A quel punto mi disse anche che, per avere l'impegnativa con gli esami prescritti potevo tranquillamente tornare tra una settimana perché quel giorno avevano problemi con il sistema operativo del pc, ma io non potevo aspettare che il tumore che sentivo crescere dentro di me, mi divorasse anche l'anima e tornai il giorno dopo. Ero gia al settimo trattamento con taxolo settimanale e nel frattempo contattai lo IEO dove effettuai una visita specialistica perché a quelli, avevo deciso di affidare la mia vita. Il dottore confermò i miei timori e le mie paure e mi spiegò che se l'oncologo in assenza di una terapia sostituiva, avesse dato parere positivo, lui mi avrebbe inserito in una lista d’attesa e mi avrebbe operato. Così quando tornai, riferì alla dottoressa e decise che era arrivato il momento di intervenire per programmare l'intervento, messa con le spalle al muro per la seconda volta. Ma per me era già troppo tardi. Interrotto il trattamento con il taxolo sono stata operata.

Ho subìto un intervento di mastectomia laterale sinistra e dissezione ascellare omolaterale. Esattamente nel periodo in cui, secondo i loro schemi, avrei dovuto finire la chemioterapia, io ero già stata operata. È in quel preciso giorno sono rinata. Mi fu chiesto in seguito, se volessi partecipare ad uno studio di ricerca clinica per la sperimentazione di un farmaco immunoterapico nel trattamento del tumore mammario triplo negativo ad alto rischio. Allora mi chiedo, se possedevo tutti i requisiti necessari per poter accedere a questo studio, perché nel momento in cui hanno capito che la risposta del mio organismo alla chemioterapia non è stata soddisfacente, non hanno deciso di operarmi subito e si sono attivati solo in seguito alle mie ripetute sollecitazioni e sopratutto dopo la visita allo IEO? Alla luce di quanto successo sono convinta che se non avessi fatto quell’ecografia privatamente e non avessi interrotto la chemioterapia, probabilmente le cose sarebbero andate diversamente.

Le parole scritte sulla diagnosi di ricovero presso lo IEO che recitavano cosi «carcinoma T4 a cute quasi ulcerata per circa 4 cm in progressione clinica da operare» risuonano giorno e notte nella mia mente. Perché purtroppo ci sono parole che non si possono dimenticare e cicatrici che rimarranno incise per sempre nel mio corpo e nella mia mente.

Da wired.it il 25 novembre 2022. 

Il 22 novembre scorso la Food and drug administration (Fda), ente regolatorio statunitense, ha approvato il farmaco più costoso al mondo, ovvero una terapia per curare l’emofilia B, una malattia genetica rara. Hemgenix, questo il nome del medicinale prodotto dall’azienda farmaceutica Csl Behring, consiste in una terapia genica e costerà 3,5 milioni di dollari a dose, il che, come riporta Bloomberg, lo rende il farmaco più costoso al mondo. 

Secondo gli studi clinici condotti finora, Hemgenix sarebbe in grado di eliminare, in oltre metà dei pazienti testati, gli episodi di sanguinamento associati alla malattia, con un potenziale risparmio sui costi sanitari. In Europa, il medicinale è ancora in fase di valutazione da parte dell’Agenzia europea dei medicinali (Ema). 

L’emofilia B e il suo trattamento

L'emofilia B è una malattia genetica rara causata dalla mancanza di un fattore della coagulazione del sangue, proteina necessaria per fermare le emorragie in caso di ferite; come riporta l’Istituto superiore di sanità (Iss), l’emofilia B riguarda un caso su 30.000 nella popolazione generale. Trattandosi di una malattia associata al cromosoma sessuale X, la maggior parte delle persone che manifestano i sintomi sono uomini, mentre generalmente le donne sono portatrici sane (anche se si stima che il 10-25% delle donne portatrici abbia sintomi lievi e, in rari casi, le donne possono presentare sintomi moderati o gravi). 

I sintomi includono episodi di sanguinamento prolungato o abbondante a seguito di ferite, traumi e/o interventi chirurgici oppure, nei casi più gravi, i sanguinamenti possono anche avvenire spontaneamente, senza una chiara causa; questi episodi possono portare a gravi complicazioni, come emorragie nelle articolazioni, nei muscoli o negli organi interni. 

Il trattamento di questa malattia in genere prevede la somministrazione del fattore di coagulazione mancante a scopo preventivo (per scongiurare gli episodi di sanguinamento), oppure su richiesta, per fermare un'eventuale emorragia. Nei casi più gravi è richiesto un trattamento di routine con infusioni endovenose molto costoso e che col tempo può diminuire di efficacia.

Come funziona il nuovo medicinale

Hemgenix, invece, funziona in maniera diversa: si tratta di un vettore adenovirale somministrato in endovena in singola dose, che al suo interno trasporta il gene per il fattore di coagulazione mancante; una volta in circolo, il gene viene espresso nel fegato, dove produce la proteina necessaria per prevenire gli episodi di sanguinamento. La sicurezza e l'efficacia di Hemgenix sono state valutate in due studi clinici condotti su 57 uomini con emofilia B grave o moderatamente grave: in uno degli studi i partecipanti hanno registrato un aumento dei livelli di attività del fattore di coagulazione mancante (con una conseguente minore necessità di sottoporsi al trattamento a scopo preventivo) e una riduzione del 54% del tasso di eventi emorragici annuali. Le reazioni avverse più comuni associate al medicinale includevano un aumento degli enzimi epatici, cefalea, lievi reazioni legate all'infusione endovena e sintomi simil-influenzali.

“La terapia genica per l'emofilia è all'orizzonte da più di due decenni. Nonostante i progressi nel trattamento dell'emofilia, la prevenzione e il trattamento degli episodi emorragici possono avere un impatto negativo sulla qualità della vita delle persone”, ha dichiarato Peter Marks, direttore del Center for biologics evaluation and research della Fda. "L'approvazione odierna fornisce una nuova opzione terapeutica per i pazienti con emofilia B e rappresenta un importante progresso nello sviluppo di terapie innovative per coloro che sperimentano un elevato carico di malattia associato a questa forma di emofilia". 

La questione del costo

Tuttavia, l’innovatività del nuovo medicinale ha un costo, che, in questo caso, è decisamente elevato: secondo Bloomberg, infatti Hemgenix costerebbe 3,5 milioni di dollari a dose. Invece, uno studio dell'Institute for clinical and economic review, un'organizzazione senza scopo di lucro si occupa dei costi dei medicinali, riporta che un prezzo equo per Hemgenix sarebbe compreso tra 2,93 milioni e 2,96 milioni di dollari a dose. In più, dal momento che tratta una malattia genetica rara, Hemgenix ha ottenuto la designazione di medicinale orfano, che, tra le altre cose, prevede che Csl Behring detenga diritti esclusivi sul mercato statunitense per i prossimi sette anni. 

"Sebbene il prezzo sia un po' più alto del previsto, penso che abbia una possibilità di successo perché i farmaci esistenti sono anche molto costosi e i pazienti affetti da emofilia vivono costantemente nella paura delle emorragie", ha affermato a Bloomberg Brad Loncar, investitore in biotecnologie e amministratore delegato di Loncar Investments. "Un prodotto di terapia genica attirerà alcuni investitori".

Taranto, muore bimbo di 3 anni affetto da Sma1: fatale una encefalite. Suo padre Saverio, confratello della Congrega dell’Addolorata, lo scorso aprile era stato tra i portatori delle sdanghe (travi in legno) della statua dell’Addolorata in segno di devozione e di ringraziamento per il sostegno ricevuto per le cure al figlio. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 21 Agosto 2022

Non ce l’ha fatta Federico Musciacchio, il bimbo tarantino di circa 3 anni affetto da SMA (atrofia muscolare spinale) di tipo 1, la più grave, che aveva ricevuto le cure grazie a una straordinaria gara di solidarietà per l’acquisto dello Zolgensma, uno dei farmaci salva-vita più costosi al mondo, da oltre 2 milioni di euro. Suo padre Saverio, confratello della Congrega dell’Addolorata, lo scorso aprile nella processione del Giovedì Santo era stato tra i portatori delle sdanghe (travi in legno) della statua dell’Addolorata in segno di devozione e di ringraziamento per il sostegno ricevuto per le cure al figlio.

«Purtroppo il piccolo Federico Musciacchio - scrivono il padre spirituale don Emanuele Ferro e il commissario arcivescovile Giancarlo Roberti - ha concluso la sua breve esistenza terrena. L’intera confraternita si stringe intorno ai suoi genitori Saverio e Rossella e a tutta la sua famiglia».

L’immagine di Federico «affidato alla Vergine Addolorata all’uscita in piazza Immacolata - proseguono - ci ritornano alla mente con vigore mentre impetriamo dalla nostra Madre celeste il dono della consolazione e della speranza. Voglia il buon Dio essere vicino alla mamma e al papà di Federico difensori della vita e della salute senza risparmiarsi e con eroico coraggio». 

I funerali del piccolo si terranno domani alle 16 nella chiesa del Carmine di Taranto dove è già in corso un veglia per l'ultimo saluto.

Solo nel marzo dello scorso anno l'Agenzia Italiana del Farmaco aveva consentito l’uso della terapia genica Zolgensma con il sistema sanitario nazionale per tutti i bambini affetti da Sma1 che rientrano per peso entro i 21 chili. Fu così superato il limite esistente prima in Italia legato all’età di 6 mesi e che costringeva le famiglie a raccolte fondi per arrivare alla cifra necessaria per acquistare e somministrare il costosissimo farmaco in un altro Paese. Anche il piccolo Federico aveva così potuto iniziare la terapia.

Su una vicenda analoga, che riguardava la possibilità di somministrare il farmaco a Paolo, un bimbo di poco più di due anni della provincia di Bari affetto da Sma1, si consumò lo strappo tra il governatore Michele Emiliano e il professore Pierluigi Lopalco, tanto che quest’ultimo decise di dimettersi da assessore pugliese alla Sanità perché riteneva che, in base ai paletti fissati da Aifa in Italia, il piccolo non potesse essere sottoposto alla terapia genica dalla quale non avrebbe tratto vantaggi. 

E’ morto Federico il bimbo di tre anni di Taranto affetto da Sma, nonostante un farmaco da 2 milioni.  Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 21 Agosto 2022 

Prendeva uno dei farmaci salva-vita più costosi al mondo, da oltre 2 milioni. L' Aifa-Agenzia italiana del farmaco aveva autorizzato solo nel marzo dello scorso anno l'uso della terapia genica Zolgensma con il Sistema sanitario nazionale per tutti i bambini affetti da Sma1 che rientrano per peso entro i 21 chili

Federico Musciacchio, il bimbo tarantino che non aveva ancora compiuto 3 anni, affetto da Sma di tipo 1 (atrofia muscolare spinale), la forma più grave di questa malattia, non ce l’ha fatta contro la malattia che dopo pochi mesi dalla nascita gli era stata diagnosticata . Il “piccolo guerriero” come amava chiamarlo sua madre Rossella, non ce l’ha fatta. Nelle ultime settimane era subentrata anche una infiammazione al cervello a complicare il quadro clinico di per sè già molto grave .

Grazie a una straordinaria gara di solidarietà con la piattaforma Gofundme per l’acquisto dello Zolgensma, uno dei farmaci salva-vita più costosi al mondo del costo di oltre 2 milioni di euro, il piccolo Federico aveva ricevuto le cure. 

L’ Aifa-Agenzia italiana del farmaco aveva autorizzato solo nel marzo dello scorso anno l’uso della terapia genica Zolgensma con il Sistema sanitario nazionale per tutti i bambini affetti da Sma1 che rientrano per peso entro i 21 chili.  Saverio Musciacchio, il papà di Federico, lo scorso aprile nella processione del Giovedì Santo a Taranto, confratello della Congrega dell’Addolorata, era stato tra i portatori delle “sdanghe” (travi in legno) della statua dell’Addolorata in segno di devozione e di ringraziamento per il sostegno ricevuto per le cure al figlio. 

Saverio Musciacchio, il papà di Federico, nella processione del Giovedì Santo a Taranto

“Purtroppo il piccolo Federico – hanno commentato il padre spirituale della Congrega dell’Addolorata e di San Domenico, don Emanuele Ferro, e il commissario arcivescovile Giancarlo Roberti – ha concluso la sua breve esistenza terrena. L’intera confraternita si stringe intorno ai suoi genitori Saverio e Rossella e a tutta la sua famiglia“. L’immagine di Federico “affidato alla Vergine Addolorata all’uscita in piazza Immacolata ci ritornano alla mente con vigore mentre impetriamo dalla nostra Madre celeste il dono della consolazione e della speranza. Voglia il buon Dio essere vicino alla mamma e al papà di Federico difensori della vita e della salute senza risparmiarsi e con eroico coraggio” hanno aggiunto,

Su un’analoga vicenda, che riguardava la possibilità di somministrare il farmaco a Paolo, un bambino di poco più di due anni della provincia di Bari affetto da Sma1, avvenne lo rottura tra il governatore Michele Emiliano e l’epidemiologo Pierluigi Lopalco, al punto che decise di dimettersi da assessore pugliese alla Sanità ritenendo che, in base ai paletti fissati da Aifa in Italia, il piccolo non potesse essere sottoposto alla terapia genica dalla quale non avrebbe tratto vantaggi. Redazione CdG 1947 

Taranto, muore bimbo di tre anni affetto da Sma: era in cura con un farmaco da 2 milioni. Federico Musciacchio aveva un'atrofia muscolare spinale di tipo 1, la forma più grave. L'acquisto del medicinale era stato possibile grazie a una straordinaria gara di solidarietà. La Repubblica il 21 Agosto 2022.

Il piccolo guerriero, come lo chiamava la mamma Rossella, non ce l'ha fatta. Federico Musciacchio, un bimbo tarantino di nemmeno 3 anni affetto da Sma (atrofia muscolare spinale) di tipo 1, la forma più grave, ha perso la battaglia contro la malattia che gli era stata diagnosticata a pochi mesi dalla nascita. Ma nelle ultime settimane a complicare un quadro clinico già gravissimo era subentrata anche una infiammazione al cervello.

Federico aveva ricevuto le cure grazie a una straordinaria gara di solidarietà con la piattaforma gofundme per l'acquisto dello Zolgensma, uno dei farmaci salva-vita più costosi al mondo, da oltre 2 milioni di euro.

Solo nel marzo dello scorso anno l'Agenzia italiana del farmaco (Aifa) aveva consentito l'uso della terapia genica Zolgensma con il Sistema sanitario nazionale per tutti i bambini affetti da Sma1 che rientrano per peso entro i 21 chili. 

Su una vicenda analoga, che riguardava la possibilità di somministrare il farmaco a Paolo, un bimbo di poco più di due anni della provincia di Bari affetto da Sma1, si consumò lo strappo tra il governatore Michele Emiliano e l'epidemiologo Pierluigi Lopalco, tanto che quest'ultimo decise di dimettersi da assessore pugliese alla Sanità perché riteneva che, in base ai paletti fissati da Aifa in Italia, il piccolo non potesse essere sottoposto alla terapia genica dalla quale non avrebbe tratto vantaggi.

Saverio, il papà di Federico, lo scorso aprile nella processione del Giovedì Santo era stato tra i portatori delle sdanghe (travi in legno) della statua dell'Addolorata in segno di devozione e di ringraziamento per il sostegno ricevuto per le cure al figlio. 

"Purtroppo il piccolo Federico - hanno sottolineato il padre spirituale della Congrega dell'Addolorata e di San Domenico, don Emanuele Ferro, e il commissario arcivescovile Giancarlo Roberti - ha concluso la sua breve esistenza terrena. L'intera confraternita si stringe intorno ai suoi genitori Saverio e Rossella e a tutta la sua famiglia". 

L'immagine di Federico "affidato alla Vergine Addolorata all'uscita in piazza Immacolata - hanno aggiunto - ci ritornano alla mente con vigore mentre impetriamo dalla nostra Madre celeste il dono della consolazione e della speranza. Voglia il buon Dio essere vicino alla mamma e al papà di Federico difensori della vita e della salute senza risparmiarsi e con eroico coraggio".

Anche il priore Antonello Papalia e don Marco Gerardo, padre spirituale della Confraternita del Carmine,  che ha sede nell'omonima chiesa, dove domani si svolgeranno i funerali, hanno espresso il proprio cordoglio e la vicinanza alla famiglia del piccolo Federico. "La Mamma nostra del Carmine - hanno scritto sulla pagina Facebook - lo accolga tra i Santi e gli Angeli e lo custodisca tra le Sue Braccia amorevoli". 

 Lopalco, Emiliano e la terapia per la Sma nei bimbi: il farmaco più costoso al mondo all'origine della rottura.  Anna Puricella su La Repubblica il 12 novembre 2021. Una confezione di Zolgensma, il farmaco da 2 milioni e 10mila dollari. L'utilizzo del Zolgensma autorizzato ma con alcune precise indicazioni da parte dell'Aifa. Il medicinale costa 2 milioni e 100mila dollari e il rapporto rischi benefici dipende da determinate condizioni. I benefici sarebbero "pressoché assenti", i rischi "crescenti nei soggetti con malattia avanzata". È su questa bilancia che si è consumato lo strappo fra il presidente Michele Emiliano e l'assessore regionale alla Sanità Pierluigi Lopalco. Sono le parole riportate nella lettera inviata da Aifa (Agenzia del farmaco) a metà settembre al ministero della Salute e ai due. Ed erano riferite al caso di Paolo, un bambino della provincia di Bari che ora ha due anni e ha la Sma1, la forma più grave di atrofia muscolare spinale. L'obiettivo della famiglia è quello di fargli somministrare Zolgensma, il farmaco più costoso al mondo (vale due milioni e centomila dollari). Una terapia genica, innovativa e importantissima per i malati di Sma1, perché può cambiare il decorso della malattia. In Puglia se n'è parlato la prima volta un anno fa per Melissa, la bimba di Monopoli per la quale una corposa raccolta fondi ha permesso di raccogliere il denaro necessario a farla volare all'estero per la somministrazione. Melissa non poteva essere curata in Italia, era fuori con i limiti imposti all'epoca da Aifa (Agenzia italiana del farmaco), anche se poi quelle maglie - 0-6 mesi di età - erano state allentate e lei avrebbe potuto avere la somministrazione nel suo Paese. C'è stato poi Antonio, il più piccolo d'Italia a ricevere la terapia genica: è stato trattato a Bari, aveva solo quattro mesi e adesso sta bene. Si è affacciato quindi Paolo, e attorno al suo caso si sarebbe consumato lo strappo politico. Zolgensma adesso si può somministrare a pazienti fino a 13,5 chilogrammi di peso, senza limiti di età. Lo dice Ema (agenzia europea per i medicinali), e Aifa ha rispettato le direttive. In teoria il bambino potrebbe riceverlo, ma ci sono altri paletti: quella terapia non è permessa a quanti sono tracheostomizzati o hanno la Peg. O meglio, si può fare, ma in tal caso il farmaco non è rimborsato dallo Stato. Ed è qui che è intervenuta la Regione Puglia: di fronte all'impossibilità del bimbo di andare all'estero - stava per recarsi a Boston, ma aveva raggiunto i limiti di età, lì si può fino a due anni - il presidente Emiliano ha messo Zolgensma a disposizione delle due famiglie (oltre a Paolo ci sarebbe un altro bambino del Foggiano, Marco). In pratica la Regione dovrà pagare i due milioni e centomila dollari necessari per l'acquisto del farmaco per il solo Paolo. "Se c'è un medico che lo prescrive e se la famiglia autorizza, la Regione sosterrà le cure del bambino", ha precisato lo stesso Emiliano dopo le dichiarazioni di Lopalco. Il medico c'è - ma non opera in Puglia - la famiglia è favorevole. Bisogna però considerare che Paolo è tracheostomizzato, e che ha compiuto due anni. Il rapporto fra rischi e benefici deve essere calibrato al millimetro, e proprio Aifa l'aveva messo in chiaro in quella lettera di metà settembre: "È documentato che l'efficacia del farmaco è massima quando la somministrazione avviene nei primi mesi di vita, mentre si riduce nei bambini più grandi e in caso di un aggravamento della malattia". Le parole di Aifa sono state esplicite: "Il medico curante deve considerare che il beneficio è seriamente ridotto nei pazienti con profonda debolezza muscolare e insufficienza respiratoria, nei pazienti in ventilazione permanente e nei pazienti non in grado di deglutire", scriveva escludendo quindi la rimborsabilità da parte del Servizio sanitario nazionale. Ancora: "Rimane in carico all'équipe clinica multidisciplinare il compito di stabilire, nel singolo paziente dopo un'attenta valutazione delle condizioni complessive, se sia opportuno prevedere di effettuare tale trattamento". Nel caso di Paolo l'équipe è stata trovata, ma non in Puglia. La data del ricovero c'è (il 20 novembre) e sembra mancare solo il farmaco, anche se Asl Bari ha precisato che fino all'altro giorno non aveva ricevuto alcuna prescrizione.

L’EPIDEMIOLOGO LOPALCO SI SCONTRA CON EMILIANO SULLA POLITICA SANITARIA IN PUGLIA E SI DIMETTE DA ASSESSORE. Il Corriere del Giorno l'11 Novembre 2021. Il motivo delle dimissioni di Lopalco sono le sue contestazioni ad Emiliano di non condividere insieme le scelte in materia di sanità, anche quelle più strategiche, di bypassarlo nel rapporto con le Asl, con le Agenzie e, soprattutto, con i suoi stessi uffici. In poche parole di non lasciargli esercitare liberamente il suo ruolo di assessore alla sanità. L’assessore alla Salute, il professor Pierluigi Lopalco, ha comunicato nei giorni scorsi al presidente della Regione, Michele Emiliano, le sue dimissioni dalla squadra di governo. Un vero “scossone” sulla giunta regionale pugliese. Emiliano gli avrebbe chiesto di ripensarci per una decina di giorni ma Lopalco non ha alcuna intenzione di ritornare sulla sua decisione: “La decisione ormai è stata presa”, ha riferito ai suoi amici e collaboratori, e nelle prossime ore dovrebbe ufficializzare la sua decisione. Ci sarebbero stati un paio di episodi che hanno maturato divergenze insanabili, dopo le quali Lopalco ha assunto la propria decisione di dimettersi. Il motivo delle dimissioni di Lopalco sono le sue contestazioni ad Emiliano di non condividere insieme le scelte in materia di sanità, anche quelle più strategiche, di bypassarlo nel rapporto con le Asl, con le Agenzie e, soprattutto, con i suoi stessi uffici. In poche parole di non lasciargli esercitare liberamente il suo ruolo di assessore alla sanità come gli spetterebbe e vorrebbe svolgere. Il professor Lopalco però non abbandonerebbe la politica, restando in consiglio regionale, dove è stato eletto nella lista “Con” ricevendo 14.500 preferenze. La notizia sulla decisione di Lopalco ha un “pesante” valore politico avendo accompagnato e sostenuto il Governatore pugliese in tutte le sue decisioni ed iniziative. Non a caso Emiliano si era affidato proprio a lui ingaggiandolo nelle due fasi della pandemia, come consulente esterno, grazie al curriculum tecnico e scientifico dell’epidemiologo, che è docente universitario, prima all’ Università Pisa, ora in quella di Lecce, dopo aver trascorso dieci anni nel Centro europeo per la prevenzione ed il controllo delle malattie a Stoccolma in Svezia, dove è stato capo del programma per le malattie prevenibili da vaccino. La decisione assunta dal professor Lopalco di lasciare il suo incarico assume un peso ancora più significativo proprio nel momento in cui le Asl pugliesi si trovano a dover organizzare la campagna di somministrazione della terza dose del caccino anti-Covid . Le dimissioni di Lopalco in realtà non sono improvvise poichè da tempo correva voce di un raffreddamento dei rapporti con Emiliano e della non condivisione con alcune sue scelte. Lopalco non a caso non è voluto mai farsi coinvolgere in alcune delle scelte e decisioni sulla realizzazione dell’Ospedale di emergenza realizzato alla Fiera del Levante interamente gestito dalla Protezione civile, contestato fortemente dal gruppo regione di Fratelli d’ Italia, ed oggetto di un’indagine della procura della Repubblica. dell’assessore.

Questa la lettera di dimissioni pervenuta oggi alla Presidenza della Giunta Regione Puglia:

“Caro Presidente, carissimo Michele, con la presente rimetto nelle tue mani la delega ad Assessore alla Sanità e Benessere Animale a me conferita. Come anticipatoti verbalmente ritengo esaurito il mio mandato dopo il lungo periodo di emergenza che insieme abbiamo brillantemente affrontato. La situazione attuale richiede un cambio di passo che la stanchezza fisica e mentale a cui sono stato sottoposto in questi lunghi mesi non mi consentono di affrontare. Resto a disposizione tua e del governo regionale con il mio pieno supporto tecnico, intellettuale e anche politico discendente dal mio ruolo in Consiglio Regionale”.

Il presidente Emiliano al riguardo con una nota ha dichiarato quanto segue: “L’azione svolta da Pier Luigi Lopalco durante la pandemia è stata indubbiamente incessante e faticosa, comprendo quindi la sua stanchezza e ho profondo rispetto per le sue ragioni. I pugliesi devono però sapere che tutta la squadra della Sanità non si ferma, continua il lavoro per garantire il massimo livello di prestazioni e che l’attenzione ai temi della salute rimane altissima da parte mia e di tutta l’amministrazione regionale, oggi come sempre.  In un’intervista l’assessore Lopalco ha poi anche sollevato un tema che ci vede su posizioni diverse e che riguarda la somministrazione di un farmaco innovativo a un bambino pugliese affetto da una grave malattia genetica.  L’eventuale somministrazione di questo farmaco deve essere sempre e comunque stabilita da una prescrizione medica e previa autorizzazione dei genitori, che nel caso specifico hanno già fatto richiesta“. “Ho quindi preso posizione dicendo che la Regione Puglia metterà a disposizione le somme necessarie per il sostegno alla famiglia. Se c’è un medico che lo prescrive e se la famiglia autorizza, la Regione sosterrà le cure del bambino, ovviamente nel rispetto delle regole e della supremazia della prescrizione medica. Alla luce di queste considerazioni, ho chiesto all’assessore Lopalco, al quale mi legano sinceri sentimenti di stima e affetto,  di provare a recuperare le forze e tornare ad offrire il suo sostegno all’azione della giunta regionale, auspicando che possa rimeditare la sua scelta”. 

Diodato Pirone per "il Messaggero" il 12 novembre 2021. Dimettersi da un incarico di prestigio e di potere per protestare contro l'assegnazione a due genitori di un farmaco da 1,5 milioni di euro per i loro figli non è cosa di tutti i giorni. È quello che sta succedendo in Regione Puglia, dove ieri l'assessore alla Sanità, l'immunologo Pierluigi Lopalco, ha lasciato il suo incarico in polemica con il presidente regionale, il dem Michele Emiliano, che pure gli aveva assegnato l'incarico strategico. Cosa ha scatenato quello che anche gli osservatori della politica pugliese definiscono un fulmine a ciel sereno? I genitori di due bambini piccoli, affetti da una malattia rarissima (40 casi annui su 400.000 in Italia), la Sma1 o Atrofia muscolare spinale, hanno ottenuto dal presidente della Regione l'assegnazione del costosissimo farmaco. Si tratta dello Zolgensma, una medicina a dose unica di origine Usa, distribuita in Italia dalla Novartis dopo il regolare riconoscimento da parte dell'Aifa, l'Agenzia che controlla i farmaci. Il fatto è che la mossa del presidente regionale, comprensibile sul piano umano, è però figlia di una scelta puramente politica perché presa sia contro il parere della competente Commissione medica regionale, sia contro quello dello stesso Lopalco. L'immunologo infatti - pur dichiarandosi addolorato come padre e politicamente sempre vicino al presidente - ha spiegato che come medico considera insensato l'uso dello Zolgensma perché nel caso specifico (una modifica genetica delicatissima) non sarebbe stato in grado di guarire i bambini e neanche di migliorare le loro drammatiche condizioni di salute. In sostanza, Lopalco rimprovera a Emiliano di buttar via una notevole quantità di denaro pubblico e di sminuire il suo profilo professionale che l'immunologo ha speso generosamente durante la lunga pandemia. Del resto, i risultati che Lopalco può vantare sul fronte del Covid-19 sono di tutto rispetto. La Puglia, dopo la Toscana, è la seconda Regione italiana per numero di somministrazioni in rapporto alla popolazione. A ieri solo il 10,4% dei pugliesi over-12 non aveva ancora ricevuto neanche una dose. Non solo. Nella fascia degli studenti fra i 12 e i 19 anni la Puglia ha vaccinato l'80% degli aventi diritto, molto più della media italiana ferma al 73%, dopo una brillante campagna di massa partita il 23 agosto con la quale 7.500 scuole hanno inviato i loro studenti agli hub vaccinali, con un coordinamento fra Regione e autorità scolastiche assai raro in Italia. Risultati che si spiegano anche con il profilo scientifico di Lopalco che per una vita ha fatto una cosa sola: combattere i virus. Una passionaccia che lo ha portato, lui nato a due passi da uno dei mari più belli e caldi del mondo, a lavorare per 10 anni in Svezia presso il Centro europeo per la prevenzione, dove è stato capo del programma per le malattie prevenibili da vaccino. E l'impegno politico? Quello dipende(va) da Emiliano. Non è un segreto per nessuno che i 14.500 voti di preferenza raccolti da Lopalco alle Regionali erano farina del sacco del presidente. E Emiliano ha difeso l'assessore con la sua stazza politica e persino personale (pesa 120 chili per 1,90 di altezza) in molti momenti difficili della campagna pandemica quando di fronte agli intoppi le opposizioni hanno martoriato l'immunologo chiedendone le dimissioni. Che ora sono congelate poiché Emiliano ha chiesto a Lopalco di ripensarci. Difficile dire come finirà. Fra i nemici di Lopalco si sottolinea che l'assessore era stato scavalcato da Emiliano su nomine e alcuni appalti. Gli estimatori del prof. ne evidenziano invece le qualità umane che ne hanno fatto uno dei medici meno saccenti e più stimati fra i virologi lanciati nello star system italiano dal Covid-19.

Dimissioni Lopalco, la mamma del bimbo pugliese affetto da Sma1: «Non strumentalizzate mio figlio».  L’intervista alla mamma di Paolo. «Lopalco non è un neurologo, non parli delle cure per la Sma1». Francesco Petruzzelli su Il Quotidiano del Sud il 13 novembre 2021. «Non si può strumentalizzare il caso di mio figlio. Siamo rimasti scioccati da quello che abbiamo letto e sentito in queste ore». Mamma Francesca mantiene la compostezza. É un tono di voce quasi delicato ma per nulla rassegnato. «Per nostro figlio le proveremo tutte, andremo fino in fondo. Faremo tutto quello che c’è da fare». Paolo ha 2 anni, risiede in provincia di Bari, e assieme alla sua famiglia sta conducendo una battaglia terribile. Su due binari. Lottare contro la Sma1, una grave forma infantile di atrofia muscolare spinale prossimale, e lottare contro la burocrazia. Per ottenere quel farmaco salvavita, il costosissimo Zolgensma, un medicinale di terapia genica dal valore di oltre due milioni di dollari. Che la Regione Puglia vuole acquistare e far somministrare, mentre il suo ormai ex assessore alla Sanità Pieri Luigi Lopalco avanza dei fortissimi dubbi sul buon esito della terapia. Arrivando persino a dimettersi dalla giunta regionale in aperto contrasto con il convincimento “politico” e “scientifico” del governatore Michele Emiliano.

Lopalco ha lasciato il ruolo di assessore perché ha manifestato forti perplessità sulla terapia per il piccolo Paolo. Quanto la convince questa motivazione?

«Noi non ne sapevamo nulla di questo contrasto. Da stamattina (ieri, ndr) sto ricevendo decine e decine di messaggi e di telefonate per commentare gli articoli di stampa. E credo che il vero motivo della rottura tra Lopalco ed Emiliano non sia questa. Anzi, è assurdo strumentalizzare la storia di nostro figlio all’interno di una vicenda politica. Noi genitori siamo rimasti davvero allibiti».

Però secondo Lopalco questa terapia avrebbe più rischi che benefici considerata l’età e la situazione di Paolo. Ha ribadito che il farmaco ha dimostrato di essere efficace solo nelle fasi iniziali della malattia, cioè in bambini molto piccoli.

«Lopalco è un virologo, non è un neurologo. Quindi parli delle cose di sua competenza. Come ci hanno detto i medici e gli specialisti americani, rischi di morte non ce ne sono. Non ce ne hanno mai parlato. Allora a Lopalco dico: quali alternative avremmo per Paolo? Perché non provarle tutte pur di salvare il mio piccolo? Noi ci vogliamo provare, siamo determinati a tutto, anche a rischiare, pur di vedere il nostro bambino migliorare. Se esiste anche una sola possibilità, perché sprecarla?».

Cosa vorrebbe dire a Lopalco?

«Venga a trovare Paolo di persona. Non può parlare di un bimbo che non hai mai visto. Non gli ha mai fatto una visita, un esame. Come può dire che in questa terapia non ci sono benefici? Caro Lopalco vieni a vedere il mio Paolo e poi vedrai cosa mi dirai…».

A Emiliano invece cosa vorrebbe dire?

«Spero che alla fine la Regione acquisti quel farmaco. Per questo lo voglio ringraziare. Noi eravamo pronti a partire con i bagagli per Boston, poi però non ci è piaciuto quel suo post su Facebook, a settembre, quando ci ha detto che non ci faceva partire perché il medico specialista per somministrare la terapia dovevamo trovarlo noi».

Il medico intanto è arrivato.

«Sì, c’è un neurologo dell’ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma che si è offerto. E per questo lo ringraziamo di cuore. Due mesi fa siamo andati a trovarlo di persona perché ci siamo detti: “se qui aspettiamo i tempi di Emiliano e della Regione, rischiamo di fare un buco nell’acqua e di far passare troppo tempo».

Manca però ancora il farmaco. Il consigliere regionale Fabiano Amati ha denunciato i ritardi nell’acquisto.

«Esatto. Dopo quella denuncia siamo stati contattati dalla Asl di Bari e ci hanno detto che loro non ne sapevano nulla di questa storia. Ci hanno chiesto tutta la documentazione necessaria. Ma mi chiedo: come è possibile che la Regione e la sua Asl non comunichino? È davvero sconcertante».

Il 20 novembre è previsto il ricovero.

«Sì, ma al momento Paolo non sta tanto bene. Quindi dobbiamo valutare. Speriamo che si riprenda al più presto per poi ripartire. La mia rabbia è che sanno il tipo di malattia. Sanno che può peggiorare all’improvviso. E mi fa rabbia perdere altro tempo. L’importante è che il medico ora ci sia e che Paolo non appena starà meglio partirà con noi».

Cosa racconterà a Paolo quando sarà grande?

«Gli racconterò tutto. Gli dirò che nel bene e nel male ci abbiamo provato, che abbiamo combattuto tanto per lui».

Se dovesse dare un nome a questa storia?

«Una storia di burocrazia e di politica. Ci hanno fatto penare. Prima ci hanno detto di trovare il medico, poi la Asl ci ha detto di non saperne nulla. Come è possibile che la Regione non parli con la sua Asl?».

Bari, inchiesta sugli «abusivi» in ospedale. Indagati 70 tecnici sanitari. La Procura: non si sono mai iscritti all’Ordine. Nel mirino riabilitatori e analisti di laboratorio. Da domani gli interrogatori delegati ai nas. Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 18 Settembre 2022

Nel 2018 il ministro Beatrice Lorenzin ha istituito l’Ordine delle professioni sanitarie. Un albo che raggruppa 17 profili tecnici, al quale fin dal 2018 è obbligatoria l’iscrizione, anche per chi - e sono tanti - lavora da trent’anni in ospedale o nelle cliniche private come dietista o igienista dentale. Una tipica situazione all’italiana che, però, rischia di avere ripercussioni anche penali. La Procura di Bari ha infatti aperto un fascicolo, con l’ipotesi di esercizio abusivo della professione, in cui sono stati iscritti finora 70 nomi di persone che, in base alle verifiche compiute dallo stesso Ordine, non risultano essersi messe in regola.

Tutto è nato...

Dirottava pazienti verso cliniche private, prof condannato a pagare un milione di euro. Luca Serranò su La Repubblica l'11 Agosto 2022.  

La decisione della Corte dei Conti, i soldi andranno all'Università di Pisa, ritenuta danneggiata dal comportamento del docente.

Dirottava i pazienti in una struttura sanitaria convenzionata, intascando sistematicamente i soldi delle visite. Un “tesoro” accumulato nel giro di pochi anni, e che ora rischia di dover restituire. La corte dei conti della Toscana ha condannato a un maxi risarcimento da 1 milione di euro un ex professore dell’università di Pisa, endocrinologo, accusato di aver provocato un grave danno erariale con un disinvolto ricorso alla libera professione.

La mammografia? Tra 99 giorni Incubo liste d’attesa in Puglia. I nodi della sanità Cittadini spesso costretti a ricorrere ai privati. Gesmundo (Cgil): la Regione intervenga. Gianpaolo Balsamo su La Gazzetta del Mezzogiorno il 27 Luglio 2022.

Oltre tre mesi (99 giorni per la precisione) per una mammografia bilaterale da eseguire nella Asl di Foggia, oltre due mesi (74 giorni) per una Tac all’addome con e senza mezzo di contrasto se si decide di farla nella Asl della provincia BAT, 69 giorni per una colonscopia da eseguire nella Asl di Bari. Se poi si ha necessità di una Tac al cranio (esame diagnostico altrettanto urgente da eseguire entro 3 giorni), bisogna armarsi di pazienza perché il primo appuntamento utile è fra 21 giorni (nella Asl Foggia), 40 giorni a Bari e addirittura 71 nella BAT.

Sono solo alcuni esempi di liste d’attesa nella sanità pugliese: attese estenuanti che costringono i malati a rivolgersi, spesso, alle strutture private. Morale della favola: per curarsi i pugliesi sono chiamati a mettere mano sempre più al proprio portafogli. Il fenomeno è tristemente noto e i correttivi fino ad oggi applicati (o solo annunciati) hanno sortito quasi sempre scarsi effetti e, comunque, non certo percepiti dai cittadini come quel cambiamento atteso da anni.

La denuncia, l’ennesima di una lunga serie, arriva da parte del segretario generale della Cgil Puglia, Pino Gesmundo che oggi interverrà ad una tavola rotonda a Brindisi sulla «Sanità pubblica da ricostruire» alla quale saranno presenti, tra gli altri, anche l’assessore alla Salute della Regione Puglia, Rocco Palese e il direttore del Dipartimento regionale Promozione della salute, Vito Montanaro...

Paolo Russo per “la Stampa” l'8 agosto 2022.

Tra medici ammalati di Covid o di stress e organici ulteriormente ridotti dalle ferie, questa estate negli ospedali d'Italia saltano oltre 2 milioni di giornate di lavoro che ridurranno della metà le prestazioni erogate, andando così ad allungare ulteriormente le liste d'attesa, già gonfiate dalle due ondate di Omicron. Ha rilevarlo è un'indagine condotta per «La Stampa» dall'Anaao, il principale sindacato dei camici bianchi ospedalieri. 

Tanto per cominciare i dottori messi fuori combattimento dal virus sono più di quanto ci si potesse immaginare: nella settimana dal 21 al 28 luglio se ne sono contati 2.605, obbligati a tenersi lontani dal lavoro per almeno una settimana dalla diagnosi. «Se proiettiamo questo dato su un range di tempo mensile -si legge nello studio - arriviamo a una stima di 11.536 medici in malattia a luglio per almeno sette giorni (durata minima dell'isolamento).

Considerando che i medici dipendenti dal Ssn sono 114.142, significa che più di uno su 10 ha contratto il Covid durante questo periodo, mettendo in ginocchio, per la conseguente astensione dal lavoro, interi reparti già sotto organico. Costringendo a richiamare dalle ferie estive centinaia di colleghi per garantire ai cittadini i servizi essenziali, specie nel settore della emergenza-urgenza, producendo un turbinio di ordini di servizio per dirottare personale a coprire i buchi da un reparto all'altro».

Ad aggravare la situazione - e non di poco - ci sono poi le ferie estive. Già a maggio i dottori avevano accumulato ben 5 milioni di giornate di ferie arretrate. In media 50 giorni a medico, con uno su quattro che arriva a 80 giorni.  Siccome il contratto di lavoro prevede che nel periodo estivo spettino almeno 15 giorni di meritate vacanze, ecco che tra giugno e agosto si arriva a un milione 725 mila giornate di congedo, che si aggiungono alle 322 mila di malattia, per un totale di 2 milioni 47 mila giornate di lavoro saltate nel periodo estivo, che, secondo le stime dell'Anaao, equivalgono a un calo delle prestazioni stimato intorno al 50%, con picchi maggiori al Sud, dove le carenze di organico e letti sono ancora più marcate.

«Il maggiore impatto - spiega Pierino Di Silverio, da poco più di due mesi alla guida del sindacato - riguarda il percorso di diagnosi e cura delle patologie cardiovascolari ed oncologiche, per riconversione di reparti adibiti al ricovero dei pazienti da Covid-19, per la sospensione delle attività ambulatoriali su prenotazione e con il pressoché azzeramento dell'offerta clinica-chirurgica ordinaria. Inoltre, il totale utilizzo del personale sanitario, afferente ai servizi di igiene e sanità pubblica nel monitoraggio e gestione delle quarantene, ha azzerato l'organizzazione ed esecuzione degli screening oncologici per la diagnosi tumorale precoce».

Che è poi quanto dice anche l'European Cancer Organization, secondo il quale l'Italia subirà una «pandemia tumorale post-Covid» a causa delle decine di migliaia di mancate diagnosi tumorali precoci e degli interventi chirurgici e delle cure chemioterapiche saltati. «Infine - spiega ancora Di Silverio - il necessario recupero dell'attività diagnostica messa in seconda fila per il susseguirsi delle ondate epidemiche avrà come prima conseguenza un ulteriore aumento delle liste d'attesa, con importanti ripercussioni non solo sulla diagnosi e sul follow-up di malattie metaboliche, prime tra tutte il diabete mellito, ma soprattutto sulla gestione e monitoraggio dei pazienti geriatrici».

Anche perché, se questa estate gli ospedali vanno alla metà dei giri, per i pazienti «no-Covid» il motore è ancora più rallentato dal fatto che, nonostante il calo in atto, ancora oggi il 15% dei posti letto dei reparti di medicina è occupato da pazienti positivi al virus, che spesso per essere messi in isolamento finiscono per rendere inutilizzabili altri letti ancora. 

Per recuperare l'enorme massa di ricoveri, visite ed accertamenti salatati questa estate si dovrà chiedere un ulteriore sforzo ai camici bianchi, con il rischio di accentuarne stress e fuga dal Snn. Sempre secondo l'Anaao, dal 2019 al 2024 tra pensionamenti e auto-licenziamenti ci ritroveremo con 40 mila medici in meno. E quelli che restano sono sempre più stressati.

Una indagine dell'Istituto Piepoli, ad aprile, aveva registrato oltre 15 mila dottori con diagnosi certa di «burnout», una forma grave di esaurimento che nel campione preso in esame ha generato depressione nel 20,5% dei casi e stati d'ansia nel 25,8% dei nostri medici. «Siamo esausti e in numero insufficiente a garantire risposte alla domanda di salute dei cittadini. La situazione degli ospedali è senza precedenti, siamo arrivati a un punto di non ritorno», dichiara senza giri di parola Di Silverio.

Che preannuncia un autunno caldo per la Sanità, con scioperi nel bel mezzo di una probabile nuova ondata Covid, se il governo non accoglierà almeno le principali richieste della categoria: assumere personale a condizioni di lavoro e retributive più adeguate, aumentare i posti letto, stanziare ulteriori risorse per il nuovo contratto e consentire l'utilizzo degli specializzandi prima di quanto avvenga oggi.

(ANSA il 17 agosto 2022) - Durante il periodo di Ferragosto, i carabinieri del Nas, d'intesa con il ministero della Salute, hanno controllato 351 strutture - tra Rsa, case di riposo, comunità alloggio e case famiglia - individuandone 70 irregolari, pari al 20% degli obiettivi controllati, contestando 127 sanzioni penali e amministrative, per oltre 40 mila euro. 

Tra le violazioni più ricorrenti sono state rilevate carenze strutturali ed organizzative delle strutture come la presenza di un numero superiore di anziani rispetto alla capienza massima autorizzata, spesso collocati in ambienti eccessivamente ristretti e situazioni di minore assistenza delle persone ospitate, riconducibili a un numero ridotto di operatori per turno di servizio, in alcuni casi privi di adeguata qualifica e professionalità.

In un caso particolare, il Nas di Udine ha deferito all'Autorità giudiziaria una operatrice di una casa di riposo, responsabile di aver causato lesioni ad un 91enne dopo essergli rovinata addosso a causa delle sue condizioni psico-fisiche alterata dall'abuso di sostanze alcoliche. Anche le modalità di preparazione dei pasti per gli ospiti sono state oggetto di controllo, con casi eclatanti relativi a due Rsa provincia di Pavia, nelle cui cucine è stata riscontrata la presenza di animali infestanti e blatte. I carabinieri hanno proposto la sospensione nei confronti di 14 strutture con criticità strutturali, organizzative e di igiene, da attuarsi con contestuale trasferimento degli anziani presenti presso le famiglie di origine o altre strutture idonee presenti nel territorio.

Sanità in Lombardia: 7 mesi per un'ecografia, 5 per una visita. Le liste d'attesa extra-large e gli appuntamenti «fantasma». Sara Bettoni su Il Corriere della Sera il 9 Novembre 2022.

Il test sulle attese per visite ed esami: le prenotazioni sforano i tempi-limite. Il problema aggravato dalla carenza di personale: in Lombardia mancano 1.120 dirigenti medici e 1.521 infermieri

«Stiamo lavorando per dare risposte ai cittadini che, quando chiedono visite specialistiche, devono avere la garanzia di un appuntamento entro un determinato periodo di tempo». Con queste parole si è presentato Guido Bertolaso, neo assessore lombardo alla Sanità. Tema comune a tutta Italia, quello delle liste d’attesa troppo lunghe per un esame o un consulto medico. La Regione da tempo spiega di essere al lavoro per risolvere la questione. «Non sono altro che promesse a caccia di consenso», per il gruppo Pd al Pirellone. Qual è lo stato dell’arte? Al di là di statistiche e dati forniti dall’assessorato, quel che conta è l’esperienza diretta del cittadino. Spesso sconfortante. Il Corriere ha raccolto tre esperienze che dimostrano le attuali difficoltà nelle prenotazioni. 

Primo caso: una visita ginecologica con ecografia transvaginale. La priorità indicata è «p», ovvero programmata. Significa che il paziente deve trovare posto entro 120 giorni. Alla prova dei fatti, però, non è possibile. Almeno non a Milano. Attraverso la piattaforma regionale «PrenotaSalute» non si riesce ad avere nessuna opzione, neppure tra un anno. Il secondo tentativo è tramite il call center. Seguendo le istruzioni telefoniche si entra in contatto con un operatore. «C’è posto tra una settimana, ma a Codogno» è l’offerta. Alla richiesta di un appuntamento in città, i tempi si allungano. «Prima disponibilità il 24 marzo all’ospedale Buzzi». Con un’attesa di oltre cinque mesi (la prova è stata fatta il 17 ottobre, ndr).

Secondo caso: un’ecografia alla spalla destra e una radiografia della colonna vertebrale. Questa volta il tentativo di prenotazione passa solo attraverso la piattaforma online. La priorità è sempre «p», quindi con un limite di quattro mesi. La ricerca inizialmente sembra dare buoni frutti, con alcuni posti in città negli ambulatori di via Rugabella già in settimana. Al momento di cliccare sul bottone «prenota», però, ci si scontra con la realtà. Lunghi secondi di trepidazione e poi il messaggio della sconfitta: «Non sono stati trovati appuntamenti disponibili presso tale struttura». Segue un elenco di altre opzioni, più lontane nel tempo. La prima opportunità è alla Casa di cura San Pio X il 7 giugno 2023. Con un’attesa di sette mesi. Per la radiografia, invece, il sistema mostra uno studio privato, ma non è possibile prenotare direttamente dal portale. Tocca telefonare e sperare che davvero ci sia posto. La stessa struttura viene proposta anche per l’ecografia, ma contattata risponde che non ha neppure l’ecografo. 

Terzo caso, una visita urologica già fissata in un centro convenzionato per i primi di novembre. Il paziente però, come lui stesso ha raccontato nella pagina delle lettere del Corriere, con pochi giorni di anticipo viene avvisato che l’appuntamento è stato spostato a gennaio 2023 «causa mancanza di medici». La carenza di personale è uno degli ostacoli lungo il percorso di taglio delle attese in sanità. Proprio ieri in consiglio regionale il neo assessore Bertolaso ha reso noto il fabbisogno della Lombardia: mancano 1.120 dirigenti medici e 1.521 infermieri, di cui 58 infermieri di famiglia. A proposito del personale no vax che torna al lavoro con la fine dell’obbligo vaccinale (679 operatori), ha ribadito la linea già espressa lunedì: «Non avranno contatti nei reparti dove ci sono pazienti fragili». 

Tangenti sulle protesi dentali, un manager del laboratorio: l’oro fuso per pagare le tangenti ai medici. Luigi Ferrarella su Il Corriere della Sera l’8 Novembre 2022.

Presunte mazzette su protesi e apparecchi dentali dai costi appositamente «gonfiati» e scaricati sul Servizio sanitario nazionale. Al centro delle indagini l'ex legale rappresentante della Wisil Latoor, società leader nel settore dei laboratori per le protesi, Roberta Rosaria Miccichè

Già si era appreso che non è agevole conservare i soldi per le mazzette, al punto da doverle celare in un mappamondo sul tavolo d’ufficio, ma adesso tocca prendere atto che nemmeno facile sia il mestiere del pagare tangenti: al punto da dover recuperare l’oro nelle protesi dentali per rivenderlo e così ricavare il contante in nero da dare ai destinatari delle tangenti. Può sembrare curioso, ma sembra un lavoraccio pure questo, stando alla parabola giudiziaria (almeno per come si sta dipanando negli interrogatori) di Roberta Rosaria Miccichè, la ex legale rappresentante della Wisil Latoor, società leader nel settore dei laboratori per le protesi, commissariata lo scorso giugno quando l’imprenditrice fu posta agli arresti domiciliari dal gip Carlo Ottone De Marchi in una inchiesta del pm Paolo Storari su presunte mazzette su protesi e apparecchi dentali dai costi appositamente «gonfiati» e scaricati sul Servizio sanitario nazionale. 

Dalle indagini era infatti emerso che, quando prescrivevano a un loro assistito un qualche tipo di impianto, taluni dentisti «sovraccaricavano» la ricetta di prospettati interventi tecnici (e dei relativi costi) in realtà poi non eseguiti perché non necessari o pertinenti al caso, ma poi spartivano a metà, con il laboratorio dei materiali «in più», appunto il prezzo di quel «di più» (dal 5 al 10 per cento) lucrato in questo modo. Ed è quindi come se il laboratorio tecnico, per indurre il medico a prescrivere questi «extra», gli avesse pagato appunto una tangente, ma rifacendosi poi in realtà sul portafoglio stesso dell’ignaro paziente, ovviamente non in grado di capire gli aspetti tecnici dell’impianto che gli veniva proposto, e quindi in ultima analisi sul truffato Servizio sanitario nazionale che ne rimborsava i costi. 

Già, ma come pagare la tangente ai dentisti? Come trovare continuamente i contanti necessari? Uno dei manager della società ai domiciliari, Maurizio Cosentino, lo racconta pochi giorni fa in un interrogatorio (depositato al Tribunale del Riesame) sulla «particolare insistenza» di alcuni dei dentisti nel «pretendere una percentuale pari al 10% per dare lavoro alla Wisil Latoor di Miccichè prescrivendo le protesi nell’ambito di strutture pubbliche «Ricordo — spiega Cosentino difeso dall’avvocato Alessia Pontenani — che una volta io e una dipendente, su incarico di Miccichè, siamo andati in una azienda di Pero a vendere dell’oro». Oro? «Questo oro era composto da gioielli della Miccichè», ma anche da «residui di lavorazione dell’oro, polvere di oro, scarti di oro, e dischi per corone stampate». Addirittura «tra questo materiale in oro ricordo c’era anche un ponte del defunto marito» di Miccichè, «l’oro è stato fuso,e dalla azienda di Pero in cambio «ci è stata corrisposta una somma di 22mila euro che abbiamo consegnato ovviamente a Miccichè»: 12-13 mila usati per pagare uno dei dentisti, e «il rimanente messo dentro una fotocopiatrice e poi nel mappamondo», ormai mitologico nascondiglio appunto per tenere un po’ di denaro di scorta da usare in altre bustarelle.

Maltrattamenti e violenza sessuale in Rsa nel Foggiano: arrestati 4 operatori socio-sanitari. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 3 Agosto 2022. 

L'indagine è cominciata a giugno quando è giunta alla Polizia una lettera anonima. All'interno l'ordinanza dell' Autorità Giudiziaria con tutti i nomi degli arrestati ed il video della POLIZIA DI STATO

Quattro operatori socio-sanitari sono stati arrestati e posti ai domiciliari dalla Squadra Mobile di Foggia della Polizia di Stato, accusati di maltrattamenti e violenza sessuale ai danni di alcuni pazienti ricoverati nella Rsa “Stella Maris”  di Manfredonia (Foggia) gestita dalla Cooperativa SantaChiara della quale è presidente la dott.ssa Annamaria D’Ippolito mentre l’area amministrativa è diretta dall’Amministratore Delegato avv. Michele La Torre. Uno degli indagati in particolare Antonio Vero, 42 anni, è “gravemente indiziato anche di aver compiuto delle violenze sessuali nei confronti di due degenti” come reso noto da un comunicato diffuso dalla Questura di Foggia . Ai domiciliari sono finiti anche  Domenico Nuzziello di 31 anni, Mariano Paganini di 25 anni e Michele Salcuni di 37 anni. 

Gli operatori socio-sanitari Antonio Vero sono stati arrestati e posti ai domiciliari su ordinanza del Gip dr.ssa Roberta di Maria in quanto “avrebbero maltrattato e in casi anche abusato sessualmente di alcuni pazienti della Rsa “Stella Maris” . Uno degli indagati è gravemente indiziato anche di aver compiuto delle violenze sessuali ai danni di un uomo e di una donna ultra 80enni.

Incredibilmente nelle pagine pubblicitaria sul web, la RSA Stella Maris si presenta con queste affermazioni ingannevoli: “La nostra struttura accoglie anziani che, per ragioni di salute o per motivi famigliari, non possono più risiedere presso il proprio domicilio. La nostra residenza si prende cura dei suoi ospiti non solo erogando loro servizi di tipo sanitario e socio-assistenziale , ma anche rendendo piacevole il loro soggiorno in RSA da un punto di vista umano, conferendo centrale importanza alla relazione che può instaurarsi tanto nel gruppo dei pazienti, quanto tra i pazienti e il personale che opera all’interno della casa di riposo“

L’indagine è cominciata a giugno quando è giunta alla Polizia una lettera anonima nella quale sono stati narrati presunti episodi di maltrattamenti fatti da alcuni operatori socio-sanitari ai danni di alcuni pazienti ricoverati nella Rsa. All’interno della busta vi era anche una chiavetta Usb contenente un file audio video sul quale erano state registrate le urla di un’anziana.

Al fine di riscontrare quanto informalmente appreso, i poliziotti della Mobile, diretta dal dr. Mario Grassia hanno provveduto ad installare diverse cimici e telecamere all’interno della struttura. Già dopo pochi giorni dall’attivazione hanno permesso di registrare numerosi e reiterati abusi, fisici e psicologici, da parte degli operatori a danno di pazienti in età avanzata con patologie altamente invalidanti. 

La Gip di Maria nella sua ordinanza che gli odierni indagati evidenzia che gli indagati hanno posto in essere condotte “prevaricatrici ed inutilmente punitive” ispirate “a mera volontà denigratoria ovvero da un irrazionale intento di ricondurre a contegni di autocontrollo e disciplina soggetti del tutto incapaci, a causa del loro stato fisico e mentale”. 

Abbiamo contattato telefonicamente la struttura “Stella Maris” , dove siamo stati dirottati alla Cooperativa S. Chiara (sede operativa in via Feudo della Paglia 4/6 in Manfredonia, tel, 0884-275663, dove non forniscono informazioni e chi risponde chiude il telefono in faccia ! Mentre la sede legale indicata nel loro sito, ha un numero telefonico inesistente !

AGGIORNAMENTO. In serata Michele Vaira, legale rappresentante della Rsa “Stella Maris” di Manfredonia (Foggia), ha dichiarato all’ANSA: “La proprietà e la direzione della Stella Maris non hanno alcuna responsabilità e risultano danneggiate dalle condotte dei dipendenti, che saranno immediatamente sottoposti a sospensione cautelare“. Qualcuno gli spieghi che esiste la responsabilità oggettiva del datore di lavoro sulle responsabilità penali dei loro dipendenti, nell’esercizio delle proprie funzioni lavorative.

Ospedali del Nord, i migliori con i medici del Sud. I «cervelli in fuga» da un «sistema» rimasto legato a «cancrene» che non vorremmo più vedere, ma che evidentemente resiste. Roberto Calpista su La Gazzetta del Mezzogiorno il 22 Settembre 2022.

C’è un mistero tutto italiano che riguarda la sanità. Uno dei tanti senza una spiegazione. O meglio un filo, pur «illogico», ci sarebbe, ma spiegarlo urterebbe molte sensibilità. Il mistero riguarda fatti più o meno noti, ma che in questi giorni sono nero su bianco con la classifica di «Newsweek» sui migliori ospedali specialistici del mondo per il 2023 e che segue di pochi mesi quella globale riferita all’anno 2022. Le migliori strutture sanitarie sono tutte nel Nord, al massimo Centro Italia, ma si tratta di reparti spesso pieni di medici che arrivano dal Sud. I «cervelli in fuga» da un «sistema» rimasto legato a «cancrene» che non vorremmo più vedere, ma che evidentemente resiste.

Prendiamo l’esempio della Urologia di Padova, diretta dal prof. Fabrizio Del Moro. Nell’équipe ci sono Arturo Calpista, primo aiuto, nato a Bari; Giulio Balta di Foggia e Manuela Ingrosso di Taranto. Ebbene, «Newsweek» certifica che si tratta della migliore Urologia d’Italia e della 27ª a livello mondiale. Per realizzare la graduatoria si è fatto ricorso a tre differenti fonti di dati: le risposte ad un questionario sottoposto ad oltre 80mila esperti (medici, dirigenti ospedalieri, operatori sanitari), i dati pubblicamente disponibili sull’esperienza dei pazienti, e i «Kpi», ovvero gli indicatori chiave di performance di prestazione medica dei singoli ospedali. In seguito i punteggi di ogni ospedale sono stati calcolati attraverso la ponderazione di ciascuna di queste tre categorie: peer recommendation (50% nazionale, 5% internazionale), patient experience (15%), medical Kpi (30%). Le graduatorie preliminari così ottenute sono state poi inviate a una rete internazionale di giornalisti specializzati in medicina al fine di avere un controllo di plausibilità. In seguito un consesso composto dai massimi esperti ha convalidato il tutto.

Anche altri reparti specialistici risultano nella classifica, ma nessuno si trova sotto la linea di Roma. Per esempio l’Irccs Ortopedico Rizzoli di Bologna è quinto a livello globale e secondo in Europa. Tra i centri pediatrici , il primo in Italia è il «Bambin Gesù» di Roma, 12° al mondo; in Gastroenterologia il Policlinico universitario Agostino Gemelli di Roma (8°), in Neurologia la Fondazione Irccs Istituto neurologico Carlo Besta di Milano (11° posto e 21° per la Neurochirurgia). In Oncologia spiccano l’Ieo-Istituto europeo di oncologia e l’Istituto nazionale dei Tumori, entrambi a Milano (rispettivamente 12° e 17°), in Endocrinologia il San Raffaele - Gruppo San Donato di Milano (16° posto).

Per la qualità complessiva degli ospedali, invece, i dati al momento disponibili sono quelli del «World’s Best Hospitals 2022». E anche qui la linea rossa è all’altezza della Capitale. Tutto quel che c’è sotto finisce in coda alla classifica che è dominata, sul podio, da strutture «made in Usa»: in terza posizione c’è il Massachusetts General Hospital di Boston, in seconda posizione il Cleveland Clinic di Cleveland e al vertice, premiato come miglior ospedale al mondo da «Newsweek», il Mayo Clinic di Rochester. Completano la «top 5» il Toronto General – University Health Network di Toronto (al quarto posto) e il Charité – Universitätsmedizin Berlin di Berlinio (al 5° posto a livello mondiale, ma primo in Europa).

Per trovare il primo italiano bisogna scendere fino alla 37ª posizione. Sono ben 16, però, gli ospedali della Penisola nella top 250. Dove? A Roma, Milano, Bologna, Rozzano, Padova, Verona, Pavia, Bergamo, Reggio Emilia, Torino, Brescia, Firenze, Parma, Negrar (Verona). In Puglia se la gioca solo la «Casa Sollievo della Sofferenza» di San Giovanni Rotondo (29ª). Anche il Policlinico di Bari, non se la cava malissimo, con la 35ª posizione sulle 112 nazionali, ma è lontanissimo dai livelli europei e mondiali. Il «Perrino» di Brindisi è al 64° posto; al 72° il San Paolo di Bari; all’86° il «Vito Fazzi» di Lecce.

C’è un mistero nella sanità italiana che tanto mistero non è. L’articolo 32 della nostra Costituzione pone la salute come diritto fondamentale di ogni individuo e come interesse della collettività e garantisce cure gratuite agli indigenti. Per ora al Nord è un diritto, al Sud una speranza.

Giuseppe Scarpa per repubblica.it il 25 ottobre 2022.

"Non sento più mani e piedi". Si sveglia, sta male. Non riesce a muoversi. Chiede aiuto alla sorella più piccola, Rebecca. Paula Onofrei, 29 anni, una cameriera di un ristorante di Trastevere è in condizione critiche. Ma l'ambulanza non arriva nonostante Rebecca telefona per ben quattro volte al 118 dalle 13.03 alle 15.29. Quando i sanitari arrivano, dopo due ore e 37 minuti, alle 15.40 del 22 luglio, non c'è più niente da fare. La 29enne è in agonia. 

La notte del 22 luglio è rientrata a casa, quartiere Casalotti, prima di concludere il turno di lavoro. Sta male. Rebecca è spaventata chiama una prima volta il 118 alle 13.03. Spiega che Paula è "senza forze". Precisa che la notte precedente era andata al pronto soccorso e le avevano detto che, forse, aveva una colite. La 29enne non ha una colite. Sta lentamente morendo nel letto della sua camera. 

L'intera vicenda, fino al tragico epilogo, è riassunta in una dettagliata denuncia. Rebecca telefona al numero delle emergenze altre tre volte, alle 14.13, alle 14.57 e alle 15.29. È allarmata. La condizione della 29enne precipita, intuisce che è grave ma non si sente nessuna sirena all'orizzonte. Le sue chiamate, insistenti, si rivelano inutili anche se sono una sorta di bollettino di guerra. Ogni telefonata all'operatore aggiunge dettagli tragici: "non ha più sensibilità alla lingua", spiega alle 14.13. L'operatore risponde: "manderemo un'ambulanza". Alle 14.57 nessun medico ha bussato alla porta dell'appartamento 

Allora la sorella della vittima impugna di nuovo lo smartphone: "Scusate è la terza volta che chiamo, mia sorella sta peggiorando. Ora non vede più e ha il corpo viola". L'operatore chiede a Rebecca se Paula ha la lingua bianca: "Sì, ha la lingua bianca". A questo punto la telefonata viene trasferita ad un’altra persona apparentemente più esperta, che chiede: "Dimme un po' che succede? Che sta a succede a sta ragazza?". La sorella spiega tutto dal principio. Ma niente, non arriva nessuno.

Alle 15.29, per la quarta volta, Rebecca telefona al 118. Questa volta urla: "Sono due ore e mezzo che aspetto, mia sorella sta peggiorando che cavolo fate?". Quando i sanitari arrivano alle 15.40, due ore e 37 minuti dopo la prima telefonata, Paula è in fin di vita. Tentano di rianimarla nella sua camera ma non ci riescono.

La squadra è convinta che la ragazza sia in overdose. La sorella spiega che Paula non ha mai assunto droghe. La giovane muore alle 17.14 per uno shock settico causato da ulcera duodenale perforata, stabilirà successivamente la relazione del medico legale. La famiglia ha presentato una denuncia con il penalista Aurelio Padovani. "Attendiamo con fiducia l'esito delle indagini perché, al momento, ci sono tanti sospetti e nessuna certezza" spiegano gli avvocati Padovani, Lina Monaco e Sara De Vincenzi.

"Ha il corpo viola". Ma l'ambulanza arriva dopo ore: così è morta Paula. Una giovane è morta di ulcera perforata dopo essersi sentita male. L'ambulanza è arrivata dopo oltre due ore e mezza e per la donna non vi era ormai più nulla da fare. Valentina Dardari il 24 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Una giovane è morta di ulcera perforata dopo essersi sentita male. L'ambulanza è arrivata in ritardo, dopo oltre due ore e mezza, e per la donna non vi era ormai più nulla da fare. I familiari hanno sporto denuncia. Secondo quanto riportato da Repubblica, Paula, una giovane cameriera di Trastevere, quando si è svegliata non stava bene, era in condizioni critiche, e per questo motivo aveva chiesto aiuto alla sorella Rebecca.

Il ritorno a casa dal lavoro

La ragazza, che lavorava come cameriera, la notte precedente aveva terminato il turno di lavoro in anticipo e aveva fatto ritorno nella sua abitazione prima del solito, proprio perché non si sentiva bene. A quel punto la sorella ha quindi telefonato al 118 per la prima volta nel primo pomeriggio del 23 luglio, alle 13,03, perché Paula"non sente più mani e piedi". Non arrivando i soccorsi, Rebecca ha più volte sollecitato l'intervento dell'ambulanza, esattamente una seconda chiamata è stata fatta alle 14,13, poi alle 14,57, e infine alle 15,29.

Rebecca era molto preoccupata per le condizioni di Paula perché si rendeva conto che ormai la situazione stava precipitando e che la sorella aveva assolutamente bisogno di un medico. Un medico che però continua a non arrivare: nonostante le molteplici telefonate al 118 non arriva l'ambulanza e le condizioni di Paula si fanno sempre più critiche e disperate. La prima volta Rebecca aveva spiegato che la sorella "non ha più sensibilità alla lingua", in seguito che "non ci vede più" e l'ultima volta che "ha il corpo viola".

Il ritardo dell'ambulanza

Il personale sanitario arriva alle 15.40, ben due ore e 37 minuti dopo la prima chiamata effettuata da Rebecca. Paula è ormai agonizzante e ogni tentativo di rianimarla a casa risulta vano. I medici sono convinti che la ragazza sia in overdose, nonostante la sorella continui ad affermare che Paula nella sua vita non ha mai assunto droghe. Il cuore della ragazza ha smesso di battere alle 17.14 a causa di uno shock settico dovuto a un'ulcera duodenale perforata. I familiari della donna hanno deciso in seguito di presentare una denuncia rivolgendosi all'avvocato penalista Aurelio Padovano. "Noi attendiamo con fiducia l'esito delle indagini perché, al momento, ci sono tanti sospetti e nessuna certezza", hanno commentato i legali della famiglia, gli avvocati Padovano, Lina Monaco e Sara De Vincenzi.

Matera, entra in ospedale da infartuato: prende due polmoniti e la candida. La denuncia del figlio. Altro caso: neonato morto, 18 indagati. Massimo Brancati su La Gazzetta del Mezzogiorno il 24 Ottobre 2022.

Entra in ospedale dopo un infarto. Qui si becca due polmoniti batteriche e una candida prima di passare a miglior vita. Il caso è al centro di una denuncia-querela presentata ai carabinieri di Matera dal figlio, l’avvocato Giuseppe Lamastra. La richiesta: fare luce sull’accaduto all’ospedale Madonna delle Grazie della città dei Sassi lo scorso mese di marzo quando Domenico Lamastra, medico in pensione, ha messo piede all’Utic del nosocomio prima di essere trasferito nel reparto di Cardiologia.

Nell’esposto si nutrono dubbi sull’igiene dell’ospedale: «La stanza in Cardiologia - scrive l’avvocato - è apparsa sin da subito sporca. Alcuni cambi o pezzi di flebo e siringhe, rimasti sul pavimento per giorni sono stati buttati da me e mia madre nel cestino...

Vi racconto le mie dieci ore al pronto soccorso di Matera. Ambulanze, file e ansia. La cronaca di una giornata particolare che sembra la regola e non l'eccezione. PIERO QUARTO su Il Quotidiano del Sud il 24 Ottobre 2022.

Una giornata da incubo al Pronto Soccorso di Matera. Guai a doverci andare anche perché l’unica certezza è una fila di ore che dalla mattina ti fa arrivare fino alla sera. E non solo se sei, come mi è capitato qualche giorno fa, un semplice codice verde ma anche per coloro che arrivano allettati e si trovano a doversi fermare in attesa di essere chiamati per almeno quattro-cinque o sei ore.

Un problema strutturale che emerge soprattutto quando si combinano alcuni fattori che riguardano soprattutto l’arrivo di urgenze che richiedono un controllo immediato. Codici che diventano inevitabilmente priorità. E’ vero come ho sentito spiegare nelle lunghe ore di attesa che è normale attendere e che in altre realtà più grandi come Roma o Milano l’attesa è anche più lunga fin quasi alle 24 ore. Ma di certo non è questa una condizione accettabile perché si presume che chi arriva in pronto soccorso nella stragrande maggioranza dei casi abbia un’urgenza. Una necessità.

Invece ancora una volta si mostra la carenza numerica e innanzitutto di personale della sanità materana che deve fare i conti con situazioni risicate e limitate e districarsi con difficoltà in una giornata da tregenda nella quale le ambulanze soprattutto tra le 14 e le 18 arrivano con una continuità impressionante sfornando pazienti quasi tutti allettati a distanza di pochi minuti l’uno dall’altro. Molti dei quali urgenti che si aggiungono a quelli che pure si trovano in barella in attesa sin dalla tarda mattinata e che solo in serata tra le 18 e le 20 e non prima cominceranno a essere visitati ed ascoltati.

Una situazione poco dignitosa in una realtà che dovrebbe fare dell’attenzione e del rispetto umano dei pazienti una priorità. In realtà probabilmente neanche un caso isolato o una giornata sfortunata nella quale ci siamo imbattuti per caso.

Quello che abbiamo visto aveva più che altro l’aria di una regola vera e propria che in base poi ad una serie di circostanze variabili poteva essere più o meno gestibile ma certamente una situazione complessa. Come quella che vede decine di pazienti in attesa nel cuore di una giornata e solo due medici in servizio.

Le ambulanze, almeno tre, sono arrivate nel corso del pomeriggio in cui erano di turno sempre gli stessi operatori per non meno di tre volte ciascuna portando con sé pazienti spesso di età molto avanzata che soffrivano e non poco anche solo a dover attendere il proprio turno in fila al pronto soccorso. Lamentandosi in maniera evidente, magari dopo essere casualmente caduti ma di fatto costretti a rimanere in attesa per ore. Soffrendo più o meno in silenzio. La bagarre all’accettazione è pressocché totale. E si rincorrono nuovi arrivi con il citofono che suona in continuazione e senza sosta.

“Siamo state costrette a prendere tutte le barelle dall’area grigia, non sapevamo più come fare. Adesso la situazione si è tranquillizzata ma fino a poche ore fa è arrivato l’impossibile” si ascolta dire quasi all’imbocco serale del cambio turno. Quasi a salutare una situazione tornata nell’ambito della pseudo-normalità dopo ore di autentico pienone in cui i pochi operatori disponibili non sapevano nemmeno come dividersi. Non si riusciva a far scorrere ulteriormente la fila, i pazienti in arrivo richiedevano attenzione ed erano emergenze che si aggiungevano alle emergenze.

Basti pensare che arrivato poco prima delle 13 con un paio di barelle davanti a me già in attesa, mi ritrovo verso le 18 che mi dicono che ci sono ancora cinque codici blu prima di poter procedere con un codice verde come il mio che pure è lì in attesa da cinque ore. Poco prima delle venti i codici blu sono diventati sette e io continuo ad attendere un turno che forse non arriverà più. Evidentemente con momenti anche di tensione a cui si assiste inevitabilmente.

Poco prima delle 18 un signore che probabilmente arriva dalla provincia chiede quando verrà il suo turno perché è lì che aspetta dalle 12 meno un quarto. Entrerà dopo una mezzora e circa sei ore di attesa e dopo aver sottolineato con forza la propria indignazione all’incolpevole operatore. Con la moglie che tenta a stento di tranquillizzarlo senza riuscirci. Momenti di ordinaria preoccupazione che non riguarda solo la salute e il motivo per il quale si è in pronto soccorso ma anche lo stress che inevitabilmente produce una lunga attesa.

La colpa? Probabilmente non è dei medici e degli infermieri, certamente non è dei pazienti e dei loro familiari ma evidenzia un sistema malato che non può essere considerato accettabile in quel modo. Che nessuno dica niente, che nessuno alzi la voce per quel caos ordinario a cui si assiste non è normale. Ed anche per questo oggi è necessario mettere in rilievo quello che succede. E che non può e non deve succedere. È contrario al senso stesso di un servizio d’urgenza che riguarda la salute.

Riesco ad uscire dal pronto soccorso intorno alle 22 al termine di circa nove ore di lunga attesa in cui mi dicono sostanzialmente che non ho bisogno di punti. Una benedizione o anche una beffa in base al punto di vista perché probabilmente quello che mi hanno detto alle 22 potevano dirmelo un po’ prima. Se solo ci fosse stato qualcuno che avesse avuto 5 minuti 5 per farlo. Esco con la consapevolezza amara ma concreta che nel pronto soccorso di Matera non bisogna mai finirci. Non solo per l’ovvio motivo che è meglio non aver mai problemi di salute ma anche perché non sai assolutamente in cosa puoi imbatterti.

Ore di attesa, nervosismo, preoccupazione, medici e infermieri rimbalzati da una parte all’altra, stress all’ordine del giorno e condizioni che sembrano lasciar spazio evidentemente anche all’impensabile o all’imponderabile. Insomma meglio non esserci e non trovarsi in quel marasma. L’amara morale della favola è che vien voglia di dire: “la prossima volta se ho bisogno resto a casa” ed è una morale inaccettabile. Non degna di un paese civile. Ma è la sensazione e il sentimento di chiunque si imbatta in nel pronto soccorso di Matera.

Manduria, allarme sanità: pronto soccorso in crisi. Mancano i medici e spesso si creano situazioni intollerabili.  Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 22 Settembre 2022.

È allarme nel pronto soccorso di Manduria: mancano i medici e spesso si creano situazioni intollerabili. Come quella avvenuta ieri nel nosocomio del Tarantino, dove l'unico medico in servizio, alle 16,30, ha dovuto abbandonare il posto per accompagnare un paziente in ambulanza a Taranto. A metterci una pezza ci ha pensato il direttore del servizio, che ha preso lui il posto del collega assente. Ma nel frattempo, per un'ora e mezza, il pronto soccorso è rimasto senza medico e coi pazienti in attesa.

Assenza di medici nel Pronto Soccorso di Manduria nella serata di ieri: la nota della Asl di Taranto. Manduria Oggi il 23/09/22. «Presso il Pronto Soccorso non si è venuta a creare nessuna interruzione della presenza medica e nessun disagio per l'utenza» In relazione alla notizia diffuse circa la presunta assenza di medici, per oltre un’ora, presso il Pronto Soccorso di Manduria nel pomeriggio di ieri, 21 settembre, la Asl interviene con un comunicato che vi proponiamo. «Ieri, 21 settembre, alle ore 11.25 è giunto in codice rosso presso il Pronto Soccorso dell’ospedale di Manduria, con ambulanza del 118, il sig. D. V. di anni 88, paziente iperteso in terapia con anticoagulante, per trauma cranico, riferito episodio lipotimico, avvenuto a domicilio, ed ematoma all’occhio destro.

Il paziente si presentava in stato soporoso ed afasico ed è stato subito sottoposto ad indagini ematochimiche, elettrocardiogramma e Tac del cranio che è stata refertata alle 13.15. Alle ore 15.55 è stata effettuata la consulenza anestesiologica, con indicazione al ricovero in ambiente specialistico e trasferimento con accompagnamento da parte del medico di Pronto Soccorso. Il dott. Caragli, medico in servizio in turno 14-20, prende contatti con la Neurochirurgia del “SS. Annunziata” di Taranto e organizza la partenza con ambulanza dell’ospedale, informando telefonicamente il suo direttore, dott. Francesco Turco, intorno alle ore 17 e il direttore medico del Presidio Irene Pandiani. Quest'ultima autorizza la partenza del medico del Pronto Soccorso, dopo aver disposto che, contestualmente, il medico della Chirurgia, dott. Petracca, garantisse la presenza in Pronto Soccorso, come previsto dalle indicazioni e regolamenti regionali. Si precisa che in reparto, l’assistenza veniva garantita dall’altro medico in servizio, dott.ssa Villani. Il dott. Petracca, si recava immediatamente al Pronto Soccorso, dove, tra l’altro, in quel momento era presente un altro medico del Pronto Soccorso, il dott. Dimonopoli, che si era dimostrato disponibile ad assicurare la presenza medica durante l’assenza del dott. Caragli. Intorno alle ore 18 è arrivato al Pronto Soccorso il dott. Francesco Turco. Pertanto, presso il Pronto Soccorso non si è venuta a creare nessuna interruzione della presenza medica e nessun disagio per l'utenza, in quanto l'attività è proseguita con continuità, essendo presenti due medici (dott. Petracca e dott. Dimonopoli) nella fascia oraria dalle 17 alle 18».

Il pronto soccorso del Giannuzzi per un'ora senza medico. La Redazione di La Voce di Manduria il 22 settembre 2022.

Pronto Soccorso sì, ma senza medico! Ha davvero dell’incredibile quanto si è verificato ieri pomeriggio nella struttura ospedaliera del Marianna Giannuzzi di Manduria, dove in qual pronto soccorso c’erano ben 18 pazienti in attesa di essere visitati, tra i quali anche due in codice arancione. Ma per un’ora e mezza circa, il servizio è rimasto priva dell’unico medico di turno, costretto ad assentarsi per assistere in ambulanza il trasferimento di un paziente in emergenza a Taranto.

A questo punto nel P.S. di Manduria ci si guardava in faccia per capire come risolvere la questione, mentre i pazienti in attesa, accortisi di quanto stava avvenendo, hanno iniziato a fare commenti oltre che chiedere spiegazioni al personale infermieristico a cui il servizio era affidato.

Nel frattempo, non essendo stato possibile rintracciare un medico reperibile, si è dovuto far capo al direttore del pronto soccorso, dottor Francesco Turco che, malgrado non fosse in servizio e tanto meno reperibile, ha tamponato la carenza assicurando il servizio.

Ma un fatto analogo di assenza di mancanza del medico di turno si è verificata giorni fa quando ad accompagnare un paziente con una grave emorragia a Taranto, in ambulanza c’era solo un infermiere. Una situazione davvero assurda quella di un pronto soccorso che deve far fronte ad una ampia utenza proveniente non solo da tutta la fascia orientale jonica ma anche da centri delle vicine  province.

Insomma, la carenza di medici al Gianuzzi è ormai cronicizzata, tant’è che come ieri per tutta l’estate c’è stato in servizio solo un medico per ogni turno. Talvolta risulta che per poter far fronte al gran numero di accessi si è dovuto ricorrere a medici di altri reparti che, a loro volta, sono rimasti momentaneamente senza assistenza. Insomma, una specie di coperta corta quella del personale medico al Giannuzzi, ospedale che negli ultimi decenni ha registrato un declino con scelte, più volte contestate di abolizione di interi reparti e servizi, con i manduriani che hanno invece dovuto fare da spettatori a inaugurazione di nuove strutture in altri nosocomi della provincia jonica. Visto quanto è avvenuto ieri al P.S. c’è da chiedersi se sia logico e giusto pretendere di mantenere in  piedi una struttura del genere con un solo medico per turno.  Gianluca Ceresio

Se ne va l'unico medico in servizio, pazienti in attesa al pronto soccorso. Gianluca CERESIO su Il Quotidiano di Puglia Giovedì 22 Settembre 2022,

L’episodio che si è verificato ieri all’ospedale Giannuzzi di Manduria ha davvero dell’incredibile e ha creato rabbia e indignazione tra coloro che sono stati costretti ad attendere per essere sottoposti a visita medica. Infatti, alle 16.45 l’unico medico in servizio presso il pronto soccorso, a seguito di un’urgenza, ha dovuto assentarsi per assistere un paziente in ambulanza trasportato a Taranto. Da quanto rilevato non era disponibile neppure un medico reperibile, per cui, per sopperire a tale carenza, non si è potuto fare altro che avvertire il direttore del Pronto Soccorso, dottor Francesco Turco, il quale, con alto senso di responsabilità, malgrado non fosse in servizio né reperibile, si è recato ugualmente in ospedale per assistere i pazienti, dove è giunto alle 18.

L'episodio

Per un’ora e un quarto il pronto soccorso è rimasto privo del medico di turno, eccetto, in caso di emergenza, cercando di coprire l’intervento con il supporto di un medico che, nel frattempo, ha dovuto lasciare il proprio reparto rimasto sguarnito per coprire momentaneamente la carenza al pronto soccorso. 

Una specie di tappabuchi che di tanto in tanto si ripete. Intanto, è innegabile che ieri pomeriggio, dalle 16.45 alle 18 si è rimasti senza medico, e nella struttura del pronto soccorso c’erano 18 pazienti in carico, tra cui 2 codici arancioni e 7 in sala d’attesa con varie patologie. Una situazione che ha dell’incredibile in un sistema sanitario che, da quanto si verifica quotidianamente, spesso non tiene conto delle esigenze territoriali, dovendo effettuare tagli dovuti alla spesa sanitaria per ciascuna regione. Quello di ieri, è un caso emblematico ma, è bene ricordare che per tutta l’estate al pronto soccorso di Manduria c’era quasi sempre un solo medico in servizio, malgrado sia noto da sempre che, proprio nella stagione estiva, l’utenza che fa capo al Giannuzzi si dilata notevolmente, con l’aggiunta di oltre 100mila persone che stazionano sulla costa orientale jonica ed hanno come punto di riferimento la struttura di Manduria. Il progressivo ridimensionamento del personale ha portato un sovraccarico di lavoro sulle strutture di pronto soccorso e i pochi medici che hanno in carico il servizio sono costretti talvolta a straordinari forzati pur di coprire i turni. I professionisti vengono sottoposti a uno stress psico- fisico tale da poter compromettere la propria salute e di riflesso la qualità del servizio reso ai pazienti. Per la carenza di medici ne sono stati ingaggiati provvisoriamente alcuni dall’Albania: per un certo periodo hanno operato presso il Giannuzzi ma poi non è stato reso noto il perché non siano rimasti in tale struttura.

Le precisazioni dell'Asl

“Ieri, 21 settembre, alle ore 11.25 è giunto in codice rosso presso il Pronto Soccorso dell’ospedale di Manduria, con ambulanza del 118, il sig. D.V. di anni 88, paziente iperteso in terapia con anticoagulante, per trauma cranico, riferito episodio lipotimico, avvenuto a domicilio, ed ematoma all’occhio destro - spiega in una nota l'Asl - Il paziente si presentava in stato soporoso ed afasico, ed è stato subito sottoposto ad indagini ematochimiche, elettrocardiogramma e Tac del cranio che è stata refertata alle 13.15. Alle ore 15.55 è stata effettuata la consulenza anestesiologica, con indicazione al ricovero in ambiente specialistico e trasferimento con accompagnamento da parte del medico di Pronto Soccorso. Il dott. Caragli, medico in servizio in turno 14.00-20.00, prende contatti con la Neurochirurgia del “SS. Annunziata” di Taranto e organizza la partenza con ambulanza dell’Ospedale, informando telefonicamente il suo Direttore, dott. Francesco Turco, intorno alle ore 17.00 e il Direttore Medico del Presidio, dott.ssa Irene Pandiani. Quest'ultima autorizza la partenza del medico del Pronto Soccorso, dopo aver disposto che, contestualmente, il medico della Chirurgia, dott. Petracca, garantisse la presenza in Pronto Soccorso, come previsto dalle indicazioni e regolamenti regionali".

L'Asl precisa che in reparto, l’assistenza veniva garantita dall’altro medico in servizio, dott.ssa Villani. "Il dott. Petracca, si recava immediatamente al Pronto Soccorso, dove tra l’altro in quel momento era presente un altro medico del Pronto Soccorso, il dott. Dimonopoli, che si era dimostrato disponibile ad assicurare la presenza medica durante l’assenza del dott. Caragli. Intorno alle ore 18.00 è arrivato al Pronto Soccorso il dott. Francesco Turco. Pertanto, presso il Pronto Soccorso non si è venuta a creare nessuna interruzione della presenza medica e nessun disagio per l'utenza, in quanto l'attività è proseguita con continuità, essendo presenti due medici (dott. Petracca e dott. Dimonopoli) nella fascia oraria dalle 17.00 alle 18.00”.

La notte scorsa per un trasferimento a Taranto con il medico di turno. Di nuovo il pronto soccorso senza medici, la storia si ripete. La Redazione de La Voce di Manduria il 30 novembre 2022.

Un episodio che si è già verificato la scorsa estate, si è ripresentato l'altra notte e riguarda la carenza di personale medico presso il pronto soccorso dell'ospedale Giannuzzi di Manduria.

Nella notte tra sabato e domenica, più precisamente verso le tre, l'unico medico in servizio nella struttura di pronto intervento del nosocomio messapico ha dovuto assentarsi per assistere in ambulanza un infartuato durante il trasporto al SS. Annunziata di Taranto. Una situazione che si ripete puntualmente ma che nel 2022 non dovrebbe presentarsi affatto, in un periodo in cui si parla di scoperte eccezionali in campo medico e si cerca di potenziare le strutture con attrezzature sofisticate, mancano i medici. Ciò che purtroppo oggi viene a mancare è proprio il personale medico, di cui c'è carenza non solo a livello locale ma anche nazionale. In ogni caso, per ciò che riguarda l'episodio recente al pronto soccorso di Manduria, viene reso noto dalla direzione della Asl, quindi confermato da personale dello stesso ospedale Giannuzzi, dal momento che l'unico medico di turno ha dovuto assistere il paziente nel trasporto in ambulanza a Taranto, sono scattate automaticamente le misure di emergenza.

Pertanto, la direzione sanitaria, nel caso specifico, ha attivato quanto previsto dalla stessa Asl per assicurare la continuità assistenziale, spostando momentaneamente un medico da un altro reparto per garantire la presenza all'arrivo di pazienti al pronto soccorso. In effetti, si tratta di una procedura già in atto anche in altre realtà ospedaliere, non soltanto pugliesi, per cercare di tamponare la endemica carenza di personale medico. Da sottolineare che, secondo dati ufficiali, oggi a livello nazionale si registra un fenomeno piuttosto preoccupante che riguarda proprio la carenza di medici ai pronto soccorso che attualmente sono poco più di 5.800 mentre ne occorrerebbero almeno il doppio, senza contare che attualmente i precari risultano essere oltre 1.500 e che, un altro migliaio hanno già lasciato le strutture negli ultimi anni. Sempre sulla base di dati nazionali, è da aggiungere che le Regioni da una quindicina di anni, dispongono di mezzi finanziari limitati per le assunzioni di personale medico, poi c'è stato anche qualche professionista che ha preferito lasciare la struttura pubblica per quella privata.

In ogni caso, tornando a livello locale e più specificamente al Giannuzzi di Manduria, se da una parte c'è il problema della carenza di medici, spesso ad aggravare la situazione (proprio nel pronto soccorso) sono gli stessi pazienti che si rivolgono a tale struttura di emergenza, per patologie di lieve entità che potrebbero essere benissimo trattate dal medico di base e, durante la notte e festivi dalla guardia medica che si trova all'entrata dell'ospedale Giannuzzi. Purtroppo, ciò è riscontrabile facilmente controllando il numero di accessi con codice bianco e verde. Un po' di collaborazione da parte di tutti non guasterebbe, in quanto, data la situazione, ricorrere al pronto soccorso per patologie di lieve entità, finisce per togliere del tempo utile a curare i reali casi di emergenza per cui la struttura esiste. Gianluca Ceresio su Quotidiano

Pronto soccorso: turni massacranti, aggressioni, caos: ecco perché i medici scappano dai Dea. Margherita De Bac per il “Corriere della Sera” il 10 settembre 2022.

I numeri sono impietosi: le condizioni di lavoro sono terribili, ecco perché i sanitari scappano e cercano lavoro in altri reparti

Se ne vanno in quattro o cinque al mese. Scelgono di passare nei reparti specialistici, di cambiare ospedale o addirittura indirizzo professionale virando sulla medicina di famiglia o sul privato. E così i dipartimenti di emergenza, i Dea, si svuotano con conseguenze disastrose per la prima linea, il pronto soccorso.

I numeri

I numeri parlano da soli. Noi siamo scesi nei dettagli, ci siamo affidati alle testimonianze per capire cosa nella realtà allontana da questo lavoro usurante, vitale per la sanità italiana, definito «meraviglioso per la sua natura» eppure negletto. Giulio Maria Ricciuto, presidente di Simeu Lazio, la società di medicina di emergenza-urgenza, ricapitola: in regione mancano oltre 400 unità in organico, suddivise tra 50 centri di pronto soccorso, compresi quelli polispecialistici e i pediatrici. E’ stato fatto quasi nulla per rendere appetibili il servizio in trincea: «Le attese dei pazienti in boarding, che aspettano il ricovero, lo rende indecente», si indigna Ricciuto.

Le attese

Ogni giorno sono un minimo di 550 le persone in lista per un letto nei reparti specialistici. Ma questo è un altro problema. Partiamo invece dall’emorragia dei medici del pronto soccorso di cui forse non si è capita bene la gravità. Una bomba a orologeria, il cui timer è stato accelerato dalla pandemia che ha acuito le criticità. Specie nei piccoli ospedali , dove il fenomeno della fuga degli strutturati è più incalzante. Si va avanti con i «gettonisti», i liberi professionisti che rispondono ai bandi delle aziende con manifestazione d’interesse.

I dimissionari

Paolo Daniele, 64 anni, era primario a Colleferro (guarda qui la video intervista). Si è dimesso all’inizio dello scorso anno «perché ero rimasto solo. Solo tre i colleghi a tempo indeterminato, uno andato in pensione. Coprivano i turni di guardia i neolaureati presi come Cococo, come prevedeva il decreto Covid. Non vedevo prospettive di miglioramento. Sono arrivato a un punto di rottura. Sono stato male. E ho detto basta».

Il rischio

Fino a quando Daniele ha deciso, ha chiesto di rientrare al Pertini usufruendo di una norma del contratto nazionale: «Ora sono dirigente medico, ho perso l’anzianità di servizio e i vantaggi retributivi che avevo da primario. A Colleferro rischiavo, avevo la responsabilità di giovani alla loro prima esperienza laureati 6 mesi prima. Tanti altri colleghi di altre strutture si trovano nelle stesse condizioni. Ho avuto la forza e il coraggio di dimettermi».

Il ritorno

Chiede di restare anonima una dottoressa 40enne che dopo 14 anni in un grande pronto soccorso romano ha optato per la medicina di famiglia: «Ho vinto il concorso, ho ottenuto la borsa di studio mensile, 1000 euro al mese (lo stipendio di un neo assunto in ospedale è di circa 2.400, ndr), e ho ricominciato daccapo. Sono tornata studentessa, felice specializzanda. Non ne potevo più di quella vita. Tutti i fine settimana in servizio, guardie stressanti, in piedi 12 ore di fila, pazienti nervosi, i colleghi dei reparti che ti trattano come un poveraccio incompetente che deve spalare fango. Invece io alla medicina d’urgenza ci credevo, la amavo. Pensavo che fare il medico significasse quello, salvare la vita alle persone».

La dignità

Anche Adolfo Pagnanelli, direttore Dea del policlinico Casilino, ama quello che fa. E a 67 anni continua a battersi per la dignità della disciplina che ha scelto: «E’ necessario renderla appetibile. Non è soltanto una questione di soldi. La vita privata è sacrificata, a cominciare dalle relazioni di coppia. Quando sei occupato anche tre fine settimana e 6-8 notti al mese, hai difficoltà a rendere compatibili questi ritmi con i tempi di vita di una compagna o di un compagno che svolge un lavoro “normale”». Non pensa a se stesso, ma guarda indietro ai giovani, quelli che dovrebbero sostituire gli «anziani» al prezzo di troppe rinunce: «Il nostro non è un lavoro per vecchi Inoltre mancano le prospettive di carriera.

La vita di coppia

Pagnanelli suggerisce: «Si dovrebbe prevedere che dopo un tot numero di anni sia consentito passare a svolgere altre funzioni, più adatte ad una età avanzata». L’età media del personale sanitario in generale è alta, 54 anni. La situazione peggiorerà velocemente, il numero di posti nelle scuole di specializzazione è stato aumentato, ma non basterà a garantire un’adeguata compagine di rincalzi.

Al Policlinico

Policlinico Umberto i, ecco cosa succede. Al Dea dal 2019 ad oggi sono andati via in 19: 3 hanno accettato altri contratti in ospedali diversi, 8 hanno avuto trasferimenti interni in reparti «equipollenti», un pensionato, 7 hanno vinto concorsi in altri ospedali. Ora in organico figurano 49 unità sulle 65 che sarebbero necessarie per coprire il Dea, il pronto soccorso e il nuovo centro della febbre. La situazione è meno critica che altrove perché l’Umberto primo è sede di scuola di specializzazione e gli specializzandi tendono a non fuggire e ad accettare un posto da strutturati.

La provincia

I più penalizzati sono i pronto soccorso di provincia che ricevono nuove forze di medici solo quando il “mercato” romano è saturo. Il Lazio oltretutto è reduce da almeno 10 anni di blocco del turn over imposto dalla legge di rientro. Poi nel 2020 è arrivata la mazzata del Covid durante il quale le falle sono state parzialmente tamponate usufruendo i decreti sull’emergenza. Col ritorno alla normalità paradossalmente la voragine si è spalancata.

STORIE DI PRONTO SOCCORSO

«Io, nell’inferno del Grassi di Ostia, con la mano sanguinante, morsa dal cane»

Santo Spirito, 11 ore di attesa per una visita

La notte terrificante al San Camillo accanto a un morto in barella

Il medico confessa: mi vergogno per quanto accade nel mio ospedale

Al Sant'Eugenio paziente visitato utilizzando la luce del telefonino come torcia

Lunghe attese e inutili sofferenze: le testimonianze dagli ospedali di Roma e del Lazio

Taranto, 19enne muore in ospedale dopo il ricovero: indagati 12 medici. I genitori denunciano: «Non hanno mai voluto ricoverarlo». Il ragazzo si era recato al Santissima Annunziata, la prima volta, il 30 agosto. Francesco Casula su La Gazzetta del Mezzogiorno il 27 Settembre 2022.

Potrebbero arrivare dall’autopsia le informazioni necessarie per fare luce sulla morte sospetta di Leo Preteso, 19enne tarantino deceduto all’alba del 22 settembre all’ospedale SS. Annunziata di Taranto. Il sostituto procuratore della Repubblica Mariano Buccoliero, come raccontato nei giorni scorsi dalla Gazzetta, ha aperto un fascicolo per omicidio colposo: nel registro degli indagati sono finiti i medici dei diversi reparti che sono intervenuti nel corso del tempo sul giovane. L’ipotesi di reato è di cooperazione in omicidio colposo: dal Pronto soccorso a Neurologia, da Anestesia e Rianimazione a Cardiologia, da Chirurgia vascolare a Radiodiagnostica fino a Urologia.

Nella notte tra il 21 e il 22 settembre, Leonardo era arrivato in ospedale a bordo di un’ambulanza: la sua famiglia aveva chiesto un intervento del 118 quando il giovane, a causa di forti dolori addominali, aveva perso conoscenza a casa. Giunto al SS. Annunziata è stato ricoverato in Neurologia: i familiari sono stati rassicurati e sono tornati a casa. Alle 4.30 del mattino, però, i genitori erano stati chiamati dal medico: Leonardo non stava bene e dovevano tornare in ospedale. Il giovane aveva avuto un arresto cardiaco ed era stato intubato: poi mentre lo sottoponevano a una tac avrebbe avuto un secondo arresto e i medici avevano accertato anche un’emorragia di cui, secondo la denuncia dei familiari, non era stata accertata la causa. Alle 6 è infine giunta la triste notizia della sua morte. Ma dalla denuncia è emerso anche che già nelle scorse settimane il 19enne era entrato in ospedale: il 30 agosto e il 17 settembre, cinque giorni prima della sua morte, era stato portato dai familiari al pronto soccorso sempre per dolori addominali, ma era stato dimesso ed era tornato a casa. Come sempre, in questi casi, si tratta di un atto dovuto: dopo la denuncia dei familiari, rappresentati dall’avvocato Daniele D’elia, il magistrato ha infatti disposto l’esecuzione dell’autopsia: il consulente del pubblico ministero, il medico legale Antonio De Donno, dovrà accertare le cause del decesso del giovane e poi formulare la sua valutazione sulle cure e gli esami a cui Leonardo è stato sottoposto e individuare se ci sono eventuali responsabilità penali. L’incarico al professor De Donno sarà affidato il 29 settembre prossimo: subito dopo il medico eseguirà l’autopsia e allora il corpo di Leonardo sarà restituito alla sua famiglia per il funerale e l’ultimo saluto.

Sulla pagina Facebook di Leonardo, intanto, è proseguita la triste processione degli amici che hanno voluto lasciare un pensiero: «Leone dal cuore d’oro! Sarai sempre nella mia memoria e nel mio cuore – ha scritto Davide Boccuni – sono vicino a tutti voi, da Firenze. Un giorno ci ritroveremo e staremo sempre insieme, in viaggio per sempre... Ora sei in tutte le cose belle di questo mondo. Con la tua bontà farai sfigurare anche gli angeli: sei nel mio cuore per sempre».

 Il dramma in una famiglia tarantina. Diciannovenne dimesso dopo un malore, torna in ospedale e muore: indagati 19 medici del SS Annunziata. La Redazione de La Voce di Manduria martedì 27 settembre 2022.

Ospedale Santissima Annunziata

Dopo un episodio di parestesia gli era stata riscontrata una dissezione della carotide e dopo l’esito di quell’esame era tornato ancora in ospedale con gli stessi problemi, ma l'avevano sempre rimandato a casa con una cura farmacologica: lo scorso giovedì notte, però, dal Santissima Annunziata di Taranto, Leonardo Preteso di appena 19 anni, non è più uscito vivo. 

I suoi genitori, distrutti per la morte del figlio poco più che maggiorenne, si sono rivolti a Studio3A presentando una querela che ha spinto la Procura di Taranto, tramite del Pubblico Ministero Mariano Evangelista Buccoliero, ad aprire un procedimento penale per omicidio colposo. Il pm dopo aver posto sono sequestro e acquisito le cartelle cliniche, ha iscritto nel registro degli indagati 12 medici del Ss. Annunziata che operano in sette diversi reparti e che hanno avuto in cura lo sfortunato paziente. 

Un atto dovuto per consentire ai sanitari sottoposti a indagine di nominare dei consulenti di parte per gli accertamenti tecnici non ripetibili per i quali in questi giorni hanno ricevuto tutti l’informazione di garanzia, come le parti offese.  

Il magistrato ha infatti disposto per giovedì 29 settembre l’autopsia sul corpo del ragazzo che sarà determinante per chiarire con esattezza le cause della morte ed eventuali responsabilità: l’incarico sarà conferito alle 14 negli uffici della Procura al medico legale Antonio De Donno, dell’Università di Bari, che si avvarrà anche di uno specialista da indicare successivamente e che procederà all’esame a seguire presso l’ospedale Moscati. Alle operazioni peritali parteciperà anche il medico legale Aldo Di Fazio messo a disposizione come consulente tecnico di parte da Studio3A-Valore, società specializzata a livello nazionale nel risarcimento danni e nella tutela dei diritti dei cittadini a cui, attraverso il responsabile della sede di Taranto, Luigi Cisonna, si sono affidati i familiari del giovane per fare piena luce sui fatti e ottenere giustizia, con la collaborazione dell’avvocato Daniele D’Elia del foro di Taranto.

Il diciannovenne Leonardo Preteso, che era sanissimo e non soffriva di alcuna patologia, il 30 agosto era stato accompagnato di corsa dal padre e dalla madre al Pronto Soccorso del Santissima Annunziata avendo accusato, dopo essersi alzato dal letto, delle parestesie alle mani e alle braccia estese anche alla bocca e al volto. Il neurologo presso il quale il ragazzo è stato indirizzato per la visita specialistica, a fronte della regressione dei sintomi e dopo una Tac risultata negativa, ne ha però disposto le dimissioni prescrivendogli di eseguire una risonanza magnetica e di tornare con l’esito un mese dopo. I genitori hanno subito prenotato, privatamente per fare il più in fretta possibile, la RM, che il ragazzo ha effettuato il 6 settembre e che ha rivelato un “difetto di flusso dell’arteria carotide come da probabile dissezione”. Con quel referto il diciannovenne in ospedale c’è tornato già il 17 settembre essendosi ripresentati i sintomi che avevano determinato il primo accesso, ma il medico del reparto di neurologia  che lo ha visitato, anche in questa circostanza, non ha ritenuto di ricoverare il paziente per immediati e ulteriori accertamenti, ma, dopo una visita risultata ancora “negativa”, lo ha rimandato a casa prescrivendogli della cardio-aspirina e consigliando un “controllo angio Rm dei vasi del collo tra un mese”, con successiva valutazione neurologica presso l’ambulatorio delle malattie cerebrovascolari.

Ma a quella visita Leonardo non ci arriverà mai. Alla mezzanotte di giovedì 22 settembre il papà è stato svegliato nel cuore della notte da un tonfo, è corso a vedere e ha trovato il figlio riverso a terra in bagno svenuto. Il ragazzo, in preda a lancinanti dolori addominali, è rinvenuto ma ha perso i sensi di nuovo mentre i sanitari del 118, immediatamente chiamati, dopo averlo sottoposto a un elettrocardiogramma, lo stavano conducendo, a braccia e non in barella, in autolettiga per trasportarlo al Santissima Annunziata, dov’è giunto in codice rosso. Il ragazzo è stato ricoverato in Neurologia ma i medici inizialmente hanno rassicurato la mamma e il papà che avevano seguito il figlio all’ospedale, dicendo loro che potevano tornare a casa tranquilli. Alle 4.30 circa il papà lo ha chiamato al cellulare e il giovane era cosciente e vigile, gli ha riferito che i dolori al basso ventre, intensi, persistevano, ma che avrebbe dormito disteso sul lato opposto a quello sofferente. Poco dopo però la situazione è precipitata. La dottoressa in servizio ha chiamato a casa informando i genitori che il figlio si sentiva male e invitandoli a tornare in ospedale, e al loro arrivo li ha messi al corrente che il paziente aveva subito un primo arresto cardiaco ed era stato intubato. Lo hanno quindi condotto ad effettuare una Tac ma durante l’esame Leonardo è stato colto da un secondo arresto: la stessa dottoressa ha spiegato ai genitori che il giovane aveva in corso un’emorragia interna di cui però non si conosceva la causa. Poco dopo le 6 del mattino saranno due infermiere a comunicare loro che Leo non ce l’aveva fatta.

La denuncia è stata presentata al commissariato sezionale Borgo della Questura di Taranto chiedendo all’autorità giudiziaria di accertare i fatti, chiarire cosa sia successo al ragazzo e perseguire eventuali responsabilità da parte dei medici che l’hanno avuto in cura. 

LA TRAGEDIA. Taranto, donna di 28 anni muore dopo parto cesareo: partorisce una bimba, la piccola sta bene. La giovane era alla 40esima settimana di gestazione della sua prima gravidanza ed è stata ricoverata per rottura prematura delle membrane. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 30 Agosto 2022.

Una donna di 28 anni è morta ieri nell’ospedale SS. Annunziata di Taranto dopo aver dato alla luce una bambina con un parto cesareo. La piccola è in buone condizioni. L’Asl, che ha diffuso la notizia, precisa che i controlli post operatori hanno evidenziato una emorragia ed è stato eseguito un intervento chirurgico d’emergenza ma la donna è andata in arresto cardiaco. La giovane era alla 40esima settimana di gestazione della sua prima gravidanza ed è stata ricoverata per rottura prematura delle membrane. Avendo richiesto di non proseguire con l’induzione al parto - sottolinea l’Asl - è stata sottoposta a taglio cesareo.

Dopo l’intervento - spiega l’Asl - le verifiche routinarie hanno rivelato una riduzione dell’emoglobina, compatibile con l’intervento chirurgico. Dopo un breve intervallo è stato programmato un ulteriore controllo che ha evidenziato una anemia severa (emorragia). Il personale sanitario ha immediatamente attivato tutte le procedure necessarie, ma la giovane è andata in arresto cardiaco. È stata posta in atto ogni procedura prevista dal protocollo ed è stato eseguito un intervento chirurgico d’emergenza ma, purtroppo, per la donna non c'è stato nulla da fare.

La neonata, che alla nascita pesava 2.580 grammi, è in buone condizioni di salute ed è attualmente seguita dal personale dell’Unità Operativa di Neonatologia del nosocomio tarantino. La direzione Asl Taranto, il primario e il reparto «intendono esprimere - conclude l’Asl - il proprio cordoglio per la perdita di questa giovane donna, nel giorno che avrebbe dovuto essere uno dei più gioiosi della sua vita. Alla sua famiglia e ai suoi cari vanno le più sentite condoglianze».

Taranto, muore dopo il parto cesareo: 13 indagati al SS. Annunziata. Il pubblico ministero ha disposto l’autopsia. L’esame è previsto per domani. Francesco Casula su la Gazzetta del Mezzogiorno l'1 Settembre 2022.

Sono 13 gli indagati nell’inchiesta aperta dalla procura di Taranto dopo la morte della 28enne tarantina, deceduta lo scorso 29 agosto dopo aver dato alla luce una bambina. È stato il sostituto procuratore della Repubblica Antonio Natale a iscrivere nel registro degli indagati medici del reparto di Ginecologia che hanno avuto in cura la donna dal 27 agosto scorso. L’ipotesi di reato è di omicidio colposo per colpa medica: un atto dovuto, quello della procura che consente ai medici di poter nominare un difensore che prenda parte attraverso i suoi consulenti alla fase delle indagini preliminari.

Il pm Natale ha fossato per domani il conferimento dell’incarico al consulente che effettuerà l’esame autoptico: sarà il professor Biagio Solarino dell’Università di Bari a eseguire l’esame a cui potranno prendere parte anche gli esperti nominati dai difensori degli indagati. Anche i familiari, rappresentati dall’avvocato Leonardantonio Cassano potranno nominare un consulente che partecipi all’autopsia.

La donna era alla sua alla 40esima settimana di gestazione della sua prima gravidanza: il 27 mattina si era recata in ospedale, ma per i medici non era ancora il momento di partorire e così è stata rimandata a casa. Nella serata di sabato, però, la donna ha avvertito delle perdite che le hanno fatto pensare alla rottura delle acque è tornata quindi in ospedale e questa volta è stata ricoverata.

Il personale del reparto ha disposto il ricovero ed è iniziato il travaglio: i medici hanno provato a indurre il parto, ma senza successo. Dopo circa 36 ore dall’inizio del travaglio, la donna ha chiesto di procedere con il taglio cesareo. Dopo l’intervento, il personale ha effettuato le verifiche post operatorie che hanno rivelato una riduzione dell’emoglobina: la donna insomma aveva perso una quantità di sangue che secondo i medici era in quel momento compatibile con l’intervento chirurgico. La bambina che pesa poco più di 2 chili e 500 grammi sta bene ed è stata sistemata nel reparto di terapia intensiva di neonatologia. Poco dopo, però, i medici si sono accorti che le condizioni della donna stavano peggiorando: era in corso un’emorragia e il personale ha attivato tutte le procedure necessarie. La giovane, tuttavia, è andata in arresto cardiaco e per lei non c’è stato nulla da fare.

Ora potrebbe essere l’autopsia a fornire le prime indicazioni su quanto accaduto: l’esame medico legale dovrà accertare la causa della morte, valutare se l’emorragia è stato un evento imprevisto e imprevedibile e se le cure prestate dal personale in servizio in quel momento e nei momenti precedenti sono state corrette. I carabinieri della Compagnia di Taranto, poche ore dopo il decesso, hanno sequestrato i documenti clinici: anche la cartella medica sarà analizzata dal professor Solarino. Intanto nell’ospedale SS. Annunziata è partita anche l’inchiesta interna disposta dall’Asl di Taranto e coordinata dal medico legale Marcello Chironi: la commissione dovrà ricostruire la successione degli eventi e delle azioni dei colleghi per redigere una relazione da inviare al Ministero della Salute.

Chiara Ammendola per fanpage.it il 6 settembre 2022.

È morta lo scorso 20 agosto Alessandra Taddei, uccisa da un tumore che non le ha lasciato scampo e che in un anno, nonostante le cure, l'ha strappata ai suoi famigliari, ai figli e al marito Francesco Costa. Anche lui professore, come la moglie, dopo un anno ha denunciato a gran voce una parte del cammino che Alessandra ha dovuto affrontare e iniziato prima di ricevere la diagnosi, quando la donna si è recata al pronto soccorso al Dea di Verbania a causa di forti emicranie. Sintomi di quello che si è scoperto poi essere un tumore ma che al tempo furono giudicati come dei semplici mal di testa e curati con del paracetamolo. 

È stato necessario un mese e un viaggio in Lombardia per capire che quelle emicranie erano in realtà il biglietto da visita di un male poi risultato incurabile, ma a distanza di un anno il grido di dolore del professor Costa che ha detto addio alla moglie pochi giorni fa è forte e deciso: “So che mia moglie non si sarebbe salvata – spiega l'uomo in un'intervista rilasciata a La Stampa – ma almeno non avrebbe sofferto quei giorni in più finché siamo dovuti andare in Lombardia”. 

La storia di Alessandra Taddei, 54 anni, insegnante alle scuole medie di Verbania inizia infatti il 13 settembre con un primo accesso in pronto soccorso a causa proprio di un forte mal di testa che non sembrava passare, era il primo giorno di scuola: “Quella notte alle 3,07 andammo in pronto soccorso. Fu dimessa alle 4,44 – racconta il marito – anamnesi: cefalea senz’aura, presente da anni e acutizzatasi questa notte. Prescrissero delle gocce e paracetamolo”.

Poi altri due episodi simili, uno il pomeriggio del giorno dopo quando a causa della persistente emicrania decidono di chiamare un'ambulanza e un altro il 21 settembre: nel primo caso le dimissioni con anamnesi “crisi cefalgica in paziente affetta da emicrania" con aggiunta di paracetamolo 1000 al bisogno, nel secondo caso invece le dimissioni arrivarono solo due ore dopo. 

“Era la terza volta che tornavamo così chiesi di approfondire con esami diagnostici – continua l'uomo – loro rimandarono al 25 settembre, quando già avevamo appuntamento per una risonanza magnetica dopo esserci rivolti a un neurologo. Così ho deciso di andare dai carabinieri a Intra che mi hanno ascoltato, quasi piangevo nel raccontare quanto stava succedendo”.

Nonostante la richiesta di parlare con un medico il signor Costa non fu ascoltato, da qui la decisione di rivolgersi nuovamente ai carabinieri prima di partire, il giorno dopo, alla volta di Milano, su consiglio di una parente, viste le condizioni sempre più precarie della donna: “L’abbiamo portata al San Raffaele di Milano – spiega il marito – è entrata in codice arancione, alle 13. Le hanno fatto esami e Tac, alle 18 il medico mi ha spiegato che avevano trovato una massa voluminosa che premeva contro il cervello. Era il tumore”.

Nei giorni successivi la prof 54enne è stata sottoposta a un'operazione alla quale hanno fatto seguito le radioterapie, purtroppo però il tumore è tornato. Alessandra Taddei ha combattuto un anno ma purtroppo lo scorso 20 agosto la sua battaglia è terminata: “Mi chiedo perché nessuno, vedendo che era un caso sospetto, non abbia mandato mia moglie a Domodossola o Novara dove c’è la neurologia, so che mia moglie non si sarebbe salvata ma almeno non avrebbe sofferto quei giorni in più finché siamo dovuti andare in Lombardia”.

Va al pronto soccorso con mal di testa e per tre volte la rimandano a casa con tachipirina, ma aveva tumore al cervello. Lo sfogo del marito. Cristina Palazzo su La Repubblica il 5 Settembre 2022.  

La donna, di 54 anni, è morta ad agosto. Per tre volte la coppia è andata al pronto soccorso di Verbania ed è stata rimandata a casa anche con fare sgarbato. Il marito ha deciso di raccontare la storia "perché i medici agiscano con meno leggerezza"

” 'Sento una tenaglia che mi stringe qua', mi ripeteva mia moglie mentre indicava le tempie. Aveva un forte mal di testa. Siamo andati tre volte in pronto soccorso al Dea di Verbania. La terza volta ho chiamato anche i carabinieri, a quel punto dovevano pensare che o ero fuori di testa o disperato. Io ero disperato, quantomeno la terza volta avrebbero dovuto approfondire con esami più specifici. Mia moglie aveva un grosso tumore al cervello ed è stata mandata a casa con diagnosi di cefalea e paracetamolo".

Francesco Costa è il marito di Alessandra Taddei, docente di 54 anni alle medie Quasimodo di Verbania, molto amata in tutta la zona per il suo impegno per la scuola e i ragazzi a cui insegnava matematica e scienze. La docente, lo scorso 20 agosto, è stata vinta dal male contro cui combatteva da circa un anno. Il marito ha deciso di raccontare quanto vissuto "perché i medici agiscano con meno leggerezza, sono deluso da questa sanità e mi chiedo come farò a tornare in pronto soccorso, dove mi sono sentito umiliato oltre che non ascoltato. Non ho presentato denuncia, mia moglie non si sarebbe salvata, ma avrei avuto le risposte immediate ai nostri dubbi e non avrebbe dovuto soffrire dei giorni in più, finché siamo andati al San Raffaele di Milano".

L’incubo è iniziato il 13 settembre del 2021, primo giorno di scuola. «Mia moglie ha sempre sofferto di mal di testa, quella sera aveva dolori forti. Quella notte alle 3,07 andammo in pronto soccorso. Fu dimessa alle 4,44. Anamnesi: cefalea senz’aura, presente da anni e acutizzatasi questa notte. Prescrissero delle gocce e paracetamolo. La visita neurologica diceva “lucida e orientata”». Tornarono a casa, ma restarono poco. Al pomeriggio, alle 15,34, visto che i dolori continuavano, hanno chiamato l’ambulanza.

«Alessandra fu dimessa alle 19,06 - prosegue il marito Francesco Costa nel racconto - con anamnesi “crisi cefalgica in paziente affetta da emicrania. E aggiunsero paracetamolo 1000 al bisogno». Sono così tornati per la seconda volta a casa, i giorni sono trascorsi «ma lei stava sempre male, con la tenaglia che la stringeva all’altezza delle tempie. Era sempre a letto».

Fino al 21 settembre, un martedì, quando chiamarono di nuovo l’ambulanza.  «Mia moglie non si reggeva in piedi, alle 14,38 eravamo in pronto soccorso». L’anamnesi, dal verbale, arriva alle 15,41, le dimissioni solo due ore dopo. «Era la terza volta che tornavamo così chiesi di approfondire con esami diagnostici. Loro rimandarono al 25 settembre, quando già avevamo appuntamento per una risonanza magnetica dopo esserci rivolti a un neurologo. Così ho deciso di andare dai carabinieri a Intra che mi hanno ascoltato, quasi piangevo nel raccontare quanto stava succedendo». È poi tornato in ospedale, chiedendo alle infermiere di parlare con un medico  «quando arrivò gli chiesi con chi stessi parlando, mi rispose solo dicendomi il suo nome e invitandomi a denunciarlo, mi disse “mi denunci, mi denunci pure” sbattendo la porta alle spalle».

Sua moglie è stata poi dimessa nel tardo pomeriggio, dall’ospedale è uscita in sedia a rotelle. “Chiamai di nuovo i carabinieri prima di andare via”. Il giorno dopo, il 22 settembre, una cugina è andata a casa per una visita e ha visto le condizioni della donna, «si è resa conto che era grave, il giorno dopo l’abbiamo portata al San Raffaele di Milano. È entrata in codice arancione, alle 13. Le hanno fatto esami e Tac, alle 18 il medico mi ha spiegato che avevano trovato una massa voluminosa che premeva contro il cervello. Era il tumore».

Nei giorni successivi Taddei è stata sottoposta all’operazione, poi le radioterapie ma il tumore è tornato, una lotta lunga, fino al 20 agosto quando la lotta è terminata. «Mi chiedo perché nessuno, vedendo che era un caso sospetto, non abbia mandato mia moglie a Domodossola o Novara dove c’è la neurologia, so che mia moglie non si sarebbe salvata ma almeno non avrebbe sofferto quei giorni in più finché siamo dovuti andare in Lombardia». 

Lecce, turisti dimenticati al «Vito Fazzi» vanno via senza ricevere cure. Dopo un'attesa inutile di otto ore al Pronto soccorso. Rita Schena su La Gazzetta del Mezzogiorno il 30 Agosto 2022.

«Otto ore di attesa al Pronto soccorso del Vito Fazzi senza riuscire a concludere niente. Senza neanche sapere l'esito di alcune analisi fatte appena arrivati. C'era un solo medico presente, per una giornata come il sabato e di un periodo estivo, che sicuramente è di maggiore pressione, vista l'assenza dei medici di famiglia e dei tanti turisti ancora presenti nel Salento. E poi eravamo tutti ammassati in questa sala di attesa che sembrava una bolgia infernale. Una situazione incredibile. Alla fine siamo andati via senza che nessuno visitasse mio marito e lunedì, grazie all'appoggio di alcuni amici che vivono a Lecce, siamo riusciti a trovare un medico. Dopo la visita ora stiamo andando in un centro privato per fare delle analisi sanitarie specifiche».

Marisa P. con il marito sono una coppia di turisti toscani che da anni vengono in Salento per le loro vacanze. Quasi sempre in periodi di non altissima stagione «per poter godere di più del mare, senza la calca e in maggiore tranquillità» e sabato scorso sono stati loro malgrado protagonisti di una avventura che si sarebbero volentieri risparmiati.

«Mio marito fa la chemio - racconta Marisa -. Sabato mattina l'innesto sul braccio, da dove viene fatta l'infusione, si gonfia. Molto. Ci spaventiamo, così andiamo al Fazzi per capire cosa stia succedendo. Poteva essere una trombosi. Arriviamo alle 11 e solo a mio marito fanno il tampone (strano, perché a me no, visto che ero con lui?). Poi un prelievo di sangue. Nessuno fa una anamnesi e ci dicono di aspettare in una sala di attesa enorme dove c'è di tutto: una anziana con una vistosa ferita alla testa da dove esce sangue e che trattiene a stento con un fazzolettone, una mamma con un bambino in braccio che piange dopo essere caduto e con la borsa del ghiaccio su una gamba, una donna anche lei ferita seduta su una sedia che sembra si stia addormentando, che in questi casi forse è un problema.... Abbiamo atteso otto ore, così, con emergenze di vario grado che arrivavano una dopo l'altra, senza che ai pazienti venisse garantita un minimo di privacy. Alla fine ce ne siamo andati, tanto era inutile restare».

«Il mio non è un atto di accusa contro il personale sanitario presente – sottolinea Marisa -, che sia chiaro. Si sono dimostrati tutti con una grande umanità. Ma c'era un solo medico che doveva far fronte a tutte le necessità, dai codici bianchi fino ai rossi, e questa situazione la trovo incredibile per un Pronto soccorso così importante, dove converge tantissima gente in un sabato estivo in un territorio turistico. Qui è un problema di disorganizzazione, grave, che alla fine ha dei risvolti sulla salute delle persone. Dopo 48 ore siamo riusciti a trovare una soluzione con visite private, grazie all'aiuto di amici, ma se mio marito fosse stato colto da trombosi? E se quella donna ferita si fosse addormentata per una emorragia in quella sala di attesa? Io qualche anno fa ho perso mio padre per un errore fatto al Pronto soccorso, in un ospedale in Toscana, so bene che ogni luogo è paese, ma almeno da noi i pazienti vengono fatti entrare e monitorati. Hanno letti posizionati dietro tendine per rispettare la loro privacy, non ammassati tutti insieme come in un girone dantesco».

Marisa e il marito entrano nel centro medico, hanno telefonato solo un'ora prima e gli hanno già fissato l'appuntamento, ne escono poco dopo molto più rasserenati. «Il gonfiore al braccio sta già rientrando – dicono più sollevati -. Non c'è pericolo di trombosi. Ce ne torniamo al mare, questi sono pur sempre i giorni delle nostre vacanze».

Michele Bocci per “la Repubblica” il 21 agosto 2022.

È l'estate dei medici turnisti. Il servizio sanitario pubblico, soprattutto nel settore dell'emergenza, a causa di carenze strutturali di organico e ferie cerca medici fuori dal sistema. Ai bandi partecipano liberi professionisti oppure cooperative, che dispongono di molti camici bianchi e ormai sono ben note alle direzioni di aziende sanitarie e ospedaliere. In certe Regioni ormai la strada del privato viene percorsa da tempo. Succede ad esempio in Piemonte e in Veneto ma non solo. 

All'inizio dell'estate, per raccontare un caso, l'azienda ospedaliera di Ferrara ha predisposto un bando per incarichi libero professionali nei quali erano indicate le tariffe: 840 euro per un turno di 12 ore di un medico non specializzato e 1.080 euro per uno specialista.

«C'è una corsa delle aziende sanitarie e ospedaliere e delle Regioni ad alzare la paga oraria riconosciuta ai turnisti, non è etico», spiega Antonio Ferro, che dirige la Asl del Trentino. Anche lui ha spesso problemi a chiudere i turni al pronto soccorso.

Di recente il Veneto ha deciso di riconoscere 100 euro lordi l'ora per gli straordinari dei suoi medici dipendenti ma anche come compenso ai liberi professionisti.

«Bisognerebbe stabilire un tetto nazionale con tariffe massime - spiega Ferro - Le Regioni alzano il prezzo. Intanto dovremmo poter assumere i neo laureati, mentre si specializzano».

Con l'attività privata che viene remunerata così bene, aumenta il numero di dipendenti pubblici che decidono di diventare liberi professionisti o di entrare in una cooperativa. «In Piemonte quasi tutti i pronto soccorso hanno dentro, magari solo parzialmente, le cooperative - dice Fabio De Iaco, presidente di Simeu, la società scientifica dei medici di emergenza urgenza - Addirittura ci risultano anche offerte da 120 euro l'ora. Così aumenterà il numero di coloro che lasciano i pronto soccorso per rientrare come turnisti». Un circolo vizioso.

La situazione ovviamente mette in crisi anche gli specializzandi. L'emergenza-urgenza è diventato il settore con il maggior numero di borse non assegnate, circa la metà. Già è difficile aver voglia di lavorare in un posto impegnativo come il pronto soccorso, se poi si vede che lasciano anche gli assunti, le motivazioni scendono al minimo. Secondo Giammaria Liuzzi, il responsabile nazionale di Anaao giovani, cioè il principale sindacato degli ospedalieri, bisogna riformare il sistema. 

«Dobbiamo allinearci agli altri Paesi. Gli specializzandi devono essere subito contrattualizzati, in modo che si formino lavorando già dentro il sistema, con tutte le tutele dei dirigenti medici. E va riconosciuto il lavoro nel pronto soccorso come usurante».

Adesso, secondo Liuzzi «l'Università fa muro contro i cambiamenti e così chi si specializza lavora in un policlinico oppure in un ospedale che ha fatto l'accordo con un professore. E invece la formazione dovrebbe avvenire in tutti gli ospedali». E proprio Anaao ha polemizzato duramente con il presidente della Regione Calabria, Roberto Occhiuto, che ha annunciato l'assunzione di 500 medici provenienti da Cuba. La decisione è l'ennesima dimostrazione delle carenze di personale del sistema pubblico ma secondo il sindacato si poteva evitare. E una delle strade era assumere, appunto, gli specializzandi delle università calabresi.

RSA, medici, infermieri, Oss scomparsi. TheWorldNews TWnews.it il 24 agosto 2022. 

Durante l'emergenza Covid, infermieri e operatori sanitari, per lo più provenienti dal Perù e dall'Albania, hanno trovato casa in Italia. Ora cercano la stabilizzazione oltre la scadenza del 31 dicembre 2023.

In molti casi hanno la forza lavoro necessaria da gestire perché sono forniti dalla stessa struttura in cui sono stati impiegati. Pandemia.  Sul punto interviene Alessandro Contini, responsabile della Regione Lombardia del Gruppo Kos. La Lombardia ha 20 abitazioni conosciute come Anni Azzurri e la regione Lombardia ha case di cura e case di cura con 2.400 posti letto. Il Gruppo Kos opera in 11 regioni italiane nel settore della salute e cura della persona e opera a livello internazionale in Germania e India. Circa 9.000 lavoratori, tra medici e dipendenti, sono gestiti direttamente dall'azienda senza passare per cooperative. Contini riferisce che questa è una gestione diretta e una scelta che hanno fatto, passando anche all'ultima acquisizione. Nel 2021, il settore sociale e sanitario si è fermato a causa degli annunci di lavoro pubblico, con Contini che ha sottolineato che la carenza di personale era pre-pandemia piuttosto che un problema correlato al COVID-19. "I servizi socio-sanitari sono come figli di Dio minori. Medici, infermieri e OSS scarseggiano", continua Contini, "le carenze più acute sono nelle province. La Lombardia soffre di più. Brescia e Bergamo sono le regioni in cui le maggiori le città sono migliori perché hanno più curricula da esplorare e più professionisti sono disponibili grazie al passaparola. Spiega che il riconoscimento economico da parte della comunità dovrebbe affrontarlo.  I due fattori che hanno sicuramente portato al declino del sociale e i sistemi sanitari vanno ricercati in due fattori. : Eliminare i blocchi alle assunzioni nel settore pubblico e ai trasferimenti al Sud, mettendo in pericolo molte strutture. Il direttore regionale di Kos ha detto: I curricula stanno diventando sempre meno e di più Anche le celebrità che gestiscono le strutture sociali e sanitarie trova sempre più difficile reclutare professionisti. Il direttore regionale di Kos ammette che il corso ideato dalla Regione Lombardia per formare i Super Oss è una manna dal cielo, simile a medici e infermieri all'estero. In primo luogo, perché c'erano medici e infermieri laureati in medicina o infermieristica nel loro paese di origine, abbiamo fatto una selezione interna - designiamo Contini - grazie ad una procedura semplificata di certificazione in privazione dei titoli Al , li abbiamo fatti vincere il titolo in Italia.Grazie a word of bocca, sono arrivati ​​altri operatori sanitari, infermieri e medici. Grazie a Cos Academy, corsi di lingua italiana, alloggi e società italiana accompagnano il processo di inserimento offrendo corsi sul modello organizzativo del sistema sanitario, così quando sono arrivati ​​in Italia hanno sapeva come muoversi e quindi li ha inseriti nel gruppo di lavoro Ma la burocrazia si frena: i primi operatori sanitari sono arrivati ​​dalla Romania circa 25 anni fa, e oggi il mercato è talmente saturo che le importazioni dall'Albania e dal Sud America sono facili.  Contini è un assistente sociale e sanitario del Perù che ha fatto da cassa di risonanza a molti suoi connazionali a Milano. Parla di quanto sia forte la presenza di Kerr. "Ci siamo avvicinati anche ai mercati brasiliano e cubano, ma abbiamo avuto difficoltà a riconoscere i titoli. , i professionisti sono disposti a venire in Italia ma non riescono a espletare le formalità. In altri casi i tempi della burocrazia sono biblici e si fanno scelte diverse. Nel mondo della società e della salute Per cercare di risolvere il problema della carenza di specialisti, si raccomanda di rivedere il numero limitato e i corsi di formazione soprattutto per infermieri. Infine, per Contini selezionare Super OSS per il settore  Questo può essere un buon compromesso per valutare al meglio la professionalità dell'operatore stesso, in modo che l'operatore possa assistere meglio gli infermieri nel miglioramento del livello di supporto nelle case di riposo.

Medici dimenticati dai partiti. La denuncia: “Da eroi del Covid a spariti dai programmi elettorali”. Alessio Buzzelli su Il Tempo il 25 agosto 2022

La sanità pubblica è il vero grande assente di questa campagna elettorale ormai entrata nel vivo. Un convitato di pietra impossibile da non notare, dopo essere stato nei due anni di pandemia il centro assoluto del dibattito politico, oggetto di continue attenzioni e promesse e lusinghe da parte dei vari partiti e accompagnata spesso da parole come «potenziare», «rifondare», «ricostruire», «investire». Oggi, però, di tutto questo pare non esserci più traccia: a lanciare l'allarme sono stati gli stessi medici, così lungamente elogiati durante il Covid e ora, con le elezioni a un passo, messi cinicamente da parte in nome di promesse elettoralmente più spendibili e accattivanti. «Amarezza, delusione e rabbia» sono, ad esempio, le parole utilizzate dalla Federazione Cimo-Fesmed- uno dei sindacati dei medici tra i più impegnati sull'argomento - per descrivere i programmi elettorali dei partiti in tema di sanità pubblica, palesemente carenti secondo molti degli addetti ai lavori. «Il sindacato dei medici - si legge in una nota rilasciata ieri - aveva chiesto di inserire nei programmi elettorali proposte concrete e realistiche in grado di superare i problemi del Servizio sanitario nazionale. E invece i capitoli dedicati alla tutela della salute risultano in buona parte superficiali, demagogici e talmente inconsistenti da risultare irrealizzabili».

Una constatazione tanto dura quanto veritiera: come sottolineato da Cimo Fesmed, infatti, nei programmi dei partiti non c'è alcun cenno «alla necessità di aumentare i posti letto», i Livelli Essenziali di Assistenza «non vengono mai citati» e «nessuna soluzione alla crisi dei Pronto soccorso è stata proposta». Inoltre, si legge più avanti nella nota, «lo spazio riservato a medici e ospedali è pari quasi a zero, senza alcun cenno alle condizioni di lavoro massacranti per tutto il personale sanitario». A supporto di quanto affermato il sindacato ha presentato un efficace prospetto costruito sulla ricerca di parole chiave riferibili alla sanità, dimostrando così come la questione sanitaria sia oggi completamente ai margini del dibattito elettorale. «La parola ospedale/ospedali - spiegano - è del tutto assente dai programmi di centro destra, Pd e M5S; compare invece una volta nel programma di Azione-Italia Viva e tre volte nel programma di Europa Verde e Sinistra Italiana», mentre la parola medico/medici «non compare mai nei programmi di centrodestra e Movimento 5 Stelle, è presente due volte nel programma del Pd e due volte nel programma di Azione-Italia Viva».

Questo semplice ma incisivo espediente delle parole chiave conferma una volta di più la fondatezza delle preoccupazioni espresse a più riprese dal mondo della sanità e ben riassunte dalle parole di Guido Quici, Presidente Cimo Fesmed: «Pensavamo che la pandemia avesse finalmente acceso i riflettori sulle criticità dell'ospedalità pubblica e che fosse finalmente giunto il momento di invertire la rotta - ha commentato Quici - Invece era solo una momentanea illusione, scandita da elogi, riconoscimenti e applausi rimasti gesti senza conseguenze». «La situazione è complessa è scoraggiante - ha proseguito il presidente. La sanità pubblica continua ad essere il fanalino di coda tra le priorità della politica, come sei due annidi pandemia non fossero mai esistiti e nemmeno i precedenti dieci, durante i quali abbiamo assistito ad una serie di tagli spaventosi». Tagli che, secondo Quici, hanno innescato una situazione esplosiva: «111 ospedali in meno, 113 Pronto soccorsi in meno, 37mila posti letto in meno, 283 milioni di prestazioni collaterali in meno e, infine, una riduzione tragica del numero dei medici. È evidente che così il sistema non possa reggere». E allora perché la politica se ne disinteressa? Anche per questa domanda il presidente ha una risposta: «La mia sensazione è che la politica non abbia idea di cosa fare con la sanità pubblica e, di conseguenza, eviti direttamente di occuparsene, perché sa che l'intero sistema non è più sostenibile e andrebbe ricostruito daccapo. Non mi vengono in mente altre spiegazioni - ha concluso Quici - soprattutto dopo aver sperimentato durante la pandemia che se la sanità va giù, l'intero sistema economico va giù».

Estratto dall'articolo di Graziella Melina per “Il Messaggero” il 19 settembre 2022.

«Prima di assumere medici stranieri, meglio incentivare quelli italiani». La decisione di diverse Regioni di ricorrere a professionisti extracomunitari pur di riuscire a fornire i servizi di cura negli ospedali, i medici non l'hanno presa bene. La scelta del presidente della Calabria, Roberto Occhiuto di assumere 500 medici cubani tramite una società di servizi locali era suonata come un affronto. 

Nel frattempo, anche la Puglia stava già pensando di rivolgersi alla vicina Albania, mentre la Sicilia aveva ipotizzato di far ricorso a medici argentini. Del resto, la carenza di operatori sanitari italiani è nota.

Secondo le stime di Anaao Assomed, l'associazione dei medici dirigenti, in particolare, al Sud ne servirebbero circa duemila per ogni Regione: in Puglia circa 2mila-2400 medici, in Calabria circa 2150, in Sicilia 2500-2800. Il 70 per cento nelle aree di emergenza, il resto in tutti gli altri reparti. 

Di medici nostrani disponibili, in realtà, ce ne sarebbero. Se non fosse che gli stipendi non allettanti e il luogo di lavoro, spesso in aree lontane dai centri, ha convinto molti professionisti a disertare i bandi. E così, di fronte alle decisioni delle Regioni, i medici italiani hanno iniziato ad alzare la voce.

Mentre la Cimo Fesmed ha fatto ricorso al Tar, l'Omceo di Palermo ha denunciato l'iter di assunzione degli stranieri che rischia di scavalcare «ogni regola ordinaria e straordinaria in tema di assunzioni in sanità». Il punto è che durante l'emergenza Covid, le regioni avevano ottenuto per legge la possibilità di ricorrere a personale medico anche straniero. Ma continuano a farlo anche ora. 

Il presidente della Fnomceo, la Federazione nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri, Filippo Anelli, ha deciso così di scrivere una nota al presidente della Repubblica Sergio Mattarella. La richiesta è chiara: «chiediamo di rivedere la normativa che è stata prorogata sino al 31 dicembre 2023 spiega Anelli - che mette a rischio un sistema di controlli e di garanzia per la sicurezza delle cure e per la qualità dell'assistenza».

In effetti, il rischio è che senza adeguate verifiche sulla formazione dei medici stranieri, i pazienti potrebbero non ricevere cure e diagnosi adeguati. «I titoli di studio vanno rigorosamente verificati per poter esercitare la professione in Italia prosegue Anelli - evitando il pericolo di sfociare nell'esercizio abusivo. Non dimentichiamo che la conoscenza adeguata della lingua italiana, nel campo dell'emergenza sanitaria, è di importanza fondamentale». 

Per il momento, alla lettera della Fnomceo non ha ancora risposto nessuno. Ma le Regioni sembrano comunque aver cambiato idea, almeno in parte. «In Puglia l'ipotesi è stata paventata ma non si è più concretizzata spiega il segretario dell'Anaao Assomed Pierino Di Silverio - in Sicilia per il momento il bando è stato bloccato. In Calabria, i medici cubani individuati sono per ora solo 84». […]

Da “la Stampa” il 18 agosto 2022.

Il presidente della Regione Calabria Roberto Occhiuto ha firmato oggi un accordo con il governo di Cuba per l'invio di medici da impiegare negli ospedali calabresi. La disponibilità riguarda 497 medici che saranno inviati all'occorrenza. I primi dovrebbero arrivare a settembre. Lo annuncia lo stesso Occhiuto su Facebook. «Da mesi - afferma Occhiuto in una nota - ho una proficua interlocuzione con il governo cubano. I medici sono un fiore all'occhiello del Paese caraibico, ed hanno già aiutato l'Italia, in Lombardia e in Piemonte, nei mesi più caldi della pandemia.

Oggi (ieri, ndr) all'Ambasciata della Repubblica di Cuba in Italia ho firmato un Accordo di cooperazione con la Comercializadora de Servicios Medicos Cubanos (Csmc), la società dei medici cubani, per la fornitura di servizi medici e sanitari. Così, in Calabria potremo utilizzare temporaneamente, fino a quando non saranno espletati con esiti positivi tutti i concorsi, operatori sanitari provenienti da Cuba. Il governo caraibico può mettere a nostra disposizione 497 medici con diverse specializzazioni».

Secondo le previsioni del governatore, «a settembre partirà la fase sperimentale di questa collaborazione e arriveranno i primi medici. Inizieranno coloro che già sanno parlare l'italiano (la lingua ufficiale della Repubblica di Cuba è lo spagnolo, ndr) e gli altri, prima di prendere servizio, faranno corsi intensivi per apprendere presto e bene la nostra lingua. Ad ogni modo, i medici cubani saranno sempre affiancati dai nostri operatori sanitari. Questo importante accordo è un'opportunità in più per la Calabria, un modo concreto per dare risposte immediate ai bisogni dei cittadini».

Ma in questi mesi, nessuno aveva mai accennato a un accordo di questo tipo. Ancora Occhiuto: «Abbiamo deciso di mantenere riservata questa delicata trattativa anche perché altre istituzioni pubbliche e private stavano esplorando con insistenza la stessa strada. Il risultato raggiunto ci ripaga del lavoro fatto e ci consente di affrontare con maggior serenità i prossimi step per risanare e migliorare sempre più la nostra sanità regionale».

Monica Serra per “la Stampa” il 19 agosto 2022.

È bastata la pioggia, il 12 giugno del 2021, a far crollare il controsoffitto del pronto soccorso dell'ospedale di Locri, sulla costa ionica della Calabria. Solo per un caso fortunato nessun medico o paziente si trovava a passare in quel momento. 

Eppure dal 1998 il governo ha assegnato oltre 14 milioni di euro per il restyling e la messa a norma di quella struttura. Soldi che in questi anni non sono mai stati spesi.

Da allora oltre un miliardo di euro stanziati per risanare una sanità calabrese mangiata dalla 'ndrangheta e che cade a pezzi sono rimasti inutilizzati nonostante i piani di rientro.

Gli ultimi soldi sono arrivati quattro anni fa: 86 milioni per acquistare nuova strumentazione. Ma niente. «In dodici anni di commissariamento, di tagli senza senso, di malagestione, la situazione è solo peggiorata. Con 18 ospedali chiusi su 42, medici al collasso e liste di attesa infinite, che arrivano a 500 giorni per una visita oculistica a Cosenza per esempio», sottolinea Rubens Curia, portavoce di Comunità competente, un raggruppamento di sindacati e associazioni che lavorano sul territorio.

«In questi dodici anni non sono state fatte nuove assunzioni di personale medico, in vasti territori mancano le prestazioni essenziali», spiega il governatore della Regione, Roberto Occhiuto, ex capogruppo di Forza Italia alla Camera, eletto il 29 ottobre e da nove mesi commissario straordinario della Sanità calabrese. 

«Non c'è un problema di deficit in questo momento ed è preoccupante: non c'è perché non vengono erogati i servizi. Ci sono zone in cui se chiami un'ambulanza devi attendere più di quaranta minuti. Potremmo assumere oltre duemila medici senza superare i tetti di spesa. Ma al mio arrivo - sottolinea il governatore - ho trovato aziende sanitarie che non avevano chiuso i bilanci e non riuscivano a procedere con i concorsi. Così ho velocizzato la burocrazia, ma anche all'esito, molte procedure di selezione per contratti a tempo indeterminato sono andate deserte». Il motivo è facilmente intuibile: «Il nostro sistema sanitario non è attrattivo per i giovani specializzati».

Tutti gli interventi strutturali in cantiere necessitano di tempi «che i calabresi non possono più aspettare». Così Occhiuto spiega la sua scelta di ricorrere «in base all'articolo 6 bis del decreto legge 105 del 2021» ai medici cubani «per garantire un po' di ossigeno a un sistema al tracollo». 

Come hanno fatto Lombardia e Piemonte nell'emergenza Covid, da giugno la Calabria ha iniziato una lunga interlocuzione con la Società di stato cubana per arrivare alla sigla di un accordo di tre anni: «Ci forniranno fino a 497 medici, quelli che mancano ai nostri reparti - sottolinea Occhiuto -. I primi 33 arriveranno a settembre: faranno subito corsi intensivi di italiano per essere inseriti nelle strutture». Un'operazione che costerà alla Calabria fino a 2, 3 milioni di euro al mese. Critica a cui Occhiuto risponde secco: «Un medico costa in media 6 mila 700 euro al mese, questo accordo consentirà di avere medici in distacco transnazionale con 4 mila 700 euro al mese più le spese di alloggio. Noi garantiamo un rimborso forfettizzato di 1. 200 euro, gli altri 3. 500 euro al mese li diamo alla Società del governo cubano che si occuperà di stabilire stipendi e contratti».

Nel frattempo l'intenzione è quella di risolvere i problemi strutturali, usando le risorse inutilizzate, assumendo specializzandi, mantenendo in servizio i medici in pensione che fanno richiesta. Ma anche quantificando il debito della Sanità calabrese «con gruppi di lavoro in tutte le aziende sanitarie con l'ausilio della Gdf». 

Occhiuto è convinto che il debito reale sia inferiore a quello raccontato, «perché molto spesso si tratta di doppi e tripli pagamenti effettuati agli stessi fornitori». Quantificare il debito è «impossibile» secondo Santo Gioffré, ex commissario dell'Asp di Reggio Calabria, fatto fuori a cinque mesi dalla nomina nel 2015 con un cavillo burocratico, che allora ci aveva provato. «Quando sono arrivato ho trovato un rapporto che parlava di 398 milioni di euro di pignoramenti non regolarizzati. All'epoca qualcosa si poteva fare ma oggi è passato troppo tempo: le carte non ci sono più, parliamo di fatture del 2008, del 2009, molti reati si sono prescritti».

La verità, secondo Gioffré, che lavora nell'unico ambulatorio ginecologico della Asp che fa ecografie in tutta l'area tirrenica del Reggino, è che «con la Sanità calabrese è stato finanziato ogni atto illecito in Italia, e non parlo solo della 'ndrangheta, ma di società private, farmaceutiche, di fornitori. Io ci avevo messo le mani e per questo sono stato cacciato. Poi, anche minacciato di morte. Bisogna andare indietro almeno al 2005 se si vuole davvero capire qualcosa».

Forza Cuba. Lo strano caso dei 497 medici cubani assunti in Calabria (e sfruttati da L’Avana). Maurizio Stefanini su L'Inkista il 31 Agosto 2022.

Secondo la Human Rights Foundation, il regime di Cuba affitterebbe a governi stranieri i suoi dottori, riducendoli a una condizione di semi schiavitù lavorativa per confermare il ruolo dell’isola come potenza medica mondiale. Il personale sanitario calabrese ha presentato un ricorso al Tar per contestare la decisione del presidente berlusconiano di Regione Roberto Occhiuto di assumerli per coprire supposte carenze

È finita al Tar la storia dei 497 medici cubani che il presidente della Regione Calabria Roberto Occhiuto ha deciso di assumere a tempo determinato, dicendo che in pratica che medici locali non hanno voglia di lavorare. I medici locali, appunto, ribattono che è la Regione che non offre loro le condizioni, ma questo è solo un aspetto della polemica. Un altro è che Occhiuto è di Forza Italia, e fa un po’ effetto vedere un partito che da una parte ha fatto storicamente campagne elettorale sul pericolo comunista e poi ricorre invece ai servigi di un regime comunista, facendone pure gli elogi. 

Sono appena usciti due rapporti in cui si denuncia l’affitto di medici cubani a governi stranieri come una vera e propria forma di schiavitù, dove il regime incassa almeno i tre quarti degli emolumenti e lascia agli «schiavi» le briciole. In effetti, in Calabria su 4700 euro pagati dalla Regione ai medici ne andrebbero solo 1200.  

«Non vorremmo che, considerata la carenza di risorse, il dumping salariale facesse il suo ingresso anche nel settore medico», è la denuncia di Cimo-Fesmed. E se vogliamo c’è qui un quarto aspetto paradossale, con tanti estimatori ideologici del regime cubano proprio in opposizione a un “ordine mondiale neoliberale” che si baserebbe sullo sfruttamento dei lavoratori del Terzo Mondo apposta per demolire i diritti dei lavoratori del Primo.    

Il sindacato, cui aderiscono Anpo-Ascoti, Cimo, Cimop e Fesmed, rileva una quantità di punti contestabili nell’accordo con la società cubana incaricata di individuare i medici disponibili a lavorare in Calabria. Sia formali che sostanziali. 

Secondo Guido Quici, presidente della Federazione Cimo-Fesmed e vicepresidente della Cida, «l’utilizzo della procedura dell’accordo quadro per l’affidamento di prestazioni di somministrazione di manodopera è in generale vietato dalla legge se non per il tramite delle Agenzie a ciò autorizzate, e in ogni caso è vietato per l’esercizio di funzioni dirigenziali quali quelle che spettano ai medici. Inoltre la regione Calabria, prima di adottare una soluzione estemporanea come quella di rivolgersi a Cuba, ha del tutto ignorato la possibilità di assumere i medici specializzandi degli ultimi anni di formazione, come previsto dalla legge».

Ma la protesta aggiunge che «non può lasciare indifferenti quanto emerso in una recente pubblicazione della statunitense Fondazione per i diritti umani, che fa luce su un vero e proprio traffico di medici cubani nel mondo per confermare il ruolo dell’isola come potenza medica mondiale: secondo il rapporto, in 60 anni oltre 400.000 professionisti sanitari sarebbero stati costretti da Cuba a lavorare all’estero, trattenendo tra il 75% e il 91% del loro stipendio».

Il rapporto di Human Rights Foundation si occupa in effetti del modo in cui  le missioni mediche cubane sono utilizzate «per esportare il marchio ingannevole della diplomazia medica dell’isola e promuovere il mito di Cuba come ’potenza medica mondiale». I 400.000 operatori sono stati schierati in 164 Paesi, e presentati come «missionari della Rivoluzione Cubana». Attualmente ce ne sono tra 34.000 e 50.000 professionisti in più di 60 paesi in Africa, America Latina, Europa e Medio Oriente, e dal marzo del 2020 con l’’occasione del Covid il numero e le dimensioni di queste missioni sono aumentate, con l’invio di oltre 2.770 operatori in più in 26 paesi. Una anche in Italia, di cui c’è il sospetto che Cuba ne abbia approfittato per procurarsi il materiale servito per preparare i suoi vaccini.

Il regime cubano presenta queste missioni come mostra di «solidarietà» e c’è in molti la percezione che siano gratuite, esattamente come quelle che dall’Occidente vengono mandate nel Terzo Mondo. Non solo però non è così. Con produzioni tradizionali come zucchero e tabacco che il regime comunista ha distrutto al punto da arrivare a minimi storici e con la fine dell’aiuto sovietico, già dall’inizio del nuovo millennio affittare medici era diventata una delle principali fonti di entrate del regime. Con la pandemia che ha pesantemente danneggiato il turismo e con Trump che ha pure reso più difficili le rimesse negli ultimi due anni era divenuta quasi l’unica. Nel 2021 sono stati stimati tra i 6 e gli 8 miliardi di dollari all’anno. 

Poiché a Cuba i medici guadagnano l’equivalente di 150-200 dollari al mese, entrare nei programmi fa sperare di incassare qualcosa di più. E l’’88,4% di ex-partecipanti a missioni che ha potuto dare una testimonianza ha confermato che era stato spinto dalla povertà. Ma a quel punto, ricorda il rapporto, il personale «affronta violazioni dei propri diritti alla libertà di associazione, alla libertà di movimento e alla libertà di espressione». 

Secondo i calcoli fatti da Hrf, in realtà poiché la gran parte dei Paesi in cui i medici vanno sono del Terzo Mondo con il 9-25% di uno stipendio da medico del Terzo Mondo finiscono per prendere anche meno che a Cuba: la media è sui 70-75 dollari. Ma ad esempio in Brasile, dove pure c’è stata una polemica, il 9,36% di stipendio loro riservato equivaleva a 400 dollari. Più del doppio che a Cuba. I 1200 euro calabresi sarebbero sei volte il loro stipendio massimo cubano.      

Ci sarebbe, ovvia la tentazione di restare nel Paese, per provare a guadagnare uno stipendio intero. Ma, appunto, qua il regime cubano si blinda in molti modi. Innanzitutto, quasi la metà degli stipendi dei medici è conservata in un conto bancario cubano a cui i medici non possono accedere se non al loro ritorno a Cuba, dopo aver completato la loro missione. 

Se i lavoratori «abbandonano» la missione, il regime dopo averli dichiarati «traditori del Paese» confisca la parte del salario trattenuta sull’isola, a parte far passare guai ai familiari. Non potranno inoltre tornare nell’isola in visita se non dopo otto anni, e non potranno esercitare all’estero, perché lo Stato cubano non rilascia permessi o documenti per convalidare il titolo, e anzi dal 2018 ha addirittura vietato  la legalizzazione di documenti accademici o di altro tipo per gli operatori sanitari che prestano servizio in missione o partecipano a eventi internazionali. In più il passaporto normale è sostituito da un passaporto speciale che impedisce di viaggiare in luoghi diversi da Cuba, e non viene consentita la residenza permanente nel Paese ospitante attraverso il matrimonio.

Ci sono state poi polemiche ulteriori sulla preparazione. In Venezuela, dove il regime ha pagato i medici cubani in barili di petrolio, c’è una diffusa lamentela sul fatto che in realtà la maggior parte di loro in realtà fossero semplici tecnici sanitari. Anche la Ong Prisoners Defenders ha appena presentato una denuncia secondo la quale i 600 membri della missione medica arrivata in Messico per assistere contro la pandemia erano in realtà militari, proprio per evitare il rischio di diserzioni. Prima di partire avrebbero solo ricevuto un corso intensivo di tre giorni che è poi risultato obsoleto, perchè non li metteva in grado di gestire i respiratori artificiali degli ospedali messicani. In questo caso il governo messicano avebbe pagato 10.700 dollari per ogni membro della missione, che però ne ha ricevuti solo 600.    

Tornando al ricorso della Federazione Cimo-Fesmed, secondo Quici «il ricorso ad enti esterni per il reclutamento di medici crea una concorrenza sleale nel mercato del lavoro che va combattuta senza se e senza ma in tutta Italia, e mi auguro che alla lotta intrapresa dalla Federazione Cimo-Fesmed si uniscano presto altre associazioni di settore». 

«Se da una parte i medici delle cooperative vengono pagati anche cinque volte di più rispetto a un medico dipendente del Servizio sanitario nazionale, attirando sempre più professionisti che preferiscono non partecipare ai concorsi pubblici, ai medici stranieri che vengono in Italia, come nel caso dei colleghi cubani, vengono riconosciute retribuzioni inferiori rispetto alla media». Insomma, per la Cimo-Fesmed «l’unico modo per risolvere il problema della carenza di medici è formare nuovi professionisti e bandire concorsi per assumerli stabilmente all’interno del Servizio sanitario nazionale. I concorsi devono essere l’unica porta d’ingresso nel Sistema sanitario nazionale».

"L'hub della mafia assume medici cubani": il Times fa arrabbiare la Calabria. Alessia Candito  il 24 agosto 2022 su La Repubblica

Serio, austero, persino grigio, da decenni il Times è simbolo di autorevolezza, ma con il suo ultimo pezzo sulla Calabria ha quasi rischiato l’incidente diplomatico. Ed è rapidamente dovuto correre ai ripari. Motivo? Il titolo che qualche giorno fa campeggiava in bella vista sul sito: “L’hub della mafia assume medici cubani mentre i dottori italiani evitano la regione”. Così il noto quotidiano britannico ha titolato il pezzo del suo corrispondente in Italia, che dava conto dell’accordo – da molti contestato -  firmato dalla Regione Calabria che permetterà di assumere  497 medici cubani destinati a coprire i crateri d’organico negli ospedali, rimasti tali a dispetto di concorsi banditi e andati spesso deserti.  

Online il titolo non è durato più di una manciata di ore, ma tanto è bastato per far inviperire il governatore calabrese. “Sono pronto a denunciare il giornale britannico”, ha fatto sapere tramite Facebook, Twitter e note stampa. Sempre sui social si è scatenata una pioggia di reazioni e commenti negativi di utenti a cui non è andato giù che la Calabria venisse bollata come hub della mafia. Troppi, anche per un colosso come il Times, che rapidamente ha ammorbidito il titolo. “I dottori cubani – si legge dopo la rettifica – rimpiazzano i medici italiani che evitano gli ospedali calabresi dominati dalla mafia”.  Anche l’autore del pezzo ha fatto un pubblico passo indietro, rispondendo alle tante critiche su Twitter: “Sono d’accordo, avete perfettamente ragione”.  

Non una riga del pezzo però è stata modificata. Ed è un’analisi reale e senza filtro di tutte le carenze della sanità calabrese, assediata dai debiti, per oltre un decennio commissariata e affidata a tecnici nominati dal ministero. Risultato, il rosso ha continuato a crescere, mentre interi ospedali venivano chiusi, i servizi precipitavano, i reparti si svuotavano per il blocco del turnover, le Asp venivano commissariate per mafia, i clan prendevano in gestione interi reparti e l’emigrazione sanitaria cresceva anno dopo anno.  

Dall’autunno scorso, il settore – sempre sotto sorveglianza speciale – è tornato in mano alla politica, il governatore Roberto Occhiuto è il nuovo commissario alla Sanità. E con le politiche alle porte, è tema caldo di campagna elettorale. Anche al prezzo di un contenzioso internazionale con il Times.   

Carlo Macrì per il “Corriere della Sera” il 22 agosto 2022.

Non sono ancora arrivati, ma la polemica sull'impiego di medici cubani negli ospedali della Calabria per rimediare alla carenza di personale è sempre più accesa. E sono soprattutto giovani medici e infermieri che hanno dovuto lasciare la regione per poter lavorare a criticare la decisione del governatore Roberto Occhiuto.

Alessia Piperno, chirurga che ha scelto di tornare a Vibo Valentia dopo aver lavorato in Lombardia, ha affidato il suo sfogo a un lungo post su Facebook. E si è definita «offesa» dalle dichiarazioni di Occhiuto: «"I medici cubani fiori all'occhiello dei paesi caraibici"? Il presidente dovrebbe pensare piuttosto all'orgoglio di noi medici calabresi che nonostante le difficoltà della nostra sanità, spinti dall'amore incondizionato per la nostra terra, decidiamo di tornare per metterci al servizio di chi sta male per garantire quel minimo di aiuto alla sanità pubblica».

L'accordo tra il presidente della Regione e la società dell'Avana prevede per i 497 medici cubani - assunti con contratti fino a 36 mesi - un trattamento economico di 3.500 euro al mese, più 1.500 euro di bonus. E per accordo anche il soggiorno in un appartamento con climatizzatore, computer e telefono. 

«I contratti proposti a loro hanno una validità di tre anni, a noi di soli tre mesi», continua Piperno che definisce «strana» l'impossibile ricerca di personale da assumere: «Io abito a Vibo Valentia e le uniche proposte che ho ricevuto sono a tempo determinato ed in libera professione. Noi probabilmente siamo troppo incapaci per meritare la stabilizzazione. Chi mi ha valorizzata e ci tiene ad avermi nel suo staff medico è la tanto criticata sanità privata». 

In una lettera anche i cinque presidenti degli Ordini dei medici e degli odontoiatri della Calabria «esprimono forti perplessità». In particolare «in merito alle garanzie di qualità nell'assistenza che sarà fornita da questi operatori sanitari stranieri ai cittadini calabresi». Manifestano poi «incertezza sui requisiti e sui titoli che vanno rigorosamente verificati per esercitare la professione in Italia».

Eugenio Corcioni, presidente dei medici della provincia di Cosenza afferma: «Il pericolo è che possano incorrere nell'esercizio abusivo della professione». E aggiunge: «Qualora i medici cubani non dovessero superare l'esame della lingua, per loro sarà impossibile poter assumere qualsiasi incarico».

Per il Presidente della giunta calabrese, invece, il metodo seguito è stato lineare e le polemiche «sono frutto solo del corporativismo della categoria e dell'attività sindacale, contraria a questa soluzione». Occhiuto precisa: «Siamo in emergenza e siccome per definire un concorso pubblico ci vogliono almeno sei mesi, non potevo permettermi di lasciare i calabresi senza sanità. Altrimenti avrei dovuto chiudere gli ospedali. È stato impossibile reclutare nuovi medici, nonostante abbiamo fatto decine di concorsi». 

E qui arriva lo sfogo: «Non sono arrivate domande e spesso le procedure sono andate deserte o, addirittura, i pochissimi vincitori di concorso si sono rifiutati di prendere servizio».

Torino, gli infermieri: «Pazienti 30 ore in barella nei pronto soccorso. Così aumentano insulti e violenze». Nicolò Fagone La Zita su Il Corriere della Sera il 26 Agosto 2022.

Francesco Coppolella (Nursind): «Siamo sempre sotto organico e il disservizio provoca episodi di violenza verbale e fisica ai danni degli operatori. Molti colleghi si stanno dimettendo, lasciati soli dall’azienda» 

“Secondo la norma il paziente che arriva in pronto soccorso dovrebbe aspettare al massimo due ore. In Piemonte invece, se ti va bene, prima di essere ricevuto trascorri 30 ore in barella. E nei casi peggiori puoi attendere anche una settimana, come a Chivasso. Inoltre gli utenti la maggior parte delle volte sono cittadini over 70, quindi persone fragili. Siamo al punto di non ritorno”. Così Francesco Coppolella, segretario del sindacato degli infermieri Nursind, descrive la situazione degli ospedali in tutto il territorio torinese.

Le conseguenze? Ritardi di valutazione e trattamento, peggioramento degli esiti, aumento dei tempi di degenza, esposizione agli errori. Ma non solo: “Il disservizio provoca rabbia e disagio negli utenti, e tutti i giorni ci vengono comunicati episodi di violenza verbale e fisica ai danni degli operatori. E difatti molti colleghi si stanno dimettendo. Anche perché vengono lasciati soli dall’azienda”.

Se un soggetto provoca danni materiali nella sala d’attesa, infatti, viene subito denunciato con la richiesta di risarcimento. Mentre “la stessa cosa non accade se un operatore viene aggredito, visto che non è accompagnato nell’iter giudiziario. Vale più l’integrità di una sedia rispetto all’incolumità di un infermiere. In 4 anni – continua Coppolella - abbiamo assistito ad un aumento del 60% dei casi di violenza. Il 50% degli infermieri ne ha subita almeno una durante la sua carriera. Per questo abbiamo deciso di fare un esposto alle procure di Torino e Ivrea, visto che le aziende non hanno mai risposto alle nostre sollecitazioni. E presto accadrà anche in altre zone: ci sono leggi e norme, nell’accesso alle cure dopo il triage, che non trovano applicazione”.

Tra i motivi anche l’annosa questione della mancanza del personale: “Gli organici sono quattro volte inferiori rispetto a quella che dovrebbe essere la normalità. La condizione di sovraffollamento e di forte criticità dei nostri pronto soccorso non è più un’eccezione ma la regola”.

Il sindacato inoltre non esclude di intraprendere altre azioni: “Molto probabilmente ci rivolgeremo alla Corte dei Conti – conclude Coppolella - vogliamo capire che fine hanno fatto gli 80 milioni stanziati per la riorganizzazione territoriale della sanità e per l’assunzione di nuovi infermieri. Qualcosa non torna”.

Medici mancanti, perché eliminare il numero chiuso a Medicina non serve. Gianna Fregonara, Milena Gabanelli e Simona Ravizza su Il Corriere della Sera il 24 novembre 2022. 

Ogni volta che si parla di medici che mancano viene tirato in ballo come causa del problema il numero chiuso a Medicina. In un momento in cui i buchi di organico sono la vera emergenza della Sanità, perché si ripercuotono sulle liste d’attesa e non ci assicurano di essere assistiti in fretta e al meglio, ritorna l’eterna domanda: perché non aboliamo il numero chiuso a Medicina? Che sia meglio eliminarlo è convinto anche il vicepremier Matteo Salvini che in campagna elettorale ha ribadito: «Cancelliamolo per sopperire alla carenza di medici» (qui). È una posizione che rispecchia il pensiero della maggior parte degli studenti che si scontrano con lo sbarramento, considerato anche un ostacolo alle aspettative sul proprio futuro. Vediamo come stanno davvero le cose.

Perché nasce il numero chiuso

Il numero chiuso viene sancito dalla legge 264 del 1999 dell’allora ministro dell’Istruzione Ortensio Zecchino che lega il numero di posti a Medicina alla disponibilità di aule, docenti, laboratori, possibilità di tirocini e partecipazione degli studenti alle attività formative obbligatorie. Le ragioni della scelta sono principalmente due: garantire ai futuri medici la formazione migliore possibile - che deve fare i conti con la disponibilità di docenti che insegnano e di pazienti da visitare - e non sfornare troppi disoccupati. Così ogni anno gli atenei comunicano al ministero dell’Università il numero di posti a disposizione. In contemporanea la Conferenza Stato-Regioni raccoglie i dati sul fabbisogno di medici che saranno pronti a entrare in ospedale tra 10 anni. A questo punto viene aperto un «tavolo di programma» tra il ministero e la Conferenza Stato-Regioni in cui vengono definiti i posti ateneo per ateneo.

Candidati e numero di posti

Com’è andata negli ultimi 10 anni nelle 42 università pubbliche e nelle 7 private che via via sono nate? Fino al 2018 su 60 mila candidati ne entra solo 1 su 7 che vuol dire su per giù il 15%. Dal 2019 entra un candidato su 4, ossia il 25%, perché i posti aumentano da 9 mila circa a 14.740 nel 2022.

La Statale di Milano passa da 410 posti nel 2013 a 515 nel 2022; la Sapienza e Tor Vergata di Roma rispettivamente da 908 a 1.156 e da 240 a 290; Bologna da 400 a 614; Firenze da 330 a 378; la Federico II di Napoli da 413 a 623. Se invece non ci fosse stato il numero chiuso e se oggi venisse eliminato, la situazione sarebbe differente e potremmo avere i medici che servono? No. Ecco perché.

Imbuto formativo

Il problema non è il numero chiuso a Medicina, ma quel che succede dopo. Tra il 2013 e il 2018 su 51.369 neolaureati in Medicina solo 43.748 hanno potuto completare il percorso di studi entrando nelle Scuole di specializzazione (36.733) oppure frequentando i corsi di formazione triennali per medici di famiglia (7.015): vuol dire che almeno 7.621 non hanno avuto la possibilità di fare né uno né l’altro.

Il numero di posti messi a disposizione è sottodimensionato per motivi economici sia rispetto al fabbisogno futuro di medici sia rispetto al numero di neolaureati

La formazione di uno specialista costa allo Stato dai 102 mila ai 128 mila euro e pesa sui bilanci del momento. In un documento della Conferenza Stato-Regioni del 21 giugno 2018 si legge: «Per l’anno accademico 2017-2018 il fabbisogno stimato di medici è pari a 8.569 unità, mentre le risorse disponibili per il medesimo anno consentono il finanziamento a carico del bilancio dello Stato di 6.200 contratti di formazione specialistica, con una differenza di 2.369 unità. Il significativo scostamento negativo tra le esigenze di medici e quello che può essere concretamente soddisfatto con le risorse statali si è registrato anche negli anni accademici precedenti. Il fenomeno è destinato a produrre una carenza di medici specializzati per il Ssn». Fin qui, dunque, il problema è il cosiddetto «imbuto formativo».

Programmazione carente

Poi le cose cambiano: come abbiamo visto dal 2019 i rettori degli atenei si impegnano a garantire più posti a Medicina (4.961 in più nel 2022 rispetto al 2018, ossia il 50% in più). E contemporaneamente aumentano anche i posti nelle Scuole di specialità (7.091 in più tra il 2018 e il 2022, ossia più che raddoppiati) e nei corsi triennali per medici di famiglia (1.313 in più dal 2018 al 2022, più 60%). Ma, come abbiamo già denunciato in un recente Dataroom (qui), davanti alla possibilità di ampia scelta, i posti nelle Specialità che più servono non vengono coperti: al 7 novembre il 58% dei posti in Medicina d’Emergenza-Urgenza è scoperto, in Anestesia e Rianimazione il 21,5%; in Radioterapia il 73,5%. Adesso, dunque, uno dei problemi principali è riuscire a far sì che chi fa programmazione (il ministero della Salute) e chi bandisce i posti nelle scuole di specializzazione (il Miur) bilanci l’offerta riducendo per esempio i posti nelle specialità che non servono e che sono spesso le più richieste. È urgente calcolare correttamente quanti medici e per quali specialità serviranno tra 4-5 anni che è il tempo necessario per formare nuovi specialisti.

Selezione di qualità

Eliminare il numero chiuso, quindi, non risolverebbe il problema della mancanza di medici. Resta, però, la rabbia degli studenti che non riescono a superare il test d’ingresso e che vedono infranto il loro sogno di entrare in corsia. È questo il motivo per cui è indispensabile che i criteri di selezione di chi entra a Medicina siano i migliori possibili: il test d’ingresso non può essere una lotteria. Nel 1999 la prova è di 90 domande, poi dal 2000 al 2012 di 80 e dal 2013 a oggi di 60. Ogni risposta corretta vale 1,5 punti, quelle sbagliate -0,4, quelle in bianco 0.

Il test è stato modificato quasi tutti gli anni: la parte di comprensione e logica è diminuita ed è cresciuta quella che riguarda le domande delle discipline scientifiche

Ma negli anni non sono mancate domande ridicole che nulla hanno a che fare con l’individuazione delle capacità che servono per diventare un buon medico.

Come cambia il test d’ingresso

Dal 2023 il test cambia ancora su decisione del governo Draghi: il decreto 1107 del 24 settembre 2022 (qui) raddoppia le sessioni di prova - che saranno due all’anno e non più una - e si terranno ad aprile e luglio 2023. In più potrà partecipare non solo chi sta facendo la maturità o l’ha già fatta, ma tutti gli iscritti all’ultimo o penultimo anno delle superiori che potranno inserire il loro miglior punteggio nella piattaforma dove sarà stilata la graduatoria.

L’obiettivo è far sì, appunto, che il test d’ingresso non sia più un terno al lotto. Anche perché più viene aumentato il numero di posti a Medicina, più è destinata ad abbassarsi la qualità dei candidati che poi saranno i nostri medici di domani. Al nuovo governo spetterà il compito di attuare la riforma.

Don Ciccio il Dottore e le sue «capatine». Il medico arrivava puntuale, salutava, si sbarazzava del pastrano e barattava quattro chiacchiere con la famiglie. Michele Mirabella D'Alò su La Gazzetta del Mezzogiorno il 20 Novembre 2022.

Certe farneticazioni sulla pandemia ancora in corso mi hanno spinto a rileggere qualche pagina del mio ultimo libro onde confermare la pace abituale con i medici, la stragrande maggioranza, che amo e rispetto. Una minoranza infima, nel senso della qualità oltre che della quantità, non la amo e non la stimo per le farneticazioni di cui dicevo in testa a questo scritto domenicale dedicato ai nomi di cose e persone, delle arti e delle mansioni, delle virtù e degli immancabili vizi. Dedico la citazione ai medici che si battono per difendere noi e la scienza.

«Da piccolo, non avevo paura del medico, non perché fossi un bambino diverso, ma perché era un medico diverso. In verità, in famiglia, lo chiamavamo «Il Dottore»; o, più rispettosamente, Don Ciccio.

A me pareva adatto il «Don» spagnolesco per quel signore burbero e pacioso, altero e gentile, sapiente e severo, ma rassicurante con i pazienti durante le visite cui era chiamato nel venerando palazzetto dove nacqui e abitai per pochi, indimenticabili anni d’una infanzia fuggitiva. Don Ciccio non diceva visite, diceva «capatine»: «Faccio una capatina dopo pranzo», garantiva a chi ne invocava l’intervento, raggiungendolo nella sua casa austera piena di libri e quadri che incutevano reverenza e curiosità invitando anche alla consapevolezza che in quelle spaziose stanze sempre in penombra abitasse il sapere. Sapere generoso.

E il Dottore arrivava puntuale, salutava, si sbarazzava del pastrano, barattava quattro chiacchiere con la famiglia, si informava su che cosa avessimo mangiato a pranzo e commentava il menu, dava notizie della sua famiglia su richiesta delle zie e, poi, incidentalmente, domandava: «Allora, che cosa è successo?», come se il malessere, la malattia fossero compresi nel conto negli accadimenti naturali della vita quotidiana che alterna noie, dolori a gioie, quiete e piaceri che succedono, appunto. Usava un tono colloquiale e ascoltava paziente, interrompendo con domande buttate lì, con interesse, ma senza ansia, domande tecniche, anamnestiche, cliniche, insomma, ma che sembravano fatte per cortesia, per affabilità, giusto per far conversazione.

Sembrava parlare del tempo o della stagione calda che si protraeva o del raccolto delle olive. Poi, d’improvviso, come raggiunto da un pensiero o per ricordarsi di un impegno improvviso, interrompeva il profluvio di lai e querimonie degli astanti che dicevano e spiegavano e allarmavano e bofonchiava: «Diamo un’occhiata», e si dirigeva verso la stanza da letto.

Don Ciccio conosceva a menadito le case dei suoi pazienti. La stanza era rassettata: era stato tirato fuori un copriletto buono, ricamato che profumava di lavanda, il gatto era stato allontanato sul terrazzo, sulla sedia c’era un candido asciugamano del corredo di qualche cugina appena sposata (ve n’erano sempre) e sul comò era stata messa una bacinella d’acqua tiepida. Iniziava la visita.

La liturgia era quella accurata della semeiotica tradizionale. Don Ciccio toccava, palpava, auscultava, scrutava, accarezzava, premeva sollecitava, picchiettava. Tutto avveniva in un silenzio perfetto, al punto che si poteva sentire il ronzio di qualche mosca sopravvissuta alla caccia preparatoria consumatasi in attesa della visita ad opera della cameriera con il meticoloso arieggiare ritmato delle persiane alternato allo sventolio cadenzato di un canovaccio. Solo la pendola del salotto, incurante, dava il suo periodico arpeggiare. Durante la esplorazione del paziente nessuno fiatava. Le zie ammiccavano tra di loro. La mamma dell’ammalato pregava mentalmente gironzolando con lo sguardo dalle laboriose mani del medico alle immagini sacre che affollavano un altarino posto sul comodino con le fotografie ovali delle «buonanime» che neanche Don Ciccio era riuscito a salvare.

Io, strappato il consenso a seguire la cerimonia, ricordo l’espressione di Don Ciccio che alternava curiosità, lievi stupori, sfumati corrucci, sospiri. Poi concludeva «Rivestiti». Don Ciccio dava a tutti del tu conservando il nomignolo infantile di quando li aveva visitati per la prima volta. Seguiva un momento di pausa, poi si rivolgeva alla mamma del caso e sentenziava la diagnosi prodigandosi in traduzioni popolari delle comuni patologie in cui si imbatteva. Ringrazio Dio di non aver mai ascoltato da Don Ciccio una diagnosi drammatica, ma sono certo che avrebbe trovato i modi più gentili e generosi della più squisita umanità.

A quel punto alzava leggermente le belle mani col dorso verso l’esterno e questo significava che voleva lavarsi.

«Mani da chirurgo» sussurrava, immancabilmente Zia Rosina e voleva dire mani da miracoli. Don Ciccio lo sapeva e camuffava dietro il suo brontolio di ritrosia una minuscola vanità. Ci si accomodava in salotto: il rituale prevedeva un caffè. Il dottore si sedeva al tavolo da pranzo, poi prescriveva il da farsi e cominciava: «Dite a Don Luigi». Era il farmacista. Un altro Don meritato.

Scritta la ricetta, sorbiva il caffè, ringraziava e, alle premure di quelli che, abbassando la voce, osavano un «Per il disturbo, Don Ciccio?», opponeva il conclusivo «Pensate alla salute». Ricordo che, quando sentì alla radio la notizia che era stato prodotto il vaccino antipolio, si commosse e abbracciò mio nonno. Per fraternità. E gli spiegò quanto fosse importante un vaccino. Questo era Don Ciccio il «Dottore».

Quell’arte medica senza più carezze. I dottori del mondo (per ora) potranno essere virtualmente convocabili al capezzale di un malato con la loro competenza ed esperienza. Michele Mirabella su La Gazzetta del Mezzogiorno il 04 Dicembre 2022

Uno degli inciampi più facili della politica è l’organizzazione della sanità. La trasversalità delle esigenze e delle rivendicazioni, le particolarità a volte contraddittorie, le abitudini consolidate, il marasma di interessi si coagulano in nodi che agitano i sonni dei politici. Il caso della recente pandemia che repentinamente ha imposto di mutare non solo assetti ed abitudini pubblici, ma, anche, le scelte generali della politica nazionale e del governo del Paese, appunto, fu esemplare nello scorcio degli ultimi ormai tre anni. E oggi? Oggi la Corte Costituzionale considera legittime le disposizioni governative in ordine all’obbligo vaccinale in casi ben definiti.

Oggi mi viene in mente di ricorrere alla citazione. L’ambito è, quindi, sanitario. Si tratta di un frammento letterario che narra della motivata diffidenza, lo vedremo, di un cittadino nei confronti di una ancora incertissima «arte» medica che si sforzava di radunare molte competenze scientifiche come aveva predicato Aristotele. L’affannosa storia della Medicina annovera stazioni di posta arruffate e confuse agli esordi della lunga, meravigliosa e faticosa strada della Medicina nelle epoche storiche. Certe diffidenze avevano una giustificazione, non come le incomprensibili diffidenze e gli assurdi scetticismi dei nemici dei vaccini. Ma, ecco la pagina antica.

«Languebam, sed tu comitatus protinus ad me, / venisti centum, Symmache, discipulis. / Centum titigere manus Aquilone gelatae; / non habui febrem, Simmachae, nunc habeo». (Epigrammi V, 9).

È la lagnanza di Valerio Marziale, arguto poeta latino vissuto nel primo secolo, che sapeva abbinare l’ingegnoso gusto per la mordacità della lingua con la satira del tempo suo corrotto nei costumi e negli stili di vita. Come diremmo oggi.

I versi umoristici e sapidi ci lasciano filtrare l’immagine di un medico, nei vocativi dell’epigrammista, si chiama Simmaco, che girella nelle visite a domicilio, scortato da un corteggio brusiante di discepoli famelici di sapere, probabilmente avidi di trucchi, certamente in ansiosa attesa di cadreghe e di clienti patrizi.

La traduzione dei versi per i pigri o i dimentichi del latino ginnasiale: «Ero malato, ma tu con un codazzo di cento allievi, Simmaco, sei venuto subito a visitarmi. Cento mani, gelate dall’Aquilone, mi hanno toccato: Simmaco, io non avevo la febbre, adesso ce l’ho». Oggi Aquilone non è più un vento per nessuno, è solo un bel giocattolo. Simmaco non esercita più, è in pensione. I suoi allievi si sono sparsi per il mondo. I loro eredi non fanno più a gara per palpeggiare con i polpastrelli-ghiacciolo il torace o l’addome di nessuno: studiano in sofisticati isolamenti e, in solitaria e pensosa fatica, attendono telefonate, elaborano ipotesi, programmano analisi, consultano Internet e in questo nuovo oceano viaggiano speranzosi. Certo seguono il Maestro, ma sono sicuro che il codazzo si è assottigliato assai, le visite non sono più quella vociante assemblea intorno al malato, quella conviviale occasione per lui di essere al centro di un’attenzione, a volte, troppo invadente, ma altre volte una buona occasione per sentirsi meno soli a cospetto del morbo misterioso.

Tutto è più moderno e, diciamolo, asettico. So di pratiche efficienti di elettrocardiogrammi trasmessi per telefono o con l’uso dei «social» a centri specializzati dove uno specialista ascolta, rileva, esamina, calcola, emette il risultato senza nemmeno veder in faccia il paziente e, poi, spedisce al collega una diagnosi. Funziona, certo, funziona benissimo. È il futuro che ci prepariamo a vivere. La telemedicina, tra gli altri eccellenti vantaggi, salverà i pazienti dall’arrembaggio degli studenti che potranno seguire comodamente la visita-lezione sul monitor dell’Università. Senza rischiare le gelide minacce di Aquilone.

È vero, il medico continuerà ancora e sempre a guardare negli occhi il paziente.

Me lo assicurano quando li intervisto e ci credo. Ma io chiedo di largheggiare in parole e in domande, perché sono, non dico taumaturgiche, ma sicuramente preziose.

I medici di tutto il pianeta (per ora) potranno essere virtualmente convocabili al capezzale di un malato con la loro competenza e la loro esperienza. Mi assicurano che si arriverà ad operare con gli automi, a distanza: il luminare nel suo studio in metropoli irraggiungibili e la macchina ubbidiente, ubbidiente ad eseguire i comandi con precisione millimetrica in una sala operatoria posta in un altro continente. La faccenda è, forse, malinconica, ma i vantaggi sono enormi. Si potrà contare sull’aiuto di esperti a portata di macchina elettronica e si risparmierà, oltre tutto, la spesa delle trasferte. È evidente, però, che la macchina sbaglia solo quando sbaglia colui che la fa funzionare e che la macchina, invariabilmente e tassativamente, sbaglierà se questi sbaglierà, perché non ha la capacità di emendare uno svarione o di correggere un errore involontario. Credo.

Almeno che non sia programmata anche per questo e non conosca tutte le possibilità di fallo o di accidente che la procedura medico-chirurgica in questione contempla.

In questo caso insegnatele anche a fare una carezza al paziente. Purché abbia le mani tiepide.

I medici di base stanno scomparendo. E chi resta fa i salti mortali per coprire le falle della sanità. Anziani in fila dall’alba per avere le prescrizioni delle ricette e sempre meno professionisti, costretti a occuparsi di duemila pazienti a testa. Così la promessa di tornare a preoccuparsi per la medicina di prossimità è stata tradita. Anche nella ricca Lombardia, la regione colpita più duramente dalla prima ondata di Covid. Francesca Sironi su L'Espresso il 16 Agosto 2022.

L’ultima arrivata resta in piedi, di fianco alla porta da cui entrano le fiamme di agosto. Da giorni la pianura padana è un microonde: muoversi è boccheggiare nell’afa inedita per intensità e durata che il cambiamento climatico impone.

La signora appena entrata vacilla. «Chi viene prima di me?», chiede, poi si appoggia allo stipite. Ha una busta di plastica in una mano, nell’altra un plico di fogli bianchi e rossi. Sono ricette di farmaci, «devo solo ripeterle», spiega, deve cioè rinnovare delle prescrizioni per una malattia cronica. La sala d’aspetto dell’unico studio medico di base aperto, a Levate, è gremita. In questo borgo della provincia bergamasca, case nuove e abitanti in crescita lungo l’asse Milano-Bergamo-Brescia, la piazza e le strade sono vuote, fa troppo caldo. Mentre qui, sopra i gradini del dottore, sembra un ritrovo, quasi non ci si muove dalla gente che c’è. Non sono qui perché fa fresco. Ma perché a Levate l’emergenza è la sanità, più che la temperatura.

Metà degli abitanti del paese è senza medico di base, senza una persona di fiducia a cui rivolgersi. Sono andati in pensione due dottori e da allora tremila cittadini si muovono nel caos. «Mia madre ha 91 anni, ieri non stava bene. Siamo partite e siamo andate al pronto soccorso dell’ospedale di Treviglio. Codice Bianco. Abbiamo aspettato tutto il giorno. Finalmente entriamo e il dottore scocciato ci fa: “Eh ma per queste cose deve andare dal suo medico di base”. Ma se io non ce l’ho il medico di base! Cosa devo fare eh?», racconta una donna, capelli ricci, leggins rosa, ogni parola che passa detta con più rabbia: «Adesso sono qui per chiedere se ci fanno le ricette, anche se non siamo pazienti registrati, perché altrimenti...».

La provincia di Bergamo ha pagato un tributo di vite e sofferenza altissimo alla prima ondata della pandemia. Sono passati due anni dal 3 marzo del 2020 e la paura non si è sciolta. A Nembro gli “Andrà tutto bene” sono ancora appesi, sbiaditi, alle finestre. Ad Alzano Lombardo, luogo della mancata zona rossa, si commemorano ogni marzo le vittime in piazza. In questa provincia di Bergamo, insomma, che nel pieno dell’epidemia urlava al Paese l’importanza della medicina del territorio, della cura di prossimità, che chiedeva di non lasciare indietro i fragili perché quando una catena di casi impatta gli ospedali è troppo tardi, in questa provincia di Bergamo, insomma, ci sono ventiduemila abitanti senza medico di riferimento. 22.079, per l’esattezza, come ricordava a luglio la stessa direzione sanitaria. Mancano 105 professionisti, per completare gli ambiti scoperti, aggiungendosi ai 559 medici di base attualmente in servizio. Risultato: ci sono 22mila residenti che sono rimasti del tutto senza figura di fiducia. Per ogni medico che è andato via, in pensione o a fare altro, è saltata la copertura dell’ambito.

La mancanza di medici territoriali è sintomo di una carenza strutturale che riguarda tutta la Lombardia, come mostrava L’Espresso qualche settimana fa. Questo problema di organico, strutturale, se vissuto paese per paese è smarrimento, nervosismo, e un’Istituzione che arretra. L’Azienda sanitaria di Bergamo ha provato a rispondere all’emergenza potenziando all’inizio la “Continuità assistenziale diurna”, l’ex guardia medica. Prima era uno sportello aperto solo durante i weekend. In primavera è stato esteso e potenziato per i comuni più scoperti. A Treviglio, trentamila abitanti, un terzo dei residenti era senza medico: sei andati via, nessun passaggio di testimone. Per loro la continuità assistenziale ha significato stare al telefono su due numeri di centralino, disponibili due ore al giorno, dalle 9,30 alle 11,30 di mattina, per essere smistati da medici che di volta in volta si rendevano disponibili a una ricetta o a un controllo. «Ho chiamato, sa cosa mi hanno detto? Che c’erano 70 pazienti prima di me. Ho rinunciato», commenta una signora che alla fine è venuta qui: «A un mio parente l’hanno mandato a 15 chilometri da casa sua». «Senta, può portare dentro lei queste ricette se la chiamano? Grazie!», chiede una vicina: «Così intanto vado a ritirare i sacchi per l’umido in Comune».

La gente si organizza. «Si prega di non introdurre in questo ufficio buste di ricette in assenza della segreteria», è scritto in stampatello fuori dalla porta della Continuità assistenziale di Treviglio, di fianco alla farmacia. «Io ho paura a portare mio papà al Pronto Soccorso. Piuttosto vengo qui alle sette, come ho fatto l’altro giorno, e aspetto fino alle due per esser ricevuta. Anche se devo chiedere le ferie», dice una donna dall’aria mite (sono tutte donne nella sala d’attesa di Levate, questa mattina). Dal primo agosto anche l’Azienda territoriale di Bergamo ha accantonato la Continuità assistenziale, sostituita da un servizio che permette ai senza-medico di andare in farmacia e consultare i dottori che si sono resi disponibili quel giorno, attraverso un portale, per andare nelle relative sale d’attesa con i propri plichi di ricette, i problemi da risolvere, i dubbi di salute.

A luglio un bando della Direzione sanitaria ha ricevuto però la risposta positiva di 15 nuovi medici di base, neo-vincitori di concorso. Da soli potrebbero coprire, prendendosi carico di 1.500 pazienti a testa, 22mila cittadini, ovvero l’intero fabbisogno della provincia scoperta. Tutto risolto? Non proprio. Perché come spiega Michele Sofia, direttore sanitario dell’Agenzia di tutela della salute di Bergamo, i medici di base sono liberi professionisti: non può essere il servizio pubblico a decidere dove prenderanno sede. Per quanto ci siano aree disperate, dove gli abitanti hanno urgenza di avere risposte, ed altre dove in qualche modo invece ci si è arrangiati, saranno i neo vincitori a decidere dove aprire il proprio studio. «Possiamo giusto provare con la moral suasion», spiega Sofia: «Niente di più». Il 28 luglio avrebbe dovuto essere pubblicata la mappa dei luoghi scelti dai nuovi professionisti di ruolo, ma ancora non se ne ha notizia. «Stiamo parlando con i sindaci», spiegano dalla direzione. Il tentativo è probabilmente quello di individuare servizi e strutture che possano convincerli a trasferirsi dove c’è più bisogno. Ma se 15 medici potrebbero risolvere la questione, perché ne mancano 105 per completare l’organico previsto?

Perché in questi ultimi mesi molti hanno fatto come Roberto Longaretti, il dutùr della Val Cavallina, studio a Borgo di Terzo, certezza granitica del territorio. Longaretti questa mattina si è alzato alle sette, ha acceso il telefono, e iniziato a rispondere. La prima chiamata è stata alle 7,15, con un collega, per organizzare una trasfusione a domicilio per un paziente oncologico. Alle otto e mezzo è arrivato in studio e ci è rimasto fino alle due. Nel pomeriggio andrà alle visite domiciliari. Longaretti è una risposta perché vista la mancanza di colleghi ha alzato il proprio bacino a 2.000 pazienti, rispetto ai 1.500 della media. «Non è impossibile, se ci si organizza bene, con un ufficio di segreteria che dia una mano, e una infermeria dove appoggiarsi.

L’importante è riuscire a dedicare più tempo possibile alle visite». Arianna Alborghetti ha 37 anni e si è inserita ad aprile del 2019 in uno studio medico di Bergamo: «Per me la soluzione è la medicina generale di gruppo», racconta: «Qui siamo cinque colleghi, condividiamo le spese per segreteria e l’infermeria, ci diamo supporto sulle sostituzioni... è utile e funziona». Anche lei ha alzato il bacino a 1.600 pazienti, «ma oltre non riesco, non potrei più fare le visite a domicilio, che dopo il Covid-19 sono raddoppiate, perché comunque il carico burocratico è alto e non possiamo affidarlo ad altri». «Ho avuto l’incredibile fortuna di trovare un sostituto, e fra poco potrò andare in vacanza. Ma non è scontato», racconta Marco Agazzi, dottore di Ponte San Pietro, 12mila abitanti nella bassa Bergamasca: aveva 1.300 pazienti a carico, ora è salito a 1.700: «Gli ambiti scoperti sono tanti. Sia in cittadine come Treviglio, che nelle valli, dove gli anziani restano soli. Sono dieci anni che facciamo presente il problema nei palazzi della Regione. Non possono dire “non lo sapevano”». Il medico di base, dice Guido Marinoni, presidente dell’Ordine dei medici di Bergamo, «è la porta d’ingresso al Sistema sanitario nazionale. La continuità e la fiducia nel rapporto medico-paziente dovrebbero essere la base della nostra professione. E adesso in molte zone è praticamente impossibile. È inaccettabile».

«L’unica soluzione», aggiunge Marinoni: «È aumentare gli accessi ai corsi di formazione. Ma per quanto potrà andar bene, è una proiezione che ci vede inseguire i vuoti ancora per 4/5 anni». Marinoni ha una lunga esperienza, ed è concreto nelle risposte che immagina: «Lo stipendio di un medico è buono - sono circa tremila euro al mese, detratte le spese. Se potenziassimo gli strumenti per i servizi di supporto - per affitti, assunzione di personale amministrativo e infermieristico, gestione delle sostituzioni - potrebbe essere più invitante anche per le giovani generazioni, magari, che invece dopo anni di studi universitari sono ovviamente più affascinate da altre specializzazioni». Melania Cappuccio è passata da 30 anni di esperienza nei reparti di Geriatria e nella direzione di una Rsa a uno studio di medicina di base ad Albino. «Vorrei diventare una sorta di “geriatra territoriale”, perché è un bisogno fortissimo», racconta: «Se ben affrontata, la medicina generale è una bellissima professione, che permette di spaziare nelle branche. Instradare il paziente verso i giusti quesiti diagnostici è fondamentale, così come aiutare ad avere informazioni rispetto alle possibilità di cura». Anche Cappuccio lamenta il carico di adempimenti burocratici, fra ricette e fascicoli, che deve seguire, «ma se ci si organizza bene, si alleggeriscono».

La Regione adesso sta seguendo la via delle Case e gli Ospedali di comunità, luoghi dove medici di base e specialisti dovrebbero essere disponibili a una presenza ambulatoriale, così da permettere ai pazienti di trovare soluzioni diverse in un solo luogo, senza approdare alle strutture ospedaliere. Il Pnrr ci ha investito 3,2 miliardi di euro. Le inaugurazioni delle nuove sedi si susseguono anche nella Bergamasca, ma la percezione cittadina è ancora confusa e l’adesione effettiva dei professionisti resta un’incognita su cui lavorare sede per sede. Si vedrà. «Intanto vuole sapere come funziona veramente, qui?», chiede una donna sulla cinquantina, accendendosi una sigaretta, sul muretto fuori dallo studio medico di Levate: «Funziona che il medico che è andato in pensione riceve ancora, a casa sua. Da libero professionista, in forma privata. Sono quaranta euro per una visita di giorno, 80 se la telefonata è notturna. Non può più firmare le ricette, però, per cui alla fine andiamo da lui per la visita, e poi facciamo la coda qui la mattina per avere le carte».

Marco Gasperetti per il “Corriere della Sera” il 9 agosto 2022.

A trovarlo, ormai agonizzante a casa, è stata la sua fidanzata, professione infermiera. Gli ha praticato un massaggio cardiaco, la respirazione bocca a bocca ha cercato di mantenere la calma sino all'ultimo istante. Poi è scoppiata in un pianto disperato. 

Jonathan Gaddo Giusti, 31 anni, dipendente di un'azienda termoidraulica di Prato e campione di Palla Grossa, l'antico gioco di Prato simile al calcio storico fiorentino, è morto tra le braccia della compagna due giorni dopo essere stato dimesso dall'ospedale con una diagnosi favorevole.

Ad ucciderlo probabilmente è stato un infarto. 

«Ho un forte dolore al petto, mi sembra di respirare a fatica», pare abbia detto all'1 di notte del 4 agosto Jonathan ai medici del pronto soccorso del «Santo Stefano» dove si era rivolto quando i dolori al torace erano diventati insopportabili. I medici, secondo le prime ricostruzioni, avrebbero eseguito tutti gli accertamenti clinici e, dopo aver avuto un responso favorevole, lo avrebbero dimesso poco dopo mezzogiorno con 48 ore di prognosi.

Il referto parla di «dolore toracico» anche se pare che i sanitari avessero ipotizzato anche una possibile congestione. Ma qui si apre un giallo. Secondo l'avvocato cassazionista Gerardo Marliani, legale della famiglia della vittima, le analisi del sangue effettuate sul 31enne avrebbero evidenziato un valore fuori dai normali parametri della troponina, una proteina indicatrice di danni miocardici e di un eventuale infarto in divenire. 

Resta da stabilire se la stessa analisi sia stata ripetuta prima delle dimissioni del paziente ed eventualmente se i valori fossero rientrati nei parametri normali. E soprattutto c'è da capire se, con un dolore al petto e analisi «sospette», il giovane pratese sarebbe dovuto rimanere ancora sotto osservazione. «Certo è che gli esami ematici hanno dato valori negativi e dunque su questo bisogna fare chiarezza», ha detto l'avvocato Marliani.

Saranno la procura di Prato, diretta da Giuseppe Nicolosi e un'inchiesta interna dell'Asl, a fare chiarezza. La procura ha aperto un'indagine contro ignoti ipotizzando il reato di omicidio colposo ed ha sequestrato la cartella clinica della vittima. «Stiamo facendo i primi accertamenti per individuare eventuali persone indagabili dopodiché ci sarà l'autopsia», riferiscono fonti investigative. L'Asl Toscana Centro e l'ospedale di Prato hanno aperto le procedure sul rischio clinico, un'indagine interna che analizza le procedure seguite e le scelte cliniche di medici e infermieri.

La madre, Susanna Ferretti, e le due sorelle Alice e Gloria sono convinte che Jonathan potesse essere salvato e hanno immediatamente presentato una denuncia. «Hanno lasciato morire mio figlio, 31enne, per infarto, da solo, a casa, dopo una diagnosi di congestione», ha scritto su Facebook la donna disperata. 

La mamma di Jonathan ha anche raccontato che suo figlio le aveva detto di essere stato curato con una pasticca e che il giorno dopo le dimissioni si è presentato al lavoro. «Ma non stava affatto bene e per lui era una situazione molto strana - ha spiegato la signora - perché mio figlio era un ragazzo forte, atletico, pieno di salute. Non aveva nessun problema, nessuna patologia, amava la vita e tutti lo conoscevano come una persona seria e indipendente. Gli volevano bene tutti, non aveva nemici».

Jonathan si era appena trasferito nella nuova casa con la fidanzata. «Era felice, aveva grandi progetti», dicono parenti e amici. La morte del giovane ha provocato grande commozione a Prato dove il giovane giocatore della Palla Grossa era molto conosciuto, ma sta diventando anche un caso politico. Fratelli d'Italia ha annunciato due interrogazioni per chiarire come sia stata possibile la morte di quel ragazzo, la prima in Regione e la seconda in Parlamento con Giovanni Donzelli, coordinatore nazionale del partito. 

"Sta bene, torni a casa". Muore 48 ore dopo per un arresto cardiaco. Gaddo, 31 anni, era in ospedale per una congestione. Si indaga per omicidio colposo. Tiziana Paolocci il 9 Agosto 2022 su Il Giornale.

«I risultati degli accertamenti sono buoni, può tornare a casa». E a casa è tornato Jonathan Gaddo Giusti, 31 anni, bello, alto, sportivo, ma due giorni dopo è morto, probabilmente per arresto cardiaco.

La procura di Prato ha aperto un fascicolo per omicidio colposo, al momento contro ignoti, per far luce sul decesso dell'uomo, che si era sentito male e tra mercoledì notte e giovedì. Si era recato per questo al pronto soccorso dell'ospedale Santo Stefano, da dove però era stato dimesso giovedì in mattinata con una diagnosi di congestione. Le analisi erano buone e i medici non avevano riscontrato problemi seri. Invece era solo l'inizio della tragedia.

Gli inquirenti hanno già acquisito le cartelle cliniche e la procura di Prato potrebbe disporre nelle prossime ore l'autopsia sul corpo.

Ci molti dubbi da chiarire e poche certezze. Una di queste è che il trentunenne è morto per infarto sabato mentre si trovava da solo nella abitazione di via Mino da Fiesole, dove era tornato a vivere da un po' di tempo. Il dramma si è consumato nel primo pomeriggio quando Jonathan Gaddo ha chiamato la fidanzata, che lavora come infermiera, non appena i sintomi che lo avevano torturato nei giorni precedenti si sono fatti risentire, ancora più forti.

Quando l'ambulanza è giunta sul posto, con il medico a bordo, per il 31enne non c'era più nulla da fare. È morto tra le braccia della sua ragazza che cercava disperatamente di rianimarlo.

Susanna Ferretti, mamma della vittima, insegnante molto conosciuta in città, anche se originaria del comune di Cutigliano Abetone, non ha permesso di far portare via la salma fino a quando una delle figlie non è tornata a casa con copia della denuncia presentata ai carabinieri.

«Vogliamo la verità e andremo fino in fondo per capire come mai mio figlio è stato dimesso dal pronto soccorso con un infarto probabilmente già in corso. Abbiamo presentato un esposto», spiega distrutta la madre. Disperate le sorelle di Jonathan, Alice e Gloria, il padre Massimo, gli altri parenti, gli amici e gli sportivi del mondo della Palla Grossa, in particolare il presidente dei Verdi Maurizio Mencancini. «È una notizia bruttissima che ci sgomenta - ha detto - Era un giovane forte, positivo, uno sportivo che sapeva fare gruppo. Ho avuto la fortuna di giocare con lui nella prima edizione del 2012 in cui abbiamo vinto e nel 2013». Grande cordoglio è stato espresso dai calcianti degli altri quartieri.

Oltre alla Procura, del fatto si sta occupando anche l'Asl Toscana Centro. La direttrice dell'ospedale Sara Melani, in particolare, ha attivato la procedura del rischio clinico e ha disposto accertamenti interni, con l'ascolto dei sanitari presenti in pronto soccorso e la verifica delle procedure.

Da leggo.it l'11 agosto 2022.

Ci sono cinque indagati per omicidio colposo per la morte di Jonathan Gaddo Giusti, il ragazzo di 31 anni deceduto a casa sabato 6 agosto circa due giorni dopo essere stato dimesso dal pronto soccorso. Quattro medici e un infermiere del pronto soccorso dell'ospedale Santo Stefano di Prato sono stati iscritti nel registro degli indagati dalla procura nel fascicolo aperto per omicidio colposo.

Jonathan il giovedì si era presentato in ospedale per un dolore al torace, ma era stato dimesso. Il giorno dopo però si è nuovamente sentito male, ma stavolta il malore gli è stato fatale ed è morto, forse stroncato da un infarto. A dire di più sulla sua morte sarà l'autopsia, che si svolgerà nei prossimi giorni: la procura di Prato ha infatti nominato due consulenti per effettuare l'esame autoptico sul suo cadavere.

Mantova, dottoressa presa a bastonate al pronto soccorso da donna che chiedeva di essere ricoverata. La Repubblica il 6 agosto 2022.

Pretendeva di essere ricoverata in psichiatria pur non avendone bisogno e, di fronte al rifiuto da parte della dottoressa del pronto soccorso a cui si era rivolta, l'ha presa a bastonate. È accaduto sabato scorso al pronto soccorso dell'ospedale Carlo Poma di Mantova. 

Il medico ha riportato un trauma al braccio mentre la paziente è stata denunciata per interruzione di pubblico servizio. La donna si è rivolta al pronto soccorso dicendo di aver litigato con il marito e di aver bisogno di un ricovero nel reparto di psichiatria perché non voleva tornare a casa. Il medico ha chiamato per un consulto un collega psichiatra che ha escluso la necessità di un ricovero.

A quel punto la donna è andata su tutte le furie e ha cominciato ad insultare i due medici. E mentre la dottoressa l'accompagnava in sala d'attesa su una carrozzina, lei ha cercato di colpirla in testa con il suo bastone. Il medico ha parato il colpo con il braccio, riportando un trauma guaribile in pochi giorni. 

La paziente violenta è stata poi calmata grazie all'intervento di altri medici e infermieri. Nell'aprile scorso la stessa dottoressa, sempre durante il suo servizio in pronto soccorso, era stata colpita da un pugno in faccia sferratole da un paziente, arrabbiato perché a suo dire, mentre attendeva in sala d'aspetto la visita, gli erano state rubate le ciabatte. Anche in quell'occasione l'aggressore era stato denunciato.

Redazione CdG 1947

Alessandro Previati per lastampa.it il 4 agosto 2022.

Sarà l'autopsia a fare luce sulle cause del decesso di una 45enne originaria di Salassa, in Canavese, che l'altra notte, dopo ore di calvario, è morta all'ospedale di Vercelli. Gli accertamenti serviranno a dare una prima risposta all'unica domanda che in questi giorni si sono posti i famigliari di Tiziana Scarcella: «Tiziana poteva essere salvata?». 

«Voglio capire cosa è successo. Lo devo soprattutto a lei, che era una donna solare, con tanti sogni da realizzare, ben voluta da tutti, vitale e genuina. Non si meritava questo». 

Andrea Pistillo, il compagno, proprio non si dà pace. Originario di Cuorgnè, aveva conosciuto Tiziana a Rivarolo (dove lavorava come barista) e tra loro era nata una splendida relazione andata avanti 14 anni. Pochi mesi fa la decisione di trasferirsi a Moncrivello, nel vercellese. 

La 45enne era finita in ospedale già lo scorso primo maggio dopo una caduta dalle scale in casa: aveva riportato una brutta frattura a tibia e perone. Operata all’ospedale di Vercelli, era stata dimessa con i chiodi nella gamba.

A dare qualche problema solo la calcificazione delle ossa, troppo lenta, tanto che il 20 giugno, alla clinica Santa Rita di Vercelli, era stata sottoposta ad un’operazione di stimolo biologico per accelerare la guarigione. Fin qui, niente di anomalo. 

La situazione è precipitata all'improvviso giovedì scorso quando il compagno ha dovuto chiamare il 118: Tiziana respirava a fatica, aveva i brividi e dolori addominali. «Mi ha telefonato per avvisarmi del malessere mentre ero al lavoro. Mi sono precipitato a casa. Aveva le labbra viola ed era molto stanca». 

Sono le 15 quando la donna, in ambulanza, arriva al pronto soccorso. Negativa al tampone, viene sottoposta a tutta una serie di esami. «Mi ha scritto e mandato diversi audio - racconta il compagno - mi diceva di stare tranquillo». 

Gli esiti degli esami, però, arrivano alla sera. La donna viene chiamata dal medico di turno per una visita solo alle 20.41, cinque ore e mezza dopo il suo arrivo. Alle 21 viene sottoposta ad un secondo ciclo di esami dai quali emerge un coagulo di sangue vicino all'apparato respiratorio. 

L’ultimo messaggio è delle 21.40, poi più nulla. Alle 22 il compagno viene informato dall'ospedale che si è trattato di un «infarto polmonare». Nel frattempo la donna viene spostata prima in cardiologia e poi in terapia intensiva. Poco dopo mezzanotte squilla ancora il telefono di Andrea: «Venga qui, la situazione è disperata». Quando all'una meno dieci raggiunge l'ospedale di Vercelli, Tiziana è già morta.

Che cosa è successo in quelle ore in pronto soccorso lo potrà chiarire solo l'autopsia. Quel coagulo era frutto delle operazioni dei mesi prima? Una diagnosi più rapida avrebbe potuto salvare la donna? I famigliari hanno presentato una dettagliata denuncia di quanto accaduto ai carabinieri. Ora è tutto nelle mani della procura di Vercelli. 

Torino, anziana muore e i parenti aggrediscono volontari della Croce rossa: «Ci avete messo troppo tempo». Redazione online su Il Corriere della Sera l'1 Agosto 2022.

A Leinì. Comunicato della Cri: «Ci hanno ostacolato impedendo l’accesso all’abitazione e poi aggrediti con frasi come ‘arrivate da troppo lontano, e non c’è neppure un medico’»

Un equipaggio della croce rossa di Mappano è stato aggredito nel corso di un intervento domenica mattina a Leinì (Torino). A darne notizie lo stesso comitato locale della Cri. Due volontari sono stati aggrediti dai parenti di una persona anziana, che è deceduta.

L’aggressione, tra l’altro, secondo la Croce rossa, avrebbe anche ostacolato i soccorsi, ritardando l’accesso all’abitazione da parte dei volontari. Sul caso i carabinieri della compagnia di Venaria Reale.

«Le motivazioni sono futili e incomprensibili - sottolineano dalla Croce rossa di Mappano - ci hanno ostacolato impedendo l’accesso all’abitazione e poi aggrediti con frasi come “arrivate da troppo lontano, e non c’è neppure un medico”. Filippo e Federica sono due volontari che come tanti altri, giorno e notte, donano il loro tempo, i loro weekend e giorni di riposo per soccorrere il prossimo. Forse non meritiamo un grazie, ma sicuramente non meritiamo di essere aggrediti, maltrattati e accusati di colpe non nostre».

Il comitato di Mappano ha annunciato via social che si «costituirà al fianco dei colleghi, in qualunque sede, perché queste inciviltà non si ripetano più».

Da leggo.it il 5 agosto 2022.

Piatto ricco, mi ci ficco. Sta prendendo sempre più piede il fenomeno dei medici forniti agli ospedali dalle cooperative, e che per poche ore nei reparti, dove c'è carenza di personale, ottengono cifre spropositate. Un fenomeno molto diffuso in Veneto, ma non solo. 

Dalle Canarie e da Napoli, compensi ricchissimi

A raccontare alcune delle storie dei medici non residenti, ma forniti agli ospedali veneti dalle cooperative, è Maurizio Dianese su Il Gazzettino. C'è ad esempio il medico residente alle Canarie, dove la tassazione è agevolata, ma che con l'aereo arriva in Veneto per prestare servizio nella Ulss 3. In 66 ore di fila al pronto soccorso, ha guadagnato (in meno di tre giorni) la bellezza di 6.600 euro lordi.

Un altro esempio è quello di un medico di Napoli, che per mesi, a 100 euro lordi all'ora, ha lavorato di notte nei reparti di rianimazione di vari ospedali veneti (Dolo, Bassano del Grappa, San Donà di Piave). Per metà dell'anno ha lavorato, guadagnando in una settimana quello che un collega assunto in ospedale guadagna in un mese. Per gli altri sei mesi, fa surf. Ma in Veneto non si vede più da tempo, dopo aver scoperto che i turni, in Alto Adige, sono pagati ancora di più: 120 euro lordi all'ora. 

Quello che colpisce è che, se i medici forniti dalle cooperative vengono pagati così lautamente, è perché gli ospedali sono ampiamente sotto organico. I medici assunti sono pochi e guadagnano molto meno. Giovanni Leoni, presidente dell'Ordine dei medici di Venezia, non nasconde la preoccupazione: «Dietro l'angolo c'è una nuova tornata di grossi pensionamenti. Dopo la generazione dei baby boomers, nati nei primi anni '50, presto toccherà a quelli della mia generazione, e sono tantissimi. Ci saranno nuovi buchi da coprire e la Regione deve intervenire, mettendo mano al portafogli». 

Le disparità tra medici

L'evidente disparità non riguarda solo i medici assunti negli ospedali e quelli forniti dalle cooperative. «La Regione Veneto è sempre stata fantasiosa e non credo abbia difficoltà a trovare il modo di pagare di più i medici del Pronto soccorso, ad esempio, che sono sul fronte. E poi bisogna evitare sparate assurde per cui i medici che vaccinano prendono 80 euro lordi all'ora contro un medico di Pronto soccorso che in straordinario ne prende 40 e sulla carta dovrebbe fare 38 ore mentre ne fa di solito 48 alla settimana», insiste il dottor Leoni. 

«E sono ore che valgono triplo dal punto di vista dello stress. Bisogna adeguare gli stipendi al mercato e oggi il mercato dice che un medico di Pronto soccorso vale tra gli 80 e i 100 euro lordi all'ora. Questo è quello che prendono i medici delle cooperative. Vuol dire di fatto raddoppiare gli stipendi dei medici dipendenti delle Ulss». 

MINACCE DI SCIOPERO. Mancano 5mila medici, i pronto soccorso sono in emergenza. SARA DELLABELLA su Il Domani il 29 luglio 2022

A novembre 2021 mancavano all’appello circa 4.200 medici di pronto soccorso, da allora circa cento al mese sono andati in pensione fuggendo da una professione sempre più sotto stress

Se gli anziani scappano, i giovani laureati in Medicina non si avvicinano a questa specializzazione. L’anno scorso su 1.100 borse di studio messe a disposizione dal ministero, circa la metà non sono state assegnate

Il sindacato Anaao-Assomed ha annunciato lo stato di agitazione dei medici ospedalieri e una stagione di mobilitazione che potrebbe portare anche a uno sciopero in autunno

Stavolta a chiedere aiuto sono i medici dei pronto soccorso italiani. All'appello ne mancano circa 5 mila e chi resta è costretto a turni massacranti, per coprire i buchi. Così i pronto soccorso italiani sono stremati da un inarrestabile incremento degli accessi. Gli addetti ai lavori la definiscono la peggiore estate da quando esiste l’Emergenza urgenza, e secondo il presidente della Società Italia Medicina emergenza urgenza (Simeu), Fabio De Iaco, «in trent'anni di carriera, questo è il momento più difficile. Più della pandemia quando eravamo sfiniti, ma siamo andati avanti come dei rulli perché c'era un motivo per farlo e avevamo un ruolo».

Ma adesso «quando ci troviamo a gestire decine di pazienti per quattro - cinque giorni in attesa di un posto letto, quello non è più il nostro lavoro. Noi dovremmo fare l'urgenza. Nei nostri Ps ci sono reparti di medicina occulti. Abbiamo dei vecchietti in barella, fermi per giorni. In reparto quelle persone andrebbero fatte alzare e mobilizzate tutti i giorni, ma da noi non c'è lo spazio per farli camminare».

UN LAVORO SENZA SOSTE

De Iaco risponde al telefono a pomeriggio inoltrato, è arrivato a lavoro alle 7:30 e non sa a che ora staccherà questa sera. Nel pronto soccorso che gestisce in Piemonte, una regione del nord, mancano 12 medici su una pianta organica di 24.

Si lavora con la metà della forza lavoro, carichi di stanchezza, con il rischio crescente di compiere errori, ma precisa che altrove non va meglio e che ci sono ospedali dove c'è solo il primario, il resto è personale reclutato dalle cooperative, dove un medico riesce a portare a casa mediamente 700 euro a turno, anche in assenza di specializzazione.

Contro queste difficoltà che si ripetono in tutte le regioni italiane, il sindacato dei medici  Anaao Assomed, rappresentativo dei medici ospedalieri del servizio pubblico ha lanciato per settembre una stagione di mobilitazione e scioperi. «Il 76 per cento dei medici lavora in burnout. Medici e dirigenti sanitari non fanno ferie», ha spiegato in conferenza stampa il segretario Pierino Di Silverio, lanciando l’hashtag #Primadivotarepensaallasalute per sollecitare i partiti a mettere tra i punti dell’agenda elettorale una serie di interventi a sostegno del servizio sanitario nazionale.

La situazione che stanno vivendo i pronto soccorso è la conseguenza della programmazione economica sbagliata che, fino al periodo pre-pandemia finanziava appena 80 borse di specializzazione per la medicina d'urgenza.

Ma anche oggi che le borse a disposizione sono 1.100, la situazione non è cambiata: nell’ultimo anno seicento non sono state assegnate. Così, i più anziani scelgono la pensione per uscire da questo girone infernale, e i giovani disertano le scuole di specializzazione.

Secondo Simeu bisogna restituire dignità a questa professione attraverso un riconoscimento economico, per una posizione in prima linea, che non permette la libera professione e che lavorando in emergenza è più soggetta agli errori medici, alle denunce, alle aggressioni e a alla quale per paradosso non spetta l'indennità per le malattie infettive.

GLI ACCESSI IN PRONTO SOCCORSO

Si stima che rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso gli accessi al pronto soccorso possano essere mediamente aumentati del 20 per cento, a fronte di un numero di medici che si è ridotto. «Sono dati medi, che provengono da una rilevazione a campione sul territorio nazionale. In realtà alcuni colleghi riferiscono di situazioni anche peggiori», informa Beniamino Susi, vicepresidente nazionale Simeu e responsabile del rapporto con le regioni.

«Nel Lazio, nella giornata del 22 luglio scorso risultava preso in carico un cittadino ogni 1.325 abitanti. Sono numeri impressionanti, da maxi emergenza». Al San Camillo, nella Capitale, da tempo si parla di un ampliamento del pronto soccorso di circa mille metri quadrati, ma senza un numero maggiore di posti letto nei reparti si rischia di peggiorare l’imbuto di pazienti in attesa di ricovero.

«Tutti i giorni chi ci lavora si trova a prestare assistenza in un ambiente che a volte sfiora l’immagine di un ospedale da campo, con più di 100-120 accessi a quasi tutte le ore del giorno, con 12 Infermieri, pochi operatori socio sanitari e pochi medici» racconta Stefano Barone, segretario provinciale del Sindacato degli infermieri Nursind. «Il problema qui è aver creato un pronto soccorso che stima una entrata giornaliera di 70-80 persone, ma se ne trova praticamente il doppio a tutte le ore del giorno». Insomma inutile pensare di risolvere i problemi di un pronto soccorso senza implementare personale e posti nei reparti. Si farebbe solo peggio.

NON SI PUÒ CHIUDERE

Solitamente quando manca il personale si chiude un reparto, sottolinea Simeu, cosa che non è mai avvenuta con le prime emergenze. E allora come si risponde a questa carenza? «Con la fantasia», dice De Iaco: turni più lunghi per medici e infermieri, cooperative, neolaureati ingaggiati dagli ospedali e «una serie di soluzioni posticce». Ma non basta perché, aggiunge, «la crisi di governo potrebbe essere la mazzata finale. Pur nei ritardi, la speranza era che le interlocuzioni in corso con le istituzioni portassero entro questa estate ad alcuni dei provvedimenti che chiediamo da tempo e per i quali proprio nell’ultimo periodo avevamo ricevuto segnali positivi. I tempi per raggiungere i provvedimenti necessari alla sopravvivenza del servizio si dilatano in maniera insostenibile: in questa maniera non resisteremo».

SARA DELLABELLA. È una giornalista freelance. Ha scritto di politica ed economia per diverse testate tra le quali: Agi, L'Espresso, Panorama, Il Fatto quotidiano. È autrice dell'ebook “L'altra faccia della Calabria, viaggio nelle navi dei veleni” (edizioni Quintadicopertina) che ha vinto il premio Piersanti Mattarella nel 2015; nel 2018 è co-autrice insieme a Romana Ranucci del saggio "Fake Republic, la satira politica ai tempi di Twitter" (edizione Ponte Sisto).    

La caduta del governo Draghi rischia di accelerare il collasso dei pronto soccorso. Gloria Riva su L'Espresso il 27 Luglio 2022.

Le carenze dell’organico nel Sistema Sanitario nazionale sono drammatiche: l’esecutivo uscente stava avviando alcune misure per arginare l’emergenza. Ma le incertezze politiche rischiano di far saltare tutto. «Ci sentiamo sempre più soli e traditi dalla politica»

Cade il governo, crollano i Pronto Soccorso. Prima che Mario Draghi presentasse le proprie dimissioni al presidente della Repubblica, il ministro della Sanità, Roberto Speranza, insieme ad Andrea Orlando, al vertice dei ministero del Lavoro, stavano varando alcune modifiche per rafforzare il ruolo dei medici di Emergenza e Urgenza, così da convincere un maggior numero di camici bianchi a entrare in servizio nelle corsie dei pronto soccorso italiano che, al momento vivono una carenza di 4.800 professionisti.

Un processo sfumato per sempre e che rischia di mandare in tilt i pronto soccorso d'Italia. La denuncia arriva dai vertici di Simeu, Società Italiana di Medicina d'Emergenza Urgenza: «È la peggiore estate da quando esistono i Pronto Soccorso. Siamo sotto organico e, allo stesso tempo la carenza di sanità territoriale e di medici di base fa sì che gli accessi al Pronto Soccorso siano aumentati del 20 per cento nelle ultime settimane, proprio perché siamo l'unico punto di riferimento sanitario per la cittadinanza», avverte Fabio De Iaco, Presidente Nazionale Simeu. In alcune regioni la situazione è anche peggio: «In Lazio, ad esempio, nella giornata del 22 luglio risultava preso in carico un cittadino ogni 1325 abitanti. Sono numeri impressionanti, da maxi emergenza», dice Beniamino Susi, Vicepresidente Nazionale Simeu e responsabile del rapporto con le Regioni.

Le richieste di intervento superano di gran lunga le possibilità di risposta dei dipartimenti di Emergenza e Urgenza perché un numero sempre maggiore di persone vi si rivolge perché lo ritiene l'unico presidio di cura territoriale rimasto in funzione e d'altro canto il numero di medici dei pronto soccorsi è in costante diminuzione, visto che alla carenza di 4.200 medici che mancavano nell'ultima rilevazione di novembre si sono aggiunti altri 600 camici bianchi che si sono dimessi dai pronto soccorso nel 2022.

Anche il numero di pazienti che permane a lungo in Pronto Soccorso in attesa di ricovero - il boarding - aumenta con le stesse proporzioni, con malati che attendono cure troppo a lungo.

«Sommando le cause, gli operatori subiscono un incremento dell’intensità del carico di lavoro personale superiore al 50 per cento rispetto al 2021, che in questo stesso periodo non registrava né un’ondata di Covid né una simile e persistente ondata di calore», continua De Iaco.

La situazione degli infermieri è meno quantificabile ma certamente le carenze non sono inferiori. Il rapporto infermiere paziente in un pronto soccorso è di circa 1 ogni 20 assistiti, mentre la media europea si ferma a uno ogni sette. I medici di Simeu raccontano che i parenti lamentano che i loro cari, nelle lunghe attese, non ricevono sufficiente cibo, acqua, assistenza ordinaria oltre che medico-infermieristica e spesso manifestano questo sgomento in maniera violenta. 

A tutto ciò si sommano i fatti recenti della politica che hanno determinato un duro stop a quelle poche conquiste che la medicina di emergenza urgenza faticosamente sembrava prossima a conquistare. Il rischio? Dover ricominciare tutto da capo.

Recentemente Roberto Speranza aveva richiesto al ministero del Lavoro di riconoscere la professione come usurante ed era inoltre in corso il riconoscimento ufficiale della specializzazione in medicina di Emergenza e Urgenza all'interno dei dipartimenti ospedalieri. Era inoltre stato avviato un importante lavoro per rendere possibile l'inserimento dei medici specializzandi nei Pronto Soccorso così da tamponare – nell'immediato – la carenza di medici strutturati. Fra le iniziative, anche il piano per ridurre il ricorso incongruo alle cooperative di medici a gettone e l'applicazione di una legge contro la violenza sul personale sanitario, che spesso resta inosservata.

«Ci sentiamo sempre più soli, traditi da una politica che aveva abbozzato delle misure ora sospese per via della crisi di governo e del tutto incompresi dai cittadini che sfogano contro di noi il loro dissenso sul sistema. La voglia di scappare dal Ssn è sempre più diffusa: ci si dimentica che ogni professionista è prima di tutto un essere umano», commenta Salvatore Manca, medico del pronto soccorso di Oristano.

«La crisi di governo potrebbe essere la mazzata finale. Pur nei ritardi registrati l'auspicio era che le interlocuzioni in corso con le istituzioni portassero entro questa estate ad alcuni dei provvedimenti che chiediamo da tempo e per i quali proprio nell’ultimo periodo avevamo ricevuto segnali positivi. Ma la crisi limita il raggio d’azione del governo agli affari correnti. I tempi per raggiungere i provvedimenti necessari alla sopravvivenza del servizio si dilatano in maniera insostenibile: in questa maniera non resisteremo», avverte il presidente di Simeu, Fabio De Iaco.

L'appello di medici e infermieri del pronto soccorso è che, nonostante un governo liquefatto, le istituzioni entro le prossime settimane trovino una soluzione per evitare l'implosione dei pronto soccorso di tutta Italia: «Invitiamo i cittadini ad essere dalla nostra parte e contribuire a diffondere questo appello. La nostra è una battaglia per il bene comune, che dovrebbe vedere i cittadini nostri alleati, non certo opposti», conclude De Iaco.

Sanità, dove rischia il piano Marshall. Gloria Riva su L'Espresso il 10 agosto 2021.

Centinaia di nuovi ospedali e presidi territoriali da costruire. Decine di migliaia di infermieri da assumere. Ma ammodernare il sistema vuol dire rivoluzionarlo.

La rivoluzione sanitaria italiana passa attraverso la realizzazione di 1350 presidi territoriali e 381 nuovi ospedali. Un gigantesco investimento edilizio che, se non sarà accompagnato dall’assunzione di almeno 33 mila infermieri, sarà totalmente inutile. Il problema è che i nuovi ingaggi non potranno essere effettuati sfruttando i 20,23 miliardi messi a disposizione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, Pnrr, così come impone l’Europa, al contrario dovranno essere a carico del bilancio pubblico che (per il momento) non ha a disposizione il denaro necessario.

La sanità italiana è collassata tra virus e burocrazia

Reparti chiusi, interventi e terapie rinviate. Due anni di pandemia hanno paralizzato gli ospedali sempre più a corto di personale dal Veneto alla Sicilia. E il Pnrr rischia il flop. Gloria Riva su L'Espresso il 31 gennaio 2022.

Da oltre due mesi ventisei donne salernitane stanno attendendo un intervento chirurgico al seno per combattere il cancro che le sta divorando più velocemente di quanto la sanità campana stia facendo per salvarle. Per legge avrebbero diritto a un’operazione entro trenta giorni, eppure ne sono già passati sessanta, di giorni: spiacenti, ma la carenza di personale all’ospedale Ruggi d’Aragona di Salerno ha imposto la chiusura del reparto per i prossimi cinque mesi.

Quali sono i migliori pronto soccorso d'Italia? Ecco la classifica dei tempi di permanenza. E' uno dei parametri per valutare l'efficienza dei servizi di emergenza, anche se non l'unico. E le differenze tra una struttura e l'altra non sono poche. Scoprite con i nostri interattivi i dati sugli ospedali più vicini. Davide Mancino su L'Espresso il 14 novembre 2016.

Spesso sentiamo parlare di "day hospital", ma forse in alcuni ospedali l'espressione viene presa un po' troppo alla lettera. Secondo i dati compilati da Agenas, ente che analizza il sistema sanitario nazionale per conto del ministero della salute, in Italia esiste almeno un pronto soccorso dove un quarto degli accessi totali si è protratto per oltre 24 ore consecutive. 

È il caso – estremo – dell'ospedale Annunziata di Cosenza, dove nel 2014 la permanenza del 23 per cento dei pazienti ha superato un'intera giornata.

Sanità, il soccorso diventa business. 'L'obiettivo non è salvare, ma incassare'. In Italia si spendono ogni anno un miliardo e mezzo di euro per gli interventi di soccorso. Una pioggia di soldi che fa gola a politica e mafia. Michele Sasso su L'Espresso il 17 marzo 2014.

Esistono mestieri in cui la professionalità non basta, ma servono una motivazione profonda e una disponibilità totale. Per questo far parte dell’equipaggio di un’ambulanza è sempre stata un’attività per volontari, animati dallo spirito degli angeli custodi. Ogni chiamata al 118 è questione di vita o di morte, una corsa che in pochissimi minuti decide il destino di una persona.

"Pronto soccorso in Puglia come lazzaretti, siamo allo stremo": la denuncia dei sindacati medici. La Repubblica il 27 Luglio 2022. 

L'accusa alla Regione Puglia che muovono i sindacati Cigl medici, Smi, Snami, Simet e Ugs medici in un documento: "Medici costretti a svolgere turni di lavoro massacranti e a rinunciare spesso al previsto riposo tra un turno e l'altro. Questo comporta seri rischi per la qualità della prestazione offerta ai pazienti e seri rischi per la incolumità stessa della salute dei professionisti".

I pronto soccorso pugliesi sono "diventati dei veri lazzaretti con la difficoltà, se non l'impossibilità, per i pochi medici addetti di svolgere il proprio lavoro professionale nel migliore dei modi e per i pazienti di ricevere una risposta adeguata alle proprie richieste di salute". E' l'accusa alla Regione Puglia che muovono i sindacati Cigl medici, Smi, Snami, Simet e Ugs medici in un documento. "I medici sono allo stremo", avvertono, ricordando anche il caso del decesso del medico di Manduria (Taranto) avvenuto dopo un turno di 24 ore.

"Da alcuni anni - ricordano i sindacati - denunciamo le gravi difficoltà del Sistema sanitario regionale pugliese. La totale assenza negli anni di una seria programmazione insieme alla pessima organizzazione e gestione ha reso urgente ed indifferibili le risposte da parte dell'assessorato alla Salute.

Segnaliamo da tempo la mancanza di medici negli ospedali con le ovvie conseguenze per i malati; la fuga dei colleghi dal Dipartimento di Emergenza-Urgenza 118 le cui ambulanze sono molto spesso senza medico". E ancora: "Medici costretti a svolgere turni di lavoro massacranti e a rinunciare spesso al previsto riposo tra un turno e l'altro. Questo comporta seri rischi per la qualità della prestazione offerta ai pazienti e seri rischi per la incolumità stessa della salute dei medici". I sindacati hanno inviato a tutti i prefetti della Puglia una lettera "in cui evidenziavamo le difficoltà a lavorare in queste condizioni ricordando che le vittime di tale incuria sono proprio i medici e i cittadini malati".

Enrico Tata per fanpage.it il 25 luglio 2022.

La signora Lucia Chiarelli arriva al pronto soccorso con un forte dolore al petto e al braccio sinistro. Le fanno un tampone anti-Covid di controllo, come da prassi. Risulta positiva, i medici mettono in relazione quei sintomi al Covid e la dimettono. Due ore dopo la 68enne muore, quasi sicuramente a causa di un infarto. 

Il decesso è avvenuto lo scorso 11 luglio e il 23 luglio il marito, assistito dallo Studio3A, ha presentato un esposto in procura. Perché i sanitari dell'ospedale di Formia hanno dimesso la moglie? Come hanno fatto a sbagliarsi? Questi gli interrogativi a cui dovranno rispondere gli inquirenti. La signora Chiarelli, stando a quanto riporta il marito, godeva di ottima salute e soffriva soltanto di ipertensione per la quale assumeva una pillola ogni giorno (l'unico farmaco che assumeva). 

La ricostruzione dei fatti

All'alba dell'11 luglio, Lucia si sente male: sente un forte dolore al torace che si irradia fino al braccio sinistro. Un sintomo da infarto. Per questo si fa accompagnare dal marito al pronto soccorso dell'ospedale Dono Svizzero di Formia, dove arriva alle 7.58. I medici la sottopongono ad esami del sangue, a una radiografia al torace e a un tampone anti Covid che, come detto risulta positivo. 

Secondo i medici è proprio il Covid la causa del dolore e quindi, alle 9.27, la dimettono dal pronto soccorso con questa diagnosi: "Dolore torace in Covid positiva”. A casa deve assumere Toradol e Fluimucil. Il marito va a comprare i farmaci, ma quanto torna, la moglie si sente di nuovo male. La corsa al pronto soccorso questa volta si rivela inutile: alle 11.31 la signora Lucia Chiarelli viene dichiarata morta dal personale sanitario dell'ospedale.

La parola passa alla procura

Perché i medici non hanno pensato a un infarto? Il caso della signora è stato gestito con superficialità e troppa fretta? Con questi dubbi, il marito della signora si è rivolta allo Studio3A. Gli avvocati hanno presentato una denuncia presso i carabinieri di Formia, chiedendo alla procura di aprire un fascicolo di indagine. 

Il marito ha anche dato il suo assenso alla riesumazione della salma per procedere all'autopsia in modo da conoscere con esattezza le cause della morte. Ora spetta ai pm decidere se aprire o meno un'indagine su questo caso. 

Regione Lazio: "Disposto audit sul caso"

“La Direzione regionale Salute ha disposto un audit clinico in merito al decesso di una signora di 68 anni dimessa dall’ospedale di Formia e deceduta dopo alcune ore. La disposizione dell’audit serve per chiarire tutti i protocolli clinici adottati ed ovviamente l’Azienda sanitaria locale è a totale disposizione dell’Autorità giudiziaria. Ai familiari e ai cari della donna vanno le profonde condoglianze”.

Da napoli.repubblica.it il 22 luglio 2022.

Gli interventi chirurgici si erano svolti e sulla documentazione c'era anche la sua firma, ma della sua presenza in sala operatoria non è stata trovata traccia. 

E' quanto la Procura di Napoli contesta a Giuseppe De Martino, 51 anni, un medico al quale oggi i carabinieri del Nas del capoluogo campano, al termine di indagini che hanno preso spunto da alcune denunce, hanno notificato un provvedimento cautelare agli arresti domiciliari emesso dal gip. 

Dagli accertamenti eseguiti dai carabinieri del Nucleo Antisofisticazione e Sanità, diretto dal comandante Alessandro Cisternino, è emerso che in quattro giorni, tra il 25 e il 28 febbraio 2020, aveva eseguito ben 32 interventi chirurgici di routine, sebbene fosse in vacanza a Madonna di Campiglio, nota località sciistica nell'Italia settentrionale.

Secondo la documentazione acquisita dagli inquirenti della Procura di Napoli (sostituti procuratori Mariella Di Mauro, attualmente procuratore aggiunto di Napoli Nord, e Fabrizio Vanorio) il professionista - amministratore unico e proprietario (in percentuali variabili) di diverse società - risulta che ha eseguito, ma solo sulla carta, diversi interventi di ablazione transcatetere, numerosi impianti di pacemaker, monocamerale e biventricolare, espianti di loop recorder (un dispositivo che viene impiantato sottopelle per registrare il ritmo cardiaco in continuo) e, infine, di avere diversi studi elettrofisiologici, un esame che valuta le proprietà elettriche del cuore.

Il medico, specializzato in cardiologia, è gravemente indiziato di concorso in falso ideologico e materiale, violenza privata e violenza o minaccia per costringere a commettere un reato. Questi ultimi reati gli vengono contestati in quanto avrebbe costretto alcuni suoi collaboratori a menzionare la sua presenza nell'equipe malgrado in sala operatoria non ci fosse entrato. 

Un anno fa "Repubblica" aveva raccontato la storia. Secondo il Nas e la Procura avrebbe falsificato varie cartelle cliniche, attestando di aver eseguito, presso una clinica di Napoli, operazioni chirurgiche di routine al cuore (sostituzioni di valvole, installazione di stent coronarici, etc. etc.) che in realtà non si erano svolte con il suo diretto intervento.  

I carabinieri hanno interrogato le equipe mediche che hanno eseguito le operazioni e i componenti hanno confermato la sua assenza in sala operatoria. Ma la sua firma sulle cartelle cliniche c'era.

Manduria, tragedia in ospedale: medico muore in corsia stroncato da malore, era in turno da 24 ore. E si fa strada l'ipotesi del «troppo stress» tra le cause del dramma, dal momento che i medici sono sottoposti a turni massacranti per coprire le carenze di organico. La Gazzetta del Mezzogiorno il 22 Luglio 2022

Tragedia all'ospedale Giannuzzi di Manduria (Ta), dove un un medico di 61 anni è morto dopo essere stato colto da infarto mentre svolgeva una visita. Era in turno da 24 ore. Indaga la Procura. I tentativi per rianimare il medico sono stati inutili, e i tra i colleghi emerge forte l'ipotesi del «troppo stress», dal momento che sono sottoposti tutti a turni massacranti pur di coprire le carenze di organico. Il medico lascia la moglie e tre figli.

Per il capogruppo regionale di Fratelli d’Italia, Ignazio Zullo, "c'è un’oggettiva carenza di medici ma è altresì oggettiva la carenza di modelli organizzativi adeguati in questa Sanità di Emiliano. È sconcertante l’ipotesi avanzata secondo la quale la morte del collega medico possa essere collegata allo stress correlato al lavoro. Sconcertante sì, ma resta un’ipotesi plausibile se è vero che il collega era al lavoro da 24 ore». La sanità tarantina, commenta il segretario territoriale della Cgil Paolo Peluso, «è al collasso e la tragica scomparsa di un medico, colpito da infarto mentre era addirittura in servizio all’ospedale di Manduria, conferisce ancora più assurda e insensata violenza ad uno scenario da conflitto bellico». Secondo il sindacalista, «i medici al fronte nei difficili anni della pandemia, oggi allo stremo delle loro forze, pagano ancora con la vita, e con la compressione dei loro diritti una politica scellerata di tagli e precariato in sanità».

Infarto in corsia per il primario. «Aveva lavorato 24 ore di fila». Cesare Bechis su Il Corriere della Sera il 22 luglio 2022.  

«Siamo sotto organico e Giovanni, come tanti di noi, faceva anche da tappabuchi. Martedì sera, arrivando in ospedale, ha lavorato dodici ore al Pronto soccorso. Poi, dalle 8 del mattino successivo, altre dodici in reparto rientrando a casa solo mercoledì sera. Giovedì mattina era poi regolarmente in reparto a fare le visite ed è morto praticamente in corsia». Nelle parole dei colleghi di ospedale, traspare lo sconcerto che si respira al «Giannuzzi» di Manduria (Taranto). Giovanni Buccoliero, 61 anni a novembre, primario facente funzioni del reparto di Medicina, è morto stroncato da una collasso cardiaco attorno alle 8.30. Mentre faceva il giro tra i pazienti si è allontanato dicendo a quegli stessi colleghi che andava in bagno. «Ma non manifestava alcuna sintomatologia che lasciasse preludere ciò che è avvenuto», dirà alcune ore più tardi il direttore generale della Asl di Taranto, Gregorio Colacicco. Dal bagno, però, il dottor Buccoliero non è più tornato. Preoccupato del ritardo nel rientrare in corsia, un infermiere del suo gruppo è andato a controllare e lo ha trovato riverso a terra, dietro la porta. Aveva perso i sensi, non respirava più. Immediato l’aiuto con il massaggio cardiaco e i farmaci, sono accorsi i rianimatori e gli anestetisti, ma non c’è stato nulla da fare. L’arresto cardiaco è stato letale.

L’inchiesta e la rabbia

Sarà un’inchiesta aperta dalla Procura di Taranto a stabilire se c’è stato un nesso di causa-effetto tra le 24 ore di lavoro continuativo di Buccoliero del giorno precedente e la sua morte di giovedì mattina. Però la rabbia monta. Al «Giannuzzi», come in tanti altri ospedali, i turni di lavoro sono ormai massacranti e per garantire standard minimi di assistenza medica anche i dirigenti devono prolungare l’orario di lavoro e impegnarsi in altri reparti. Di fronte alla morte sul posto di lavoro di Buccoliero i sindacati di categoria sono insorti. Filippo Anelli, presidente della Federazione nazionale degli Ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri (Fnomceo), aprendo ieri a Roma il Consiglio nazionale ha sottolineato «il grave disagio dei medici, sottoposti a superlavoro, a turni infiniti, senza possibilità di fruire dei riposi previsti dalla legge, o delle ferie».

L’organico

Il problema, in Puglia, è il blocco delle assunzioni che ha determinato la carenza di personale. Così tutti i medici, anche i dirigenti, anche alla luce della doppia emergenza Covid e caldo, in base a una disposizione dell’assessorato regionale alla sanità sono tenuti a garantire i turni anche nei Pronto soccorso. Attualmente al «Giannuzzi» di Manduria i professionisti sono soltanto cinque e non riescono a coprire le esigenze del reparto. Per questa ragione Giovanni Buccoliero, secondo quanto hanno dichiarato alcuni suoi colleghi, martedì scorso ha dovuto sostenere dodici ore in questo reparto per poi farne altre dodici a Medicina. «L’ospedale di Manduria — dice il direttore generale Colacicco — come tanti altri è sotto organico e il personale deve farsi carico non solo dei propri turni. Il dottor Buccoliero era un gran lavoratore e non si sottraeva dal prolungare il proprio orario di lavoro. Da dirigente, in ogni caso, non sottostava a turnazioni prestabilite e si regolava sulle esigenze del proprio reparto». I carabinieri della Compagnia di Manduria hanno acquisito i tabulati dei turni e raccolto alcune testimonianze. Ieri sera, intanto, a Sava — città di residenza di Buccoliero in provincia di Taranto — si sono svolti i funerali. Vi ha partecipato una gran folla perché il professionista era molto conosciuto e apprezzato per le sue doti di umanità. Era sposato, lascia la moglie e tre figli.

Primario morto in reparto, gli Ordini dei medici: "Ospedali al collasso. Molti colleghi fuggono all'estero o dai privati". La Repubblica il 24 Luglio 2022.

La Federazione nazionale degli Ordini provinciali lancia l'allarme dopo il caso di Giovanni Buccoliero, il professionista 61enne deceduto mentre era al lavoro all'ospedale di Manduria

"Morto per troppo lavoro? La Procura di Taranto ha aperto un fascicolo d'inchiesta sulla morte del medico Giovanni Buccoliero, il 61enne stroncato da un arresto cardiaco giovedì 21 luglio mentre faceva il giro delle visite in corsia nell'ospedale di Manduria". Così in un post su Facebook la Fnomceo (Federazione nazionale degli Ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri).

"In ogni caso - prosegue la Fnomceo - la situazione degli ospedali è al collasso per la carenza di personale che non permette ai professionisti di fare i giusti turni, di fruire delle ferie e dei riposi". Una situazione "drammatica", che la Federazione, assieme ai sindacati medici, denuncia "da tempo e che porta molti medici a fuggire: all'estero, verso il privato, verso il pre-pensionamento", conclude.

Primario morto in reparto, verifiche sui turni di lavoro in ospedale che colleghi e sindacati denunciano come 'massacranti'

Manduria, primario muore dopo 24 ore di turno. I colleghi: “Siamo sotto organico e faceva da tappabuchi”.

"Nel suo reparto, con 20 posti letto ordinari e 8 dedicati ai pazienti con Covid, erano rimasti solo 5 medici in servizio, costretti a turni di lavoro massacranti, senza la possibilità di andare in ferie o di riposarsi adeguatamente per poter assicurare il servizio" sottolinea Arturo Oliva, presidente Federazione Cimo-Fesmed Puglia. Il Fatto Quotidiano il 23 luglio 2022.

Un giorno intero, 24 ore di lavoro, Giovanni Buccoliero, 61 anni, primario facente funzioni del reparto di Medicina dell’ospedale Giannuzzi di Manduria (Taranto), si è accasciato ed è morto, probabilmente colpito da infarto. La Fnomceo, Federazione nazionale Ordini dei medici, esprime cordoglio ma punta il dito contro la “drammatica carenza di personale” sanitario e gli errori che l’hanno determinata e la alimentano. Un caso “inaccettabile”, non si può accettare “che siano gli operatori a scontarli con la salute e persino con la vita“, dichiara il presidente Fnomceo Filippo Anelli, che ha ricordato il primario deceduto aprendo a Roma il Consiglio nazionale della Federazione.

Dalla struttura ospedaliera, come scrive il Corriere della Sera, viene confermato che la carenza di organico costringe tutti a turni infiniti. “Siamo sotto organico e Giovanni, come tanti di noi, faceva anche da tappabuchi. Martedì sera, arrivando in ospedale, ha lavorato dodici ore al Pronto soccorso. Poi, dalle 8 del mattino successivo, altre dodici in reparto rientrando a casa solo mercoledì sera. Giovedì mattina era poi regolarmente in reparto a fare le visite ed è morto praticamente in corsia” raccontano i colleghi. Si è allontanato per andare in bagno ed è lì che stato trovato.

Ucraina, la Russia mette subito a rischio l’accordo sul grano: missili di Mosca sul porto di Odessa (da cui partono i cargo)

“Quanto accaduto ieri all’ospedale di Manduria, dove un medico è deceduto dopo un malore mentre visitava i pazienti, è inaccettabile. Nel suo reparto, con 20 posti letto ordinari e 8 dedicati ai pazienti con Covid, erano rimasti solo 5 medici in servizio, costretti a turni di lavoro massacranti, senza la possibilità di andare in ferie o di riposarsi adeguatamente per poter assicurare il servizio” sottolinea Arturo Oliva, presidente Federazione Cimo-Fesmed Puglia, sindacato che “per ricordare il dottor Buccoliero” propone “al presidente dell’Ordine dei medici di Taranto, Cosimo Nume, di invitare tutti i colleghi a lavorare con il lutto al braccio, nella speranza che quanto successo non accada mai più”.

“Il dottor Buccoliero, stimatissimo dai colleghi e sempre disponibile per i suoi pazienti, era tra i più impegnati a coprire i turni – spiega Oliva in una nota – E queste sono le conseguenze di un’organizzazione del lavoro scellerata, che continua a poggiarsi unicamente sul sacrificio e la responsabilità del personale sanitario. Non è possibile pensare di continuare a lavorare in questo modo. Abbiamo più volte chiesto a tutti i nostri interlocutori l’adozione di misure straordinarie per sopperire alla carenza di personale, incentivando i medici a partecipare ai concorsi e convincendo i colleghi a continuare a lavorare negli ospedali della Regione. Molti invece continuano a fuggire da una vita lavorativa insostenibile, e finché non cambieranno le cose non si può biasimare la loro scelta”. “Ci stringiamo intorno al dolore della famiglia del dottor Buccoliero e continueremo a lottare con ancora più convinzione per il rispetto dei diritti dei medici – prosegue il presidente regionale Cimo-Fesmed – Quello alle ferie e al riposo settimanale è previsto dall’articolo 36 della Costituzione, sebbene le istituzioni sembrino averlo dimenticato”.

I carabinieri hanno acquisito documenti, tabulati, orari e turni di servizio nell’ospedale Giannuzzi di Manduria, riferiti all’attività del medico. L’acquisizione dei documenti è stata disposta dal procuratore di Taranto, Eugenia Pentassuglia per valutare eventualmente l’aperura di una inchiesta. Intanto, la Cgil di Taranto ha annunciato un presidio che si terrà mercoledì 27 sotto la sede dell’Asl, in viale Virgilio. “La situazione della sanità tarantina – afferma il segretario provinciale Paolo Peluso – meritava di essere approfondita immediatamente, mentre siamo ancora in attesa di una convocazione da parte dell’Azienda sanitaria di Taranto a cui all’indomani della tragica scomparsa del medico del Giannuzzi di Manduria, avevano chiesto di far presto. Per questo credo che si debba passare alla mobilitazione per evitare che la condizione di allarme che vive il bisogno di salute del territorio, possa pian piano scomparire dai radar”. “Pronti alla mobilitazione in assenza di risposte”, sottolineano il segretario generale Uil Fpl Emiliano Messina e Cosimo Lodeserto e Nicola Amati per la Uil Fpl Medici, scrivendo al direttore generale dell’Asl di Taranto Gregorio Colacicco e ribadendo la richiesta di “un incontro urgente sulle condizioni di lavoro e sui turni di servizio del personale“. L’acquisizione degli atti, a quanto si apprende, fa parte di verifiche preliminari avviate dai carabinieri su richiesta della Procura di Taranto, che sta vagliando la vicenda. Al momento, però, precisano fonti vicine alle indagini, non è stato aperto alcun fascicolo né formalizzata una ipotesi di reato.

Oggi i funerali a Sava. L'ultimo turno di lavoro del medico e la rabbia dei colleghi e dei sindacati. La Redazione de la Voce di Manduria, venerdì 22 luglio 2022.

Si terranno oggi pomeriggio alle 17 nella chiesa Sacra Famiglia di Sava, suo comune di origine, i funerali di Giovanni Buccoliero, medico internista dell’ospedale Marianna Giannuzzi di Manduria stroncato ieri mattina da un arresto cardiaco mentre lavorava. La salma è stata portata ieri nella casa in contrada Cardinale dove il professionista viveva. La tragedia ieri mattini dopo le 8,30.

Era appena entrato in una stanza di degenza del suo reparto di medicina e come tutte le mattine aveva iniziato a fare il giro visite stanza per stanza. Ha detto agli altri di iniziare senza di lui perché doveva andare in bagno da dove non è più tornato. Giovanni Buccoliero, 61 anni, medico internista di ruolo, lo hanno trovato per terra, morto, rannicchiato nel piccolo ambiente con il rubinetto d’acqua aperto. Non respirava, era rimasto lì con il cuore fermo per alcuni minuti, troppi per sperare in una ripresa.

Non tornava così uno degli infermieri si è avvicinato alla porta del bagno ed ha provato a chiamarlo senza ricevere risposta. Dall’altra parte solo lo scroscio continuo dell’acqua. È stato questo ad insospettire i sanitari che hanno deciso di abbattere la porta temendo il peggio. Le manovre di soccorso sono iniziate immediatamente ma senza successo. Il massaggio cardiaco durato quasi un’ora e i farmaci non hanno dato esito, nemmeno gli anestesisti della rianimazione, intervenuto anche loro, hanno potuto fare niente per ridargli la vita. Un arresto cardiorespiratorio fatale, diranno i suoi colleghi che si sono dovuti arrendere tra lo choc e la rabbia, perché sin da subito si è pensato allo stress a cui tutto il personale del Giannuzzi è sottoposto per colmare le carenze dell’organico. C’era chi piangeva e chi lo faceva imprecando contro un sistema «che ci spreme come limoni».  

Il dottor Buccoliero era un veterano della medicina. Specialista in oncologia era stato assunto di ruolo più di 25 anni fa e da allora non si era più spostato dal suo reparto. Attaccatissimo al lavoro, erano più le ore in cui indossava la divisa che gli abiti civili. I suoi colleghi confermano il suo stacanovismo: «non si tirava indietro mai», dicono di lui che oltre ad assicurar ei turni di servizio nel suo reparto di medicina, copriva anche le guardie notturne interdivisionali e, da questo mese, anche nel pronto soccorso. Buccoliero era uno dei sanitari «invitati» dalla direzione medica a fare da tappabuchi coprendo i turni scoperti del servizio di accettazione del Giannuzzi rimasto senza personale. Dall’inizio del mese il suo nome ha coperto cinque turni vuoto in pronto soccorso. Non ci sono conferme ufficiali ma le voci che circolavano ieri negli ambienti del Giannuzzi parlavano di un turno di 24 ore senza interruzione. Dopo le 12 ore in pronto soccorso martedì notte sarebbe rimasto in ospedale per le dodici ore successive, poi era tornato a casa e ieri mattina alle 8 aveva nuovamente timbrato il badge magnetico per l’ultima volta.

Affabilissimo e disponibile con tutti, era conosciuto anche per la sua pacatezza d’animo, mai un eccesso, mai un comportamento esuberante. «La mia famiglia è la medicina», diceva spesso alle persone che lavoravano con lui. Con l’equipe della medicina aveva affrontato la gestione dell’ospedale Covid dello scorso anno ed anche adesso seguiva i sette posti letto, sempre pieni, dedicati all’infezione virale che non accenna a fermarsi.

Per tutta la giornata di ieri la camera mortuaria dell’ospedale manduriano è stata un via vai di dipendenti che hanno reso omaggio alla salma. Ieri pomeriggio il carro funebre lo ha prelevato e lo ha portato nella sua casa a Sava dove oggi pomeriggio alle 17 ci saranno i funerali con rito nella chiesa della Sacra Famiglia. Buccoliero era sposato ed aveva tre figli maschi.

Le reazioni dei sindacati e della politica

Il segretario della Cgil di Taranto, Paolo Peluso lo definisce come «uno scenario bellico» il contesto in cui ieri si è consumata la tragedia all’ospedale Marianna Giannuzzi di Manduria dove il medico Giovanni Boccoliero è stato stroncato da un arresto cardiaco mentre visitava i suoi pazienti. Il sindacalista parla di «medici al fronte che allo stremo delle loro forze pagano ancora con la vita e con la compressione dei loro diritti, una politica scellerata di tagli e precariato in sanità e così un cittadino, un medico, stressato, stanco, e impossibilitato a riposare, andare in ferie, chiedere un congedo parentale, costretto a turni massacranti, fa male a se stesso, come è accaduto a Manduria e potenzialmente rischia di far male ad altri». Il segretario Peluso si rivolge poi a chi ha competenze per agire in fretta «prima che su quel terreno si registrino ancora perdite o inefficienze».

In attesa di nuove e indispensabili assunzioni, la Cgil ionica chiede con urgenza proposte e idee praticabili alla direzione generale dell’Asl di Taranto avvertendo che «se non ci sarà dialogo, ci sarà mobilitazione».

Anche la Uil Funzione Pubblica tarantina esprime sgomento per la morte del medico «venuto a mancare improvvisamente in servizio dopo un turno estenuante di lavoro di 24 ore». Ieri stesso la Uil sanità ha formalizzato una richiesta di incontro alla direzione generale sulle condizioni di lavoro e sui turni di servizio del personale del comparto e della dirigenza sanitaria.

L’ex sindaco di Sava, Dario Iaia, ora consigliere comunale e capogruppo di Fratelli d’Italia, ha appreso con sgomento la terribile notizia del concittadino morto. «Con tutta l’amministrazione esprimiamo profondo e sentito cordoglio alla famiglia Boccoliero e siamo vicini al loro dolore», dichiara Iaia. Che evita di entrare nel merito delle possibili cause o concause del decesso. «Non è il momento delle polemiche ma del dovuto rispetto per il lutto che ha colpito questa famiglia. Tuttavia – aggiunge -, in seguito dovrà essere affrontata una volta per tutte la questione del massacro della sanità pugliese e delle pessime condizioni di lavoro in cui sono costretti i nostri sanitari».

Molto più duro il commento dell'ex consigliere regionale e coordinatore regionale di Italexit, Mario Conca. «La direzione sanitaria del Giannuzzi e quelle di tutti gli altri ospedali - dice - non avrebbe dovuto sottoporre i suoi operatori a tale stress visto che i reparti sono sotto organico, ma purtroppo sono prone alle direzioni generali al servizio della politica clientelare regionale».

Per questa mattina la direzione generale della Asl incontrerà i vertici sanitari del presidio manduriano per discutere la scottante situazione che rischia di esplodere da un momento all’altro. L’incontro era stato già convocato ma la tragedia di ieri sarà come benzina sul fuoco negli animi esasperati dei camici bianchi. Il pronto soccorso del Giannuzzi è attualmente affidato a cinque medici che oltre a dover rinunciare alle ferie non riescono a coprire tutti i turni. Attualmente l’emergenza riguarda anche gli infermieri e gli operatori socio sanitari decimati da un focolaio di Covid che ha colpito contemporaneamente sette unità. Oltre alle urgenze, il personale del pronto soccorso gestisce anche un reparto Covid con sette posti costantemente occupati. N.Din.

Ambulanze, violenze contro gli operatori sanitari: a Milano aggrediti sei su dieci. Arrivano le «bodycam». Stefania Chiale su Il Corriere della Sera il 22 Luglio 2022.

In due anni aggressioni raddoppiate. I dispositivi sul petto del personale collegati direttamente a Areu e polizia. «Investimento di 1,5 milioni di euro: accorciamo anche i tempi di diagnosi»

Più di sei operatori sanitari su dieci hanno subito un atto di violenza nella loro vita mentre erano in servizio su un’ambulanza. Nel 2020 erano tre su dieci. I casi in Lombardia sono raddoppiati in due anni, passando dai 33 del 2019 ai 45 del 2021, ai 28 del primo semestre di quest’anno, al termine del quale si stima di superare i 60 episodi.

L’emergenza

Per questo la Regione, prima in Italia ad assicurare gli operatori di ambulanza con questo sistema, ha stanziato un milione e 500 mila euro per l’acquisto e l’installazione entro l’inizio del 2023 di 850 tra dashcam, le telecamere sui mezzi di soccorso, e bodycam. Un dispositivo — quest’ultimo — posto sul petto dell’operatore e collegato direttamente alla centrale Areu (l’agenzia regionale emergenza urgenza) e alla polizia.

Da un mese si sta sperimentando il servizio, presentato ieri dal presidente Attilio Fontana, dalla vicepresidente e assessora al Welfare Letizia Moratti, dall’assessore regionale alla Sicurezza, Riccardo De Corato, e dal direttore generale di Areu Alberto Zoli, con 16 telecamere attive nella zona più critica in Lombardia per incidenza di casi di aggressione, l’area metropolitana di Milano. Dove si pensa che si possa arrivare a una cinquantina di casi entro fine anno.

Il funzionamento

La bodycam, già fornita a tutti gli operatori delle polizie locali, è in stand by: con un doppio clic sul dispositivo il personale di Areu attiva la telecamera che viene vista direttamente dalla centrale operativa. L’obiettivo: tutelare gli operatori e garantire un più rapido intervento delle forze dell’ordine qualora ce ne fosse bisogno. Non solo: anche «rafforzare il supporto e la cura nelle situazioni di emergenza — spiega Zoli —: l’invio di queste immagini alla centrale Areu, oltre a rispondere a un’esigenza di sicurezza degli operatori, consentirà sempre meglio di mettere in contatto i medici e gli infermieri delle ambulanze con la centrale e individuare più velocemente le necessarie terapie da somministrare già nell’autoambulanza».

Gli obiettivi

«Dal 2020 abbiamo visto un raddoppio delle aggressioni e degli atti di violenza nei confronti degli operatori sanitari a bordo delle ambulanze e delle auto mediche — dice l’assessora Letizia Moratti —, passando in due anni dal 30 per cento degli operatori aggrediti almeno una volta nella vita al 60 per cento. Questo bando darà sicurezza a un lavoro già estremamente impegnativo: un’integrazione virtuosa tra sicurezza e sanità».

È un progetto, sottolinea il governatore Attilio Fontana, che «va nella direzione di tutelare gli operatori sanitari che tutti i giorni si trovano ad intervenire in differenti e difficili contesti sul campo. Le videocamere fisse e le bodycam — conclude il presidente della Regione — avranno infatti un duplice ruolo: non solo di documentazione di episodi di aggressione, ma anche di prevenzione e di dissuasione da eventuali comportamenti violenti».

La Regione Lombardia, conclude l’assessore alla Sicurezza, Riccardo De Corato «è particolarmente attenta alla sicurezza del personale — spiega —. Si tratta di somme significative messe a tutela di cittadini e operatori sanitari».

Fulvio Bufi per il “Corriere della Sera” il 21 luglio 2022.

I pazienti che martedì mattina erano prenotati per essere sottoposti a terapia presso il Day Hospital del dipartimento di Oncologia del Policlinico universitario di Napoli hanno trovato attaccati sul vetro della sala d'attesa due messaggi stampati su fogli A4. 

Sul primo era scritto: «Si comunica ai pazienti che è severamente vietato domandare quante persone ci sono in lista prima del proprio turno di visita». E sull'altro: «Inoltre si fa presente che l'orario di visita scritto sulla prenotazione non ha valore e non sarà rispettato», con tanto di sottolineatura dell'ultima frase, da «non ha valore» in poi. 

Nient' altro su nessuno dei due fogli. Né un timbro o un numero di protocollo, una firma o qualunque altra cosa che potesse indicare da chi provenivano quei messaggi. A tutti gli effetti anonimi. 

E anche destinati a vita breve. Perché qualche giorno dopo la loro comparsa, il direttore del dipartimento, il professor Sabino De Placido, è stato informato di quei due strani messaggi e dopo essere andato nella sala d'attesa per verificare di persona, li ha fatti rimuovere. 

«Sinceramente non ricordo nemmeno chi mi ha avvertito, ma quello che posso affermare con assoluta certezza è che quei messaggi non sono una iniziativa del Policlinico. Non so chi li abbia appiccicati alla vetrata né perché lo abbia fatto. Ma certamente non è opera della nostra struttura. Ci mancherebbe che ci rivolgessimo così ai nostri pazienti». 

Il contenuto di quei due messaggi (già riferito martedì dal sito repubblica.it ) ha colpito molto il mondo dei social, dove la foto - che qualcuno ha fatto in tempo a scattare prima della rimozione dei fogli - è circolata parecchio. 

«E devo dire - aggiunge il direttore del dipartimento di Oncologia - che tutto questo mi dispiace moltissimo e mi avvilisce. Ma come si fa a prendere in considerazione messaggi come quelli? Chi può credere che una struttura come il Policlinico possa rendere pubblico un avviso con un messaggio anonimo attaccato su un vetro? E questo soltanto per rimanere alla forma. I contenuti, poi, sono la negazione di qualunque principio della medicina. La comunicazione con il paziente è una delle basi della nostra professione, e noi ai nostri pazienti diamo tutte le informazioni di cui hanno bisogno e diritto». 

Eppure lo stesso professor De Placido quando ha letto quei messaggi qualche dubbio deve averlo avuto. È lui stesso, infatti, a spiegare di aver parlato con tutti i suoi collaboratori per cercare di capire la provenienza di quei due fogli. 

«E anche perché mi sono mosso in questo senso, mi sento di escludere del tutto che dietro questa storia possa esserci qualche appartenente al dipartimento. In quella sala ci passano cento se non centocinquanta persone ogni giorno. Chiunque può aver attaccato quei fogli. Che comunque, ripeto, non esprimono nemmeno lontanamente quello che è il nostro modo di rapportarci ai pazienti. Altro sinceramente non voglio aggiungere. Certo non andrò alla polizia a sporgere denuncia perché mi sembrerebbe assurdo per due fogli anonimi».

Il Day Hospital del dipartimento di Oncologia del Policlinico universitario fissa le prenotazioni dei pazienti in base a due ampie fasce orarie: 8-14 e 14-20. Poi i pazienti vengono gestiti di volta in volta in base alla terapia alla quale devono essere sottoposti. Il dato forse più indicativo del rapporto tra chi cura e chi è in cura in quel dipartimento è dato dalle opinioni espresse e firmate dagli stessi pazienti sul sito del policlinico. 

La valutazione media è 3,5 su 5 , e tra «competenza», «assistenza», «pulizia» e «servizi», la voce che raccoglie il punteggio più basso (3) è «assistenza». «A noi però non risultano particolari criticità», spiega il presidente della sezione napoletana del Tribunale dei diritti del malato, il dottor Carmine Cavaliere. «Sia chiaro - aggiunge - dal mio osservatorio in più di trent' anni ne ho visite tante che non mi meraviglierei di nulla. Ma segnalazioni su quel dipartimento non ne abbiamo».

Giuseppe Del Bello per “la Repubblica” il 20 luglio 2022.

«Basta guardarsi attorno, stiamo messi male. Uno addosso all'altro, con gli infermieri che fanno lo slalom pure per attaccarci una flebo. E adesso, con la temperatura che continua a salire, sta aumentando anche l'afflusso di pazienti: infarti, collassi e gastroenteriti». 

Parla con un filo di voce Giuseppe Falco, il pensionato 67enne ricoverato al Cardarelli, in quello stesso ospedale dove ha lavorato come operatore socio- sanitario. Sgrana gli occhi prima di inspirare tutto il fiato possibile. 

«Ho una polmonite batterica, non Covid ma conseguenza delle sudate di una settimana fa». Poche parole e poi si ferma. Sospira, e riattacca: «Appena arrivato mi hanno visitato e, subito dopo, spostato sulla barella, ci sono rimasto per quasi 48 ore prima di ricoverarmi nell'Obi, l'Osservazione breve. Uno strazio, anche per fare pipì bisogna spostarsi nella sala dei "codice gialli" dedicata ai malati di media gravità. I medici fanno l'impossibile, ma i pazienti che pure sono tanti, sopravvivono nell'incertezza e in una condizione di disperato abbandono».

Giuseppe in pronto soccorso non ci voleva venire, sapeva che sarebbe finito in un girone infernale, «ma - aggiunge - non ero in grado di gestire la situazione, a casa e sopraffatto dall'affanno». 

A raccontare quell'inferno sono le immagini che descrivono meglio delle parole cosa significhi stazionare per ore e ore, talvolta intere giornate, su quelle "lettighe automatizzate", come eufemisticamente vengono definite. Di privacy neanche a parlarne, piazzati a ridosso di una colonna o della parete, uomini e donne costretti a condividere la promiscuità di spazi inventati, si lamentano solo via-cellulare con i familiari. Cercano solidarietà tra di loro.

Ad Assunta, casalinga dell'hinterland, hanno diagnosticato una colica renale, ma deve fare l'ecografia per averne conferma: «Sono in attesa, ma non riesco a parlare con nessuno, i medici corrono da una parte e all'altra, e come li fermi? Le mie cose, comprese le scarpe, ho dovuto piazzarle sulla barella». 

Le medicherie non erano sufficienti e così lo stesso salone di accesso è diventato un unico enorme pronto soccorso, luogo indefinito, non parametrato alle esigenze assistenziali. L'infermiere fa una smorfia, e dice: «Qui mancano perfino le bocchette dell'ossigeno, perciò si sono riviste in giro le vecchie bombole. I servizi igienici sono solo tre, se si esclude il bagno per i degenti dell'area Covid». 

Ieri mattina si contavano oltre 100 barelle, distribuite ovunque. Giovanni, 43 anni, è approdato al Cardarelli con una colica addominale. La sua lettiga è sistemata affianco a quella di un'anziana donna con le caviglie gonfie e problemi circolatori che, dice lui, «non mi ha fatto chiudere occhio. Ma poverina, si sente sola e ha paura di finire lì, senza neanche il conforto della figlia ».

Timore legittimo, solo qualche mese fa un altro ricoverato è morto nel bagno, nessuno se n'era accorto. La foto di quel corpo esanime fece il giro del web. Il sovraffollamento del Cardarelli è ormai a un punto di non ritorno. 

Quasi ogni giorno il responsabile del "Bed management" inoltra lo stesso comunicato alla Centrale operativa del 118. L'ultimo, ieri mattina: "Configurandosi di fatto la saturazione della capacità ricettiva si rappresenta l'indicazione di evitare l'afferenza a questa struttura". Vuol dire blocco dei ricoveri e accesso limitato ai soli pazienti gravi. Ancora.

Il Covid dispone, da inizio pandemia, di un padiglione dedicato che ospita più di 30 positivi. E lì dentro, il caldo si sente eccome, con la colonnina di mercurio che ieri a Napoli segnava 35 gradi. Ma l'impianto è malfunzionante e l'amministrazione è corsa ai ripari con i condizionatori di un tempo, quei "pinguini" che espellono l'aria calda da un tubo che fuoriesce dalla finestra. 

Carlo (nome di fantasia), infermiere nella palazzina: «Il personale in servizio nel reparto Covid indossa la tuta di biocontenimento obbligatoria. Per non parlare degli operatori della diagnostica radiologica e interventistica: per loro c'è da aggiungere il camice piombato per proteggersi dalle radiazioni, un supplizio».

Antonella Gasparini per corrieredelveneto.corriere.it il 19 luglio 2022.

È morta un’ora dopo essere entrata al Pronto soccorso dell’ospedale di Chioggia, dove si era recata domenica, il 17 luglio, per farsi visitare perché da giorni non si sentiva bene. Per Federica Fabbris, 37 anni, i medici invece non hanno potuto fare niente. 

La donna è deceduta in struttura mentre gli amici e il compagno attendevano sue notizie aspettando fuori dall’ospedale per capire cosa le fosse successo e come aiutarla. Ma di lei non hanno saputo più niente, finché non si sono recati di persona a verificare all’interno della struttura. E una volta lì sono stati messi al corrente della tragedia. Federica era morta. 

E ora proprio su impulso dei sanitari dell’Usl 3, che hanno provato a soccorrerla subito, senza risultati, è stata disposto un riscontro diagnostico, quindi una sorta di autopsia, per chiarire le cause di un decesso che attualmente non trova spiegazione. L’esame si svolgerà oggi, martedì 19 luglio. 

Visitata tre volte

Prima di domenica, la giovane donna era andata altre due volte in pronto soccorso. Una prima volta una settimana fa, per dei dolori al collo e alla schiena; ma sarebbe stata rimandata a casa dopo alcune iniezioni. Nei giorni successivi aveva poi accusato fitte allo stomaco e quindi, sabato, si era recata nuovamente al pronto soccorso dove, dopo alcuni esami del sangue, era stata nuovamente dimessa. 

Durante gli accessi era anche stata sottoposta a tamponi anti-Covid che hanno sempre dato esito negativo. Federica Fabbris, che aveva lavorato al Trony e da qualche tempo era impiegata alla Carrozzeria Fiume; prima aveva anche lavorato per una decina d’anni come estetista. 

Conosciuta come una persona disponibile e una lavoratrice, da qualche anno era andata a vivere con il compagno al quartiere Tombola di Chioggia. Numerosi i messaggi di affetto e cordoglio comparsi in Facebook, da quando si è diffusa la notizia della sua morte. 

«Oggi è venuta a mancare un’amica, una di quelle solari e sempre pronta a darti una buona parola e a spronarti quando eri in difficoltà. Manchi già un botto», scrive Micol De Grandis. «Fe Fe, perché così ti chiamavo, sapere ora che non ci sei più.. Non riesco ancora a crederci. Cara amica veglia per noi da lassù», la ricorda invece l’amico Marco Lando. Gli amici stanno pensando di ricordarla con una fiaccolata.

La nota dell’Usl

«L’Usl 3 è vicina nel lutto alla famiglia — afferma l’azienda sanitaria — e mentre attende l’esito del riscontro diagnostico, doveroso per le modalità in cui è avvenuto il decesso, attraverso la direzione dell’ospedale ha avviato ogni verifica sull’assistenza offerta alla paziente, per assicurarsi della corretta gestione del caso». La donna lascia la famiglia, i tanti amici e il compagno. Le esequie verranno organizzate dopo l’esito degli esami disposti dall’Usl 3. 

Lara Sirignano per corriere.it il 13 luglio 2022.

Avrebbe ucciso per vendetta nei confronti dell’ospedale Cannizzaro di Catania che lo aveva trasferito in un reparto a lui sgradito l’infermiere catanese Vincenzo Villani Conti, che tra il 2020 e il 2021, avrebbe assassinato due pazienti affidate alle sue cure. I pm, che ne hanno chiesto l’arresto, lo accusano di omicidio premeditato pluriaggravato. Le vittime, una donna di 80 anni e una di 65, non erano in fase terminale ed erano ricoverate per patologie non gravi. Conti le avrebbe «scelte» casualmente e le avrebbe uccise somministrando loro farmaci assolutamente controindicati viste le loro condizioni di salute. 

La Mobile di Catania, coordinata da Antonio Sfameni, è arrivata a ricostruire la folle storia grazie alla denuncia di due psicologi presso i quali Conti era in cura che hanno segnalato sospetti sulle intenzioni del paziente. 

Dopo la segnalazione degli psicologi sono state avviate le indagini. Conti è stato intercettato per mesi e, sulla base delle circostanze riferite dai due medici, è stata disposta la riesumazione dei corpi delle due donne, entrambe trovate morte alla fine del turno di notte dell’infermiere. Sui corpi sono state scoperte tracce di diazepam, farmaco che non era stato prescritto dai medici e non era segnato in cartella clinica e che Conti si sarebbe procurato sottraendolo all’ospedale.

Le morti risalgono al dicembre del 2020 e al gennaio del 2021. Nell’ordinanza di custodia cautelare il gip di Catania scrive che Conti avrebbe ucciso «per la frustrazione provata dopo il trasferimento nel reparto di Chirurgia, trasferimento vissuto come una regressione professionale».

La testimonianza. Così hanno lasciato morire mia madre, uccisa dalla strafottenza. Claudia Fusani su Il Riformista il 7 Luglio 2022 

Ipocrisia e indifferenza sono tra i mali peggiori di questi nostri tempi già così difficili. Peggiori anche dell’incapacità. E della disonestà. Questa storia ha due parole chiave: ipocrisia e dignità. Quante volte da cronista parlamentare ho assistito a battaglie contro l’ipocrisia e nel nome della dignità? Tante volte l’ipocrisia ha vinto sulla dignità. Sul fine vita blocchiamo tutto da decenni in nome della sacralità dell’ultimo respiro che deve essere, per l’appunto, rispettato. Ho visto con i miei occhi come “si rispetta” l’ultimo respiro.

Mia madre era una ragazza di “100 anni meno 3” come la chiamavo io. Una ragazza che “per appena due mesi”, diceva lei, non riuscì a votare per la Repubblica nel 1946: quando lo ricordava si emozionava. Era una “ragazza” con la grande fortuna di non aver fatto un solo giorno di ospedale fino a quel maledetto 9 maggio, quando la mattina si alza, va in cucina a farsi un tè e cade. Femore rotto. L’operazione va bene e il 20 maggio lascia il Cto, dove è seguita benissimo, per il periodo riabilitativo al Don Gnocchi di Firenze, centro di eccellenza per questo tipo di degenza. Il recupero, seppure lento, c’è. Le dimissioni sono programmate per mercoledì 8 giugno. La mamma invece non tornerà a casa. Muore per infezioni nosocomiali, cioè ospedaliere, il 12 giugno. Muore dopo 27 ore passate in una barella di Pronto soccorso dell’ospedale Torregalli, contiguo al centro Don Gnocchi. Io non contesto che 96 anni, quasi 97, possano essere il tempo “giusto” per salutare questo mondo. Contesto che questo accada in una barella di un pronto soccorso dove il personale sanitario è arrogante e strafottente. Peggio, indifferente. Tranne uno: l’infermiere Davide, un giovane che ringrazio qui per aver mostrato in quel contesto un po’ di pietà.

Cosa succede tra il 20 maggio e l’11 giugno è presto detto. Fino al 2 giugno le cose procedono benino anche se lei non ne vuole sapere di stare lì: “Portami a casa”, implora, ma i medici mi spiegano che rimetterla in piedi presto a quell’età è fondamentale. Dunque, “porta pazienza, mamma, cammina, ritrova le forze e poi andiamo a casa”. Dove dal giorno 9 giugno sarebbe stata seguita da una fisioterapista per completare la rieducazione e ridare sicurezza a due gambe lunghe e magre come quelle di un puledro appena nato. Il 2 giugno, giovedì, inizia un lungo e, posso dire, maledetto ponte estivo. Il Don Gnocchi si svuota. Restano poche infermiere e qualche operatore. Il caldo è già soffocante. Qualche giorno prima avevo notato che le gambe della mamma erano gonfie. Ne avevo parlato con la dottoressa che la seguiva (ovviamente al telefono perché, causa Covid, i sanitari non incontrano i familiari dei pazienti). Aveva concordato che erano gonfie e deciso per un “bendaggio leggero”. Giovedì mi sembra che la mamma sia più stanca e svogliata. Chiedo di nuovo di un medico. Non lo vedo il venerdì e neppure il sabato. La domenica pomeriggio, dopo varie educate richieste, rintraccio una dottoressa. Si presenta una giovane laureata, gentile, nazionalità albanese, che guarda la mamma e dice: “Ha ragione signora, queste gambe sono troppo gonfie, ma io vengo da pneumologia, non conosco la paziente, posso solo segnalare…”.

Mi si gela il sangue: segnalare a chi? Quando? E con tre giorni di ritardo. Lunedì 6 giugno alle 13.30 (l’orario delle telefonate ai familiari è dalle 13.30 alle 14.30) chiama uno dei due medici che hanno in cura la mamma. È l’uomo. Forse la dottoressa con la quale ho tenuto i contatti è impegnata. «Purtroppo – spiega – abbiamo trovato due infezioni nosocomiali. Stiamo dandole gli antibiotici». Tralascio il resto. Dico: “Porto la mamma a casa”. No, “deve essere curata e qui la curiamo”. Chiamo il nostro medico di famiglia. Gli chiedo di andare a vedere cosa sta succedendo. La mamma pare reagire agli antibiotici. Non ha febbre. Venerdì 10 giugno la vedo, passo con lei il pomeriggio, ha l’ossigeno, poca voce ma è attenta, parliamo della guerra, chiede di Putin, facciamo la videochiamata con la zia, mangia e beve, la cosa più importante. Vado via alle 19.30 abbastanza tranquilla.

Sabato 11 giugno alle 12.30 mi chiama una dottoressa mai sentita prima, “sono di turno, la signora respira male e io la mando al Pronto soccorso di Torregalli”. Corro. Dopo un’ora di attesa il responsabile del Pronto soccorso mi fa entrare: la vedo su una barella che cerca di alzare la testa, spaventata, occhi sbarrati, mi riconosce, l’abbraccio, cerco di tranquillizzarla, l’accarezzo, lei sembra capire. Siamo in “sala shock”, così è scritto sulla porta. C’è un altro signore su una barella. Mi mandano fuori, “adesso qui non può stare, dobbiamo lavorare”. Chiedo, voglio sapere. Il responsabile risponde con tono sprezzante e braccia allargate: “Ma cosa vuole, non vede come ce l’hanno portata, pressione 85, orine dense, febbre alta…”. Guardo il monitor, pressione a 95. “Sì, infatti ora sta risalendo… Comunque vediamo, ora vada fuori”. Comincia un’attesa che dura fino alle 19, quando l’addetta al banco informazioni mi dice: “Vada a casa, il medico di turno ha detto che la stanno trattando con i liquidi”.

La notte tra sabato e domenica è un tunnel d’insonnia. La mattina telefono ma nessuno risponde. Forse dovrei chiamare la polizia. O i carabinieri. Non si tiene una famiglia senza notizie in questo modo. Mio marito prende la macchina e va al Pronto soccorso. Nel frattempo, dopo qualche sollecitazione trasversale, ricevo una telefonata dal Pronto soccorso. È la dottoressa di guardia. “Guardi – mi dice – che gli organi sono collassati, reni, polmoni, fegato, le transaminasi sono schizzate…”.

Le dico di mandarla a casa. Risposta: “Lei forse non ha capito”. Mi precipito lì. “Non può entrare…”. Entro lo stesso. Sono le 12.30. Trovo la mamma nella stessa barella del giorno prima, stesse lenzuola. In più c’è una coperta lisa e macchiata. È una stanza per quattro pazienti divisa da tende di plastica. Nessun macchinario è acceso. Non so dire se mi riconosce. Sicuramente mi sente. Ogni tanto apre gli occhi, alza una mano, muove una spalla. Respira. Le ho chiuso gli occhi alle 16.30. Non l’ho più lasciata un secondo: se devi morire in questo inferno almeno ti tengo la mano e ti accarezzo la fronte. In quelle ore sono successi i seguenti episodi: più volte gli infermieri provano a mandarmi fuori; più volte, già dal giorno prima in realtà, chiedo un letto in una camera decente, replicano che “non c’è posto altrimenti sarebbe già stata trasferita”, “ma è qui da ieri”, dico io, e la dottoressa di passaggio replica: “La sanità è ridotta così, eppure proprio lei dovrebbe saperlo”.

Arriva al punto di parlare di “soldi che non sono sufficienti”. Cioè: io sono lì che stringo la mano a mia madre morente e questa fa polemica sul sistema sanitario e sui pronto soccorso che “sono trincee, signora cara”. Ad un certo punto sembra che si liberi una stanza al primo piano, “…dai mamma che andiamo in un posto migliore”. Arriva un tizio del quale sento solo la voce perché tengo il capo abbassato, appoggiato sul ferro della barella della mamma. “Quella? Mi rifiuto di impiegare un letto per lei…” grugnisce. La dottoressa lo porta lontano dalle mie orecchie. Che però sentono. “Ma cosa lo sposto a fare…”. Meno male che c’è Davide, che almeno fa finta di provarle la pressione.

Ho lasciato passare qualche giorno per evitare abbagli e accecamenti figli del dolore. Ora sento di dover denunciare la desolazione di quella brandina e di quella coperta ruvida con cui ho dovuto coprire per l’ultima volta il viso di mia madre dopo 27 ore di agonia. Il cinismo del responsabile del Pronto soccorso. La voglia di fare polemica della dottoressa. Lo devo a mia madre e a tutti quelli che hanno fatto la stessa fine. Una fine indegna. Mio padre, medico, mi ripeteva che “fare il dottore è una missione. O ce l’hai dentro o è difficile impararla”. Per tanti è così. Non per coloro che dovevano curare, mostrare pietas e rispettare la dignità di una donna di 100 anni meno 3.

Claudia Fusani. Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.

In Lombardia i medici di base sono allo sbaraglio. Ma Attilio Fontana e Letizia Moratti giocano ai separati in casa. Carenza di posti, turni di lavoro massacranti, scarso rispetto da parte delle istituzioni. Nella regione più colpita dalla pandemia i generalisti pagano il conto della salute privatizzata. E con l’ondata di Omicron 5 rischiano di saltare le ferie. Gianfrancesco Turano su L'Espresso il 4 luglio 2022.

La medicina territoriale è un incubo dal quale molti sono in fuga. Orari infiniti, mancanza di personale, incombenze burocratiche deliranti hanno colpito la prima rete di sicurezza della sanità. Il danno maggiore è stato in Lombardia che è la regione più colpita dalla pandemia ma anche la più ricca d’Italia. Gli oltre dieci milioni di residenti, se possono pagare, dispongono di strutture private che hanno fatto concorrenza poco leale agli ospedali pubblici e che offrono ben altre opportunità di guadagno rispetto alla convenzione di cui godono i medici di base, liberi professionisti senza ferie pagate, senza malattia e, a maggior ragione, senza previdenza infortunistica.

Già in difficoltà quando devono trovare i sostituti, che pagano di tasca propria, in Lombardia molti dottori di medicina generale rischiano di passare l’estate in ambulatorio dopo avere tentato senza grande successo di lanciare il movimento Coccarde gialle. Lo sciopero di sabato 26 marzo con 500 partecipanti, non pochi rispetto al numero dei medici di base, e il corteo fra la stazione Centrale di Milano e il Pirellone, non ha avuto molto seguito. Il movimento langue sui social con 3.187 follower su Facebook e un ultimo post Instagram dei primi di giugno. È una foto del Siss, il sistema informatico socio-sanitario della regione che registra le attività di ogni medico. In un mese il dottore coccarda gialla autore del post ha fatto segnare 1.422 accessi al sistema con 2.157 accertamenti. Tutto poco compatibile con le 38 ore settimanali del contratto.

Anche i dati generali non lasciano dubbi. Secondo l’agenzia statistica regionale (Asr), che peraltro riporta cifre aggiornate al 25 marzo 2021, la Lombardia ha un medico di base per ogni 1.614 abitanti. Ogni medico ha 1.389 assistiti. La media nazionale è di un medico ogni 1407 abitanti con 1.212 assistiti. Soltanto la provincia autonoma di Bolzano, caratterizzata da un territorio molto meno accessibile, fa peggio con un medico ogni 1.905 abitanti e 1.583 assistiti per medico.

Alla fine del 2021 si contavano in Lombardia 5.919 medici di base, di cui 5.496 titolari e 423 provvisori, con una carenza di personale valutata fra il 10 e il 15 per cento destinata a un peggioramento verticale nel prossimo quinquennio quando 2.465 medici del territorio, quasi la metà di quelli attivi oggi, raggiungeranno l’età pensionabile. Infine, secondo i dati del bollettino regionale dello scorso marzo, mancano 1.166 fra medici e pediatri.

Anche se sulle cifre non c’è discussione, le possibilità di scaricabarile politico rimangono intatte. «La carenza di medici di famiglia», ha detto la vicepresidente e assessore al welfare lombardo Letizia Brichetto Moratti, «è un problema nazionale che si trascina da anni. La questione verrà risolta solo quando il nostro sistema sarà capace di formare in numero sufficiente il personale necessario. Intanto lavoriamo su riorganizzazione dei tempi e dei modi di lavoro, maggiore capacità dei medici di lavorare insieme, rafforzamento della telemedicina e integrazione con la rete delle case di comunità che stanno sorgendo. Stiamo lavorando affinché il ministero della Salute accolga le proposte avanzate dalle Regioni».

Quello che i dati e le dichiarazioni ufficiali non raccontano lo raccontano le storie raccolte da L’Espresso. Sono anni che la Lombardia corre a tappare i buchi importando medici dal Mezzogiorno, dall’Europa dell’Est e prossimamente dall’Ucraina. I risultati non sempre sono stati all’altezza.

«In Calabria o in Sicilia è più difficile prendere una convenzione di medicina generale», racconta una dottoressa partita dal Sud per l’avventura in Lombardia. «A ottobre 2021 ho iniziato a lavorare in Val Seriana, nella zona più colpita dal Covid-19. Sono passata da zero a 1.800 pazienti in brevissimo tempo, perché lì si può sforare il tetto dei 1.500 per mancanza di medici. Il carico burocratico-amministrativo è micidiale. Dovevano inserirmi nella rete intranet e ci hanno messo una settimana. Una settimana di ricette a mano. Ho affittato l’ambulatorio del medico andato in pensione. Con lui era a norma. A me hanno mandato un’ispezione e mi hanno minacciato di multa o chiusura perché mancava il termosifone in bagno. A fine gennaio mi sono dimessa ma ritento nel lecchese, un’altra zona molto carente».

L’ondata pandemica che ha infierito sulla Lombardia ha dato la mazzata definitiva a un mestiere sotto pressione che gode di cattiva stampa e di un rapporto pessimo con la macchina istituzionale guidata per oltre quattro anni dal forzista Giulio Gallera, fino alla sostituzione con l’altra azzurra Brichetto Moratti, aspirante alla poltrona di Fontana nel 2023, perché in politica comanderà anche la Lega del presidente Attilio Fontana ma la sanità resta saldamente in mano agli uomini del Cavaliere. I soldi sono lì e sono sempre di più grazie alla quota di circa un sesto della spesa sanitaria nazionale, proporzionale agli abitanti, di cui la Lombardia gode. Oltre ai 124 miliardi complessivi di budget 2022 c’è la missione 6 del Pnrr, dedicata agli investimenti sanitari da qui al 2026 per 18,5 miliardi di euro. La missione 6 ha destinato 8,043 miliardi alla riqualificazione della medicina territoriale con il decreto del ministro Roberto Speranza. Alla Lombardia, tra Pnrr e fondo complementare, andranno 1,24 miliardi di euro da destinare alle nuove strutture della sanità territoriale.

L’investimento più dispendioso, con 3 miliardi di euro da distribuire in tutta Italia, riguarda 1.350 case di comunità (cdc) e 400 ospedali di comunità (odc). Sono soluzioni concepite per tappare i buchi lasciati da anni di chiusure di ospedali. Le case di comunità, in effetti, seguono la falsariga delle case della salute create per decreto dal ministro Livia Turco nel 2007. Si spera con migliore fortuna visto il sostanziale fallimento del tentativo introdotto quindici anni fa dal governo Prodi.

Su missione 6 la Lombardia è stata fra le ultime a partire. Oggi il sito della Regione, aggiornato a febbraio 2022, annuncia l’apertura di 216 case di comunità e 71 ospedali di territorio entro la fine del 2024. Poco più di un anno fa non esisteva niente. A fine aprile 2022 c’erano quindici strutture aperte. In due mesi ne sono arrivate altre undici, divise fra venti case di comunità e sei ospedali leggeri. La distribuzione geografica è ancora abbastanza casuale con aree di forte concentrazione nel corridoio Milano-Como-Varese, che è già ben attrezzato di ospedali tradizionali, sia pure anche quelli in difficoltà di staff. I centri urbani di Leno (Brescia) e Giussano (Monza-Brianza) hanno una casa e un ospedale di comunità a pochi passi di distanza.

Nel capoluogo regionale ci sono due case, una in viale Zara e l’altra nella centrale via Rugabella che dipende dall’Asst Milano nord con sede a Sesto San Giovanni, a una decina di chilometri di distanza, invece che dall’Ats Milano, guidata da Walter Bergamaschi. Persino nella metropoli pochi conoscono l’esistenza delle case della comunità che sono mal spiegate e molto poco frequentate, al contrario delle sale di attesa in pronto soccorso. Non è detto sia un male. I carichi di lavoro ordinari e straordinari stanno tenendo i medici generalisti lontani dalla nuova formula che propone di dividere le 38 ore settimanali in 20 di ambulatorio e 18 nelle cdc o negli odc.

«La riforma prevede un distretto ogni centomila abitanti, con due case di comunità», ha dichiarato il consigliere salviniano Emanuele Monti, presidente della commissione sanitaria. «Ognuna ha bisogno di sei o sette medici di medicina generale. A livello territoriale ogni distretto dovrebbe avere ottanta medici di base. Ce ne sono sessantacinque. Quindici di questi devono andare nelle cdc. Sono disponibili a fronte di quello che sarà un aggravio di lavoro?».

La replica è di un medico di base. «Fino a dicembre dovevamo fare noi le prenotazioni dei tamponi molecolari. Con quaranta richieste il sistema andava in palla e la rotellina girava per cinque minuti. Io aspettavo dopo cena, quando il carico di richieste si alleggeriva. Hanno risolto a marzo, con i tamponi rapidi. Adesso hanno aggiunto le case di comunità. Ma quando trovo il tempo di andarci se, dopo tre ore di visite in ambulatorio mi trovo novanta fra messaggi e chiamate perse sul cellulare? Il problema è che ci sono pochi laureati con tante opportunità in ospedale dopo trent’anni di selezione assurda. Quando ho studiato a Pavia eravamo in 400 per corso. A chi sceglieva medicina generale la Regione offriva tre anni di specializzazione. Con i test siamo scesi a 200 studenti per corso. Se ne sono accorti adesso e hanno tolto dai questionari le domande di cultura generale. Nel frattempo, la Lombardia ha cambiato modello. Una volta si reggeva sugli ospedali mentre gran parte del Sud aveva i medici di base, stimati e rispettati. Oggi è diventata come il Sud, con la differenza che le istituzioni ci disprezzano e i pazienti ci accusano di ogni nefandezza».

Insomma i medici di base sono un po’ come gli operatori del turismo. C’è sempre qualcuno che li accusa di non volersi sacrificare. Ma mentre i balneari lottano per gli indennizzi, i medici di base non hanno questa opportunità e finora nessuno dei morti sul lavoro per Covid-19 è stato riconosciuto come tale. Non è proprio un incentivo alla vigilia della prima ondata estiva segnata dalla variante Omicron 5.

La polvere nel ventilatore. Report Rai PUNTATA DEL 20/06/2022 di Giulio Valesini e Cataldo Ciccolella.
Il marchio Philips è sinonimo in tutto il mondo di alta qualità e design. 
Televisori, stereo, rasoi elettrici: il meglio dell’elettronica di consumo che ha fatto la fortuna della multinazionale olandese. Un colosso da quasi 20 miliardi di euro di fatturato l’anno che presidia anche il settore dei dispositivi medici. Ma i bilanci dorati adesso sono minacciati da possibili risarcimenti milionari: per anni Philips ha venduto dei respiratori, che aiutano i pazienti con l’apnea del sonno, contenenti però una schiuma fonoassorbente che si degrada e può finire nelle vie aeree. Il materiale oltre al particolato irritante emette anche composti organici volatili dei quali si stanno testando potenziali effetti cancerogeni. Ora l’azienda sta rimpiazzando tutti i dispositivi per tutelare gli utenti, ma si è trattato di un incidente di percorso o di una colpevole negligenza? E soprattutto come è stato possibile che questi dispositivi siano stati usati per curare numerosi pazienti Covid-19? Report ha provato a far luce sul caso.

 

Il carteggio con il Tuv Sud, l’ente notificato che ha rilasciato il marchio CE alla linea di respiratori Philips Respironics
L'integrazione da parte dell’ufficio stampa di Philips, pervenutaci dopo l’intervista al loro Chief Medical Officer

 

Integrazione delle informazioni fornite da Philips, inviataci dopo l’intervista con il Chief Medical Officer Jan Kimpen

Gentile Giulio e Cataldo, In merito all’intervista fatta l’8 giugno a Jan Kimpen, Chief Medical Officer di Philips, desidero chiarire a suo nome questi punti:

1. 222.000 reclami identificati dalla FDA, a cui fate riferimento nelle domande, sono il risultato di segnalazioni generiche registrate nel corso di più anni emerse dal database di Philips Respironics, e quindi non tutti i reclami si riferiscono specificamente ai problemi che hanno portato all'avviso di sicurezza in questione. Philips Respironics ha esaminato i reclami citati dalla FDA e ha rilevato che circa il 3% di questi reclami riguardava una presunta degradazione della schiuma. Come detto da Jan Kimpen, negli anni precedenti ci sono stati pochi reclami relativi alla degradazione della schiuma, che sono stati valutati e gestiti a livello individuale da Philips Respironics, controllata Philips. Quando i membri del Comitato Esecutivo di Philips sono venuti a conoscenza della possibilità che il problema della schiuma potesse essere strutturale, a titolo precauzionale Philips ha intrapreso azioni adeguate che hanno portato alla notifica dell’avviso di sicurezza volontario nella prima metà del 2021.

2. Come ha affermato Jan Kimpen, Philips ha regolarmente informato le autorità competenti in tutta Europa sui dati provenienti dal programma completo di test e ricerca sulla schiuma PE-PUR. Questo programma di test e ricerca viene condotto insieme a laboratori certificati e altri esperti di terze parti qualificati al fine di valutare e definire meglio i potenziali rischi per la salute dei pazienti. Per quanto concerne l’Italia, Philips ha inviato al Ministero della Salute italiano il 3 maggio 2022 il documento "Philips Respironics Summary of PE-PUR Testing Results and Conclusions Available to Date – April 25, 2022", al seguito del quale non sono pervenute ulteriori richieste di documentazione aggiuntiva. Philips è a completa disposizione delle autorità per integrare la documentazione laddove richiesto. Resto a disposizione per ulteriori informazioni Grazie dell’attenzione, cordiali saluti Anna Bellini 

LA POLVERE NEL VENTILATORE di Giulio Valesini e Cataldo Ciccolella collaborazione Eleonora Zocca e Lidia Galeazzo Immagini Paolo Palermo Chiara D’Ambros Montaggio Marcelo Lippi e Andrea Masella Grafica Michele Ventrone

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO La Philips, non è un’azienda propriamente farmaceutica, è esperta, anzi leader mondiale dei dispositivi elettronici, televisori stereo, rasoi, insomma un impero da circa 20 miliardi di euro ogni anno. Nel 2007 però si è buttata su un’azienda, ha acquistato un’azienda che fabbricava respiratori, ventilatori, che vengono utilizzati per chi soffre di apnee nel sonno, ma sono stati anche molto utili ai tempi del covid per chi aveva gravi problemi di respirazione. Solo che si è scoperto più tardi, che questi dispositivi ventilatori rilasciavano delle micropolveri proveniente da un filtro utilizzato per attutire il rumore di un motorino. E Philips è stata costretta al più grande richiamo di dispositivi sanitari della storia. Ma cosa è successo? Una inchiesta internazionale dei nostri Giulio Valesini e Cataldo Ciccolella

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Philips è anche negli ospedali: produce sofisticate macchine per diagnostica e dispositivi medici attivi. A fine 2007, il gruppo olandese acquista la Respironics, l’azienda della Pennsylvania leader dei ventilatori ospedalieri e dei Cpap. Macchine che supportano la respirazione notturna di milioni di pazienti con l’apnea del sonno.

ALFONSO SCARANO - ANALISTA FINANZIARIO INDIPENDENTE Questo settore specifico pesa sostanzialmente il 10% sulla ramificazione dei propri business e quindi per 2 miliardi

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Un business che Philips ha incrementato grazie alla pandemia, durante la quale ha potuto vendere agli ospedali migliaia di respiratori

ALFONSO SCARANO - ANALISTA FINANZIARIO INDIPENDENTE È andato in maniera performante dal punto di vista di vendite fino a una certa data

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Fino a quando cioè la linea di ventilatori e respiratori della Philips Respironics è finita nel più grande richiamo di dispositivi medici della storia. Ufficialmente sono 15 milioni fra CPAP, BiPAP e ventilatori che dovevano aiutare i pazienti a respirare e si è scoperto che potrebbero essere pericolosi per la salute.

MARCO RUBINELLI – UTENTE DISPOSITIVI RESPIRATORI PHILIPS RICHIAMATI Io pensavo fosse uno scherzo. C’è scritto che l’apparecchio è soggetto a un richiamo globale in quanto si presume, si dice che c’è una membrana interna che può essere cancerogena, può portare danni perché si sfibra.

GIULIO VALESINI Per quanti anni ha usato la macchina Philips?

MARCO RUBINELLI – UTENTE DISPOSITIVI RESPIRATORI PHILIPS RICHIAMATI Dal gennaio 2017. Perciò cinque anni. Mi dava fastidio di notte sempre di più.

GIULIO VALESINI Ma che fastidio le dava?

MARCO RUBINELLI - UTENTE DISPOSITIVI RESPIRATORI PHILIPS RICHIAMATI Mi veniva come una tosse a colpi. Mi sono fatto degli esami ai polmoni e mi han trovato nella trachea dei piccoli piccoli linfonodi ingranditi che io non ho mai avuto nelle risonanze di prima.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Prima che i tecnici della Philips venissero a ritirare il ventilatore per il richiamo, il signor Rubinelli ha scattato delle fotografie del tubo a cui era attaccato il respiratore.

MARCO RUBINELLI – UTENTE DISPOSITIVI RESPIRATORI PHILIPS RICHIAMATI Io non mi ero mai accorto prima – che nel tubo di uscita…guardi che cosa c’è dentro!

GIULIO VALESINI Sembra polvere nera

MARCO RUBINELLI – UTENTE DISPOSITIVI RESPIRATORI PHILIPS RICHIAMATI È polvere nera!

DANIELE SANTORO UTENTE DISPOSITIVI RESPIRATORI PHILIPS RICHIAMATI La mattina mi sveglio come se avessi i polmoni bruciati, gli ho detto allo pneumologo.

GIULIO VALESINI Una sensazione quindi di infiammazione

DANIELE SANTORO - UTENTE DISPOSITIVI RESPIRATORI PHILIPS RICHIAMATI Di irritazione, di irritazione della prima parte dei polmoni. Io sono andato sul sito della Philips…

GIULIO VALESINI Sì, c’è scritto che il numero di serie

DANIELE SANTORO - UTENTE DISPOSITIVI RESPIRATORI PHILIPS RICHIAMATI La mia macchinetta è da richiamo. Io è dal 2019 che ti sto dicendo che sta macchinetta mi crea problemi! Quando ho letto ‘sta cosa, mi si sono drizzati i capelli e mi sono imbufalito. Ho detto, ma allora perché nessuno mi ha creduto?

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO A fine aprile 2021, nel silenzio generale, Philips rivela di avere un problema con questi respiratori. Due mesi dopo avvisa le autorità sanitarie “di potenziali rischi per la salute correlati alla schiuma fonoassorbente”. Il materiale in certe condizioni può degradare e rilasciare particelle respirate dai pazienti. La Philips annuncia l’impegno a sostituire i device.

SILVIA FARÈ – PROFESSORESSA BIOINGEGNERIA INDUSTRIALE POLITECNICO DI MILANO Questi materiali vanno incontro a un fenomeno di degradazione

GIULIO VALESINI Il materiale si sbriciola. Adesso, detto in maniera

SILVIA FARÈ – PROFESSORESSA BIOINGEGNERIA INDUSTRIALE POLITECNICO DI MILANO Sì, sì, se vogliamo dirlo…si, si. In questi dispositivi l'aria entra da questa parte e poi esce da qui dove sarà connesso il tubo che va al paziente

GIULIO VALESINI Se io inalassi queste particelle di questa schiuma, mi fa male o non mi fa niente?

SILVIA FARÈ – PROFESSORESSA BIOINGEGNERIA INDUSTRIALE POLITECNICO DI MILANO Possono dar luogo appunto a una risposta infiammatoria GIULIO VALESINI Se io le dicessi che questi respiratori in molti casi sono stati usati anche da pazienti ricoverati in ospedale per Covid?

SILVIA FARÈ – PROFESSORESSA BIOINGEGNERIA INDUSTRIALE POLITECNICO DI MILANO C’era una patologia, le difese possono essere minori rispetto a quelle di un paziente sano. Il problema è quando si hanno delle particelle di dimensioni molto inferiori perché quelle possono, se inalate, raggiungere gli alveoli polmonari

GIULIO VALESINI Più la particella è piccola che si stacca da questa schiuma più è pericolosa.

SILVIA FARÈ – PROFESSORESSA BIOINGEGNERIA INDUSTRIALE POLITECNICO DI MILANO Sì, perché la reazione ovviamente è più intensa.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Negli USA l’agenzia di sorveglianza FDA parla di rischi mortali per alcuni pazienti e impone a Philips di procedere velocemente con le sostituzioni. La Francia ha ordinato a Philips di sostituire il 75% dei respiratori entro questo mese. In Italia invece si sceglie di trattare l’azienda in modo più soft e il nostro ministero della Salute si limita al semplice avviso di sicurezza.

GIULIO VALESINI Non capisco se un respiratore fa male al paziente americano come faccia a non far male al paziente italiano. Questa è la domanda.

PIERPAOLO SILERI – SOTTOSEGRETARIO AL MINISTERO DELLA SALUTE Lì vi è stata una rigidità, sicuramente, diciamo sicuramente maggiore. Su questo sono d'accordo, sono d'accordo con lei

GIULIO VALESINI Ma i pazienti italiani sono pazienti di serie B per voi?

PIERPAOLO SILERI – SOTTOSEGRETARIO AL MINISTERO DELLA SALUTE Assolutamente no. Noi abbiamo intimato - e vi darò la lettera – che praticamente dice: guardate aderite alla sostituzione altrimenti provvederemo in altra maniera, che può anche essere fra le varie cose quello di acquistare altri respiratori e poi caricarli a loro se non procedono rapidamente con questa sostituzione.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Sarà un caso ma la lettera inviata a Philips dal nostro Ministero è partita quattro giorni dopo la nostra richiesta di chiarimenti. La multinazionale per sua stessa ammissione, sinora, ha sostituito e riparato solo il 20% dei respiratori usati dai pazienti italiani.

RENATA ENRIÙ – DISTRIBUTRICE PHILIPS E AMMINISTRATRICE RESPIRAIRE SRL Il piano di gestione è questo: è quello di avvisare i pazienti e gradualmente di sostituire le macchine.

GIULIO VALESINI Il ministero vi ha fornito un criterio di sostituzione di questa macchina?

RENATA ENRIÙ – DISTRIBUTRICE PHILIPS E AMMINISTRATRICE RESPIRAIRE SRL Ci hanno fornito dei criteri macroscopici per cui è abbastanza difficile identificare la priorità. Magari io ho qualche centinaio di pazienti che aspettano. Se ho 15 macchine devo tirare le monetine.

GIULIO VALESINI Però Philips avrebbe dovuto garantire la sostituzione dei dispositivi richiamati.

RENATA ENRIU’- DISTRIBUTRICE PHILIPS E AMMINISTRATRICE RESPIRAIRE SRL Non è più una questione di costi. Perché tanto io penso che Philips pagherà. Ma non ci sono i dispositivi.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Ma quello che appariva un incidente, sembra nascondere una colpevole negligenza. A rivelarlo è l’esito di una ispezione dell’FDA condotta tra agosto e novembre del 2021 presso la fabbrica di Philips in Pennsylvania.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO CINQUE VENTILATORI Eccola la relazione dell’ispettore dell’FDA che ha è stato tre lunghi mesi in azienda, ha aperto i cassetti e ha trovato carte imbarazzanti per la multinazionale olandese. È entrato nel database interno e ha scoperto che dal 2008 e il 2017 ci sarebbero stati ben 222.000 reclami legati proprio allo sgretolamento della schiuma fono assorbente utilizzata per attutire il rumore del motorino del ventilatore. Ora Philips dice però guardate da verifica interna di queste segnalazioni solo il 3% avrebbe a che fare realmente con la schiuma, però insomma non è che è poca cosa perché si comunque di quasi 7mila casi. Ma l’ispettore dell’FDA evidenzia comunque che Philips era già a conoscenza dal 2015 dei problemi della schiuma fonoassorbente, avrebbe rilevato con accuratezza il fatto che non fosse biocompatibile, e che in alcuni casi rilasciasse formaldeide in quantitativi superiori ai limiti. Un quadro sottolinea l’ispettore dell’FDA che è preoccupante, soprattutto ad alto rischio per i pazienti pediatrici. Ora Philips ha continuato a vendere come se nulla fosse, come se fossero rasoi, i ventilatori, anche ai tempi del covid. E solo quando nel 2021, sono aumentate le segnalazioni, insomma ha cominciato ad indagare. Segnalazioni sono arrivata anche all ’FDA e anche al ministero della Salute francese che insieme hanno imposto a Philips il richiamo degli apparecchi. Il ministero francese ha addirittura chiesto che venissero ritirati il 75 % dei ventilatori difettosi entro la fine di giugno. Un po’ più felpato nei confronti della multinazionale olandese il nostro Ministero della salute che è intervenuto solo dopo che Report ha posto il problema. Ora però il tema è che Phillips non ha tutte le macchine per sostituire quelle difettose. Il signor Santoro erano anni che aveva problemi, che riscontrava fenomeni di infiammazione, irritabilità dopo aver utilizzato il suo respiratore, il suo ventilatore, ne aveva anche parlato con il medico di famiglia ma è come se avesse predicato nel deserto. Solo dopo che rea stata inviata una lettera dalla ASL è andato sul sito della Philips e si è accorto che il suo era uno degli apparecchi da sostituire. Ora speriamo che Philips lo faccia in fretta anche perché negli Stati Uniti l’FDA si chiedendo di indagare su almeno 124 morti. In attesa dei dati e delle analisi Philips però compie un bel gesto: chiede scusa ai pazienti davanti alle telecamere di Report

JAN KIMPEN – CAPO DIPARTIMENTO MEDICALE PHILIPS Voglio chiedere scusa ai pazienti che sono preoccupati. Come dottore io li capisco: avevano fiducia nei dispositivi che usano per la loro salute, ora ne hanno timore. L’avviso di sicurezza volontario è basato sull’aumento dei reclami che abbiamo visto a inizio del 2021. Così, all’inizio dello scorso anno, abbiamo pensato che poteva esserci un problema strutturale

GIULIO VALESINI Ma perché avete scelto di ignorare sistematicamente per anni le segnalazioni che vi arrivavano dai pazienti: 220mila segnalazioni di potenziali problemi derivati dalla schiuma. Per anni Philips, dal 2015, conosceva il problema e non ha posto rimedio.

JAN KIMPEN – CAPO DIPARTIMENTO MEDICALE PHILIPS Prima del 2020 avevamo reclami minori, pochi che arrivavano dai pazienti e un po’ di più che arrivavano dai distributori

GIULIO VALESINI Non potete dire che è soltanto da un anno che conoscete il problema

JAN KIMPEN – CAPO DIPARTIMENTO MEDICALE PHILIPS Le ripeto, è solo all’inizio del 2021 che il numero di reclami è cresciuto. È lì che abbiamo detto “non possiamo più gestire la questione su base individuale, vogliamo diramare un avviso di sicurezza”.

GIULIO VALESINI L’impressione è che Philips abbia aspettato troppo vendendo tante macchine e privilegiando il fatturato un po’ alla salute dei pazienti

JAN KIMPEN – CAPO DIPARTIMENTO MEDICALE PHILIPS La sicurezza dei pazienti è sempre al centro di quello che facciamo: è quello su cui si è basata la reputazione di Philips.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Tra i modelli considerati pericolosi per la salute dei pazienti ci sono anche i ventilatori non invasivi, usati in epoca Covid negli ospedali. I Trilogy ma anche il modello E30, approvato in emergenza da FDA nel 2020 proprio per il coronavirus: il management della Philips sapeva da tempo del particolato ma non ha avuto problemi a dare l’E30 ai malati, salvo includerlo nel recall finita la seconda ondata covid.

JAN KIMPEN – CAPO DIPARTIMENTO MEDICALE PHILIPS Noi non abbiamo mai portato sul mercato dispositivi che sapevamo potessero danneggiare i pazienti

GIULIO VALESINI Tra i modelli richiamati c’è il Trilogy 100, il Trilogy 200. Li conferma?

JAN KIMPEN – CAPO DIPARTIMENTO MEDICALE PHILIPS Questo è vero, i dispositivi sono in uso. Abbiamo lasciato decidere ai medici se continuare o meno il trattamento con questo device.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO L'FDA a maggio ha rivelato di aver ricevuto solo nell'ultimo anno più di 21.000 segnalazioni di incidenti seri, tra cui 124 decessi, associati ai problemi di questi dispositivi, mentre Philips fino al 2021 ne ha segnalati soltanto 30. Sono dati parziali perché le notifiche di morti e danni devono essere sottoposte a perizie per accertare le vere cause. Ma anche su queste perizie ci sono perplessità.

JEANNE LENZER – COLLABORATRICE BRITISH MEDICAL JOURNAL L'FDA richiede di segnalare solo ciò che ha causato oppure contribuito a causare la morte o l'evento avverso grave. Secondo lei, a chi spetta poi decidere se un dispositivo ha effettivamente causato la morte di un paziente? È il medico del paziente? È la FDA? È il paziente? No, è il produttore del dispositivo. E spesso si autoassolve.

GIULIO VALESINI In Italia si dice: è un po’ come chiedere all’oste se il proprio vino è buono. Insomma, voglio dire, forse andrebbe fatto da un ente indipendente questo studio.

JAN KIMPEN – CAPO DIPARTIMENTO MEDICALE PHILIPS Le informazioni che abbiamo al momento non ci permettono di correlare le morti con la degradazione della schiuma o meno. Una volta che avremo fatto la nostra valutazione, coinvolgeremo un panel medico esterno che guarderà il nostro studio.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO A inizio anno, Philips ha inviato alcuni risultati di test preliminari a Bfarm, l’ente sanitario tedesco che l’Europa ha delegato a vigilare sul caso. Secondo Bfarm i risultati sono rassicuranti. Anche la ERS, la società europea dei medici della respirazione, dichiara che non c’è bisogno di sostituire urgentemente i device. E il nostro ministero si adegua, e dirama una circolare che è un copia e incolla del parere dell’ente sanitario tedesco Bfarm e delle raccomandazioni della Ers.

WINFRIED RANDERATH - EUROPEAN RESPIRATORY SOCIETY (ERS) È stato importante per noi rassicurare i pazienti. Bisogna mettere sulla bilancia il rischio potenziale di danni da parte del dispositivo e il danno immediato di interrompere il trattamento. E la bilancia pende dalla parte della necessità di continuare il trattamento perché il rischio è ipotetico.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Eppure, nemmeno Randerath ha mai visto i dati.

WINFRIED RANDERATH - EUROPEAN RESPIRATORY SOCIETY (ERS) Non abbiamo visto i dati reali perché non siamo tossicologi, ma i dati sono stati resi noti alle autorità sanitarie

ELEONORA ZOCCA Lei ha qualche conflitto di interessi? Con quali società?

WINFRIED RANDERATH - EUROPEAN RESPIRATORY SOCIETY (ERS) Sì

ELEONORA ZOCCA Perché non ce lo dice?

WINFRIED RANDERATH - EUROPEAN RESPIRATORY SOCIETY (ERS) Posso dirvelo, ma… Possiamo discutere su come affrontare questa cosa?

ELEONORA ZOCCA Può tornare al suo posto? Ma lei ha o no un conflitto di interessi con Phillips?

WINFRIED RANDERATH - EUROPEAN RESPIRATORY SOCIETY (ERS) Sì, ma è terminato

ELEONORA ZOCCA Quindi non sta più lavorando con Phillips? WINFRIED RANDERATH - EUROPEAN RESPIRATORY SOCIETY (ERS) Sono entrato a far parte di una task force americana sull'apnea del sonno, e quindi ho avuto… Capisco il tuo punto di vista. Tu vuoi dimostrare che ho un conflitto di interessi e che quindi la mia dichiarazione su questa vicenda non è attendibile.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Il problema è che il 25 aprile è Philips a smentire Randerath. L’azienda divulga alcuni test preliminari sugli apparecchi. I risultati sono preoccupanti, alcuni esami sulla schiuma provano la genotossicità. La multinazionale ha condotto i test su un numero esiguo di macchinari: alcuni sono solo su una macchina, altri solo su 5. Non il massimo della rappresentatività come test.

GIULIO VALESINI Noi abbiamo visto questi test pubblicati da Philips il 25 aprile scorso e non sono molto tranquillizzanti, come li spiegate?

JAN KIMPEN – CAPO DIPARTIMENTO MEDICALE PHILIPS Stiamo facendo migliaia di test in diversi laboratori. I risultati arriveranno intorno alla fine del prossimo mese.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Resta un mistero. Sono gli stessi test sui quali Ers e Bfarm avevano detto a tutti di stare tranquilli? Non lo sappiamo perché, incredibile ma vero, Bfarm non ha condiviso i file che ha ricevuto da Philips neanche con il nostro ministero della Salute.

GIULIO VALESINI Io ho le ultime analisi effettuate da Philips. In queste analisi, tra le altre cose, Philips ammette che alcuni test sulla genotossicità dei VOC

PIERPAOLO SILERI – SOTTOSEGRETARIO AL MINISTERO DELLA SALUTE Del materiale particolato

GIULIO VALESINI Sono falliti

PIERPAOLO SILERI - SOTTOSEGRETARIO AL MINISTERO DELLA SALUTE Questi sono dei dati che nella loro interezza devono essere quanto più disponibili e diffusi ovviamente negli enti regolatori.

GIULIO VALESINI Ma perché, non li hanno fatti vedere neanche a voi?

PIERPAOLO SILERI – SOTTOSEGRETARIO AL MINISTERO DELLA SALUTE Noi non li abbiamo, io vorrei vedere quei dati nella forma più completa possibile sul sito

ROBERTI - PRESIDENTE ASSOCIAZIONE APNOICI ITALIANI Se i dati sono positivi perché non diffonderli? I pazienti che utilizzano la Cpap sono pazienti che soffrono di apnea ostruttiva del sonno. Avviene durante la notte, cioè un'interruzione dell'atto respiratorio

GIULIO VALESINI In Italia quante sono le persone che hanno questo disturbo?

LUCA ROBERTI - PRESIDENTE ASSOCIAZIONE APNOICI ITALIANI Si stimano sette 7,5 milioni di persone che soffrono di questo problema.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Sui rischi di tumore Philips cita un recente studio francese che ha analizzato su un periodo di 7 anni un campione di 4.500 pazienti in cui gli utenti Philips non hanno evidenziato un rischio di cancro maggiore di quelli di altre marche. Lo studio, per stessa ammissione degli autori, ha dei limiti. Anche noi abbiamo fatto analizzare le schiume di poliuretano in alcuni modelli richiamati al Centro Polimeri di Reggio Emilia per valutarne la biocompatibilità.

VALERIA ZANICHELLI – RICERCATRICE CHIMICA CENTRO POLIMERI ITALIA Il campione viene prelevato e viene spostato a questa zona che è un fornetto. Noi effettuiamo un riscaldamento a 120 gradi e mantenerlo in agitazione per favorire l'uscita delle sostanze. Il condizionamento che di solito noi effettuiamo dura cinque ore, in modo da essere sicuri che tutte le sostanze volatili vengano emesse e raccolte nel contenitore.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Siamo tornati dopo tre settimane, e i risultati non sono confortanti. Le celle che compongono le schiume di poliuretano dei respiratori perdono pezzi. E c’è dell’altro.

ALEX BONARDI - DIRETTORE CENTRO POLIMERI ITALIA Per esempio in questo caso, questa è una cella completamente aperta, questa è una cella in via

GIULIO VALESINI Che doveva essere chiusa prima

ALEX BONARDI - DIRETTORE CENTRO POLIMERI ITALIA Sì, esatto. Questa invece è una cella che è parzialmente chiusa.

GIULIO VALESINI Questa è la prova, sostanzialmente, al microscopio, che questa schiuma perde del materiale

ALEX BONARDI - DIRETTORE CENTRO POLIMERI ITALIA Esatto

GIULIO VALESINI Che cosa può succedere se io le inalassi queste…?

ALEX BONARDI - DIRETTORE CENTRO POLIMERI ITALIA Inalandole, entrano sicuramente nel sistema respiratorio i singoli frammenti. Possono a loro volta essere delle fonti di rilascio di sostanze chimiche.

GIULIO VALESINI Complessivamente quante sostanze avete trovato che chi utilizza queste macchine inala

ALEX BONARDI - DIRETTORE CENTRO POLIMERI ITALIA 25-30 sostanze

GIULIO VALESINI Di che tipo di sostanze parliamo?

ALEX BONARDI - DIRETTORE CENTRO POLIMERI ITALIA Parliamo di idrocarburi a catena lunga, di tipo insaturo, quindi, insomma degli alcheni. Parliamo di alcoli, parliamo di ammine, di aldeidi.

GIULIO VALESINI Le aldeidi sono cancerogeni?

ALEX BONARDI - DIRETTORE CENTRO POLIMERI ITALIA Sì.

GIULIO VALESINI Il Fenolo non scherza

ALEX BONARDI - DIRETTORE CENTRO POLIMERI ITALIA Il fenolo sì.

GIULIO VALESINI Ma voi avete anche calcolato una quantità?

ALEX BONARDI - DIRETTORE CENTRO POLIMERI ITALIA Un numero significativo che sostanzialmente non tende a cambiare di molto nel tempo, anche per lunghi periodi di uso di questi dispositivi.

GIULIO VALESINI Questa schiuma è biocompatibile?

ALEX BONARDI - DIRETTORE CENTRO POLIMERI ITALIA No

GIULIO VALESINI Perché avete scelto di usare una schiuma evidentemente non biocompatibile? Costava meno forse?

JAN KIMPEN - CAPO DIPARTIMENTO MEDICALE PHILIPS All’epoca dello sviluppo dei nostri dispositivi Cpap noi abbiamo soddisfatto tutti gli standard dell’Fda, ma anche della Comunità Europea

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Resta da capire come le varie agenzie ed enti notificati abbiano dato l’approvazione senza accorgersi che il materiale era notoriamente a rischio. Intanto i pazienti si preparano a citare la multinazionale olandese in giudizio.

ALFONSO SCARANO - ANALISTA FINANZIARIO INDIPENDENTE Philips ha accantonato a bilancio 2021, 577 milioni, a cui ha aggiunto nell'ultima trimestrale, 100 milioni e altri 65 milioni.

GIULIO VALESINI Quindi siamo intorno agli 800 milioni.

ALFONSO SCARANO - ANALISTA FINANZIARIO INDIPENDENTE Sono dedicati a tutta questa fase di recall delle apparecchiature. Però alla domanda: ma sulle class action avete accantonato qualcosa? Cosa fa? No. Noi abbiamo un team di avvocati molto forte: strong

GIULIO VALESINI Della serie?

ALFONSO SCARANO - ANALISTA FINANZIARIO INDIPENDENTE Venitemi addosso, provateci.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Abbiamo incontrato un manager di Respironics l’azienda che produce ventilatori acquistata nel 2007 da Philips. Ci chiede di tutelare la sua identità.

 EX MANAGER PHILIPS RESPIRONICS Respironics era un gioiellino. Poi, è arrivata Philips. Hanno comprato l’intera società pagando le azioni quasi il doppio del valore. I nostri respiratori li hanno trattati con la stessa prospettiva del segmento di mercato dei rasoi e degli spazzolini elettrici.

GIULIO VALESINI Philips sta minimizzando molto i rischi per i pazienti. Secondo lei che rischi ci sono invece per la salute di chi ha usato questi respiratori?

EX MANAGER PHILIPS RESPIRONICS Non sono un medico, ma conosco il funzionamento dei respiratori come le mie tasche. Sulla base dei dati che abbiamo visto sinora gli utenti danneggiati severamente sono una percentuale bassissima. Ma se consideri che abbiamo circa 25-30 milioni di utenti, puoi capire da solo che nessuno può permettersi di sottovalutare l’impatto, potenzialmente qualche migliaio di decessi.

GIULIO VALESINI Si tratta di 15 milioni di dispositivi usati da pazienti con patologie respiratorie.

EX MANAGER PHILIPS RESPIRONICS Temo che sia tu che Fda avete un dato sbagliato. 15 milioni sono solo quelli registrati. Ci sono diversi altri milioni di dispositivi sui mercati asiatici, specie quello cinese, non registrati, e che non saranno oggetto di alcun recall.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO È la Waterloo dei sistemi di certificazione dei dispositivi sanitari. Una schiuma fonoassorbente è stata autorizzata per essere utilizzata per attenuare i rumori di un motorino di un ventilatore, respiratore, solo che si è scoperto più tardi che si usura e si sgretola e rilascia nel tubo del respiratore utilizzato da malati, pazienti che hanno sindromi gravi di respirazione rilascia delle polveri che possono essere potenzialmente tossiche o addirittura cancerogene. Nell’ultimo anno l’Fda americana sono arrivate 21 mila segnalazioni e l’ente americano ha chiesto anche di indagare su 124 morti sospette, ad indagare è la stessa Philips che ha costruito questi dispositivi. Philips sta anche indagando sulla possibile tossicità di queste polveri i dati li ha passati a Bfarm, l’ente sanitario delegato dall’Europa, che ha rassicurato, anche l’associazione dei medici, che ha fatto il copia incolla del comunicato di Bfarm, così come ha rassicurato anche il nostro ministero della Salute. Insomma secondo loro non andrebbero sostituiti con urgenza questi dispositivi. Solo che Philips poi cosa ha fatto, ha pubblicato successivamente dei dati che proverebbero una tossicità di queste polveri, ma non sappiamo se si tratta degli stessi dati che ha dato a Bfarm perché nessuno li ha visti questi dati. Noi, senza saper né leggere né scrivere, siamo andati a farceli da soli questi test al Centro polimeri di Reggio Emilia, un prestigioso centro. Cosa abbiamo rilevato. Che intanto questa schiuma si sgretola, e poi che queste polveri contengono ben 25 sostanze chimiche, alcune potenzialmente cancerogene. Ora, ad autorizzare questo sistema fonoassorbente, a rilasciare il marchio “CE” è stato il prestigioso centro Tuv sud di Monaco. Quello che noi ci sentiamo di dire che in attesa che Philips sostituisca questi dispositivi, non vi staccate dal respiratore, perché i danni a breve termine potrebbero essere più alti dei rischi che potete correre nel lungo termine. Noi da parte nostra abbiamo cercato di capire quanti pazienti in Italia abbino utilizzato questi ventilatori della Philips, pazienti Covid. Il ministero della salute non ha dati puntuali su questo, però siamo riusciti ad avere la cifra di quanti dispositivi sono presenti nel nostro sistema sanitario in questo momento. 24 mila tra cliniche private e ospedali pubblici. Sappiamo anche che la sola Asl Toscana, nord ovest, utilizza ben 90 apparecchi di questo tipo in sale di terapia intensiva e sub intensiva.

Il paziente italiano. Report Rai. PUNTATA DEL 20/06/2022 di Claudia Di Pasquale. Collaborazione di Cecilia Bacci e Giulia Sabella

L'emergenza Covid è finita ma la sanità resta in stato di emergenza.

I pronto soccorso sono al collasso, migliaia di visite e interventi sono stati sospesi, i medici sono in fuga dagli ospedali pubblici. Eppure, dopo la prima ondata, a maggio 2020 il Decreto Rilancio stanziava 1 miliardo e 400 milioni di euro per potenziare la rete ospedaliera italiana, aumentare il numero dei posti letto di terapia intensiva e subintensiva e per riqualificare i pronto soccorso. A distanza di due anni cosa è stato fatto?
 

Riceviamo e pubblichiamo la lettera inviata dall'azienda ospedaliero-universitaria Policlinico Umberto I
Il direttore generale dell'azienda ospedaliero-universitaria Policlinico Umberto I, Fabrizio D'Alba, oggi 20 giugno 2022, ha inviato una lettera alla redazione di Report Rai3, a seguito dell'anticipazione via social delle interviste rilasciate da Elena Codrea, paziente oncologica dell'Umberto I, e da Antonella Saliva, presidente del Comitato La Fenice, nato a difesa della sanità pubblica e delle donne costrette annualmente rivolgersi a delle strutture private per fare i controlli di prevenzione per il tumore al seno. 

I fatti raccontati da Report sono questi: Elena Codrea, paziente oncologica dell'Umberto I, ha chiamato il Cup per prenotare prima una Moc e poi una radiografica toracica, e in entrambi i casi l'operatore le ha comunicato che presso l'Umberto I non c'era alcuna disponibilità, ovvero l'agenda dell'Umberto I era chiusa. Antonella Saliva ha, quindi, denunciato che in base alla legge 266 del 2005 è vietato chiudere le agende.

Di fronte a questa denuncia, il direttore D'Alba elenca nella sua mail il numero delle prestazioni ambulatoriali e diagnostiche effettuate dall'Umberto I negli ultimi tre anni, e specifica che il "presunto disservizio" denunciato dal comitato La Fenice è "relativo al call center regionale", e di conseguenza non all'Umberto I. Verrebbe da chiedersi chi comunica al Cup regionale quali sono le disponibilità e le agende per le singole prestazioni nei singoli ospedali. 
In ogni caso il direttore D'Alba puntualizza che "in relazione a quanto diffuso dall'Associazione La Fenice anche in modo preventivo intende puntualizzare di avere adito tutte le vie legali e giudiziarie per riaffermare la verità". Vogliamo sperare che il Policlinico Umberto I non voglia portare in tribunale né il comitato La Fenice, che si batte per la prevenzione dei tumori femminili, né Elena Codrea, paziente oncologica, che si è ritrovata a doversi rivolgere a una struttura privata accreditata per fare la Moc.

Teniamo a sottolineare che questa lettera del direttore D'Alba arriva il giorno stesso della messa in onda, 20 giugno 2022, dopo che Report a partire dal primo febbraio 2022 ha inviato al Policlinico Umberto I più richieste di informazioni e anche d'intervista allo stesso direttore D'Alba. Nello specifico Report aveva chiesto all'Umberto I i dati relativi ai pazienti Covid, come erano stati rimodulati gli spazi dell'ospedale per ricoverare i pazienti Covid, quali interventi erano previsti in base al decreto rilancio (dl 34/2020) per potenziare il policlinico Umberto I e a che punto erano questi lavori, nonché i tempi e i costi dei lavori di ristrutturazione del complesso ospedaliero finanziati dalla legge 448/1998. 

Ebbene, nonostante l'invio di più richieste ufficiali, il direttore D'Alba non ci ha rilasciato alcuna intervista e il Policlinico Umberto I non ha mai risposto a nessuna delle nostre richieste di informazioni, non fornendoci alcun dato.
Nonostante la mancanza di qualsiasi forma di collaborazione da parte del Policlinico Umberto I, noi di Report abbiamo scoperto e verificato che a distanza di quasi due anni i lavori per i 48 nuovi posti di terapia semintensiva e i 26 posti di terapia intensiva, finanziati grazie al decreto rilancio del maggio 2020, non sono ancora partiti. Ce l'ha confermato anche la Engie Servizi che insieme alla Sac si è aggiudicata i lavori già nell'autunno del 2020.
Questa la risposta della Engie Servizi datata 15 aprile 2022: "Confermiamo che i lavori per le terapie intensive/semi intensive presso l'ospedale non sono iniziati in quanto non abbiamo ricevuto i relativi ordinativi, né siamo a conoscenza delle relative tempistiche".

 

IL PAZIENTE ITALIANO di Claudia Di Pasquale Collaborazione di Cecilia Bacci e Giulia Sabella Montaggio di Daniele Bianchi Immagini di Chiara D'Ambros, Giovanni De Faveri, Dario D'India, Paolo Palermo, Davide Fonda Ricerca immagini di Paola Gottardi

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora, bentornati. Insomma, nel maggio del 2020, sull’onda emotiva di mille morti al giorno a causa del virus, il ministro Speranza annunciava lo stanziamento di un miliardo e 400 milioni di euro da investire in nuove sale di terapia intensiva, subintensiva, nell’acquisto di nuove ambulanze e riqualificazione, ristrutturazione dei pronto soccorso. Questo perché non si ripetesse più quella bruttissima esperienza che si è corsa nella prima ondata della pandemia. Bisognava prevenire, in occasione della seconda ondata. Bene, è passata la seconda, la terza, la quarta. Che cosa è successo? La nostra Claudia Di Pasquale.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO 2 giugno 2022, Festa della Repubblica: per la prima volta alla tradizionale parata ai Fori Imperiali sfilano anche i medici, gli infermieri e i paramedici. Sono proprio loro ad aprire il corteo: un omaggio al duro lavoro svolto dal personale sanitario nazionale durante la pandemia. Il ministro della Salute Roberto Speranza li ringrazia su Twitter e li definisce la risorsa più preziosa per il rafforzamento della sanità. E proprio per rafforzare la sanità già due anni fa il ministro annunciava lo stanziamento di un miliardo e 400 milioni di euro.

ROBERTO SPERANZA - MINISTRO DELLA SALUTE - 14/05/2020 Con questo investimento l’Italia fa un salto avanti straordinario: più 115 per cento. Si passa da 5.179 posti in terapia intensiva a 11.091. Ancora sugli ospedali investiamo risorse per ammodernare i nostri pronto soccorso: sono 192 milioni, una cifra importante.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Napoli, zona ovest: Ospedale Cardarelli. Ecco come sta messo oggi il pronto soccorso.

SIGNORE Mannaggia, guarda la gente, guarda.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO I pazienti sono in attesa da ore se non da giorni. Un inferno che ha portato lo scorso 5 maggio ben 25 medici del pronto soccorso a scrivere una lettera di preavviso di dimissioni.

GIUSEPPE VISONE - FP CGIL MEDICI OSPEDALE CARDARELLI - NAPOLI Dicendo esattamente questo: non siamo più in grado di svolgere il lavoro per il quale siamo stati assunti perché il carico di lavoro è tale che sopravanza la nostra capacità di risposta, non siamo in grado di dare assistenza ai nostri pazienti.

CLAUDIA DI PASQUALE Quel giorno nello specifico c’erano 170 pazienti ma erano arrivati tutti quel giorno o c’erano anche persone che stavano là al pronto soccorso da più tempo?

GIUSEPPE VISONE - FP CGIL MEDICI OSPEDALE CARDARELLI - NAPOLI No no, molti di questi pazienti stazionano in pronto soccorso anche per sette, dieci giorni.

CLAUDIA DI PASQUALE Quando è scoppiata la pandemia nel 2020 sono stati stanziati dei soldi per riorganizzare i pronto soccorso. Qua al Cardarelli è stato fatto qualcosa in questi due anni?

GIUSEPPE VISONE - FP CGIL MEDICI OSPEDALE CARDARELLI - NAPOLI Per adesso no, in questo momento no, so che sono programmati degli interventi di ristrutturazione ma almeno per il momento non sono ancora partiti.

CLAUDIA DI PASQUALE Ma quanti medici ci sono?

GIUSEPPE VISONE - FP CGIL MEDICI OSPEDALE CARDARELLI - NAPOLI Guardi nell’arco di un anno sono andati via credo una ventina di medici.

CLAUDIA DI PASQUALE Quanti dovreste essere?

GIUSEPPE VISONE - FP CGIL MEDICI OSPEDALE CARDARELLI - NAPOLI Tra 38 e 40 medici. Noi siamo esattamente la metà in questo momento.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO A Fuorigrotta, vicino lo stadio, si trova invece l’ospedale San Paolo.

CLAUDIA DI PASQUALE Qual è la situazione del pronto soccorso qua al San Paolo?

ROSARIO CERULLO – COORDINATORE FP CGIL - NAPOLI Al San Paolo mancano i medici accettisti.

CLAUDIA DI PASQUALE Quanti ce ne sono e quanti dovrebbero essere?

ROSARIO CERULLO – COORDINATORE FP CGIL - NAPOLI Ci sono sette, otto persone. Ce ne vorrebbero 20, 25.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO La zona nord di Napoli, vicino l’aeroporto, è servita invece dall’ospedale San Giovanni Bosco che, durante la pandemia, è stato convertito in presidio Covid.

ROSARIO CERULLO - COORDINATORE FP CGIL - NAPOLI Ora il San Giovanni Bosco è già free covid, è libero dal covid, ha aperto una serie di posti letto, non riesce ad aprire il pronto soccorso per mancanza di medici accettisti.

CLAUDIA DI PASQUALE Prima del covid funzionava il pronto soccorso?

ROSARIO CERULLO - COORDINATORE FP CGIL - NAPOLI Sì. Sì, i medici si sono dilaniati, sono spariti.

CLAUDIA DI PASQUALE E dove sono andati?

ROSARIO CERULLO - COORDINATORE FP CGIL - NAPOLI Chi, per esempio, ha scelto di andare nel privato, chi ha scelto di lasciare il pubblico per fare il medico di medicina generale: stanno scappando letteralmente dai pronto soccorso i medici.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO A Napoli un altro presidio Covid era il Loreto Mare, vicino il porto. Dal 6 giugno è free covid ma ancora oggi è chiuso.

GIUSEPPE VISONE - FP CGIL MEDICI OSPEDALE CARDARELLI – NAPOLI Il Loreto Mare non ci ha più il pronto soccorso da tempo. Adesso è totalmente chiuso perché dopo che hanno esaurito i pazienti covid che erano là adesso dovrebbero decidere che cosa fare ma non credo che riaprirà il pronto soccorso.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO In questi anni la regione Campania ha puntato su un nuovo grande presidio ospedaliero nella zona est, a Ponticelli, il cosiddetto Ospedale del Mare.

CLAUDIA DI PASQUALE Quanti medici ci sono al pronto soccorso dell’Ospedale del Mare?

GIUSEPPE GALANO - PRESIDENTE ASS. ANESTESISTI E RIANIMATORI AAROIEMAC CAMPANIA Sei, sette medici.

CLAUDIA DI PASQUALE Sei, sette medici?

GIUSEPPE GALANO - PRESIDENTE ASS. ANESTESISTI E RIANIMATORI AAROIEMAC CAMPANIA Sì. E poi c’è tutta l’area medica che ruota intorno al pronto soccorso.

CLAUDIA DI PASQUALE Quanti dovrebbero essere i medici?

GIUSEPPE GALANO - PRESIDENTE ASS. ANESTESISTI E RIANIMATORI AAROIEMAC CAMPANIA Almeno sui 30, 35 medici ordinariamente.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Giuseppe Galano è il presidente del sindacato degli anestesisti ed è anche il direttore del 118 di Napoli.

CLAUDIA DI PASQUALE Quanti medici se ne sono andati dal 118?

GIUSEPPE GALANO - PRESIDENTE ASS. ANESTESISTI E RIANIMATORI AAROIEMAC CAMPANIA Durante la pandemia, in regione Campania sono andati via circa un centinaio di medici.

CLAUDIA DI PASQUALE E a Napoli?

GIUSEPPE GALANO - PRESIDENTE ASS. ANESTESISTI E RIANIMATORI AAROIEMAC CAMPANIA Se ne sono andati via 34.

CLAUDIA DI PASQUALE Questo che impatto ha poi sul servizio?

GIUSEPPE GALANO - PRESIDENTE ASS. ANESTESISTI E RIANIMATORI AAROIEMAC CAMPANIA Molte volte siamo costretti a inviare un’ambulanza solo con un infermiere.

GIUSEPPE VISONE - FP CGIL MEDICI OSPEDALE CARDARELLI - NAPOLI Qua parliamo del diritto a vivere. Il diritto alla salute viene dopo. Noi in urgenza garantiamo il diritto alla vita. Noi stiamo provando a spiegare, lo abbiamo detto pure al ministro, che la questione dei pronto soccorso e dell’emergenza è molto più grave della pandemia, non c’è paragone.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Il diritto a vivere, si va oltre il diritto di cura. Il forum delle società scientifiche dei clinici ospedalieri universitari, che sono coordinati dal prof. Francesco Cognetti, hanno denunciato tagli alla sanità per 25 mila posti letto e del personale per oltre 42 mila unità. Insomma, criticità che sono emerse prepotentemente nella prima ondata della pandemia, quando si è sacrificati per curare i pazienti Covi, tutti gli altri pazienti. Ora, non è un caso che abbiamo raggiunto il più alto tasso di mortalità dal dopoguerra. Ci sono medici che scappano per lo stress dal pronto soccorso, che vengono sostituiti da colleghi che vengono da altri reparti o da altri ospedali e che lavorano fuori dagli orari di lavoro e pagati come liberi professionisti. Questo quando si riesce a sostituirli in questo modo, altrimenti bisogna attingere ai medici presi in prestito e pagati dalle cooperative. Per evitare che a ogni ondata, insomma, si ripetesse il dramma di chiudere o di riconvertire interi reparti al Covid, ecco, nel pieno dell’onda emotiva dei mille morti al giorno, nel maggio del 2020 il governo nel decreto rilancio stanzia un miliardo e 400 milioni di euro. Ne dà notizia il ministro Speranza, dovevano servire per creare 3.500 nuovi posti in terapia intensiva, 4.225 di subintensiva, comprare nuove ambulanze, ristrutturare i pronto soccorsi. La struttura commissariale all’epoca guidata da Arcuri indice le gare, chiude anche, affida i lavori, tutto molto bello, tutto molto veloce, però nel frattempo c’è stata la seconda ondata, c’è stata la terza ondata, anche la quarta. Come hanno speso questi soldi le regioni? La nostra Claudia Di Pasquale.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Le cose non vanno meglio nei pronto soccorso del Lazio. Anche qui barelle nei corridoi e sale piene di pazienti in attesa. Lo sa bene Teresa Brogna, che ha denunciato il caso di sua madre, portata all’ospedale di Latina. TERESA BROGNA La mattina mia mamma si è svegliata con un malessere e io, guardandola, noto che l'occhio destro diverge verso l'esterno.

CLAUDIA DI PASQUALE Quindi sua madre arriva al pronto soccorso. Le fanno comunque una TAC e da questa TAC cosa emerge?

TERESA BROGNA Un'ischemia cerebrale.

CLAUDIA DI PASQUALE E poi viene ricoverata o no?

TERESA BROGNA No, rimane nel pronto soccorso, nella sala 1. Questa sala era piena, mia mamma ci riferiva di 28, 30 persone lì. Tutte praticamente cateterizzate, col catetere, con i pannoloni.

CLAUDIA DI PASQUALE Quanti giorni è rimasta di fatto sua madre al pronto soccorso?

TERESA BROGNA Sei giorni. Finché mia mamma non otteneva il posto letto in reparto non poteva accedere agli accertamenti.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Teresa Brogna scrive allora all'ospedale, ai giornali locali e finalmente, dopo sei giorni, la madre viene ricoverata.

CLAUDIA DI PASQUALE E come veniva giustificato il fatto che non ci fossero dei posti letto?

TERESA BROGNA Molti reparti, molti ambienti sono stati adibiti a Covid. L'ospedale è riferimento Covid per una zona molto estesa anche perché gli ospedali di Sezze, di Priverno, di Cori, quindi della parte nord della zona, sono chiusi quindi Latina accoglie un'utenza veramente numerosa.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Eppure, grazie al decreto rilancio del 2020 l'ospedale di Latina ha a disposizione sei milioni e 800 mila euro per creare 36 nuovi posti letto di terapia intensiva e subintensiva. Dopo quasi due anni, in piena ondata Omicron, questi lavori non erano ancora iniziati. All'ospedale di Civitavecchia spettano invece 3 milioni e 200 mila euro di fondi commissariali per creare 12 nuovi posti letto.

CLAUDIA DI PASQUALE Questi posti sono stati realizzati?

ANTONIO CARBONE - DIRETTORE SANITARIO OSPEDALE SAN PAOLO CIVITAVECCHIA - ROMA No, non possono essere stati realizzati perché i progetti sono stati inviati in Regione per l’approvazione. Una volta che siamo stati autorizzati, penso che ci saranno gli atti per iniziare le gare per poter partire immediatamente.

CLAUDIA DI PASQUALE Le gare sono state già fatte.

ANTONIO CARBONE - DIRETTORE SANITARIO OSPEDALE SAN PAOLO CIVITAVECCHIA – ROMA Le gare non sono state già fatte.

CLAUDIA DI PASQUALE La gara l'ha fatta il commissario Arcuri a ottobre del 2020, le ditte sono state già scelte.

ANTONIO CARBONE - DIRETTORE SANITARIO OSPEDALE SAN PAOLO CIVITAVECCHIA - ROMA Non ne sono, allora non ne sono al corrente di questo, guardi.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Qui siamo invece a Palestrina, nel territorio dell'Asl Roma 5. In questo caso i lavori finanziati grazie ai fondi commissariali sono stati conclusi più di un anno fa. Il nuovo reparto ha quattro posti di terapia subintensiva e altri quattro posti di terapia intensiva. Ad oggi però qui dentro non è stato ricoverato neanche un paziente Covid davvero grave. Ma perché?

GIORGIO GIULIO SANTONOCITO - DIRETTORE GENERALE ASL ROMA 5 Perché noi abbiamo gestito pazienti Covid di media-bassa intensità e quindi non siamo stati accreditati per la terapia intensiva Covid ma solo per la terapia subintensiva Covid.

CLAUDIA DI PASQUALE Voi avete avuto dei fondi commissariali per aprire questi posti di terapia intensiva e non li avete mai usati come terapia intensiva.

GIORGIO GIULIO SANTONOCITO - DIRETTORE GENERALE ASL ROMA 5 Li abbiamo usati come terapia subintensiva e abbiamo gestito i pazienti di medio bassa intensità.

CLAUDIA DI PASQUALE Chi ha fatto questi lavori?

GIORGIO GIULIO SANTONOCITO - DIRETTORE GENERALE ASL ROMA 5 Ditte che hanno vinto gare. Non so i nomi, francamente.

CLAUDIA DI PASQUALE Però il soggetto attuatore non è l'Asl Roma 5?

GIORGIO GIULIO SANTONOCITO - DIRETTORE GENERALE ASL ROMA 5 Sì, certo.

CLAUDIA DI PASQUALE E quindi non è lei il direttore dell'Asl Roma 5?

GIORGIO GIULIO SANTONOCITO - DIRETTORE GENERALE ASL ROMA 5 Sì, assolutamente sì.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Il direttore ci fa avere poi i nomi di tre ditte, una rivende ceramiche e arredi bagno. Intanto il presidio di palestrina deve recuperare migliaia di visite per i pazienti nocovid

CLAUDIA DI PASQUALE Quante prestazioni dovete recuperare sia come prestazioni ambulatoriali, esami diagnostici...

GIORGIO GIULIO SANTONOCITO - DIRETTORE GENERALE ASL ROMA 5 18.000 visite soprattutto otorino, oculistico, ortopedia e cardiologia e 5mila prestazioni diagnostiche: gastroenterologia, espirometria e quant'altro.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO L'azienda Ospedaliera Sant'Andrea di Roma invece, in base al piano del 2020, deve realizzare 24 nuovi posti letto. I lavori sono partiti da poco e dovrebbero concludersi il 30 novembre 2023.

CLAUDIA DI PASQUALE Il costo di partenza di questi lavori era quanto in totale?

ADRIANO MARCOLONGO - DIRETTORE GENERALE OSPEDALE SANT’ANDREA - ROMA Allora, era 4 milioni e 8 di due piani. Poi si è visto che facendo i ponteggi facendo gli scavi c'è stato una maggiorazione preventiva dei costi.

CLAUDIA DI PASQUALE Quindi il costo finale?

ADRIANO MARCOLONGO- DIRETTORE GENERALE OSPEDALE SANT’ANDREA - ROMA Sono circa 9 milioni e 2.

CLAUDIA DI PASQUALE è quasi raddoppiato insomma.

ADRIANO MARCOLONGO - DIRETTORE GENERALE OSPEDALE SANT’ANDREA - ROMA Ma sono raddoppiati anche i metri quadri.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Ma il numero dei nuovi posti letto è rimasto lo stesso, 24. E comunque poi serve altro per renderli funzionali.

CLAUDIA DI PASQUALE Se lei avesse questi posti nuovi che dovete realizzare, i 14 e i 10, ce l'avrebbe il personale per aprirli?

ADRIANO MARCOLONGO - DIRETTORE GENERALE OSPEDALE SANT’ANDREA - ROMA Questa è una bella domanda.

CLAUDIA DI PASQUALE Insomma, non c'è.

ADRIANO MARCOLONGO - DIRETTORE GENERALE OSPEDALE SANT’ANDREA - ROMA No, per ora noi speriamo... Noi speriamo.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Nell’attesa dei lavori l'ospedale Sant'Andrea ha dovuto riconvertire interi reparti per ricoverare i pazienti Covid, tra cui questa terapia intensiva, e ha dovuto chiudere persino delle sale operatorie.

CLAUDIA DI PASQUALE Questo che conseguenze ha avuto per tutti i pazienti non covid?

PAOLO ANIBALDI - DIRETTORE SANITARIO OSPEDALE SANT’ANDREA - ROMA Per la bassa complessità chirurgica sicuramente un impatto negativo. Intendiamo interventi della parete addominale, ernie, laparoceli, interventi di patologia venosa.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO È così che l'ospedale Sant'Andrea ha stretto a gennaio un accordo con una casa di cura privata, Nuova Villa Claudia, dove ha dirottato fino alla fine dell'emergenza covid i suoi medici per effettuare gli interventi ordinari di ortopedia.

CLAUDIA DI PASQUALE Chi è che paga?

ADRIANO MARCOLONGO - DIRETTORE GENERALE OSPEDALE SANT’ANDREA - ROMA Qui paga la Regione. Noi ci teniamo di quella quota lì il 20 per cento per ristorare il personale.

FRANCESCO PALMEGGIANI - FP CGIL MEDICI DEL LAZIO Ogni ospedale ha attivato una convenzione per effettuare interventi chirurgici non Covid. Il Policlinico Umberto I ha una convenzione con il San Carlo di Nancy. Noi del San Filippo Neri abbiamo una convenzione con Villa Betania.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Intanto c’è chi non è riuscito a prenotare neanche un esame radiologico.

ELENA CODREA – PAZIENTE ONCOLOGICA Sono una paziente oncologica dell'Umberto I. Avendo un problema collaterale dalla chemio, in reumatologia mi hanno mandato di fare la MOC. Ho chiamato il Cup. E mi dicevano mi dispiace, l'Umberto I non fa la MOC.

CLAUDIA DI PASQUALE Cioè, nel senso, neanche fra sei mesi?

ELENA CODREA – PAZIENTE ONCOLOGICA No, no. Come se non esistesse come ospedale.

CLAUDIA DI PASQUALE Quindi è dovuta andare in una struttura privata convenzionata.

ELENA CODREA – PAZIENTE ONCOLOGICA Sì, sì.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Dopo la nostra intervista Elena Codrea ha chiamato di nuovo il Cup per prenotare una radiografia toracica.

OPERATRICE CUP Umberto I, non c'è disponibilità signora presso l'Umberto I. Non c'è l'agenda aperta.

ELENA CODREA - PAZIENTE Io ho proprio parlato con l'oncologo. Mi diceva, sosteneva proprio che non è possibile.

OPERATRICE CUP No, no, no a me dice qui nessuna disponibilità mi dice, signora, eh.

ANTONELLA SALIVA - PRESIDENTE COMITATO LA FENICE – PREVENZIONE DONNA C'è una legge specifica, che è la 266 del 2005, che vieta agli ospedali di chiudere le agende.

CLAUDIA DI PASQUALE E il Covid in che modo ha inciso?

ANTONELLA SALIVA - PRESIDENTE COMITATO LA FENICE – PREVENZIONE DONNA Soprattutto nel rubare i posti letto a pazienti fragili, pazienti oncologici, pazienti cardiopatici. Noi abbiamo avuto segnalazioni di pazienti oncologici tenuti cinque giorni in barella al pronto soccorso.

FRANCESCO COGNETTI - PRESIDENTE CONFEDERAZIONE ONCOLOGI CARDIOLOGI EMATOLOGI Be’, durante la quarta ondata è stato ancora di nuovo un blocco, un ritardo degli interventi chirurgici per i pazienti oncologici. Un buon 70, 80% degli interventi per tumore sono di elezione. E se ne sono persi, ne sono stati ritardati tanti.

CLAUDIA DI PASQUALE Perché si è arrivati a questo punto, insomma?

FRANCESCO COGNETTI - PRESIDENTE CONFEDERAZIONE ONCOLOGI CARDIOLOGI EMATOLOGI Molti di questi interventi necessitavano dopo l’intervento del ricovero del paziente, della terapia intensiva. Le terapie intensive erano occupate.

CLAUDIA DI PASQUALE Bloccate per il covid.

FRANCESCO COGNETTI - PRESIDENTE CONFEDERAZIONE ONCOLOGI CARDIOLOGI EMATOLOGI Sì, certo. Erano occupati da pazienti covid.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Con i fondi stanziati nel 2020, il Policlinico Umberto I di Roma dovrebbe realizzare 48 nuovi posti letto di terapia semintensiva più altri 26 posti di terapia intensiva.

CLAUDIA DI PASQUALE Mi risulta che stiano realizzando dei nuovi posti in terapia intensiva però io non...

OPERATORE SANITARIO POLICLINICO UMBERTO I L'unica cosa che so, ma non ne sono sicuro, che dovrebbero aprire una subintensiva qui avanti sulla sinistra.

CLAUDIA DI PASQUALE So che stanno realizzando dei nuovi posti in terapia semintensiva. Non so se sono iniziati, le risulta, i lavori?

OPERATORE SANITARIO POLICLINICO UMBERTO I Guardi, assolutamente no.

CLAUDIA DI PASQUALE Questi lavori a che punto sono?

LUCREZIA LE ROSE – DIRIGENTE SALUTE E INTEGRAZIONE SOCIOSANITARIA REGIONE LAZIO I lavori ancora sono da avviare. Hanno completato la progettazione definitiva, quindi a questo seguirà la progettazione esecutiva e poi la contrattualizzazione.

CLAUDIA DI PASQUALE E quando dovrebbero terminare questi lavori all'Umberto I?

LUCREZIA LE ROSE – DIRIGENTE SALUTE E INTEGRAZIONE SOCIOSANITARIA REGIONE LAZIO Da cronoprogramma dichiarano a giugno 2023 per le terapie intensive e a ottobre 2023 per le terapie subintensive.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Nell'attesa hanno piazzato una terapia intensiva di 18 posti dentro questo container. Intanto è dall'anno 2000 che vengono sfornati i progetti per ristrutturare il Policlinico Umberto I. Proviamo a chiedere il perché di questi ritardi all'assessore regionale alla Sanità, Alessio D'Amato.

CLAUDIA DI PASQUALE Vorremmo capire perché si sono creati questi ritardi, quindi.

ALESSIO D'AMATO - ASSESSORE ALLA SANITÀ REGIONE LAZIO È chiaro che dipende anche dai vari interventi, dalle progettualità.

CLAUDIA DI PASQUALE Non si trattava appunto di costruire nuovi ospedali, si trattava semplicemente di risistemare dei reparti e ogni ospedale aveva pochi letti da fare però, nonostante questo, sono passati che ne so, due anni, e ancora siamo in alcuni casi alla fase della progettazione insomma.

ALESSIO D'AMATO - ASSESSORE ALLA SANITÀ REGIONE LAZIO Sì, be’, no, nella gran parte dei casi sono stati fatti, diciamo, soprattutto per quanto riguarda le terapie intensive.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Il piano della regione Lazio del 2020 ha previsto però la realizzazione di 535 nuovi posti letto di terapia intensiva e semi-intensiva. A distanza di quasi due anni ne risultano attivati 68, ma a leggere un po' meglio i dati quelli in esercizio appaiono 30. Il resto poi una sfilza di zeri.

CLAUDIA DI PASQUALE Quanti soldi spettano in base al decreto rilancio alla Regione Lazio?

LUCREZIA LE ROSE – DIRIGENTE SALUTE E INTEGRAZIONE SOCIOSANITARIA REGIONE LAZIO Alla Regione Lazio spettano circa 118 milioni.

CLAUDIA DI PASQUALE Ad oggi quanti soldi sono stati chiesti dalla Regione Lazio?

LUCREZIA LE ROSE – DIRIGENTE SALUTE E INTEGRAZIONE SOCIOSANITARIA REGIONE LAZIO 24 milioni, di cui 22 già erogati.

CLAUDIA DI PASQUALE Non riesco a comprendere perché la Regione Lazio, che ha a disposizione 118 milioni di euro... Cioè, questi soldi ci sono.

LUCREZIA LE ROSE – DIRIGENTE SALUTE E INTEGRAZIONE SOCIOSANITARIA REGIONE LAZIO Questi soldi ci sono, sono nelle casse dello Stato, sì.

CLAUDIA DI PASQUALE Cioè, a distanza di due anni la Regione ne ha chiesti solo 24 di milioni.

LUCREZIA LE ROSE – DIRIGENTE SALUTE E INTEGRAZIONE SOCIOSANITARIA REGIONE LAZIO Sì.

CLAUDIA DI PASQUALE Con una battuta, possiamo dire che siamo ancora a carissimo amico, secondo lei?

LUCREZIA LE ROSE – DIRIGENTE SALUTE E INTEGRAZIONE SOCIOSANITARIA REGIONE LAZIO (ride).

CLAUDIA DI PASQUALE In sostanza nel 2020 è stato fatto questo piano di potenziamento per la rete ospedaliera che ha anche firmato lei. Però noi abbiamo provato a chiedere anche all'Assessorato i dati sullo stato di monitoraggio, no?

NICOLA ZINGARETTI - PRESIDENTE REGIONE LAZIO Eh, glielo faccio sapere, va bene, non lo sapevo.

CLAUDIA DI PASQUALE Ma noi già lo sappiamo: è stato fatto veramente ben poco. Molti lavori non sono stati avviati o sono in corso.

NICOLA ZINGARETTI - PRESIDENTE REGIONE LAZIO Adesso comincio a vedere e poi vi faccio sapere subito.

CLAUDIA DI PASQUALE Noi vogliamo capire perché c'è stato questo ritardo, insomma.

NICOLA ZINGARETTI - PRESIDENTE REGIONE LAZIO Fammi vedere poi lo faccio sicuro. Ciao.

CLAUDIA DI PASQUALE Perché il risultato è stato che…

NICOLA ZINGARETTI - PRESIDENTE REGIONE LAZIO Il risultato, vediamo qual è. Poi dopo ci vediamo. Perché sei te.

CLAUDIA DI PASQUALE Il risultato è che anche quest'anno bisogna ricorrere ai privati.

NICOLA ZINGARETTI - PRESIDENTE REGIONE LAZIO Ma quello sempre.

CLAUDIA DI PASQUALE Per pagare i posti di terapia intensiva per ricoverare i pazienti.

NICOLA ZINGARETTI - PRESIDENTE REGIONE LAZIO Quello sempre. Il sistema è pubblico, offerto in due modi: accreditati e ospedale pubblico. Siamo usciti dal commissariamento. Per favore, non infangate le belle storie di risanamento perché dopo dieci anni che faccio il commissario, ho tirato fuori la sanità del Lazio dalla fogna. Non lo permetto a Report, non lo permetto a nessuno.

CLAUDIA DI PASQUALE Se questi posti fossero stati fatti…

NICOLA ZINGARETTI - PRESIDENTE REGIONE LAZIO Dopo lo facciamo, dopo lo facciamo, ciao.

CLAUDIA DI PASQUALE …e ci fossero stati non avevate bisogno di ricorrere al privato per i posti di terapia intensiva. Eh, sì.

NICOLA ZINGARETTI - PRESIDENTE REGIONE LAZIO è così facile, eh sì…

CLAUDIA DI PASQUALE Abbiamo fatto i conti, presidente.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bene, facciamoli due conti: nel 2020 la Regione Lazio ha speso un miliardo e oltre per rimborsare le strutture private accreditate per quello che riguardano ricoveri Covid e non Covid. Poi anche nel 2022, a gennaio, in piena quarta ondata, ha chiesto una mano ai privati. In questo elenco c’è anche quello degli ospedali che hanno supplito al pubblico per quello che riguarda l’utilizzo di, la messa a disposizione di sale di terapia intensiva e di degenza ordinaria per malati Covid. La parte del leone l’ha fatta il Gemelli: con la Columbus ha preso in carico dall’inizio della pandemia oltre 8.500 pazienti infetti d virus e 3 mila pazienti nei day hospital post Covid. Poi c’è il Gruppo Villa Maria del romagnolo Ettore Sansavini con 296 posti letto; appartengono sempre al gruppo dell’imprenditore romagnolo l’ospedale San Carlo di Nancy che a sua volta ha stretto accordi con Tor Vergata e Policlinico Umberto I per l’attività chirurgica no Covid. Poi c’è il Tiberia Hospital, sempre del gruppo, che ha ospitato la ginecologia del Policlinico Tor Vergata e la chirurgia generale e ortopedia della Asl di Rieti. Poi l’Istituto Casalpalocco, sempre di Sansavini, è stato scelto dalla Regione Lazio come Covid Hospital 3. L’Istituto Clinico Casalpalocco, giusto per capire il giro di affari, nel 2019 aveva ricavi per 2 milioni e due, nel 2020 è salito a 21 milioni di euro. Ecco, insomma, abbiamo capito che la Regione Lazio anche nel 2022, in piena quarta ondata, ha chiesto aiuto ai privati. Dopo due anni dei 118 milioni di euro messi a disposizione dalla struttura commissariale, ne aveva spesi, ne aveva chiesti solo 24 e l’assessore D’Amato solo dopo chye noi abbiamo posto il problema ha fatto un po’ il tour degli ospedali e ha visto lo stato dei lavori, si è reso conto e ha annunciato che per il prossimo anno il 60 per cento dei lavori previsti dal Decreto Rilancio, insomma, per quello che riguarda la Regione Lazio, verranno completati. Però bisogna che assumano anche del personale perché secondo la denuncia dei sindacati rispetto a 15 anni fa mancano 10 mila unità. Il fatto che il pubblico non possa dare una risposta a un malato oncologico è una cosa indegna, che non si può sentire. Però tutto questo non solo accade nella Regione Lazio, succede anche in Lombardia, nella tanto decantata sanità lombarda che da tempo ha abdicato il pubblico al privato e nonostante gli errori emersi durante la pandemia continua a perserverare.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO L’ospedale Niguarda di Milano, in base al piano di potenziamento del 2020, ha a disposizione circa 28 milioni e mezzo di euro di fondi commissariali.

MARCO BOSIO - DIRETTORE GENERALE ASST OSPEDALE NIGUARDA - MILANO Nel nostro caso è stato previsto in maniera specifica la ristrutturazione di un intero padiglione con 39 posti letto di terapia intensiva, 15 letti di terapia subintensiva.

CLAUDIA DI PASQUALE Questi lavori a che punto sono?

MARCO BOSIO - DIRETTORE GENERALE ASST OSPEDALE NIGUARDA - MILANO Noi siamo alla fine della progettazione.

CLAUDIA DI PASQUALE Di fatto, ad oggi, cioè, i lavori devono ancora iniziare.

MARCO BOSIO - DIRETTORE GENERALE ASST OSPEDALE NIGUARDA - MILANO Non è una progettazione così, così banale.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Eppure, nel 2022, avrebbero fatto comodo dei nuovi posti letto. Durante la quarta ondata il Niguarda si è trovato a dovere ricoverare fino a 160 pazienti Covid.

CLAUDIA DI PASQUALE In che modo vi siete organizzati?

MARCO BOSIO - DIRETTORE GENERALE ASST OSPEDALE NIGUARDA - MILANO Eh, abbiamo adibito dei reparti di degenza così come avevamo fatto nelle altre ondate per questi pazienti.

CLAUDIA DI PASQUALE Quali reparti avete dovuto riconvertire?

MARCO BOSIO - DIRETTORE GENERALE ASST OSPEDALE NIGUARDA - MILANO Noi abbiamo sempre avuto le malattie infettive dedicate a questa patologia. Abbiamo comunque convertito delle aree sia mediche che chirurgiche perché il problema oggi è trattare i pazienti che sono positivi incidentalmente ma vengono in ospedale per altre ragioni.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Anche l'azienda sanitaria Santi Paolo e Carlo di Milano ha dovuto riconvertire dei reparti per ricoverare i pazienti Covid.

MATTEO STOCCO - DIRETTORE GENERALE ASST SANTI PAOLO E CARLO – MILANO Abbiamo dovuto ridurre circa il 50 per cento dell'attività chirurgica per l'utilizzo degli anestesisti e del personale specializzato di sala che viene utilizzato nelle terapie intensive.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Eppure l'azienda sanitaria Santi Paolo e Carlo avrebbe a disposizione circa 9 milioni di euro di fondi commissariali per creare 63 nuovi posti letto e ampliare i pronto soccorso.

NICOLA ORFEO - DIRETTORE SANITARIO ASST SANTI PAOLO E CARLO - MILANO In questo settore abbiamo previsto, con fondi commissariali, tutta un'area di osservazione breve intensiva per quanto riguarda i pazienti che afferiscono a pronto soccorso.

CLAUDIA DI PASQUALE E i lavori quando dovrebbero partire, lo sappiamo?

NICOLA ORFEO - DIRETTORE SANITARIO ASST SANTI PAOLO E CARLO - MILANO Per la fine del 2022. Sempre sperando che non ci sia un'ulteriore emergenza che ci imponga di utilizzare questi spazi.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Qui dovrebbero realizzare una nuova terapia intensiva ma ad oggi c’è solo un deposito materiali. I lavori di riqualificazione non sono partiti neanche al pronto soccorso dell’ospedale San Carlo, più volte collassato per il sovraffollamento. Così come sono ancora da avviare i lavori di ristrutturazione di questi reparti di terapia intensiva e subintensiva, che oggi sono vuoti.

CLAUDIA DI PASQUALE Di questi lavori quindi oggi non ne è partito neanche uno.

MATTEO STOCCO - DIRETTORE GENERALE ASST SANTI PAOLO E CARLO - MILANO No.

CLAUDIA DI PASQUALE Perché?

MATTEO STOCCO - DIRETTORE GENERALE ASST SANTI PAOLO E CARLO - MILANO Eh, perché... perché ci sono i tempi tecnici per, per i sopralluoghi.

CLAUDIA DI PASQUALE Cioè, non dovete realizzare delle nuove strutture.

MATTEO STOCCO - DIRETTORE GENERALE ASST SANTI PAOLO E CARLO - MILANO No, sono strutture che esistono già, sono da fare gli impianti. Non è che non sia banale fare gli impianti.

CLAUDIA DI PASQUALE Quando prevedete la fine di questi lavori?

MATTEO STOCCO - DIRETTORE GENERALE ASST SANTI PAOLO E CARLO - MILANO Non ho questo dato.

CLAUDIA DI PASQUALE Qual è la situazione oggi rispetto a due anni fa? Cioè, cosa è cambiato?

CARMELA ROZZA - CONSIGLIERA REGIONALE LOMBARDIA Nulla o quasi. Quando abbiamo avuto di nuovo la quarta ondata e la terza ondata i reparti normali sono stati trasformati in reparto Covid. Le sale di rianimazione sono state trasformate in rianimazione Covid e sono rimasti solo gli interventi urgenti. Dal piano del commissario io avevo colto che invece dovevamo aumentare strutturalmente i posti di terapia intensiva.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO L’ospedale Sacco di Milano con i fondi commissariali dovrebbe realizzare una nuova palazzina con 51 posti letto di terapia intensiva. L’edificio dovrebbe sorgere in quest’area ma oggi c’è solo un parcheggio.

LUCIA CASTELLANI - DIRETTRICE SANITARIA ASST FATEBENEFRATELLI SACCO - MILANO Per il momento è stato fatto un progetto preliminare.

CLAUDIA DI PASQUALE All'incirca quando dovrebbero partire questi lavori?

LUCIA CASTELLANI - DIRETTRICE SANITARIA ASST FATEBENEFRATELLI SACCO - MILANO Questi lavori dovrebbero partire tra un anno.

CLAUDIA DI PASQUALE Che impatto ha avuto sul resto delle attività, quelle non Covid?

LUCIA CASTELLANI - DIRETTRICE SANITARIA ASST FATEBENEFRATELLI SACCO - MILANO Abbiamo ridotto al 50 per cento dell'attività chirurgica.

PIETRO OLIVIERI - DIRETTORE MEDICO PRESIDIO OSPEDALIERO SACCO - MILANO Abbiamo dovuto recuperare personale infermieristico per potenziare le aree Covid.

CLAUDIA DI PASQUALE Quanti reparti avete dovuto chiudere per recuperare il personale?

PIETRO OLIVIERI - DIRETTORE MEDICO PRESIDIO OSPEDALIERO SACCO - MILANO Neurologia, ortopedia, medicina d'urgenza e riabilitazione. In più, abbiamo dovuto bloccare quattro sale operatorie.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Tra i reparti che hanno prestato il personale sanitario durante l'emergenza Covid c'è quello della cardiochirurgia, che dal primo maggio ha chiuso i battenti.

MIMMA STERNATIVO - SEGRETARIO GENERALE FIALS - MILANO AREA METROPOLITANA Sostanzialmente la cardiochirurgia del Sacco verrà trasferita in un ospedale del centro che è il Policlinico. Questo ovviamente ha creato anche un po' di dubbi perché, guarda caso, proprio dietro al presidio ospedaliero Sacco in realtà nei prossimi mesi nascerà un nuovo ospedale privato che è quello del Galeazzi che, guarda caso ancora una volta, avrà una cardiochirurgia.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Il nuovo Galeazzi è un imponente polo ospedaliero privato di 150 mila metri quadri, 16 piani e 600 posti letto. Si trova a pochi chilometri dal Sacco, fa parte del gruppo San Donato e aprirà nei prossimi mesi. CLAUDIA DI PASQUALE Il trasferimento e quindi la chiusura di fatto della cardiochirurgia del Sacco ha un legame con l'apertura del Nuovo Galeazzi o no?

CARMELA ROZZA - CONSIGLIERE REGIONALE Il sospetto è legittimo. Stiamo chiedendo. Infatti, quando chiediamo chi l'ha deciso, sulla base di quali analisi ed esigenze si fa questa scelta, serve proprio per avere chiarezza e toglierci i dubbi.

VITTORIO AGNOLETTO - DOCENTE POLITICHE DELLA SALUTE - UNIVERSITÀ LA STATALE - MILANO Nel periodo del Covid abbiamo avuto addirittura in alcuni ospedali lombardi che dei reparti dentro ospedali pubblici erano gestiti, dal punto di vista del personale sanitario, da strutture private.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO È quello che per esempio è accaduto al reparto di anestesia e rianimazione dell'ospedale di Saronno, in provincia di Varese.

ROBERTO GUAGLIANONE - COMITATO CIVICO SOCIETÀ DELLA CURA SARONNO - VARESE Anestesia e rianimazione, in questo momento, conta sul lavoro di dieci unità di anestesisti sulle tredici che sarebbero il minimo previsto. Sette di queste dieci sono fornite attualmente dalla cooperativa.

CLAUDIA DI PASQUALE Su dieci anestesisti sette fanno capo a una cooperativa privata?

ROBERTO GUAGLIANONE - COMITATO CIVICO SOCIETÀ DELLA CURA SARONNO - VARESE Esatto. Sono ormai quattro anni almeno che si assiste ad un crollo del personale assunto così come abbiamo perso un numero importantissimo di reparti.

CLAUDIA DI PASQUALE Quali reparti sono stati chiusi?

ROBERTO GUAGLIANONE - COMITATO CIVICO SOCIETÀ DELLA CURA SARONNO – VARESE è stato chiuso tutto quello che ha a che fare con pediatria e ostetricia. Il punto nascite: non si nasce più a Saronno.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO In Lombardia quest’anno, in piena ondata Omicron, risultava realizzato solo il 16% dei posti letto previsti dal piano di potenziamento del 2020. Ad oggi, su 225 milioni di euro di fondi commissariali ne hanno chiesti solo 32.

CLAUDIA DI PASQUALE Assessore, sono Di Pasquale di Report. Noi ci stiamo occupando, assessore, del piano di potenziamento della rete ospedaliera. Vorremmo semplicemente fare delle domande perché ci risulta che in realtà soltanto, neanche il 16 per cento dei lavori è stato realizzato.

CONSUELO LOCATI - LEGALE ASSOCIAZIONE FAMILIARI VITTIME DI COVID Questo piano di potenziamento della rete ospedaliera di fatto, ad oggi, non è stato attuato come avrebbe dovuto essere attuato. Le Regioni non hanno fatto quello che dovevano fare.

CLAUDIA DI PASQUALE Voi come leggete il fatto che ad oggi molti di questi lavori non sono neanche partiti?

CONSUELO LOCATI - LEGALE ASSOCIAZIONE FAMILIARI VITTIME DI COVID Un lassismo istituzionale, un'assoluta incompetenza, una superficialità, un'assoluta totale mancanza di rispetto per quello che è previsto addirittura dalla nostra Costituzione.

 FRANCESCO COGNETTI – PRESIDENTE CONFEDERAZIONE ONCOLOGI CARDIOLOGI EMATOLOGI Sui posti letto di degenza ordinaria non si è fatto nessun progresso. Nel senso, erano 350 per 100 mila abitanti e tali sono rimasti a fronte di una media europea di 530 posti letto per 100 mila abitanti. Quindi la carenza non è stata assolutamente colmata. Gli ospedali vanno in sofferenza anche nei periodi in cui l’emergenza non c’è.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO E infatti usano le barelle delle ambulanze, le utilizzano come posti letto e lasciano i pazienti là anche per giorni. Tuttavia né nel Decreto Rilancio, né nel PNRR sono previsti aumenti di posti di degenza ordinaria, solo di terapia intensiva e subintensiva, e poi, rispetto al Decreto Rilancio, a quanto aveva stanziato e coordinato dalla struttura commissariale, solo il 25 per cento dei lavori sono stati realizzati. La Lombardia, per esempio, che era stata la regione più colpita dal Covid, su ben 225 milioni che poteva utilizzare ne ha chiesti 32. Non le servono i posti di terapia intensiva a Saronno, ridente cittadina nella provincia di Varese, hanno chiuso il punto di pediatria e anche il punto nascite. Insomma, con i soldi della struttura commissariale avrebbe potuto realizzare 48 nuovi posti di subintensiva. Poi, insomma, siamo alla fase della progettazione, bisognerà vedere anche se, quando apriranno, potranno farlo, perché insomma abbiamo visto gli anestesisti li prendono dalle cooperative private. Poi c’è Milano che abbiamo visto ha dovuto ridurre del 50 per cento gli interventi chirurgici e per fare gli esami bisogna mettersi in fila fino al 2023. Poi c’è il Sacco, il prestigioso Sacco, è stata chiusa una struttura, il reparto di cardiochirurgia che era lì da 30 anni, contemporaneamente ne stanno aprendo uno nuovo al Nuovo Galeazzi, struttura privata appartenente al gruppo San Donato. È una coincidenza? I consiglieri regionali vogliono vederci chiaro. Ora, sullo stato dei lavori, sui dati, sui contratti, sulle scadenze, noi abbiamo chiesto dati a tutte le regioni che però peccano di trasparenza. Allora, Umbria, Sardegna, Puglia, Toscana: non ci hanno proprio risposto, il Veneto ci ha scritto che ce li manderà, la Basilicata ci ha risposto ma non ci ha inviato i dati, in Friuli a novembre 2021 risultavano in esercizio solo 5 posti dei 140 da realizzare, mentre il fine lavori per i 50 posti dell’ospedale Cattinara di Trieste è previsto per fine dicembre del 2027. L’Emilia Romagna ci ha scritto di aver realizzato oltre il 70 per cento dei posti letto ma sul sito della struttura commissariale tutto questo impegno non risulterebbe, perché risulta che abbia chiesto solo 20,8 milioni sui 95 previsti e che ne abbia addirittura ricevuti solo 7,3. Anche nella virtuosa Emilia Romagna però c’è qualche problema nei pronto soccorso perché anche là devono attingere dal personale medico delle cooperative, mentre il Piemonte ha chiesto 25 milioni e mezzo sui 110, 111 di cui poteva disporre, la Liguria ha realizzato ben poco, il Molise non ha proprio realizzato i lavori. Alto che essere pronti alla seconda ondata, insomma, siamo ancora in alto mare. Poi c’è da dire che hanno tutti peccato di trasparenza compresa la struttura commissariale, che aveva ereditato Figliuolo e poi Petroni da Arcuri. Non ci hanno dato un dato, ecco, insomma, nessuna informazione, nessuna intervista. Ecco, questo è lo stato dei lavori. Chi invece ha messo tutto sul proprio sito è un’altra regione che però, insomma, quanto siano poi attendibili questi dati che hanno messo lo vedremo dopo la pubblicità.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bentornati, allora: a maggio del 2020, in piena emergenza, il governo con il decreto rilancio ha stanziato un miliardo e 400 milioni di euro per creare nuovi posti di terapia intensiva, subintensiva, per comprare nuove ambulanze e rilanciare, ristrutturare i pronto soccorso che erano in affanno. La struttura commissariale ha aggiudicato e sostanzialmente tutto questo doveva servire per evitare che in presenza di nuove ondate di pandemia di virus, gli ospedali finissero nuovamente in affanno, fossero costretti a chiudere reparti o riconvertirli per i pazienti Covid. Però a distanza di due anni del miliardo e 400 milioni di euro le regioni ne hanno chiesti solo 333,5, la struttura commissariale ne ha stanziati, trasferiti 250,3. Poi c’è la Sicilia che invece merita un discorso a parte: ha chiesto 98,6 milioni di euro e prevede anche di spenderne molti di più dei milioni che sono stati destinati. La differenza la coprirà la Regione. Ma la Sicilia, a differenza delle altre regioni, è stata un po’ più trasparente perché dotata di un soggetto attuatore, l’ingegnere Tuccio D’Urso, che ha creato anche un sito ad hoc per pubblicare i contratti, lo stato dei lavori e anche l’entità dei lavori. Sono tutte informazioni attendibili? Insomma, la Sicilia sorprende sempre, un po’ per i certificati di maltempo, un po’ perché ci sono date cancellate con il pennarello e un po’ perché ci sono gli intervistati con suggeritore per evitare e fare lo slalom tra le domande insidiose della nostra Claudia Di Pasquale.

TUCCIO D’URSO – SOGGETTO ATTUATORE POTENZIAMENTO RETE OSPEDALIERA SICILIA Questa è tutta la nuova astanteria del pronto soccorso di Villa Sofia che uno dei più importanti pronto soccorso di Palermo.

CLAUDIA DI PASQUALE Tuccio D'Urso è l’ingegnere nominato dal presidente della Regione Nello Musumeci per attuare il piano di potenziamento della rete ospedaliera siciliana. È proprio lui a mostrarci l'anticamera del pronto soccorso di Villa Sofia a Palermo.

TUCCIO D’URSO – SOGGETTO ATTUATORE POTENZIAMENTO RETE OSPEDALIERA SICILIA Il cantiere prevede la cosiddetta camera calda, dove entreranno e usciranno le ambulanze e gli altri mezzi, mentre accanto c'è l'ingresso dei pazienti in codice verde.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO L'intervento consiste in un prefabbricato piazzato davanti al pronto soccorso. Costo: 742 mila euro. I lavori dovevano durare poche settimane e finire lo scorso ottobre.

CLAUDIA DI PASQUALE Su quel cartello è cancellato proprio con il pennarello.

TUCCIO D’URSO – SOGGETTO ATTUATORE POTENZIAMENTO RETE OSPEDALIERA SICILIA Eh, be’, perché abbiamo...

CLAUDIA DI PASQUALE Data di inizio dei lavori e di fine dei lavori. Qual era in realtà la data iniziale e la data finale.

TUCCIO D’URSO – SOGGETTO ATTUATORE POTENZIAMENTO RETE OSPEDALIERA SICILIA Le date sono sostanzialmente identiche.

CLAUDIA DI PASQUALE No, non sono identiche perché si legge che c'era scritto 2021 e ora c'è il 2 al posto dell'1.

TUCCIO D’URSO – SOGGETTO ATTUATORE POTENZIAMENTO RETE OSPEDALIERA SICILIA Glielo spiego immediatamente: è alle cronache nazionali i disastri atmosferici che noi abbiamo avuto per tutto il mese di ottobre, per tutto il mese di novembre e quindi abbiamo avuto cinquanta giorni certificati...

CLAUDIA DI PASQUALE Quindi il ritardo è stato per la pioggia, insomma.

TUCCIO D’URSO – SOGGETTO ATTUATORE POTENZIAMENTO RETE OSPEDALIERA SICILIA ...certificati di maltempo.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Alla fine, l'anticamera del pronto soccorso è stata ultimata. Devono invece ancora partire da zero i lavori per ristrutturare questo padiglione. E di lavori in Sicilia ce ne sono tanti da fare.

TUCCIO D’URSO – SOGGETTO ATTUATORE POTENZIAMENTO RETE OSPEDALIERA SICILIA Noi dobbiamo realizzare 571 posti di terapia intensiva/subintensiva e riqualificare 26 pronto soccorso. Questo è il piano nazionale.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Il 22 marzo 2021 il presidente Musumeci inaugura la prima terapia subintensiva finanziata dal piano.

NELLO MUSUMECI - PRESIDENTE REGIONE SICILIANA Al Garibaldi centro di Catania oggi un nuovo reparto voluto dal mio governo.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Conta 16 posti letto di subintensiva. Troppo pochi per tutti i pazienti Covid ricoverati presso l'ospedale Garibaldi nel 2022.

CLAUDIA DI PASQUALE Quanti posti avete dovuto riconvertire per questi pazienti Covid?

ROSARIO OLIVIERI – PRIMARIO PNEUMOLOGIA COVID OSPEDALE GARIBALDI CENTRO – CATANIA Allora, la nostra pneumologia sono normalmente 22 posti letto, sono stati riconvertiti già due anni fa

CLAUDIA DI PASQUALE Da allora non ha più riaperto la pneumologia?

ROSARIO OLIVERI – PRIMARIO PNEUMOLOGIA COVID OSPEDALE GARIBALDI - CATANIA Da allora non ha più riaperto.

CLAUDIA DI PASQUALE Da due anni.

ROSARIO OLIVERI – PRIMARIO PNEUMOLOGIA COVID OSPEDALE GARIBALDI - CATANIA Da due anni.

CLAUDIA DI PASQUALE E invece i ricoveri sono stati sospesi?

ROSARIO OLIVERI – PRIMARIO PNEUMOLOGIA COVID OSPEDALE GARIBALDI - CATANIA I ricoveri purtroppo sì.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO A Catania, nel plesso periferico dell'ospedale Garibaldi stanno ultimando i lavori per dieci nuovi posti di terapia subintensiva. In base al contratto, però, li avrebbero dovuti finire un anno fa. All'Ospedale San Marco di Librino, invece, i lavori per 35 nuovi posti letto non sono neanche iniziati, mentre all'ospedale Cannizzaro il piano della Regione ha previsto più interventi.

SALVATORE GIUFFRIDA – DIRETTORE GENERALE AZIENDA OSPEDALIERA CANNIZZARO - CATANIA Ha previsto la realizzazione di otto posti di semi-intensiva all'interno del reparto di malattie infettive. In più è previsto un intervento importante sul pronto soccorso, un'implementazione di posti tecnici di, per il codice rosso.

CLAUDIA DI PASQUALE Questi lavori sono iniziati?

SALVATORE GIUFFRIDA – DIRETTORE GENERALE OSPEDALE CANNIZZARO - CATANIA Ancora no ma so che a breve dovrebbero iniziare.

CLAUDIA DI PASQUALE Non avete una data ancora.

SALVATORE GIUFFRIDA – DIRETTORE GENERALE OSPEDALE CANNIZZARO - CATANIA Non ci è stata comunicata.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORICAMPO All'ospedale di Caltanissetta stanno ultimando 24 nuovi posti di terapia intensiva. Dovevano essere pronti però a maggio 2021. E così anche quest’anno, in piena ondata Omicron, non erano disponibili. E quando c’è da confessare il motivo di tanto ritardo, cogliamo un imbarazzo.

CLAUDIA DI PASQUALE Questo ritardo a cosa è dovuto?

MAURIZIO DI GIOVANNI – DIRETTORE TECNICO SACCIR – IMPRENDO ITALIA Alle problematiche al covid: forniture che si sono rallentate per questo motivo.

CLAUDIA DI PASQUALE Voi avete riscontrato un problema nei pagamenti fino ad oggi?

MAURIZIO DI GIOVANNI – DIRETTORE TECNICO SACCIR – IMPRENDO ITALIA Non so se posso rispondere a ‘sta domanda.

TUCCIO D’URSO – SOGGETTO ATTUATORE POTENZIAMENTO RETE OSPEDALIERA SICILIA È successo che noi avevamo esaurito i fondi della prima tranche che ci aveva dato la struttura commissariale.

CLAUDIA DI PASQUALE Scusi, io non ho capito in soldi quanto è la prima tranche.

TUCCIO D’URSO – SOGGETTO ATTUATORE POTENZIAMENTO RETE OSPEDALIERA SICILIA Circa 20 milioni, 22 milioni.

CLAUDIA DI PASQUALE Su? TUCCIO D’URSO – SOGGETTO ATTUATORE POTENZIAMENTO RETE OSPEDALIERA SICILIA Lo Stato ci deve dare 124, 129 milioni.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Nel frattempo, il piano è stato rimodulato e i costi sono passati da 129 milioni di euro a 237 milioni. Differenza che sarà finanziata dalla Regione Siciliana. Intanto ad oggi risulta concluso circa il 30 per cento dei lavori mentre a giugno 2020 veniva annunciata la creazione in soli sei mesi di un mega polo infettivologico con 93 posti letto. Sede: l’ex CTO di Palermo che oggi si presenta così. MARIA

ILARIA DILENA - DIRIGENTE OSPEDALI RIUNITI VILLA SOFIA CERVELLO - PALERMO Abbiamo dei soffitti che non hanno tegole, pertanto l'acqua spesso penetra creando queste aree di umidità.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Dentro ci sono numerose attività ambulatoriali ma di posti letto neanche l’ombra.

CLAUDIA DI PASQUALE A giugno credo del 2020 è stato annunciato che entro sei mesi al CTO bisognava realizzare questo grande polo infettivologico stile Spallanzani di Roma.

MARIA ILARIA DILENA - DIRIGENTE OSPEDALI RIUNITI VILLA SOFIA CERVELLO - PALERMO È chiaro che i tempi sono sempre, come dire, lunghi. Chiaro che...

CLAUDIA DI PASQUALE Ma voi avete idea di quando sarà appaltata, cioè dei tempi?

MARIA ILARIA DILENA - DIRIGENTE OSPEDALI RIUNITI VILLA SOFIA CERVELLO - PALERMO No, io assolutamente no.

TUCCIO D’URSO – SOGGETTO ATTUATORE POTENZIAMENTO RETE OSPEDALIERA SICILIA Il progetto esecutivo è pronto ed è nei prossimi appalti.

CLAUDIA DI PASQUALE Lì non c'è nulla ad oggi.

TUCCIO D’URSO – SOGGETTO ATTUATORE POTENZIAMENTO RETE OSPEDALIERA SICILIA Tenga conto che con me abbiamo costituito una, grazie al presidente, una task force che con me siamo in sei.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Intanto il 5 agosto 2021 al Policlinico di Palermo viene inaugurato un nuovo reparto con 17 posti di terapia intensiva.

NELLO MUSUMECI – PRESIDENTE REGIONE SICILIANA - TG3 DEL 05/08/2021 Avevamo due carenze: quella dei posti letto in terapia intensiva e quella dei, della carenza dei medici, dei rianimatori. Quello dei posti in terapia intensiva lo stiamo pian piano risolvendo.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Visitiamo il nuovo reparto ben cinque mesi dopo l’inaugurazione. Ma troviamo i letti completamente vuoti.

CLAUDIA DI PASQUALE Era una falsa partenza quella di agosto.

ALESSANDRO CALTAGIRONE – COMMISSARIO POLICLINICO PAOLO GIACCONE - PALERMO No, non era una falsa partenza perché non è stato un'inaugurazione.

CLAUDIA DI PASQUALE Tutti hanno intitolato però così: inaugurazione.

ALESSANDRO CALTAGIRONE – COMMISSARIO POLICLINICO PAOLO GIACCONE - PALERMO Ovviamente noi siamo destinatari di un'attività fatta dalla struttura commissariale.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Il reparto è stato consegnato al Policlinico solo il 30 dicembre 2021 con questo verbale di consegna anticipata: significa che restavano ancora da ultimare tutti questi lavori.

ALESSANDRO CALTAGIRONE – COMMISSARIO POLICLINICO PAOLO GIACCONE - PALERMO Abbiamo constatato che il sistema di ventilazione non erogava il numero di metri cubi sufficienti a garantire i ricambi ora per un'area di terapia intensiva.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Ora il problema è stato risolto e il reparto è stato aperto. Al Policlinico di Palermo invece devono ancora ultimare i lavori per il nuovo pronto soccorso. Dovevano essere pronto già un anno fa. A eseguire tutti questi lavori è la AMEC, che dà la colpa dei ritardi alla struttura commissariale

MARIO TORRISI – PRESIDENTE CONSIGLIO DI AMMINISTRAZIONE AMEC La struttura commissariale aveva finito le risorse finanziarie per cui si sono rallentati di molto i lavori tant'è che sono state concesse le proroghe.

CLAUDIA DI PASQUALE Questo suo passato con Cuffaro cos'era?

MARIO TORRISI – PRESIDENTE CONSIGLIO DI AMMINISTRAZIONE AMEC Sono stato assessore regionale nella giunta Cuffaro, giunta di centrodestra.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO La AMEC sta eseguendo i lavori anche in un altro ospedale palermitano, il Cervello. Qui ha realizzato 22 nuovi posti letto di terapia intensiva. Costo: 3 milioni e 200 mila euro.

TIZIANA MANISCALCHI – DIRETTRICE PRONTO SOCCORSO VILLA SOFIA CERVELLO – PALERMO Allora, fisicamente i posti ci sono. Mancano i gas medicali.

CLAUDIA DI PASQUALE Cioè, manca l'impianto per i gas medicali?

TIZIANA MANISCALCHI – DIRETTRICE PRONTO SOCCORSO VILLA SOFIA CERVELLO – PALERMO È una centrale di gas medicale nuova. Perché le nostre centrali da sole ovviamente non possono bastare. La cosa fondamentale e importante è dare l'ossigeno ai pazienti. Cioè, non basta avere il letto.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO In pratica i 22 nuovi posti dovevano essere pronti a maggio 2021. L'AMEC li ha consegnati a gennaio 2022 e ancora oggi sono vuoti e inutilizzati.

CLAUDIA DI PASQUALE Noi abbiamo i posti letto ma non abbiamo la centrale per gli impianti elettrici e dei gas medicali che consentono di attivare questi posti.

TUCCIO D’URSO – SOGGETTO ATTUATORE POTENZIAMENTO RETE OSPEDALIERA SICILIA Eh, bisogna... da che lato guardiamo il bicchiere. Se guardiamo il bicchiere mezzo vuoto, è come dice lei.

CLAUDIA DI PASQUALE Serve una nuova centrale.

TUCCIO D’URSO – SOGGETTO ATTUATORE POTENZIAMENTO RETE OSPEDALIERA SICILIA Che stiamo costruendo.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO I lavori per la nuova centrale sono già in ritardo. A eseguirli è sempre la Amec, finita due anni fa sulle cronache. Era emerso infatti che il nome AMEC sarebbe stato l’acronimo di “Ancora Mimmo E Concetto”, ovvero Mimmo Costanzo e Concetto Bosco, due noti imprenditori catanesi condannati nel 2021 con il rito del patteggiamento rispettivamente a 3 anni e 8 mesi e 4 anni per la bancarotta fraudolenta di un’altra impresa: la Tecnis.

DARIO DE LUCA - GIORNALISTA MERIDIONEWS Secondo i magistrati della Procura di Catania avrebbero distratto quasi cento milioni di euro.

CLAUDIA DI PASQUALE Dalla Tecnis?

DARIO DE LUCA - MERIDIONEWS Dalla Tecnis, spogliando di fatto la società tramite delle altre aziende consortili comunque a loro collegate.

CLAUDIA DI PASQUALE Collegate.

MARIO TORRISI – PRESIDENTE AMEC Io conosco Mimmo Costanzo da cinquant'anni. Giocavamo a tennis insieme. Conosco Bosco perché Bosco era pallanuotista. Giocava a pallanuoto nella Pozzilli e quindi lo conosco da avversario nelle piscine di pallanuoto.

CLAUDIA DI PASQUALE Nell'ambiente si dice che AMEC sia nient'altro che l'acronimo di “Ancora Mimmo E Concetto”. Che fa già ridere detta così.

MARIO TORRISI – PRESIDENTE CONSIGLIO DI AMMINISTRAZIONE AMEC Questo è gossip puro anche perché AMEC ha un altro significato: Asset Management Engineering and Construction, significa questo.

CLAUDIA DI PASQUALE Quindi lei mi dice non c'entra niente con Tecnis. Zero.

MARIO TORRISI – PRESIDENTE CONSIGLIO DI AMMINISTRAZIONE AMEC Zero.

CLAUDIA DI PASQUALE Gossip.

MARIO TORRISI – PRESIDENTE CONSIGLIO DI AMMINISTRAZIONE AMEC Eh, molto gossip.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Questa è una vecchia pagina web di Mimmo Costanzo: è proprio lui a presentarsi come manager di AMEC e suo cofondatore. Il suo nome e quello di Concetto Bosco, però, non compaiono dentro la Amec che fa capo a due società: una riconducibile a due cugini di Concetto Bosco e l’altra al figlio di Mimmo Costanzo.

MARIO TORRISI – PRESIDENTE CONSIGLIO DI AMMINISTRAZIONE AMEC Quindi esponenti della famiglia Costanzo ed esponenti della famiglia Bosco, dico, hanno inteso non disperdere il patrimonio di esperienza che aveva maturato nelle precedenti, nelle precedenti esperienze.

CLAUDIA DI PASQUALE Quindi diciamo AMEC fa capo al figlio di Costanzo, al cugino di Bosco ed è un modo per ripartire, insomma.

MARIO TORRISI – PRESIDENTE CONSIGLIO DI AMMINISTRAZIONE AMEC Mimmo Costanzo e Concetto Bosco non hanno alcun ruolo - da quando io sto AMEC - né da amministratori, né da proprietari, né da manager, né hanno influenza diretta o indiretta nella gestione della società.

CLAUDIA DI PASQUALE Diciamo che se Bosco e Costanzo comparissero dentro AMEC, AMEC potrebbe avere degli appalti pubblici?

MARIO TORRISI – PRESIDENTE CONSIGLIO DI AMMINISTRAZIONE AMEC No, perché sono stati condannati, no? Hanno patteggiato una pena.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Questa ci mancava, insomma, l’intervistato con il suggeritore, il gobbo come a teatro. Insomma, però abbiamo anche capito che in Sicilia anche i sassi sospettano che dietro la AMEC ci sia l’expertise dei due imprenditori catanesi che hanno patteggiato la pena per bancarotta fraudolenta della Tecnis. Insomma, c’è anche da sperare che i lavori in Sicilia vengano conclusi e anche fatti bene come in tutto il resto d’Italia per migliorare la rete ospedaliera. Non possiamo più permetterci che a ogni ondata del virus non venga garantita l’assistenza per i pazienti ordinari. Insomma, gli istituti specializzati calcolano che solo nel 2020 si sono registrati meno ricoveri per un milione e 300 mila unità; 144,5 milioni sarebbero le visite specialistiche che non sono state fatte, sarebbero poi saltati 2,8 milioni di screening oncologici, e anche le visite specialistiche per i pazienti oncologici sono crollate: si va dal -3 per cento della Provincia Autonoma di Trento al – 60,3 per cento della Basilicata. Inoltre, secondo quanto riportato nel rapporto sulla condizione assistenziale dei malati oncologici, presentato dalle associazioni di volontariato, nel 2020 sono stati posticipati il 99 per cento degli interventi oncologici alla mammella, il 99,5 per cento degli interventi alla prostata, il 74,4 per cento degli interventi al colon retto. Insomma, quale sarà il prezzo in vite umane che dovremo ancora pagare per non essere stati in grado di garantire il diritto alla cura dei più fragili?

Lecce, 24enne incinta muore dopo aborto a seguito di un malore: il marito sporge denuncia. La Repubblica il 16 giugno 2022.

La donna era al quarto mese di gravidanza ed era stata ricoverata al Fazzi di Lecce dopo diverse richieste di soccorso nelle scorse settimane: quando la situazione è peggiorata i medici hanno indotto aborto per salvarle la vita ma il quadro clinico è precipitato.

Una 24enne è morta lo scorso 14 giugno nell'ospedale Vito Fazzi di Lecce dove pochi giorni prima avrebbe abortito su consiglio dei medici perché la gravidanza, era incinta al quarto mese, stava mettendo a repentaglio la sua stessa vita. E' quanto comunica lo Studio 3A-Valore al quale il marito della donna si è rivolto per un supporto legale dopo aver presentato una denuncia alla Squadra mobile.

La donna e il marito 28enne, entrambi originari della Guinea, si erano trasferiti da qualche mese a Monteroni di Lecce dove vivevano con regolare permesso di soggiorno. Secondo il racconto dell'uomo, la 24enne era stata ricoverata nel reparto di Ginecologia dove i medici avevano parlato di una gravidanza "complicata".

Come riferisce il marito nella denuncia, la giovane ultimamente non stava bene: per tre volte i sanitari del 118 l'avevano soccorsa a casa, ritenendo che si trattasse di malesseri legati alla gravidanza. Il 25 maggio, dopo l'ennesimo malore, la 24enne è stata ricoverata nel reparto di Ginecologia del Fazzi dove progressivamente le sue condizioni si sarebbero aggravate finché il 10 giugno i medici avrebbero deciso di farla abortire per salvarla. Anche dopo l'aborto, però, il quadro clinico non sarebbe migliorato e il 14 giugno la donna è morta.

Ora il marito chiede di capire cosa sia successo e che venga accertato se le cure prestate in ospedale siano state adeguate. Lo Studio 3A-Valore ha acquisito la documentazione clinica mettendo a disposizione un medico legale di parte nel caso che la Procura disponga una perizia autoptica.

Margherita De Bac per il "Corriere della Sera" il 15 giugno 2022.

È bersaglio di acerrime critiche il servizio sanitario nazionale. Il Forum delle società scientifiche di clinici ospedalieri e universitari lo rimette sotto accusa con una sfilza di numeri negativi.

In 10 anni (dal 2010 al 2019) persi 25.000 posti letto di ricoveri ordinari, diminuiti gli istituti di cura da 1.165 a 1.054, prosciugata la platea dei dipendenti di oltre 42.300 unità. Ha raggiunto i 37 miliardi di euro il definanziamento della sanità: prima a soffrirne la rete degli ospedali. Oggi il fondo è risalito a 124 miliardi, 10 in più rispetto al 2019, con un incremento annuale che, non perde occasione di ricordare il ministro della Salute, Roberto Speranza, è superiore alle aggiunte precedenti. 

Nel 2019 si partiva con 10 miliardi in meno.

«Gli ospedali già erano al limite dei loro mezzi, fiaccati da anni di politiche miopi.

Dopo la pandemia rischiano il collasso», enumera i disastri l'oncologo Francesco Cognetti, coordinatore di Forum.

Una delle conseguenze più visibili è la crisi cronica dei pronto soccorso a corto di personale, coi medici che fuggono verso reparti meno penalizzanti. Il territorio resta povero di servizi di prossimità, vicini ai pazienti che, se ne potessero usufruire, non sarebbero costretti a cercarli altrove, nei luoghi deputati a trattare i casi gravi, le emergenze. Varie leggi sono intervenute per metterci le pezze, senza mai determinare una vera sterzata. 

Una svolta potrebbe essere l'applicazione della riforma dell'assistenza territoriale, da realizzarsi con i fondi del Pnrr (Piano nazionale di ripresa e resilienza), contenuta nel decreto ministeriale approvato lo scorso 20 maggio dal Consiglio di Stato che lo ha definito «in grado di fornire risposte efficaci» e valide alternative all'ospedale.

Previste, tra l'altro la creazione di Case di comunità, il potenziamento delle cure domiciliari, l'integrazione tra assistenza sanitaria e sociale, servizi digitalizzati, coinvolgimento di «tutti gli attori della sanità», farmacie comprese. 

Le Case di comunità sono i luoghi «fisici e di facile individuazione per i cittadini» dove lavorano in modalità integrata e multidisciplinare tutti i professionisti. Le più grandi devono servire 40-50mila abitanti. 

Siamo vicini? È davvero una panacea? No, secondo Cognetti il piano «è insufficiente. Noi chiediamo più risorse, riuniamoci attorno a un tavolo per affrontare i gravi problemi. Il modello va rivisto e deve assicurare il collegamento fondamentale tra i luoghi di cura». La proposta di Forum è «ripensare i parametri in base ai quali definire il numero di letti ospedalieri». Devono crescere a 350 ogni 100.000 assistiti, fino a raggiungere la media europea di 500. Per quanto riguarda le terapie intensive, lo scenario migliore sarebbe il superamento di 14 letti ogni 100.000 abitanti.

All'inizio della pandemia erano la metà, dotazione che ci metteva in condizione di inferiorità rispetto ai Paesi europei più evoluti. Il decreto rilancio del 2020 ha stabilito il raddoppio. E adesso a che punto siamo? Quanti letti sono stati mantenuti, quanti ancora da realizzare? I dati mancano, oppure sono frammentati tra Regioni. Il ministero non è in grado di fornire il quadro nazionale aggiornato.

Risultati di esami medici sul Pc, così per 10 anni ci hanno mentito e illuso. Milena Gabanelli e Simona Ravizza su Il Corriere della Sera l'8 Giugno 2022.

L’informatica ci semplificherà la vita! Da più di un decennio ci dicono che per accedere ai servizi della pubblica amministrazione dobbiamo fare la Pec, e poi lo Spid. E i cittadini italiani diligenti hanno eseguito. Poi succede che cambi medico e ti chiede di portargli tutti i referti della tua storia sanitaria. Succede che vai a fare gli esami del sangue e per ritirali devi fare la fila allo sportello e non puoi fare il pagamento del ticket online.

Formalmente il fascicolo è stato attivato da tutte le Regioni, ma il suo effettivo utilizzo è tutt’altra storia

Nasce nel 2012 il fascicolo sanitario elettronico, tecnicamente abbreviato in Fse (decreto-legge 179/2012 del governo Monti, qui il documento). L’obiettivo è quello di poter accedere a referti ed esiti delle prestazioni mediche sul computer di casa, dell’ufficio oppure sul telefonino senza dovere fare file agli sportelli, consentire ai medici di famiglia e agli specialisti di condividere le nostre informazioni clinico-sanitarie senza farci ripetere inutilmente esami e visite e far sì che se ci spostiamo da una regione all’altra per curarci non siamo costretti a viaggiare con una valigia di documenti. Formalmente il fascicolo è stato attivato da tutte le Regioni, ma il suo effettivo utilizzo è tutt’altra storia. Andiamo a vedere l’origine di questi dieci anni di illusioni e menzogne.

Non ci sono tutti i documenti

Prendiamo come riferimento gli ultimi due anni, visto che prima poteva andare solo peggio. Su 100 prestazioni erogate, 91 sono consultabili dentro l’Fse in Emilia-Romagna, 60 in Toscana, 43 in Piemonte, 31 in Lombardia, 27 in Basilicata, 19 in Lazio, 4 in Sicilia, 3 in Liguria, 1 in Calabria e in Campania. Questi dati emergono dalle «Linee guida per l’attuazione del fascicolo sanitario elettronico». 

Se entriamo poi nel dettaglio succede che, a parte i referti di laboratorio che normalmente vengono pubblicati, nel terzo trimestre 2021 dentro al fascicolo non c’è traccia di una lunga serie di prestazioni:

1) il 65% degli esiti esami istologici (anatomia patologica), mentre 14 Regioni su 21 sono a zero (Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Emilia-Romagna, Lazio, Marche, Molise, Provincia autonoma di Bolzano, Puglia, Sardegna, Sicilia, Toscana e Umbria);

2) il 45% dei referti delle visite specialistiche: 11 Regioni non ne pubblicano nemmeno uno (Abruzzo, Calabria, Campania, Lazio, Liguria, Marche, Molise, Puglia, Sicilia, Toscana e Umbria);

3) il 40% dei risultati radiologici: zero in 8 Regioni (Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Friuli-Venezia Giulia, Lazio, Puglia e Sicilia);

4) il 35% dei verbali di Pronto soccorso: zero in 7 Regioni (Abruzzo, Calabria, Campania, Lazio, Liguria, Molise e Sicilia);

5) il 35% delle lettere di dimissione ospedaliera: zero in 7 Regioni (Abruzzo, Calabria, Campania, Lazio, Molise, provincia autonoma di Bolzano e Sicilia) (qui il documento).

Per quel che riguarda il cittadino, oltre a poter consultare gli esiti dei propri esami del sangue (e questo avviene quasi sempre) era stato promesso l’accesso al proprio libretto vaccinale e la possibilità di scegliere o cambiare il proprio medico di famiglia: in 9 Regioni non è possibile fare la prima cosa, in altre 9 la seconda. In 11 non è possibile pagare le prestazioni, e in 14 fare le autocertificazioni delle esenzioni per reddito. 

Dati caricati male

I motivi dell’inefficienza variano da Regione a Regione. La Lombardia e il Piemonte inseriscono rispettivamente un aggiuntivo 46,7% e 14,3% di referti, ma in modo poco utile, perché vengono caricati dei semplici pdf. Cosa vuol dire in partica? Il medico per sapere che la pressione massima del paziente il giorno X è di 150, il giorno Y di 140, il giorno Z di 155, deve aprire ogni volta un pdf diverso, come se fossero tanti fogli inviati per fax, mentre gli strumenti informatici permetterebbero di avere un’unica tabella dov’è possibile vedere a colpo d’occhio l’evoluzione della pressione, che è poi quel che serve al medico, visto che i tempi di visita sono sempre più brevi. 

Fra Regioni i dati non dialogano

Anche quando i documenti sanitari sono inseriti non possono essere scambiati tra Regioni e, quando avviene, è con estrema difficoltà. Per esempio: se un paziente è di Genova e sta male a Roma, o viceversa, l’accesso alle cartelle cliniche è quasi impossibile perché ciascuna Regione parla un diverso linguaggio informatico, e ciò impedisce l’apertura del fascicolo sanitario elettronico. Quindi, si rifà la trafila di esami.

(…) l’accesso alle cartelle cliniche è quasi impossibile perché ciascuna Regione parla un diverso linguaggio informatico, e ciò impedisce l’apertura del fascicolo sanitario elettronico.

Lo utilizza un cittadino su tre

Siccome dentro al fascicolo ci sono poche informazioni, i cittadini a loro volta non lo utilizzano come punto di riferimento. In questo va considerato il fatto che abbiamo una popolazione anziana con poca dimestichezza all’uso dell’informatica, anche quando la procedura è semplice. Se guardiamo le statistiche nel 2021, solo il 38% della popolazione conosceva l’esistenza del Fse e lo usava il 12%. La pandemia ne ha fatto scoprire l’utilizzo: per scaricare i referti dei tamponi, i certificati vaccinali e il green pass. Ma ancora oggi la percentuale di diffusione è bassa: il 55% sa che esiste, il 33% lo usa (qui il documento). 

I soldi europei

Il Pnrr ha stanziato 1,38 miliardi di euro per fare due cose:

1) attrezzare le Regioni con gli strumenti informatici e le competenze necessarie a caricare davvero i dati clinici dei pazienti e condividerli tra medici, ospedali pubblici e privati accreditati;

2) adottare un unico sistema informatico nazionale in modo che tutte le Regioni siano in grado di parlarsi tra loro. 

Cosa è stato fatto finora

Sono stati avviati i programmi pilota in sei Regioni (i tecnici stanno lavorando con Basilicata, Campania, Emilia-Romagna, Lombardia, Piemonte e Puglia per aumentare il numero di documenti presenti sul fascicolo e per migliorare lo scambio di dati tra Regioni). Con il Dl del 27 gennaio 2022 n. 4 art. 21 (qui il documento) viene data la possibilità di creare regole uniformi su tutto il territorio nazionale e istituire l’Agenzia per coordinare l’evoluzione digitale dei sistemi sanitari regionali. Le Linee guida sono state approvate: quindi è stato chiarito una volta per tutte quanti e quali documenti è obbligatorio inserire. Inoltre è previsto l’invio di tecnici ministeriali per aiutare le Regioni a digitalizzarsi. Finora infatti una delle loro difficoltà è stata anche la mancanza di personale dedicato. 

L’imbuto dei medici di famiglia

Anche i medici di base devono compilare il «patient summary», ovvero il profilo sanitario sintetico, che deve contenere la storia clinica del paziente con l’indicazione di eventuali malattie croniche, trapianti, terapie farmacologiche in corso, allergie e reazioni avverse a farmaci. Oggi 18 Regioni su 21 non lo compilano (tranne Val d’Aosta, Umbria Sicilia dove i medici vengono pagati per farlo) (qui il documento). E qui il tema è politico: cosa fare per convincerli? Pagarli di più per tenere aggiornata una scheda che a ragion di logica dovrebbe già essere inclusa nei loro compiti? Sta di fatto che i fondi sono vincolati al raggiungimento entro la fine del 2025 dell’85% dei medici di base collegati, e all’inserimento dei documenti da parte di tutte le Regioni entro giugno 2026 (qui il documento). In caso contrario i soldi andranno perduti. Al progetto lavorano tre ministeri: Salute, Transizione digitale e il Mef.

Offida: infermiere killer condannato all’ergastolo. Leopoldo Wick accusato di 7 omicidi. Claudio Del Frate su Il Corriere della Sera l'1 giugno 2022.L’uomo riconosciuto responsabile dell’uccisione di 7 degenti di una Rsa tramite l’iniezione di insulina e psicofarmaci. L’inchiesta nata dalla segnalazione di una collega su alcune «morti sospette» nella struttura.

È stato riconosciuto responsabile di ben 7 omicidi e 4 tentati omicidi - e dunque condannato all’ergastolo - un infermiere di una casa di riposo in provincia di Ascoli . L’uomo, Leopoldo Wick è accusato di aver soppresso i pazienti con iniezioni di insulina o psicofarmaci. La sentenza è stata pronunciata dalla corte d’assise di Macerata dopo 5 ore di camera di consiglio. Gli omicidi sarebbero avvenuti tra il gennaio 2017 e il febbraio 2019 nella Rsa di Offida. Wick si è sempre proclamato innocente.

L’infermiere era stato arrestato nel giugno del 2020 in seguito alle denunce di alcuni parenti delle vittime che avevano visto le condizioni cliniche dei loro congiunti peggiorare repentinamente nel giro di pochi giorni. Anche di una collega dell’imputato si era allarmata da un picco di decessi avvenuti proprio tra il 2017 e il 2018: le morti avvenivano proprio nei turni in cui risultava in servizio Leopoldo Wick. Tra le vittime anche la madre del sindaco di Offida. I carabinieri avevano acquisito le cartelle cliniche dei degenti morti: da quei documenti era emersa la somministrazione in quantità incongrue di medicinali quali insulina, anticoaugulanti, promazina. Nessun medico, altro particolare appurato dalle indagini, aveva autorizzato quelle terapie.

Le indagini dei carabinieri avevano anche messo a confronto i tassi di mortalità in tre strutture per anziani della zona: quella di Offida aveva avuto un numero di morti molto più alto rispetto ad altre di altri centri della provincia di Ascoli Piceno. Salvo poi diminuire rapidamente in seguito all’apertura dell’inchiesta. I sospetti si erano ben presto indirizzati su Wick, protagonista nei mesi dell’inchiesta anche di un episodio inquietante: si era presentato al lavoro con una pistola (poi rivelatasi un’arma giocattolo) e aveva esploso due colpi.

Macerata, morti in Rsa: l'infermiere Leopoldo Wick condannato all'ergastolo. Pm: "Sentenza giusta". La Repubblica l'1 giugno 2022.

La Corte di Assise lo ha riconosciuto colpevole di 7 degli 8 casi di omicidio e di uno dei 4 casi di tentato omicidio di cui era accusato. Contestata l'aggravante di aver commesso i fatti con mezzi insidiosi, somministrazioni di insulina e psicofarmaci.

Si è sempre proclamato innocente ma alla fine è stato condannato all'ergastolo. Dopo 5 ore di camera di consiglio, la Corte d'Assise di Macerata ha condannato all'ergastolo Leopoldo Wick, 59 anni, infermiere ascolano accusato di essere responsabile di 8 omicidi premeditati e 4 tentati omicidi premeditati per morti sospette nella Rsa di Offida tra il 2017 e il 2018 mediante indebita somministrazione di farmaci.

La Corte lo ha riconosciuto colpevole di 7 degli 8 casi di omicidio e di uno dei 4 casi di tentato omicidio. All'uomo, che si è sempre professato innocente, è contestata l'aggravante di aver commesso i fatti con mezzi insidiosi, somministrazioni di insulina e psicofarmaci.

La Corte d'Assise ha stabilito una provvisionale di ristoro per le parti civili, col risarcimento vero e proprio da quantificare in separata sede. Disposto anche l'isolamento diurno a carico dell'infermiere che è stato assolto per un caso di omicidio e per i restanti tre di tentato omicidio.

Secondo l'accusa, Wick avrebbe somministrato ripetutamente alle vittime insulina e psicofarmaci, sostanze farmacologiche che, per dosi ampiamente superiori ai range terapeutici e per la loro stessa tipologia, erano assolutamente controindicate e tali da poter causare, come in effetti accaduto, il decesso dei pazienti.

Nel procedimento è presente quale responsabile civile l'Asur Marche Area vasta 5. Sono 46 le parti civili: parenti degli anziani deceduti e di quegli anziani (e i loro congiunti) per cui Wick è accusato di tentato omicidio. Nelle scorse udienze il procuratore capo di Ascoli aveva chiesto la condanna all'ergastolo per Wick; la difesa, invece, aveva sollecitato l'assoluzione dell'imputato per voce degli avv. Francesco Voltattorni, Tommaso Pietropaolo e Luca Filipponi.

"Credo sia una sentenza giusta e rispetto alle assoluzioni. Il nostro ufficio aveva chiesto condanne con alcune derubricazioni e probabilmente faremo appello". Così il procuratore di Ascoli Piceno, Umberto Monti, parlando con i giornalisti dopo la sentenza. "Leggeremo con attenzione e rispetto la sentenza - ha aggiunto il pm -. Non c'è soddisfazione nel fatto che sia  punito qualcuno, ma la riteniamo una sentenza giusta, al termine di un processo molto complesso, e che rende giustizia anche alle parti offese".

Ergastolo per l'infermiere killer: ha ucciso 7 pazienti. Tiziana Paolocci su Il Giornale il 2 Giugno 2022. Wick, che lavorava nella Rsa di Offida, ha somministrato alle vittime insulina e psicofarmaci.

Leopoldo Wick si è sempre professato innocente. E lo ha fatto anche ieri, proprio mentre i giudici lo condannavano all'ergastolo e le famiglie degli anziani che ha ucciso non gli staccavano gli occhi di dosso.

L'infermiere ascolano di 59 anni secondo la Corte d'Assise di Macerata è responsabile di 8 omicidi premeditati e di 4 tentati omicidi premeditati per le morti sospette nella Rsa di Offida avvenute tra il 2017 e il 2018. La corte, dopo cinque ore di camera di consiglio, ha dato ragione infatti al pm secondo il quale l'uomo che aveva ucciso i pazienti mediante indebita e massiccia somministrazione di farmaci.

Pagherà, quindi, per sette degli otto delitti e per uno dei quattro tentati e gli è stata anche contestata anche l'aggravante di aver commesso i fatti con mezzi insidiosi, somministrazioni di insulina e psicofarmaci.

L'infermiere era finito in carcere nel giugno 2020. Alcuni parenti delle vittime si erano accorti che le condizioni cliniche dei loro cari erano precipitate inesorabilmente nel giro di pochi giorni e avevano sporto denuncia per fare chiarezza. Anche una collega dell'imputato si era allarmata per l'escalation dei decessi che si erano verificati tra il 2017 e il 2018. Decessi che avvenivano sempre quando Wick era al lavoro. Tra le morti sospette c'era stata anche quella della madre del sindaco di Offida.

Dalle cartelle cliniche sequestrate dagli inquirenti era emerso chiaramente che erano stati somministrati agli anziani insulina, anticoaugulanti e promazina in quantità spropositata. Ma nessuno dei medici aveva mai richiesto o avallato quelle terapie. I decessi, poi, erano diminuiti quando era stata aperta l'inchiesta per far luce su tutta la vicenda ed era venuto fuori che Wick, in un'occasione, si era comportato in modo assurdo, esplodendo due colpi di pistola mentre era sul posto di lavoro.

Ieri la Corte d'Assise ha stabilito una provvisionale di ristoro per le parti civili, col risarcimento vero e proprio da quantificare in separata sede. Disposto anche l'isolamento diurno a carico dell'infermiere, che è stato assolto per un caso di omicidio e per i restanti tre di tentato omicidio.

Nel procedimento è presente quale responsabile civile l'Asur Marche Area vasta 5 e 46 parti civili, soprattutto parenti degli anziani deceduti e messi in pericolo dalla condotta del 59enne.

«È una sentenza giusta, ma probabilmente faremo appello per i casi in cui Wick è stato assolto - ha commentato il procuratore capo di Ascoli Piceno, Umberto Monti - fermo restando che prima leggeremo approfonditamente le motivazioni della sentenza. Quando viene condannato qualcuno non c'è mai soddisfazione. Dico solo che ritengo questa sentenza giusta al termine di un processo molto complesso. La sentenza certamente rende giustizia alle parti offese per i casi in cui Wick è stato giudicato colpevole». Poi un pensiero a chi ha preso parte alle indagini. «È stato riconosciuta - conclude Monti - la bontà del lavoro della Procura, dei carabinieri, della medicina legale dell'Area vasta 5 di Ascoli, dei consulenti».

“Insulina e psicofarmaci ad anziani ricoverati”, condannato all’ergastolo un infermiere per sette omicidi. Il Fatto Quotidiano l'1 giugno 2022.

La Corte d’assise di Macerata ha condannato al fine pena mai, Leopoldo Wick, 59 anni, che era in servizio ospiti nella Rsa di Offida (Ascoli Piceno) tra il 2017 e il 2018. Condannato anche per un tentato omicidio e indagato per altri tre casi.

La Corte d’assise di Macerata ha condannato all’ergastolo Leopoldo Wick, 59 anni, un infermiere accusato di essere responsabile di otto omicidi premeditati e quattro tentati omicidi premeditati. Le vittime, secondo l’accusa, erano ospiti nella Rsa di Offida (Ascoli Piceno) tra il 2017 e il 2018. I decessi sarebbero stati provocati somministrando farmaci. Il procuratore di Ascoli Umberto Monti aveva chiesto la condanna all’ergastolo, mentre hanno chiesto l’assoluzione gli avvocati difensori Francesco Voltattorni, Tommaso Pietropaolo e Luca Filipponi.

I giudici lo hanno riconosciuto colpevole di sette degli otto casi di omicidio e di uno dei quattro casi di tentato omicidio. All’uomo, che si è sempre professato innocente, è contestata l’aggravante di aver commesso i fatti con mezzi insidiosi, somministrazioni di “insulina e psicofarmaci”. “Non c’è movente, non sono utilizzabili le analisi della medicina legale in quanto è stato leso il diritto alla difesa; diversi testimoni hanno ritrattato quanto detto in sede di indagini e, soprattutto, Wick è innocente a prescindere da tutto ciò, non avendo mai fatto nulla che potesse ledere la salute degli anziani pazienti. Per cui va assolto” avevano detto gli avvocati Tommaso Pietropaolo e Francesco Voltattorni. Nel procedimento è presente quale responsabile civile l’Asur Marche Area vasta 5. Sono 46 le parti civili: parenti degli anziani deceduti e di quegli anziani (e i loro congiunti) per cui Wick è accusato di tentato omicidio.

L’infermiere era stato arrestato nel giugno del 2020. Per arrivare a definire il quadro accusatorio, la Procura aveva svolto anche degli approfondimenti, rilevando “un deciso picco di mortalità” nella Rsa, con il doppio dei decessi rispetto alle altre strutture per anziani nel territorio che si trovano ad Ascoli Piceno e Acquasanta Terme. In un caso fu riesumata la salma di una donna, in un altro fu ritardato il funerale per effettuare l’autopsia di una delle vittime. A segnalare anomalie sui decessi era stata un’operatrice socio sanitaria che, non trovando ascolto nei suoi superiori, si era rivolta direttamente ai carabinieri. Dopo l’arresto, Wick era stato sospeso dal servizio e anche dall’Ordine degli infermieri: dopo essere stato iscritto al registro degli indagati a febbraio 2019 era stato destinato ad altro incarico all’ospedale di Ascoli, senza che entrasse in contatto diretto coi pazienti. A maggio 2021 la Procura di Ascoli Piceno lo ha indagato per altre tre morti.

Risonanze magnetiche «vietate». Quasi impossibile farle in ospedale. Clarida Salvatori su Il Corriere della Sera il 31 maggio 2022.

Prenotare tramite Cup alcuni a ccertamenti diagnostici in ospedali pubblici è praticamente impossibile. Anche con la ricetta del medico che indica l’urgenza (con la lettera B). E dove è possibile i tempi si allungano anche al prossimo anno.

Per una risonanza magnetica lombosacrale o per una tac nella stessa area, telefonando ieri, non c’era disponibilità neanche per gli esami da fare in emergenza, che dovrebbero cioè essere espletati entro i dieci giorni, né nella Asl di Frosinone né in quella di Latina, né a Rieti né a Viterbo, e neanche nelle Asl Roma 2, 4, 5 e 6. Ma ci sono delle eccezioni perché per la tac, per esempio al San Giovanni e al Grassi di Ostia, si aprono possibilità già il 2 e l’8 giugno.

Poche le disponibilità anche per ottenere un appuntamento per un’ecografia dell’addome o per una visita gastroenterologica: niente nella Asl Roma 1, nella 3, nella 5 e nella 6; posti disponibili invece per le stesse specialità a Ferentino e all’ospedale di Belcolle, in entrambi i casi per il giorno successivo.

Altra visita, altra situazione: per un parere dall’otorino (sempre in urgenza breve) da Frosinone a Terracina, dal Santo Spirito al Policlinico Tor Vergata, da Colleferro ad Anzio, posti liberi nei primi dieci giorni di giugno. Uniche eccezioni nella Roma 2 dove la visita non è prenotabile, e nella Roma 4 dove invece l’incontro con il medico slitta al 25 agosto.

E richiedendo un appuntamento differibile (D), a 30 giorni per le visite o 60 per esami strumentali, o programmabile (P), a 120, i tempi si allungano ulteriormente: oltre alla mancanza di disponibilità per la risonanza, la tac della lombosacrale prevede una lista d’attesa che arriva al 6 marzo del 2023 a Rieti e al 18 giugno del prossimo anno a Civita Castellana. Tra più di un anno.

«Questa situazione è la dimostrazione che quanto dichiariamo da tempo rispetto alla è ancora uno dei problemi da risolvere nella sanità laziale - queste le parole di Roberto Chierchia, segretario generale della Cisl Funzione pubblica di Roma e Lazio -. Nonostante gli oltre 3.500 precari assunti nel periodo pandemico, che abbiamo previsto siano stabilizzati con appositi accordi regionali, le dotazioni di della regione sono carenti di ulteriori 7.000 dipendenti».

Carenze che si evidenziano poi nelle criticità divenute ormai croniche nel sistema sanitario. «Solo per fare qualche esempio: sono ancora fermi al palo i concorsi previsti per il reclutamento di importanti figure assistenziali e che avrebbero dovuto prevedere assunzioni di infermieri in un concorso bandito dalla Asl Roma 2, così come per il Policlinico Tor Vergata, per gli operatori socio sanitari e per l’Ares 118, per gli infermieri dell’emergenza - spiega ancora Chierchia -. È chiaro che se governo e Regione hanno davvero intenzione di non tornare al passato e di garantire alla popolazione di potersi curare, rispettando i principi universalistici dell’articolo 32 della Costituzione, non devono bloccare il processo delle assunzioni per il quale continueremo le nostre battaglie sindacali».

"Dicevano che il piede era freddo per gli spifferi": il racconto dell'uomo rimasto senza gamba. Valentina Dardari il 28 Maggio 2022 su Il Giornale.

Nel 2015 un uomo era entrato in ospedale a Roma per la frattura del femore ma i medici non si erano accorti che il piede era in cancrena.

I medici gli avevano detto che aveva il piede freddo per colpa degli spifferi che entravano dalla finestra, invece la sua gamba destra stava andando in cancrena. Eugenio Vatta è stato quindi costretto a sottoporsi a un intervento chirurgico in cui gli è stata amputa la gamba. Adesso sono a processo i 9 camici bianchi accusati di lesioni personali gravissime che non si erano resi conto dell’aggravarsi del suo quadro clinico. L’11 aprile del 2015 l’uomo, appassionato di ciclismo, era entrato nell’ospedale Sant’Eugenio di Roma dopo essersi fratturato il femore cadendo dalla sua bicicletta. Si trovava infatti fermo al semaforo in zona Eur in sella alla sua mountain-bike quando ha perso l’equilibrio ed è caduto sbattendo l’anca contro un tombino, rompendosi il collo del femore.

Considerato come un rompiscatole

Il 15 aprile era entrato in sala operatoria per essere sottoposto a un normale intervento di routine, ma nei giorni seguenti aveva iniziato a stare male, aveva difficoltà a respirare e continui giramenti di testa. Dopo una tac viene diagnosticata una piccola lesione al fegato di cui non sapeva nulla. Dopo la tac i medici lo avevano anche preso in giro e scherzando gli avevano detto di avergli “fatto il tagliando gratis”. Con il passare dei giorni il piede diventa sempre più dolorante e nessuno sembrava voler controllare la situazione. Durante l’udienza in tribunale dello scorso 25 maggio l’uomo ha raccontato al giudice: “Ero considerato come un rompiscatole, un esagerato”. Era poi arrivato un ortopedico che l’aveva liquidato asserendo che il dolore era dovuto all’ematoma che stava calando. Altri esami clinici rilevano una alterazione dei valori di coagulazione e una riduzione delle piastrine. Il piede inizia a diventare più scuro.

Si frattura il femore e gli amputano la gamba: l'errore dei medici

Per i medici stava bene e poteva tornare a casa

Lucia, la moglie del paziente, cerca di parlare con il medico che ha operato il marito ma questo, lastra alla mano, le dice di aver fatto ciò che doveva fare. Come riportato da Il Messaggero, la donna si sarebbe recata a quel punto da una dottoressa del Sant'Eugenio sua amica, che avrebbe però urlato spazientita:“Ancora con questo piede!”. Dopo che il quadro clinico del paziente è andato aggravandosi, il 26 aprile l’uomo viene portato in chirurgia d’urgenza. I tre medici, secondo quanto raccontato da Vatta in aula, gli avrebbero detto che per loro stava bene e che poteva tornare a casa. “Mi hanno detto che doveva cambiare dieta: gli porti delle noci”, ha testimoniato la signora Lucia. Il 28 aprile la consorte parla finalmente con un chirurgo vascolare che si reca a visitare il marito. Il professionista la informa che ci sarebbero voluti due interventi di rivascolarizzazione per cercare di salvare il piede e la gamba. Purtroppo però il 2 maggio Vatta esce dal Sant' Eugenio e in un’altra struttura ospedaliera viene sottoposto all'amputazione della gamba destra e ha uno choc settico. Sviluppa in seguito il morbo di Addison, una patologia invalidante che non permette alle ghiandole surrenali di fare il loro lavoro. A vita dovrà quindi fare una cura di cortisone. “Ho sognato il suicidio e la mia morte, ero sicuro di non farcela”, ha confessato in tribunale. Il prossimo 5 dicembre sarà la volta dei medici imputati.

Specializzandi, nessuno vuole fare il medico di emergenza: tutti cardiologi e dermatologi. Sara Bettoni su Il Corriere della Sera il 3 Giugno 2022.

Lo squilibrio tra le scelte dei laureati e i bisogni della sanità. Il rischio è di avere troppi dermatologi o cardiologi e pochi medici di pronto soccorso rispetto alle esigenze della popolazione. L’allarme: programmazione errata 

In cima alla lista c’è Medicina d’emergenza. Il 16 per cento dei laureati che a novembre scorso ha scelto di specializzarsi in questo ambito ha già rinunciato alla borsa di studio conquistata in una delle scuole lombarde. Senza contare che la metà dei posti messi a bando quest’anno, circa 200, è rimasta vacante. Seguono alcune specialità che incassano tra il 9 e il 10 per cento di «fughe»: Medicina interna segna 15 abbandoni su 166 ingressi, Malattie infettive sei su 64, Nefrologia cinque su 53.

Le scuole più ambite

Di contro, ci sono percorsi che nessuno (o quasi) dei medici in formazione vuole lasciare. Sono le carriere più ambite. Tra i 134 futuri cardiologi che studiano in Lombardia, per esempio, in sette mesi non c’è stato neppure un passo indietro. Lo stesso tra i 18 dermatologi in erba e tra i 42 iscritti a Oftalmologia. Solo due le rinunce in Pediatra a fronte di 162 borse aggiudicate. Stesso numero a Psichiatria, sui 130 giovani che in autunno hanno scelto questa strada.

Lo squilibrio

Numeri da guardare attentamente e con un po’ di preoccupazione, secondo l’Associazione liberi specializzandi (Als) che aggiorna costantemente il report. Una quota di rinunce è fisiologica. «Ma il recente ampio aumento a livello nazionale dei posti disponibili — dice il fondatore di Als, Massimo Minerva — ha paradossalmente provocato, come contraccolpo, la crescita degli abbandoni nelle specialità considerate meno prestigiose». Un esempio su tutti. «Nel 2020 è stato assegnato il 99 per cento delle borse in Medicina d’emergenza — ricorda Minerva —. L’anno successivo, con il potenziamento dei posti, la percentuale è scesa al 44. Chiaro che un crollo così evidente non dipende dall’attrattività del percorso di formazione». Il rischio, tra abbandoni e mancate candidature, è di avere troppi dermatologi o cardiologi e pochi medici di pronto soccorso rispetto alle esigenze della popolazione. «È stato fatto un errore di programmazione».

I motivi delle rinunce

Quali sono le molle che spingono i giovani a lasciare la strada che loro stessi hanno scelto? Prima di tutto va considerato che è necessario partecipare a un concorso per guadagnare la borsa di studio. Chi raggiunge i punteggi migliori ha più probabilità di iscriversi nelle specialità ambite. «La metà dei primi mille in graduatoria sceglie Dermatologia, Pediatria e Cardiologia» spiega Minerva. Chi è in fondo alla classifica, a volte, deve accontentarsi di ambiti di ripiego. C’è poi chi si accorge di aver intrapreso un percorso che alla prova dei fatti non ama, chi si scontra con un lavoro troppo pesante, chi finisce in reparti in cui viene costretto a coprire turni extra, chi non accetta perché non ha avuto accesso alla scuola desiderata.

«Errata programmazione»

Se in passato il numero risicato di borse frenava le rinunce, ora lo scenario è cambiato. «I giovani sanno che possono partecipare alla selezione successiva — dice il fondatore di Als — e con buone probabilità di successo». A fronte di circa 10 mila nuovi laureati in Medicina alla fine di quest’anno accademico si stima che ci saranno oltre 12 mila posti di specialità in tutta Italia. C’è un buon margine, quindi, per chi vuole ritentare la sorte. «Va rivista la programmazione — sottolinea Minerva — per favorire la naturale redistribuzione degli iscritti e rispondere così alle future necessità del sistema sanitario».

«Sono in cura dallo psicologo per il troppo lavoro: noi specializzandi dobbiamo dare la vita per il reparto». Redazione su L'Espresso il 7 Giugno 2022.

«Ottanta ore a settimana, con picchi di 140 in alcuni casi. Veniamo pagati la metà di uno strutturato e siamo spesso soli». Continua la campagna dell’Espresso sullo sfruttamento nel sistema sanitario.

Questa lettera, come altre nei giorni scorsi, è arrivata ai canali social dell’Espresso in risposta alla nostra inchiesta sulle carenze di organico della sanità. Se volete raccontare la vostra storia, scriveteci sui social o nel form in fondo all’articolo

Ho deciso di scrivere questo messaggio in quanto oggi ho iniziato ad andare da uno psicologo per questo motivo. Sono una specializzanda di ematologia e lavoro in media 80 ore a settimana, con picchi di 140 ore a settimana.

Veniamo pagati la metà di uno strutturato, ma lavoriamo il doppio delle ore in quanto noi non timbriamo e quindi il conteggio delle ore non è indicato. In reparto siamo spesso da soli, soprattutto il pomeriggio impedendoci di seguire le lezioni (che seppur online è impossibile seguire nel trambusto del reparto). Allo stesso tempo abbiamo di recente ricevuto un richiamo scritto perché non siamo presenti a lezione. Siamo più o meno velatamente costretti a compilare database per articoli di cui poi non viene quasi mai messo il nostro nome. Se si esce prima delle 18 (banalmente per andare a fare la spesa) si viene rimproverati, perché appunto bisogna stare a fare i database. Le ferie vengono concesse solo in determinati periodi.

E va sempre chiesto prima il permesso allo strutturato (pur organizzandoci tra di noi per garantire sempre degli specializzandi in reparto). A pranzo abbiamo mezz’ora per mangiare e dobbiamo chiedere il permesso per andare in mensa, cosa che non sempre viene concessa. Dobbiamo lavorare a turno un weekend al mese 8-20 senza possibilità di recupero il lunedì successivo (perché viene preso dallo strutturato) e o viene dato in giorni a caso (tipo un martedì di due settimane dopo) o non viene dato. In reparto si è creato una sorta di terrorismo psicologico per cui viene incentivato e premiato solo lo stakanovismo e rigettato ciò che è extra nel nome della formazione e del “ai miei tempi si faceva così”, seppur io da contratto abbia previste al massimo 48 ore a settimana.

Il rinforzo positivo praticamente non esiste ma ci sono continue critiche perché sembra che le cose fatte non bastino mai. E si debba sempre dare di più. Più di 80 ore a settimana al reparto.

“Io, specializzando, lavoro 80 ore alla settimana in ospedale. Non ce la faccio più, mollo tutto”. Gloria Riva su L'Espresso il 3 giugno 2022.  

Turni infiniti senza pause per mangiare, carico di responsabilità eccessivo. Lo sfogo di uno specializzando che ha deciso di lasciare tutto.

L’Espresso ha dedicato una lunga inchiesta alle carenze di organico nella sanità italiana, spesso “coperte” con l’uso di specializzandi e studenti. Ecco la testimonianza di un ragazzo della Federico II di Napoli arrivata alla Als, Associazione Liberi Specializzandi.

“Si, abbandono la borsa. In una settimana ho lavorato per un totale di 80 ore circa. In particolare il “giorno x”, dovendo svolgere il turno di notte, sono entrato in ospedale alle 08.00 del “giorno x” e sono uscito il giorno dopo alle 17.00. Naturalmente tutte queste ore non sono in alcun modo registrate perché non mi è mai stato consegnato il badge per timbrare.

Tutti i giorni dalle 08 alle 20, due pomeriggi liberi a settimana ma che spesso saltano. Pausa pranzo a turno, un pasto veloce e di nuovo a lavorare. Spesso ho pranzato dopo le 18 e spesso è l’unico pasto della giornata perché tornati a casa non si può far altro che andare a dormire.

Uno specializzando del primo anno, a turno, per un periodo di tempo prestabilito, é responsabile del reparto, responsabile di tutto quello che concerne la gestione e l’organizzazione.

Costretti a scrivere 2 articoli scientifici all’anno, altrimenti al momento dell’esame di passaggio ci possono essere ripercussioni.

Costretti al ruolo di “sentinelle” durante le visite intramoenia; si sorveglia il corridoio affinché ci sia ordine e silenzio e si invita il paziente di turno ad accomodarsi in ambulatorio.

Sono avvilito, stanco, demotivato. Abbandono perché ho l’impressione che questa specializzazione non sia il percorso giusto per me ma d’altro canto, ho paura che io sia giunto a quest’ultima conclusione a causa dell’esperienza vissuta in questa scuola”.

La sanità italiana si regge sui medici specializzandi: giovani e sfruttati, ora molti stanno abbandonando. In sala operatoria, nei Pronto Soccorso, in corsia. Vengono usati per ruoli a cui non sono preparati, gli vengono date tutte le responsabilità e devono tappare i buchi di personale. Per questo sempre di più rinunciano alle borse di studio. Gloria Riva su L'Espresso il 23 Maggio 2022.

«Sono preoccupata. Il turno nei reparti lo svolgo da sola e mentre sono lì devo capire quando dare i farmaci per abbassare la pressione o somministrare il sedativo ai pazienti agitati. Nessuno controlla. E se dovesse succedere qualcosa? Sono pur sempre al primo anno», scrive una specializzanda dell’Università La Sapienza di Roma. Sta studiando Anestesia e Rianimazione e fa pratica all’ospedale Sant’Andrea di Roma. La sua borsa di studio è iniziata a novembre, ha sulle spalle una manciata di mesi di pratica, si sente insicura, riconosce di non avere sufficiente dimestichezza per garantire ai pazienti una corretta diagnosi, una cura adeguata. Nonostante questo visita i pazienti, firma le dimissioni e svolge in solitaria il turno delle cartelle anestesiologiche, perché in reparto non si vedono né medici strutturati né professori della scuola di specializzazione, nessuno a cui chiedere consiglio. Non è un caso isolato: lo conferma Massimo Minerva, presidente dell’Associazione Liberi Specializzandi, Als, a tutela dei giovani medici, che ha deciso di rendere pubbliche le segnalazioni dei camici bianchi in formazione e le illegalità che interessano le scuole di specializzazione, per porre un freno a una deriva pericolosa «per la salute e la vita dei pazienti», dice Minerva, che racconta a L’Espresso i massicci livelli di sfruttamento a cui i medici sono quotidianamente sottoposti.

La pandemia e una pessima gestione delle borse di studio ha svuotato gli ospedali di medici, specialmente nei Pronto Soccorso e nelle sale chirurgiche. Per questo gli specializzandi - i medici che hanno terminato la laurea in Medicina e Chirurgia e stanno compiendo un percorso formativo quinquennale per diventare specialisti - vengono mandati nei reparti, spesso da soli, in prima linea e sfruttati a più non posso, con turni che in alcuni casi superano le 300 ore mensili, oltre il doppio del limite legale di 38 ore settimanali. L’esasperazione degli studenti è alle stelle, al punto che da novembre a oggi 846 giovani hanno abbandonato la borsa di studio: «È come se ogni cinque ore uno specializzando dicesse addio alla propria carriera. Finora sono andati in fumo 99 milioni di euro investiti dallo Stato per formare i futuri camici bianchi», commenta Minerva.

La criticità maggiore è il sovraccarico di ore di lavoro. Lo confermano le risposte a un questionario che ogni anno gli specializzandi sono tenuti a compilare, ma che di norma non viene integralmente pubblicato. Per errore, il consorzio interuniversitario Almalaurea, chiamato ad analizzare i risultati per conto del ministero dell’Università, ha pubblicato sul proprio sito web i dati integrali dell’ultima indagine ed è emerso che oltre la metà degli specializzandi non riesce a rispettare l’orario previsto dal contratto perché puntualmente viene richiesto di restare più a lungo in reparto. «La qualità di vita è infima e viene lesa la dignità della mia persona», scrive un giovane medico. Ad esempio, agli specializzandi di Chirurgia Generale dell’azienda ospedaliera universitaria di Verona è stato consegnato un orario turni che supera le 250 ore mensili, violando qualsiasi direttiva europea e nazionale sul rispetto delle pause e dei riposi. E sempre a Verona, a causa della carenza di organico, gli specializzandi vengono mandati in sala operatoria a fare le veci dei medici anestesisti, perché l’ospedale non ha abbastanza organico per stare al passo con la programmazione degli interventi chirurgici. Lo stesso vale per la chirurgia pediatrica, dove al posto di un dottore strutturato c’è un medico in formazione.

La situazione più critica è nei Pronto Soccorso. Dall’inizio dell’anno 600 camici bianchi dell’emergenza e urgenza si sono dimessi. Complessivamente servirebbero cinquemila medici per far marciare i Pronto Soccorso a regime, invece mancano persino le reclute. Il ministero della Salute, guidato da Roberto Speranza, in autunno aveva aumentato il numero di borse di studio per gli specializzandi - lo scorso anno ne sono state bandite 18.397, più del doppio di quelle disponibili due anni fa -, così da rispondere alla carenza di personale degli ospedali. Tuttavia i giovani aspiranti hanno scelto in massa le specialità più ambite, aggravando ulteriormente la situazione in quelle meno appetibili. Ad esempio, si sono esaurite le borse di cardiologia, oculistica, chirurgia plastica, dermatologia e pediatria, mentre a fronte di 1152 posti disponibili per l’emergenza urgenza, 626 non sono stati assegnati. Stesso discorso per gli anestesisti: su 2.100 borse, 166 non sono state occupate. 

«Finché il lavoro in emergenza urgenza non sarà attrattivo ed economicamente competitivo, questi dati non devono stupire», spiega Fabio De Iaco, presidente Simeu, Società Italiana di medicina emergenza-urgenza, che continua: «Il lavoro nei Pronto Soccorso non è appetibile dal punto di vista economico, perché non c’è la possibilità di avere extra guadagni dalla libera professione; e ha un livello di gravosità fisico e psichico decisamente superiore alle altre specialità. Serve una contropartita economica, una più veloce progressione di carriera e una compensazione all’usura». Nel momento in cui in Italia chiudono cinque Pronto soccorso al mese per carenza di personale «gli specializzandi sono l’unico serbatoio di medici che potrebbe aiutarci ad affrontare questa grave crisi», afferma De Iaco, anche se al momento il suo appello resta lettera morta.

Sul fronte degli anestesisti, il presidente di Aaroi-Emac, Alessandro Vergallo se da un lato auspica che il numero di borsisti resti elevato anche nei prossimi anni, nella speranza di risolvere la penuria di medici anestesisti e rianimatori degli ospedali, dall’altro fa notare che le scuole di specializzazione non sono pronte ad accogliere un numero di giovani medici più che triplicato rispetto agli anni precedenti: «Serve un adeguamento del sistema di formazione». La conferma viene da Federica Viola, giovane medico e presidente di Federspecializzandi: «Fino al 2019 le borse messe a bando erano davvero poche, non più di sei-otto mila all’anno, su un bacino di circa 16mila aspiranti. Puntualmente si creava l’imbuto formativo», ovvero si lasciava la metà dei laureati in medicina, che non era riuscita ad accedere alla specialità, in un limbo: in attesa di futuri concorsi o costretto a migrare all’estero. 

«L’aumento delle borse di studio ha eliminato questo problema, ma ora facciamo i conti con una grossa perdita formativa provocata dalla pandemia e aggravata dal mancato adeguamento delle scuole». Nei mesi più duri del Covid-19 le sale chirurgiche sono rimaste a lungo chiuse e gli specializzandi non hanno fatto pratica chirurgica e «all’innalzamento del numero delle borse di studio non non è seguito un l’adeguamento dell’offerta formativa. Ci sono giovani specializzandi senza tutor, senza professori di riferimento, spesso usati per compilare cartelle e lettere di dimissione e che, alla fine del percorso, avranno svolto pochissima pratica. Questo è grave, soprattutto per la salute dei pazienti».

Per identificare le scuole meno performanti è sufficiente analizzare le risposte degli specializzandi al questionario annuale. Uno dei quesiti domanda «quanto si ritiene soddisfatto della scuola di specializzazione?» e un terzo delle 988 scuole non raggiunge la sufficienza. Una cinquantina di scuole ha ricevuto un giudizio inferiore a quattro: voto uno alla scuola di Medicina del Lavoro di Verona e alla Cardiochirurgia di Roma Tor Vergata, voto due a Urologia de l’Aquila e Chirurgia vascolare di Pavia. Si potrebbe intuire lo scarso appeal di alcune scuole anche dai livelli di abbandono e dalle richieste di nulla osta, che in alcuni ospedali superano il cinquanta per cento. «Sono informazioni che l’Osservatorio nazionale per la formazione specialistica potrebbe utilizzare per migliorare la qualità dell’offerta formativa, ma che non vengono assolutamente tenute in considerazione», afferma Minerva. L’Osservatorio è un organo composto da tre rappresentanti del ministero dell’Università, tre del ministero della Salute, tre presidi della facoltà di Medicina e chirurgia, tre rappresentanti delle Regioni e tre medici in formazione. Tuttavia nel corso di quest’anno i tre specializzandi non sono più stati nominati: «L’Osservatorio dovrebbe tutelare la qualità formativa delle scuole di specializzazione e in questi mesi sta continuando a prendere decisioni importanti, come l’accreditamento delle scuole», dice Federica Viola di Federspecializzandi.

Per sollevare l’attenzione sulle numerose irregolarità commesse dall’Osservatorio nell’accreditamento delle Scuole di formazione, Massimo Minerva sta inviando a tutti i membri dell’Osservatorio e ad alcuni giornalisti una lettera quotidiana per segnalare ogni giorno una nuova anomalia. Ad esempio, la Federico II di Napoli dichiara di avere un dipartimento di Emergenza e Urgenza, mentre non ha neppure il Pronto soccorso. All’Ospedale Vanvitelli dell’Università campana la scuola di Ginecologia e ostetricia dichiara di svolgere mille parti, mentre secondo i dati Agenas, agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali, le nascite sono 850. Anche l’Università di Bari non raggiunge il numero minimo di nascite, ma la specialità di Ginecologia è stata accreditata. A Salerno, dove uno specializzando ha accusato il proprio professore, Nicola Maffulli, direttore della scuola di Ortopedia, di costringere gli studenti a fare le flessioni qualora i giovani medici si fossero presentati in ritardo in reparto, non viene raggiunto il numero degli interventi minimo.

Sono circa un centinaio le scuole di specializzazione accreditate nonostante non vi sia il personale docente, la rete formativa e i volumi assistenziali minimi, eppure l’osservatorio continua a accreditare queste scuole: «Succede perché gli ospedali afferenti all’università non vogliono perdere i vantaggi derivanti dall’avere specializzandi. Una scuola di specializzazione dà lustro all’ospedale e consente di avere manodopera gratuita nei reparto, visto che la borsa di studio (sono 1.650 euro al mese) viene pagata dall’università. Anche l’università ha interesse a non perdere l’accreditamento, perché questi medici pagano circa duemila euro annui di tasse universitarie», spiega Minerva.

Nonostante le costanti segnalazioni, l’osservatorio, presieduto da Eugenio Gaudio, già rettore della Sapienza di Roma, e assorto agli onori della cronaca per aver rinunciato alla carica di commissario straordinario alla Sanità della Regione Calabria il giorno dopo la sua nomina per motivi famigliari, continua a confermare le scuole non a norma. E in queste settimane i membri dell’osservatorio stanno predisponendo una modifica che consentirebbe alle scuole di ottenere una validità non più annuale, bensì biennale per l’accreditamento. Gli studenti si sarebbero opposti, ma nell’Osservatorio non hanno più voce in capitolo, perché nessuno sembra avere il tempo per nominarli.

Liste di attesa, mancata prevenzione e rinuncia alle cure: Sud maglia nera. GIOVANNA GUECI su Il Quotidiano del Sud il 3 Giugno 2022. 

LISTE di attesa, carenza nell’assistenza territoriale e nella prevenzione, rinuncia alle cure. Ancora una volta i numeri peggiori sono nel Mezzogiorno – destinatario, non a caso, del 40% degli oltre 20 miliardi di euro stanziati dal Pnrr per la missione 6 Salute – anche se la diffusione di numerose criticità continua a riguardare anche altre regioni del Paese. Se infatti il “Rapporto civico sulla salute. I diritti dei cittadini e il federalismo in sanità di Cittadinanzattiva fornisce il dato generale secondo cui in Italia si aspetta quasi due anni per una mammografia, un anno per una ecografia, una tac, o un intervento ortopedico e a rinunciare alle cure nel corso del 2021 è stato più di un cittadino su dieci, con screening oncologici in ritardo in oltre la metà dei territori regionali, le situazioni più preoccupanti si registrano ancora al Sud.

Il Rapporto di quest’anno fornisce una fotografia della sanità vista dai cittadini unendo due analisi: una riguardante le 13.748 segnalazioni giunte, nel corso del 2021, al servizio PIT (Progetto integrato di tutela) Salute e le 330 sezioni territoriali del Tribunale per i diritti del malato; l’altra finalizzata ad esaminare, da un punto di vista civico, il federalismo sanitario per descrivere i servizi regionali come articolazione organizzativa e capacità di fornire risposte in termini di assistenza sanitaria.

LE PRINCIPALI CRITICITA’

Le liste d’attesa, già “tallone di Achille” del Sistema Sanitario Nazionale in tempi ordinari, durante l’emergenza hanno rappresentato la criticità principale per i cittadini, soprattutto per i più fragili, che di fatto non sono riusciti più ad accedere alle prestazioni (secondo l’Istat, la percentuale di cittadini che rinunciava alle cure per i lunghi tempi d’attesa e per l’impossibilità di rivolgersi al privato era già doppia nel 2018 nel Sud rispetto al Nord-Est).

Nel Rapporto di Cittadinanzattiva, a pesare sul dato nazionale – i lunghi tempi di attesa rappresentano il 71,2% delle segnalazioni di difficoltà di accesso –  sono soprattutto i divari regionali. In particolare, secondo le analisi di Corte dei Conti e Agenas-Sant’Anna di Pisa, per la specialistica ambulatoriale, si è assistito a una riduzione fra 2019 e 2020 di oltre 144,5 milioni di prestazioni per un valore di 2,1 miliardi e il volume dei ricoveri totali  nelle strutture pubbliche o private si è ridotto di circa 1.775.000 prestazioni (-21%, 14,4% di quelli urgenti e -26% degli ordinari).  

Ma le  variazioni  più  marcate  riguardano  Calabria con -30,6%, Puglia  con -28,1%, Basilicata con -27,1% e Campania con -25%. E se nell’area oncologica tra il 2019 e 2020 c’è stata una riduzione di circa 5.100 interventi chirurgici per tumore alla mammella, a fronte di un -10% a livello nazionale, la Calabria ha raggiunto punte del  -30%.

Un altro dato riguarda i 1.700 interventi chirurgici in meno per tumore alla prostata, che in Basilicata ha registrato -41,7%, in Sardegna -39,6% e in Lombardia -31,1%. Nel 2021, poi, ben l’11,0% delle persone ha dichiarato di aver rinunciato a visite ed esami per problemi economici o di accesso al servizio (Rapporto Bes Istat 2021). In Sardegna la percentuale sale al 18,3%, con un aumento di 6,6 punti percentuali rispetto al 2019; in Abruzzo la quota si stima pari al 13,8%; in Molise e nel Lazio la quota è pari al 13,2% con un aumento del 5% rispetto a due anni prima.

PREVENZIONE E ASSISTENZA TERRITORIALE

Per quanto riguarda gli screening oncologici organizzati,  sono 7 le Regioni che non raggiungono lo score ritenuto sufficiente secondo la Griglia dei LEA, ovvero l’indice 9. Il Mezzogiorno è praticamente al completo, con Calabria (2), Molise (3), Campania (3) Puglia (4), Sicilia (5), Basilicata (6) e, con alcuni punti in più, Lombardia (7). Solo l’Umbria mostra un miglioramento, ma nei due anni di pandemia la riduzione del numero di persone esaminate (-35,6% cervice, -28,5% mammella, -34,3% colon retto) è piuttosto consistente per tutti e tre i programmi di screening con percentuali più contenute per lo screening mammografico.

La riforma dell’assistenza territoriale, principale sfida in ambito sanitario del PNRR, dovrà fare i conti con gravi inefficienze: il 17,4% delle 13.748 segnalazioni ricevute dal PIT di Cittadinanzattiva fa riferimento non a caso proprio all’assistenza territoriale, in particolare al rapporto con medici di medicina generale e pediatri di libera scelta (25,8%), di cui i cittadini lamentano lo scarso raccordo con gli specialisti e i servizi sul territorio, nonché la scarsa disponibilità in termini di orario, reperibilità e presa in carico.  Seguono le carenze dei servizi di continuità assistenziale (13,9%) in particolar modo riferibile a irreperibilità o orari limitati della guardia medica  e le carenze dell’assistenza domiciliare integrata (12.1%), in particolare per la mancata integrazione dei servizi sociali e sanitari, le difficoltà nell’attivazione, la mancanza di alcune figure specialistiche (fra cui gli psicologi), il numero inadeguato di giorni o ore.

Su tutto, il divario tra le varie regioni, in questo caso trasversale: nel 2020 hanno riportato una maggiore copertura l’Abruzzo (4,4% degli over 65 e 7% degli over 75), la Sicilia (4,0% e 6, 6%), il Veneto (3,8% e 6,2%), la Basilicata (3,7% e 6,1%) e l’Emilia Romagna (3,6% e 5,8%). Ma le coperture più basse tra la popolazione anziana sono state riportate dalla P.A. di Bolzano (0,5% tra gli over 65 e 0,7% tra gli over 75) e dalla Valle D’Aosta (0,5% e 0,7%), così come da Calabria (1,0% e 0,7%), Puglia (1,9% e 3,1%) e Lazio (2,2% e 3,7%).

LE CASE DI COMUNITA’ E IL MEZZOGIORNO

L’attuazione della riforma dell’assistenza territoriale prevista dal Pnrr passerà attraverso le cosiddette Case della Comunità, riguardo le quali l’analisi di Cittadinanzattiva registra un coinvolgimento delle associazioni – civiche e di pazienti – ancora insoddisfacente. Si tratta di strutture sul quale il Piano nazionale punta moltissimo, soprattutto per le regioni del Mezzogiorno: se ne prevedono ben 1.350 (le vecchie Case della salute non raggiungevano le 500 unità), in media una ogni 18.069 persone con patologia cronica, con differenze regionali  che vanno da una Casa ogni 12.428 malati cronici in Calabria ad una ogni 23mila malati cronici in Emilia Romagna, Liguria e Valle d’Aosta. Il Pnrr prevede anche 400 Ospedali di comunità, una struttura ogni 64.115 persone con patologia cronica, con la situazione migliore in Basilicata (rapporto 1 a 47mila) e quella  peggiore (rapporto 1 a oltre 74mila malati cronici) in Friuli-Venezia Giulia, Umbria, P.A. Bolzano e P.A. Trento.

Dati che – se confermati – potrebbero consentire al Sud di ridurre almeno parzialmente il divario col resto del Paese, dal momento che la proporzione tra numeri di pazienti cronici e strutture previste dal Pnrr premia Basilicata, Calabria, Campania, Puglia, Sicilia, oltre ad Abruzzo e Sardegna. Un dato che trova conferma nella ripartizione su base regionale delle risorse economiche previste dal Pnrr, in particolare degli investimenti pro-capite.

Liste di attesa per visite ed esami: come si prendono in giro i pazienti. Milena Gabanelli e Simona Ravizza su Il Corriere della Sera il 18 Maggio 2022.

Il Sistema sanitario nazionale deve garantire una prestazione in 72 ore se urgente, entro 10 giorni se c’è il codice «breve», entro 30 giorni per una visita e 60 per un esame se è differibile, e ancora entro 120 se sono programmati (qui il documento).

Cosa dice la legge

È il medico che al momento della prescrizione indica il codice di priorità sulla ricetta. Lo prevede il Piano nazionale di governo delle liste di attesa (Pngla) del febbraio 2019 con il quale, secondo le buone intenzioni dell’allora ministro alla Salute Giulia Grillo, avrebbero dovuto essere assicurati tempi certi per le prestazioni in modo da riportare il diritto alla salute, garantito dall’articolo 32 della Costituzione, al centro del Ssn. La prenotazione della visita medica o di un esame diagnostico deve avvenire con in mano la prescrizione medica, il codice fiscale e la tessera sanitaria tramite i Cup telefonici, allo sportello dell’ospedale oppure tramite i siti online regionali. A ciascuno vengono comunicate le date disponibili che troppo spesso sforano i tempi di legge come i cittadini sperimentano quotidianamente sulla propria pelle. 

Il meccanismo di controllo

Per correggere le storture, ciclicamente vengono messi in campo correttivi come la possibilità su richiesta del paziente in caso di mancato rispetto dei tempi di attesa di utilizzare la libera professione dentro l’ospedale pubblico e pagare solo il ticket, l’allungamento serale degli orari degli ambulatori e perfino lo stop alla libera professione: tutte misure che di fatto ogni volta restano sulla carta, come già denunciato in un Dataroom del 2 luglio 2019. L’arrivo della pandemia non ha di certo contribuito alla soluzione dei problemi. La legge indica anche l’obbligo per le Regioni di pubblicare i dati sui tempi di attesa su siti dedicati. Uno strumento di controllo all’insegna della trasparenza, sia per i cittadini sia per gli esperti indipendenti che desiderano studiare il fenomeno in un’ottica di politiche sanitarie future. Devono essere resi noti i tempi di attesa per le prime visite specialistiche di 14 prestazioni e per 65 esami diagnostici (qui l’elenco da pag. 13). È una rendicontazione che richiede alle Regioni un importante lavoro di inserimento dati. Andiamo a vedere i risultati con l’aiuto di uno studio di Hi - Healthcare Insights, un osservatorio indipendente sull’accesso alle cure promosso da Fondazione The Bridge. 

Cosa succede in realtà

Il meccanismo di controllo non funziona per almeno cinque motivi.

1) Prendiamo il sito della Toscana: il tempo di attesa nel 2020 per una risonanza magnetica all’addome è indicato in 69 giorni. Ma non viene detto se è una prestazione da garantire subito, entro 10 giorni, 30 o 60. Lo stesso avviene in Emilia-Romagna, nelle Province autonome di Bolzano e Trento e in Calabria. Questi siti delle Regioni, che inseriscono il tempo di attesa medio senza fare distinzione in base al codice di priorità (urgente, breve, differibile o programmato), di fatto pubblicano informazioni inutili. In Basilicata viene misurato il tempo solo per il codice di priorità «differibile».

2) In Molise il calcolo dei tempi di attesa viene fatto solo su una settimana a discrezione, in Calabria e in Veneto su un giorno-indice (il riferimento è sempre al 2020).

3) In Friuli-Venezia Giulia e Campania vengono pubblicati solo i dati di alcune aziende sanitarie, probabilmente le più efficienti. I risultati rischiano dunque di essere falsati.

4) La lista delle prestazioni da monitorare per legge non viene rispettata. In 17 Regioni rilevano meno visite ed esami di quelli indicati dal Pngla (Basilicata, Campania, Calabria, Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Lazio, Liguria, Lombardia, Molise, Pa Bolzano e Trento, Piemonte, Sicilia, Toscana, Umbria, Valle d’Aosta, Veneto).

5) Non è possibile sapere se il tempo indicato è «in previsione» (ossia indico oggi quello che è il tempo di attesa previsto) oppure è «a posteriori» (ossia indico quello che in realtà c’è stato da attendere). Non lo specificano: Basilicata, Campania, Calabria, Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Lazio, Liguria, Lombardia, Province autonome di Bolzano e Trento, Piemonte, Sicilia, Toscana, Umbria, Valle d’Aosta, Veneto. 

Ricoveri

È lo stesso sistema anche per i ricoveri che devono essere garantiti entro 30 giorni per i casi clinici che potenzialmente possono aggravarsi rapidamente (A), entro 60 se c’è un dolore intenso o gravi disfunzioni (B), entro 180 giorni se il dolore è minimo (C), entro 12 mesi se non c’è alcun dolore e urgenza (D). Il monitoraggio del Pngla è su 17 prestazioni di ricovero (qui l’elenco da pag. 17). 

I risultati

Di fatto con i dati raccolti sembra che tutto vada bene e che non ci siano problemi sulle liste di attesa quando sappiamo bene che non è così, a maggior ragione nel 2020 che sconta l’effetto pandemia: nei mesi di marzo, aprile e maggio c’è una sospensione di quasi tutte le prestazioni non urgenti e un calo anche delle richieste per la paura di contagiarsi andando in ospedale, per poi avere come conseguenza un intasamento del sistema sanitario e un allungamento dei tempi per visite ed esami (Dataroom del 23 giugno 2020).

Per una risonanza magnetica alla testa l’attesa è in media di 12 mesi come indicato nel XXII rapporto di Cittadinanzattiva. Invece dai dati pubblicati dalle Regioni risultano in media 30 giorni per il 2019 e 27 per il 2020. Interventi chirurgici per il cancro al seno: gli epidemiologi del gruppo di «Monitoraggio per gli impatti indiretti del Covid-19» stimano che con la pandemia abbiano subito rallentamenti importanti, con un calo del numero delle operazioni contro i tumori alla mammella tra il 20 e il 40%. Recuperare il tempo perso dovrebbe portare a un prevedibile ingolfamento del sistema. Invece dai dati delle Regioni risulta addirittura un miglioramento nei giorni di attesa: 39 nel 2019 e 23 nel 2020. Visita oculistica: a metà 2020 per il Crems (Centro di Ricerca in Economia e Management in Sanità e nel Sociale),i tempi di attesa sono raddoppiati, 144 giorni contro i 70 del 2019. Dalla analisi dei dati delle Regioni emerge, invece, che in media i tempi sono in linea tra il 2019 e il 2020 e decisamente più brevi di quelli previsti: 25 giorni per il 2019 e 28 per il 2020. La lista degli esempi potrebbe continuare. 

Perché avviene

Tutto questo avviene perché si è fatta una norma sul monitoraggio che dice alle Regioni: dovete inserire i dati, ma potete scegliere il criterio che per voi funziona meglio. Ovviamente ogni Regione adotta il criterio che le conviene di più. Inoltre: là dove il Pngla prevede degli obblighi ben definiti, come il numero di prestazioni da monitorare, se sei inadempiente, non ci sono sanzioni. E così alla fine vengono prodotte montagne di carta per dimostrare che tutto va bene, mentre sono montagne di dati che non servono a nulla. E se mancano le informazioni complete e veritiere sulle performance del sistema sanitario, diventa impossibile capire dove bisogna intervenire.

Caos sanità nel Lazio. visite urgenti negate perfino ai bambini. Mamma costretta a pagare. Antonio Sbraga Il Tempo il 22 maggio 2022.

Liste d'attesa al cardiopalma per una visita cardiologica pediatrica: non si trova nessun appuntamento disponibile entro l'anno in tutte le strutture del Lazio. Anche l'ospedale pediatrico Bambino Gesù rimanda al 2023, però l'attesa si riduce a una settimana se si paga la prestazione del medico fuori dal regolare orario di lavoro. A segnalare il caso la «madre di una bambina alla quale il pediatra ha prescritto una visita specialistica al cuore da effettuare entro 30 giorni - denuncia il consigliere regionale Massimiliano Maselli (FdI)- alla mamma non è rimasto che prenotare una visita in regime di attività professionale intramoenia, quindi a pagamento, al Bambino Gesù. Visita fissata esattamente una settimana dopo la richiesta».

Ma i tempi lunghi sono confermati anche dal monitoraggio dei tempi d'attesa, che presenta molti bollini rossi, quelli con cui la stessa Regione indica «le prenotazioni entro lo standard minori del 50%» nel rispetto dei tempi massimi (30 giorni per le visite e 60 per gli esami diagnostici differibili). Per alcuni tipi di prenotazioni le possibilità di rispettare i tempi massimi sono addirittura azzerate: questa settimana, infatti, c'è lo «0,0%» di possibilità di prenotare entro i tempi massimi previsti dalla norma la Tac addome, del capo e la Sigmoidoscopia con endoscopio nell'Asl Roma 1. Così come la Risonanza magnetica dell'addome, della colonna e muscoloscheletrica, oltre che la Tac del capo, nell'Asl Roma 2. Zero possibilità pure per la Risonanza magnetica della colonna e la spirometria nell'Asl Roma 4. Idem per la Sigmoidoscopia con endoscopio, la Tac del capo e l'esofagogastroduodenoscopia nell'Asl Viterbo (quest'ultima inaccessibile anche nell'Asl Rieti). Azzerate anche la Risonanza magnetica dell'addome, del cervello e del tronco, oltre alla Tac addome nell'Asl Latina.

Sei doppi zeri pure per la colonscopia, l'ecografia della mammella, la risonanza magnetica dell'addome, del cervello e la spirometria nell'Asl Frosinone. Off-limits la risonanza magnetica del cervello e muscoloscheletrica al San Giovanni-Addolorata, la colonscopia al Sant'Andrea, l'ecografia dell'addome all'Ifo-Regina Elena, la visita cardiologica allo Spallanzani e la Tac dell'addome superiore e inferiore a Tor Vergata. Però sul piano per il recupero delle Liste d'Attesa la Regione non risponde: «All'istanza di accesso civico hanno risposto tutte le Regioni ad eccezione di: Basilicata, Calabria, Lazio, Lombardia, Toscana e Veneto», sottolinea Cittadinanzattiva, che rivela: «ad essersi rivolti a noi sono soprattutto i cittadini del Lazio (20,72%)».

Anche nove mesi per un cardiologo. Liste d’attesa infinite, la sanità non riparte. Michele Bocci su La Repubblica il 15 maggio 2022.  

Da Torino a Bari, tempi lunghi per una visita. Abbiamo provato a prenotare sei prestazioni chiave: ecco i risultati.

Il problema è sempre lì, al centro esatto della sanità italiana. È quasi un luogo comune da quanto è ricorrente, da quanto è difficile da ricacciare indietro. Zavorra da sempre l’attività specialistica, cioè visite ed esami diagnostici, alternando periodi di maggiore o minore intensità. Ora siamo nel mezzo di uno di quelli brutti. Liste di attesa: basta dire questo per evocare un mondo, far salire il nervoso e scoraggiare.

Paolo Russo per lastampa.it il 14 maggio 2022.

Fino adesso sapevamo che ad ogni ondata sono saltati milioni di prestazioni, dai ricoveri alle visite, agli accertamenti diagnostici. Ora si conferma che per non rinunciare all’assistenza sanitaria tocca mettersi in fila per mesi. In alcuni casi anni. 

Quasi due anni di attesa per una mammografia, circa un anno per una ecografia, una tac, o un intervento ortopedico. E a rinunciare alle cure nel corso del 2021 è stato più di un cittadino su dieci. Screening oncologici in ritardo in oltre la metà dei territori regionali e coperture in calo per i vaccini ordinari.

È il lascito della pandemia, una emergenza che ancora non abbiamo superato, come mostra il “Rapporto civico sulla salute. I diritti dei cittadini e il federalismo in sanità”, presentato oggi da Cittadinanzattiva, basato su 13.748 segnalazioni giunte nel corso del 2021, al servizio PiT Salute e alle 330 sezioni territoriali del Tribunale per i diritti del malato. 

“Durante la pandemia abbiamo fatto i conti con una assistenza sanitaria che, depauperata di risorse umane ed economiche, si è dovuta concentrare sull’emergenza, costringendo nel contempo le persone a “rinunciare” a programmi di prevenzione e di accesso alle cure ordinarie. Ancora oggi abbiamo la necessità di recuperare milioni di prestazioni e i cittadini devono essere messi nella condizione di tornare a curarsi”, dichiara Anna Lisa Mandorino, segretaria generale di Cittadinanzattiva. “Occorrerà una lettura attenta dei contesti territoriali, puntando molto sulla domiciliarità come luogo privilegiato delle cure”.

Liste di attesa per le cure ordinarie, ritardi nella erogazione degli screening e dei vaccini, carenze nella assistenza territoriale sono i primi tre ambiti nei quali si sono concentrate, nel corso del 2021, le 13.748 segnalazioni dei cittadini. Nello specifico questo il dettaglio degli ambiti maggiormente segnalati: l’accesso alle prestazioni (23,8%), la prevenzione (19,7%), l’assistenza territoriale (17,4%), l’assistenza ospedaliera e mobilità sanitaria (11,4%). 

Sul sito web cittadinanzattiva.it è possibile scaricare il Rapporto civico sulla salute 2022 e il relativo Abstract. Di seguito alcuni dei temi principali. 

Liste di attesa e prestazioni saltate

Le liste d’attesa, già “tallone di Achille” del Sistema Sanitario Nazionale in tempi ordinari, durante l’emergenza hanno rappresentato la principale criticità per i cittadini, in particolare per i più fragili, che di fatto non sono riusciti più ad accedere alle prestazioni. I lunghi tempi di attesa (che rappresentano il 71,2% delle segnalazioni di difficoltà di accesso) sono riferiti nel 53,1% di casi agli interventi chirurgici e agli esami diagnostici, nel 51% alle visite di controllo e nel 46,9% alle prime visite specialistiche. Seguono le liste d’attesa per la riabilitazione (32,7%) per i ricoveri (30,6%) e quelle per attivare le cure domiciliari-ADI (26,5%) e l’assistenza riabilitativa domiciliare (24,4%). 

Con la sospensione durante l’emergenza delle cure cosiddette non essenziali e non “salva vita”, si sono allungati a dismisura i tempi di attesa massimi di alcune prestazioni. 

Le regioni in difficoltà 

Il monitoraggio svolto attraverso le sedi regionali di Cittadinanzattiva mostra una situazione molto critica quasi ovunque. Sconfortante anche l’esito delle verifiche relative ai percorsi di tutela attivati dalla Regione o dalla Asl per arginare il fenomeno delle liste bloccate. Tali percorsi risultano attivi solo in Basilicata, Marche, Trentino Alto Adige ed Umbria, nessuna misura sembra attivata in Liguria, Lombardia, Molise, Paglia, Sardegna e Toscana. Nessun dato è disponibile per le altre regioni, a conferma di quanto sia urgente introdurre misure di maggiore trasparenza sul blocco delle liste d’attesa.

Tempi di attesa biblici che spesso si traducono in prestazioni negate. Secondo le analisi di Corte dei Conti e Agenas-Sant’Anna di Pisa, per quel che riguarda la specialistica ambulatoriale si è assistito a una riduzione complessiva fra 2019 e 2020 di oltre 144,5 milioni di prestazioni per un valore di 2,1 miliardi; il volume dei ricoveri totali erogati (ordinari e in Day Hospital) nelle strutture pubbliche o private si è ridotto di circa 1.775.000 prestazioni (– 21%, 14,4% di quelli urgenti e - 26% degli ordinari).

Le variazioni più marcate riguardano Calabria con un – 30,6%, Puglia con – 28,1%, Basilicata con – 27,1%, Campania – 25%. Nell’area oncologica, tra 2019 e 2020 c’è stata una riduzione di circa 5100 interventi chirurgici per tumore alla mammella (-10% a livello nazionale, con punte del 30% in Calabria; circa 3000 interventi in meno per tumore al colon retto (-17,7% a livello nazionale, la riduzione maggiore nella P.A. di Trento con un -39,6%); circa 1700 interventi chirurgici in meno per tumore alla prostata (in particolare in Basilicata -41,7%, in Sardegna -39,6% e in Lombardia -31,1%). 

Nel 2021, l’11,0% delle persone ha dichiarato di aver rinunciato a visite ed esami per problemi economici o legati alle difficoltà di accesso al servizio A livello regionale, permangono alcune situazioni particolarmente critiche, ad esempio in Sardegna dove la percentuale sale al 18,3%, con un aumento di 6,6 punti percentuali rispetto al 2019; in Abruzzo la quota si stima pari al 13,8%; in Molise e nel Lazio la quota è pari al 13,2% con un aumento di circa 5 punti percentuali rispetto a due anni prima. 

Per il 57% delle regioni si segnala la sospensione/ interruzione del normale svolgimento degli screening per tumore alla mammella, alla cervice, al colon retto. I danni dell’interruttore della prevenzione posizionato su “off” li vedremo con il tempo. 

Francesco Facchinetti, "il cadavere 5 ore sull'asfalto": il dramma dell'amico morto. Libero Quotidiano il 09 luglio 2022

Uno sfogo amaro quello di Francesco Facchinetti su Tik Tok. Il conduttore ha raccontato ai suoi fan una vicenda da brividi: un suo conoscente, fratello di un suo caro amico, è morto a causa di un incidente stradale nei pressi di Saronno. Da qui è iniziato un vero e proprio calvario burocratico. "Per un cavillo - ha spiegato indignato - il cadavere è rimasta sull’asfalto dalle 12 alle 17, per 5 ore davanti ai propri familiari". Il motivo ha dell'assurdo: "La salma si trovava in una zona di confine tra la provincia di Como, Milano e Varese, non sapevano quale fosse l’ambulanza di competenza per prenderla e quindi è rimasta 5 ore a terra". 

Ma il dramma non finisce qui, perché sia l'amico che i genitori non potranno vedere la salma fino a lunedì: "Ma in che Paese siamo - si è chiesto per poi rispondersi - Un Paese che ci obbliga a dare più del 50 per cento di quello che guadagniamo e che non ci tutela in nessun modo e per un cavillo burocratico lascia un morto sull’asfalto per 5 ore e non fa in modo che i propri familiari possano vedere la salma perché è sotto sequestro. Questa è una triste verità. Io non voglio più abitare in questo Paese".

Il cantante ha definito tutto questo "uno schifo, siamo arrivati al Paese delle bestie. Spero che questo video possano vederlo le autorità competenti". Le stesse che Facchinetti ha descritto come "senza cog***". E infine l'auspicio: "Vediamo se qualcuno che ha il potere ha le pa*** per fare una volta tanto la cosa giusta, anche contro la burocrazia". 

Taranto, per 20 ore al Pronto soccorso in attesa del ricovero. Il caso dell’uomo giunto in ospedale con i malleoli fratturati. Federica Marangio su La Gazzetta del Mezzogiorno il 5 Luglio 2022.

Numeri Covid di nuovo da capogiro. In meno di due giorni sono stati in 55 a risultare positivi al Covid-19 dopo essere stati sottoposti al tampone di screening presso il Pronto Soccorso dell’Ospedale “Santissima Annunziata”. Di questi, 11 sono stati ricoverati per Covid e 5 sono in fase di valutazione.

La restante parte dei positivi si era recata al Pronto soccorso per patologie di natura varia e non per sintomatologie riferibili al Covid. Eseguendo tamponi all’ingresso è più facile tracciare ed identificare pazienti positivi al virus Sars-Cov-2 che, va chiarito, si recano al Ps anche per altre ragioni. Questa modalità ha pro e contro. Da una parte si limita il proliferare del virus, dall’altra riscontrando casi positivi, ovunque, i reparti Covid e no Covid, finiscono con il saturarsi.

L’impennata di casi registrata negli ultimi due giorni al Pronto soccorso è destinata ad aumentare. Si attende il raggiungimento del picco che caratterizzerebbe una nuova ondata nella seconda metà del mese di luglio. Il virus sta correndo all’impazzata, forte anche del mancato tracciamento per una larga percentuale di positivi, i quali effettuano il tampone per proprio conto, non comunicandone l’esito e continuando a vivere senza alcuna restrizione.

L’incremento dei casi nella Provincia ionica segue con un ritardo di almeno dieci giorni quello registrato nelle altre regioni italiane. Il timore che nelle prossime settimane si possa assistere ad una recrudescenza dell’infezione è reale, nonostante si respinga questa possibilità a più livelli.

Le aperture in Puglia hanno fortemente penalizzato la serenità della stagione estiva, nel corso della quale si sarebbe dovuto osservare l’utilizzo dei dispositivi di protezione personale almeno nei luoghi chiusi. Il desiderio ardente di ritornare alla normalità va a braccetto con la politica regionale di agevolare il turismo che ha fin troppo patito negli ultimi due anni, ma ciò non basta a scansare il pericolo imminente di una nuova ondata. E se al Pronto Soccorso del “Santissima” in soli due giorni vi sono stati 55 accessi che sono risultati positivi al tampone, occorre tenere alta la guardia e rispettare più che mai le distanze sociali.

Il numero registrato è un primo campanello d’allarme che va letto insieme con i positivi registrati quotidianamente anche senza sintomatologia. Nella giornata di ieri, stando al bollettino epidemiologico diramato dalla Regione, si sono riscontrati 377 nuovi casi con un tasso di positività regionale pari al 32% (in salita rispetto al 18,08% di lunedì scorso). Per ciò che concerne i posti letto in area medica, all’Ospedale “Moscati” rimangono sotto controllo. Ciò significa che vi è disponibilità ove si rendesse necessario il ricovero.

Uno sguardo d’insieme con le strutture limitrofe consente di cogliere il problema sanitario nella sua totalità. La terapia intensiva di Lecce per esempio risulterebbe occupata per dieci posti letto da pazienti provenienti anche dalla provincia di Brindisi, a causa della mancata attivazione dei posti in terapia intensiva Covid a Brindisi.

Tornando ai 55 pazienti Covid che sono transitati dal Pronto Soccorso del “Santissima” di Taranto, le condizioni sono varie, ma i casi più gravi si limiterebbero a cinque. 

Lecce, cade da barella nel pronto soccorso e muore dopo giorni: 8 indagati. La Procura di Lecce ha aperto una inchiesta sul decesso di un'anziana avvenuto a Scorrano. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 09 Luglio 2022

La Procura di Lecce ha aperto un’inchiesta sulla morte di un’anziana di 74 anni di Scorrano morta lo scorso 3 luglio in seguito ad una caduta dalla barella del Pronto soccorso dell’ospedale dove era stata portata lo scorso 27 giugno per scompensi cardiaci. Nel fascicolo d’inchiesta compaiono otto persone indagate. Si tratta di due medici, quattro infermieri e due operatori sanitari in servizio nel reparto in quel momento. L'ipotesi di reato, responsabilità colposa per morte in ambito sanitario.

L’anziana in seguito alla caduta, avvenuta mentre era sola, avrebbe subito una lesione del midollo spinale e la frattura della seconda e terza vertebra della cervicale. L’inchiesta è partita in seguito alla denuncia dei familiari. Il magistrato inquirente Maria Vallefuoco ha disposto l’autopsia che sarà fatta nei prossimi giorni.

Lecce, disservizi al Pronto Soccorso del «Fazzi»: Procura apre indagine. Ambulanze in coda fino ad otto ore, in attesa che il paziente venga preso in carico. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 5 Luglio 2022.

La Procura di Lecce ha aperto un’indagine conoscitiva su quanto sta accadendo in questi giorni al pronto soccorso del Vito Fazzi di Lecce con ambulanze in coda fino ad otto ore in attesa che il paziente venga preso in carico, come è successo ieri seri. Il tutto in un quadro di impennata di accessi, di contagi Covid e con la carenza di personale medico, con il peso dell’emergenza che ricade sul 118 e con pazienti che ogni giorno stazionano in astanteria in attesa di un posto in reparto. L’indagine conoscitiva sui disservizi che si stanno registrando nel pronto soccorso salentino servirà per verificare l’esistenza di eventuali reati da contestare . Per il momento non ci sono indagati.

Fuga dei medici dal pronto soccorso di Lecce: "Turni massacranti". Roberta Grima il 9 Luglio 2022 su Il Giornale.

Nessun riposo, personale ridotto e turni doppi al pronto soccorso più grande del Salento: i camici bianchi protestano e minacciano di dimettersi in massa. 

Dimissioni di massa per i medici del pronto soccorso di Lecce, il più grande della provincia salentina. La decisione drastica non è ancora presa, ma è molto concreta se non si realizzeranno gli impegni presi dalle autorità locali nell'ultima riunione del 30 giugno.

Un’area Covid in ogni reparto ospedaliero dove poter ricoverare pazienti affetti dal virus pandemico, affidare alla guardia estiva i codici del pronto soccorso verdi e bianchi di bassa complessità, attivare i ricoveri in extralocazione quando non ci sono disponibilità di degenze, destinare un rianimatore e un infermiere di terapia intensiva ai codici rossi, quelli cioè più gravi, trasportare il paziente del 118 all’ospedale più vicino e non sempre a Lecce. Sono questi gli impegni presi nell'incontro tra una delegazione dei medici del pronto soccorso salentino, il direttore sanitario del presidio ospedaliero leccese Carlo Sabino Leo e i responsabili del Dea dottor Giuseppe Rollo e dottor Giuseppe Pulito, per affrontare le difficoltà ormai croniche che riscontra il personale del pronto soccorso del “Vito Fazzi” .

A spiegare a IlGiornale.it le ragioni dei camici bianchi è il dottor Raffaele Gaudio, dirigente nazionale di Fismu (federazione italiana sindacale medici uniti), componente della segreteria aziendale FVM (Federazione veterinari medici) Asl Lecce. Da anni il personale del servizio emergenza - urgenza dell'ospedale "Vito Fazzi" sopporta condizioni insostenibili con turni massacranti, organico ridotto all'osso, criticità che nel tempo si sono fatte sempre più pesanti con l'arrivo della pandemia sino ad oggi, con i picchi dei contagi e un incremento degli accessi durante la stagione turistica, che arriva a circa duecento utenti al giorno. Di questi circa quindici, venti sono Covid, un centinaio sono casi di bassa complessità, il resto rappresenta situazioni di emergenza grave.

In appena sei mesi sono andati via sedici medici lasciando giornate come quella odierna con un solo professionista ai codici verdi e uno al Covid. Negli ultimi anni molti giovani camici bianchi tra i trentacinque e i quarant'anni hanno lasciato, dopo aver prestato servizio nel pronto soccorso per due-tre anni a tempo determinato. Speravano nella stabilizzazione che però non è arrivata. L'Asl e la regione Puglia si sono fatti scappare risorse preziose che non vedevano una prospettiva futura. C'è chi ha preferito iscriversi alle scuole di specializzazione che nel frattempo hanno aumentato le borse di studio passando da novemila a diciasettemila l'anno, c'è chi ha intrapreso la strada della medicina generale e chi si é trasferito altrove.

Per lungo tempo in Puglia c'è stato il blocco delle assunzioni, prima per il vincolo di spesa, poi per un mancato aggiornamento della pianta organica ferma ad anni prima, quando risultavano una cinquantina di medici nel pronto soccorso leccese, il che ha fatto sì che la Regione bloccasse il concorso espletato, per esubero di personale. Poi a novembre 2021 il via alla selezione. Tredici i posti da medico specializzato in emergenza - urgenza da assegnare al pronto soccorso di Lecce, dove però ne sono arrivati appena tre.

In una lettera del quattro giugno scorso Gaudio aveva scritto ai vertici aziendali come si lavorasse da troppo tempo con doppi, tripli turni senza recupero, in assoluto sfregio dei contratti e del buonsenso. Durante la prima ondata Covid si riusciva a tenere seppure in cinque, sei medici e qualche difficoltà. Ciò grazie al fatto che la gente aveva capito che con i sintomi del Corona virus doveva rimanere a casa salvo sintomi gravi, ma poi con la vaccinazione i cittadini sono ritornati ad uscire e sono ripresi gli accessi al pronto soccorso per tutte quelle patologie che nel frattempo erano state trascurate, mentre i contagi da Corona virus sono tornate a salire.

Nella maggior parte dei casi il medico di turno non riesce a ricoverare per mancanza di posti, per fare qualche esempio la pnemologia leccese conta 18 letti per un bacino che ricopre tutto il Salento con una popolazione di 800mila abitanti. Il risultato è che i pazienti sono costretti ad aspettare su una barella nell'astanteria del pronto soccorso, tra un corridoio e un ambulatorio, a loro si aggiungono gli altri arrivi, trasformando così un servizio di emergenza in un reparto vero e proprio arrivando a contare anche 30 degenti. Manca poi un servizio sul territorio che eviti i tantissimi codici verdi che invece non sono da ricoverare e che pure rappresentano un buon 60 - 70% dell'utenza del pronto soccorso.

La maggior parte dei cittadini che arriva - ci spiega il dottor Gaudio - è anziana, con più patologie che spesso starebbe meglio in una residenza protetta che ha le sue lungaggini burocratiche e che prima di accogliere il paziente, richiede la domanda dell'assistente sociale, nel frattempo l'anziano sosta anche dei mesi nel pronto soccorso. Qui appena due Oss (operatori socio sanitari) devono assistere tutti coloro che sono di fatto ricoverati nel pronto soccorso, lavarli, dar loro da mangiare, gli infermieri devono sommistrare le terapie, un'attività che ha poco a che vedere con quella emergenziale.

A rendere paradossale la situazione è il trasporto in ambulanza dal pronto soccorso Covid del "Fazzi" al pronto soccorso pulito nel Dea, pochi metri distante, una traversata oceanica per gli esami diagnostici come tac e radiografie per i pazienti positivi al virus, che non potendo usufruire dei servizi dell'ospedale pulito, sono costretti ad essere trasportati in ambulanza nel Dea, dove oltre all' apparecchiatura pulita, si trova quella dedicata ai positivi. Tradotto significa che un Oss (operatore socio sanitario) deve salire sulla navetta sguarnendo il pronto soccorso Covid, dove nelle migliori delle ipotesi rimane un altro collega ad assistere i pazienti, mentre per chi ha bisogno di essere accompagnato per controlli strumentali i tempi si dilatano, aspettando che l' altro Oss torni dal Dea.

Quello che fa specie è che mentre medici, infermieri, Oss lamentano e denunciano per voce del loro primario Silvano Fracella le condizioni di lavoro che mettono a rischio i servizi assistenziali, l'assessore regionale alla salute Rocco Palese invita il medico all'aspettativa o al pensionamento, o nelle migliori delle ipotesi dà mandato all'Asl di effettuare gli ordini di servizio ai medici di altri reparti, per dare man forte ai colleghi in difficoltà, senza sapere che il personale é spesso insufficiente. Una coperta troppo corta che rischia di strapparsi lasciando scoperta la sanità, con i medici che aspettano ancora per poco, poi se non cambia nulla si dimetteranno in massa.

Malasanità a Roma. «La mia notte da incubo al pronto soccorso del San Camillo, parcheggiata su una barella accanto a un morto». Fabrizio Peronaci su Il Corriere della Sera il 20 Giugno 2022.

Il racconto-choc di Antonella Vittore, funzionaria di un ente pubblico, vittima di una caduta dal motorino: «In uno stanzone-bunker c’erano 60 barelle. Pazienti lasciate nude, sporche, urlanti. E quel signore immobile...». La direzione apre un’inchiesta 

Ha visto pazienti umiliati, nudi sul materasso, esposti agli sguardi di tutti. Donne rannicchiate nelle loro barelle, a implorare una coperta, un pannolone, un antidolorifico. Infermieri che fingevano di non vedere. Dottoresse frettolose, sgarbate. Ha solidarizzato con gente sconosciuta sentendo i pianti, le imprecazioni. E a un tratto, voltandosi, si è accorta che l’uomo a fianco a lei, a torso nudo, aveva un colorito strano…

Inferno San Camillo. Dopo le denunce della signora di 82 anni con occlusione intestinale in corso rimasta per 11 ore in attesa di una visita al Santo Spirito, del fiscalista morso dal cane e parcheggiato senza cure al Grassi di Ostia e della docente universitaria esterrefatta quando, al Sant’Eugenio, le hanno ispezionato la gola usando la torcia di un telefonino, nel mirino finisce il grande ospedale sulla circonvallazione Gianicolense. Struttura d’eccellenza, per molti versi. Ma anche, nella prima linea del pronto soccorso, un luogo che può calpestare ogni dignità e diventare orribile. Quella di Antonella Vittore, 47 anni, funzionaria di un importante ente pubblico, è una testimonianza-choc: dopo lunga riflessione, ha deciso di condividere la sua «allucinante esperienza», nella speranza che possa servire «a rendere i politici più consapevoli che la sanità pubblica non è cosa loro e non può essere gestita come altri settori, ma deve essere all’altezza di un Paese civile e al servizio di tutti noi che paghiamo le tasse».

Ore 19 del 24 maggio 2022. Antonella, che abita al Flaminio, cade dal motorino su ponte Matteotti. È con suo fratello, medico. Stanno andando a Trastevere. La ruota si incastra nel binario del tram e lo scooter le crolla di peso sul piede sinistro... «L’alluce si era rotto e il piede sanguinava tantissimo, la ferita aveva scoperto il tendine. Un dolore terrificante, da svenire. L’ambulanza è arrivata dopo circa 40 minuti». Non poco. Ma è solo l’inizio. «A bordo ho trovato infermieri gentili, ma un disorientamento totale. È partito il circo per capire dove portarmi, visto che necessitavo di un ospedale dotato sia di un reparto di ortopedia sia di uno di chirurgia degli arti. Per questo siamo passati prima al Santo Spirito e poi al Fatebenefratelli, sull’isola Tiberina, dove ci hanno respinti. Tempo perso. Altra sofferenza. Fino a che, attorno alle 20.30, finalmente arriviamo al San Camillo...»

Eccoci. Le speranze di essere curati e assistiti bene dopo un trauma - qualcosa di normale, in un welfare compiuto - svanisce all’istante. «Per me - racconta la funzionaria dello Stato - è stato come varcare le porte dell’inferno. Diciotto ore di pronto soccorso in condizioni disumane. Quel giorno c’erano stati parecchi accessi. Quindi col piede sanguinante e addosso il tremore della scarica di adrenalina, sono stata messa su una barella e portata in quello che chiamano “la zona nuova del PS”. Praticamente uno stanzone-bunker in cui c’erano più o meno 60 malati. I telefonini non prendevano. Ho avuto subito una crisi di pianto. Nessuno si è degnato di chiedermi qualcosa, almeno mi avrebbe infuso coraggio»...

Quale la scena? «Appena arrivata mi guardo attorno... Tante persone stavano male. Molti anziani erano in evidente stato di scompenso mentale. Una signora, fratturata al femore, era stata legata al letto e ha parlato ad alta voce tutta la notte. Altri si lamentavano urlando, io imploravo un antidolorifico che mi hanno dato soltanto alle 8 del giorno dopo... Ma un fatto in particolare mi ha turbata, non lo dimenticherò mai. Sulla barella vicina alla mia c’era un signore con un colorito stranissimo. Lo guardavo e pensavo che dovesse stare proprio male... Sembrava morto... Ebbene, ho realizzato solo dopo un po’ che era morto davvero. E’ rimasto lì per oltre un’ora. Scoperto. Sulla settantina, a torso nudo. La faccia al soffitto, gli occhi vitrei. I fogli dell’Ecg erano linee piatte srotolate e ce n’erano almeno cinque metri, segno che era successo da parecchio. Poi sono venuti due infermieri che l’hanno coperto e portato via».

Si ferma. Tira il fiato. E il piede, la frattura? «Sono stata visitata dalla dottoressa di turno dopo un paio di ore. Mi ha medicata e comunicato che erano stati richiesti visita ortopedica e Rx, nonché la visita del famoso chirurgo degli arti. E che dovevo aspettare. Nel frattempo malati che si disperano, implorano un sorso d’acqua... Gli infermieri passano e fanno finta di non sentire. Ad un certo punto chiedo di andare in bagno. Niente, non si può, mi devono mettere un pannolone e la devo fare lì. Ovviamente con conseguente fuoriuscita di urina che mi sporca gli abiti che avevo addosso. Io rientravo dal lavoro, quindi vestita bene, con tailleur, truccata, ballerine ai piedi, lenti a contatto. Una frustrazione terribile. Dalla serenità di un giorno qualsiasi all’angoscia delle ore che passavano nello stanzone-bunker senza sapere quanto sarei rimasta». Siamo ormai nel cuore della notte. La paziente viene portata a fare un Rx. «Attesa infinita anche lì. Mi riportano nello stanzone e nessuno mi dice nulla. Intanto la notte va avanti tra nuovi ingressi, persone anziane che urlano, malati sporchi di feci e infermieri che rispondono in malo modo che non tocca a loro cambiarli... Riesco ad appisolarmi».

Attorno alle 2 e mezza si materializza il dottore: dall’incidente a ponte Matteotti sono passate quasi otto ore. «L’ortopedico, nel mio stordimento da risveglio notturno, mi dice che ho una frattura ma non possono ingessare per le ferite che ho riportato e che dovrò usare un calzare, da comprare a mie spese. Se ne va. Passano altre infinite ore... Vedo attorno casi agghiaccianti. A una signora arrivata con un dolore al petto viene fatto l’Ecg. Lei prova timidamente a dire che soffre di pressione alta. Viene trattata male e liquidata. La mattina, passando accanto alla mia barella, mi dirà: “Ho firmato, me ne vado a casa. Meglio morire lì che qui...” Una donna colpita da ictus viene lasciata nuda. Un’altra, in preda a dolori lancinanti alla schiena, dopo un bel po’ viene visitata e si scopre che ha un collasso delle vertebre. Quindi non può più alzarsi per andare in bagno. Le viene messo il pannolone e le viene fatto un clistere: poi viene lasciata sporca per ore. Era accanto a me, ho sentito bene quante volte ha implorato aiuto...»

L’alba è spuntata da un pezzo, il pronto soccorso è sempre strapieno. La signora Vittore nel frattempo ha scattato delle foto in cui si vede in primo piano il piede fasciato (male) e dietro la selva di barelle, tra le quali quella del signore appena defunto. «Alle 8 chiedo di parlare con il medico. Nulla. Allora mi alzo e assumendomi il rischio vado nella stanza dove c’era una dottoressa che mi verrebbe da dire non ha fatto il giuramento di Ippocrate. Sto lì, aspettando di conferire, e lei mi tratta in malo modo dicendo che non posso stare col piede sanguinante, che sporca tutto... Ripete di essere impegnata con un codice rosso, cosa non vera, e a quel punto perdo la pazienza. Lei candidamente risponde “io non so neanche chi è lei”.... Ah bene... Neanche sai chi c’è nel reparto di cui sei responsabile? Le dico che sono lì dalle 8 della sera precedente e vorrei andare in una clinica privata. Mi manda a quel paese. Fatto sta che dopo poco arriva il famoso chirurgo degli arti che mi medica, mette i punti di sutura e spiega tutta la situazione, trattandomi come un essere umano...»

Morale: chi strilla la vince. Triste ma vero. La signora Antonella Vittore è tornata a casa alle 14.30, dopo aver saltellato su un piede fino al taxi... «La prego, scriva tutto. I malati sono abbandonati a se stessi. Medici e infermieri sono pochi, è vero. Ma non basta a spiegare. C’è anche mancanza di umanità, di empatia verso chi soffre...». Una situazione talmente grave da indurre la direzione ad aprire immediatamente un’inchiesta interna, «un audit clinico-organizzativo per appurare la dinamica dell’accaduto», come precisato da un comunicato dell’azienda ospedaliera. Fronte San Camillo, Roma. 

San Camillo, paziente morto dimenticato tra i malati. La direzione: «Dispiace, ma è stato solo per pochi minuti». Fabrizio Peronaci su Il Corriere della Sera il 22 Giugno 2022.

Già conclusa l’inchiesta interna. La direzione: «Le inesattezze ledono l’immagine dell’ospedale». Esclusa la presenza di un secondo defunto.

Diciotto ore «di inferno» al pronto soccorso del San Camillo. Medici e infermieri «sgarbati e noncuranti». Malati disperati, sporchi di feci, imploranti per ore un sorso d’acqua o un antidolorifico. Costretti a firmare le dimissioni e ad andarsene gridando «meglio morire a casa che qui». Racconto-choc, quello della paziente caduta dal motorino, culminato in una «disavventura» da brividi: trovarsi come compagno di barella, «a neanche due metri», in attesa di essere medicata al piede fratturato e sanguinante, un paziente «immobile e dal colorito strano», che in realtà era già morto.

All’indomani della testimonianza-denuncia di Antonella Vittore, la funzionaria di un ente pubblico coinvolta suo malgrado nei fatti accaduti lo scorso 24 maggio nell’ospedale sulla Gianicolense, la direzione sanitaria dell’azienda Forlanini-San Camillo adotta le contromisure e contrattacca. A caldo i vertici dell’ospedale avevano diffuso una nota per annunciare l’apertura di un’inchiesta interna: «È stato attivato un audit clinico organizzativo per appurare la dinamica dell’accaduto. Dispiace molto se la protagonista della vicenda, abbia vissuto una sgradevole esperienza ormai quasi un mese fa. Dai dati in nostro possesso risulterebbe un lasso di tempo breve tra l’ingresso della signora in Pronto Soccorso e la traslazione della salma di un uomo di 95 anni nell’area dedicata». Il comunicato proseguiva sottolineando la dedizione del personale: «Medici e infermieri dell’emergenza lavorano senza sosta per salvare vite e gestire tutte le criticità. Il Pronto Soccorso, come noto, è un luogo ad alta complessità e di sofferenza, dove l’impegno del nostro personale è massimo».

Una prima autodifesa, insomma, mentre erano in corso verifiche. La diretta interessata, nel confermare «parola per parola» quanto raccontato al Corriere, nel frattempo, il giorno dopo, si era detta «un po’ spaventata dall’eco mediatica», ma anche «soddisfatta per aver dato rilievo a una questione che interessa tutti i cittadini e pone in primo piano i diritti dei malati». «Sono pronta a incontrare la dottoressa infastidita dalla mia presenza, che alle 8 di mattina, dopo 12 ore di attesa, mi ha mandata a quel paese quando le chiedevo informazioni sulle mie condizioni di salute -aveva aggiunto Antonella Vittore - e avrei da avanzare anche una richiesta ai vertici del San Camillo. Penso di averne diritto: vorrei essere ascoltata nell’ambito dell’audit che dicono di aver aperto, per fornire la mia versione dei fatti e contribuire a chiarire l’accaduto, in modo che situazioni tanto spiacevoli non tornino a verificarsi».

Un desiderio però - e qui sta la novità delle ultime ore - andato totalmente deluso. I risultati dell’inchiesta interna, infatti, sono stati resi noti già nella serata del 21 giugno. Indagine a tempo di record. Eccoli: l’azienda ospedaliera intanto contesta «inesattezze ed elementi che ledono l’immagine del San Camillo Forlanini» e fa presente che la signora Antonella «è arrivata al pronto soccorso dell’ospedale San Camillo Forlanini dopo essere stata respinta da altri due ospedali. Il triage è avvenuto alle 20.53 e la paziente è stata sottoposta a tampone antigenico rapido, il cui esito è arrivato alle 21.21». Inoltre, «appare pretestuosa la descrizione dell’area nuova del P.S. come “uno stanzone bunker” in quanto trattasi di un’area di recentissima costruzione, ad elevato contenuto tecnologico, paragonabile ad una terapia intensiva».

Prosegue la nota, con riguardo ai tempi: «Come risulta dalla documentazione ufficiale, nei giorni tra il 23 ed il 26 maggio sono morte due persone al San Camillo Forlanini: un uomo di 91 anni deceduto alle ore 6.30 del 24 maggio in area Covid e che, per orario e percorsi (area Covid) non poteva trovarsi accanto alla signora Vittore, e un paziente di 95 anni per il quale è documentato l’arresto cardiaco alle ore 20.20 e l’esecuzione di manovre rianimatorie fino alle ore 21.00 con constatazione del decesso». Tanta meticolosità porta a una conclusione: «Dal momento che la Sig.ra Vittore non può aver lasciato l’area di pre-triage prima delle ore 21.21 e che l’osservazione elettrocardiografica si è conclusa, in presenza di un operatore sanitario, alle ore 21.29, si può dedurre che la presenza in contemporanea della salma e della signora sia stata limitata a pochissimi minuti».

Ma non è finita. L’audit aperto e chiuso tanto rapidamente dalla direzione del San Camillo ha inteso fare chiarezza anche su un possibile giallo che si era aperto attorno all’identità della persona deceduta nella barella vicina a quella della testimone: «Il morto che ho visto io, immobile, a torso nudo, con la faccia rivolta al soffitto, non aveva assolutamente 95 anni. Un anziano quasi centenario lo si riconosce. Il defunto a due metri di distanza da me era anziano, ma non tanto. Probabilmente si parla di due decessi diversi, avvenuti nelle stesse ore, nel caos di quella serata», aveva premesso Antonella Vittore, per poi aggiungere: «Mi stupisce che la direzione di un’azienda ospedaliera di tale prestigio si soffermi sull’età del defunto e non sulla questione ben più grave che il signore sia stato lasciato scoperto per un’ora con un lenzuolo che lo copriva fino alla cintola».

Su quest’ultimo punto (l’aver lasciato scoperto il cadavere, sotto gli occhi dei presenti) l’audit non si pronuncia, ma sull’ipotesi di un secondo morto al pronto soccorso sì. E in modo categorico: è stata la signora a sbagliarsi. L’unico possibile è il 95enne. «È destituita di fondamento l’affermazione inerente la presenza di una ulteriore salma più giovane», smentiscono i vertici dell’ospedale, che concludono con una nota vagamente ironica: «Si precisa, infine, che l’esperienza, pur estremamente traumatica, vissuta dalla signora non pare aver intaccato il rapporto fiduciario con la struttura in quanto la stessa signora Vittore si è recata ai due controlli ambulatoriali programmati in sede di pronto soccorso» nelle settimane successive. 

Michela Allegri per il Messaggero l'11 maggio 2022.

Dopo tre giorni di dolori lancinanti allo stomaco, che non passavano utilizzando gastroprotettori e farmaci antireflusso, era andato al pronto soccorso per chiedere aiuto. Lì, invece di diagnosticargli un infarto acuto in atto, lo avevano dimesso troppo in fretta, rimandandolo a casa con alcune raccomandazioni: seguire una dieta leggera e insistere con la terapia. E lui, un cinquantatreenne romano, era tornato nel suo appartamento quasi sollevato: sofferente, ma convinto di non avere nessuna malattia grave. 

Giuseppe Mura, operaio di Primavalle, addetto alle pulizie nel reparto assistenza volo dell'aeroporto di Ciampino, era morto la mattina successiva, sei ore dopo il mancato ricovero: è stato stroncato da un attacco cardiaco che si è protratto.

Una patologia grave e acuta che, secondo il pubblico ministero Vincenzo Barba, si sarebbe potuta curare con una diagnosi tempestiva e un trattamento farmacologico adeguato. Per questo motivo, ora, il medico che il 25 novembre del 2019 si trovava al triage dell'ospedale Cristo Re è stato rinviato a giudizio dal gup Tamara De Amicis con l'accusa di omicidio colposo.

Dalla cartella clinica sequestrata dalla Procura è emerso che l'infarto in corso era stato scambiato per una epigastralgia, cioè un dolore localizzato tra l'ombelico e la parte alta dell'addome, variabile da persona a persona. Mura sarebbe stato visitato in modo troppo sbrigativo: l'ingresso al pronto soccorso era stato registrato alle 22.50, mentre le dimissioni erano avvenute alle ore 23.47, dopo una lunga attesa prima della visita. 

Ecco diagnosi e prescrizioni: «Dolore addominale epigastrico», «si consiglia Pantorc - un farmaco inibitore della pompa protonica, ndr - a digiuno per un mese», da assumere insieme ad altri medicinali antireflusso da prendere per una settimana: Gaviscon Advance in bustine dopo i pasti e prima di coricarsi per sette giorni, e lo sciroppo Peridon trenta minuti prima di pranzo e cena.

La moglie ha raccontato che l'uomo aveva avuto un altro forte malore tre ore dopo le dimissioni, mentre era a casa, a letto. La morte era stata registrata dal medico legale alle 6,50. Mura ha lasciato un figlio di 18 anni, oltre alla moglie e alla madre. 

Secondo gli inquirenti, il medico di turno, una dottoressa, avrebbe sottovalutato i risultati dell'elettrocardiogramma. Il tracciato, infatti, era «al limite della norma», ma evidenziava due anomalie che non sarebbero state considerate. Nel capo di imputazione si legge che il camice bianco, «discostandosi dalle linee guida del settore», non avrebbe adeguatamente considerato il quadro clinico del paziente: nonostante il «dolore addominale epigastrico da tre giorni, di tipo intermittente», resistente alle terapie, non avrebbe disposto prima il ricovero e poi ulteriori accertamenti.

 E questo «nonostante i sintomi riferiti dal paziente Giuseppe Mura rientrassero nelle possibili manifestazioni atipiche di una sindrome coronarica acuta». Secondo i medici legali incaricati dagli inquirenti di effettuare l'autopsia, l'errore più grave sarebbe stato dimettere il cinquantatreenne: il decesso, per l'accusa, era evitabile. Sarebbe bastata una lettura più accurata dell'elettrocardiogramma. 

 Invece, Mura era morto a causa della rottura di una placca coronarica, avvenuta proprio a ridosso della permanenza in ospedale. I familiari dell'operaio si sono costituiti parte civile con l'avvocato Cesare Piraino. 

Luigi Ferrarella per il "Corriere della Sera" l'11 maggio 2022.

Se a 25 anni, quando nel 2012 era andata dal medico per quella strana insensibilità al lato sinistro, fosse stata avviata dal medico di base a una visita neurologica e a esami specialistici nel sospetto diagnostico che potesse essere l'inizio di quella sclerosi multipla poi individuata soltanto nel 2014, il peggioramento odierno (carrozzina e assistenza continua obbligata) e l'elevato grado di invalidità (80%) patiti già a partire dal 2016-2018 si sarebbero prodotti sì inesorabilmente, a causa del tipo di malattia, ma ben 20 anni dopo.

Ed è per questa ragione che il Tribunale civile di Milano, per la prima volta in giurisprudenza sulla sclerosi multipla ravvisando dunque non (come in sentenze di anni fa a Cremona e Trento) «una perdita di chance da lesione al diritto alla salute», ma «un danno certo», consistente nella «anticipata perdita delle condizioni psicofisiche di cui la paziente avrebbe potuto godere per un certo intervallo temporale con l'effetto di rallentare i tempi di progressivo naturale avanzare della patologia», ha condannato un medico base milanese a risarcirla con oltre 830 mila euro.

All'esito delle consulenze mediche è stato addebitato alla dottoressa «un colpevole ritardo diagnostico» nell'«aver omesso di avviare la 25enne paziente» a visita e esami neurologici, scelta operata dal medico di base perché qualsiasi ulteriore indagine diagnostica le appariva «al momento inopportuna», addirittura «per dubbia simulazione».

Ma in questo modo «i 28 mesi di ritardo diagnostico, periodo sottratto alle migliori terapie praticabili, hanno caratterizzato un davvero molto più precoce "salto" di gravità del carico di lesioni portate dalla patologia, facendo precorrere i tempi della perdita di autonomia motoria e della disabilità» che altrimenti sarebbero intervenute «con una latenza quantomeno di un decennio, fino a 20 anni»: nel senso che l'invalidità sarebbe rimasta attorno al 15% «almeno per un decennio», mentre solo dopo 20 anni sarebbe salita all'80% «invece già attualmente in essere» nella giovane paziente che ha dovuto tra l'altro rinunciare a una promettente carriera universitaria proprio nel campo della medicina.

Questa «anticipazione di una peggiore qualità della vita» è il punto più innovativo della sentenza, laddove il giudice Angelo Ricciardi scrive che qui «non si tratta di perdita di chance» intesa come «privazione della possibilità di un maggiore risultato sperato, incerto e eventuale» (come la maggiore durata di vita o la minore sofferenza), bensì di «un danno certo, consolidato e quantificabile» nelle «migliori condizioni di vita fisiche e psicologiche di cui la paziente avrebbe beneficiato» se «tempestiva» fosse stata la diagnosi e «sollecita» la somministrazione della terapia.

«La mia sola speranza - è il commento della giovane, riferito dalla sua avvocato Sabrina Lezzi che l'ha assistita con il collega Francesco Campanale - è che casi come il mio possano uno dopo l'altro non far perire mai la scintilla del dubbio in qualunque persona si fregi del titolo di dottore. Il dubbio è umano, e se nell'esercitare la nostra professione, qualunque essa sia, cominciamo a trascurarlo, beh quella non può più dirsi una professione di cura».

Pa.Ru. per “la Stampa” il 6 maggio 2022. 

Fino ad ora sapevamo che ad ogni ondata sono saltate milioni di prestazioni, dai ricoveri alle visite, agli accertamenti diagnostici. Ora si conferma che per non rinunciare all'assistenza sanitaria tocca mettersi in fila per mesi. In alcuni casi anni. Quasi due anni di attesa per una mammografia, circa un anno per un'ecografia, una Tac o un intervento ortopedico. E a rinunciare alle cure nel corso del 2021 è stato più di un cittadino su dieci. Screening oncologici in ritardo in oltre la metà dei territori regionali e coperture in calo per i vaccini ordinari.

È il lascito della pandemia, un'emergenza che ancora non abbiamo superato, come mostra il «Rapporto civico sulla salute. I diritti dei cittadini e il federalismo in sanità», presentato da Cittadinanzattiva, basato su 13.748 segnalazioni giunte nel corso del 2021, al servizio PiT Salute e alle 330 sezioni territoriali del Tribunale per i diritti del malato. 

Il maggior numero di problemi sono stati segnalati rispetto a l'accesso alle prestazioni (23,8%), la prevenzione (19,7%), l'assistenza territoriale (17,4%), l'assistenza ospedaliera e la mobilità sanitaria (11,4%). Ma il tallone di Achille erano e restano le liste d'attesa.

Fino a 720 giorni per una mammografia, circa un anno per ecografie e Tac, sei mesi per una risonanza, 100 giorni per una colonscopia. Ma si attende un anno anche per una visita dal diabetologo, 300 giorni per farsi visitare da un dermatologo, un reumatologo o un endocrinologo. Persino per l'oncologo, che si presuppone sottenda qualche urgenza, si aspettano anche più di due mesi. Un anno si può aspettare per un intervento chirurgico al cuore o per riparare una frattura, 180 giorni per operare un tumore.

Tempi di attesa biblici che spesso si traducono in prestazioni negate. Secondo le analisi di Corte dei Conti e Agenas-Sant' Anna di Pisa, fra il 2019 e il 2020 si sono perse per strada 144,5 milioni di prestazioni ambulatoriali, mentre il volume dei ricoveri totali erogati (ordinari e in Day Hospital) nelle strutture pubbliche o private si è ridotto di circa un milione e 775 mila prestazioni. Nel 2021, l'11,0% delle persone ha dichiarato di aver rinunciato a visite ed esami per problemi economici o legati alle difficoltà di accesso al servizio.

A livello regionale, permangono alcune situazioni particolarmente critiche, ad esempio in Sardegna dove la percentuale sale al 18,3%, con un aumento di 6,6 punti percentuali rispetto al 2019; in Abruzzo la quota si stima pari al 13,8%; in Molise e nel Lazio la quota è pari al 13,2% con un aumento di circa 5 punti percentuali rispetto a due anni prima. Per il 57% delle regioni si segnala la sospensione o l'interruzione del normale svolgimento degli screening per tumore alla mammella, alla cervice, al colon retto. I danni dell'interruttore della prevenzione posizionato su «off» li vedremo con il tempo.

Roma, storie di Pronto soccorso. Il medico (e paziente in attesa): «Mi vergogno del mio ospedale». Un medico del S.Spirito su Il Corriere della Sera il 28 Maggio 2022. 

Un dottore del Santo Spirito racconta il «suo» ospedale dopo una giornata da paziente: «Sono finito in mano ai colleghi dopo un incidente in moto. Undici ore di attesa su una panca. La politica intervenga, servono concorsi». 

Dopo il caso della signora ultraottantenne, professoressa in pensione, lasciata l’intera giornata del 22 maggio in attesa di una visita all’ospedale Santo Spirito, nonostante un occlusione intestinale in corso, esplode la polemica sulla gestione delle urgenze sanitarie in città. Ospitiamo la lettera al direttore del Corriere di un medico del Santo Spirito che ha avuto la ventura di sperimentare l’altro lato della «barricata», come utente del «suo» pronto soccorso, proprio nella stessa giornata. Disagi, attesa (11 ore) e senso di sconforto per l’inadeguatezza del servizio sanitario sono stati gli stessi. (fpe)

Caro direttore,

ho letto l’articolo di Fabrizio Peronaci sulle disavventure occorse alla mamma e ho deciso di scriverle della mia, avvenute a partire dalle 11.30 di domenica 22 maggio. Sono entrato nel pronto soccorso del Santo Spirito qualche minuto dopo la mamma del giornalista. Ci sono entrato da paziente, pur essendo un medico dello stesso ospedale, finito quindi nelle mani dei colleghi. Ero reduce da un incidente in moto. Ero caduto battendo anche la testa (benedetto casco!).

Mi sono fatto accompagnare al Pronto Soccorso perché, a parte il dolore all’anca, avevo cefalea e diplopia, sintomi di commozione cerebrale. Sono arrivato al PS e mi è stato chiesto di sedermi su una panca e attendere. Così ho vissuto le medesime dilazioni toccate alla madre del suo giornalista, uscendone alle ore 22.44. Ho assistito a molte più scene di quelle descritte, che mi hanno fatto vergognare. Ringrazio il suo collaboratore per non aver infierito su colleghi e infermieri, perché anche noi siamo vittime della Malasanità politica. Si può organizzare bene anche con poche risorse, ma occorrono umiltà, preparazione e senso della «cosa pubblica».

Nell’articolo si punta l’indice «più su» della direzione ed è giustissimo, perché in quasi 20 anni ho visto ripetersi ciclicamente queste situazioni. Eppure il legislatore regionale dal 2011 ha stabilito i requisiti minimi strumentali e di personale di ogni struttura sanitaria. Occorrerebbe applicarlo senza chiedere compromessi al singolo Direttore o medico, perché con la pandemia abbiamo visto bene le conseguenze dei tagli. Occorrerebbe pianificare la domanda di salute con l’offerta di salute e acquisire tutte le professionalità necessarie, dall’Oss al medico. Non con esternalizzazioni (soluzioni temporanee) ma con concorsi. Purtroppo ormai i calcoli li fa solo l’Istat, non certo i politici. E così per il Pnrr da 34 miliardi per la Sanità siamo passati a meno della metà, assolutamente insufficiente! Termino informandola di una certezza: dal 2013 il direttore generale della Asl (prima Asl Rm E e poi Asl Roma 1), non è cambiato.

L’inferno in corsia degli infermieri. “Botte e insulti, aggredito uno su tre”. Michele Bocci su La Repubblica il 24 maggio 2022.

Non solo le botte e i vandalismi: spinte, schiaffi, cazzotti e calci, abbinati anche da porte spaccate e attrezzature mediche buttate in terra. La violenza di pazienti o loro accompagnatori dentro ospedali e strutture sanitarie spesso è verbale. Si tratta di un flusso continuo. Offese pesanti e minacce sono all’ordine del giorno. Spesso vengono indirizzate agli infermieri, cioè i professionisti che stanno più a contatto con i malati nei reparti nelle sale di attesa degli ambulatori: per chi lavora in certi settori, gli insulti sono pane quotidiano.

Una ricerca appena pubblicata fa comprendere la portata del fenomeno. Il 32,3% degli infermieri, cioè quasi 130 mila persone, dichiara di aver subito un episodio di violenza solo nell’ultimo anno. I reparti più colpiti sono stati le medicine, i pronto soccorso e le rianimazioni. Il dato di coloro che ogni dodici mesi segnalano all’Inail un infortunio sul lavoro legato appunto a una violenza è molto più basso, cioè circa 5 mila.

Tre quarti delle vittime sono donne e nel 70% dei casi si tratta di violenza verbale. Il 30% delle volte invece c’è stato anche il contatto fisico. A realizzare lo studio promosso dall’Università di Genova sono stati otto atenei. Ed è stato impiegato un ampio campione di infermieri, quasi 6 mila persone.

A volte la violenza esplode contro le stesse strutture. Lunedì notte, ad esempio, all’ingresso del pronto soccorso dell’ospedale del Mare di Napoli, un uomo ha sferrato calci alla porta di ingresso perché pretendeva di entrare. È stato denunciato. «Come dimostra il lavoro scientifico, ci sono innumerevoli situazioni che aumentano la percezione di pericolo, alla cui base c’è sicuramente la carenza di personale che, proprio da questa ricerca, emerge in modo chiaro», dice Barbara Mangiacavalli, la presidente della Federazione degli infermieri.

Spesso, come dicono i dati Inail, si preferisce non denunciare e si cerca di sopportare lo stress provocato dalle violenze che per qualcuno, ormai, fanno parte del lavoro. Sono infatti solo il 54% coloro che hanno segnalato gli episodi di offese o aggressioni. Circa i due terzi di chi ha taciuto ha ritenuto che la violenza fosse legata alle condizioni dell’assistito e circa il 19% pensa, appunto, che il rischio sia una caratteristica dell’impiego. Il 20% dei professionisti non hanno avvistato neanche la loro azienda perché erano convinti che tanto non avrebbero ricevuto risposta.

Ma qual è l’identikit degli aggressori? Intanto sono più numerosi gli uomini, ma non di tanto visto che rappresentano il 52%. Circa il 25% ha tra i 46 e i 55 anni, il 21% tra i 36 e i 45. «Gli infermieri conoscono i tratti e le caratteristiche di un potenziale comportamento di aggressione — spiega la coordinatrice dello studio, Annamaria Bagnasco — Tuttavia, per varie ragioni, non riescono a intercettare e prevenire questi episodi. E una delle concause è la comunicazione inadeguata tra il personale e l’assistito, o il suo l’accompagnatore».

L'infermiere / “Io, preso a calci ma voglio restare in prima linea"

Andrea Zanella, 43 anni, fa l’infermiere ed è rimasto a casa per due mesi a casa per un calcio.

Cosa è successo?

"Un paziente qui al pronto soccorso di Varese mi ha colpito al collo e mi ha spostato una vertebra".

Le è capitato spesso di essere aggredito?

"Verbalmente molte volte, poi ci sono stati spintoni di parenti. In due casi ho subito un’aggressione, con esiti pesanti".

Perché quel paziente l’ha colpita?

"Era un ragazzo in stato di agitazione, probabilmente aveva preso stupefacenti. Ha cercato di colpirmi più volte al viso e al corpo. In una situazione del genere vorresti reagire ma io, ovviamente, non l’ho fatto. Ho solo cercato di fermarlo. Si è divincolato e mi ha dato calcio. Ho avuto conseguenze serie".

Dopo quanto successo ha chiesto di farsi spostare di reparto?

"Non ci penso nemmeno. Lavoro da 17 anni al pronto soccorso e so che queste cose possono succedere. Non sono accettabili ma capitano".

L'infermiera / “Stress da triage, ricevo minacce ogni giorno”

Non un’aggressione verbale all’anno. Ma una al giorno. Capita se stai al triage del pronto soccorso, come Martina Bianchi, 36 anni, che lavora al Torregalli di Firenze.

Cosa le dicono?

"Frasi di vario tipo: si va dalle offese personali alle minacce. Dove sto io, a ricevere i pazienti quando arrivano e poi di fronte ai parenti in attesa, siamo esposti all’ansia e alla paura dei familiari".

Cosa fa in caso di aggressione verbale?

"Il problema è che spesso se qualcuno si innervosisce può fomentare anche gli altri. Cerchiamo di calmarli, altrimenti avvertiamo i colleghi e se la situazione è ingestibile, chiamiamo la vigilanza".

Ha fatto mai denunce?

"No, ma questi problemi fanno così parte del lavoro che la nostra Asl ha creato una procedura per segnalarli all’interno. Ne parliamo tra noi e ci serve a sopportare tutto meglio, a ridurre i danni da stress. Siamo delle persone, non siamo eroi".

Davvero ogni giorno c’è chi vi offende?

"Anche più spesso, diciamo una volta per turno".

Infermieri, la fuga da Rsa e ospedali: in Lombardia ne mancano 9.500. Sara Bettoni su Il Corriere della Sera il 12 Maggio 2022.

La riforma sanitaria «apre» 4.800 posizioni: il nodo di come coprire il vuoto generato nell’era Covid. L’obiettivo: potenziare le cure tra case e ospedali di comunità.

Dalle nascenti case di comunità alle residenze per anziani, dagli ospedali ai servizi a domicilio: gli infermieri sono sempre più richiesti. Non ce ne sono abbastanza, però, per tutti i posti disponibili. La Fnopi (Federazione nazionale degli ordini delle professioni infermieristiche) calcola che ne manchino 60 mila in Italia, senza contare quelli previsti dal Piano nazionale di ripresa e resilienza. Per quanto riguarda la Lombardia, la stima è stata fatta dal gruppo Pd in Regione in occasione della giornata internazionale che proprio oggi celebra questa figura. Solo le Rsa ne avrebbero bisogno 3.500, le strutture di cura future altri 4.800, mentre ce ne sono già al lavoro circa 54 mila (il dato è aggiornato al 2019). Considerando le carenze in ambito ospedaliero, si arriva a 9.500.

I fondi del Pnrr

Il Pirellone ha da poco varato una riforma innestata sul Pnrr che ha l’obiettivo di potenziare la sanità «a chilometro zero». Si stanno inaugurando case e ospedali di comunità, centrali operative territoriali che si affiancheranno agli hospice esistenti e alle unità speciali di continuità assistenziali. Poli con funzioni diverse e precisi fabbisogni di personale, stabiliti dall’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali. Rispettando questi criteri, si arriva a 4.807 professionisti per popolare la nuova rete di cure. Dove trovarli? Con l’emergenza Covid, il settore pubblico ha sbloccato le assunzioni e raccolto la quasi totalità delle figure disponibili. Ospedali e cliniche privati faticano ora a riempire di lavoratori le corsie e ancor di più le case di riposo, dove per gli infermieri può essere difficile trovare gratificazioni. Ma secondo i rappresentanti della categoria è la professione nel suo complesso ad essere meno attrattiva e ad aver bisogno di un rilancio.

Il percorso formativo

Alcune idee in questa direzione arrivano dalla politica. Carmela Rozza, consigliera regionale pd e infermiera, spiega le criticità: «Il percorso formativo è impegnativo, il mestiere pure, le responsabilità sono elevate e gli stipendi non all’altezza. Chiaro che i giovani scelgano altre strade. Al momento la legge di riforma sanitaria non spende una parola a favore di questi lavoratori». Come incentivo, il Pd propone di permettere loro di ricoprire incarichi dirigenziali di maggior rilievo. «Chiediamo di istituire negli ospedali pubblici la figura del direttore assistenziale — spiega Rozza — alla pari con il direttore amministrativo, sanitario e socio-sanitario e subordinato solo al direttore generale». Dovrà essere scelto «tra coloro che posseggono una laurea magistrale delle professioni sanitarie», recita il progetto di legge che è stato depositato il 7 aprile scorso. In Italia ci sono già modelli da guardare e imitare. «Il direttore assistenziale è presente in Emilia-Romagna e in Liguria — ricorda la consigliera — e vorremmo proporlo anche a livello nazionale».

La definizione dei ruoli

Ecco alcuni dei compiti che dovrebbe avere: «partecipare alla definizione della policy aziendale, con particolare riferimento alla valorizzazione delle professioni afferenti alla direzione»; «partecipare al processo di pianificazione strategica, collaborando in stretta sinergia con il direttore sanitario nella ricerca degli assetti organizzativi più adeguati alla evoluzione dei bisogni della popolazione». Una diversa strategia è stata immaginata dal mondo delle Rsa. Nei giorni scorsi Luca Degani, presidente lombardo dell’associazione di categoria Uneba, in un’intervista al Corriere accennava alla possibilità di assumere personale dal Sud America come soluzione tampone. «Stiamo dialogando con alcune università locali». L’idea di più ampio respiro, invece, è quella di ridefinire i ruoli nelle strutture di cura per anziani e disabili introducendo l’operatore socio-sanitario specializzato. Si tratta di una figura intermedia tra l’infermiere e l’operatore socio-sanitario, da formare in tempi brevi.

Il direttore assistenziale

La Federazione degli ordini punta su una terza strada. La presidente Barbara Mangiacavalli è netta: «Non siamo disponibili a discutere di palliativi. Servono risposte strutturali». A proposito della creazione del direttore assistenziale negli ospedali, sottolinea: «Il percorso legislativo in Emilia è stato lungo, con il coinvolgimento di tutti gli attori interessati. È una possibilità anche per la Lombardia, ma non immediata». Meglio sarebbe scommettere su una carriera di tipo clinico-assistenziale anche per gli infermieri. «Abbiamo bisogno di lauree magistrali che potenzino queste competenze. La professione non è ambita: lo vediamo da posti che rimangono vuoti nei corsi di laurea nelle università. Dobbiamo prenderne atto e riposizionare tutto il sistema su nuovi modelli». 

Paolo Rosso per la stampa.it il 18 maggio 2022.

I pronto soccorso hanno già alzato bandiera bianca, gli altri reparti li seguiranno a ruota perché, tra malati Covid ancora da gestire e pazienti che reclamano un letto dopo essersi tenuti alla larga dalle corsie per paura del virus, i nostri ospedali sono prossimi al collasso. 

Colpa dei posti letto tagliati con l’accetta, 40 mila negli ultimi dieci anni. Ma la prima causa è la carenza di medici. Per questo al ministero della Salute si sta studiando un piano per ripopolare i reparti. L’idea è assumere in pianta stabile gli specializzandi del terzo, quarto e quinto anno, «strappandoli» alle Università, che ovviamente fanno muro. Una forza lavoro di 15 mila giovani camici bianchi che potrebbe tappare più di una falla.

«Per anni abbiamo avuto poche borse di studio per gli specializzandi ma ora ne abbiamo finanziate 30 mila in 24 mesi, il triplo di tre anni fa», ha ricordato il ministro Roberto Speranza ai medici dell’emergenza e urgenza di Simeu, la società scientifica con la quale il dicastero ha aperto un tavolo di confronto. «Affinché queste nuove risorse siano disponibili servono però ancora un po’ di anni, nel frattempo occorrerà lavorare utilizzando anche gli specializzandi per porre rimedio alle situazioni più complesse», ha aggiunto scoprendo le carte il titolare della Salute. 

Quello che chiedono i camici bianchi «è che a partire dal terzo anno gli specializzandi entrino direttamente negli ospedali inquadrati come dirigenti medici in formazione», spiega il presidente Simeu, Fabio De Iaco. «Ovviamente a ciascuno verrà assegnato un ruolo rapportato al proprio grado di formazione raggiunta, ma i giovani devono poter lavorare anche al di fuori dei Policlinici universitari», aggiunge.

In via teorica e con molti limiti, come quello di dover essere affiancati da un tutor, sarebbe già così. Con il decreto Calabria e un successivo provvedimento voluto dal ministro Speranza - spiega il segretario nazionale dell’Anaao, Carlo Palermo - già ora i giovani specializzandi potrebbero essere utilizzati negli ospedali, facendo 32 ore di lavoro e 6 di formazione, previa approvazione da parte dell’Università dei progetti formativi». Ma tutto si è bloccato «perché gli Atenei non li stanno firmando per non perdere forza lavoro». 

L’Anaao chiede ora di «superare queste pastoie» ma di far saltare anche i tetti di spesa per il personale che legano le mani a chi deve assumere. «Mi sto battendo per superare questi limiti», ha ripetuto Speranza davanti alla platea di camici bianchi dei pronto soccorso. Ma ora dovrà spuntarla con il Tesoro, che si tiene ancorato a quel riferimento alla spesa del 2004 diminuita dell’1,4%, «che è quantomeno anacronistico», commenta Palermo. Il quale punta l’indice anche contro un altro tetto, quello che congela ai livelli del 2017 il salario accessorio. Cose come straordinari, indennità notturne e di festività, premi. E Speranza sta combattendo per togliere anche questa tagliola, altrimenti sarà difficile porre un freno all’emorragia di medici.

Da 10 anni in mille se ne vanno all’estero attratti da stipendi che in Europa occidentale si aggirano sugli ottomila euro netti mensili contro i nostri tremila, che scendono a 2.500 a inizio carriera. Considerando che la formazione universitaria di ogni giovane dottore costa sui 150 mila euro è come se regalassimo ogni anno mille Ferrari ai nostri vicini. E dal 2019 al 2021, tra pensionamenti e autolicenziamenti, ad appendere il camice al chiodo sono stati in 20 mila, dicono i numeri dell’Anaao. Per fronteggiare la pandemia sono stati assunti novemila medici, ma di questi solo 1.350 a tempo indeterminato, ha certificato la Corte dei Conti. E tra i contratti in scadenza ci sono anche parecchi pensionati che torneranno liberi. 

Nei pronto soccorso poi lasciano in 100 al mese, che è come se ne chiudessero ogni volta 4 o 5, documenta Simeu. Che chiede anche riconoscimenti economici per quei 12 mila che, tra una defezione e l’altra, devono fronteggiare 21 milioni di accessi all’anno nel girone infermale che sono diventati i dipartimenti di emergenza e urgenza dei nostri ospedali.

Da romatoday.it il 18 maggio 2022.

Parlare di emergenza sarebbe allarmistico, ma il dato - comunque preoccupante - resta. Nella giornata di ieri, lunedì 16 maggio, a Roma sono state segnalate oltre 40 ambulanze con pazienti a bordo in attesa di ricovero. Mezzi bloccati fuori dagli ospedali perché i pronto soccorso dei plessi della capitale erano pieni, in quello che i sindacati, che già ad aprile scorso avevano denunciato una questione simile, chiamano il fenomeno del 'blocco barella'. 

Il 'blocco barella' è una la condizione in cui un pronto soccorso di un ospedale, non avendo più a disposizione posti letto per accogliere le persone trasportate dalle ambulanze di emergenza, inizia ad assistere le persone sulle barelle delle ambulanze come se fossero letti di ospedale. Una condizione, quindi, che trasforma i mezzi in punti di soccorso mobili e di fortuna, conseguenze a pronto soccorso pieni. Uno scenario visto già in epoca covid. I livelli attuali, fortunatamente, non raggiungono quei picchi ma il sindacato NurSind 118 non vuole abbassare la guardia: "In media abbiamo 10 o 15 mezzi bloccati in attesa, ogni giorno.

Ieri abbiamo si segnalato forti disagi nei pronto soccorso della Capitale con blocchi ambulanza praticamente in quasi tutti gli ospedali con picchi di circa 40 mezzi contemporaneamente bloccati in attesa della restituzione della barella o, addirittura, dell'accettazione del paziente. Criticità e disagi anche a Latina e provincia con numerose ambulanze bloccate. 

Il fenomeno del "blocco barella" continua e purtroppo ancora nulla sembra essere cambiato", commenta il sindacalista Alessandro Saulini, segretario NurSind Ares 118. Le situazioni più "calde" quelle al Sant'Andrea, all'Umberto I, al Gemelli, al Pertini e San Giovanni. Solamente la settimana precedente, i carabinieri dei Nas hanno fatto visita per due e in alcuni casi tre giorni, nei plessi ospedalieri di Roma. Sei in possesso di patente D CQC? Cercasi 20 autisti di autolinee.

Scopri come candidarti Vedi Annuncio Contenuto Sponsor "Tutto questo disagio comporta inevitabilmente gravi criticità e ripercussioni per il sistema 118 che di fatto si trova a gestire le numerose richieste di soccorso con un numero insufficiente di mezzi e personale". Secondo il sindacato servirebbero "assunzioni da effettuarsi attraverso procedure concorsuali urgenti e manifestazione di interesse ponte, in attesa del concorso stesso e che riconoscano le esperienze e le competenze professionali acquisite nel tempo da chi opera da anni".

LA DENUNCIA. Lecce, 9 ore d’attesa per una trasfusione: «Mancava il personale che portasse le sacche all'Oncologico». Le due strutture distano appena 400 metri, la protesta dei pazienti. Emanuela Tommasi su La Gazzetta del Mezzogiorno il 25 Maggio 2022.

Nove ore d’attesa per una trasfusione programmata, quelle necessarie a lenire le sofferenze a chi soffre di diverse patologie del sangue e non può affrontare alcuna altra terapia. La denuncia viene da Gigi Pedone, a nome suo e di altri pazienti i quali, ieri, hanno dovuto affrontare quest’altra sofferenza. «Premetto che Ematologia di Lecce può essere benissimo inclusa tra le strutture di eccellenza in Italia - dice Pedone - diretta dal dottor Nicola Di Renzo di fama nazionale, e non solo; coadiuvato da personale medico preparatissimo e scrupoloso; lo stesso dicasi per il personale infermieristico, qualificato e sempre disponibile».

«Detto questo - prosegue - denuncio due episodi gravi capitati a me e a tanti altri pazienti. Convocati per le trasfusioni di sangue o di piastrine e altro, abbiamo dovuto aspettare 8-9 ore perché non c’era personale che portasse le sacche dal Centro trasfusionale presso l’ospedale “Vito Fazzi”, a circa 400 metri di distanza, all’Oncologico. Una cosa inaudita - sottolinea - causata dalla carenza di personale. Può succedere una cosa simile? È accaduta. Ed oggi (ieri, ndr) non ne ho potuto più e mi son messo a protestare come un folle, non solo per il torto subìto da me ma anche per tanti altri come me. E molte di queste persone vengono dai comuni della provincia, col disagio che sono costretti a sopportare».

Si tratta di pazienti che devono affrontare trasfusioni con cadenza anche settimanale, con tutti i disagi che la situazione comporta.

«E così ho inviato messaggi al presidente regionale Michele Emiliano - fa sapere Gigi Pedone - all’assessore regionale alla Sanità Rocco Palese, al dottore Rodolfo Rollo, direttore generale dell’Asl, a Luigino Sergio, amministratore delegato di Sanità Service. Mi ha risposto subito Rocco Palese, dicendo che stanno facendo l’impossibile per eliminare situazioni di criticità simili».

«Io, per la mia esperienza di paziente quasi quotidiano, non ne posso più di impegni e di parole - continua sconfortato - Ci vogliono fatti concreti e subito. Trovo pertanto quasi un insulto a tutti gli italiani che vengano sottratti soldi anche alla sanità per aumentare le spese militari».

Ma Gigi Pedone sostiene che disservizi come questo possano essere risolti, almeno nell’immediato, razionalizzando la distribuzione del personale in servizio nell’Azienda sanitaria. Per esempio, aggiunge, destinando ai reparti ospedalieri quelle unità che risultano più numerose negli uffici amministrativi. «Ieri, in Ematologia, era in servizio un solo infermiere - aggiunge - che doveva provvedere a tutte le incombenze e le necessità. Una situazione che non è tollerabile nè da parte di chi lavora nè da parte dei pazienti, i quali hanno già condizioni di fragilità fisiche e psicologiche».

Restando in materia di disservizi, ma passando ad altra questione, è da segnalare l’insolita situazione di quanti hanno bisogno di una visita specialistica o indagini strumentali urgenti, per i quali il medico curate, nell’apposita richiesta, chiede che venga evasa in 10 giorni. Ma quella che è una necessità diventa un terno al lotto, una possibilità destinata ai pochi fortunati che accedono alle sportello alle 7.45. Solo a quell’ora si può sperare di trovare qualche possibilità, e neanche sempre, secondo quanto spiegano gli impiegati agli sconcertati pazienti, ai quali non resta che attrezzarsi per una soluzione più veloce. 

Bari, al Di Venere 18 ore di attesa: «Mio padre dimesso peggio di come l'ho portato». «È stato mortificante, al limite del vivere civile. Mi chiedo: ma noi meritiamo tutto questo? Questa è la nostra sanità?» Flavio Campanella  su La Gazzetta del Mezzogiorno il 15 maggio 2022.

La carenza di personale ha ricadute pesanti negli ospedali. Nei Pronto soccorso, poi, la situazione a volte è addirittura drammatica. Mentre le autorità studiano come affrontare l’esodo dei camici bianchi (tra pensione, richieste di trasferimento e dimissioni) senza avere un ricambio adeguato («la situazione attuale è tale che se volessimo assumere al Pronto soccorso dieci medici specializzati non li troveremmo», ha affermato recentemente Vito Montanaro il direttore del Dipartimento Salute della Regione Puglia), i reparti di emergenza e urgenza dei presidi baresi sono spesso in grave sofferenza, anche per mancanza di posti letto nei reparti. La Gazzetta ha raccontato recentemente il caso di una malata rara, costretta ad attendere ben 19 ore prima di essere trasferita nel reparto di Neurologia del Policlinico. Stavolta la storia si è svolta in un luogo diverso: nel mirino del figlio di un paziente è finito il Pronto soccorso del Di Venere. 

DENUNCIA L’episodio è avvenuto qualche giorno fa allorquando, in tarda mattinata, Francesco Gatto ha accompagnato il padre ultraottantenne, gravato da svariate patologie. «Arriviamo alle 13 - racconta -. Lui è in stato confusionale con febbre e forti tremori. Viene immediatamente sottoposto a tampone antigenico di rito e, risultando negativo, trasferito in codice arancione nelle stanze adibite al primo soccorso. Si susseguono lunghissime ore di attesa, durante le quali, con cadenza di circa tre ore, provvedo a chiedere con la massima cortesia informazioni al personale incaricato, il quale mi rassicura chiedendomi di aspettare novità che mi saranno prontamente comunicate. Insieme a me c’è mia madre, anch’ella non proprio giovane, ma intenzionata ad attendere notizie sullo stato di salute del marito che non lascerebbe mai da solo, soprattutto perché infermo. Trascorre inesorabilmente l’intero pomeriggio, durante il quale si aspetta che qualche posto a sedere possa liberarsi per far riposare il fisico dopo una lunga e logorante attesa. Ma non so ancora quello che si profilerà all’orizzonte». 

SERA Si fa sera e ormai le ore di attesa sono più di 10. «Ci si avvia verso la notte - continua Gatto - e alle 23.30 circa invito il solerte vigilante, che vieta in modo maniacale ai parenti dei malati di avvicinarsi alla vetrata di accesso alle stanze del Pronto Soccorso, a verificare lo stato di salute di mio padre, quantomeno per avere la rassicurazione che sia in vita e che abbia ricevuto la giusta idratazione alla luce della febbre alta che lo ha colpito. Riesco a parlare con una gentile infermiera che mi riferisce come siano terminati gli esami di routine e sia stata disposta una angio tac polmonare. A questo punto sono passate esattamente 11 ore dal nostro arrivo, tanto che mia madre, stanca e disperata, chiede di poter almeno vedere un attimo il marito, anche per rassicurarlo circa la nostra presenza. Viene concessa questa grazia per un minuto di orologio, abbastanza per rendersi conto che mio padre si trova nel letto con la sola coperta portata da casa, non avendo ricevuto altro che una mezza flebo e nemmeno un bicchiere d’acqua. Non parliamo della terapia farmacologica immediatamente comunicata al momento dell’accettazione, totalmente ignorata per tutta la giornata». 

NOTTE Cala la notte. «Mentre si è ancora in attesa di comunicazioni - aggiunge Gatto - il vigilante si allontana. Comincia a fare freddo e l’unica sedia posizionata in un punto meno ventilato del Pronto Soccorso viene divisa a ore alterne da me e mia madre. Alle 3 non arriva quasi più nessuno, la stanchezza e la preoccupazione salgono, ma di mio padre nessuna notizia. Alle 4 stranamente non c’è più nessuno all’accettazione, c’è un misterioso silenzio nel reparto, se fossi in malafede penserei che il personale sia andato a schiacciare un pisolino, ma così non è, staranno sicuramente lavorando lontano dai nostri occhi. Mi faccio coraggio: intravedo un infermiere, lo supplico di darmi informazioni, gli dico che io e mia madre aspettiamo dalle 13 e non capiamo per quale motivo non si sia provveduto al ricovero di mio padre, tenendo anche noi all’esterno in estenuante attesa. Affranto, mi riferisce che purtroppo va così, mio padre ha fatto altre due tac e ci vuole del tempo per il referto: bisogna aspettare. Cosicché passano le 5 e comincia ad albeggiare. Siamo a pezzi, penso che tra un po' dovrò ricoverare mia madre che non si regge più in piedi. Alle 6 ricomincia il viavai, ma di mio padre nessuna notizia. Soltanto alle 7 arriva l’esito. “Il paziente può tornare a casa: antibiotico e tachipirina”». 

DIMISSIONE Dopo 18 ore di attesa, il paziente viene dimesso. Ma ai disagi secondo Gatto si aggiunge la beffa. «Mio padre - prosegue Gatto - esce dal Pronto Soccorso in barella e con la sola coperta con la quale è uscito di casa. È sfinito, sta peggio di come l’ho portato. Chiedo al medico se sia normale che rientri in queste condizioni e la risposta è serafica: parli con il medico curante. Proprio il medico curante che aveva disposto la base di ricovero! Torniamo a casa in ambulanza, affittata a pagamento per consentire a mio padre di mettersi nel letto con l’ausilio di personale specializzato, visto che non riesce a deambulare. Che dire? Un’esperienza indimenticabile, mortificante, al limite del vivere civile. Mi chiedo: ma noi meritiamo tutto questo? Questa è la nostra sanità? Sono certo che la mia, purtroppo, resterà solo un’amara attestazione di quello che attende chiunque abbia disgraziatamente bisogno di cure. Ho vissuto un incubo, una odissea scandalosa da affrontare nel 2022».

LA REPLICA DEL DI VENERE

In riferimento a quanto riportato nell’articolo della Gazzetta del Mezzogiorno, dal titolo «L'odissea al Di Venere diciotto ore di attesa», si precisa che l’iter seguito risponde in modo puntuale all’obiettivo di consentire al paziente in condizione di fragilità la dimissione protetta, in completa sicurezza, ove non sia necessario o inappropriato – così come risultato – il ricovero ospedaliero. 

Così in una nota arriva la precisazione è del dott. Giovanni Finestrone direttore facente funzione del ps ospedale Di Venere: 

Il personale del Pronto Soccorso nelle ore di permanenza del paziente ha eseguito accertamenti ed esami per i quali, in un ordinario ricovero, sarebbero necessari tempi ben più lunghi. Il paziente è stato sottoposto ad un iter diagnostico approfondito: tac cranio, torace e addome, visita dello pneumologo che ha richiesto angio-tac torace e terapia, seconda visita di controllo dello pneumologo che ha prescritto terapia e non indicazione al ricovero. 

Va poi ricordato che il Pronto Soccorso dell’Ospedale “Di Venere” è un DEA (Dipartimento Emergenza Accettazione) di primo livello e registra accessi elevati provenienti soprattutto dal 118, simili a strutture molto più grandi, gestendo contemporaneamente due sale per codici rossi e arancioni, due per codici azzurri e verdi, una per i casi sospetti e un’altra “area Covid”, oltre a sei letti tecnici di OBI utili per alleggerire il carico assistenziale sul Pronto Soccorso. 

E’ in questa area di Osservazione di Breve Intensiva che è stato trattato il paziente sino alla cosiddetta “dimissione protetta”, con un’adeguata terapia. E’ opportuno chiarire, inoltre, che le linee d’indirizzo nazionali sull’Osservazione Breve Intensiva prevedono una permanenza, che non è semplicemente “tempo di attesa” ma tempo di assistenza, diagnosi e cura, che va da un minimo di 6 ore ad un massimo di 44. L’OBI costituisce, infatti, una modalità di gestione delle emergenze-urgenze per pazienti con problemi clinici acuti ad alto grado di criticità ma a basso rischio evolutivo, oppure a bassa criticità ma con potenziale rischio evolutivo, aventi un’elevata probabilità di reversibilità, con necessità di un iter diagnostico e terapeutico non differibile e/o non gestibile in altri contesti assistenziali. Tale modalità, caratterizzata da un’alta intensità assistenziale, per il notevole impegno del personale medico ed infermieristico, comporta l’esecuzione di accertamenti diagnostici, il monitoraggio clinico e la pianificazione di strategie terapeutiche, al fine di individuare il livello di trattamento assistenziale più idoneo. Ciò è esattamente quanto avvenuto nel caso specifico, in tempi del tutto ragionevoli.

La Simeu denuncia: non si trovano medici per i pronto soccorso. Reparti d’emergenza in estinzione. Chiara Daina su Il Corriere della Sera il 14 maggio 2022.

Situazione drammatica in corsia: 100 medici al giorno lasciano e i concorsi vanno deserti. Chi rimane fa anche 10 notti al mese e deve gestire pazienti che rimangono in barella per giorni e giorni perché non ci sono letti. 

SOS pronto soccorso. Il grido di aiuto, questa volta, arriva dai medici che ci lavorano. «Gestiamo un sovraffollamento cronico di pazienti con equipe sotto organico. Nei raparti di emergenza-urgenza mancano quasi 5mila unità. La carenza riguarda tutta Italia, da Nord a Sud. Nei primi cinque mesi del 2022 sono già circa 600 i colleghi che si sono dimessi, sia tra i giovani sia tra i più anziani, e in nove strutture su dieci almeno uno ha intenzione di andarsene entro 12 mesi. Preferiscono il privato o altre specialità, come la medicina generale, qualcuno la medicina estetica».

100 medici al giorno che lasciano

Beniamino Susi lo denuncia per conto della Società italiana di medicina d’emergenza-urgenza (Simeu), di cui è vicepresidente nazionale, che venerdì ha aperto il suo congresso nazionale a Riccione (fino al 15 maggio) e una settimana fa ha sottoposto un questionario agli oltre 400 pronto soccorso del Paese. Più o meno cento medici al giorno dall’inizio dell’anno hanno mollato l’incarico. «L’equivalente del team che forma quattro-cinque centri di soccorso», fa notare Susi, che dirige il dipartimento di emergenza dell’Asl Roma 4. Il malessere espresso dai camici bianchi dei pronto soccorso per le difficili condizioni di lavoro dura ormai da anni. La Simeu riporta che è in corso «l’estinzione» di questi reparti. Le ragioni lamentate sono l’eccessivo carico di lavoro causato, oltre che dalla mancanza di personale, dall’intasamento di barelle nei corridoi e dalla permanenza prolungata dei pazienti in attesa di ricovero (un fenomeno noto come “boarding”), e stipendi poco gratificanti. «Ogni giorno abbiamo fino a 60-80 pazienti che stazionano in media tre giorni fino a dieci. Capita che non vengano mai trasferiti nel reparto di competenza perché è pieno (il Corriere del Mezzogiorno ne ha parlato QUI) e li dimettiamo noi direttamente — continua il vicepresidente Simeu —. A noi però spetta occuparci solo dell’urgenza, della stabilizzazione delle funzioni vitali del paziente, delle sue prime ore dall’ingresso. Non possiamo gestire anche il resto».

Situazione presente drammatica

I turni restano massacranti: «I miei medici fanno dieci notti al mese anziché le solite 4-5. Un ritmo insostenibile, che non permette il giusto recupero psicofisico». Per rispondere al fabbisogno di personale il ministero della Salute ha aumentato a 17.400 le borse di specializzazione finanziate dallo Stato per l’anno accademico 2020-2021, 4mila contratti in più rispetto a quelli che esistevano fino all’anno precedente. Ma prima che il medico concluda il percorso di formazione e sia disponibile in corsia passano almeno quattro anni. Sebbene secondo quanto stabilito dalla manovra del 2019 e dal decreto Calabria gli specializzandi dal terzo anno in poi possano essere assunti a tempo determinato dalle aziende sanitarie (anche quelle che non fanno parte della rete formativa attraverso un progetto formativo individuale redatto dalla rispettiva scuola di specializzazione). Nel frattempo però «molti posti messi a bando vanno deserti» ricorda Susi. L’ultimo clamoroso insuccesso quello del concorso indetto dall’ospedale Cardarelli di Napoli per sei posti nella Medicina e chirurgia d’accettazione e d’urgenza a cui non si è iscritto nessuno. «Un flop anche il concorso pubblico per 153 posti in diversi pronto soccorso e 118 del Lazio bandito lo scorso settembre — riferisce Susi —. Si sono presentati in una sessantina il giorno della selezione, una decina i bocciati e 50 ammessi ma tutti lavoravano già a tempo determinato. Morale: non è stata introdotta nessuna nuova risorsa. Con la fine dello stato di emergenza Covid — aggiunge — perderemo anche tutti i pensionati tornati in corsia durante la pandemia».

La mancanza di posti letto all’origine

Fondamentale è la solidarietà dei cittadini: «Ci devono vedere come degli alleati, non dei nemici, il disagio è anche nostro», dice il medico. Carlo Palermo, segretario nazionale dell’Anaao, il principale sindacato dei medici ospedalieri, conferma la situazione drammatica: «Se si va avanti così in futuro ci sarà una caccia alle professioni sanitarie fuori dai confini nazionali e ci sarà il rischio di non riuscire a garantire assistenza adeguata per tutti». All’origine della criticità dei pronto soccorso, oltre alla questione del personale, sostiene Palermo, «c’è il taglio dei posti letto ospedalieri degli ultimi anni. L’Italia oggi — ricorda — ha 3,1 posti letto ogni mille abitanti contro una media europea di 5,3. La Germania ne conta quasi 8 per mille abitanti, la Francia 5,8, la Grecia 4,1. La Spagna invece ne ha meno di noi, 2,9. Meno anche in Irlanda, 2,8, e Svezia, 2». Si spera che con la riforma della sanità territoriale appena varata possa finalmente ridursi la congestione degli ospedali. «Oggi quasi l’80 per cento degli accessi in pronto soccorso è rappresentato da codici bianchi e verdi e di questi circa il 95% non è esitato in un ricovero e avrebbe potuto essere gestito sul territorio — sottolinea Palermo —. Le case di comunità potranno quindi trattare i casi non urgenti snellendo i reparti d’emergenza e gli ospedali di comunità assorbire i casi che richiedono interventi di bassa e media intensità liberando posti letto per acuti».

Incentivo per la professione

Per rendere più appetibile la professione, nella legge di Bilancio per il 2022 è stata prevista un’indennità accessoria (a decorrere da quest’anno) per chi lavora in pronto soccorso, che vale complessivamente 90 milioni di euro, «ma per l’aumento in busta paga l’indennità dovrà prima essere inserita nel prossimo accordo collettivo nazionale di lavoro. Siamo in alto mare — avvisa Palermo —. L’accordo 2016-2018 è stato firmato ma resta in gran parte inapplicato e quello del triennio 2019-2021 ancora non è stato sottoscritto. I nostri medici — chiude il segretario Anaao — guadagnano il 40 per cento in meno all’anno rispetto ai colleghi dell’Europa occidentale».

Cercasi camici bianchi. Da A.Falla su Today il 23 maggio 2022.

L'allarme lanciato dal sindacato Anaao-Assomed: tra pensioni e licenziamenti, entro il 2024 il Sistema sanitario nazionale perderà 40mila camici bianchi

Nei prossimi due anni Servizio sanitario nazionale (Ssn) si troverà con 40mila medici in meno, tra uscite dovute a licenziamenti e personale che andrà in pensione. A lanciare l'allarme è il sindacato dei medici dirigenti del Ssn, Anaao-Assomed: "Entro il 2024 sono previsti 40mila camici bianchi in meno". Per quanto riguarda i pensionamenti, spiega l'Anaao, "nel triennio 2019-2021 sono andati in pensione circa 4mila medici specialisti ogni anno per un totale di 12mila camici bianchi. Nel triennio 2022-2024 andranno in pensione circa 10mila medici specialisti. Quindi in 6 anni il Ssn perderà 22mila medici specialisti ospedalieri per pensionamenti".

Per quanto riguarda i licenziamenti, "a impoverire le corsie si aggiunge il fenomeno della fuga dagli ospedali", avverte il sindacato che citando un suo studio ricorda che "dal 2019 al 2021 hanno abbandonato l’ospedale circa 9mila camici bianchi per dimissioni volontarie. Se il trend dei licenziamenti fosse confermato anche nel triennio successivo, si licenzierebbero ulteriori 9mila medici dal 2022-2024", evidenzia il sindacato. Ecco quindi la previsione "di una perdita complessiva di 40.000 medici specialisti entro il 2024".

"La pandemia ha reso indispensabile il potenziamento delle terapie intensive e sub-intensive non solo dal punto di vista del numero dei posti letto da incrementare ma anche del personale che deve essere specificamente formato a questa attività. Il Pnrr prevede diversi interventi tra i quali la realizzazione degli ospedali di Comunità con circa 11mila posti letto entro il 2026. Dove reperire il personale?", si chiede il sindacato che sottolinea come "gli specializzandi sono l’ancora di salvezza per il Ssn".

"Coloro, però, che hanno ottenuto il contratto di formazione specialistica nel 2020 e nel 2021 (le borse sono state rispettivamente 14mila e 18mila), potranno essere utilizzati negli ospedali solo tra 4/5 anni", osserva il sindacato che rilancia invece come "nell'immediato è necessario: stabilizzare tutto il precariato formato durante la pandemia (9.409 unità) e contrattualizzare, per quanto necessario e possibile, quella platea di 15mila specializzandi degli ultimi anni di specializzazione che già da subito potrebbero essere impiegati per dare aiuto nelle attività ospedaliere".

Pronto soccorso senza medici, la chat per arruolarli last minute. «Notti pagate 90 euro all’ora». Michela Nicolussi Moro e Clarida Salvatori su Il Corriere della Sera il 12 Maggio 2022.

Il caso a Vicenza. Oggi la Giornata degli infermieri: intervenga il governo. 

L’sos arriva alle 12.26 di martedì, in una chat su Telegram riservata ai medici: «Venice Medical Assistance cerca URGENTEMENTE un medico per coprire i turni di stanotte e domani notte presso l’ospedale di Santorso di Vicenza per i codici bianchi. Vista l’urgenza, queste due notti verranno retribuite 90 euro all’ora. Chi fosse disponibile contatti il... (segue cellulare)».

Succede in Veneto, dove la carenza di medici dell’emergenza-urgenza (problema che riguarda ormai molti ospedali italiani nell’era post-pandemia, dove si calcola che si dimettano ogni mese almeno 100 camici bianchi), ha costretto le aziende sanitarie ad appaltare 18 Pronto soccorso su 26 alle cooperative, a loro volta spesso in affanno, al punto da dover ricorrere al passaparola per recuperare specialisti «last minute».

Ma in questo caso la vicenda è ancora più preoccupante, perché la «Venice Medical Assistance», azienda di Villorba di Treviso «nata sulla spinta delle carenze sul territorio per quanto riguarda l’assistenza medica e infermieristica domiciliare» e operativa h24, come recita il sito dedicato, non è nemmeno la coop che ha vinto l’appalto per gestire i codici bianchi e verdi al Pronto soccorso di Santorso. La gara se l’era aggiudicata, per dieci turni al mese, la «Anthesys» di Treviso. «Esistono ditte che cercano camici bianchi per le cooperative a cui sono stati dati in appalto i reparti — afferma Carlo Bramezza, direttore generale dell’Usl Pedemontana, responsabile per l’ospedale di Santorso —. Si tratta di enti terzi utilizzati anche per reclutare professionisti all’estero. Ormai abbiamo svuotato Bulgaria, Romania e Albania, adesso stanno arrivando specialisti da Francia, Germania e dalla Grecia, ma si punta anche ai medici extra Ue, che il Sistema pubblico non può ancora assumere direttamente (solo il Lazio ha deliberato da poco questa possibilità, ndr), e quindi vengono ingaggiati dalle cooperative. Purtroppo i giovani laureati ci pensano due volte prima di scegliere di lavorare al Pronto soccorso, per i turni massacranti, i maggiori rischi connessi ma anche per l’impossibilità di svolgere la libera professione nel pubblico. Andrebbero pagati di più».

Nessun commento dalla Venice Medical Assistance, parla invece Valentina Contro, presidente di Anthesys: «È solo un gran pasticcio, non ci sono di mezzo enti terzi né tantomeno subappalti. Il problema è sorto perché all’ultimo momento il medico che avrebbe dovuto sostituire un collega andato a lavorare all’estero si è tirato indietro e mi sono trovata con un turno scoperto a poche ore dall’inizio del servizio. A quel punto ho cominciato a chiamare tutti i nostri specialisti, ormai fidelizzati perché gestiamo molti reparti ospedalieri nel Veneto, proponendo una tariffa maggiorata (di solito si va dai 40 ai 60 euro l’ora, ndr) proprio per l’urgenza. La voce dev’essere arrivata a colleghi che l’hanno girata in una chat di cui non conoscevo l’esistenza. Volevano solo aiutarmi, ma indicando il nome dell’agenzia hanno involontariamente alimentato un grosso equivoco. Noi i medici ce li troviamo da soli e anche se li ingaggiamo all’ultimo momento controlliamo molto bene il curriculum».

E la carenza non riguarda solo i camici bianchi, ma anche gli infermieri, che oggi celebrano la loro Giornata internazionale. «Durante la pandemia ne sono morti 83. Questa giornata è dedicata ai nostri “caduti”. È necessario che il governo intervenga sia sui numeri, visto che secondo le stime mancano 70mila unità, sia sulla formazione e il riconoscimento professionale», ha spiegato Barbara Mangiacavalli, presidente della Fnopi. «Speriamo — ha aggiunto — si avvii un processo di riforma dei percorsi accademici e si amplino le competenze dell’infermiere in termini di autonomia e responsabilità sulle attività di propria competenza nei diversi ambiti». «Con l’attuazione del Pnrr ci sarà bisogno di ulteriori 100mila — ha detto Maurizio Zega, presidente dell’Opi di Roma —. Si dovranno attivare 20mila infermieri di famiglia e di comunità entro il 2026. Una rivoluzione dopo il Covid: si dovrà dire addio alla sanità di attesa e riparativa a favore di una proattiva».

Caos al Cardarelli, si dimettono 25 medici del pronto soccorso. Gabriele Laganà il 5 Maggio 2022 su Il Giornale.

La clamorosa decisione dopo le difficoltà registrate negli ultimi giorni. La denuncia della Fp Cgil: "Lesa la dignità dei cittadini".

L'ospedale Cardarelli di Napoli è sempre più nel caos. Ben 25 medici del pronto soccorso del nosocomio più grande del Sud Italia hanno protocollato un preavviso di dimissioni perché nelle condizioni date non sono più in grado di svolgere il lavoro e "dare una assistenza adeguata e dignitosa ai pazienti". La decisione, messa in atto per portare all’attenzione dell’opinione pubblica le difficoltà che si sono registrate negli ultimi giorni nel reparto di urgenza, è stata resa nota da Pino Visone, delegato aziendale Cgil medici, che ha spiegato che "paghiamo carenza di personale e scelte aziendali discutibili, ma nessuno ci ascolta".

Le dimissioni dei medici

Nella lettera i medici sottolineano la grave situazione di sovraffollamento al Cardarelli, con i pazienti costretti ad aspettare ore prima di poter essere visitati. Nel nosocomio era scoppiata una emergenza barelle, con il salone del pronto soccorso invaso dai degenti. Nessun distanziamento tra i pazienti, né privacy. I primi sentori del forte malcontento si erano già avuti lo scorso fine settimana, con la Cgil Funzione pubblica che denunciava oltre 170 accessi in pronto soccorso il 29 aprile a fronte di personale ridotto.

Nella giornata di ieri, poi, il sindacato aveva organizzato un presidio di protesta all'esterno del nosocomio partenopeo. "In Campania la Sanità pubblica è al collasso – afferma in una nota Fp Cgil –. Sta avvenendo la negazione del diritto alla cura in emergenza". Per tentare di risolvere il problema il sindacato ha anche chiesto un incontro urgente al governatore della Campania Vincenzo De Luca e al prefetto di Napoli Claudio Palomba. Poi l'annuncio, clamoroso, delle dimissioni.

"Quanto sta accadendo al Cardarelli non garantisce la sicurezza delle lavoratrici e dei lavoratori e degli stessi pazienti, ma soprattutto lede la dignità dei cittadini in un momento di fragilità e la dignità degli operatori sanitari e tutti dovremmo chiederci che cosa è un diritto inalienabile se chi lo dovrebbe garantire non risponde della sua negazione?", ha denunciato in una nota la Fp Cgil.

Secondo il sindacato il Cardarelli rappresenta "la cartina di tornasole del fallimento della programmazione regionale ed aziendale dell’emergenza sanitaria che si è acuita nel corso di questi due anni di pandemia da Covid-19". Ma la situazione, per la Fp Cgil, è ben più complessa e non riguarda solo l’ospedale più grande del Mezzogiorno ma "accomuna diversi Ps dell'area metropolitana di Napoli, da Castellammare a Pozzuoli, da Nola a Frattamaggiore, dall'Ospedale del Mare al Pellegrini e al San Paolo".

Nel documento la Fp Cgil ha chiesto l’adozioni di provvedimenti eccezionali che siano all'altezza di quella che viene definita come una "gravissima situazione". Per il sindacato, considerato quanto sta accadendo, si rende necessario coinvolgere i due Policlinici Universitari con il relativo utilizzo dei "tanti posti letto disponibili".

La nota del Cardarelli

La notizia delle dimissioni dei 25 medici è stata confermata dalla Direzione generale del Cardarelli che, per evitare ulteriori problemi, attraverso una nota ha già annunciato interventi per tentare di diminuire la pressione sul pronto soccorso attraverso il trasferimento dei pazienti nei reparti e in altre strutture in modo da ripristinare in tempi brevi la normale attività.

Il direttore generale, Giuseppe Longo, ha aggiunto: "Ci siamo attivati sia nei riguardi della nostra organizzazione interna, con l’obiettivo di rendere possibile il maggior numero di trasferimenti dal Pronto Soccorso ai vari reparti, sia di concerto con la rete dell’emergenza territoriale 118 per favorire il trasferimento di pazienti verso altre strutture del territorio". Il dg ha, inoltre, spiegato che l'obiettivo della direzione Strategica resta "sempre quello di consentire all’area di emergenza-urgenza del Cardarelli di proseguire in un’attività fondamentale per i bisogni di salute dei cittadini". E questo anche in condizioni di pressione straordinaria.

Lo stesso Longo ha, infine, ammesso che esiste la consapevolezza dell’enorme lavoro che grava su tutto il personale, "al quale va il nostro ringraziamento", e allo stesso tempo ha garantito che verrà fatto tutto il possibile affinché l’Azienda ospedaliera "sia sempre più attrezzata" per fare fronte anche alle situazioni in cui si registra un afflusso straordinario.

Malasanità, quanto ci costano le ambulanze ferme in coda agli ospedali? Valentina Dardari il 4 Maggio 2022 su Il Giornale.

I mezzi di soccorso fermi davanti alle strutture ospedaliere costano caro ai contribuenti. Ecco cosa vuole fare l’Ares.

Le ambulanze private che vediamo ferme davanti ai Pronto soccorso degli ospedali, ferme in coda, non sono gratis. Si tratta di tutti quei mezzi a cui l’Ares 118, l’Azienda Regionale Emergenza Sanitaria romana, che conta poche vetture e poco personale, deve ricorrere per fare fronte alle mancanze di posti nelle varie postazioni d'emergenza nelle strutture ospedaliere del Lazio. Negli ospedali laziali, infatti, la restituzione delle lettighe, utilizzate per sistemare provvisoriamente i pazienti da ricoverare, dipende dalla disponibilità dei posti letto nei vari reparti di degenza.

Lunghe file di ambulanze

Lo scorso anno l’Ares ha pagato 5 milioni e 222mila euro per il noleggio delle ambulanze private. La spesa media al giorno è pari a oltre 14mila e 306 euro. Adesso però l’Ares, come riportato da Il Tempo, intende far pagare questi costi direttamente agli ospedali, perché sono “causa del protrarsi delle soste in Pronto Soccorso dei mezzi di emergenza, ed in particolare alla conseguente necessità di reperire mezzi aggiuntivi per garantire la copertura del territorio”. È stato infatti deliberato di “addebitare tali costi alle strutture sanitarie rispettivamente ‘responsabili’ del ritardo nella presa in carico” dei pazienti. Questo per quanto riguarda tutti i casi che superano il limite di 30 minuti.

Chi deve pagare

Ares ha fatto i conti arrivando a un totale di 832.229 euro. Il conto è stato poi inviato a 14 ospedali privati accreditati, che adesso dovranno rimborsare i costi sostenuti dall'Ares 118. Tra coloro che dovranno pagare ci sono il Policlinico Casilino a cui sono stati chiesti 466.488 euro, il Policlinico Gemelli con i suoi 220.194 euro, e anche i 71.162 del Vannini. Invece, per quanto concerne i costi relativi alle strutture pubbliche, la Regione Lazio ha chiesto all'Ares 118 di non addebitarli, perché “tali servizi sono da considerarsi rientranti nelle funzioni proprie dell'azienda, remunerate attraverso l'attribuzione dello specifico finanziamento”.

Costano care anche le strutture pubbliche

L’azienda ha quantificato i costi che ha dovuto sostenere a causa delle soste superiori i 30 minuti presso i Pronto soccorso delle strutture pubbliche della Regione Lazio. Il totale è di 4 milioni e 390mila euro. Per l’esattezza ci sono i 928.247 euro dell'Asl Roma 2 (Ps del Pertini, Sant' Eugenio e Cto), gli 894.618 del Sant' Andrea, i 731.412 del policlinico Tor Vergata, i 466.634 del San Giovanni Addolorata, i 331.456 dell'Umberto I e i 226.731 del San Camillo-Forlanini. Oltre ai 147.293 euro all'Asl Roma 1, 42.668 euro all'Asl Roma 3, 63.256 euro all'Asl Roma 4, 147.436 euro all'Asl Roma 5 e 199.700 euro all'Asl Roma 6. Poi 92.395 euro all'Asl Frosinone, 86.232 all'Asl Latina, 17.326 euro all'Asl Rieti e 14.987 all'Asl Viterbo. Negli otto anni precedenti l'Ares 118 aveva speso, per l'affitto dei mezzi di soccorso esterni, 52 milioni e 662mila euro, con una media di più di 18mila euro al giorno. Nella giornata di ieri, nei 48 Pronto soccorso del Lazio verso mezzogiorno c’erano 786 pazienti in attesa di ricovero. Numero che dopo sei ore era sceso a 587. Degli oltre 700 in attesa, 83 aspettavano al policlinico Gemelli, 79 erano all'Umberto I, e 69 al Pertini.

Bari, donna morì perché l'ambulanza arrivò dopo 50 minuti: chiesta archiviazione. La donna morì in strada per colpa del ritardo dei soccorsi. La Procura di Bari ha chiesto l'archiviazione per le due persone indagate. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno l'11 Aprile 2022.

Morì in strada dopo un malore e i famigliari denunciarono ritardi nei soccorsi, perché l’ambulanza arrivò dopo oltre 50 minuti. La Procura di Bari ha chiesto l'archiviazione per le due persone indagate con l’accusa di omicidio colposo, un medico e un operatore del 118, ritenendo che, essendosi trattato di «morte improvvisa», come hanno accertato i medici legali, «solo un intervento fortuitamente istantaneo» avrebbe potuto salvare la 68enne Maria Grazia Gentile.

Quindi, nonostante il comportamento «omissivo e negligente» degli indagati, «l'esecuzione di procedure di rianimazione non eseguite non avrebbe cambiato il decorso degli eventi», così come un più tempestivo intervento del 118. La vicenda risale al 7 novembre 2020. La donna era seduta su una panchina del centro di Noci, nel Barese, in compagnia del marito, quando - intorno alle 19 - fu colta da malore.

In attesa dell’ambulanza un medico di base in pensione che si trovava a passare soccorse la signora, rifiutandosi però di usare un defibrillatore disponibile nella piazza. Quando poi arrivò il 118, 50 minuti dopo, a bordo del mezzo mancava il medico perché l'operatore che aveva risposto alla chiamata di soccorso aveva assegnato all’intervento un codice giallo e non rosso. Passarono altri 30 minuti prima che arrivasse un medico. Il decesso fu dichiarato alle 21.05.

Gli accertamenti tecnici disposti dal pm che ha coordinato le indagini, Gaetano De Bari, hanno verificato che, in quelle condizioni cliniche, «avrebbero dovuto defibrillare entro 5 minuti per avere una percentuale di sopravvivenza del 50%, percentuale che si riduce del 10% per ogni minuto di ritardo del primo soccorso». Per questo la Procura ha ritenuto «non ravvisabili profili di responsabilità" perché «non è stata evidenziata una relazione di causa effetto tra il comportamento, sia pure inidoneo, degli indagati e l'evento morte».

Bari, 71enne lasciato su una sedia nel pronto soccorso per 15 ore. Malato oncologico costretto su una sedia del Pronto soccorso al Policlinico di Bari. Francesca Di Tommaso su La Gazzetta del Mezzogiorno il 23 Aprile 2022.

«Non mi muovo da qui se non affrontano la situazione di mio padre: è un anziano, un paziente oncologico e me lo hanno lasciato su una poltrona a rotelle per tutta la notte». A raccontare quanto accaduto a suo padre, tra le sei del pomeriggio di giovedì e le nove del mattino successivo, è Elisa Manzari: quindici ore in attesa nel pronto soccorso del Policlinico di Bari per un settantunenne, malato oncologico. La spiegazione che le hanno dato è che non c’erano posti letto disponibili. E suo padre ha trascorso la notte su una poltrona reclinabile nell’Area rossa della struttura.

Elisa, venerdì mattina, torna al Pronto soccorso ed entra di forza nella sala dove aveva lasciato il padre il pomeriggio prima: lui stava male, lo aveva lasciato nelle mani giuste, in attesa di una sistemazione letto, di una risposta che nessuno, giovedì, le aveva però dato.

«Ieri mattina hanno provato a fermarmi, so bene che l’accesso non era consentito – racconta –. La mia è stata una forma di “civile”, se si può definire tale, occupazione della Sala rossa. Qualcuno doveva spiegarmi, ho alzato la voce davanti agli sguardi preoccupati e rassegnati del personale presente e di altri pazienti nelle stesse condizioni di mio padre: mi hanno detto che durante la notte erano arrivate 48 persone». Elisa è un fiume in piena: «Giovedì ho accompagnato mio padre al pronto soccorso in preda a forti dolori: non mangiava né beveva da giorni, era in un evidente stato di disidratazione. L’accesso e l’assistenza primaria ci sono state, insomma i prelievi e quanto necessario a capire lo stato del malato. Poi, come ovvio, sono stata invitata a lasciare la sala. Mai avrei pensato di trovare mio padre ancora lì il giorno dopo».

Dal Policlinico spiegano cosa è accaduto: la notte di giovedì c'è stato un iper afflusso di pazienti al pronto soccorso dell’azienda ospedaliera consorziale a causa della chiusura temporanea, per un intervento di sanificazione, del Pronto soccorso dell'ospedale «di Venere». Sottolineando, comunque, che il paziente in questione è stato preso in carico e puntualmente assistito da personale sanitario qualificato. E che nella mattinata di ieri ne è stato disposto il ricovero.

«Non discuto né il lavoro del personale sanitario, tantomeno l’emergenza nell’emergenza in cui possa essere incappato il pronto soccorso – commenta Elisa -. Mentre “occupavo” il reparto, lì, al fianco di mio padre, è arrivato un medico che ha provato a tranquillizzarmi, spiegandomi che, nonostante la situazione paradossale, a mio padre erano stati effettuati i prelievi e tutti i passaggi necessari. E che stavano procedendo al suo ricovero. Come? Avendo trovato un posto letto di un paziente in una situazione meno grave di quella di mio padre. Sono un’assistente domiciliare – continua Elisa Manzari -, so cosa vuol dire lavorare fianco a fianco con il dolore. Mi sono sforzata di comprendere tutto, persino il fatto di dover affrontare i sensi di colpa per un posto letto sottratto ad un altro paziente pur di vedere ricoverato mio padre. Così come in questi due maledetti giorni so bene di aver visto, da parte del personale, solo sguardi bassi: l’atteggiamento di chi risposte non ne ha. Ma se fosse accaduto il peggio? Ecco – conclude -: trovo inaudita questa roulette russa. Inaccettabile. E spero che il mio gesto smuova qualcosa».

IL COMMENTO DI BELLOMO

«Che sanità è quella che lascia un uomo di 71 anni, in codice rosso e malato oncologico, per 15 ore in pronto soccorso? Il nuovo episodio, che si è verificato al Policlinico di Bari, replica quello di Taranto di appena un mese fa, dove un novantenne attese ben 27 ore prima di essere ricoverato. In un Paese normale per fatti così incresciosi ci sarebbero responsabili, verrebbero presi provvedimenti, qualcuno addirittura si dimetterebbe». Lo dichiara Davide Bellomo, capogruppo della Lega nel Consiglio regionale della Puglia, riferendosi, in una nota, alla vicenda pubblicata stamani dalla Gazzetta del Mezzogiorno.

«Da noi invece - prosegue Bellomo - si tenta di giustificare l'ingiustificabile, mentre si dovrebbe chiedere scusa e provare anche un pò di vergogna davanti all’immagine di un settantunenne, affetto da tumore e arrivato in ospedale con forti dolori e in evidente stato di disidratazione, abbandonato per tutta la notte su una poltrona reclinabile dell’Area rossa della struttura» 

"La mia Janna uccisa dal menefreghismo, non hanno usato neppure il Gps" parla il compagno della turista morta a Roma. Arianna Di Cori su La Repubblica il 5 Aprile 2022.  

L'ira di Michael Douglas, sbalordito e infuriato contro le istituzioni italiane: "Stanno fabbricando fake news". La Regione si difende: nessun ritardo del 118 gli operatori parlavano in inglese. 

Il giorno dopo la denuncia, su Repubblica, dell'assurda morte della sua compagna, Michael Douglas è sbalordito e infuriato. A colpirlo è stato quanto dichiarato dall'assessorato regionale alla Sanità e dall'Ares 118 riguardo alla vicenda attorno alla morte improvvisa della 25enne Janna Gommelt, avvenuta il 20 gennaio. Un uno due pesantissimo per Douglas, che ieri è stato costretto a rivivere quei momenti di disperazione riascoltando lo stralcio audio di due minuti diffuso dalla Regione (una minima parte dei più di 20 minuti di comunicazioni tra l'uomo disperato e i soccorritori); e come se non bastasse, ha dovuto leggere la nota di Ares 118, che ha pensato di giustificare il mancato soccorso tempestivo accusando Douglas stesso di aver...

Arianna Di Cori per “la Repubblica - Edizione Roma” il 4 aprile 2022.

Le sue ultime parole sono state: «I love you» . In quel momento, sdraiata sul letto del suo furgone camperizzato, a pochi metri dal mare di Focene in una giornata assolata di metà gennaio, Janna Gommelt ha compreso che la vita la stava abbandonando. A 25 anni. L'ambulanza, quella che il suo compagno Michael Douglas, 34 anni, aveva chiamato non appena la donna aveva perso i sensi, è arrivata 43 minuti dalla prima telefonata, quando non c'era più nulla da fare. È il 20 gennaio. Il registro delle chiamate segna le 15.39 quando l'uomo parla per la prima volta col 118. 

La conversazione dura 10 minuti e 24 secondi. «Mi hanno subito messo in attesa per trovare un un operatore in grado di parlare inglese - spiega Douglas - . Poi, sempre faticando nelle comunicazioni, mi è stato detto di tenere acceso il gps così che l'ambulanza ci potesse trovare» , prosegue Douglas. Ma i soccorsi non arrivano. Alle 16.10 l'uomo telefona nuovamente al numero d'emergenza, altri 10 lunghi minuti.

Ma non c'è nulla da fare: i soccorsi non hanno nemmeno mai raggiunto il parcheggio dove si trovava il Ford Transit bianco sul quale la coppia - tedesca lei, irlandese lui - viaggiava per l'Europa da due mesi. E' stato Michael, in stato di shock, a mettersi alla guida del suo mezzo e «suonando il clacson come un matto», a individuare gli uomini in tuta arancione, fermi a quattro isolati di distanza, mentre pattugliavano la spiaggia. Forse si erano persi.

Una tragedia dalla apparente, crudele semplicità. Sulla quale però, a 74 giorni dalla morte della giovane donna, continua a mancare la parola fine. Oltre il destino crudele, oltre il ritardo sui soccorsi, a infierire su Janna ci si è messa anche una incomprensibile burocrazia: ancora oggi la famiglia non ha avuto indietro le spoglie della 25enne, e non conosce la causa del decesso a livello ufficiale, sebbene si presuma un arresto cardicircolatorio. 

Janna e Michael erano partiti all'inizio di Novembre da Weismain, nel nord della Baviera, città natale di lei. Il loro era un amore nato con la pandemia: il viaggio, con il furgone che i due avevano trasformato in camper, era la celebrazione della libertà ritrovata. «Quel pomeriggio avremmo dovuto prenotare il traghetto per Barcellona » , dice Douglas.

La donna, sanissima fino a quel momento, si è sentita male poco dopo le 15.30. « Si è inchinata per prendere una cosa in frigorifero e ha detto solo ' sto svenendo' - racconta l'uomo - . Non ho esitato nemmeno un secondo prima di chiamare l'ambulanza. Se i soccorsi fossero arrivati in tempo Janna sarebbe ancora viva ». 

La donna viene caricata in ambulanza, che parte solo dopo 15 minuti alla volta del Grassi di Ostia. Douglas viene accolto da 4 Carabinieri all'ingresso del Pronto Soccorso: in quel momento capisce che Janna è già morta. « Mi hanno interrogato per 6 ore con Google Translate - ricorda Douglas -. Non mi hanno mai fatto parlare con un medico o un infermiere per sapere cosa fosse successo. Poi, alle 10.30 di sera, è arrivato il furgone che l'ha portata in obitorio».

La donna è stata portata all'obitorio comunale del Verano, da dove non è ancora mai uscita. Per lei è stata disposta, ed è stata già completata, un'autopsia. Na i medici legali non hanno ancora consegnato l'esito all'avvocato che segue la famiglia, Manuele Piccioni. La causa della morte è ancora ignota. Intanto è stato aperto un fascicolo alla procura di Civitavecchia contro ignoti per istigazione al suicidio. Nella tragedia di Janna e Michael, suona quasi come una beffa.

Turista tedesca morta perché non sanno l'inglese. La Regione Lazio nega tutto. Il Tempo il 04 aprile 2022.

Riesplode il caso della turista tedesca morta il 20 gennaio scorso mentre si trovava a Focene. Il suo compagno ha denunciato che i soccorsi sono arrivati solo dopo 40 minuti dalla chiamata perché l'operatore del 118 non parlava bene l'inglese. La ricostruzione dell'uomo, però, è stata contestata dall'Ares e dalla stessa Regione Lazio che ha reso pubblica la telefonata intercorsa tra l'uomo e l'operatore del servizio d'emergenza. «La telefonata di emergenza del giorno 20.01.2022 delle ore 15.39 è stata subito gestita correttamente in lingua inglese ed è stato geolocalizzato l’intervento con le coordinate di latitudine e longitudine. La telefonata è durata circa due minuti e il contenuto audio, concesso dalla Centrale operativa del numero unico dell’emergenza, viene per trasparenza integralmente allegato». Lo precisa in una nota l’assessorato alla Sanità della Regione Lazio, in riferimento all’articolo pubblicato da Repubblica, cronaca di Roma, dal titolo «Il 118 non parla inglese, turista tedesca muore a 25 anni».

L’assessorato, allegando l’audio della telefonata, fa sapere inoltre che "È stato disposto dalla Direzione regionale Salute un audit clinico su tutta la gestione del soccorso, che ha sempre avuto un supporto ininterrottamente in lingua inglese, non appena concluso, l’audit, verrà reso noto. Attualmente il servizio del numero unico di emergenza dispone di traduzione in 16 lingue, compreso l’ucraino", ricorda la nota, che conclude: "Ai familiari della giovane purtroppo deceduta vanno le nostre profonde condoglianze".

Turista morta a Focene, il camper spostato prima dell’arrivo dei soccorsi e gli altri punti oscuri. Rinaldo Frignani su Il Corriere della Sera il 4 Aprile 2022.

Sulla vicenda la procura di Civitavecchia indaga a tutto campo. Il fascicolo aperto fin dall’inizio dai pm contro ignoti è per istigazione al suicidio. 

Accusa i soccorritori romani di non aver fatto nulla per salvare la sua fidanzata. E di non parlare nemmeno una parola d’inglese. Una presa di posizione molto chiara e dura quella di Michael Douglas, 34enne irlandese, che il 20 gennaio scorso, secondo la sua versione dei fatti, avrebbe assistito alla morte della sua compagna, la 25enne tedesca Jenna Gommelt, con la quale era partito per una vacanza in giro per l’Europa nel novembre 2021 a bordo di un’auto che all’occorrenza poteva trasformarsi in camper. Ma a quasi tre mesi da quel drammatico pomeriggio in viale di Focene, a Fiumicino, dove i due si erano fermati per qualche ora, sulla vicenda ci sono molti punti oscuri, a cominciare dal racconto fatto dal 34enne con la denuncia ai media del comportamento del personale della sala operativa del 118.

Sulla vicenda la procura di Civitavecchia indaga a tutto campo. Il fascicolo subito aperto dai pm contro ignoti, e tuttora attivo, è per istigazione al suicidio. Douglas è stato interrogato quel giorno stesso dai carabinieri della compagnia di Ostia per ricostruire cosa sia accaduto a bordo del camper. E quale sia stato il suo comportamento: perché il fidanzato della giovane, deceduta nel giro di poco tempo dopo l’allarme lanciato dall’uomo che ha telefonato al Numero unico di emergenza alle 15.39 del 20 gennaio, si è spostato con il veicolo prima ancora dell’arrivo dell’ambulanza e dell‘automedica inviate sul posto dal 118 su input della centrale operativa del 112. Douglas infatti ha denunciato un ritardo di 43 minuti nell’arrivo dei soccorsi dopo una rocambolesca telefonata nella quale, secondo lui, l’operatore sanitario dall’altro capo del telefono non parlava inglese. Fatto questo smentito nella mattinata di lunedì sia dalla Regione Lazio, con l’assessorato alla Sanità, sia dalla direzione sanitaria del 118, che hanno reso noti gli audio delle telefonate intercorse fra l’irlandese e la centrale operativa dove al 34enne è stato risposto in perfetto inglese.

Ed è stato anche specificato che i soccorsi sono giunti sul posto in diciotto minuti. Solo che poi il personale medico ha dovuto richiedere l’aiuto dei carabinieri per rintracciare il camper. Perché l’irlandese ha spostato il veicolo con la fidanzata morente? Proprio di queste telefonate riferite dall’uomo non è tuttavia al corrente l’avvocato della famiglia di Jenna, Manuele Piccioni, che invece si sta occupando di rappresentare le istanze dei genitori della giovane deceduta ed è in attesa dei risultati dell’autopsia effettuata il 26 gennaio scorso presso l’Istituto di medicina legale del Verano dov’era stata trasferita la salma. Al momento si attendono soprattutto gli esiti degli esami tossicologici, perché dagli altri accertamenti non sono emersi indizi che possono far pensare a una morte violenta.

L’irlandese è stato interrogato a lungo dai carabinieri di Ostia che hanno sentito anche il medico e un infermiere del 118. «Ho incontrato Douglas solo una volta nel mio studio dove si è presentato con i parenti della ragazza - spiega l’avvocato Piccioni -: voleva sapere come recuperare gli effetti personali della giovane rimasti nel camper». Non è chiaro se ci sia riuscito, mentre sul fatto dei ritardi nella consegna della salma ai genitori l’avvocato rimane cauto: «Il pm ha dato il nulla osta il 15 febbraio, poi c’è stato un errore nella trascrizione del cognome della ragazza presso il comune di Fiumicino che ha ritardato la pratica ma non c’entra chi indaga. La famiglia è sconvolta e ancora oggi aspetta di sapere cosa sia successo a Jenna».

Rinaldo Frignani per il “Corriere della Sera” il 5 aprile 2022.

All'appello mancano ancora i risultati degli esami tossicologici. Solo allora si potrà avere un quadro più chiaro di quello che nel pomeriggio del 20 gennaio scorso è accaduto nel camper soprannominato «Nic» con il quale Janna Gommelt, tedesca di 25 anni, e il fidanzato irlandese Michael Douglas, di 34, volevano girare l'Europa. Lei è morta nel giro di pochi minuti stroncata da quello che, almeno per ora, sembra un improvviso malore, prima dell'arrivo dell'ambulanza e di un'automedica dell'Ares 118 che avrebbero impiegato - secondo l'accusa lanciata dall'uomo - 43 minuti per raggiungere viale di Focene, a Fiumicino.

«Lui ha chiamato il 112 chiedendo aiuto, abbiamo geolocalizzato la posizione raggiunta in 18 minuti, ma poi si è spostato e abbiamo dovuto allertare i carabinieri per rintracciare dove fosse finito», la replica dei soccorritori. Un ritardo che per il fidanzato e i familiari di Jenna potrebbe essere stato fatale alla ragazza di Weismain, vicino a Norimberga, partita nel novembre 2021 per un tour che li aveva portati in Sicilia, aggiornato sulla pagina Facebook della coppia con foto e commenti. «Non vedo l'ora di combattere le mie ansie», aveva scritto Jenna poco prima di morire.

La Procura di Civitavecchia indaga contro ignoti per istigazione al suicidio, i carabinieri della compagnia di Ostia hanno sentito non solo il fidanzato della 25enne, ma anche un medico e gli infermieri inviati a Fiumicino. L'autopsia è stata effettuata il 26 gennaio all'istituto di medicina legale del Verano: non sono stati riscontrati segni di violenza, come del resto non li hanno trovati i carabinieri durante il sopralluogo nel camper. Non c'erano nè farmaci, nè sostanze di altro genere.

«È morta per colpa dei soccorritori, al telefono con la sala operativa non c'era nessuno che parlasse in inglese, sono rimasto oltre dieci minuti in linea senza che nessuno mi capisse», è l'altra accusa di Douglas, alla quale tuttavia ieri prima l'assessorato alla Sanità della Regione Lazio e successivamente la direzione sanitaria del 118 hanno risposto divulgando un audio, definito «integrale», di poco più di due minuti, nel quale invece l'irlandese viene assistito da un operatore in servizio presso la sala operativa del Numero unico di emergenza 112, che parla perfettamente in inglese e fornisce indicazioni dettagliate.

Insomma un giallo, anche perché ai carabinieri, nel drammatico pomeriggio del 20 gennaio, Douglas non avrebbe riferito nulla al riguardo, come anche il personale sanitario è stato sentito soltanto in relazione alla situazione che si è era trovato di fronte nel camper dove, sempre secondo la versione dell'irlandese, la sua fidanzata si sarebbe accasciata all'improvviso. Ma allora, si chiedono 118 e anche chi indaga, perché se aveva comunque ricevuto assistenza nella sua lingua ed era stato geolocalizzato, si è poi spostato prima dell'arrivo dell'ambulanza causando lui, almeno secondo questa ricostruzione, il ritardo forse decisivo?

Oltre alla relazione iniziale, i carabinieri non hanno a tutt' oggi ricevuto una delega a svolgere altri accertamenti da parte della Procura che il 15 febbraio ha messo la salma di Jenna a disposizione della famiglia. Ma il caso non è ancora chiuso. «C'è stato qualche intoppo burocratico per il rimpatrio in Germania - spiega l'avvocato italiano dei Gommelt, Manuele Piccioni -, al comune di Fiumicino hanno sbagliato una lettera del cognome e la trafila si è bloccata per qualche giorno. Ma quello che i parenti di Jenna vogliono davvero è capire cosa sia successo vicino a Roma. Io assisto solo loro, non il suo ragazzo. A me non ha mai detto niente dei ritardi nei soccorsi: voleva solo sapere come riavere le cose della sua ragazza».

Turista morta a Focene, il fidanzato accusa il 118. Il camper spostato prima dell'arrivo dei soccorsi. Stefano Vladovich il 5 Aprile 2022 su Il Giornale.

Turista morta a Focene. È giallo sulla drammatica vicenda costata la vita a una giovane tedesca, Janna Gommelt, deceduta in seguito a un malore il 20 gennaio scorso sulla spiaggia romana.

Turista morta a Focene. È giallo sulla drammatica vicenda costata la vita a una giovane tedesca, Janna Gommelt, deceduta in seguito a un malore il 20 gennaio scorso sulla spiaggia romana davanti al suo compagno, Michael Douglas, 34 anni. È lui a lanciare le accuse sui ritardi dei soccorsi, dovuti anche al fatto, sempre secondo il racconto dell'uomo, che nessuno, dall'altro capo della linea, sapeva parlare inglese. Non solo. Per Douglas, che era con la donna in una struttura per camperisti davanti l'Havana Beach, vicino al porto di Fiumicino in attesa di imbarcarsi per Barcellona, l'ambulanza avrebbe impiegato 40 minuti.

Accuse respinte categoricamente dalla Regione Lazio. Diciotto minuti dalla fine della conversazione, secondo il rapporto dell'Ares 118, ovvero dalla richiesta d'intervento all'arrivo dei sanitari. La conversazione, registrata alle 15,41, sarebbe durata due minuti. «Hello. My girlfriend is sick. We are in Focene beach». Gli operatori, come dimostrato dalla telefonata diffusa dall'assessorato alla sanità del Lazio, capiscono la lingua e rispondono usando un interprete. Secondi drammatici, in cui l'uomo avrebbe cercato aiuto anche spostandosi con il proprio mezzo. Tanto che, sempre dall'Ares 118 precisano che l'ambulanza, una volta raggiunto il luogo indicato, non ha trovato nessuno. Si è spostata «autonomamente», utilizzando la geolocalizzazione, per trovarli e intervenire, sottolineano. Una volta sul posto, purtroppo, per la donna non c'era più nulla da fare. Morta.

Una vicenda da chiarire anche per la Procura di Roma che sul caso apre un fascicolo. Un'inchiesta paradossalmente avviata per «istigazione al suicidio». Comunque sufficiente per effettuare gli esami del caso, a cominciare dall'autopsia eseguita il 26 gennaio. Un mese dopo il nulla osta per la restituzione della salma alla famiglia per la cremazione. Il risultato dell'esame autoptico, eseguito all'Istituto di Medicina Legale dell'Umberto I, non è stato ancora reso noto. «Il pm ha aperto un'indagine per istigazione al suicidio - spiega l'avvocato Manuele Piccioni, legale della famiglia Gommelt -. Forse un atto dovuto per procedere con gli esami sulla salma». Dopo, silenzio assoluto della Procura. «Mai contattato - continua l'avvocato -, i miei assistiti non sono mai stati convocati. Siamo in attesa della consulenza tecnica, a oggi non ne ho notizia quindi non posso dir niente sulle conclusioni sulle cause della morte. Sul colloquio avuto fra Douglas e il 118 non so nulla. A studio mi ha raccontato solo che la ragazza si è improvvisamente accasciata accusando un malore».

La Regione ha diffuso l'audio della chiamata. Il fidanzato della ragazza: "È stato tagliato". Turista morta, le accuse al 118 (“Non parlavano inglese”) e lo choc della famiglia: “Dopo 74 giorni l’Italia non ci ha dato il corpo di nostra figlia”. Mariangela Celiberti su Il Riformista il 4 Aprile 2022.

Un viaggio per celebrare la libertà ritrovata dopo la pandemia. Janna Gommelt e il suo compagno irlandese Michael Douglas erano partiti lo scorso novembre da Weismain, in Baviera, città natale di lei. Ma il loro progetto di girare l’Europa in camper si è interrotto a Focene, sul litorale romano, in un’assolata giornata di gennaio. Jenna si è sentita male improvvisamente ed è poi morta, a soli 25 anni. Quando sono arrivati i soccorsi ormai non c’era più nulla da fare.

“Si è inchinata per prendere una cosa in frigorifero e ha detto solo ‘sto svenendo’ -ha raccontato l’uomo secondo quanto riportato dall’edizione romana di Repubblica -. Non ho esitato nemmeno un secondo prima di chiamare l’ambulanza. Se i soccorsi fossero arrivati in tempo Janna sarebbe ancora viva“.

Secondo quanto riferito dal 34enne infatti, ci sarebbero state difficoltà di comunicazione con il 118 perché nessuno parlava inglese: l’ambulanza sarebbe arrivata dopo 43 minuti. La Regione Lazio ha però smentito quanto dichiarato dal giovane, pubblicando l’audio della telefonata: ma è giallo sulla durata effettiva della conversazione.

La vicenda

“Mi hanno subito messo in attesa per trovare un operatore in grado di parlare inglese – ha spiegato Michael Douglas al quotidiano- . Poi, sempre faticando nelle comunicazioni, mi è stato detto di tenere acceso il gps così che l’ambulanza ci potesse trovare“. È il 20 gennaio: il registro delle chiamate del ragazzo segna le 15:39 quando avviene la prima telefonata al 112. La conversazione dura 10 minuti 40 secondi. Ma i soccorsi non arrivano. E così lui richiama di nuovo alle 16:10, altri 10 minuti. Quindi decide di mettersi alla guida del Ford Transit utilizzato per il loro viaggio fino a quando non incrocia gli operatori del 118, che li stavano cercando a quattro strade di distanza rispetto alla loro posizione.

Janna viene caricata nell’ambulanza e portata, dopo 15 minuti, all’ospedale Grassi di Ostia. Michael trova 4 carabinieri ad attenderlo all’ingresso della struttura: capisce quindi che la ragazza è morta. “Mi hanno interrogato per 6 ore con Google Translate – ha dichiarato il 34enne – . Non mi hanno mai fatto parlare con un medico o un infermiere per sapere cosa fosse successo. Poi, alle 10,30 di sera, è arrivato il furgone che l’ha portata in obitorio”. Luogo dove la donna si trova tuttora, a distanza di 74 giorni dal decesso. L’autopsia è stata eseguita lo scorso 26 gennaio, l’autorizzazione alla cremazione del corpo è arrivata a metà febbraio. Ma ad oggi la famiglia non conosce ancora le cause della morte, mentre la Procura di Civitavecchia ha aperto un fascicolo per ‘istigazione al suicidio’.

La smentita della Regione

All’indomani della denuncia del giovane, l’assessorato alla Sanità della Regione Lazio ha risposto allegando 2 minuti della conversazione telefonica intercorsa tra Michael Douglas e gli operatori del numero unico di emergenza. “In riferimento all’articolo pubblicato da Repubblica cronaca di Roma si desidera precisare che la telefonata di emergenza del giorno 20.01.2022 delle ore 15.39 è stata subito gestita correttamente in lingua inglese ed è stato geolocalizzato l’intervento con le coordinate di latitudine e longitudine” si legge sul comunicato della Regione. “ La telefonata è durata circa due minuti ed il contenuto audio, concesso dalla Centrale operativa del numero unico dell’emergenza, viene per trasparenza integralmente allegato. È stato disposto dalla Direzione regionale Salute un audit clinico su tutta la gestione del soccorso, che ha sempre avuto un supporto ininterrottamente in lingua inglese, non appena concluso, l’audit, verrà reso noto. Attualmente il servizio del numero unico di emergenza dispone di traduzione in 16 lingue, compreso l’ucraino. Ai familiari della giovane purtroppo deceduta vanno le nostre profonde condoglianze.”

Secondo quanto dichiarato dal ragazzo, però, le telefonate sarebbero state due, entrambe durate 10 minuti: quindi il resto sarebbe stato tagliato. Nella conversazione registrata si sente il ragazzo raccontare sommariamente l’accaduto, comunicare la loro posizione (‘Havana Beach’ a Focene) e descrivere il van in cui si trovavano lui e Janna. “Manca tutto il resto della conversazione – ha spiegato a Repubblica, molto scosso – . Dopo quei due minuti ho continuato a parlare con gli operatori. Mi hanno chiesto di usare il mio gps per far sì che potessero geolocalizzare la chiamata. E l’ho fatto. Gli ho detto di richiamarmi se ci fossero stato problemi a trovarci, non mi hanno mai richiamato, fino a che io, alle 16:10, quando ho visto che l’ambulanza non arrivava, ho ritelefonato.” Per poi mettersi in marcia e trovare l’ambulanza ‘praticamente per caso’. 

Ares 118: “Nessun problema con la lingua inglese”

“Non c’è stato nessun problema con la lingua inglese e l’ambulanza è arrivata in 18 minuti dove l’utente aveva riferito di trovarsi ma, all’arrivo sul posto, le equipe sanitarie non hanno trovato nessuno, dal momento che l’uomo aveva deciso autonomamente di spostarsi“. A precisarlo, in una nota, è il 118. La direzione di Ares 118 ha sottolineato infatti che “la chiamata è stata passata in centrale operativa 118 da parte del NUE 112 alle ore 15.41 (e i due minuti di audio integrali senza tagli sono stati resi disponibili dalla Centrale operativa del 112), con l’attivazione contestuale del servizio di interpretariato. Il personale di centrale ha dunque risposto alla chiamata dell’utente con l’interprete già in linea”. 

Il mistero sulle cause della morte

“Sono passati oltre 70 giorni e la famiglia di Janna Gommelt non ha ancora saputo per quale motivo è venuta a mancare la donna. Non mi è mai capitata una situazione del genere.” A parlare è Manuele Piccioni, l’avvocato che segue la famiglia della ragazza morta all’improvviso lo scorso 20 gennaio. Nonostante l’autopsia sia stata effettuata 6 giorni dopo il decesso, il medico legale non ha ancora consegnato l’esito ai familiari. Inoltre, sottolinea ancora l’avvocato intervistato da Repubblica, c’è anche un altro aspetto da lui definito ‘poco chiaro’.

“Il nullaosta per la cremazione è stato concesso a metà febbraio. Questo vuol dire che le cause della morte sono accertate e che è già chiaro che non ci sarà l’esigenza di ulteriori accertamenti sul cadavere, dato che appunto, può essere cremato. Per questo non mi spiego il motivo di questa lunga attesa” spiega il legale.” Il fascicolo aperto dalla Procura per ‘istigazione al sucidio’ è forse un ‘atto dovuto per potere procedere con gli esami sulla salma’. La famiglia non ha sporto denuncia per ora: “Al momento potrebbero farla solo contro ignoti. Tutto sta nella relazione dell’autopsia. Solo quando la leggeremo potremo verificare se quello che ha detto il signor Douglas corrisponde al vero”. Mariangela Celiberti

IL CASO. Taranto, novantenne resta in attesa per 27 ore al Pronto Soccorso del SS. Annunziata. Il caso limite dell’uomo registrato con un «codice azzurro». La Asl: «Pochi medici». Federica Marangio su La Gazzetta del Mezzogiorno il 25 Marzo 2022.

Un’attesa interminabile quella di un novantenne che ha chiamato il 118 per un’infezione. Gli è stato assegnato un codice azzurro e ha atteso 27 ore al Pronto Soccorso dell’Ospedale “Santissima Annunziata”, prima di essere trasferito in reparto. Giunto per un forte innalzamento della temperatura comportato dall’infezione, ha stazionato 27 ore senza toccare cibo. La figlia che ha accompagnato telefonicamente il padre, lucidissimo, in ogni suo spostamento, lamenta della carenza di personale e incalza: «nessuno mette in discussione l’operato dei medici ai quali va il nostro plauso per gli sforzi e l’impegno senza sosta, ma se non avessi chiamato personalmente il medico che lo ha poi ricoverato, forse papà sarebbe ancora ad attendere».

Per quanto possa sembrare strano, nelle parole della figlia dell’anziano paziente non c’è polemica, ma «frequentando il Pronto Soccorso da due anni, conosciamo i tempi di attesa, anche se li consideriamo terribili». Questo problema non è una novità e proprio ieri si è tenuta una riunione con un unico punto all’ordine del giorno: la grave criticità al Pronto soccorso dovuta alla carenza di personale. Il direttore dello stesso, Gemma Bellavita, interpellata sulla questione, replica: «la situazione critica legata alla carenza di personale medico è nota da anni ed è presente nei Pronto soccorso di tutta Italia. Le motivazioni del depauperamento progressivo sono legate in parte al mancato turn over dei medici pensionati per carenza di medici specialisti ma anche e soprattutto alla fuga dai Pronto soccorso divenuti sempre meno attrattivi».

Il codice azzurro del novantenne è un codice di urgenza differibile, ma «meritevole di indagini», ha precisato il direttore Bellavita che ha aggiunto: «lo stesso pomeriggio vi erano altri codici azzurri già in attesa e sono poi sopraggiunti numerosi codici rossi e arancioni che certamente andavano gestiti prioritariamente. Durante l’attesa, certamente troppo lunga ma comunque assistita, sono state eseguite diverse rivalutazioni infermieristiche ed esami ematici chimici di base e controllo». I direttori dei PS pugliesi stanno lavorando alla stesura di un documento congiunto sulle criticità del sistema Pronto Soccorso. Il totale di medici in forza al Pronto soccorso è di 15, medici soggetti a turnazione quotidiana. A questo proposito è stato bandito un concorso proprio per reclutare personale medico specializzato in Emergenza Urgenza: hanno inviato la candidatura in 22, se ne sono presentati 5, ma solo 1 avrebbe accettato. Avrebbe perché ad oggi non ha ancora firmato. Porta la firma dell’assessore regionale alla Salute Rocco Palese una delibera sulle disposizioni del personale del Pronto Soccorso che invita i Direttori Generali delle Asl pugliesi a mettere in atto oltre alle «misure ordinarie, tutti gli strumenti contrattuali previsti dalla normativa vigente, con particolare riferimento a straordinario o prestazioni aggiuntive». Strumenti questi che sono già in atto e che non costituiscono la soluzione ad un problema oramai senza tempo. L’Asl di Taranto che fa tesoro delle rimostranze dei cittadini, ha avviato un percorso di umanizzazione che conta di operatori che si prendono carico del paziente non dal punto di vista clinico e lo sostengono anche nelle lunghe attese. Non solo. Oltre al tavolo permanente costituito da più direttori alla ricerca di soluzioni sull’asse longitudinale del Pronto Soccorso, vi è la pagina sanita.puglia.it/web/asl-taranto/pronto-soccorso-accesso-in-tempo-reale sul sito istituzionale che offre utilissime informazioni che possono cambiare il corso delle giornate.

«Con una lettura immediata dello stato in tempo reale dei Pronto Soccorso della Provincia di Taranto – ha sottolineato il direttore della comunicazione istituzionale, Donato Salfi – si ha una stima dei tempi previsti sulla base dei codici e del numero di pazienti in visita e in attesa». In questo modo il paziente può scegliere quale Pronto Soccorso raggiungere per evitare interminabili code a Taranto quando per esempio c’è disponibilità di personale medico impegnato in codici meno gravi a Castellaneta, Martina Franca o Manduria.

La denuncia: “Grave per Covid, mio padre in ambulanza per 7 ore prima del ricovero”. Redazione Cronaca trnews.it il 23 Novembre 2020. “In una di quelle ambulanze c’è mio padre, non da cinque minuti, ma da sette ore con la prospettiva di passarci tutta la notte”.

Il post denuncia si riferisce all’ospedale “M. Giannuzzi” di Manduria e a denunciare l’episodio sui social è Mirko Giangrande, avvocato del posto e figlio del malcapitato paziente parcheggiato in ambulanza in attesa di ricovero. Lui, un 57enne, era in cura domiciliare dopo essere risultato positivo al Covid. Domenica mattina si è aggravato e il 118 lo ha trasportato in ospedale d’urgenza.

“Per sette ore sdraiato sulla barella, da solo – si legge nel post – lontano dai parenti e dagli affetti più cari, con gli occhi fissi in alto, in compagnia solo della macchina dell’ossigeno. Non si capisce che fine debbano fare, intanto le ambulanze si ammassano. Se non muori di Covid, dovrai vedertela con la sanità pugliese. E in quelle ambulanze potreste esserci tutti voi”. In realtà il ricovero dell’uomo sarebbe avvenuto dopo ben 11 ore.

Parla il figlio dell'uomo rimasto 11 ore in ambulanza prima del ricovero al Giannuzzi. L’avvocato Mirko Giangrande racconta in un’intervista al Nuovo Quotidiano di Taranto il calvario del padre ricoverato al Giannuzzi dopo un’attesa di 11 ore in ambulanza. La Voce di Manduria martedì 24 novembre 2020.

Un calvario di 11 ore. Tanto è durata l’attesa in ambulanza di un uomo di Avetrana domenica scorsa. A raccontare l’incredibile vicenda al Nuovo Quotidiano di Taranto è il figlio del povero malcapitato, Mirko Giangrande. I particolari che l’avvocato riferisce hanno dell’incredibile. Il paziente, positivo già da diversi giorni, è stato prelevato dalla sua abitazione dopo aver effettuato una cura anti-Covid domiciliare. Giunto nel piazzale dell’ospedale Giannuzzi, dopo le prime ore, l’uomo - provato dall’attesa ed in evidente stato di agitazione - ha allertato il 112 ed il 113 addirittura dall’interno dell’ambulanza. Le comunicazioni con la famiglia avvenivano tramite whatsapp, visto l’affaticamento respiratorio e la difficoltà nell’effettuare chiamate vocali. Intorno alle 16.30, gli è stato effettuato un prelievo di sangue, ma il povero malcapitato – già da più di 4 ore all’interno dell’ambulanza – non dava segni di miglioramento e la febbre continuava ad aumentare. Il racconto del figlio del pover’uomo si fa sempre più inquietante: «Io vivo fuori, mi sono sentito impotente oltre che angosciato. In più – aggiunge l’avvocato – la cura intrapresa a casa si era interrotta durante le ore in ambulanza. Aveva solo l’ossigeno a sua disposizione e la febbre continuava a salire. Non sapevo cosa fare così, ormai stravolto, ho contattato il consigliere regionale Renato Perrini che si è adoperato a denunciare all’Asl di Taranto quanto stava accadendo» riferisce Giangrande. Stando a ciò che ha raccontato lo stesso avvocato durante l’intervista, sarebbero state ben cinque le ambulanze in coda per ore, così come riferitogli dal padre.

L’avvocato non ci sta e promette di andare a fondo sulla vicenda: «Mi preme evidenziare che questo è accaduto ad un uomo di 57 anni in grado di comunicare con l’esterno e di mantenere lucidità. Ma se fosse capitato ad un uomo anziano? Non si può correre il rischio di morire in attesa di essere ricoverati. Questi inconvenienti potevano essere comprensibili a marzo, ma non a novembre perché, come cittadini, ci saremmo aspettati una maggiore organizzazione» aggiunge Giangrande, che poi conclude: «Tenere bloccate le ambulanze per così tante ore è inconcepibile. E se dovessero servire per un’emergenza? Non ho parole».

La denuncia di Giangrande: “guarito dal Covid nella stessa stanza con positivi”. La Voce di Manduria mercoledì 09 dicembre 2020.

Dopo la denuncia per aver atteso undici ore in ambulanza prima di essere ricoverato in un reparto Covid del Giannuzzi, l’avvocato Antonio Giangrande, di Avetrana, si rende protagonista di un’altra vicenda. Dopo quindici giorni di ricovero, Giangrande si è negativizzato ma, racconta, è rimasto nella stanza con altri pazienti ancora positivi.

Alla sua richiesta di essere trasferito in un reparto dove i positivi non fossero recenti e quindi con una carica virale alta, i responsabili del reparto si sarebbero opposti. «A questo punto, data la possibilità di curare i postumi della malattia con cure ordinarie e con assistenza domiciliare – si legge in una nota stampa -, l’avvocato Giangrande è stato costretto alla dimissione volontaria per evitare di passare altri giorni da negativo in un reparto di positivi, anche nuovi, con i relativi rischi per la propria salute». «Con l’assurdo che, in fase di dimissione – concluso il comunicato - è stato raccomandato di non tornare a casa da coniugi o parenti positivi».

Nella giornata di ieri ambulanze con pazienti Covid in attesa per numerose ore al Giannuzzi: la denuncia del consigliere regionale Perrini.  Manduria Oggi 23/11/2020. La testimonianza di Mirko Giangrande: «Mio padre è rimasto in ambulanza per circa 10 ore» Ieri è stata una giornata nera per l’ospedale manduriano: diverse ambulanze, con a bordo pazienti Covid, sono rimaste ferme per numerose ore nell’area del Pronto Soccorso in attesa degli interventi dei sanitari. Secondo alcune versioni, pare che non ci fossero posti per accogliere tali pazienti (ma perché allora non dirottarli al Moscati o alla clinica Santa Rita?), secondo altre versioni bisognava attendere il responso dei tamponi per capire in quale aree trattare i pazienti (ma, anche in questo caso, perché non mandare direttamente i pazienti in strutture del capoluogo e si doti quanto prima il Giannuzzi di un laboratorio per processare i tamponi?). Sulla vicenda abbiamo raccolto la testimonianza di Mirko Giangrande, avvocato avetranese. «In una di quelle ambulanze c’era mio padre» racconta l’avv. Giangrande, «non da cinque minuti, ma da oltre sette ore, con la prospettiva di passarci tutta la notte, sdraiato sulla barella, da solo, lontano dai parenti e dagli affetti più cari, con gli occhi fissi in alto, in compagnia solo della macchina dell’ossigeno. Non si capiva che fine dovevano fare; intanto le ambulanze si ammassavano. Se non muori di Covid, dovrai vedertela con la sanità pugliese. E in quelle ambulanze potreste esserci tutti voi». Sulla vicenda interviene anche il consigliere regionale Renato Perrini, il quale pubblica una foto delle ambulanze in attesa davanti al Pronto Soccorso. «Solo pochi giorni fa il direttore della asl di Taranto ha detto che “a Taranto, a differenza di tutte le altre province della Puglia, non abbiamo mai visto la fila delle ambulanze con i pazienti Covid in attesa di tampone o ricovero”. Lo ha detto in due sedi istituzionali: prima a Manduria di fronte a diversi sindaci della provincia di Taranto, poi intervenendo durante il Consiglio comunale di Martina Franca. E ha aggiunto che addirittura abbiamo tanti altri posti disponibili, che la Asl ha scelto di attivare solo quando saranno necessari, per evitare che nel frattempo ci mandino pazienti da altre province. Non ho voluto, per non alimentare paure, allarmi o polemiche, smentirlo con le foto delle file di ambulanze a Taranto, che da giorni mi stavate mandando. Ho sperato che la cosa si stesse risolvendo. Ma questa mi arriva oggi, proprio da Manduria. La metto sperando che la faccia vedere Lopalco stasera in televisione. E da questa mattina che invece che auguri di Santa Cecilia ricevo telefonate preoccupate di parenti di pazienti bloccati nelle autoambulanze nel parcheggio dell’ospedale da ore in attesa di essere sbarellati. E continuano ad arrivarne altri che molto probabilmente passeranno tutta la notte in fila in ambulanza. Ho chiamato di persona e parlato con gli operatori che mi hanno confermato, ma domattina sarò lì a verificare. Ho saputo che dopo Bari, anche a Foggia stanno costruendo un ospedale da campo. Qui invece a Taranto vogliono aspettare di smantellare e infettare tutti gli ospedali della provincia? Anche se sono rimasto solo a lottare, farò tutto il possibile fino all’ultimo perché questo non accada. Non dobbiamo mai più vedere immagini come questa. Tutti hanno diritto a non ammalarsi, ma se succede, hanno ancora più diritto a trovare un posto letto. Questo nella provincia di Taranto non sta avvenendo». 

Medici di famiglia: lavorano troppo poco? Donatella Zorzetto La Repubblica il 2 marzo 2022.  

Hanno scioperato ieri e oggi perché lamentano pessime condizioni di lavoro. Ma secondo alcuni amministratori fanno meno degli ospedalieri, per i sindacati sono mal pagati e si stanno trasformando in impiegati. Ecco la loro busta paga e cosa cambierà con la nuova convenzione studiata da Agenas.

Secondo l'assessora al Welfare di Regione Lombardia, Letizia Moratti, in buona compagnia con altri presidenti di regione e amministratori "per i medici di medicina generale il numero di ore di lavoro è di parecchio inferiore a quello dei medici ospedalieri"; per i sindacati non è affatto vero, e assicurano: "Sono già super oberati di lavoro". E poi, aggiungono, con il Covid le cose vanno anche peggio, visto che tra vaccinazioni e tamponi in studio, oltre ai pazienti in quarantena da seguire giorno dopo giorno, le ore di lavoro dei sono aumentate a vista d'occhio.

Emergenza Covid e la paralisi della Sanità: altro che dare la colpa ai No Vax. E’ Il fallimento del sistema sanitario.

Baronato, demeritocrazia, austerity ed interessi privati nella gestione di un servizio pubblico sono la causa del fallimento.

Parola d’ordine: austerity e interessi privati. Con questi principii la sanità pubblica è stata ridimensionata e, spesso, data in mano ai privati, sostenuti dai media, dalla politica interessata e dalla finanza. 

Il sistema privato accreditato è parte integrante e necessario del sistema sanitario italiano. Ed ha assunto una grande rilevanza in nome dell’austerity. Con l’epidemia il sistema sanitario limitato nel suo agire è al collasso.

Del sistema sanitario italiano fanno parte erogatori sia pubblici sia privati.

Il Sistema privato si distingue in accreditato con il Servizio sanitario nazionale (Ssn) e non accreditato.

Il primo è parte integrante dell’offerta delle cure garantite dal nostro paese. Il suo obiettivo è di essere complementare all’offerta dei servizi sanitari del pubblico in una logica di partnership istituzionale e di condivisione dei valori fondanti il Ssn: universalità, uguaglianza, equità.

Negli ultimi anni le prestazioni sanitarie private accreditate hanno assunto una rilevanza maggiore. Ma anche quelle non accreditate sono aumentate.

Il contenimento della spesa ha portato inevitabilmente a una contrazione dell’offerta del Ssn.

Il Nord Italia, capofila nell’accreditare al privato la cura pubblica, è stato quello che ha pagato più dazio alla limitazione del servizio di cura ed assistenza.

Invece i media prezzolati e la politica interessata, anziché denunciare l’anomalia costituzionale, parlano e sparlano sempre dei No Vax, incentrando su di loro le pecche del sistema e giustificando con questo ogni indirizzo politico di contrasto: obbligo vaccinale e Green Pass.

La strada giusta. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 9 Febbraio 2022.

Sbagliare non è detto che sia un errore. L’infermiera Isabella Zermani Anguissola, in viaggio per Ancona con madre e figli, aveva sbagliato svincolo, finendo su un tratto della Autostrada del Sole su cui non avrebbe dovuto essere. Possiamo immaginare la sua reazione perché è stata la nostra, in casi simili: se la sarà presa con il computer di bordo, con il passeggero distratto, con quello distraente e naturalmente con la «sfiga» che ci vede benissimo solo con noi. Ma, mentre cercava di rimettersi nella carreggiata giusta, Isabella ha notato qualcosa di abbastanza simile all’inferno: un Tir fuori strada, un furgoncino accartocciato e l’autista del Tir che tamponava la fronte sanguinante di un ragazzo sui trent’anni, come lei. Isabella ha dimenticato tutto: la «sfiga», l’arrabbiatura e pure il cappotto. È scesa dall’auto in maglietta, col vento che c’era, senza gli arnesi del mestiere. Non li aveva con sé, tranne due: i guanti e la competenza. Ha tenuto la testa del ferito per un’ora, stando bene attenta a che non oscillasse, perché sapeva che qualsiasi movimento brusco sarebbe stato fatale. Quando sono arrivati i soccorsi, si è ricordata che aveva freddo e una famiglia che da un’ora l’aspettava in auto, dove è tornata con le mani sporche di sangue e una assurda, illuminante certezza: se non avesse sbagliato strada, quel ragazzo sarebbe morto. Non so voi, ma la prossima volta che sbaglierò strada mi verrà da pensare a lei.

Massimo Sanvito per “Libero Quotidiano” il 9 febbraio 2022.

In un angolino del pronto soccorso dell'ospedale Vannini di Roma. Sdraiata su una barella. Da sola. Per dieci ore. Interminabili. Si contorceva dai dolori allo stomaco, Rossana, mentre aspettava il suo turno per fare una tac. Aveva 67 anni e nel popolare quartiere del Quarticciolo la conoscevano in tanti. 

È morta per una dissezione dell'aorta, in pratica l'arteria vitale è collassata provocando un'emorragia fatale, all'alba di giovedì, nella sala operatoria del policlinico Tor Vergata, dove l'avevano trasferita per un intervento disperato. Troppo tardi.

Ora, al Vannini, è stata disposta un'indagine interna. La famiglia di Rossana chiede che la magistratura faccia chiarezza. La sua morte poteva essere evitata? «Se fossero intervenuti subito forse mia zia sarebbe ancora viva», racconta Irene, la nipote della donna. 

E dal Vannini rispondono, puntando il dito sulle lungaggini del Covid: «La signora ha fatto il percorso Covid che ha allungato i tempi, accusava dei sintomi generici, è stata sottoposta a due tac e poi trasferita a Tor Vergata, l'hub di riferimento per il reparto di cardiochirurgia».

A fare da arbitro, nel contesto di questa tragedia, è la Direzione Salute - Area Rischio Clinico della Regione Lazio: «È stato disposto un immediato audit clinico per definire tutti i passaggi assistenziali che hanno riguardato la signora Rossana Alessandroni, dai tempi del soccorso, al decorso presso l'ospedale Vannini, i tempi dell'inquadramento clinico e le relative modalità operative ed il successivo trasporto all'hub di riferimento Policlinico Tor Vergata. Verrà tutto svolto con la massima celerità. Ai familiari vanno le sentite condoglianze, assicurando che verranno chiariti nella massima trasparenza tutti i passaggi clinici».

Si vedrà. Ma cos'è successo nelle ore precedenti il ricovero? È mercoledì, attorno all'ora di pranzo, quando Rossana, vedova e mamma di due figli, comincia a sentire dolori allo stomaco. Forti da toglierle il respiro. Chiama il 118, l'ambulanza arriva al Quarticciolo, lei ci sale sulle proprie gambe. Nessuno può immaginare che non ritornerà più a casa. 

A sirene spiegate volano in codice rosso verso il Vannini, a Tor Pignattara. In pronto soccorso la sdraiano su una barella, le danno un antidolorifico e le dicono che dovrà aspettare la tac. Lei intanto scrive col telefonino alla sua famiglia. «Sono piena di dolori, non ne posso più, vorrei solo addormentarmi»: è l'ultimo messaggio, inviato alle 23.21.

Sono passate più di dieci ore dall'ingresso in ospedale all'esame. Alle undici di sera Rossana non ha ancora l'esito e alle due di notte è ancora al Vannini. Alle cinque i suoi famigliari vengono chiamati da un anestesista del policlinico. Sono notizie nefaste. 

I chirurghi, quando hanno aperto l'addome della signora hanno subito capito che non c'era più nulla da fare. L'emorragia è insanabile, il suo stato è troppo avanzato. Non sarebbe bastato nemmeno un miracolo. 

Un caso di malasanità o nessuna responsabilità da parte del pronto soccorso? Saranno le indagini a chiarirlo, certo è che la vicenda capita a qualche giorno di distanza dalla sentenza del Tribunale di Bologna che ha condannato l'Ausl a risarcire i famigliari di Giuseppe Consiglio, morto il 20 aprile del 2008 a 35 anni, anche lui per un deterioramento dell'aorta.

Aveva forti dolori a mandibola e gola, vomito e diarrea. Per la guardia medica e per l'ospedale Santa Maria delle Croci si trattava di gastroenterite, così Giuseppe fu dimesso attorno alle otto di sera, per poi morire prima di mezzanotte dopo essere stato riportato in ospedale. 

Fatale una lesione intestinale, diretta conseguenza della mancanza di esami approfonditi ed errori di valutazione da parte dei medici. L'unica ad aver intuito la gravità del suo quadro clinico era stata un'infermiera del 118 ma, di fatto, non fu ascoltata. 

La famiglia di Rossana Alessandroni, intanto, chiede giustizia. È sempre la nipote Irene a fare da portavoce: «Rossana quando è entrata in ambulanza era vigile, orientata: è entrata in ospedale viva e ce l'hanno ridata morta. Vogliamo giustizia: vogliamo sapere la verità. Perché ci hanno messo così tanto a farle una tac e poi a trasferirla a Tor Vergata?».

C’è anche buona sanità in Calabria: «Qui ho trovato le cure negate altrove». ALESSIA PAPALUCA su Il Quotidiano del Sud il 4 Marzo 2022.

«Ho visto tante persone curate con attenzione, sorrisi e gentilezza dai tanti giovani del Policlinico ed è una cosa che aiuta veramente tanto» è il racconto di Maria Laura Di Nolfo che scrive per esprimere la sua più sincera riconoscenza a tutto il personale medico e paramedico del reparto di Chirurgia Plastica dell’AOU “Mater Domini” di Catanzaro.

«Vivo da sei mesi una situazione molto difficile» inizia a raccontare la donna che, dopo il riconoscimento di un carcinoma al seno, nel 2020 affronta l’operazione e la terapia con grande forza, nonostante il momento collettivo di difficoltà. «La ricostruzione pensavo sarebbe stata la parte più semplice di tutto il percorso, in realtà è stata la più tragica – continua Maria Laura – mi sono sentita abbandonata, le grandi strutture mi hanno esplicitamente detto che non essendo un danno creato da loro non sarebbero intervenute».

Tra le mille peripezie e le presa in carico in diversi ospedali fuori regione tra la Lombardia e la Basilicata, Maria Laura ha vissuto la setticemia della prima protesi e un goffo tentativo di apporto della parete addominale in seconda ricostruzione, che le ha causato danni ben più gravi ed estesi. «Ho passato delle festività natalizie nella disperazione assoluta, ma quando il professor Greco mi ha visitata, mi ha subito annunciato che la situazione fosse difficile, ma non si è tirato indietro» continua a raccontare Maria Laura che, dopo un mese e mezzo al Policlinico, afferma di essere rinata.

«Nel corso del mio ricovero hanno curato non solo il corpo ma anche lo spirito, provato dai lunghi mesi di degenza passati inutilmente presso altri nosocomi» scrive nella lettera in cui sentitamente ringrazia il professor Manfredi Greco e l’equipe composta dalla dottoressa Fiorillo e dal dottor Ciriaco. Nella lettera ricorda «il clima sereno e gioviale, tale da rendere le medicazioni ed i problemi ad esse legati più leggeri e sopportabili» dei medici Salvatore Vella e Thomas Douglas ed i professionisti della Sala Operatoria: i medici Anestesisti, dottori Riverso e Gemelli, l’infermiera di sala Francesca Rodio. Rivolge un pensiero anche al personale infermieristico e Oss che, scrive, «quotidianamente si sono fatti carico di ogni esigenza di noi pazienti: sono cuore ed anima del Reparto. La loro disponibilità e umanità costante ha reso le giornate in ospedale più tollerabili».

Spera di essere stata una buona paziente Maria Laura, che ha fatto ritorno nella sua Scalea per ricominciare una seconda vita consapevole che, nonostante i molti nei della sanità calabrese, esistono isole eccellenti nelle quali il Giuramento di Ippocrate viene rinnovato giornalmente.

I familiari chiedono l'intervento della magistratura. Dieci ore sulla barella in attesa di una tac, muore per una emorragia: “Poteva essere salvata”. Mariangela Celiberti su Il Riformista l'8 Febbraio 2022.

È rimasta su una barella al pronto soccorso per ben 10 ore, in attesa di una tac. Rossana Alessandroni, 67 anni, è morta giovedì scorso per una dissezione dell’aorta addominale e conseguente emorragia interna.

Era arrivata all’ospedale Vannini delle Figlie di San Camillo in via dell’Acqua Bullicante, a Torpignattara, in preda a dolori lancinanti. Quando è stato deciso il trasferimento al policlinico Tor Vergata, data la gravità della situazione, era ormai troppo tardi. A denunciare il caso di malasanità sono stati i familiari della donna, che ora chiedono l’intervento della magistratura, come riportato da Repubblica.

Disposta un’indagine interna

“Al Vannini l’hanno tenuta dieci ore su una lettiga in pronto soccorso in attesa di farle una Tac. Mentre lei si contorceva dai dolori. Se fossero intervenuti subito forse mia zia sarebbe ancora viva” racconta al quotidiano Irene Corda, nipote della vittima. Ora la Regione Lazio vuole vederci chiaro e annuncia una verifica.

“È stato disposto stamani dalla Direzione regionale Salute – Area Rischio Clinico un immediato audit clinico per definire tutti i passaggi assistenziali che hanno riguardato la signora Rossana Alessandroni, dai tempi del soccorso, al decorso presso l’ospedale Vannini, i tempi dell’inquadramento clinico e le relative modalità operative ed il successivo trasporto all’hub di riferimento Policlinico Tor Vergata. Verrà tutto svolto con la massima celerità. Ai familiari vanno le sentite condoglianze, assicurando che verranno chiariti nella massima trasparenza tutti i passaggi clinici”, si legge in una nota.

I dolori e l’intervento dell’ambulanza

Rossana Alessandroni, vedova e madre di due figli, si sente male mercoledì 2 febbraio nella sua abitazione al Quarticciolo: avverte forti dolori allo stomaco. Intorno alle 13 chiama il 118 e l’ambulanza la trasporta al Vannini, dove viene accolta in codice rosso.

Stando ai racconti dei familiari, costantemente in contatto con la donna, al pronto soccorso le vengono somministrati degli antidolorifici, in attesa di essere visitata: la tac viene effettuata solo intorno alle 23. “Alle 23.21 ci ha scritto che era ancora in attesa del risultato. Si lamentava. ‘Sono piena di dolori – mi ha detto l’ultima volta che l’ho sentita – non ne posso più, vorrei solo addormentarmi’” racconta ancora la nipote. 

All’ospedale Vannini decidono di trasferirla d’urgenza al Policlinico Tor Vergata, dove viene operata: i chirurghi si trovano di fronte a una emorragia talmente estesa che non riescono a salvarla. “La signora – replicano al Vannini – ha fatto il percorso Covid che ha allungato i tempi, accusava dei sintomi generici, è stata sottoposta a due tac e poi trasferita a Tor Vergata, l’hub di riferimento per il reparto di cardiochirurgia”.

Una spiegazione che però non convince i parenti. Non hanno ancora potuto visionare la cartella clinica, ma chiedono di conoscere la verità. Mariangela Celiberti

Roma, morta dopo dieci ore sulla barella: la Regione apre un’indagine. Maria Egizia Fiaschetti su Il Corriere della Sera il 9 febbraio 2022

Rossana Alessandroni, 67 anni, è arrivata all’ospedale Vannini con forti dolori allo stomaco. È rimasta a lungo in attesa di ulteriori accertamenti, mentre gli spasmi aumentavano per l’emorragia provocata dalla dissecazione dell’aorta addominale.

Le piaceva lavorare all’uncinetto, aveva già preparato i cestini per le uova di Pasqua da regalare ai nipoti. Una donna solare Rossana Alessandroni, 67 anni, morta per un’emorragia provocata dalla dissecazione dell’aorta addominale dopo essere rimasta dieci ore su una barella all’ospedale Vannini. La nipote, Irene Corda, ricorda l’ultimo messaggio vocale inviatole dalla zia con un filo di voce alle 22.50 di mercoledì scorso: «È arrivata in ospedale sulle sue gambe e non è più tornata. Siamo scioccati, vogliamo giustizia». È passata una settimana da quando la signora Alessandroni viene portata in ambulanza nella struttura di Torpignattara con forti dolori allo stomaco. Uno dei parenti racconta che, dopo il consueto protocollo anti Covid (è risultata negativa al tampone molecolare), ha aspettato fino a tarda sera, nonostante gli spasmi lancinanti: «Le hanno fatto l’elettrocardiogramma e misurato gli enzimi, ma non erano esami sufficienti a diagnosticare la sua malattia, sarebbe bastata una semplice ecografia...». Quando dalla Tac è emersa la gravità della situazione, ormai irreversibile, è stata trasferita d’urgenza al Policlinico di Tor Vergata, ma l’emorragia era talmente estesa che i medici non hanno più potuto salvarla. Sulla vicenda la Regione ha aperto un’indagine interna per accertare «i tempi dell’inquadramento clinico, le relative modalità operative e il successivo trasporto all’hub di riferimento di Tor Vergata». L’amministrazione si impegna a garantire che «tutto venga svolto con la massima celerità e trasparenza», esprimendo ai familiari «le più sentite condoglianze»

«Era una donna forte, la maga del silenzio - racconta adesso la nipote, che non si dà pace - . Nel quartiere era benvoluta da tutti, nonostante avesse molto sofferto non si lamentava mai, non era tipo da piangersi addosso». Una vita difficile: la perdita del marito, «che per dieci anni ha combattuto contro un tumore», e di un figlio di 33 anni, Daniele, scomparso all’improvviso. Si occupava anche di un fratello disabile che, dopo i funerali celebratisi giovedì nella parrocchia del Quarticciolo, continua a chiedere dove sia la sua Rossana: «Si è persa, è partita?». Le «tribolazioni» l’avevano segnata, ma negli ultimi tempi si era ripresa e, per allontanare i pensieri tristi, si dedicava all’uncinetto e confidava in Padre Pio: «Era credente, ma spesso non riusciva a partecipare alla messa a causa dei troppi impegni familiari. Ultimamente, si prendeva cura anche del genero, malato oncologico».

Alla rabbia dei parenti «per le troppe cose andate storte» si aggiunge la preoccupazione per la precarietà economica di una famiglia la cui unica fonte di sostentamento è la pensione di reversibilità del marito defunto della signora Alessandroni: «Il fratello disabile non ha neppure l’accompagno, i problemi sono tanti, una situazione al limite dell’impossibile... Ma Rossana non era una che si approfittava, era una persona semplice, leale. È stata una guerriera fino alla fine, inerme di fronte agli errori di chi, adesso, dovrà risponderne».

La sanità italiana è collassata tra virus e burocrazia. Reparti chiusi, interventi e terapie rinviate. Due anni di pandemia hanno paralizzato gli ospedali sempre più a corto di personale dal Veneto alla Sicilia. E il Pnrr rischia il flop (Foto di Francesco Cocco). Gloria Riva su L'Espresso il 31 gennaio 2022.

Da oltre due mesi ventisei donne salernitane stanno attendendo un intervento chirurgico al seno per combattere il cancro che le sta divorando più velocemente di quanto la sanità campana stia facendo per salvarle. Per legge avrebbero diritto a un’operazione entro trenta giorni, eppure ne sono già passati sessanta, di giorni: spiacenti, ma la carenza di personale all’ospedale Ruggi d’Aragona di Salerno ha imposto la chiusura del reparto per i prossimi cinque mesi. 

Poi ci stupiamo se le terapie intensive sono piene. Rec News il 10 Gennaio 2022

Il decreto del 12 agosto 2021 all’articolo 2 assegna 3.713 euro per ricovero covid ordinario e 9.697 “se il ricovero è transitato in terapia intensiva” Poi ci stupiamo se le terapie intensive sono piene. Ma tanto la colpa è sempre dei no-vax.

Operazioni chirurgiche di nuovo cancellate, a rischio centinaia di migliaia di malati. Nei reparti si cura solo il covid: un posto letto frutta agli ospedali fino a 10mila euro Il governo incentiva i trasferimenti in intensiva, non le cure. Il risultato è che si assiste alla corsa alla riconversione del posto letto e a una riduzione dei reparti chirurgici. Basile (SIC): “Annullato l’80% delle operazioni. Zaira Bartucca su  recnews.it il 10 Gennaio

Il governo incentiva i trasferimenti in intensiva, non le cure. Il risultato è che si assiste alla corsa alla riconversione del posto letto e a una riduzione dei reparti chirurgici. Basile (SIC): “Annullato l’80% delle operazioni”

Il Covid ha monopolizzato la Sanità. Ha fatto sparire l’influenza, dimenticare le altre patologie e – perfino – cancellare le operazioni chirurgiche. Ufficialmente, “rimandate con data da destinarsi”. Gli ospedali subiscono da due anni – in misura crescente negli ultimi mesi – la conversione dei posti di degenza che vengono trasformati nei molto più redditizi posti covid. Il governo, infatti, rimborsa agli ospedali fino a 10mila euro per ogni ricoverato da coronavirus classificato come tale, come documentato da Affari Italiani che già lo scorso novembre scriveva: “Se si vedranno salire i posti letto delle terapie intensive, potrebbe essere quindi, certo, una conseguenza del Covid, ma potrebbe anche esserci un interesse degli enti ospedalieri a fatturare à gogo“.

 Ecco infatti che – di nuovo – l’ultimo virus rimasto si trasforma in moneta sonante e le speculazioni fioccano. Ma nessun magistrato che si ponga il problema. Il governo continua a ignorare le cure e la prevenzione autentica (quella che si basa sul rafforzamento del sistema immunitario) per ottenere previo ricatto l’inoculazione di redditizi preparati sperimentali (che non mettono al riparo dal contagio) in fasce crescenti della popolazione. Non dissimile la situazione nei nosocomi: se curare il paziente e rispedirlo a casa non frutta nulla (e anzi a causa dei tagli selvaggi alla Sanità è quasi una spesa), mandarlo in terapia intensiva – come spiega Affari Italiani – fa guadagnare cifre a quattro zeri.

Poi ci stupiamo se le terapie intensive sono piene.  Il decreto del 12 agosto 2021 all’articolo 2 assegna 3.713 euro per ricovero covid ordinario e 9.697 “se il ricovero è transitato in terapia intensiva. Operazioni chirurgiche di nuovo cancellate, a rischio centinaia di migliaia di malati. C'è solo il covid: ogni posto in degenza frutt…

Ma ora perfino i chirurghi fin qui complici cominciano a sfilarsi e ad alzare la voce, e il motivo è presto detto: lo scudo penale tanto criticato dai giuristi previsto dal D.L. 44/2021 che tentava di mettere al riparo i reati “commessi nell’esercizio di una professione sanitaria e che trovano causa nella situazione di emergenza”, è al capolinea: i dodici mesi di rinnovo massimo dello stato di emergenza sono trascorsi e nei decreti-blu si fa ora riferimento all’emergenza per calamità naturale in diverse province italiane.

Cosa dicono, dunque, finalmente, i chirurghi? Che “la riduzione degli interventi è drammatica“, che i posti letto destinati alla chirurgia in tutto il Paese sono più che dimezzati – si arriva all’80% in meno di operazioni, stando a quanto è stato reso noto – e che sussiste “il blocco dei ricoveri in elezione“. “Spesso – dice Francesco Basile della Società Italiana di Chirurgia – non è possibile operare neanche i pazienti con tumore perché non si ha la disponibilità del posto di terapia intensiva nel postoperatorio (…) Ci avviamo – sono le dichiarazioni riportate da QN – verso la stessa situazione del 2020, che ha portato come conseguenza 400.000 interventi chirurgici rinviati, notevole aumento del numero dei pazienti in lista di attesa e, ciò che è più pesante, si è assistito all’aggravamento delle patologie tumorali che spesso sono giunte nei mesi successivi in ospedale Malati di serie B: con lo spettro del virus, c’è chi aspetta operazioni anche vitali. La segnalazione Il premier Conte congela tutto, anche i reparti di chirurgia. E ora da Nord a Sud c’è chi aspetta interventi sanitari che in alcuni casi non sono rimandabili. “Ma se dedichiamo tutto al covid – rifletteva ieri Franco Corbelli da queste colonne – queste persone dobbiamo lasciarle morire?”

Zaira Bartucca Direttore e Founder di Rec News, Giornalista. Inizia a scrivere nel 2010 per la versione cartacea dell’attuale Quotidiano del Sud. Presso la testata ottiene l’abilitazione per iscriversi all’Albo nazionale dei giornalisti, che avviene nel 2013. Dal 2015 è giornalista praticante. Ha firmato diverse inchieste per quotidiani, siti e settimanali sulla sanità calabrese, sulle ambiguità dell’Ordine dei giornalisti, sul sistema Riace, sui rapporti tra imprenditoria e Vaticano, sulle malattie professionali e sulle correlazioni tra determinati fattori ambientali e l’incidenza di particolari patologie. Più di recente, sull’affare Coronavirus e su “Milano come Bibbiano”. Tra gli intervistati Gunter Pauli, Vittorio Sgarbi, Giulio Tarro, Armando Siri, Gianmarco Centinaio, Michela Marzano, Vito Crimi, Daniela Santanché. Premio Comunical (2014, Corecom/AgCom). Autrice de “I padroni di Riace – Mimmo Lucano e gli altri. Storie di un sistema che ha messo in crisi le casse dello Stato”.  

Non è l'arena, Sileri e il caso delle terapie intensive. Dietrofront sulla "vita difficile" ai no vax. Il Tempo il 27 gennaio 2022.

Il sottosegretario alla Salute, Pierpaolo Sileri, alza i toni contro i no vax in stile Macron. Mercoledì 26 gennaio era ospite a Non è l'Arena, il programma condotto da Massimo Giletti su La7, dopo la polemica nata per le parole pronunciate a Dimartedì: sLe gravissime dichiarazioni di Sileri a Dimartedì rispondendo al professore Paolo Gibilisco aveva sbottato: "Vi renderemo la vita difficile come stiamo facendo perché chi non è vaccinato e chi non rispetta le regole è pericoloso". 

Ieri Sileri era tornato sulle sue parole: non c’è stato "nessun intento polemico nelle mie parole" rivolte ai no vax e non c'è "nessuna volontà di introdurre ulteriori restrizioni". Insomma, la vita difficile partirà dal primo febbraio quando entreranno in vigore le limitazioni per i non vaccinati e dal 15 febbraio l’obbligo vaccinale per gli over 50: "In questo senso vanno intese le parole dette. Sarà difficile. Ma è già nei fatti".

Nel programma di Giletti il sottosegretario ha ammesso alcune criticità della gestione delle rianimazioni. Le terapie intensive "potenzialmente attivabili" si avvicinano alle 10mila unità ma "il problema è che non bastano il letto e il ventilatore, hai bisogno anche del personale, che è stato comunque notevolmente aumentato in alcune regioni" ma in altre "più sfortunate" ci sono "meno probabilità di trovare anestesisti o personale infermieristico". 

All'inizio di una notte di trattative per il Quirinale, Sileri non si sbottona sulle mosse di Conte e Di Maio. Giletti: leggo che ci potrà essere qualche evoluzione notturna per il presidente della Repubblica. "L'unico messaggio che ho ricevuto è quello di un medico che mi ha scritto..." dice il sottosegretario: "Anche io sono diventato democristiano? Tutti nasciamo di destra o di sinistra, ma tutti moriremo democristiani" scherza Sileri. 

Fino a 10 mila € per ogni intensiva: non vi stupite se ci sarà un boom. Affari Italiani Martedì, 30 novembre 2021.

L'incremento tariffario massimo da quasi 4 mila in area medica vola a 9.697 euro al passaggio del paziente in terapia intensiva

Covid, fino a 10 mila euro di rimborso statale per ogni paziente Covid ricoverato in terapia intensiva

Fino a 10 mila euro di rimborso statale all'ospedale per ogni paziente Covid che transiterà in terapia intensiva. Lo prevede il decreto pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 12 agosto 2021, all'articolo 2 (scarica qui il testo integrale dell'articolo 2). 

Se si vedranno salire i posti letto delle terapie intensive, potrebbe essere quindi, certo, una conseguenza del Covid, ma potrebbe anche esserci un interesse degli enti ospedalieri a fatturare à gogo. Nel decreto si fa riferimento a un "incremento tariffario per le prestazioni di assistenza ospedaliera per acuti a pazienti affetti da Covid-19".

Si parla quindi di fondi che le strutture ospedaliere riceveranno in merito alla remunerazione dei ricoveri per acuti di pazienti affetti da Covid, e all'individuazione dei "criteri utili alla definizione delle funzioni assistenziali correlate all’emergenza", nel periodo relativo allo stato emergenziale sul territorio nazionale, "di cui alla delibera del Consiglio dei ministri del 31 gennaio 2020 e successivi provvedimenti di proroga".

Come stamattina ha ribadito il direttore di Affaritaliani.it Angelo Maria Perrino, ospite a Telelombardia, "l’incremento tariffario massimo, per ciascun episodio di ricovero con durata di degenza maggiore di un giorno, è pari a 3.713 euro se il ricovero è avvenuto esclusivamente in area medica e a 9.697 euro se il ricovero è transitato in terapia intensiva".

"In caso di dimissione del paziente per trasferimento tra strutture di ricovero e cura, l’incremento tariffario è ripartito tra le strutture in proporzione alla durata della degenza in ciascuna", si legge in Gazzetta, mentre "in caso di trasferimento del paziente in reparti diversi di una stessa struttura di ricovero, l'incremento tariffario è riconosciuto una sola volta con riferimento all'intero episodio di cura ospedaliero. L'incremento tariffario si applica ai soli ricoveri in cui il paziente sia risultato positivo al tampone effettuato per la ricerca del virus Sars-Cov-2, così come verificato dall'Istituto superiore di sanità".

MAURO EVANGELISTI per "il Messaggero" il 12 gennaio 2022.

Cento milioni di euro al mese buttati a causa della follia No vax. Non c'è solo il conto, drammatico, di vite umane. Le terapie intensive si riempiono per due terzi di pazienti Covid non vaccinati e i decessi continuano a salire, tanto che ieri hanno sfiorato quota 300. Ancora: non ci sono solo gli effetti collaterali di 400mila interventi chirurgici rinviati in un anno perché negli ospedali le forze sono state concentrate soprattutto per arginare la pandemia anche nel 2021, quando avevamo già l'arma dei vaccini che una minoranza ha rifiutato causando guai a se stessi e alla maggioranza del Paese.

RISORSE C'è anche un dato economico su cui prima o poi bisognerà ragionare. Quanto costano i pazienti non vaccinati al sistema sanitario nazionale? Parliamo di persone che, se avessero accettato di immunizzarsi, avrebbero ridotto drasticamente le probabilità di finire in terapia intensiva. Il grafico elaborato dall'Istituto superiore di sanità e rilanciato l'altro giorno dal governo è molto chiaro: su centomila cittadini non vaccinati in 23 vanno in terapia intensiva per Covid; su centomila vaccinati da meno di quattro mesi ce ne va solo 1.

Questo dato dovrebbe chiarire le idee anche a chi ha poca confidenza con la matematica. In altri termini: se tutti i centomila del primo gruppo si fossero vaccinati, in terapia intensiva non avremmo avuto 23 ricoveri che costano al servizio sanitario nazionale 1.700 euro al giorno, ma ne avremmo avuto solo uno. Lo stesso ragionamento si può fare per i ricoveri in area medica, dove un paziente Covid costa circa 800 euro al giorno. In ottobre Altems (Alta scuola di economia e management della sistemi sanitari nazionali-Università cattolica) ha realizzato una prima simulazione per Il Sole 24 Ore da cui emergeva che in un mese i pazienti no vax erano costati 70 milioni di euro. La ricerca prendeva in considerazione i giorni di degenza media per un paziente Covid: 11,3 in area medica, 14,9 in terapia intensiva.

Ecco, qui già è facile il calcolo: un paziente Covid in terapia intensiva costa mediamente 25.500 euro. Si dirà: ma quei soldi si spendono anche quando è un paziente vaccinato a finire in terapia intensiva. Ma c'è una differenza: una piccola minoranza, il 20 per cento degli italiani di qualsiasi età non vaccinati causa la grande maggioranza dei ricoveri e aumenta di 22 volte le possibilità di finire in terapia intensiva.

Con la facilità di trasmissione della Omicron le probabilità di contagio sono molto elevate, secondo l'Oms uno su due sarà infetto entro due mesi: solo che il vaccinato ha fatto tutto il possibile per alzare uno scudo che nella stragrande maggioranza dei casi funziona, il non vaccinato si prende un rischio alto che peserà su tutta la comunità. E nell'ultimo mese quei 70 milioni calcolati da Altems in una fase non grave della pandemia, sono diventati almeno 100 milioni. Se tutti gli italiani fossero vaccinati, la percentuale di chi finisce in ospedale sarebbe sostenibile, il sistema sanitario reggerebbe. Ma quel contributo 22 volte più alto dei non vaccinati fa saltare il sistema.

ASSEDIO Racconta il professor Francesco Basile, presidente della Società italiana di chirurgia: «In un anno abbiamo rinviato 400mila interventi di elezione a causa del Covid. Teoricamente sono prestazioni procrastinabili. Ad esempio un intervento per calcoli della colecisti, ma non dimentichiamo che comunque la calcolosi alla colecisti può dare vita a una patologia acuta, anche se non in tempi brevi normalmente. In sintesi: neanche interventi di questi tipo andrebbero rinviati.

I pazienti oncologici vengono operati, ma anche in questo caso non mancano i rinvii, perché necessitano poi un posto in terapia intensiva che magari non c'è perché occupato dal paziente No vax infetto dal Covid. Quando noi abbiamo calcolato 400mila interventi rinviati in un anno, contavamo di recuperare, di smaltirli nel 2021. Purtroppo questo è avvenuto solo in parte. Diciamo che siamo ancora al 50 per cento, 200mila in tutta Italia. E le liste di attesa stanno aumentando di nuovo». In sintesi: sta saltando l'80 per cento degli interventi, magari perché medici e infermieri vengono dirottati nei reparti Covid pieni di pazienti No vax.

Allarmante il quadro descritto dal professor Francesco Cognetti (presidente di Foce, Fondazione degli oncologi, cardiologi ed ematologi): «Siamo molto preoccupati per il blocco dell'attività chirurgica programmata determinato dalla nuova ondata pandemica causata dalla variante Omicron. Rischia di provocare gravi danni ai nostri pazienti, circa 11 milioni in Italia. Il rinvio degli interventi chirurgici può favorire lo sviluppo di tumori in fasi più avanzate, con minori possibilità di guarigione».

Paolo Russo per “La Stampa” il 19 febbraio 2022.

Qualcuno l'ha già definita la pandemia delle cure negate, destinata a lasciare strascichi non meno gravi dei danni provocati dal Covid. Che prima o poi passerà, mentre il cancro resta e dal 2020 al 2021, secondo l'Aiom, l'associazione di oncologia medica, un milione di malati oncologici hanno finito per restare senza cure, saltando anche visite di controllo e screening che hanno fatto perdere per strada almeno 15 mila diagnosi di tumori. Ritardi che quando si parla di cancro possono diventare fatali.

La piaga in realtà si era già aperta durante le prime ondate del 2020. Il problema è che dopo un anno ci siamo fatti trovare di nuovo impreparati, con ospedali e ambulatori andati in tilt con la quarta ondata dovuta a Omicron, che a gennaio di quest' anno ha spinto sopra quota 20 mila i ricoveri nei reparti di medicina. Numero non distante dal picco dei 25 mila della prima ondata. Solo che la lezione di allora non è servita a niente perché gli ospedali non hanno organizzato quei percorsi «pulito-sporco» che servono a separare i contagiati da chi non lo è, finendo per paralizzare interi reparti. Così lo sforzo compiuto dai medici per recuperare parte dell'arretrato nei mesi di tregua concessi dal virus lo scorso anno ha finito per essere vanificato e travolto dalla quarta ondata.

E il bilancio di questa pandemia nella pandemia è tornato a farsi tragico. I numeri ce li forniscono il sindacato dei medici ospedalieri Anaao e l'associazione Salutequità, che ha messo su un monitoraggio sugli interventi e gli accertamenti rinviati. Ebbene, da inizio pandemia ci sono stati oltre due milioni di ricoveri in meno rispetto al 2019, sono saltati circa 600 mila interventi chirurgici e persi per strada 4 milioni di screening oncologici. Per non parlare dei 14 milioni di visite specialistiche rinviate sine die.

La Società italiana di chirurgia (Sic) stima un calo degli interventi chirurgici tra il 50 e l'80%. E tra dicembre e gennaio ben 16 Regioni più la Provincia autonoma di Trento hanno bloccato del tutto o in parte gli interventi non considerati urgenti con delibere varie. Ma come denuncia la Sic sono saltati anche interventi di asportazione di tumori o cardiologici per mancanza di posti nelle terapie intensive, dove bisogna comunque restare qualche giorno dopo operazioni che sono sì programmate, ma pur sempre molto delicate. «Sembra che non sia cambiato nulla dal marzo del 2020, quando con la prima ondata si decise di fermare tutti gli interventi non urgenti. Siamo nel 2022 eppure non siamo stati in grado di organizzare un modello che consenta di non bloccare le altre prestazioni sanitarie.

In pratica i pazienti non Covid possono contare sull'Ssn solo sei mesi l'anno, da maggio a ottobre, e questo è grave perché a pagare sono solamente i malati cronici», lamenta Tonino Aceri, presidente di Equisalute. La sanità interrotta che rischia di lasciare le ferite più profonde è però quella della prevenzione. Solo il calo degli accertamenti oncologici, secondo l'Aiom, ha impedito la diagnosi di oltre 15 mila tumori e l'accertamento di altre 7.500 lesioni pre cancerogene. In tutto sono stati un milione gli esami saltati per la prevenzione dei tumori, che hanno comportato l'11% di diagnosi in meno e il 18% di interventi chirurgici saltati.

«Non sono ovviamente i tumori a rarefarsi ma le buone pratiche di diagnosi e cura precoce ad arretrare. E nei prossimi anni ne pagheremo il prezzo. Peccato perché da tempo vedevamo calare la mortalità», è l'amaro commento del presidente eletto dell'Aiom, Francesco Perrone. Gli esami del tumore alla mammella dal gennaio 2020 al maggio 2021 sono andati giù del 28,5% e così 817 mila donne tra i 50 e i 69 anni hanno saltato controlli che secondo l'Osservatorio nazionale screening equivalgono a 3.500 diagnosi di cancro in meno.

Per i tumori al colon gli screening sono andati giù del 34,3%. E anche qui il prezzo sono 1.376 tumori del colon retto non diagnosticati e 7.763 adenomi in stato avanzato non rilevati. Molte di queste cure negate resteranno tali. Altri accertamenti e interventi potranno essere recuperati, ma con tempi probabilmente biblici perchè le liste di attesa si sono nel frattempo allungate a dismisura. «In un anno possiamo recuperare il 70% degli interventi saltati - dice Marco Scatizzi, presidente Acoi, l'associazione dei chirurghi ospedalieri - ma un 30% dovrà aspettare fino al 2023, se riprendiamo a regime e non ci saranno ulteriori problemi».

«Durante la pandemia abbiamo cumulato forti ritardi nelle visite mediche e negli screening che dobbiamo assolutamente recuperare», ammette il ministro della Salute, Roberto Speranza. Che poi ricorda come nel decreto di agosto prima e nell'ultima legge di Bilancio poi sia stato stanziato complessivamente un miliardo per lo smaltimento delle liste di attesa. In parte utilizzabili per acquistare prestazioni nel privato e in misura più consistente per permettere ad Asl e ospedali di pagare prestazioni extra ai loro medici.

«Attualmente vengono retribuite 80 euro l'ora, solo che la metà se ne vanno tra tasse e contributi alle aziende sanitarie, che tra l'altro non tutte hanno adeguato la tariffa altrimenti ferma a soli 60 euro, che andrebbe comunque defiscalizzata», lamenta Carlo Palermo, segretario nazionale dell'Anaao, il più rappresentativo sindacato dei camici bianchi ospedalieri. «Per il recupero di questa enorme mole di arretrato però serve assumere personale. In questa fase di emergenza dovremmo attingere al serbatoio degli specializzandi dal terzo anno in poi, superando tutte le pastoie burocratiche che frenano il loro trasferimento dalle università agli ospedali», propone Palermo. E questa volta i soldi per farlo ci sarebbero pure. Altro tempo da perdere no.

Adriana Bazzi per il “Corriere della Sera” il 12 gennaio 2022.

Ci risiamo. La nuova emergenza Omicron sta facendo riemergere un'altra pandemia: quella della «sanità negata». Gli ospedali, per far fronte alla situazione, stanno riconvertendo i reparti per assistere i nuovi contagiati (spesso non vaccinati), stanno rimandando interventi chirurgici programmati, stanno sospendendo altre attività, per esempio di prevenzione. Così denunciano le associazioni mediche: sembra di ritornare al 2020, quando non esistevano nemmeno i vaccini. Come è possibile? Lo chiediamo a Giuseppe Curigliano, direttore della Divisione Nuovi Farmaci all'Ieo, l'Istituto Europeo di Oncologia e professore di Oncologia medica all'Università di Milano. Un ricercatore, ma anche un clinico che assiste, in corsia e in ambulatorio, i malati di tumore.

Professore, perché non abbiamo imparato la lezione del 2020 e non ci siamo preparati a questa nuova ondata?

«In effetti già i dati raccolti nel 2020 ci informavano che dal 30 al 50% della work force, la forza lavoro dedicata alla cura dei tumori nei nostri ospedali, era stata dirottata nell'assistenza ai malati di Covid. Il che significa che dal 30 al 50% dei pazienti con malattie oncologiche non trovavano un'assistenza adeguata».

La conseguenza è che c'è stato un ritardo nelle diagnosi e nel primo approccio chirurgico ai pazienti con tumori operabili, come ci dimostrano i dati riportati dal Libro Bianco dell'Aiom (l'Associazione Italiana di Oncologia Medica) riferiti al 2020. Solo un dato per tutti: il numero di operazioni per tumore alla mammella si è ridotto del 22%. È davvero così?

«Sì. Alcuni studi internazionali hanno dimostrato che i ritardi nella diagnosi di malattia e nella possibilità di accedere alla chirurgia hanno comportato un aumento del rischio di mortalità per i malati, rispetto alla situazione pre-Covid, del 2 per cento. Non solo: l'emergenza Covid ha penalizzato anche la prevenzione. In Italia, durante la prima ondata, si sono "persi" almeno un milione e 400 mila esami di screening (ricordiamo: gli screening sono gli esami offerti al pubblico per l'identificazione precoce di tumori, principalmente quello alla mammella con la mammografia e quello del colon, con la ricerca del sangue occulto, ndr ). Poi, però, la situazione nel 2021 è migliorata, per quanto riguarda sia l'accesso alle cure che alla prevenzione, grazie anche ai vaccini. C'è stato un recupero, ma ancora non possiamo quantificarlo. Per esempio, si ipotizza che almeno un 60 per cento degli screening siano stati riattivati». 

Questo recupero rischia ora di essere vanificato dalla nuova pandemia di Omicron?

«Sì. E la comunità scientifica deve riproporre con forza l'idea di riorganizzare la "forza lavoro" dei sanitari con un occhio a eventuali nuove emergenze infettive, ma anche con una prospettiva che punti a organizzare diversamente la sanità soprattutto sul territorio». 

Fin qui abbiamo parlato di pazienti, ma che dire del personale sanitario che, dopo due anni in trincea, potrebbe andare incontro, come ci suggeriscono le metafore belliche usate in questa pandemia, a una Caporetto?

«Innegabile che il personale sia sotto stress. Nella mia esperienza universitaria ho conosciuto medici giovani che, nelle fasi peggiori della pandemia, di fronte ai pazienti, sono andati incontro a burnout (un esaurimento sul piano fisico, emotivo e mentale che coinvolge anche la vita privata, ndr ), anche per l'impossibilità di andare avanti nel loro percorso formativo. E molti medici hanno abbandonato la professione a contatto con i pazienti, abdicando alla vera missione del medico». 

Occorre, dunque, rimotivare i medici?

«È indispensabile, altrimenti non si va avanti». 

Un accenno alla ricerca. Ormai la maggior parte dei lavori, pubblicati nella letteratura scientifica, riguardano il Covid. Che spazio hanno le altre ricerche?

«Personalmente ho rinunciato a parlare di Covid. Vorrei ritornare su altri temi».

Uno studio del Politecnico di Milano (2021) sostiene che, complice il Covid, la ricerca scientifica stia diventando sempre più «individuale». E che siano le donne a farne le spese.

«Non mi sembra. Personalmente, durante questa pandemia, ho incrementato il network dei miei rapporti internazionali. E nonostante una ricerca dell'Esmo, la società europea di oncologia medica, dichiari che le donne sono meno presenti come autrici nelle pubblicazioni scientifiche, osservo che, negli ultimi lavori su come gestire il cancro nei pazienti con Covid, le prime firme sono proprio di ricercatrici».

Paolo Russo per “La Stampa” l'11 gennaio 2022.

C'è la pandemia dei contagiati dal Covid, che sempre più numerosi, soprattutto se No Vax, finiscono in ospedale. E c'è la pandemia non meno grave di chi il virus non ce l'ha ma che è costretto a rinviare ricoveri e interventi anche importanti. Per asportare un tumore o sostituire una valvola cardiaca che non va più, tanto per capire. 

A lanciare l'allarme è la Società italiana di chirurgia (Sic), che denuncia: nelle regioni si stanno tagliando tra il 50 e l'80% dei ricoveri. Questo perché «le aziende sanitarie sono costrette a destinare ampi spazi di ricovero ai pazienti Covid, mentre le terapie intensive sono occupate in gran parte dai pazienti No Vax».

«Con i posti letto di chirurgia dimezzati, il blocco dei ricoveri programmati, le terapie intensive riconvertite per i pazienti Covid, infermieri e anestesisti delle sale operatorie trasferiti ai reparti per positivi, l'attività chirurgica in tutta Italia si è dimezzata e in alcuni casi si è ridotta a un quinto, riservando ai soli pazienti oncologici e di urgenza gli interventi. Ma spesso non è possibile operare neanche i pazienti con tumore perché non si ha la disponibilità del posto di terapia intensiva nel postoperatorio», spiega il presidente della Sic, Francesco Basile.

«Nel 2021 non siamo riusciti, nonostante l'impegno delle autorità sanitarie e dei chirurghi, a smaltire le liste di attesa accumulate nel 2020 per patologie chirurgiche in elezione - continua - e ciò anche se in molte regioni si sono organizzate sedute operatorie aggiuntive. Adesso le liste d'attesa torneranno ad allungarsi a dismisura». 

Secondo Basile ci troviamo praticamente nella stessa situazione del 2020, «che ha portato come conseguenza 400 mila interventi chirurgici rinviati, un notevole aumento del numero dei pazienti in lista d'attesa e, ciò che è più pesante, all'aggravamento delle patologie tumorali che spesso sono giunte nei mesi successivi in ospedale ormai inoperabili». E il campanello d'allarme suona anche per bambini e teenager, tra i quali è boom di ricoveri da Covid. 

Che anche in questo caso finiscono per togliere letto e medici a chi malato di altro avrebbe comunque diritto alle cure. Mentre la vaccinazione tra i più piccoli arranca, con per ora solo il 16,4% di immunizzati con la prima dose nella fascia 5-11 anni, i pediatri denunciano: «Sono in aumento i ricoveri nella fascia d'età sotto i 19 anni: i casi sono passati da 1.024.963 del 28 dicembre a 1.182.094 del 5 gennaio, e nello stesso arco di tempo di una settimana i ricoveri sono saliti da 9.423 a 10.082, ovvero oltre 600 in più», spiega allarmata la presidente della Società italiana di pediatria (Sip), Annamaria Staiano.

Nella fascia 6-11 anni, «i casi passano nello stesso periodo da 343.634 a 392.040, i degenti da 1.605 a 1.711, dunque oltre 100 in più in 7 giorni, le intensive da 38 a 39 ed i decessi sono 9. Di fronte a questi dati - conclude - va ribadito alle famiglie che l'unica vera arma che abbiamo a disposizione è quella dei vaccini». Intanto la pressione sugli ospedali aumenta e con i letti in più occupati ieri dai pazienti Covid in questo momento due regioni, Piemonte e Calabria, lunedì finirebbero in fascia arancione.

La prima con il 31,7% dei letti di medicina e il 22,3% di quelli in terapia intensiva occupati, la seconda con tassi di occupazione del 36,2% e del 20,1%, hanno entrambe scavallato le soglie che colorano di arancione, fissate rispettivamente al 30% e al 20%. A rischio di fare la stessa fine è anche la Liguria, che con il 38,8% ha ampiamento rotto gli argini nei reparti di medicina ma con il 19% è ancora un punto sotto la soglia di sicurezza delle terapie intensive. In pericolo anche la Valle d'Aosta, che per i letti in area medica al 46,5% occupati da pazienti Covid sarebbe addirittura in rosso lockdown, ma si salva avendo «solo» il 18,2% dei letti occupati nelle terapie intensive.

A livello nazionale dall'11% del 24 dicembre si è passati al 17% dei letti occupati in terapia intensiva, mentre in area medica siamo oramai a un letto su quattro occupato da pazienti Covid, certifica l'Agenas, l'Agenzia pubblica per i sevizi sanitari regionali. Ma l'Italia ancora quasi tutta in giallo, con 4 regioni ancora in bianco, secondo i medici ospedalieri del sindacato Anaao è un abbaglio, perché i tassi di occupazione dei posti letto sarebbero stati tenuti bassi spostando letti dai reparti non di area medica a quelli Covid. Senza contare che i medici e gli infermieri che ruotano intorno a quei letti sempre gli stessi restano. Finendo così per negare il diritto alla salute a chi malato di Covid non è.   

Lodovico Poletto per "la Stampa" l'11 gennaio 2022.

La «macchia» sui polmoni gliela hanno scoperta per caso, un paio di mesi fa. «Avevo male alle braccia: pensavo a un problema legato alla cuffia dei rotatori delle spalle. Sono andato a fare un controllo e hanno scoperto due macchie nei polmoni», racconta. Origine oncologica. Da operare. Era la metà di ottobre e il signor Armando, 74 anni, ex vigile del fuoco, un fisico da fare invidia, palestra, nuoto, mai un giorno fermo con le mani in mano, l'ultima sigaretta fumata trenta o quaranta anni fa, ha allargato le braccia: «Va bene, operatemi». Gli avevano fissato anche la data. A gennaio. Il Covid allora non aveva ancora monopolizzato reparti.

Di Omicron ovviamente non se ne parlava. E il signor Armando era tornato a casa non tranquillo, ma tutto sommato sereno. Tranquillizzato dalle parole dei medici: «Vedrà si risolverà tutto con questo piccolo intervento». Poi, la scena è cambiata. In tutto il Paese. E all'ospedale dove avrebbero dovuto effettuare quell'intervento in laparoscopia - il Giovanni Bosco di Torino - sono arrivati centinaia di malati di Covid. Reparti riconvertiti. Interventi rimandati.

E il signor Armando è finito pure lui nell'elenco delle persone a cui l'intervento è stato spostato. «Era il 3 di gennaio, una settimana fa, quando mi hanno chiamato dall'ospedale. Mi hanno spiegato che non potevano fare altrimenti, considerando ciò che sta accadendo», racconta. E si è arrabbiato? «No, non mi sono adirato. Insomma: la situazione è sotto gli occhi di tutti. L'emergenza sanitaria è palese. È ovvio che i medici fanno ciò che possono. E poi io non sono in pericolo di vita. Il mio intervento è stato posticipato. Me ne faccio una ragione».

E nel frattempo che cosa fa? «Nel frattempo ho sospeso tutta l'attività fisica. Ecco, vorrei tornare a muovermi un po'. Sa, io ho ancora tanta energia, e voglio vivere, voglio tornare a camminare e a nuotare! Nel frattempo me ne sto qui tranquillo e aspetto che mi chiamino dall'ospedale». In questa storia va raccontato anche un altro aspetto. Armando e sua moglie - tre dosi di vaccino lui, tre dosi lei - da qualche giorno sono positivi al Covid. Non stanno male.

Ma adesso sono barricati in casa. «Dove l'ho preso? Mi viene da pensare in ospedale: sono andato a fare un sacco di visite ed esami. Potrebbe essere lì. E poi l'ho portato a casa io. Pazienza. Passerà. Noi non siamo in pericolo di vita».

Fortissima riduzione di attività diagnostiche e interventi chirurgici per molti pazienti. “Il Covid mette a rischio la vita dei malati di tumore”, l’allarme degli oncologi. Redazione su Il Riformista il 12 Gennaio 2022.  

Dopo quasi due anni di pandemia si assiste nuovamente ad una fortissima riduzione di attività diagnostiche e interventi chirurgici per molti pazienti e anche per i malati oncologici. L’allarme arriva dal Collegio Italiano Primari Oncologi Medici Ospedalieri che denuncia che in questi anni di pandemia sicuramente qualcosa non ha funzionato. “Anche perché le soluzioni per evitare ulteriori ritardi e che i progressi raggiunti in termini di guarigione e di sopravvivenza per i malati oncologici vengano vanificati dalla pandemia ci sono – scrivono i medici in una nota – dal potenziamento reale della medicina territoriale alle cure precoci domiciliari fino all’utilizzo di medici pensionati e medici militari negli Hub vaccinali per far sì che i medici degli ospedali non siano sottratti ad attività fondamentali come la diagnostica”.

Così i dottori hanno deciso di scrivere una lettera aperta firmata da Luigi Cavanna, Presidente del CIPOMO, Collegio Italiano Primari Oncologi Medici Ospedalieri, di cui riportiamo di seguito il testo. “Negli ultimi anni sono stati ottenuti progressi molto importanti nella cura di pazienti affetti da tumore maligno: aumento di guarigioni, prolungamento della sopravvivenza per chi non guarisce e miglioramento della qualità di vita per la maggior parte dei pazienti. Questi progressi sono stati ottenuti attraverso la prevenzione (screening), la ricerca tecnica, biologica, farmacologica, e strategie di cura multiprofessionale. Questi importanti progressi rischiano di essere vanificati dalla pandemia COVID-19″.

“Non possiamo non considerare alcuni punti:1) a febbraio-marzo 2020 il nostro Paese, soprattutto il Nord, è stato pesantemente colpito dalla pandemia, con le conseguenze che tutti ben conoscono e per quanto concerne i malati di tumore questo si è tradotto in: blocco degli screening, ritardi diagnostici, ritardi per interventi chirurgici ecc. Per una malattia tempo dipendente come il cancro, il ritardo della diagnosi e dell’intervento chirurgico (si pensi ai tumori di stomaco, colon, mammella, ecc), può significare la perdita di possibilità di guarigione vera ed essere quindi destinati a morire per una malattia che se trattata in tempo utile poteva essere guaribile; 2) mentre a marzo-aprile 2020 si è assistito e si è accettato che una buona parte degli ospedali pubblici e privati del nostro Paese fosse riconvertita per le cure esclusive di malati COVID, con sospensione o fortissima riduzione delle attività diagnostiche e di interventi chirurgici per molti pazienti – malati oncologici compresi – diventa ora molto difficile accettare che tutto questo si stia ripetendo dopo quasi due anni di pandemia; 3) due anni in ambito medico, scientifico e sanitario sono una enormità. In due anni cambiano tantissime conoscenze, merito della ricerca, non solo biomedica, farmacologica e tecnica, ma anche organizzativa, relazionale ecc. Perché dopo 2 anni gli ospedali si stanno nuovamente riempiendo di malati COVID? Perché gli interventi diagnostici e chirurgici anche per i malati oncologici sono ancora ritardati-rimandati? Sicuramente qualcosa non ha funzionato e crediamo sia corretto ammetterlo“.

“Quali soluzioni allora? Ci sia permesso ricordare che in oncologia, attraverso la ricerca clinica ed organizzativa su di una malattia che fino a poco tempo fa non la si chiamava per nome, tumore o cancro, ma si preferiva chiamarla “brutto male”, sono stati sviluppati molteplici processi innovativi. Si pensi agli screening, che sono essenzialmente oncologici, si pensi alle cure del fine vita quando la guarigione non è possibile: le cure palliative e gli hospices sono stati introdotti per i malati oncologici. Sono stati inoltre sviluppati anche i concetti della cura multiprofessionale, multidisciplinare, diventati poi modello di comportamento pratico anche per altre branche della medicina e chirurgia”.

“Sosteniamo, inoltre, che venga finalmente potenziata la medicina territoriale (molto declamata negli ultimi mesi), che si sviluppino una volta per tutte le cure precoci domiciliari, in modo da lasciare liberi gli ospedali. In due anni di pandemia troppa poca ricerca è stata finalizzata alle cure precoci ed i drammatici risultati si stanno vedendo. Chi oggi, a gennaio 2022, ha bisogno dell’ospedale per patologie non COVID-19 rischia di non ricevere una cura adeguata, o comunque di gran lunga inferiore al gennaio 2020 (pre COVID)”.

“Ora sono in commercio farmaci per bocca per le cure precoci a domicilio del COVID, si sviluppino quindi protocolli diagnostico/terapeutici su base scientifica per le cure domiciliari e si raccolgano i dati e si faccia ricerca. La cura precoce domiciliare deve prevedere un approccio multidisciplinare tra medici del territorio, medici specialisti ospedalieri, medici delle unità speciali di continuità assistenziale (USCA). L’obiettivo deve essere quello di ridurre i ricoveri e lasciare liberi gli ospedali per pazienti non COVID”.

“I vaccini. Negli Hub vaccinali non vengano dirottati i medici degli ospedali, sottratti ad attività fondamentali come la diagnostica (endoscopie, ecografie, ecc) con conseguente impatto molto negativo sui tempi di diagnosi. Si chiamino medici pensionati, si dia l’incarico a medici militari, ecc”.

“Infine la comunicazione. Troppi ‘virologi’, terminologia introdotta per il grande pubblico, parlano della pandemia ‘alzando i toni’ l’uno contro l’altro, spesso ridicolizzando chi la pensa diversamente. Non va bene. Abbiamo imparato anni fa, durante le manifestazioni a sostegno della ‘cura di Bella’ che ridicolizzare, parlare con arroganza, non paga, anzi spesso si ottiene l’effetto opposto. Sarebbe opportuno che si parlasse con più umiltà, avendo il coraggio di dire che molti aspetti ancora non si conoscono e qualche volta dire “non lo so”, si deve cercare di unire le persone, infondere tolleranza, fiducia e rispetto, anche per chi la pensa diversamente”.

“CIPOMO cercherà in ogni modo di tutelare i tanti cittadini che si ammalano di tumore (oltre mille ogni giorno), al fine di evitare che di fronte all’ennesima variante di COVID gli ospedali tornino in ginocchio, le diagnosi vengano ritardate e gli interventi chirurgici non eseguiti. Le soluzioni ci sono e devono essere attuate, i mezzi di comunicazione provino a considerare che esistono purtroppo tante altre categorie di malati oltre ai pazienti COVID e molte malattie come il cancro sono tempo dipendenti e mentre un’alta percentuale di malati COVID può essere curata in sede extra ospedaliera, questo non è possibile per chi deve essere operato per un carcinoma del colon, dello stomaco, del polmone, della mammella o di altro tumore”.

Raffaella Troili per ilmessaggero.it l'11 gennaio 2022.

«Oramai, dopo un anno e tre mesi aspetto chi mi chiama prima...». C.G. 69 anni pensionato romano di Monteverde a ottobre 2020 aveva un'ernia inguinale, ora ne ha due. «Anche dall'altra parte, perché la natura fa da sè, mica aspetta...». Il Covid ha rallentato tutto, controlli, operazioni più o meno urgenti, nel frattempo le persone invecchiano e restano al palo.

«Il 16 ottobre del 2020 mi sono rivolto all'ospedale Fatebenefratelli per prenotare un intervento, mi hanno detto che mi avrebbero chiamato entro qualche mese, presumibilmente a fine aprile. In realtà, non si sono piu fatti sentire. Ma io li capisco, il dottore mi ha spiegato che con l'emergenza covid era tutto a rilento, solo che potrebbero almeno rispondere al telefono, perché senza mancanza di informazioni una persona viene pure limitata nel poter fare scelte diverse, intanto la possibilità di vita peggiora, uno aspetta... Ma se ha la possibilità di contattare un'altra struttura o permettersi cure a pagamento attende invano».

A  settembre, pazientemente, ha cercato di nuovo un contatto, «il medico giustamente mi ha spiegato che la causa dei ritardi era legata al covid, che gli interventi di questo tipo erano sospesi. Ma la cosa che va sottolineata è che nessuno ti risponde mai al telefono, al servizio ricoveri numero base e al servizio ricoveri specifico reparto della chirurgia addominale. Ho chiamato tante volte, dalla mattina, tutti i giorni, o è occupato o squilla a vuoto». 

Nel frattempo da monolaterale l'ernia è diventata doppia, è comparsa dall'altro  lato. «Nel frattempo la natura ci ha messo del suo. Ora sono andato al Campus biomedico, anche qui c'è da aspettare qualche mese, i miei sono interventi in seconda linea. Oppure dovrei andare privatamente. Aspetto chi mi chiama prima, dopo un anno e tre mesi è capace che esca a sorteggio il nome mio».

 Antonio Castro per "Libero quotidiano" il 13 gennaio 2022.

Meno cure per (quasi) tutti. Gli italiani nell’era del Covid rinunciano a curarsi. Con la disponibilità economica in picchiata il budget per curarsi ne ha risentito. Nel 2021 oltre la metà delle famiglie italiane ha rinunciato pure alle prestazioni sanitarie. Anche (ma non solo), a causa del Covid. Il 50,2% degli italiani - secondo una proiezione del Cerved - ha scelto di non spendere in "prestazioni di welfare": il 50,2% ha tagliato sulla sanità, il 56,8% nell'assistenza agli anziani, 58,4% in quella ai bambini, il 33,8% all'istruzione.

L'edizione 2022 del "Bilancio di welfare delle famiglie italiane di Cerved" tratteggia un quadro drammatico. Inanellando problemi economici, indisponibilità del servizio o inadeguatezza dell'offerta sanitaria. Per "famiglie" si intende, statisticamente, una unità familiare che va restringendosi sempre più. Oggi il 32,2% dei nuclei è formato da un solo componente (single, divorziati/separati, vedovi/e), e il 9,3% da un solo genitore con figli a carico. Si chiama "atomizzazione".

Ma si traduce in mancata assistenza familiare. Mediamente si tratta di 5.300 euro a nucleo familiare. Complessivamente 136 miliardi e 600 milioni per assicurarsi servizi di welfare (7,8% del Pil): 38,8 miliardi per la salute, 29,4 miliardi per l'assistenza agli anziani (+16%), 25 miliardi per il lavoro, 12,4 miliardi per l'istruzione, 11,2 miliardi per l'assistenza familiare, 6,4 miliardi per quella ai bambini (-17,5%), e 5,1 miliardi per cultura e tempo libero. Con meno di 500mila nuovi nati all'anno il capitolo per l'infanzia è di gran lunga più modesto. C'è da interrogarsi sulla capacità di spesa di quelle famiglie con figli. E il ventilato Assegno unico per i figli a carico (fino a 21 anni) partirà solo a marzo.

Ma rischia di trasformarsi in una delusione se non verrà generosamente rimpinguato. Per gli esperti del Cerved «il cambiamento delle strutture familiari, e degli stili di vita», ha definito nuovi bisogni. Tanto più che l'invecchiamento progressivo della popolazione ha fatto sterzare violentemente il budget. Siamo secondi al mondo, solo poco dopo il Giappone, per tasso di anzianità in proporzione alla popolazione.

In Italia nel 2020 - secondo l'ultimo censimento - il 7,5% della popolazione aveva più di 80 anni. Ed è logico che la spesa cresca soprattutto nei comparti dell'assistenza alla terza età. D'altro canto il comparto dei servizi sanitaria (badanti, assistenti colf) - è uno dei pochi che trascina la crescita dell'occupazione. Con un aumento significativo della popolazione di nazionalità italiana - raccontano i dati Inps sulle iscrizioni lavorative - che si è dovuta riciclare come assistente alla cura delle persone anziane. È il gap fra la crescita della domanda e l'adeguatezza dell'offerta la vera novità del Bilancio Cerved. L'attività ordinaria di diagnosi e cura con il Covid è passata in secondo piano. L'allarme della Federazione degli oncologi, cardiologi e ematologi (Foce), ricostruisce la grave preoccupazione «per il blocco dell'attività chirurgica programmata». Una paralisi che «rischia di provocare gravi danni ai nostri pazienti, che sono circa 11 milioni in Italia».

MALATI TRASCURATI Tanto più che oggi i reparti d'urgenza (e gli altri riconvertiti), lamentano l'assalto soprattutto della popolazione non vaccinata. Costringendo così a rimandare l'attività sanitaria ordinaria. Con un pericoloso effetto domino che si ripercuoterà nei prossimi decenni. Insomma, la prevenzione è saltata. E ora il governo spera di tamponare i buchi con l'assistenza sanitaria domiciliare.

Per i pazienti over 65 con patologie croniche, si prevede un incremento di 800mila assistiti presi in carico in assistenza domiciliare entro il giugno 2026, giura il ministro della Salute Roberto Speranza. Ieri la Conferenza Stato-Regioni ha dato il via libera alla ripartizione di oltre 6,5 miliardi del Pnrr e di circa 1,5 miliardi del Piano nazionale per gli «investimenti complementari destinati alla sanità». «Siamo molto preoccupati per il blocco dell'attività chirurgica programmata determinato dalla nuova ondata pandemica causata dalla variante Omicron. Questa paralisi rischia di provocare gravi danni ai nostri pazienti, che sono circa 11 milioni in Italia». È l'appello di Foce (Federazione degli oncologi, cardiologi e ematologi), che esprime forte preoccupazione per uno scenario che sembra ricalcare quello dei primi mesi del 2020.

Emergenza sale operatorie, otto mesi per un intervento di protesi d’anca. Clarida Salvatori su Il Corriere della Sera il 12 gennaio 2022.

L’allarme viene lanciato dal segretario generale funzione pubblica Cisl Roma e Lazio, Roberto Chierchia. Vaccini Pfizer. D’Amato: «Domani in arrivo 218mila dosi».  

«Nell’attuale situazione della rete ospedaliera per un intervento di protesi d’anca o di ernia si aspettano anche 7-8 mesi. E le liste d’attesa si sono allungate a dismisura». A lanciare l’allarme è Roberto Chierchia, segretario generale funzione pubblica della Cisl Roma e Lazio. «La chirurgia ha effettuato solo gli interventi urgenti. Se un paziente arrivava in ambulanza in ospedale con un infarto in corso o con un femore rotto è stato operato, certo. Ma gli interventi in elezione, ovvero non dettati da un’emergenza, sono fermi». La causa va ricercata negli spostamenti di medici e infermieri dai reparti di appartenenza a quelli Covid. Spostamenti che mandano in sofferenza l’intero sistema. «Specie in una regione come il Lazio che viene da anni di blocco del turn over — prosegue Chierchia —. È urgente stabilizzare i 3.500 precari assunti per l’emergenza Covid e i cui contratti a termine sono stati prorogati al 31 dicembre». Ancora di più alla luce delle fuoriuscite lavorative nel corso dell’anno. «Abbiamo stimato — conclude il segretario della Cisl — che l’età media degli operatori sanitari è di 56 anni e che nel 2022 andranno in pensione 3.000 figure. I tre concorsi previsti, nella Asl Roma 2, all’Ares 118 e quello per gli oss (operatori socio sanitari, ndr) sono bloccati. E la direzione regionale non dà il via libera».

Il bollettino

Ancora una volta, ieri, è stata registrata una crescita dei casi di Covid-19 nel Lazio. In tutto se ne sono contati 12.788, ovvero 3.348 in più del giorno precedente. Per un tasso di positività che, su quasi 116mila tamponi effettuati, scende all’11%. I contagi nella Capitale sono arrivati a quota 5.336, mentre nelle altre province a 3.874. Numero record di decessi (per recuperi di notifiche precedenti): sono state quarantatré la vittime, cioè 24 in più di lunedì: 34 tra Roma e dintorni, altre 5 a Latina, 2 a Rieti, 1 a Frosinone e a Viterbo.

Rete ospedaliera

Ancora non accenna a diminuire il peso sulla rete ospedaliera, dove ieri altri 65 pazienti hanno occupato posti letto nei reparti ordinari: il totale arriva così 1.583 ricoverati. Scende invece di uno il totale dei casi più gravi in terapia intensiva, che ammontano ora a 196.

Vaccinazioni

Nel Lazio è stata superata quota 11,5 milioni di somministrazioni di vaccini, pari al 97% della popolazione adulta. Di queste oltre 2,5 milioni sono dosi di richiamo (il 51%). A partire da oggi verranno aumentati del 20% gli slot prenotabili per la fascia d’età 12-17 anni peri richiami Pfizer. «Di cui domani è previsto l’arrivo di 128mila dosi — ha spiegato l’assessore regionale alla Sanità, Alessio D’Amato —, parte della fornitura annunciata dal commissario all’emergenza Covid, Figliuolo». Sempre per i 12-17enni domenica ci sarà poi un open day a Frosinone, Rieti e nelle strutture messe a disposizione da Aiop, per un totale di circa 10mila appuntamenti. Questo l’elenco dei centri che aderiscono: Nuova Villa Claudia, Tiberia Hospital; Karol Wojtyla hospital e Nuova Itor; Policlinico Di Liegro; Ini Grottaferrata, Villa Linda e Villa Dei Pini; e Nuova Santa Teresa a Viterbo.

Graziella Melina per "il Messaggero" il 6 gennaio 2022. La signora anziana che ha bisogno di una prescrizione per una radiografia al ginocchio inizia a chiamare di prima mattina. Ma il telefono è già occupato. La mamma quarantenne che vorrebbe fare il solito controllo si affida a whatsapp. Anche lei però, alla fine, dovrà pazientare un bel po', perché i medici sono pochi, mentre invece continuano ad aumentare senza sosta i pazienti positivi che cercano il medico di famiglia anche solo per sapere dove fare un tampone. 

«Siamo esausti, siamo sfiniti - ripete quasi sconsolato Claudio Cricelli, presidente della Società italiana di medicina generale e delle cure primarie - abbiamo un aumento di 500 volte delle richieste di contatto. Ci chiamano per lo più per avere informazioni, ci chiedono dove ci si vaccina, come ci si comporta se si è positivi. Ormai - ricorda Cricelli - una persona ogni 30-40 è positiva. Sappiamo bene che di questi il 70-75 è asintomatico, gli altri hanno bisogno delle terapie con antivirali. E poi dobbiamo continuare a seguire le persone con cronicità». 

Riuscire a rispondere pure al telefono, è spesso impossibile. «È chiaro che il tempo che rimane per occuparsi delle persone è estremamente ridotto - ammette Cricelli - e con grande fatica riusciamo a curarli tutti. L'altro ieri, un mio collega a Brescia ha fatto 31 tamponi e 28 sono risultati positivi. Ha cioè dedicato circa tre ore solo per questi test. Ma quello che poi ci rende il lavoro complicato è la burocrazia. Non c'è un call center per avere informazioni e le persone si rivolgono a noi».  

Le risorse per far fronte al sovraccarico di lavoro sono insufficienti, e così nemmeno la segretaria, per chi ce l'ha, riesce a passare tutte le telefonate in attesa. «Il servizio sanitario denuncia Cricelli - ha aumentato le terapie intensive, ha assunto nuovi medici, ma nessuna nuova risorsa è stata data per aiutare la medicina generale». Ovunque, riuscire a parlare col proprio medico, è un terno al lotto. 

«Nel mio studio a Roma siamo in due racconta Pina Onotri, segretario generale del sindacato medici italiani - L'altro ieri abbiamo ricevuto 150 chiamate, senza considerare quelle che arrivano sul cellulare. Le linee sono sempre intasate. Cerchiamo di rispondere a tutti. Ma 14 ore di lavoro al giorno, compresi i festivi, non bastano». E così i pazienti cronici faticano ad avere risposte. 

«Ci dobbiamo occupare dei positivi, di quelli che sono venuti in contatto con un contagiato, e poi dobbiamo stare dietro a tutta la burocrazia - precisa Onotri Facciamo le segnalazioni ai servizi di igiene e sanità pubblica, poi pensiamo alla prescrizione dei tamponi, dei certificati di fine isolamento. Ma il carico di lavoro dovuto ai pazienti positivi si va ad aggiungere a quello che facciamo nella normalità». 

Intanto continuano ad accumularsi i controlli e le visite specialistiche saltate. «Ora è difficile recuperarle - ammette Onotri - Non dimentichiamo che le altre malattie non sono andate in vacanza. I cardiopatici, i diabetici, i malati oncologici gravi hanno bisogno di cura e assistenza». 

Anche in Campania la situazione è difficile. «Ricevo circa 200 telefonate al giorno - racconta Silvestro Scotti, segretario nazionale della Fimmg (la Federazione italiana dei medici di medicina generale) - Il numero dei contagiati è enorme. L'impatto in questo momento è soprattutto nei soggetti tra i 10 e i 30 anni con coinvolgimento del nucleo familiare. Se nelle altre ondate qualche famiglia conteneva l'infezione al solo contagiato, adesso nel giro di tre giorni si infettano tutti». 

E non si tratta solo di asintomatici. «Una mia paziente, vaccinata ma immunodepressa, è stata contagiata dai due figli no vax ed è finita in ospedale. Io intanto rispondo al telefono anche durante i giorni in cui i servizi dei dipartimenti di prevenzione sono chiusi denuncia Scotti Lì non c'è nessuno sabato, domenica e festivi per attivare le prenotazioni previste per i tamponi. E i pazienti si rivolgono sempre a noi. Attiviamo la procedura, quella assistenziale, per le terapie anticovid, per il tampone. 

Se un lavoratore chiede un certificato di malattia - osserva Scotti - il meccanismo è complicato da nuove normative su quarantene e isolamenti, e adesso sull'autosorveglianza. Dobbiamo spiegare tutto noi, e questo allunga i tempi della telefonata. L'altro giorno, per controllare la pressione a un paziente che sembrava avere una crisi ipertensiva ho impiegato 20 minuti, perché ero interrotto dalle telefonate. Il carico di lavoro è davvero insostenibile».

 Paolo Russo per "la Stampa" il 18 febbraio 2022.  

Stressati dai turni di lavoro massacranti, demotivati da una prospettiva di carriera che non c'è e un po' impauriti da un'emergenza che ha costretto chi magari fa l'oculista a vedersela con pazienti in crisi di ossigeno, medici e infermieri hanno preso a fare la valigia, abbandonando Asl e ospedali pubblici. Magari per lavorare ai meno stressanti ritmi del privato. O ritirarsi a una vita da pensionati. 

Che poi di solo riposo non è perché casomai si arrotonda con un po' di libera professione, della quale c'è ancora più richiesta, visto che la pandemia tra i suoi effetti ha avuto anche quello di far allungare a dismisura le liste di attesa. La fuga dei medici in realtà parte da lontano, perché già nel 2019 il 2,9% dei camici bianchi ospedalieri, raccontano i numeri del Conto annuale del Tesoro, hanno deciso di dare le dimissioni. Tremila e 123 dottori che si sono licenziati per andarsene a lavorare nel privato.

 E durante i due anni di pandemia il fenomeno, a sentire i sindacati di categoria si è accentuato, portando vicino a quota quattromila l'anno l'esercito dei fuoriusciti. Che nel biennio fanno 8mila medici in meno. Ai quali ne vanno aggiunti altri 4mila che dal 2019 al 2021, secondo i dati dell'Enpam, l'ente previdenziale medico, hanno colto l'opportunità di prepensionarsi approfittando dell'opzione "quota 100". 

E così si arriva a un totale di 12mila camici bianchi scomparsi dalle piante organiche, già sguarnite di loro, perché dopo anni di tagli e mancata programmazione della formazione universitaria abbiamo finito per lasciare sguarniti ben 25mila posti secondo le stime dell'Anaao, sindacato dei medici ospedalieri. In queste condizioni è chiaro che non sarà facile saturare l'altra ferita sanitaria aperta dalla pandemia, quella delle cure e degli screening per prevenire malattie come i tumori, negati perché gli ospedali hanno dovuto riconvertire interi reparti alla cura dei malati Covid. 

E le prospettive sono anche peggiori, come dimostra un'indagine condotta dall'altro sindacato medico, la Cimo. Solo il 28% dei camici bianchi ospedalieri si dice infatti disposto a restare nel pubblico, meno di uno su tre. Tra chi medita la fuga il 26% punta all'estero, dove le retribuzioni sono nettamente maggiori alle nostre, il 19% è ingolosito dal pensionamento anticipato, il 14% è pronto a bussare alla porta di qualche clinica privata e il 13% a darsi per intero alla libera professione. 

Uno dei motivi lo indica la stessa indagine ed è il ritmo insostenibile di lavoro. Il 20% va infatti oltre le 48 ore settimanali, il 48% passa in corsia dalle 39 alle 48 ore e solo il 27% è dentro le canoniche 38 ore previste dal contratto di lavoro. «Se a questo aggiungiamo che in dieci anni si sono chiusi 5.657 reparti, che equivalgono ad altrettante possibilità di poter ambire a un posto di primario. Se in più consideriamo lo stress di chi in questi due anni si è visto scaraventare ad affrontare nelle terapie sub intensive pazienti Covid con problematiche che nulla avevano a che fare con la propria specializzazione medica, ecco spiegato il perché di questo esodo», spiega il Presidente della Cimo, Guido Quici. 

Per ridurre lo stress e offrire nuove prospettive di carriera la soluzione numero uno era e resta quella di assumere forza lavoro fresca. Che pure scarseggia sul mercato, visto che per anni il numero chiuso nelle scuole di specializzazioni ha finito per svuotare il serbatoio dei nuovi medici. L'ultima manovra economica ha stanziato 690 milioni per assumere il personale sanitario, superando anche i vecchi limiti di spesa per il personale, che impedivano alle regioni di stipulare nuovi contratti. Ma come stiano andando le cose ce lo spiega sempre il dottor Quici. 

«Se andiamo a vedere quello che è successo prima, dal 2009 al 2019, vediamo che mentre tutte le voci di spesa sanitarie crescevano, quella per il personale è andata giù in discesa di un miliardo e 240 milioni. Con la pandemia si è ripreso ad assumere ma quasi sempre a tempo determinato e sono aumentati più gli amministrativi». Viene spontaneo chiedere perché e la risposta è sconfortante. «Perché al costo di uno ne assumi due e la sanità è sempre stata un buon serbatoio di voti per la politica», non le manda a dire il Presidente della Cimo.

 Gli stessi problemi li ritroviamo quando andiamo a gettare l'occhio sugli infermieri. Qui a mancare all'appello erano già in 63mila, ma ora secondo la Fnopi, la Federazione degli Ordini infermieristici, altri 2.500 hanno detto addio al pubblico «per dedicarsi soprattutto al Nord alla più remunerativa attività libero professionale», spiega la Presidente, Barbara Mangiacavalli. Per la quale dall'imbuto si esce «rivedendo i percorsi di formazione, di carriera e retributivi».  

Magari lavorando anche un po' meno sotto quello stress che ha colpito oltre il 60% degli infermieri. Anche loro stufi di essere chiamati eroi e poi lasciati in condizioni di lavoro che sempre in meno sono disposti ancora ad accettare. E che tolgono il sonno al 70% di loro. Ma non fanno stare tranquilli neanche noi, perché come raccontano gli studi internazionali raccolti dalla Fnopi, quando un infermiere deve assistere più di sei pazienti, il rischio di mortalità aumenta tra il 20 e il 30%.

 E da noi ciascuno degli angeli dimenticati della pandemia deve vedersela con il doppio dei ricoverati. Che rischiano di diventare ancora di più se non si interverrà energicamente ad arginare la fuga dagli ospedali.

Mancano 10 mila tra medici e infermieri. 30 ore di attesa in ambulanza per entrare in pronto soccorso, Omicron manda gli ospedali in codice rosso. Riccardo Annibali su Il Riformista il 7 Gennaio 2022

Aumentano i posti letto per il Covid negli ospedali ma il personale, già sotto numero, rimane lo stesso e la situazione fuori dai pronto soccorsi si fa pesante con le ambulanze che allungano la fila fuori dagli ingressi creando un serpentone mai visto.

Non c’è grande differenza nei nosocomi e asl del territorio capitolino: al San Filippo Neri mancano 120 infermieri e 60 operatori socio-sanitari. Alla Asl Roma 2 si ricorre “all’utilizzo di personale esternalizzato dalle cooperative, non avendo più risorse interne”. Al Policlinico Umberto I “mancano 250 infermieri e 300 operatori sanitari“.

Anche in questo caso vale la regola della coperta corta. Se da un lato aumentano i letti Covid, dall’altra “si chiudono posti e si riducono i servizi per garantire l’emergenza”. E alla Asl di Latina, “mancano non meno di 100 infermieri e 250 operatori sanitari e oltre circa 150 unità tra tecnici di radiologia, di laboratorio, fisioterapisti, tecnici ortopedici”.

Mentre le strutture private accreditate si preparano ad accogliere un boom di pazienti Covid (fino a 600 posti in più, come scritto da La Repubblica) i sindacati lanciano l’allarme: “Così non ce la faremo – dicono i rappresentanti del comparto sanità pubblica di Cgil, Cisl e Uil. rispettivamente Giancarlo Cenciarelli, Roberto Chierchia e Sandro Bernardini – il personale è ormai ridotto allo stremo, non è più in grado di continuare a sostenere il sovraccarico di lavoro che viene quotidianamente richiesto”.

Il sistema sanitario è in “codice rosso”, denunciano i sindacati. “La situazione è oltre la soglia di guardia, e le cure sono fortemente a rischio”, dicono i tre rappresentanti. Secondo le stime, si parla di una carenza complessiva di oltre 10.000 unità di personale, che si riversa in particolare nell’ambito dell’emergenza-urgenza.

Secondo la Simeu (Società Medicina di emergenza-urgenza), solo nel Lazio mancano almeno 350 medici di Pronto Soccorso. Le riduzioni delle attività sanitarie, le chiusure di interi reparti, l’allungamento all’infinito dei tempi di attesa per le prestazioni di ogni ambito clinico, sono ormai prassi comune per garantire la continuità assistenziale nell’emergenza sanitaria, in mano a un numero sempre più risicato di medici.

Non è migliore la situazione del personale infermieristico: “Mancano almeno 5000 infermieri, solo nel Lazio – dice Stefano Barone, segretario regionale di Nursind, il sindacato degli infermieri – . Parlare di aumento di posti letto per fronteggiare l’emergenza Covid è una presa in giro. Finché non sarà possibile aumentare drammaticamente i numeri degli assunti, gli ospedali si reggeranno sui doppi turni e gli straordinari. Così ne pagheranno le conseguenze i pazienti affetti da altre patologie”. Le conseguenze, già in questo momento di crescita dei contagi per la pandemia da Covid, sono evidenti, e diventano più critiche giorno dopo giorno.

Anche ieri ben 50 ambulanze stazionavano davanti ai Pronto Soccorso, record al Sant’Andrea: ben 23 automezzi, con pazienti Covid in lettiga in attesa per ore di ricevere cure. Uno di loro ha dovuto attendere oltre 30 ore prima di essere “sbarellato” dall’automezzo. Riccardo Annibali

Covid, i chirurghi: «Migliaia di pazienti rischiano di non essere curati, come quelli che hanno un tumore». Milena Desanctis giovedì 6 Gennaio 2022 su Il Secolo d'Italia.  «Nelle Regioni italiane si stanno nuovamente chiudendo i reparti di chirurgia per riconvertirli in posti letto Covid. Le sale operatorie sono decimate per destinare i chirurghi nei Pronto soccorso e nelle aree Covid. Le liste d’attesa stanno nuovamente allungandosi: stiamo ritornando esattamente allo scenario delle altre ondate, come se questi due anni fossero passati invano. È allucinante scaricare il peso di questa nuova ondata sul sistema sanitario facendo crescere la pressione sugli ospedali». Lo denuncia Marco Scatizzi, presidente dell’Associazione chirurghi ospedalieri italiani (Acoi).

«In questi ultimi giorni», continua, «mi sto confrontando quotidianamente con i colleghi di tutte le regioni italiane. Nel Veneto, nel Friuli, nel Trentino, in Piemonte abbiamo situazioni gravissime dove l’attività chirurgica si è quasi completamente fermata. Parliamo di migliaia di pazienti che rischiano di non essere curati. O dove non è possibile diagnosticare malattie tempo-dipendenti come i tumori».

Il presidente Acoi annuncia che «scriveremo al ministro Speranza. Vogliamo che la chirurgia ospedaliera funzioni al 100%». Ma non solo. «Vogliamo salvare vite umane, stare dalla parte dei nostri pazienti. Non vogliamo essere complici di chi, per negligenza o inadempienza, mette a rischio la vita dei pazienti e dei chirurghi stessi».

«Come se non bastasse, stiamo vivendo un ulteriore paradosso: i chirurghi vengono obbligati a turni massacranti. Un fenomeno che sta portando fortissimo stress e che, come molto probabilmente accaduto al nostro collega di Bari alcuni giorni fa, rischia di mettere a rischio la stessa vita dei nostri colleghi».

Giampiero Valenza per "il Messaggero" il 7 gennaio 2022. L'Epifania non si è portata via il Covid. Anzi. I dati dei contagi continuano a salire e sono da record. Il bollettino del Ministero della Salute del 6 gennaio ha contato 219.441 nuovi positivi nelle ultime 24 ore: è un po' come se si fosse infettata, tutta insieme, una città come Padova. Superano la quota dei duecentomila, come mai era accaduto da inizio pandemia. Il balzo si vede ancora di più se confrontato con il giorno precedente, quando i contagiati erano 189.109. 

Calano però le vittime: 198 rispetto alle 231 delle 24 ore prima. Molto alto il numero dei tamponi molecolari e antigenici fatti per cercare di scovare Sars Cov-2: sono stati 1.138.318. In sostanza, ogni 100 persone che si sottopongono all'esame 19 risultano positive. Un dato in aumento rispetto alle 17 ogni 100 che erano state notate il giorno precedente. Nelle terapie intensive di tutta Italia ci sono 1.467 pazienti con Covid. I ricoverati nei reparti ordinari sono 13.827.

Nella penisola si contano 1.593.579 attualmente positivi: un numero che porta a toccare, dall'inizio della pandemia, la quota di 6.975.465 persone che hanno avuto a che fare con il virus, in tutte le sue varianti. Tra loro, ci sono stati 138.474 morti. Per la Fondazione Gimbe siamo davanti a «un'esplosione di nuovi casi», con un incremento nella settimana tra il 29 dicembre e il 4 gennaio che ha raggiunto il 153%.

Nelle ultime 24 ore in Lombardia ci sono stati 52.693 positivi in più (una percentuale del 22,9% rispetto ai tamponi), con 17.036 nuovi casi a Milano. Nel Lazio, su un totale di 110.297 tamponi, tra molecolari e antigenici, sono stati scovati 14.055 nuovi positivi. Numeri più contenuti in Puglia (5.558 su 75.641 test, con 2.333 casi solo a Bari e 1.022 a Lecce) e Abruzzo (4.808, +296% rispetto alla settimana precedente). Aumentano i contagi nelle Marche, con 3.120 nuovi casi su oltre 14.000 tamponi, con la Provincia di Ancona tra le più colpite.

I dati dell'Agenas del 5 gennaio fotografano ospedali con posti letto sempre più occupati da malati Covid (il 21%). Le situazioni più critiche sono in Valle d'Aosta (45%), Calabria (33%), Liguria (32%), Umbria (28%), Sicilia e Piemonte (25%), Friuli Venezia Giulia e Marche (24%), Lombardia (23%). Poco sotto il Veneto (21%), il Lazio e la Basilicata (20%). I dati dei pazienti delle terapie intensive sono stabili al 15%, ma raggiungono quote del 24% nella Provincia autonoma di Trento, del 21% in Liguria e nelle Marche, del 20% in Veneto, del 19% nel Lazio e in Piemonte.

Carlotta Lombardo, Clarida Salvatori e Fabio Savelli per il "Corriere della Sera" il 6 gennaio 2022. Ferie congelate per tutti, doppi e tripli turni per medici e infermieri per compensare l'assenza di chi ha contratto il Covid e di chi è sospeso perché non vaccinato. O di chi è finito in quarantena per un contatto diretto con un positivo e non ha ancora completato il ciclo con tre dosi. Il sistema sanitario italiano, già vittima di una atavica carenza del personale, ora si trova in difficoltà a gestire questa nuova emergenza. E così interventi e prestazioni specialistiche slittano ai prossimi mesi, mentre interi reparti vengono riconvertiti per assistere i malati (in crescita) nelle terapie intensive e nei reparti ordinari.

«Abbiamo un esercito di 13 mila infetti», dice Giovanni Migliore, presidente della Federazione italiana aziende sanitarie e ospedaliere. Un dato fortunatamente più basso se raffrontato a quello delle altre ondate anche perché la stragrande maggioranza degli operatori ha già ricevuto la dose booster. Gli unici che possono continuare a lavorare con il sistema della «sorveglianza sanitaria attiva», tamponi ogni giorno, anche in caso di contatto diretto con un positivo.

All'ospedale Careggi di Firenze, però, c'è un focolaio: 270 sanitari positivi su 6 mila. E i medici malati sono tutti a casa. A Roma i camici bianchi contagiati sono 980, con un cluster al Sant' Eugenio: 13 infermieri del Pronto soccorso positivi. Sono stati trasferiti alle urgenze quelli che erano in chirurgia, ma la coperta ora è corta per gli interventi. E proprio nei Pronto soccorso la situazione è drammatica. «Siamo sotto organico del 30-40% perché la pressione sulle urgenze è micidiale e chi può cerca strade professionali alternative», denuncia Anna Maria Ferrari, direttore della Medicina d'Urgenza del Santa Maria Nuova di Reggio Emilia.

Neanche il ricambio generazionale è stato assicurato in questi anni e ora si paga il conto: la scarsa attrattiva che la disciplina ha sui giovani laureati viene evidenziata da una Scuola di specialità che registra abbandoni sempre superiori e borse di studio non assegnate.

La copertura dei turni Le aziende sanitarie stanno congelando le ferie in questi giorni di festività, rimandandole ai prossimi mesi. «La carenza cronica di personale si somma all'impatto dei nuovi positivi e alla sospensione di medici e infermieri non vaccinati», segnala Bruno Zuccarelli, alla guida dell'ordine dei medici di Napoli. I sospesi sarebbero circa 26 mila, sanzioni comminate dagli ordini professionali. C'è una pesante penuria di anestesisti, storicamente sotto-organico e necessari nelle terapie intensive. Nicola Draoli, nel comitato direttivo della Fnopi, che rappresenta le professioni infermieristiche, parla di «sistema sanitario sottoposto a oscillazione fortissima. Perché il personale è impegnato anche nel sistema di tracciamento dei tamponi e nella campagna vaccinale con gli hub riaperti per le terze dosi e la linea pediatrica».

Lo scenario «Scenario in ulteriore peggioramento». L'alert è partito un po' ovunque negli ultimi giorni dalle direzioni sanitarie dei maggiori ospedali italiani. Allarme trasferito agli assessorati alla Salute delle regioni per il cambiamento di protocollo. Tutte stanno attivando il piano B. Significa ampliamento immediato, in appena 48 ore, dei posti in terapia intensiva e nei reparti ordinari destinati ai pazienti Covid. Il trasferimento di una buona parte del personale medico nei reparti malattie infettive. E, come detto, il congelamento (o lo slittamento) di interventi già calendarizzati, non classificati come «estrema urgenza». La curva epidemiologica non accenna ad arrestarsi e l'alta trasmissibilità della variante Omicron segnala «un lento ma progressivo ingolfamento delle strutture ospedaliere che sottopone il personale a un enorme carico», denuncia Filippo Anelli, presidente dell'Ordine dei Medici.

I percorsi sporchi La maggiore complessità sta nei percorsi sanitari da destinare ai pazienti positivi al tampone. Ruggero Razza, assessore alla Salute della regione Sicilia, ritiene necessario «ripensare gli spazi differenziando i percorsi sporchi da quelli puliti». Come farlo è oggetto del confronto dei vertici di questi giorni in gran parte delle aziende sanitarie. «Questa ondata è diversa. L'alta infettabilità di Omicron sta determinando una situazione nuova a cui non siamo preparati», spiega Razza.

Ormai succede ogni giorno: persone che si recano in ospedale per una prestazione medica o un intervento chirurgico risultano positive al tampone pur non in presenza di sintomi. «Vanno gestite all'interno di un percorso diverso da quello dei negativi ma i reparti non sono attrezzati a questa sovrapposizione», ammette Emilio Montaldo, alla guida dell'Ordine dei medici sardo. Tesi condivisa da Enzo Ciconte, che guida il reparto di Cardiologia del maggiore ospedale di Catanzaro. 

L'impatto sui ricoveri ordinari di questi giorni potrebbe essere determinato anche da questo effetto indiretto. Cioè si scoprono molti positivi tra chi già ha bisogno di cure mediche e si sottopone a un tampone molecolare. «Oggi i malati in terapia intensiva sono sette ma il grande carico dell'ospedale San Martino riguarda soggetti che hanno altre patologie, sono asintomatici, e finiscono per risultare positivi. Un dato importante di cui tener conto cambiando i criteri della colorazione delle regioni», segnala Matteo Bassetti, direttore della clinica malattie infettive del Policlinico di Genova. A Brescia e Bari, in due ospedali della rete di Fiaso, sono stati realizzati reparti di emodialisi dedicati ai pazienti con insufficienza renale e al tempo stesso «covizzati».

Corsie diverse per mettere in una bolla chi non ha contratto il Covid. Uno sforzo necessario per attenuare la paura dei pazienti che procrastinano ulteriormente visite e interventi. L'impatto della curva Agli ospedali San Paolo e San Carlo di Milano 132 posti letto sono assegnati ai ricoveri Covid verdi, alle persone non in condizioni gravi ma bisognose di monitoraggio. «Ieri gli accessi dei positivi sono stati 60 - racconta l'infettivologa Antonella D'Arminio Monforte -. Ora stiamo valutando se liberare altri reparti e stiamo aprendo un reparto di sub-acuti, per chi non ha più la necessità di ossigenoterapia ma non può essere dimesso, in genere persone anziane».

Le comorbilità di molti pazienti scoperchiano come un vaso di Pandora le carenze del sistema sanitario. Con i medici di base presi d'assalto per consigli su come gestire il decorso e il supporto a intermittenza delle Usca, le unità speciali di continuità assistenziale, che dovrebbero gestire le cure domiciliari.

A Napoli i medici parlano del rischio di un «codice nero», un termine con il quale vorrebbero descrivere un'emergenza da non raggiungere e che potrebbe portare a decidere chi curare seguendo un ordine di priorità. Una storia che riporta alla memoria la prima fase della pandemia, quando diversi ospedali del Nord si trovavano in condizioni esplosive. «La situazione è critica, molto peggiore di quanto possa apparire, abbiamo bisogno di aiuto e ne abbiamo bisogno ora. Roma decida per una misura drastica - dice Bruno Zuccarelli, presidente dell'Ordine dei medici di Napoli - Né all'indomani del primo lockdown né nel corso della seconda e terza ondata, la nostra situazione è stata tanto grave. Vogliamo evitare il peggio è bene che si intervenga subito, non metteteci in condizione di dover applicare il codice nero.

Il dilagare della variante Omicron ha messo in ginocchio ospedali, ambulatori, studi medici e rete dell'emergenza, e ciò che emerge oggi è solo la punta dell'iceberg aggiunge - Entro una settimana o due al massimo, se non si interviene adesso, rischiamo di vedere a Napoli ciò che purtroppo abbiamo visto in Lombardia due anni fa». Le scene davanti all'ospedale Cotugno sono di ambulanze e auto in fila anche per diverse ore all'esterno del pronto soccorso infettivologico, con i medici che fanno di tutto per assistere i pazienti in queste condizioni.

Chi è in attesa ha un tampone positivo o problemi di saturazione di ossigeno. A Palermo torna un ospedale da campo con 10 posti: è la risposta presa insieme alla protezione civile in attesa che i reparti di ostetricia del Cervello e del Civico possano completare la riconversione per destinarli ai pazienti Covid. Tutti occupati, invece, i 98 posti letto del Covid Hospital di Marsala, in Provincia di Trapani: 20 erano liberi giusto ieri. Nelle ultime 24 ore, l'impennata dei contagi.

Covid Milano, ambulanze e guardia medica sotto assedio. «Boom di telefonate per sintomi leggeri». Gianni Santucci su Il Corriere della Sera il 7 gennaio 2022.

Raddoppiate le telefonate: quasi 6 mila al giorno. «I cittadini lasciati senza risposta da medici di base e Ats». Servizi di emergenza sotto pressione, pochissimi gli equipaggi liberi per le emergenze. Debutta la «centrale bis» per dirottare i pazienti non gravi. 

Al Policlinico. Da giorni il sistema dell’emergenza ha quasi tutte le ambulanze impegnate di continuo (foto Bozzo)

Le situazioni tipo sono due. Al 118: «Persone che chiamano con sintomi Covid spesso lievi, ma che non hanno risposte dai medici di base. Spesso sono preoccupate, e non sapendo a chi rivolgersi chiamano il numero di emergenza». Risultato: l’Areu di Milano ha praticamente da giorni le ambulanze occupate a pieno regime, con pochissimi equipaggi liberi per le emergenze.

Covid in Lombardia, il confronto fra le ondate

In guardia medica: «Persone che hanno partecipato a una riunione di famiglia durante le feste, e sapendo di un contatto positivo fanno un tampone in farmacia o a casa. Scoprono di essere a loro volta positive e, pur se con lievi sintomi, hanno bisogno di aiuto che non trovano dai medici, o di certificati per la malattia, o del tampone per la fine della quarantena. Non hanno risposta dal territorio e chiamano qui». Conseguenza: se con 30 operatori (e a volte anche di più) il sistema informatico della guardia medica può gestire un massimo di 200 chiamate in corso o in attesa, questo potenziale di ricezione è continuamente saturo. Ecco perché a volte cade la linea. E perché il servizio sta arrivando a gestire anche 6mila richieste al giorno, quasi il doppio della media.

La marea montante

Il quadro complessivo è quello di una marea della malattia montante quasi come nel 2020, anche se con sintomi ed esiti della malattia assolutamente meno gravi. Ma di nuovo sono gli operatori tecnici, anche se il loro ruolo non è minimamente riconosciuto dal contratto del servizio sanitario nazionale (gli anonimi che la politica sanitaria non «riconosce», ma che gestiscono quotidianamente emergenze e rianimazioni) a far fronte alla prima linea della pandemia. Pur se si stanno ammalando anche loro, e chi resta spesso sta rientrando magari in anticipo dalle ferie. Un momento critico che s’è aggravato perché (ce n’é un riscontro continuo dalle chiamate) a fronte di molti medici di base che stanno seguendo con impegno e abnegazione i loro pazienti anche dalle ferie, ce ne sono molti altri (o i loro sostituti) irreperibili da giorni in questo periodo di ferie.

Sotto pressione

Otto chiamate su dieci (stima non esatta, ma assolutamente veritiera) in questo periodo seguono lo stesso canovaccio. Sintomi Covid medi o leggeri. Di fatto la routine è ormai da giorni abbastanza consolidata. Tranne eccezioni, tra chi chiama il 118, «chi ha tre dosi di vaccino ha sintomi minimi, chi soltanto due dosi una malattia a volte più pesante, chi non è vaccinato spesso finisce in ospedale». Il problema è la massa delle persone che non hanno bisogno di un ricovero, ma comunque di assistenza medica. Le due unità mobili Usca che entreranno in servizio a breve per assistere i contagiati con sintomi a casa non potranno fare granché, con questo numero di malati su una città come Milano.

La «seconda centrale»

Ecco perché in Areu hanno inventato un sistema alternativo per far fronte alla situazione. Una sorta di «seconda centrale» in cui lavorano alcuni medici, almeno tre o quattro per turno, a cui gli operatori dell’emergenza «affidano» quei malati che non hanno necessità immediata di un’ambulanza, ma che comunque devono essere seguiti, e dunque vengono richiamati a intervalli e a seconda della situazione per mantenere un controllo costante.

"Sottopagati e maltrattati. Perché i medici di base sono ormai introvabili". Marta Bravi il 19 Marzo 2022 su Il Giornale. 

Il presidente dell'Ordine dei medici, Roberto Rossi, lancia l'allarme: "Troppa burocrazia, orari massacranti e aggressioni di pazienti".

La Regione ha appena pubblicato il bando per 1.666 posti da medico di base in Lombardia, 316 nel territorio dell'Ats Città di Milano. Ci sono degli ambiti definiti «disagiati» dove per tre volte è stato messo a bando il posto, senza riscontro. Roberto Rossi, presidente dell'Ordine dei Medici di Milano e provincia, perchè nessuno vuol fare più il medico di base?

«La risposta è semplicissima: il lavoro è mal pagato e gli oneri burocratici sono tantissimi. Un medico di base massimalista, ovvero che raggiunge il tetto massimo di 1.500 pazienti consentiti, prende 38 euro lordi a paziente all'anno, il che fa circa 4.750 euro lordi al mese, cui bisogna togliere il 20 per cento di ritenuta d'acconto più un altro 20 per cento di tasse. A questo bisogna sottrarre il costo dello studio: a Milano in zona Certosa io spendo 1500 euro al mese solo di affitto, cui vanno aggiunte le bollette, il costo della segretaria ed eventualmente dell'infermiere. In sostanza guadagnano 2000 euro netti al mese. Chi andrebbe a fare un lavoro del genere, con questo stipendio? Sapendo quella che è la mole di lavoro che lo attende? Nonostante i proclami negativi dei politici e la campagna di cattiva stampa che è stata lanciata, secondo cui i medici di base sarebbero impegnati pochissimo tempo, noi lavoriamo tutto il giorno e ci portiamo a casa anche il lavoro nel week end».

Cioè?

«Dobbiamo assolvere a una mole di pratiche burocratiche che hanno ormai superato la parte clinica, cioè le segnalazioni all'Ats, le prenotazioni, i certificati, i portali da compilare, impossibili da svolgere durante l'orario di lavoro. Ci sono poi le telefonate, le mail e i messaggi whatsapp dei pazienti cui rispondere».

Tra i criteri che definiscono una zona come «disagiata» c'è anche la composizione della popolazione: oltre la metà dei pazienti con più di 65 anni...

«I pazienti anziani hanno molto più esigenze rispetto ai pazienti più giovani, oltre a essere più presenti in studio. In sostanza aumentando molto il carico di lavoro».

Almeno ci sarà qualche motivo di soddisfazione...

«No, da un lato per la campagna mediatica sfavorevole che stiamo subendo e, dall'altro perchè arrivano in studio cittadini con informazioni sbagliate in ambito burocratico o sanitaria, ovvero quello che concerne il green pass o le vaccinazioni. Si creano delle false aspettative o idee sbagliate, su quelle che sono le nostre competenze, che ci portano ad avere attriti con i pazienti. In sostanza veniamo trattati come se fossimo dei punti informazione. A Milano e provincia si registrano almeno due casi a settimana di aggressioni: fisiche e atti di vandalismo agli studi. Così anche gli esposti sono triplicati negli ultimi due anni arrivando alla cifra di 30 al giorno per 27mila medici tra Milano e provincia: si tratta di richieste di sanzioni disciplinari contro gli iscritti da parte dei pazienti. Due anni di pandemia hanno incrinato il rapporto medico-paziente».

C'è poi il delicato tema della formazione: su 600 borse di studio, si sono presentati in 530...

«Ogni Regione organizza un corso di specializzazione in medicina generale post laurea, mettendo a disposizione ogni anno delle borse di studio, ovvero i posti per i corsi, che però non sono così attrattivi, se sono rimasti vacanti. Un problema è che una legge degli anni Novanta non equipara le specialità mediche al corso di formazione per medico di medicina generale, con ricadute sotto il profilo del titolo (non è un corso gestito dall'università), e del compenso: se uno specializzando, infatti, percepisce 1400 euro netti al mese, chi frequenta il corso regionale prende 800 euro lordi».

Come e perché il sistema sanitario italiano ha fallito la prova del Coronavirus. Marco Billeci su Fanpage.it il 23 febbraio 2021. È passato un anno dallo scoppio dell’emergenza coronavirus in Italia. La pandemia ha colpito un sistema sanitario piegato da anni di tagli. Ma dopo il lockdown e la fase più critica della crisi si sarebbe dovuto lavorare per un rafforzamento strutturale della nostra rete sanitaria, in vista della ripresa dei contagi che in autunno prevedibilmente è arrivata. E invece all’inizio della seconda ondata, il lavoro su ospedali, personale sanitario, medicina del territorio è ancora in alto mare. 

A febbraio 2020, la pandemia ha colpito un sistema sanitario piegato da anni di tagli. Si stimano mancanti finanziamenti per 37 miliardi negli ultimi dieci anni e una carenza di personale attorno alle 42mila unità tra medici, tecnici, infermieri. Nei mesi più duri della prima ondata, a marzo e ad aprile, si cerca di mettere una pezza come si può. Passata la fase critica, durante l’estate, bisognerebbe lavorare per un rafforzamento strutturale della nostra rete sanitaria, in vista della prevedibile ripresa dei contagi, in autunno. E invece all’inizio della seconda ondata, il lavoro su ospedali, personale sanitario, medicina del territorio è ancora in alto mare. 

Il 23 luglio 2020, davanti al parlamento, il ministro della Salute Speranza annuncia un grande piano da venti miliardi per la sanità. Per mesi, di quel progetto si sono perse le tracce. Il 22 settembre è lo stesso segretario del Pd Zingaretti ad ammettere che quel piano ancora non c’è. Un bel po’ di soldi per la sanità, in realtà, sono stanziati, nel decreto Rilancio a maggio 2020, per la precisione 3miliardi e 250 milioni. Gran parte di quei fondi, però, per mesi sono rimasti bloccati. Perché? 

Prima di tutto, perché per utilizzare questi fondi, le Regioni avrebbero dovuto predisporre dei piani di pronto intervento per rafforzare gli ospedali da sottoporre al commissario straordinario Arcuri. Gran parte dei governatori effettivamente, alla fine del luglio scorso ha inviato i progetti ad Arcuri. Ma il commissario dà il primo via libera alle prime gare solo il 2 ottobre, per un totale di lavori di soli 713 milioni di euro. E ancora nelle settimane successive, i cantieri sono rimasti fermi.

Di chi è la colpa di questo enorme ritardo? Come siamo stati abituati a vedere in questi mesi su tante questioni, anche su questo punto si assiste a un incredibile rimpallo di responsabilità. Secondo le Regioni la colpa è di Arcuri che ha perso troppo tempo prima di far partire gli appalti. Il Commissario ribatte dicendo che gli enti locali potevano muoversi in autonomia già da maggio per poi farsi rimborsare i costi. Il vero problema, dice Arcuri, è che i progetti presentati dalle Regioni a luglio erano perlopiù composti da poche pagine di fogli Excel senza i dettagli necessari. Peraltro, il tempo medio di attuazione dei piani è di due anni e tre mesi. Molte opere, quindi, arriveranno a compimento forse solo alla fine del 2022, quando ormai avremo sulla coscienza migliaia di malati rimasti senza cure adeguate. 

Le terapie intensive 

Una parte fondamentale del rafforzamento del sistema doveva riguardare le terapie intensive. “Le immagini dei reparti pieni, con i medici chiamati a scegliere chi intubare e chi no non dovranno mai più ripetersi”, dicevano i nostri politici. Non è andata così. Presentando il decreto Rilancio, il ministero Speranza aveva fissato l’obiettivo di arrivare a 11.109 letti di terapia intensiva. Ma al 9 ottobre, quando le corsie stanno tornando a riempirsi, si calcola che solo il 30 percento dei posti previsti è stato attrezzato. Solo tre Regioni raggiungono la soglia prevista dei 14 posti ogni 100mila abitanti. 

Il 16 ottobre Arcuri accusa le Regioni di aver lasciato nei magazzini circa 1600 ventilatori inviati dallo Stato per attrezzare postazioni di terapia intensiva. E certo, le inefficienze dei governatori sono evidenti, tanto che molte Regioni per raggiungere gli obiettivi previsti ricorrono al trucco di dichiarare nei loro report anche i posti attivabili, letti fantasma che esistono solo sulla carta. 

Il problema però è anche che per fare una terapia intensiva, non bastano i macchinari, servono  anestesisti e rianimatori che quei macchinari li usino. E invece il personale non c’è. Secondo uno studio del 16 ottobre dell’Università Cattolica, prima dell’emergenza il rapporto tra letti in terapia intensiva e personale dedicato era di 2,5, dopo l’aumento dei posti è sceso a 1,6. Questo anche perché le Regioni hanno preso più della metà dei fondi che dovevano servire per assumere specialisti dedicati all’emergenza Covid e li hanno usati per tappare i buchi nell’organico ordinario che avevano accumulato negli anni. 

Il personale sanitario 

Quella dell’assenza di personale, d’altronde, è una delle eredità più pesanti che ci trasciniamo da anni di mancanti investimenti in sanità. Se una siringa o una mascherina si possono comprare, produrre o importare, è quasi impossibile trovare medici e infermieri da un giorno all’altro se non ce ne sono in numero sufficiente. Eppure anche su questo, tante cose diverse si potevano fare. 

A testimoniarlo ci sono gli eserciti di medici e infermieri precari chiamati in corsia durante la prima ondata con contratti di collaborazione, a partita Iva o a termine. Molti di loro non sono stati rinnovati alla scadenza, nell’illusione che l’emergenza fosse alle spalle, salvo poi essere riconvocati in tutta fretta a ottobre, quando ormai era chiaro che il contagio stava dilagando di nuovo. C’è la lista dei bandi andati deserti perché offrivano condizioni inaccettabili per i potenziali candidati. O di quelli arrivati troppo tardi, sintomo di una programmazione assente. Da parte dalla Protezione Civile che ha cercato 200 medici da inviare in giro per l’Italia solo il 20 novembre. E di nuovo da parte delle Regioni, che hanno iniziato le loro ricerche solo quando la situazione era ormai fuori controllo. In Campania, per dire, un bando pasticciato è stato lanciato oltre ogni tempo massimo il 19 novembre. Doveva servire a reclutare 450 medici, all'inizio ne sono entrati in servizio 27. 

Il fatto è che di fronte a una situazione straordinaria, sarebbero servite procedure straordinarie per portare al fronte il maggior numero di soldati possibile. Si è invece arrivati al paradosso di bloccare anche chi era già pronto a dare il suo supporto. È il caso dell’incredibile vicenda dei 23mila laureati in medicina, lasciati per mesi in attesa dei risultati del concorso per la specializzazione, bloccato dai ricorsi, frutto ancora una volta di una procedura farraginosa e complessa, quando più servirebbe velocità e semplicità. Peraltro, anche una volta sbloccata, la selezione ha lasciato fuori dalla specializzazione 10mila giovani laureati che mai come in questo momento sarebbero stati utili da inserire nel sistema. 

La medicina del territorio 

C’è un altro punto, in cui la strategia sanitaria per affrontare la seconda ondata è collassata in modo forse ancora più clamoroso. È la medicina del territorio, di cui nei mesi estivi politici ed esperti si sono riempiti la bocca, indicandola come argine da alzare per evitare che i malati tornassero ad affollare gli ospedali. Quell’argine alla prova dei fatti è crollato miseramente. Mentre tutti ne discutevano, pochi facevano qualcosa. Secondo la Corte dei Conti, a fine ottobre 2020 solo dodici Regioni avevano presentato un piano per il potenziamento della medicina territoriale, previsto dal Dl Agosto (che metteva a disposizione 734 milioni). 

Il potenziamento della medicina del territorio doveva basarsi su due pilastri: le Usca e i medici di base. Queste due gambe, invece di correre insieme, sono entrate in un vortice di disfunzioni e conflitti che ha finito per indebolirle entrambe. Le Usca dovevano essere il fiore all’occhiello della strategia messa in campo dal governo. Si tratta delle Unità Speciali di Continuità Assistenziale, equipe di medici il cui compito è gestire la sorveglianza dei malati Covid che si trovano in isolamento domiciliare per evitare che vadano al pronto soccorso. 

Ce ne dovrebbe essere una ogni 50mila abitanti e probabilmente sarebbero comunque meno di quanto servirebbe. Ma a fine ottobre, ne erano state attivate solo la metà di quelle previste. Sono mancati i medici per formarle, anche perché l’adesione è su base volontaria, senza attività di reclutamento. E dove si è trovato il personale, non c'erano gli strumenti, le protezioni, i mezzi, tanto che molti medici sono costretti a usare mezzi propri o a noleggiare auto o furgoni. 

E poi tanto per cambiare, ogni parte d’Italia ha fatto storia a sé, con regole diverse per decidere quando e come le Usca devono intervenire e cosa devono fare. Il risultato è un caos assoluto, denunciato anche dai medici di famiglia che avevano l’incarico di attivare le unità per mandarle a visitare i loro pazienti, ma spesso non sono riusciti nemmeno a contattarle. Così come spesso non hanno potuto contattare le Asl che dovevano prendersi in carico i presunti positivi, decidere chi mettere in isolamento, a chi fare il tampone. 

I medici di famiglia, l’altro cardine nella risposta al Covid sul territorio, hanno pagato un prezzo alto alla pandemia in termini di vite umane. Eppure ancora oggi lamentano la mancanza di dispositivi di protezione sufficienti e di regole chiare per il loro intervento. Un esempio per tutti: il protocollo che definisce quali cure i dottori devono somministrare ai pazienti che visitano a casa è stato approvato dal Cts il 30 novembre scorso, dieci mesi dopo l’inizio dell’emergenza. D’altra parte, dalle associazioni di categoria non sono mancate resistenze difficili da comprendere, come in Lazio dove alcune sigle di medici di famiglia a novembre hanno vinto un ricorso al Tar contro l’obbligo di visitare a domicilio i malati Covid, sentenza poi annullata a dicembre. 

Insomma, la strategia messa in campo sul territorio ha fatto acqua da tutte le parti. Arrivando al punto surreale per cui il governo non è riuscito nemmeno ad assumere le figure che lui stesso ha creato. Parliamo dell'infermiere di quartiere, introdotto dal Decreto Rilancio. Se ne sarebbero dovuti reclutare 9.600 con uno stanziamento di oltre 330milioni. Ma alla fine del 2020 erano solo un decimo del previsto. Di fronte a questi numeri impietosi, anche Giuseppe Conte non ha potuto che constatare il fallimento. Il 13 novembre scorso l'ex premier ha ammesso gli errori e i ritardi nell’organizzazione della medicina del territorio di fronte alla pandemia.

Francesco Pacifico per "il Messaggero" il 25 gennaio 2022.

Seicento sono già andati via alla fine dello scorso anno. Altrettanti, se non di più, dovrebbero seguirli a breve. È in corso la grande fuga dagli ospedali da parte degli infermieri. E a lasciare non sono soltanto quelli che, prossimi all'età di ritiro, optano per il prepensionamento: nell'ultimo semestre del 2021 si sono licenziati tanti operatori tra i 30 e i 50 anni, che non riescono più a reggere la pressione. 

«Ma quest' anno - nota Stefano Barone, segretario del Nursind del Lazio - i numeri sono destinati solo ad aumentare». Sì, perché stando alle stime del principale di categoria, già negli ultimi mesi del 2021 «oltre 600 infermieri regolarmente assunti hanno deciso di dimettersi. Perché? Perché le loro condizioni di lavoro sono diventate insostenibili: stipendi più bassi rispetto al resto d'Europa, con lo Stato che non ha nemmeno erogato loro l'indennità straordinaria Covid da 75 euro, turni massacranti, nessun turn over e aggressioni continue, decine e decine al giorno soprattutto nei pronto soccorso». 

Una situazione precedente al Covid, con la pandemia che però ha fatto da detonatore, come dimostra la decisione della categoria di scioperare venerdì prossimo, garantendo soltanto i servizi minimi. Seicento infermieri che si dimettono sono poco meno del 2 per cento dei 40mila iscritti nel Lazio all'ordine di categoria.  

Ma la percentuale, presa da sola, può essere fuorviante: anche perché negli ospedali della Capitale e dalla Regione mancavano già prima del Covid 5mila addetti, oltre 8mila sono quelli che quest' anno matureranno i requisiti per la pensione, senza dimenticare che mentre i malati e la domanda di sanità crescono (e non solo per il coronavirus) è molto difficile trovare nuovi infermieri sul mercato. Anche provandoli a reclutare all'estero, come si faceva in passato.  

Aggiunge Barone: «A licenziarsi è stata gente tra i 30 e i 50 anni. Soprattutto nel pubblico, ma anche nel privato. E tantissimi abbandonano dopo essere stati stabilizzati da poco, anche a fronte di uno stipendio che in entrata è sui 1.400 euro al mese. Non vorrei che qualcuno li accusasse di essere degli scansafatiche, perché parliamo di persone che ogni giorno fanno turni massacranti, non hanno alcun supporto (in primis psicologico), per non parlare dei rischi di natura sanitaria». Soltanto nell'ultimo mese, stando alle stime del Fnopi, la federazione che raccoglie tutti gli ordini, nel Lazio si sono contagiati in 3mila. 

Come detto, è difficile trovare infermieri sul mercato. Per provare a frenare il problema la Regione ha concordato con i sindacati di scorrere gli ultimi posti ancora disponibili nella graduatoria del concorso per il Sant' Andrea - sono un migliaio - iniziando in questi giorni a chiamare gli idonei e a destinarli nelle strutture. A breve dovrebbe essere lanciato dall'Asl Roma2 un bando per reclutare altro personale, ma non è detto che basti.

«Intanto - fa notare Barone - negli ospedali di secondo livello, quelli che garantiscono ancora più specializzazioni, si fa fatica a fare i turni. E parlo del San Camillo, Tor Vergata, San Giovanni, Sant' Andrea o del Policlinico Umberto I. In ognuno di questi servirebbe almeno un migliaia di uomini e donne in più». 

Venerdì mattina si terrà nei pressi di Torre Argentina un presidio della categoria, che per quel giorno ha proclamato 24 ore di sciopero. Andrea Bottega, leader del Nursind, nota che «la situazione di Roma è lo specchio di quanto accade in tutta Italia. Ovunque la categoria è sempre più demotivata. Il nostro è un lavoro usurante e sottopagato: le buste paga degli infermieri pubblici sono sostanzialmente ferme: negli ultimi 13 anni abbiamo visto soltanto un aumento di 80 euro lordi al mese. Come si pensa di trattenere chi già svolge la professione e, nel contempo, di riuscire ad attrarre i giovani?». 

Valentina Arcovio per "il Messaggero" il 25 gennaio 2022.

Pochi e mal distribuiti. I centri che operano in Italia per curare i disturbi alimentari - dall'anoressia alla bulimia fino al binge drinking - nelle strutture sanitarie pubbliche, censiti per la prima volta dall'Istituto superiore di sanità (Iss), sono in tutto 91. Oltre la metà, precisamente 48, si trovano al Nord con l'Emilia Romagna che ne conta ben 16. 

Al Centro Italia ne sono state mappate solo 14, di cui 2 nel Lazio e 4 in Toscana. E 29 tra Sud Italia e Isole, con la Calabria che ne conta solo 2 e la Basilicata addirittura solo 1. Sono numeri che spiegano l'importante fenomeno della migrazione, da Sud verso Nord, da parte di molte famiglie per dare ai propri figli la possibilità di ricevere cure adeguate contro questi disturbi complessi. 

IL CENSIMENTO Stando ai dati del censimento, il 90% delle persone assistite è composto da ragazze e il 59% ha tra i 13 e 25 anni di età. Ma ci sono anche bambini con meno di 12 anni, che sono il 6% del totale. Questa prima mappatura dei centri del Servizio sanitario nazionale è stata tradotta in una piattaforma online, interattiva e aggiornabile in tempo reale, che i cittadini possono utilizzare per cercare le strutture più vicine specializzare nella cura dei disturbi del comportamento alimentare.

Si tratta di uno strumento utilissimo, soprattutto ora che, a causa della pandemia, i disturbi dell'alimentazione hanno avuto una recrudescenza assieme a molti altri disturbi mentali. Il risultato è stato raggiunto attraverso il progetto Ma.Nu.Al che il ministero della Salute, nell'ambito delle Azioni Centrali del Ccm, ha affidato al Centro Nazionale Dipendenze e Doping dell'Istituto Superiore di Sanità. Dal 2022 il censimento coinvolgerà anche le strutture private accreditate che si andranno ad aggiungere a quelle totalmente pubbliche.

GLI SPECIALISTI A essere censiti in questo mega-progetto sono stati anche i professionisti che lavorano nei centri, tutti formati e aggiornati. Sono soprattutto psicologi (24%), psichiatri o neuropsichiatri infantili (17%), infermieri (14%) e dietisti (11%). Sono inoltre presenti gli educatori professionali (8%), i medici di area internistica e pediatri (5%), i medici specialisti in nutrizione clinica e scienza dell'alimentazione (5%), i tecnici della riabilitazione psichiatrica (3%), gli assistenti sociali (2%) ed infine i fisioterapisti (1%) e gli operatori della riabilitazione motoria (1%).

Dal report risultano in carico al 65% dei centri censiti oltre 8.000 utenti. Poco meno di tremila sono in carico da più di 5 anni e soltanto nell'ultimo anno di riferimento (2020) hanno effettuato una prima visita circa 4700 pazienti. I disturbi dell'alimentazione diagnosticati più frequentemente sono l'anoressia nervosa, che rappresentata ben il 42,3% dei casi; la bulimia nervosa che rappresenta il 18,2%; e il disturbo di binge eating che riguarda il 14,6%. 

LE VARIE TERAPIE I percorsi prevedono interventi psicoterapeutici, psicoeducativi, nutrizionali, farmacoterapici, di monitoraggio della condizione psichico-fisico-nutrizionale e di abilitazione o riabilitazione fisica e sociale. Le prestazioni vengono generalmente erogate con ticket sanitario (78%) ma possono essere fornite anche gratuitamente (29%) o essere erogate in regime di intramoenia (9%). I centri censiti propongono percorsi terapeutici soprattutto di tipo specialistico (92%) ma anche intensivi ambulatoriali o semiresidenziali (62%), mentre la riabilitazione intensiva residenziale è offerta solo nel 17% delle strutture.

«Il progetto - dice Roberta Pacifici responsabile del Centro Nazionale Dipendenze e doping dell'Iss - nasce con lo scopo di offrire una mappa delle risorse presenti sul territorio e della loro offerta assistenziale, per facilitarne conoscenza ed accesso. L'emergenza pandemica, inoltre, ha avuto effetti pesanti sulle persone che soffrono di tali disturbi amplificando la problematica. Consapevoli degli ulteriori disagi che tale emergenza sanitaria ha causato ai pazienti e ai loro familiari, il Ministero della Salute e l'Istituto Superiore di Sanità hanno ritenuto fondamentale la disponibilità di un primo riferimento».

Sanità regionalizzata. Perché al Sud ci sono più malati di diabete, infarto e depressione. Gianni Balduzzi su L'Inkiesta il 21 Gennaio 2022.

Anche nel nostro Paese la salute è correlata al reddito e di conseguenza ci sono macrodistinzioni geografiche. Gli abitanti del Mezzogiorno, a causa di queste patologie, ricorrono più al medico specialista: il 13,7% degli adulti tra i 15 e 64 anni ha tre o più malattie croniche, contro il 12,4% della media nazionale.

Le condizioni pre-esistenti sono quei fattori che influiscono a monte sulla lunghezza della vita dei singoli, sull’efficacia della sanità, sui suoi costi.

Il concetto è più presente negli Stati Uniti che in Italia e indica quell’insieme di patologie, spesso croniche, che sussistono da diverso tempo e rendono il premio assicurativo privato più alto (così in America). Prima dell’Obamacare potevano addirittura provocare il rifiuto da parte delle assicurazioni a coprire le spese sostenute.

Anche in Italia queste patologie hanno il loro peso, ma il quadro differisce in base all’area geografica. Nelle regioni coi redditi più bassi troviamo la percentuale maggiore di cittadini afflitti da malattie croniche, per questo costretti a vedere più specialisti.

Come nel Sud degli Stati Uniti anche nel Mezzogiorno d’Italia i numeri sono superiori alle medie nazionali: il 13,7% degli adulti tra i 15 e 64 anni ha tre o più malattie croniche, contro il 12,4% nazionale.

I divari maggiori riguardano la fascia d’età che più impatta sulla sanità, quella degli anziani. Gli over 65 del Sud Italia che hanno tre o più patologie croniche sono ben il 57%, contro una media italiana del 52,2%, Il 48,7% (43,2% il valore italiano), ne ha una grave. Mentre al Nord i malati sono decisamente meno. 

I Mississippi, le Alabama e le Louisiana italiane, ovvero i luoghi dove vi sono più cronicità, sono la Calabria, la Basilicata, e un po’ a sorpresa l’Umbria. Male anche la Sardegna e l’Abruzzo. Ovunque in queste aree si supera il 60% di anziani con patologie di lunga durata. In provincia di Bolzano e in Friuli Venezia Giulia, al contrario, si scende al 32,1% e al 41,8%. 

Quali sono le malattie che più dividono gli italiani? Il divario è ampio per l’artrosi e l’ipertensione, ma quello che appare essere decisamente più presente nel Sud rispetto al resto di Italia è il diabete. Esattamente come accade negli Usa, dove questa malattia imperversa soprattutto nella minoranza afroamericana e negli Stati meridionali.

In particolare è di tutto rilievo il confronto tra Sud e Nord Est. Nel primo caso sono diabetici il 22,8% degli over 65, nel secondo solo il 13,6%. Mentre la media italiana è del 16,8% 

A dispetto dei luoghi comuni sull’aria migliore, la percentuale di anziani con bronchite cronica ed enfisema è più che doppia al Sud rispetto al Nord Ovest, dove l’inquinamento padano e milanese avrebbe potuto far pensare il contrario, 16,3% a 7,9%. 

Al Sud vi sono anche più infarti e più patologie cardiache in generale, più problemi renali e di incontinenza, maggiori malattie ortopediche, e anche più casi di depressione, che nelle Isole arrivano a interessare il 16,8% degli over 65, contro il 9,5% del Nord Ovest.

Probabilmente anche quest’ultimo dato va a smentire qualche cliché da sempre in voga.

Non stupisce, quindi, che proprio al Sud e nelle Isole vi sia un ricorso al medico specialista più frequente. Nel mese precedente all’intervista vi è andato almeno una volta il 64,2% degli anziani, il 19,2% per due volte. Al Nord tale percentuale scende al 54,7%. E la percentuale di quanti hanno pagato la visita con il ticket o privatamente è leggermente minore della media italiana, 72,8% contro 76,6%, ma incide su una proporzione di popolazione superiore. Popolazione con un reddito disponibile più limitato di quello di chi abita al Nord. 

Nonostante le peggiori condizioni di salute, il Mezzogiorno non è superiore alla media nazionale per la proporzione di popolazione che va dal medico di famiglia. In teoria dovrebbe essere il primo presidio in caso di insorgere di sintomi.

Questi dati indicano l’importanza della prevenzione, soprattutto là dove la maggiore povertà è correlata con una minore attenzione alla propria salute, più sedentarietà, alimentazione peggiore e meno equilibrata.

Ma anche del ruolo della sanità di prossimità, proprio dove vi sono meno mezzi ma più patologie i pazienti vanno di più dagli specialisti, anche a costo di spendere, e meno dal medico di famiglia.

Questi dati sono del 2019. Tra pochi anni usciranno quelli relativi alla fase pandemica e soprattutto post-pandemica. L’impatto diseguale che questa ha avuto fa pensare che i divari tra le diverse aree d’Italia non siano in calo, anzi.

Di fronte a queste statistiche non ci si stupisce del fatto che, almeno prima del Covid, la speranza di vita dipendesse così tanto dal grado di istruzione e dal reddito.

Le ragioni sono queste. Siamo un Paese diviso, e anche se ci piace credere che da noi c’è maggiore solidarietà, più umanità. In realtà chi sta peggio economicamente sta peggio anche a livello di salute, e costa di più a se stesso e allo Stato.

I maggiori investimenti nella sanità in seguito al Covid non dovrebbero fare a meno di prendere in considerazione tutto ciò che sta a monte dell’arrivo dei pazienti davanti a un medico o in ospedale.

Contatto non rilevatoGli Stati membri hanno investito circa 100 milioni di euro per sviluppare questi sistemi di contact tracing, ma sono riusciti a tracciare solo il 5% dei casi. Uno strumento che si è rivelato inutilizzabile anche a causa della mancanza di fiducia dei cittadini(linkiesta.it)

Meno personale e stipendi bassi, la sanità malata fa soffrire il Sud. GIOVANNA GUECI su Il Quotidiano del Sud il 23 gennaio 2022.

NON BASTANO le strutture, manca il personale. Soprattutto nelle regioni del  Mezzogiorno, dove tra i professionisti della sanità – medici e infermieri, ma anche tutte le altre figure coinvolte  nella filiera dell’assistenza sanitaria – si registrano organici allo stremo, retribuzioni più basse e una conseguente diseguaglianza nell’accesso  ai servizi  sanitari e socio-sanitari da parte dei cittadini.

A fare il punto, Salutequità, l’Organizzazione per la valutazione della qualità delle politiche per la salute, ma anche il Sindacato Medici Italiani, secondo il quale le esigenze di cure mediche insoddisfatte dichiarate dai pazienti risultano essere tre volte maggiori al Sud e nelle isole rispetto al Nord-est del Paese. L’allarme per il nostro Paese arriva anche dall’Europa: “Se gli attuali criteri di accesso alla formazione specialistica dovessero rimanere invariati – scrive la Commissione Ue nel suo ultimo Report sulla situazione italiana – con l’aumentare dell’età media dei medici italiani negli anni a venire, si prevede una carenza significativa di personale, soprattutto in alcune discipline di specializzazione e in medicina generale. L’Italia impiega meno infermieri rispetto a quasi tutti i paesi dell’Europa occidentale e il loro numero (6,2 per 1 000 abitanti) è inferiore del 25 % alla media UE. Vista la diminuzione del numero di infermieri laureati dal 2014, le carenze di personale in questo settore sono destinate ad aggravarsi in futuro”.

ORGANICI E PIANI DI RIENTRO

Secondo i sindacati dei medici, nel giro di pochi anni, mancheranno all’appello circa 25mila camici bianchi, in particolare specialisti e medici di medicina generale, che diminuiscono al ritmo di oltre 6mila l’anno a causa di un ricambio del tutto insufficiente. Con una penalizzazione ancora una volta maggiore per il Sud, dove il turn over è bloccato dall’assenza di programmazione e contratti soprattutto nelle regioni in piano di rientro – Abruzzo, Calabria, Campania, Lazio, Molise, Puglia e Sicilia, con l’aggiunta del commissariamento per Calabria e Molise – per le quali l’assenza di standard rende impossibile la quantificazione degli organici necessari.

L’inadeguatezza del personale riguarda anche gli infermieri, per i quali se le stime della Federazione degli Ordini parlano di carenze pari a 63mila unità, i calcoli dell’Università Bocconi superano le 101mila e quelli di Agenas, l’Agenzia nazionale per i servizi sanitari, indica il deficit in non meno di 80mila professionisti. E questo soprattutto sul territorio, dove il fabbisogno dei soli infermieri di famiglia e comunità, necessari non solo per Covid, ma anche per l’assistenza non Covid, è stato quantificato per rispondere alle esigenze del PNRR in almeno 20-30mila unità, mentre da decreto Rilancio del maggio 2020 che ne ha previsti e finanziati per legge 9.600, se ne sono trovati finora non più di 3mila.

Allarme desertificazione anche per gli organici dell’emergenza, pronto soccorso e 118, che registrano una carenza di 4.000 medici e 10.000 infermieri con concorsi andati deserti in tutte le regioni e soglie di criticità massima al Sud. “Tutto questo ha e continuerà ad avere un peso anche sul blocco delle cure programmabili che stiamo vivendo in queste settimane e che ciclicamente ormai da due anni purtroppo si ripresenta, ostacolando il diritto all’accesso al SSN da parte dei pazienti non Covid, a partire da quelli con malattie croniche e rare”, afferma Tonino Aceti, presidente di Salutequità.  

CONDIZIONI DI LAVORO E RETRIBUZIONI

Le medie nazionali mettono in luce parecchie difficoltà, ma finiscono per denunciare ancora una volta che è il Meridione il malato più grave. Se infatti tra gli operatori sanitari dipendenti del Servizio Sanitario Nazionale, il mancato rinnovo dei contratti durato dieci anni ha portato nelle buste paga aumenti che vanno dai 4.291 netti annui per i medici ai 1.690 netti annui per gli infermieri, analizzando la retribuzione media mensile a livello regionale, troviamo i 2.294 euro della Provincia autonoma di Bolzano contro i 1.561 della Basilicata. Tenendo presente, oltretutto, che sulla cifra incide moltissimo proprio la carenza di personale, che lascia spazio a sua volta agli straordinari.

Un esempio per tutti: in Campania – la regione con la quota più alta di straordinari, ma anche tra quelle con le maggiori carenze di professionisti – si raggiunge quota 1.760 euro mensili. Problemi noti da anni, aggravati dall’emergenza Covid, ma anche dalle politiche di tagli portate avanti fino a poco tempo fa.

“Non possiamo che essere d’accordo –  hanno dichiarato Cristina Patrizi e Liliana Lora della Direzione nazionale del Sindacato Medici Italiani, dopo l’incontro dei giorni scorsi con il Ministero della Salute – con quanto previsto dal Programma nazionale equità nella salute, che dovrà ricevere un finanziamento di  625 milioni di euro, di cui 250 a carico del FESR e 375 del  FSE, da destinare alla realizzazione di progetti in tema di salute, finalizzati alla promozione dell’equità nell’accesso ai servizi sanitari e socio-sanitari, nei territori delle regioni Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia. Il problema vero è legato alla mancanza dei medici”.

Una mancanza che riguarda i medici di medicina generale, gli specialisti ed i medici del sistema di emergenza in modo più grave proprio per le regioni del Sud, per i piccoli paesi e per le aree disagiate, anche se inizia ad essere presente in modo strutturale anche nella città.

Il fallimento delle politiche sanitarie lombarde alla prova della pandemia. Da aclimilano.it il 19 maggio 2020. Proseguono le riflessioni e intorno allo smart report curato da Gianluca Budano e David Recchia, in occasione della 70esima Giornata Mondiale della Salute, una ricerca inedita di analisi sugli effetti della pandemia Covid-19 sulle politiche italiane della salute e di welfare. Dopo l’intervista al Presidente nazionale Anffas, Roberto Speziale, il contributo del ricercatore Valentino Santoni di Secondo Welfare, l’articolo di Ubaldo Pagano,  l’approfondimento del Prof. Vincenzo Frusciante e la riflessione dell’on. Paolo Siani, pubblichiamo il documento delle ACLI milanesi e lombarde dal titolo “Il fallimento delle politiche sanitarie lombarde alla prova della pandemia” prima declinazione territoriale sul versante della riflessioni lanciate dallo smart report. 

Il fallimento delle politiche sanitarie lombarde alla prova della pandemia

Un po’ di storia:

Porta la firma di una donna, Tina Anselmi, ex staffetta partigiana la Legge 13.12.1978 n. 833 che istituisce il Servizio Sanitario Nazionale con l’introduzione di un sistema universalistico superando il sistema mutualistico che portava alla mancata copertura sanitaria di alcuni strati della popolazione italiana.

La legge riconosceva così il diritto alla salute come diritto universale e dava compimento all’art.32 della Costituzione che prevede la responsabilità dello Stato di garantire la salute del cittadino e della collettività in condizioni di eguaglianza senza nessuna distinzione di condizioni individuali, sociali ed economiche.

Negli anni 90 iniziò il dibattito sulla sostenibilità economica del servizio sanitario e su quali correttivi finanziari apportare. In quegli anni si registra una sempre maggiore esigenza di risorse finanziarie per sostenere il funzionamento del SSN.

In questi anni viene introdotto il sistema del rimborso a prestazione per tutte le strutture sanitarie ovvero il pagamento da parte del Servizio Sanitario Nazionale ad ogni ospedale avviene sulla base della tipologia e del numero delle prestazioni erogate e non sulla base dei costi sostenuti. Tutto ciò porterà a delle crescenti disparità a livello.

Dalla riforma del titolo v della Costituzione ai giorni nostri

La riforma del Titolo V della Costituzione avvenuta con la Legge costituzionale n. 3 del 18 ottobre 2001 – affida la tutela della salute alla legislazione concorrente tra Stato e Regioni, ampliando il ruolo e le competenze delle autonomie locali.

Dal 2001 e nella successive ridefinizioni, lo Stato, d’intesa con le Regioni, indica i LEA (Livelli Essenziali di Assistenza), ovvero le prestazioni minime e i servizi che il Servizio sanitario nazionale (SSN) è tenuto a fornire a tutti i cittadini – gratuitamente o dietro pagamento di una quota di partecipazione (ticket) – che devono essere assicurati da tutte le regioni.

La riforma del Titolo V che – delegando a Regioni e Province autonome l’organizzazione e la gestione dei servizi sanitari – puntava ad un federalismo solidale, ha finito per generare una deriva regionalista, un differente sistema sanitario per ogni Regione dove l’accesso a servizi e prestazioni sanitarie è profondamente diversificato e iniquo.

A fronte di un diritto costituzionale che garantisce “universalità ed equità di accesso a tutte le persone” e alla L. 833/78 che conferma la “globalità di copertura in base alle necessità assistenziali dei cittadini”, i dati smentiscono continuamente i princìpi fondamentali su cui si basa il SSN.

A tutta questa situazione si aggiungono significativi tagli all’impegni di spesa sanitari pari a 37 miliardi di euro negli ultimi dieci anni (1). Il dato dei posti letto risulta significativo: nel 1981 avevamo 530 mila posti letto oggi sono meno di 215 mila.

 Sistema sanitario della Regione Lombardia: dalle Asl alle Ats

La Regione Lombardia si è distinta nel panorama nazionale, già a partire dagli ultimi anni 90 del secolo scorso, per aver sviluppato un modello peculiare, caratterizzato da due caposaldi:

libertà per il cittadino di scegliere l’erogatore e per gli erogatori di intraprendere le attività;

netta separazione tra funzione di Programmazione/Acquisto/Controllo, affidata alle ASL, e funzione di produzione di servizi, affidata agli erogatori accreditati pubblici (Aziende Ospedaliere – AO) e privati, paritetici e in competizione.

In Lombardia, di fatto si è consolidato un sistema centrato sull’ospedale, con erogatori sia privati, che hanno scelto le materie in cui operare, in progressivo miglioramento, soprattutto agli occhi del cittadino, sia Aziende Ospedaliere pubbliche che, a fronte di una tradizione anche secolare di buona amministrazione e di una eccellente e riconosciuta qualificazione scientifica, hanno migliorato sì i loro standard, ma più lentamente.

La L.R. 23/2015 cd. Riforma Maroni, aveva l’ambizione di ridare slancio ai servizi sanitari e socio-sanitari territoriali, in un’integrazione che partiva dalla creazione di una nuova azienda territoriale, la ASST, Azienda Socio Sanitaria Territoriale che riunisce in sé sia i servizi ospedalieri sia quelli territoriali.

La riforma ha dismesso le (15) ASL (Aziende Sanitarie Locali) e ha creato (8) ATS (Agenzie di Tutela della Salute) distribuite su tutto il territorio Lombardo.

Le ATS sono suddivise in (30) ASST (Aziende Socio Sanitarie Territoriali) che sostituiscono le vecchie Aziende Ospedaliere – AO. Le 30 Aziende Socio Sanitarie Territoriali, con un bacino di circa 400.000 abitanti ciascuna coincidente con un distretto di nuova identificazione “concorrono con tutti gli altri soggetti erogatori del sistema, di diritto pubblico e di diritto privato, all’erogazione dei LEA nella logica della presa in carico della persona”.

La trasformazione delle ASL in ATS/ASST non è stata organica cosicché alcuni compiti e ruoli delle ASL non è chiaro a chi sono stati trasferiti. Questo è uno dei motivi per cui certe attività e competenze, quali quelle di approvvigionamenti dei DPI, durante la pandemia non erano in capo ad una specifica responsabilità.

I distretti perdono la funzione di coordinamento della rete dei servizi e diventano molto grandi.

Accanto alla evidente crisi dei Medici di Medicina Generale (MMG, i medici di Famiglia) e del settore infermieristico si assiste ad un arretramento dei servizi pubblici per le tossicodipendenze, dei Consultori e alle gravi difficoltà della psichiatria oltre all’assenza di una rete reale per il decadimento senile e di un investimento concreto sulle politiche di prevenzione; la collaborazione con i Comuni e la valorizzazione delle comunità locali appare marginalizzata; risulta fortemente penalizzato il ruolo del Terzo Settore come interlocutore delle politiche regionali.

 L’aver gradualmente spostato, in questo ultimo ventennio, il tema della salute da questione pubblica a soluzione individuale. Il sistema sanitario è stato costruito intorno al concetto di assistenza centrata sul paziente, ma un’epidemia richiede un cambiamento di prospettiva verso un concetto di assistenza centrata sulla comunità.

Occorre rilanciare il Servizio Sanitario Nazionale (SSN). Se vogliamo considerare il SSN un bene pubblico essenziale, vanno riconsiderati i rapporti tra centro e periferia. Non possiamo permetterci venti diversi servizi sanitari.

Occorre investire risorse nel Servizio Sanitario Nazionale (SSN) Da molti anni il SSN è stato definanziato (abbiamo il rapporto tra finanziamento del SSN e PIL tra i più bassi d’Europa).

Occorre ripensare, proteggere e dare nuova dignità al lavoro dei Medici di Medicina Generale. La medicina di gruppo, opportunamente rafforzata e tutelata, deve diventare il presidio fondamentale a livello territoriale per diagnosticare, curare, prevenire. Una prima azione deve consistere nel programmare un riequilibrio degli organici del personale medico e paramedico, allineandoli alle prescrizioni dell’OMS e agli standard dei Paesi omologhi (3).

Occorre riscoprire il ruolo dell’Infermiere di comunità. Una figura che possa operare nel territorio, a contatto coi medici, e che possa recarsi al domicilio delle persone, soprattutto anziane e magari non autosufficienti. Il modello della “ospedalizzazione domiciliare” in atto nel trattamento dei pazienti oncologici in fase avanzata può essere uno strumento utile su cui lavorare.

L’igiene pubblica e i dipartimenti di prevenzione, devono tornare ad una reale e efficace operatività. Non frammentati tra ATS e ASST, ma unitari, con una propria autonomia e dotati di personale adeguato: a loro spetta il compito di cogliere il pericolo, e intervenire rapidamente, tracciando, isolando, proteggendo.

La pandemia in Lombardia

Il sistema sanitario lombardo ha creato – con la riforma attuata – una vasta rete di servizi clinici e ospedalieri.Di fronte alla pandemia gli sforzi iniziali del sistema sanitario regionale si sono concentrati su alcuni obiettivi primari: la ricerca di infezioni è stata focalizzata sulle persone con sintomi (come da raccomandazione nazionale) ma la ricerca di contatti, i test a domicilio, l’assistenza e gli sforzi di monitoraggio sono stati ostacolati dalla rapida esplosione del numero di casi e dall’assenza di una rete di medicina territoriale strutturata.

Sono stati identificati centri COVID-19 dedicati, (talora sradicati da un contesto complesso ma indispensabile di servizi necessari – oltre gli apparati di ventilazione – come è successo per l’Ospedale Covid costruito presso la zona Fiera a Milano).

Il Covid-19 richiede risposte sanitarie differenziate in relazione alle diverse tipologie di pazienti coinvolti dal virus.

Occorre realizzare un potente sistema di sorveglianza delle infezioni sul territorio. Per raggiungere questo obiettivo occorre rafforzare le reti assistenziali territoriali mediante un processo che può e deve partire dal basso.

Occorre potenziare il sistema sanitario pubblico: siamo stati abituati per anni, anzi da decenni, a pensare che privato fosse sinonimo di efficienza, qualità, risparmio. Per scoprire che, nell’emergenza, è con l’efficienza e la qualità del pubblico che dobbiamo fare i conti.

Occorre ripristinare la funzione dei distretti. I Distretti devono tornare a funzionare, tornando a comprendere un ruolo di stimolo e di controllo da parte dei Comuni.

 L’incapacità di proteggere la popolazione più fragile è il dato più significativo che ci lascia in eredità la pandemia. Molti di questi soggetti hanno infatti contratto il virus nelle strutture destinate alla loro cura.

È indubbio che tutte le strutture abbiano dedicato energie e impegno ad attuare sistemi di gestione della crisi con limiti strutturali che ne hanno minato l’efficacia: l’impossibilità di riorganizzare la gestione interna degli spazi e del personale, l’inaccessibilità a strumenti e materiali necessari in particolare dei DPI (Dispositivi di Protezione Individuale), la scarsità di personale medico.

Ma risulta di tutta evidenza come la gestione Lombarda delle RSA e delle strutture sociosanitarie sia stata un grave errore di politica sanitaria.

La Regione Lombardia al fine di decongestionare gli ospedali con la Delibera n. 2906 dell’8 marzo 2020 disponeva “l’individuazione da parte delle ATS di strutture autonome dal punto di vista strutturale (…) strutture della rete sociosanitaria (ad esempio RSA) da dedicare all’assistenza a bassa intensità dei pazienti COVID positivi”.

L’aver indicato quei luoghi quando era ormai evidente che gli anziani erano le persone più esposte al rischio di mortalità per infezione da Covid  è stata una scelta scellerata.

Ma Regione Lombardia non si è fermata qui e ha emesso un’altra Delibera la n. 3018 dell’30 marzo 2020 che disponeva “in caso di età avanzata – ultra75enni e presenza di situazione di precedente fragilità (..) è opportuno che le cure vengano prestate nella stessa struttura”.

Questa scelta  significa ritenere la persona anziana non oggetto di tutela al pari di una persona non anziana.

Occorre ripensare al modello delle RSA. È lì che il virus ha colpito più duramente. Occorre pensare a soluzioni domiciliari innovative, a comunità più piccole e protette, o a RSA più decongestionate e pronte ad affrontare le emergenze.

L’evento pandemico è stato e lo è ancora un evento inedito e drammatico a cui non solo l’Italia ma l’intero pianeta non era preparato.

Ma l’analisi della storia e dell’evoluzione del Sistema Sanitario Italiano, in particolare di quello  Regionale Lombardo ci porta a considerare come le scelte politiche, in particolar modo quelle di politica sanitaria, possano incidere sulla vita e sulla morte delle persone e come le responsabilità di governo rispondano a esigenze del mercato e del profitto  che prevalgono su quelle del bene comune.

Questa lezione dovrà servirci per il futuro o avremo repliche ancora più drammatiche non solo da un punto di vista sanitario ma anche dei conseguenti impatti sul sistema economico, del lavoro e sociale. Non dobbiamo commettere l’errore di pensare che la nostra salute dipenda unicamente dalle strutture sanitarie, ma anche dal senso di isolamento sociale che deriverebbe da una eventuale grave e lunga recessione economica.

Il Covid non è tutto: la sanità pubblica in Lombardia era già compromessa (e ora rischia l’estinzione) – Replica. Marco Brando, Giornalista e scrittore, su Il Fatto Quotidiano il 3 dicembre 2020. Sul fronte dell’emergenza sanitaria, la Giunta regionale lombarda – in particolare col contributo del presidente Attilio Fontana (Lega) e dell’assessore al welfare (sta per “Sanità”) Giulio Gallera, di Forza Italia – non è apparsa, per usare un eufemismo, all’altezza della situazione: tra disorganizzazione, ritardi, omissioni, appalti farlocchi, vaccini anti-influenzali introvabili (ma disponibili, a caro prezzo, nelle strutture sanitarie private…), medici di famiglia abbandonati a se stessi, case di riposo riempite insensatamente di malati di Covid e via elencando. Sono questioni al centro di accesi dibattiti politici, alcune pure di inchieste giudiziarie che, prima o poi, arriveranno al traguardo. Con scambi di accuse tra “governo” regionale e governo nazionale. Tornando tra la gente, l’insoddisfazione, come si usa dire oggi, è bipartisan: nel senso che ci sono persone imbufalite tra chi non vota il centrodestra al potere da un quarto di secolo, ma pure, seppure in misura minore, tra chi lo ha votato. Pesano decine di migliaia di morti lombardi, quasi la metà del totale nazionale.

Tuttavia proprio l’emergenza-Covid ha creato un equivoco. Sembra quasi, a giudicare dai commenti (sui media ufficiali, sui social o persino al bar), che la Giunta lombarda abbia gestito male soltanto (si fa per dire…) questa pandemia, mentre per il resto la sanità regionale è un’eccellenza che ci invidiano tutti nel resto del mondo. Invece non è così.

Semmai l’inefficienza, con risvolti drammatici, di fronte all’emergenza pandemica è anche – forse, soprattutto – la conseguenza del modo in cui negli ultimi 25 anni è stata gestita la sanità: dalla presidenza di Roberto Formigoni (ciellino, berlusconiano ed ex democristiano, guarda caso condannato in via definitiva per mazzette sanitarie) fino a Fontana, passando dal predecessore leghista, Roberto Maroni (di recente entrato nel Cda della maggiore gruppo sanitario privato italiano, il “San Donato”, che possiede tra l’altro l’ospedale milanese San Raffaele).

Se sfugge questo aspetto di fondo – cioè, il modo in cui è stata organizzata la sanità lombarda, con le sue ricadute sulla gestione dell’epidemia e anche sul futuro prossimo – si rischia di sprecare un sacco di energie per prendersela esclusivamente con le recenti drammatiche inefficienze. Inefficienze che piuttosto, sono state prodotte proprio da un’organizzazione della sanità pubblica sempre meno pubblica, concepita a misura di privati e man mano spogliata dei servizi di base – a livello epidemiologico, di medicina di famiglia, eccetera – che avrebbero potuto limitare la stessa diffusione del virus.

Di questi temi parla da tempo – purtroppo piuttosto inascoltata – una grande esperta, con la quale dovrebbero confrontarsi anche anche i partiti attualmente all’opposizione nel Consiglio regionale. Si chiama Maria Elisa Sartor, professoressa a contratto nel Dipartimento di Scienze Cliniche e di Comunità dell’Università degli Studi di Milano e docente di Programmazione, organizzazione e controllo nelle aziende sanitarie. Non si è mai tirata indietro, anche a costo di criticare apertamente, dal punto di vista scientifico, il “Sistema sociosanitario lombardo” (Ssl).

Basta fare una chiacchierata con lei per capire meglio e per guardare al futuro, oltre questa emergenza. Proviamoci. “Molti, anche coloro che non sono addetti ai lavori, hanno capito – perché lo hanno vissuto sulla pelle – che cosa significhi non essere al centro, come cittadini, del Servizio sanitario regionale lombardo. Per rimediare, bisogna capire come funziona il sistema”, sbotta.

Ebbene, la professoressa mi spiega che il sistema sanitario della Lombardia di sicuro è unico, ma non brilla tanto per l’eccellenza quanto per il livello di privatizzazione che è stato raggiunto. Come? Grazie alla quota di potere pubblico ceduta dalla Regione al privato, che ovviamente cerca un profitto. La professoressa non usa mezzi termini: “È un sistema in cui la sanità privata, da semplice ‘portatore dei propri interessi’, è divenuta prima un partner paritario del pubblico, poi, di fatto, l’alter ego della Regione. E questo purtroppo è successo anche con l’appoggio di una componente dell’opposizione di sinistra”.

Che cosa succederà dopo la pandemia? Secondo la docente, la sanità privata sta premendo l’acceleratore per ottenere la realizzazione piena della sua vocazione: “Essere incontrastata, anzi ulteriormente facilitata, nei suoi propositi espansivi e, possibilmente, sempre più protagonista come fornitore di servizi sociosanitari”. Per consentirglielo, a livello politico c’è chi sta cogliendo l’occasione della verifica del funzionamento delle strutture base: le Ats, Agenzie di tutela della salute, e le Asst, Aziende socio sanitarie territoriali. Il bello, anzi il brutto […] è che la gente in Lombardia ha percepito questa situazione soltanto “grazie” al Covid-19. Perché prima la sanità lombarda veniva propagandata e spacciata per una macchina super efficiente”.

In questi giorni però ci sentiamo dire, proprio da coloro che hanno creato il sistema, che occorre rilanciare e rinnovare il servizio sanitario regionale. Vero professoressa? Mi risponde: “Già. Dicono, per esempio, che vanno ricostituiti i distretti, proprio quelli che i partiti al governo hanno smantellato. Invece ciò che viene proposto oggi è assai più proteso verso il privato di quanto sarebbe stato prevedibile a partire dalle leggi della Regione Lombardia 31/1997 (governo Formigoni) e 23/2015 (governo Maroni). Perché quelle leggi sono state le tappe preliminari di ciò che oggi tocchiamo con mano. E anche il presupposto di quello che oggi si prospetta come un passo ulteriore nella stessa direzione. Se si realizzerà, in Lombardia diremo addio di fatto al Servizio sanitario nazionale”.

I cittadini devono esserne consapevoli. E, soprattutto, dovrebbero esserne consapevoli almeno i partiti che oggi siedono all’opposizione della giunta Fontana.

Riceviamo e pubblichiamo la seguente replica dell’Associazione Italiana Ospedalità Privata Lombardia

Il sistema sanitario della Lombardia è considerato uno dei migliori esempi, fondato sul mix di erogatori di prestazioni sia pubblici sia privati accreditati. Non si tratta di un riconoscimento frutto di teorie interpretabili, ma a sostenerlo sono gli indicatori del Piano Nazionale Esiti, compilato da Agenas (Ministero della Salute). Il sistema lombardo vanta il più alto indice di attrattività di pazienti da altre regioni italiane, come facilmente documentabile e negli ultimi 20 anni, grazie a un meccanismo operativo che ha creato una sana competizione tra erogatori di diritto pubblico e di diritto privato, sono migliorate qualità e sicurezza delle prestazioni erogate sia in ambito privato sia in ambito pubblico.

Sul territorio ci sono eccellenze internazionali per la ricerca e per la clinica, sia private come il San Raffaele o l’Humanitas, sia pubbliche come il Niguarda, l’Istituto Neurologico Besta, l’Istituto Nazionale dei tumori. Tutte insieme concorrono alla salvaguardia del servizio sanitario regionale, perché ne sono parte integrante.

La frequente narrazione che vede il privato accreditato quale causa di sottrazione di risorse destinate al pubblico è del tutto infondata, in quanto esso eroga prestazioni regolate unicamente da una tariffa amministrata dalla Regione stessa, senza aggravio di costi aggiuntivi, come spesso invece avviene per le strutture pubbliche, con la Regione costretta storicamente a ripianare i disavanzi di bilancio.

Si ricorda tra l’altro che il decreto Balduzzi del 2012 ha messo un tetto che da allora blocca la crescita del finanziamento del comparto privato. A tutt’oggi, in linea con molte regioni italiane, la presenza del privato accreditato in Lombardia si assesta sul 30% circa del totale delle prestazioni erogate.

Ritenere quindi fallimentare la gestione regionale della pandemia a causa della natura mista del sistema sanitario è quindi del tutto fuori luogo.

La Lombardia è stata la prima regione europea colpita dal virus, che circolava da oltre un mese prima della diagnosi del 20 febbraio; il numero dei morti assoluti è stato più alto perché la Regione ha la quota di anziani più elevata (17% di ultra 70enni contro una media del 10% in Europa); in fase iniziale ha avuto la capacità di aumentare in 3 settimane i posti in terapia intensiva del 110%; la reportistica è stata puntuale e ha consentito il monitoraggio di un’epidemia senza precedenti; nella seconda ondata ha adottato i provvedimenti restrittivi 10 giorni prima del Governo Nazionale, abbassando così la curva epidemica prima delle altre regioni come i dati epidemiologici stanno dimostrando.

In aggiunta a ciò, si ricorda che l’apporto del comparto privato è stato determinante, un esempio per tutti: il Gruppo San Donato da solo ha messo a disposizione del sistema, tra la prima e la seconda fase, circa 4.350 posti letto, curando in tutto 9.000 pazienti Covid positivi.

Il Presidente di Aiop Lombardia Dario Beretta

Risposta dell’autore

Nessuno discute l’abnegazione di medici e paramedici della sanità privata. Semmai ci sarebbero da avanzare obiezioni sui dati che citate. Resta il fatto che in Lombardia va a gonfie vele la sanità privata specialistica, mentre quella pubblica di base, indispensabile, è stata smantellata; i risultati si sono visti anche durante la pandemia (si può approfondire qui). Prendo atto della vostra difesa d’ufficio della politica regionale. Di sicuro non è stata sgradita, visto che il principale gruppo privato, il San Donato, sei mesi fa ha cooptato nei suoi cda l’ex presidente della Giunta lombarda, Roberto Maroni (Lega), e Angelo Capelli (ex consigliere di maggioranza), braccio destro di Maroni per confezionare la riforma socio-sanitaria nel 2015.

SALUTE E RICERCA. Covid, tutti i fallimenti di Stati, regioni e Ue. Cesare Greco su startmag.it il 10 aprile 2021. La pandemia che sta ancora colpendo il mondo ed in particolare l’Europa ha arrecato danni per sanare i quali occorrerà molto tempo e fatica. Questo senza contare la scia di lutti e di conseguenze a medio e lungo termine sulla salute di quanti ne sono stati vittime. Ma ha anche impartito alcune lezioni delle quali tenere conto e che impongono un cambiamento sostanziale della visione del mondo così come si era andata formando negli ultimi decenni.

Sul piano internazionale ha svelato profili oscuri della globalizzazione, mettendo in evidenza come, senza una omogeneità dei sistemi politici e senza una diffusa e fortemente condivisa cultura di pace e collaborazione, questa può diventare un ulteriore motivo di squilibrio ed essere sfruttata per motivi egemonici dalle grandi potenze. Sul piano europeo ha messo in luce le debolezze e le criticità dell’integrazione, acuite dalla sfrenata delocalizzazione di molte produzioni, rivelatesi poi strategiche, verso mercati considerati economicamente più convenienti.

Sul piano nazionale, infine, ha evidenziato la debolezza di una classe politica incapace di immaginare un modello di società e le direttrici lungo le quali realizzarlo. In particolare la crisi sanitaria ha finito per presentare il conto per una serie di riforme sbagliate e demagogiche.

Lo tsunami pandemico non rimarrà senza conseguenze né sul piano globale né sul piano continentale né sul piano nazionale, e gli equilibri che ne risulteranno saranno fortemente influenzati dalla capacità di ciascuno di uscire prima possibile dalla crisi e ripartire in sicurezza e con efficacia.

In primo luogo, già al suo esordio, la pandemia ha messo in luce l’incapacità a far fronte, con la stessa rapidità con cui il virus colpiva fette esponenzialmente sempre più ampie di popolazione, persino alle esigenze di protezione degli stessi operatori sanitari e di reperimento delle strumentazioni in grado di trattare i casi più gravi. L’Europa, in particolare, si è scoperta impreparata e sguarnita sul piano logistico proprio perché non in grado di produrre al suo interno gli strumenti necessari.

La mancanza di dispositivi di protezione individuale e di macchine per il supporto terapeutico da un lato ha facilitato e amplificato la capacità infettante del virus fino a scatenare una vera crisi di panico con accaparramento delle risorse disponibili, affannosa ricerca di soluzioni su altri mercati e lievitazione dei prezzi; dall’altro lato ha favorito la nascita di improbabili e opache società di consulenza e intermediazione, spesso improvvisate e finalizzate all’ottenimento di guadagni speculativi. Praticamente quasi tutti i paesi Ue sono stati così costretti a ricorrere al soccorso dei colossi cinesi e indiani capaci di produzioni di massa a basso costo ma di opaca verificabilità.

Ma l’Europa ha mostrato la sua debolezza e impreparazione soprattutto quando è iniziata la corsa alla realizzazione dei vaccini. Non c’è stata nessuna azienda italiana, francese o tedesca in grado di approntare e produrre alcunché di originale. Nello stesso tempo la burocrazia di Bruxelles non è riuscita a concludere accordi che potessero assicurare un approvvigionamento certo e costante. Si è cercato di tirare sul prezzo, finendo per pagare un costo altissimo sia a causa dei ritardi nella messa in sicurezza della popolazione, sia per aver scoperto in ritardo che, chi aveva accettato i prezzi di mercato, era stato nei fatti favorito nelle consegne, potendo così tornare prima alla normalità.

In balía delle convenienze nazionali di Stati Uniti, Inghilterra, Russia, Cina, l’Europa si è ritrovata gigante finanziario ma nano industriale e politico.

È necessario che l’Europa comprenda in pieno questa lezione, riportando al proprio interno produzioni strategiche la cui qualità è, oltretutto, in grado di garantire meglio di chiunque altro. È altrettanto necessario, però, che il sistema europeo sia rimesso in sicurezza con il concorso di tutti e senza concorrenza tra i paesi membri dell’Unione. Nessuno sarebbe in grado di farlo da solo.

In Italia tutto ciò si è amplificato al punto da porci in cima alle classifiche di morbilità e mortalità, nonostante le ottimistiche e autocelebranti affermazioni dei primi tempi. Il motivo è stato la scellerata organizzazione di un sistema sanitario soffocato dalla burocratizzazione e schizofrenico nel suo decentramento.

Il sistema regionale è fallito, e non solo in quelle regioni che neanche prima del Covid riuscivano a garantire un livello di assistenza decente, ma anche dove le politiche sanitarie si erano indirizzate nel favorire le grandi eccellenze per le grandi patologie degenerative, trascurando la medicina del territorio. Tutto ciò ha favorito uno sviluppo a macchia di leopardo delle infezioni e persino sulle vaccinazioni sono mancate una visione unitaria ed una strategia per consentire al paese una politica coerente. Le esigenze politiche locali hanno infine determinato decisioni di spesa più legate a motivi di propaganda che all’efficacia delle misure adottate.

Il governo Draghi sta tentando di porre un freno a tutto questo, ma per riuscirci ha dovuto fare ricorso all’aiuto delle Forze Armate, certificando, in tal modo, il fallimento dell’amministrazione civile. In condizioni di crisi improvvise e catastrofiche in Italia si è sempre fatto ricorso alle capacità logistiche e all’abnegazione dell’esercito, ma in questo caso i militari sono dovuti intervenire persino per garantire una efficace e omogenea campagna vaccinale, un compito non legato a qualcosa di improvviso e catastrofico, ma precipuo di un sistema sanitario appena decente.

La politica si fermi a ragionare sulle dure lezioni inferte dal Covid. È indispensabile prendere coscienza del fatto che il nostro sistema sanitario va riformato in fretta e tolto dal controllo delle regioni che hanno mostrato tutti i limiti della loro azione di governo, trasformandola spesso in una enclave clientelare e di faraonici sprechi. La sanità va riportata alla propria funzione, ovvero garantire per tutti i cittadini e omogeneamente su tutto il territorio nazionale quel diritto alla salute sancito in Costituzione. Il Covid ha solo smascherato la finzione della sanità migliore del mondo, il mantra che per anni ci siamo sentiti ripetere mentre si tagliava in assistenza e si distruggeva la sanità territoriale, ma si sprecavano enormi risorse a scapito dell’assistenza; non ha provocato la sua crisi, l’ha solo messa inequivocabilmente sotto gli occhi di tutti.

Melania Rizzoli per "Libero quotidiano" il 18 gennaio 2022.

Le emozioni che si provano a lavorare in un reparto di terapia intensiva sono davvero molto "intense" e mettono a dura prova il livello di stress fisico e psicologico di tutti gli operatori che prestano la loro assistenza in quelle fredde camerate di degenza dove si opera con l'adrenalina sempre a mille. Tra urgenze improvvise, pazienti che arrivano intubati dalle sale operatorie, situazioni che si aggravano da un momento all'altro, decessi inevitabili e nuovi posti letto da reperire in pochi minuti, i reparti intensivi sono il luogo di lavoro più stressante negli ospedali, poiché anche quando la situazione sembra che si calmi, la soglia di attenzione dei sanitari rimane sempre alta, per la consolidata consapevolezza che le emergenze sono sempre dietro l'angolo, pronte ad insorgere improvvise e inaspettate.

I pazienti ricoverati in terapia intensiva sono definiti "critici" in quanto, almeno nelle prime fasi, sono considerati in pericolo di vita, poiché il loro organismo non è in grado di mantenere da solo le funzioni vitali quali la respirazione, la circolazione, lo stato neurologico e la temperatura corporea, tutti parametri che risultano alterati per l'insufficienza di uno o più organi, dovuta a varie e molteplici cause. Per questo motivo ogni degente necessita di una osservazione ed un monitoraggio continuo giorno e notte, con sostegno meccanico delle funzioni vitali, e interventi rapidi appena i monitor evidenziano allarmi di instabilità che possano far precipitare il paziente verso una criticità irreversibile.

A fianco dei medici intensivisti, chiamati ad attuare una valutazione multidisciplinare di ogni variabile, operano una grande varietà di professionisti (chirurghi, anestesisti, rianimatori, neurologi, cardiologi, radiologi, tecnici, fisioterapisti e infermieri), una integrazione indispensabile per coordinare la molteplicità delle patologie associate, e per trovare e decidere insieme, e in tempi velocissimi, le soluzioni terapeutiche di emergenza, quando esse si presentano. La terapia intensiva mette sempre a dura prova le risorse fisiche e psicologiche di un individuo, sia esso un operatore o un paziente ricoverato, poiché l'imprevedibilità degli eventi e l'incertezza dell'esito terapeutico sono alla base di emozioni talmente forti, da risultare spesso difficili da gestire laddove non si è formati a farlo, e che non sempre si riescono a salvaguardare o proteggere.

CURE RIFIUTATE In queste settimane, nelle terapie intensive di tutta Italia, sono stati segnalati molti casi di pazienti Covid non vaccinati, che si sono rifiutati di collaborare con i sanitari, denunciando la ferma volontà di non coinvolgimento nelle scelte terapeutiche, soprattutto vaccinali, addirittura di rifiuto della diagnosi di malattia, della sua gravità clinica, fino ad arrivare alla colpevolizzazione dei medici, che comunque non hanno mai smesso di mediare le diverse istanze, cercando di superare le motivazioni del rifiuto per una possibile soluzione.

Il diniego dei trattamenti di supporto terapeutico vitale da parte dei cosiddetti "negazionisti" del virus, rappresenta un ulteriore aspetto gravoso e doloroso per i medici e gli infermieri dei reparti intensivi impegnati ogni giorno in uno strenuo lavoro per curare ed offrire chance di guarigione, ma per quanto le situazioni possano essere state difficili e faticose, nessun paziente è stato mai "abbandonato" al suo destino, in quanto gli è sempre stato garantito un adeguato livello di cure, quelle non sacrificabili, peraltro con atteggiamenti rispettosi e non giudicanti.

D'altronde davanti alla scelta del paziente cosciente di rifiutare terapie anche salvavita, il medico non può opporsi in alcun modo, pur continuando a spiegare e motivare al degente ribelle l'utilità di quelle scelte terapeutiche di supporto vitale, e la volontà autolesionista del malato di non sottoporsi alle indicazioni farmaceutiche, benché agonizzante, sono un ulteriore motivo di stress per i sanitari, con emozioni violente che li coinvolgono sul piano etico e deontologico.

Ciascun paziente ricoverato in terapia intensiva costa dai 2.800 ai 3.300 euro al giorno tra costo del personale (1.108 euro), farmaci e materiali sanitari (750 euro), attività sanitarie di supporto (880 euro) oltre ad altri costi vari, per cui ipotizzando una degenza di 9-10 giorni ogni persona viene a pesare sul sistema sanitario nazionale dai 22mila ai 28mila euro, senza calcolare che la durata del ricovero cambia in base al quadro clinico, alla gravità della patologia, all'età del paziente e da una serie di altri fattori.

PROVOCAZIONE Considerando che l'incidenza dei ricoveri in ospedale è 10 volte più bassa nei vaccinati rispetto ai non vaccinati, la scelta di chi ancora rifiuta le vaccinazioni avrà ripercussioni economiche ancora più pesanti sul nostro Ssn, come ha sottolineato in una provocatoria dichiarazione l'Assessore alla Sanità della Regione Lazio Alessio D'Amato, il quale aveva avanzato l'ipotesi di far pagare il costo della degenza in terapia intensiva ai No vax ricoverati per Covid.

Evidentemente una provocazione, anche se ci sarebbero altri modelli a cui far eventualmente riferimento, come per esempio quello della Regione Lombardia, dove un tempo veniva spedito a casa del paziente, prima ricoverato e poi dimesso, una sorta di "memorandum" su quanto la sua degenza fosse costata alla Regione. Peccato che in questa lista di prestazioni effettuate e andate a buon fine non si possa includere il costo emotivo, quello di stress, di fatica e di conflittualità morale di tutto il personale sanitario che ha contribuito a guarire quel malato reticente, ostinato, ignorante e indubbiamente fortunato ad essere uscito vivo dalla terapia intensiva. Nonostante i medici e le cure subite.

L’EMERGENZA OLTRE LA PANDEMIA. Gli ospedali a corto di personale non vogliono infermieri stranieri. RACHELE GONNELLI su Il Domani il 18 gennaio 2022.

I reparti Covid e non Covid si spopolano di camici bianchi, alcuni si dimettono per stress e sindrome di burnout e nei prossimi anni a causa dei prepensionamenti mancheranno 100 mila infermieri in corsia.

Intanto però per chi si è diplomato altrove ci vogliono due anni per farsi riconoscere il titolo di studio e poi neanche si può accedere ai concorsi pubblici.

La storia di Carlos, infermiere peruviano che lavora nel Campus biomedico di Roma e difende gli operatori sanitari che affrontano la trafila burocratica per ottenere il permesso di esercitare la professione in Italia.

Tutti gli errori nella gestione della pandemia. Un’analisi scientifica delle ragioni del fallimento nel contrasto al Covid oltre le contrapposte tifoserie della narrazione governativa e delle tesi No vax. Vittorio Agnoletto il 24 Settembre 2021 su micromega.net. Secondo i dati aggiornati al 24 settembre 2021 l’Italia, con oltre 130.000 morti, è al nono posto come numero totale di decessi per Covid ufficialmente registrati (fonte OMS). La Lombardia, con 33.981 decessi (fonte Ministero della Salute – Istituto Superiore di Sanità 18/9/2021) su una popolazione di 10milioni, se fosse una nazione indipendente, come era negli obiettivi di Umberto Bossi qualche decennio fa, sarebbe al secondo posto come numero di decessi per Covid ogni 100.000 abitanti, superata solo dal Perù, il cui Servizio Sanitario non può certo essere confrontato con quello lombardo.

So bene che il sistema di registrazione cambia da Paese a Paese e che in nazioni come l’India, solo per fare un esempio, le cifre probabilmente sono ampiamente sottostimate; sono altrettanto consapevole che non è scientificamente corretto confrontare i dati di una regione con i dati di intere nazioni, ma credo che un confronto simile, fuori dall’ambito accademico, ci sia utile per comprendere la gravità dell’impatto che la pandemia ha avuto e tuttora ha, in Italia, ma soprattutto in Lombardia. Le giunte di destra che dall’epoca di Formigoni, dal 1995, governano ininterrottamente la regione, hanno sempre celebrato la sanità lombarda come la migliore in Italia e tra le eccellenze europee, ma il fallimento nel contrasto al Coronavirus è sotto gli occhi di tutti.

Le ragioni di questo disastro sono uno dei temi principali del mio libro “Senza Respiro. Un’inchiesta indipendente sulla pandemia Coronavirus, in Lombardia, Italia, Europa” (Altreconomia, 2020); in questa sede, per questioni di spazio, non posso soffermarmi sulle ragioni di questa Caporetto ma solo citarne alcune: la distruzione della medicina territoriale, la riduzione ai minimi termini dei servizi di prevenzione, l’ignoranza sul ruolo dell’epidemiologia, l’enorme peso della sanità privata nel Servizio Sanitario Regionale, una gestione del Servizio Sanitario pubblico condotta secondo le logiche, gli obiettivi e gli interessi di un Sevizio Sanitario privato ed infine una medicina centrata in gran parte sulle cure d’eccellenza, innovative ed estremamente costose, che non solo ha ignorato ogni forma di medicina di comunità e di continuità assistenziale, ma ha anche prosciugato le risorse da destinare all’assistenza sanitaria quotidiana dell’insieme della popolazione.

La vicenda lombarda rappresenta il trionfo del neoliberismo applicato alla sanità, nonostante ciò, fino all’inizio della pandemia la grande maggioranza delle forze politiche nazionali, non solo di centrodestra, prendeva tale modello come esempio da esportare in altre regioni e a livello nazionale. Per questo motivo sarebbe stato fondamentale ragionare sulle ragioni del fallimento lombardo, così come sugli errori commessi a livello nazionale, per correggere velocemente la rotta, ma purtroppo non sembra questa la direzione intrapresa.

La scienza e i diritti contro le tifoserie

Il dibattito attorno alla pandemia in Italia è stato trasformato in un rodeo con due tifoserie contrapposte incitate all’odio reciproco: da un lato la narrazione ufficiale gestita dal governo e supportata acriticamente dai suoi apparati tecnico-scientifici, dall’altro il racconto che rimbalza dai numerosi siti no-vax. Non credo di essere l’unico a trovarsi fortemente a disagio di fronte a questa semplificazione nella quale ci viene intimato da ambedue le parti: o sei con noi o sei contro di noi.

Sono convinto che esista uno spazio per una posizione che si attenga alle evidenze scientifiche, che sia in grado di valorizzare gli insegnamenti pluridecennali che provengono dai corsi di specializzazione in sanità pubblica, che mantenga fede all’idea della salute come diritto fondamentale di ogni essere umano e al progetto di un Servizio Sanitario Nazionale (SSN) universale.

Nell’intento di contribuire a costruire questo spazio, mi limito ad elencare schematicamente, anche per ragioni di lunghezza, alcuni dei principali limiti ed errori che caratterizzano la gestione dell’attuale fase pandemica.

I principali errori

1. La vaccinazione è uno strumento fondamentale e per questo motivo, in una condizione pandemica, per raggiungere la massima efficacia è necessario renderla disponibile nel minor tempo possibile in tutto il mondo; l’Oms ha segnalato l’insostenibilità di un sistema nel quale 10 nazioni hanno acquistato il 75% delle dosi di vaccino disponibile a livello mondiale, con il risultato che nei Paesi a basso e medio-basso reddito la percentuale delle persone vaccinate varia dal 1,9 al 4%; ne consegue che non solo in quelle nazioni aumenterà incessantemente il numero dei morti, ma anche che il virus continuerà a diffondersi, si moltiplicherà, emergeranno delle varianti maggiormente aggressive destinate ad arrivare anche nei nostri Paesi e noi non sappiamo quanto i vaccini, dei quali disporremo in quel momento, saranno in grado di contrastarle.

Da queste ragioni, se non in nome della solidarietà, almeno in nome di un “sano egoismo”, come ha dichiarato il prof. Silvio Garattini, nasce l’urgenza di appoggiare la proposta di moratoria temporanea sui brevetti per i vaccini, i kit diagnostici e la condivisione del know-how, avanzata da India e Sudafrica all’Organizzazione Mondiale del Commercio e appoggiata da oltre cento Paesi; per questo oltre centoventi associazioni, tra le quali tutte le organizzazioni sindacali italiane, stanno sostenendo la raccolta di un milione di firme a livello europeo attraverso lo strumento dell’ICE (Iniziativa dei Cittadini Europei) che, una volta raccolte le firme necessarie, obbligherà la Commissione Europea a sottoporre le nostre proposte alla discussione e al voto delle istituzioni europee: Parlamento, Consiglio e Commissione.

Infatti, l’UE è rimasta, con Svizzera e UK, l’unica a rifiutare ogni proposta di moratoria e a difendere gli interessi di Big Pharma; il nostro governo, al di là delle dichiarazioni fatte a uso di un mainstream mediatico compiacente, sostiene attivamente e irresponsabilmente questa posizione, anteponendo i profitti delle multinazionali del farmaco alla salute dei propri cittadini. Il rischio è evidente: potremo anche essere tutti vaccinati ma, se arriverà una nuova variante contro la quale i vaccini non saranno efficaci o saranno solo parzialmente efficaci, tutto rincomincerà da capo, lockdown e decessi.

2. La comunicazione istituzionale o para-istituzionale, continua a essere un disastro con risultati spesso controproducenti; un solo esempio: aver affermato per mesi che il vaccino avrebbe bloccato la trasmissione dell’infezione, senza invece spiegare che le percentuali di efficacia citate si riferivano alla capacità di bloccare il passaggio dall’infezione alla malattia grave, ha fatto sì che quando si sono verificate le prime infezioni di persone vaccinate, i no-vax abbiano avuto buon gioco nel sostenere che i vaccini non funzionavano. Eppure già il 20 novembre 2020 si sapeva che i trial di ricerca avevano testato l’efficacia nel bloccare l’evoluzione della malattia e non la trasmissione del virus ( mia diretta facebook del 23/11/2020). Una spiegazione corretta avrebbe reso più semplice alla popolazione comprendere perché anche alle persone vaccinate debba essere raccomandato di rispettare le norme sui distanziamenti e sull’uso della mascherina.

Stesso ragionamento si può fare sulla mancanza di informazioni corrette e complete sui possibili effetti collaterali dei vaccini; la decisione di ignorarli, o comunque sottovalutarli, nella comunicazione ufficiale si è scontrata con l’esperienza quotidiana di migliaia di persone, generando paura e sfiducia verso le istituzioni. Come testimoniano alcune ricerche, metà, se non di più, di coloro che a oggi non si sono sottoposti alla vaccinazione non sono ideologicamente no-vax, ma hanno paura e vorrebbero spiegazioni più precise e meno confuse; esattamente il contrario di quello che sta accadendo. Sarebbe inoltre corretto che i medici che compaiono spesso in televisione, così come le fondazioni e i centri di ricerca che con grande frequenza esprimono pareri e forniscono elaborazioni di dati, dichiarino preventivamente se ricevono fondi dalle aziende che producono vaccini: trasparenza e correttezza di rapporto con il pubblico dovrebbero essere elementi insostituibili.

Per fermare una pandemia è necessario modificare dei comportamenti legati alla quotidianità, per fare questo è fondamentale un rapporto di fiducia da parte della popolazione verso le istituzioni sanitarie; chi tratta i propri cittadini come dei bambini ai quali è meglio non dire tutta la verità non può sperare di godere di fiducia da parte di costoro.

3. Con la circolare retroattiva del 6 aprile l’INPS ha annunciato che le quarantene di coloro che sono venuti in contatto con un positivo non potranno più essere pagate perché il governo ha stanziato i fondi solo fino al 31 dicembre 2020: un autogoal incredibile per una strategia nazionale di prevenzione. Ne consegue non solo una discriminazione di classe, infatti chi svolge un lavoro manuale non avrà la possibilità di fare smart working e rischia di restare a casa senza stipendio, ma anche un danno alla salute collettiva: infatti spingerà molte persone a nascondere eventuali contatti e ad andare ugualmente a lavorare per non perdere giorni di paga. Tale situazione per ora resta ancora sospesa in attesa, si spera, di un urgente intervento riparatore da parte del governo.

4. La vaccinazione è importante ma non sufficiente. Oltre alle misure di precauzione resta fondamentale il tracciamento (contact tracing) per seguire la catena di trasmissione del virus e per isolare le persone positive evitando ulteriori contatti. È la base di qualunque strategia di sanità pubblica di fronte a una pandemia; ma, dopo una fase dove è stata seguita a macchia di leopardo, oggi in Italia è stata completamente abbandonata; la decisione è ancor più grave quando, come nella situazione attuale, si dispone di vaccini che solo parzialmente evitano la trasmissione del virus. Per questa stessa ragione è anche importante rendere disponibili gratuitamente i tamponi invitando la popolazione a farvi ricorso, ogni qualvolta si ritenga di poter aver avuto un contatto a rischio.

Il tampone e il vaccino non sono sovrapponibili: il vaccino protegge dall’evoluzione della malattia e in parte dall’infezione, ma non dice nulla sulla situazione clinica hic et nunc; il tampone indica se una persona in quel momento è positiva e può quindi trasmettere il virus. I due strumenti dovrebbero essere integrati fra loro in una logica di complementarità. Rinunciare alla gratuità del tampone perché questo offrirebbe una ragione in più ai no-vax per non vaccinarsi, è una visione miope e foriera di ulteriori disastri.

5. L’annuncio dell’imminente avvio di una terza vaccinazione per i fragili, per gli anziani e a seguire per il personale sanitario ed infine per tutta la popolazione (che in alcune regioni è stata già avviata) non tiene in minima considerazione i reiterati appelli dell’OMS e le dichiarazioni dell’EMA e della FDA. L’OMS ha chiesto a tutti i governi di valutare che per l’interesse collettivo dell’umanità la priorità non è la terza vaccinazione nei Paesi ricchi, ma rendere disponibili i vaccini nel terzo mondo. Il nostro esecutivo ha totalmente ignorato questo autorevole richiamo; ma ha ignorato anche la dichiarazione dell’EMA e della FDA del 17 settembre sulla necessità di eseguire ulteriori approfondimenti prima di prevedere un uso generalizzato della terza vaccinazione, limitandola per ora alle persone fragili e agli anziani. Nella medesima direzione va un lavoro scientifico pubblicato il 13 settembre su The Lancet da importanti ricercatori, tra i quali Philip R Krause, Vicedirettore FDA (Ufficio per la ricerca e la revisione dei vaccini).

Le motivazioni citate a sostegno di tale cautela sono varie, tra queste:

– insufficienza dei dati sulla terza dose forniti dalle aziende produttrici;

– necessità di approfondire ulteriormente la durata e la potenza della risposta immunitaria compresa quella cellulo-mediata, sia verso la capacità protettiva verso l’infezione, sia verso l’evoluzione della malattia, le due risposte infatti non sembrerebbero sempre viaggiare in sintonia tra loro;

– importanza nel monitorare precocemente e con continuità il manifestarsi di nuove varianti verso le quali accelerare la ricerca di nuove versioni di vaccini in grado di contrastarle;

– evitare di utilizzare per la terza vaccinazione il prodotto precedente che potrebbe presto risultare superato con una perdita significativa di efficacia e che renderebbe impossibile poter procedere in tempi brevi con un’ennesima quarta vaccinazione. La raccomandazione, che arriva dal mondo scientifico internazionale, sottolinea l’importanza di procedere attraverso un approccio che tenga conto dello stato attuale delle conoscenze, ancora limitate e che si rivolga a fasce specifiche di popolazione senza coinvolgere, per ora, l’intera cittadinanza.

Attenzioni ancor più necessarie alla luce di quanto sta già avvenendo in Israele dove è all’ordine del giorno il dibattito sulla quarta dose.

Tutti questi ragionamenti, che dovrebbero suggerire cautela, non sembrano scalfire minimamente le certezze dei nostri ministri, né stimolare qualche presa di posizione di quel che resta del CTS che pare sempre più appiattito su compatibilità dettate dal quadro politico.

La pressione di Big Pharma in questa direzione è molto forte, eppure, non dovrebbe sfuggire né al mondo politico, né al mondo scientifico una semplice banalità: le grandi multinazionali farmaceutiche produttrici di questi vaccini e che operano in un sistema oligopolistico, non hanno come interesse prevalente l’eradicazione della pandemia, bensì il passaggio da una condizione di pandemia a una situazione endemica che permetta loro di moltiplicare per 4-6 volte e forse di più il prezzo dei vaccini e di procedere con una vaccinazione periodica (ogni 9-15 mesi) nel mondo ricco che garantisca loro immensi profitti. Lasciando ovviamente il sud del mondo al proprio destino di morte.

La mancanza di una visione strategica sul Servizio Sanitario Nazionale

La gestione dell’attuale fase della pandemia s’intreccia con il dibattito sulla riorganizzazione del Servizio Sanitario Nazionale e sull’uso delle risorse provenienti dell’Europa. Su questo grande capitolo, che riguarda il nostro futuro, sarebbe necessario un approfondimento specifico; in questa sede mi limito ad evidenziare alcuni dei principali limiti che si stanno evidenziando a livello nazionale e in Lombardia.

A livello nazionale. Nonostante il Recovery Plan nasca dall’emergenza pandemica, i fondi che complessivamente arriveranno all’Italia destinati alla sanità rappresentano una piccola quota della cifra totale che riceverà il nostro Paese. Altri sono gli interessi che hanno avuto il sopravvento e alcuni di loro, ad esempio le grandi opere, sono in forte continuità con quel modello di sviluppo (deforestazione massiccia, allevamenti intensivi, abbattimento delle barriere tra le specie e quindi zoonosi ecc. ecc.) che da qualche decennio regala (e continuerà a regalare) all’umanità le pandemie. Ciò nonostante, mai, nel recente passato, si è avuta una tale disponibilità di soldi per interventi in campo sanitario; l’occasione è unica per individuare le nuove priorità del SSN e una conseguente riorganizzazione, se solo si avesse una visione strategica sulla sanità che nel governo italiano, oggi, non esiste.

Quelli che seguono sono alcuni dei punti essenziali, senza una pretesa di completezza, di una necessaria rivisitazione del nostro SSN:

– passaggio da una medicina concentrata solo sull’individuo a una medicina di comunità fondata sulla programmazione sanitaria;

– individuazione dei bisogni prioritari di ogni territorio attraverso ricerche epidemiologiche finalizzate alla costruzione di programmi con precise priorità i cui risultati siano verificabili di anno in anno;

– coinvolgimento dei comuni e dei sindaci all’elaborazione dei piani di salute territoriale; potenziamento della prevenzione, della sanità territoriale e delle cure primarie;

– centralità dei distretti socio-sanitari e delle strutture intermedie fra le quali le case di comunità;

– riduzione della presenza del privato e soprattutto modifica del rapporto pubblico-privato il quale deve inserirsi nella programmazione territoriale con indicazione e verifica dei risultati attesi;

– potenziamento e adeguamento dei dipartimenti d’emergenza e quindi delle strutture ospedaliere nei territori ove sono carenti ecc.

Gli interventi individuati dal ministero non contengono alcun disegno complessivo inserito in una visione strategica della sanità per il futuro prossimo, ma si limitano a tappare i buchi più vistosi nell’attuale organizzazione sanitaria e a prevedere un generico e generalizzato ammodernamento nella rincorsa delle tecnologie più avanzate, come se questo sia stato il limite prioritario nelle difficoltà riscontrate nel contrasto alla pandemia.

In Lombardia. Dentro questo contesto, ampia è la libertà lasciata alle singole regioni di gestire i fondi a loro destinati, purché rispettino i generici settori d’attribuzione delle singole spese. In regione Lombardia l’uso dei fondi che stanno arrivando dall’Europa si intreccerà con gli interventi previsti dalla nuova legge sull’organizzazione della sanità regionale che dalla fine di quest’anno dovrà sostituire la L. 23 che ha concluso la sua fase quinquennale di sperimentazione evidenziando, durante questi ultimi venti mesi, tutta la sua inadeguatezza e pericolosità.

Il testo di legge presentato dall’assessora Moratti crea le condizioni per ampliare ulteriormente il peso della sanità privata arrivando a prevedere che gran parte dei servizi territoriali, comprese case di comunità e servizi operanti nel campo della prevenzione, possano essere gestiti da privati. Ma prevenzione e privato in sanità sono un ossimoro, chi investe nella sanità privata trae profitti sulle malattie e sui malati non certo sulle persone che restano sane; per un privato la prevenzione o non è di alcun interesse o addirittura rappresenta un ostacolo ai propri potenziali guadagni.

Mi limito solo ad un altro esempio che ben illustra la filosofia di questa controriforma: secondo la giunta lombarda la riduzione delle liste d’attese per le visite e gli esami dovrebbe essere ottenuta non aumentando gli ambulatori pubblici, assumendo nuovi medici, limitando l’attività intramoenia fino al rientro nei tempi d’attesa ufficialmente stabiliti, ma distribuendo soldi ai privati e aumentando la quota delle attività svolte da loro in regime di convenzione/accreditamento.

Nel frattempo, in Lombardia, anche nell’europea Milano, varie migliaia di cittadini sono privi del Medico di Medicina Generale (MMG), obbligati o a non curarsi o a pagare di tasca propria; certamente il numero ridotto di MMG rimanda a responsabilità nazionali, ma in Lombardia tutto si è fatto e si sta facendo per rendere impossibile la vita ai medici di famiglia spingendoli a cercarsi un’altra collocazione professionale. D’altra parte, il presidente Attilio Fontana è un grande sostenitore del numero due della Lega, il ministro Giancarlo Giorgetti, che esattamente due anni fa dichiarava “Nessuno va più dal medico di famiglia. Medicina di famiglia un mondo finito”. Le conseguenze le abbiamo sperimentate tutte e per evitare di doverle affrontare nuovamente un coordinamento di decine di associazioni si sta battendo per bloccare la nuova legge. “Errare humanum est, perseverare autem diabolicum”.

Vittorio Agnoletto, medico, insegna “Globalizzazione e Politiche della Salute”, all’Università degli Studi di Milano, resp. scientifico dell’“Osservatorio Coronavirus”, membro del direttivo nazionale di Medicina Democratica. 

Il sistema pubblico-privato alla prova del Covid-19. Alberto Ricci e Rosanna Tarricone su Lavoce.info il 06/03/2020.

Il privato accreditato è parte integrante del sistema sanitario italiano. E ha assunto una rilevanza maggiore con la scelta di contenere la spesa del Ssn. Ora l’epidemia del coronavirus mette alla prova la solidità della collaborazione pubblico-privato

I numeri della riduzione della spesa sanitaria

Del sistema sanitario italiano fanno parte erogatori sia pubblici sia privati. A sua volta, il privato si distingue in accreditato con il Servizio sanitario nazionale (Ssn) e non accreditato. Il primo è parte integrante dell’offerta delle cure garantite dal nostro paese e il suo obiettivo è di essere complementare all’offerta dei servizi sanitari del pubblico in una logica di partnership istituzionale e di condivisione dei valori fondanti il Ssn: universalità, uguaglianza, equità.

Negli ultimi anni le prestazioni sanitarie offerte dal privato accreditato hanno assunto una rilevanza maggiore. Il contenimento della crescita della spesa del Ssn è un presupposto ormai condiviso: tra il 2012 e il 2018, l’aumento è stato del 4 per cento in termini nominali, annullato quindi dalla pur bassa inflazione. Il risultato è un’incidenza della spesa sanitaria pubblica sul Pil del 6,5 per cento in Italia, mentre in Regno Unito e Francia è tra il 7,5 e l’8 per cento.

Il contenimento della spesa ha portato inevitabilmente a una contrazione dell’offerta del Ssn. Nel segmento ospedaliero, tra il 2010 e il 2018, i ricoveri sono diminuiti del 23 per cento, con una discesa ancora più netta, del 42 per cento, dei ricoveri diurni per acuti. La riduzione è stata più netta nelle strutture pubbliche (-17 e -26 per cento) rispetto a quelle private accreditate (-8 e -18 per cento).

Sia gli ospedali pubblici sia quelli privati accreditati sono stati interessati da stringenti misure di austerity: i primi hanno sofferto il blocco del turnover del personale, i secondi il sostanziale congelamento, quando non la riduzione, dei budget loro assegnati per l’erogazione delle prestazioni. Il calo di circa 41 mila unità di personale (-6 per cento) delle strutture pubbliche avrebbe minacciato seriamente la garanzia di tutela della salute della collettività garantita dalla nostra Costituzione se, in aggiunta alla capacità straordinaria delle strutture pubbliche di aumentare la produttività di fronte ai continui tagli, non ci fosse stato il sostegno delle strutture private.

La dimensione del privato accreditato

Nel 2018, per erogare prestazioni attraverso il privato accreditato, il Ssn ha speso in media 392 euro per abitante, pari al 20,3 per cento della spesa sanitaria complessiva, un aumento di quasi il 2 per cento rispetto al 2017. Il privato accreditato detiene il 31 per cento del totale dei posti letto ospedalieri, con un trend di leggera crescita. Tuttavia, tra le regioni vi sono grandi differenze. 

L’autonomia crescente dei governi regionali nel disegnare i propri assetti istituzionali e organizzativi ha infatti dato luogo a una presenza del privato molto variabile. Si passa da regioni come il Lazio, dove oltre la metà dei posti letto è affidata al privato (51,1 per cento), alla Basilicata dove quelli privati accreditati rappresentano meno del 10 per cento. Sopra la media nazionale vi sono regioni come Campania, Lombardia, Puglia e Sicilia (tutte intorno al 35-40 per cento dell’offerta complessiva), con una dimensione media poco al di sotto dei 120 posti letti. Si tratta però di un settore eterogeneo: in Lombardia e in Lazio si concentrano diverse strutture di grandi dimensioni (con più di 200 posti letti), spesso dotate di pronto soccorso e dipartimenti di emergenza, urgenza e accettazione. Del resto, i due più grandi ospedali di Roma e Milano, Gemelli e San Raffaele, sono privati accreditati dotati di pronto soccorso e integrati con tutte le reti tempo-dipendenti (ictus, infarto, trauma, nascita), che forniscono un contributo significativo nella risposta a bisogni critici e urgenti.

Ci sono specifiche aree di assistenza in cui il contributo del privato accreditato è ancora più rilevante. Si pensi all’area della non-acuzie ospedaliera rispetto alla quale il privato garantisce il 42 per cento dei ricoveri per lungodegenza e il 76 per cento di quelli per riabilitazione. Per quanto riguarda la cronicità, il privato accreditato gestisce il 59 per cento degli ambulatori, l’82 per cento delle strutture residenziali e il 68 per cento di quelle semiresidenziali.

Infine, la ricerca: su 50 Irccs, gli istituti ad alta specializzazione che coniugano attività di ricerca, cura e assistenza, 30 sono privati accreditati. In sintesi: difficile immaginare come il Ssn possa mantenere l’attuale quantità e varietà di prestazioni senza il contributo del privato accreditato, che peraltro crea sul territorio italiano opportunità di lavoro e crescita in un settore ad alto valore aggiunto.

Di fronte all’emergenza si lavora insieme

Quale è il contributo che il privato accreditato ospedaliero può fornire in questi giorni di emergenza-coronavirus? Non tutti i malati hanno necessità di cure ospedaliere, ma rispetto alle epidemie stagionali di influenza, circa 1 persona su 6 con Covid-19 si ammala gravemente e sviluppa difficoltà respiratorie. Secondo i dati della Direzione welfare aggiornati al 5 marzo, in Regione Lombardia si registrano 2.251 casi positivi; l’11 per cento (244) è attualmente in terapia intensiva. Sul piano gestionale, i problemi principali sono due. Da un lato, assicurare la disponibilità di cure intensive, che di norma riguardano persone colpite da infarti, ictus e traumi, oltre a pazienti che hanno subito interventi chirurgici programmati con un particolare impatto sulle funzioni vitali. Dall’altro, è necessario predisporre spazi adatti per i pazienti che necessitano di essere ospedalizzati fuori dai reparti intensivi (ad esempio, in medicina e pneumologia), ma che devono essere debitamente isolati dagli altri degenti.

La maggior parte dei privati accreditati, oltre alla riabilitazione, copre principalmente le discipline chirurgiche programmate; dunque possono apparire come soggetti marginali nel rispondere all’attuale epidemia (figura 1). Esistono però modalità per indirizzare gli sforzi di tutti i soggetti erogatori a tutela della salute collettiva. Dal 24 febbraio la Direzione generale welfare di Regione Lombardia ha chiesto alle 103 strutture lombarde dotate di pronto soccorso, di cui oltre un quarto sono private, di sospendere le attività chirurgiche procrastinabili per accogliere eventuali pazienti con coronavirus. Questo crea certamente disagi ai pazienti in lista operatoria e richiede un notevole sforzo organizzativo anche in molte strutture private. Si tratta però di un passaggio praticamente obbligato, dal momento che il 31 per cento dei quasi 900 posti letto in terapia intensiva della Lombardia (figura 2) è in strutture accreditate. In termini di spazi di degenza per i pazienti meno gravi, possono invece essere adattati anche i posti letto di riabilitazione, soprattutto quelli che già venivano utilizzati per la riabilitazione cardio-polmonare.

I prossimi giorni saranno un banco di prova importante per capire la solidità della partnership pubblico-privato in sanità e la maturità di tutti i soggetti coinvolti. Le prime risposte da parte dell’ospedalità privata in area lombarda sono di collaborazione. Abbiamo un servizio sanitario dalla governance complessa che, in Lombardia ma anche in buona parte d’Italia, regge e dà buoni frutti anche grazie al ruolo complementare del privato. È vero nei giorni di calma, a maggior ragione lo sarà in quelli di tempesta.

Figura 1 – Trend dei posti letto e dei ricoveri acuti nelle strutture private accreditate e pubbliche, 2010-2018, grafico a numeri indice con valori 2010=100 

Fonte: elaborazione degli autori su dati ministero della Salute riferiti al periodo 2010-2018 e Rapporti Sdo 2010-2018

Figura 2 – Lombardia: percentuale di posti letto ospedalieri privati accreditati e pubblici per le principali specialità coinvolte o potenzialmente coinvolgibili nell’emergenza coronavirus. Nelle etichette dell’istogramma è riportato anche il numero di posti letto in assoluto. 

Fonte: elaborazione degli autori su dati ministero della Salute riferiti all’anno 2018.

Alberto Ricci ha conseguito nel 2016 il dottorato in Management presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Attualmente è Associate Professor of Practice in Government, Health and Not for Profit presso SDA Bocconi School of Management. Coordina le attività dell’Osservatorio sulle Aziende e il Sistema sanitario Italiano (OASI) e dell’Osservatorio Sanità Privata Accreditata (OSPA) del CERGAS - SDA Bocconi. È docente a contratto di Economia e Management delle amministrazioni pubbliche presso l’Università Bocconi. Si occupa di traiettorie evolutive del sistema sanitario, assetti istituzionali e organizzativi nelle aziende sanitarie, sistemi di programmazione e controllo, rapporti pubblico-privato e prevenzione della corruzione in sanità. 

Rosanna Tarricone è Associate Dean della SDA Bocconi School of Management – Divisione Government, Health e Non Profit e Professore Associato al Dipartimento di Scienze Sociali e Politiche dell’Università Bocconi. Laureata in economia aziendale in Bocconi, ha proseguito gli studi alla University of London - London School of Hygiene and Tropical Medicine, dove ha conseguito il MSc in Health Services Management e il PhD in Public Health and Policy. Ha oltre 100 pubblicazioni nelle aree di politica sanitaria, management sanitario, valutazioni economiche e Health Technology Assessment (HTA).

La pandemia e gli stereotipi di genere. “La cura è affare da donne”, il cliché abbattuto dal covid. Lea Melandri su Il Riformista il 6 Gennaio 2022. 

In uno dei suoi saggi più noti, Il disagio della civiltà, Freud indica come “ i due fondamenti” della vita in comune la “coercizione al lavoro” e la “potenza dell’amore”, riconoscendo in questo binomio anche la differenziazione tra il ruolo del maschio e della femmina, e il rapporto di potere tra i sessi. In realtà, una separazione netta tra amore e lavoro non c’è mai stata. Oggi, saltati i confini tra privato e pubblico, a richiedere “competenze” femminili, capacità relazionale, flessibilità, affetto, è il sistema produttivo stesso, la nuova economia incentrata sul lavoro cognitivo, immateriale.

Per un altro verso, la progressiva monetizzazione della cura – dentro e fuori l’ambito domestico – non sembra aver risolto l’intreccio di lavoro e affetti, e neppure la svalutazione che porta ad assegnare la cura alla parte svantaggiata della popolazione. Conveniente sembra tuttora per il capitalismo avere una riserva indefinita e gratuita di servizi confinati nella sfera privata, contro l’evidenza che li vorrebbe al centro della responsabilità politica. A profilare un possibile cambiamento è stata, in tempi recenti, la pandemia nel momento in cui ha portato in primo piano il “prendersi cura” come una necessità degli esseri umani, sia come risposta ai bisogni essenziali quando non si è in condizione di autosufficienza, sia come attenzione, affetto, riconoscimento da parte dei propri simili, di cui ogni individuo ha bisogno per vivere.

Di fronte a quello che oggi si pone come un “modo diverso di pensare”, non è più solo la divisione sessuale del lavoro ad essere messa in discussione, ma il lavoro stesso, la categoria dell’economico e tutti quei sistemi di sapere “virili” che, oltre ad escludere e marginalizzare le donne, hanno deformato le loro esperienze facendole rientrare negli schemi concettuali in vigore. Nel libro di Pascale Molinier, Care: prendersi cura (Moretti & Vitali 2019) l’uscita dai dualismi che la cultura patriarcale ha “naturalizzato”, si spinge fino a definire un’ “altra antropologia”, capace di mettere in evidenza le nostre vulnerabilità e le nostre interdipendenze «non come punti di debolezza o forme di devianza, ma come costitutive dell’essere umano, questo essere turbato, angosciato, imperfetto, la cui coesione o equilibrio mentale restano precari nel corso di tutta la vita». Per demolire la “casa del padrone” sono necessari una nuova prospettiva e un nuovo lessico. Tali sono pur nelle loro ambiguità, il “prendersi cura” e l’ “etica dell’amore”, e cioè il coraggio di nominare gli aspetti che restano ancora impresentabili dell’essere umano al lavoro.

«Devo dire – scrive Molinier – che all’inizio ero un po’ reticente all’idea di un’ “etica dell’amore”, trovavo fosse un po’ troppo. Sono un’intellettuale francese, diffido a priori di tutto ciò che può suonare essenzialista, dunque per forza anche dell’associazione tra le donne e l’amore. Ma, attraverso le mie differenti esperienze sul campo, ho cambiato opinione (…) Mi sono rilassata, ho abbassato la guardia, e ho cominciato a parlare d’amore anch’io e ad ascoltare, abbastanza rapidamente in maniera divertita, le obiezioni che mi venivano rivolte da alcuni tra i miei colleghi o amici. In sostanza mi si chiedeva di trovare un’altra parola! Così durante la stesura di questo libro ho sperimentato che è male parlare d’amore quando si è una intellettuale femminista di sinistra: troppo cattolico, troppo femminile, non abbastanza ambivalente, troppo semplice».

La conclusione a cui arriva – “Dobbiamo imparare, femministe o meno, a non sputare politicamente sull’amore”- è il risultato di una accurata ricerca fatta nel luogo dove la presenza delle donne è massiccia, per non dire esclusiva, una casa di riposo. Pur riconoscendo che il “care” appartiene alle donne solo perché gli uomini se ne sono sbarazzati, e quindi non per “naturale” estensione del loro essere madri, per ripensare il lavoro in una prospettiva femminista un passaggio necessario era quello che le vede insieme, accomunate e divise da competenze, gerarchie di potere, appartenenze di classe e di razza. «Analizzare i rapporti sociali tra donne, così come le sofferenze che questi rapporti di classe o questi rapporti basati sul colore della pelle, producono, è un obiettivo ai miei occhi prioritario per far compiere dei progressi alle preoccupazioni del care nella nostra società e dunque trasformare radicalmente il lavoro e la società (…) Il linguaggio dell’amore crea malintesi, innanzitutto tra le dipendenti e le loro superiori. Crea disagio nel campo delle scienze del lavoro, all’interno del femminismo e nel pensiero di sinistra, dove è considerato come un cedimento al ruolo tradizionale delle donne e una debolezza politica».

A mostrare con evidenza che il lavoro di cura sfugge al valore di merce, è il fatto che assomma le incombenze più umili, ripetitive e sgradevoli con quel lavoro intangibile che sono gli sguardi, i sorrisi, la tenerezza, le “relazioni spesse”, sul modello familiare, l’imitazione, l’autoironia, i tanti modi con cui le assistenti di cura, in una casa di riposo, pur facendo un lavoro sfruttato e sottopagato, cercano di creare per le persone anziane e per se stesse una vita decente. L’interesse del libro di Pascale Molinier non sta solo nel sottrarre l’etica della cura alla confusione col destino femminile, fatto di abnegazione e sacrificio di sé, nel farne una prospettiva inedita per “rovesciare la casa del padrone”, ma nell’aver mostrato, dietro l’apparente omogeneità della femminilizzazione delle cure, il peso che hanno le differenze di posizione e di prestigio. «I punti di vista delle sottomesse -scrive – non sono superiori ai punti di vista delle dominanti, non sono più “veri” o meno “alienanti”, devono anche loro essere decodificati, decostruiti, non sono posizioni “innocenti”».

Pur avendo ristretto la sua analisi a un ambito specifico, quale è quello dei servizi alla persona, ancora in prevalenza femminile, il riconoscimento di un tratto del lavoro irriducibile alla categoria dell’economico si presta a essere esteso a qualsiasi altra forma di lavoro. La “rivoluzione” che parte dalla cura come responsabilità politica viene a porsi così come uno dei tasselli di quella “democrazia sovversiva” (Francesco Raparelli) fatta di una pluralità di lotte che, pur dotate di straordinaria forza, ancora faticano a trovare i nessi necessari a promuovere alternative durature di società e di mondo. Lea Melandri

·        L'Endemia. L’Epidemia. La Pandemia.

Covid, cos'è l'endemia? Quando si verifica e le differenze con epidemia e pandemia. Inghilterra e Spagna sono pronte a declassare il virus. In Italia, secondo diversi esperti, sarà uno scenario da valutare con attenzione nei prossimi mesi. Ma cosa cambierà? Il Giorno.it il 16 Gennaio 2022.  

"L'idea di Inghilterra e Spagna di declassare il Covid da pandemia a endemia è un'opzione che non potrà non essere valutata. Forse ce lo consentirà questa variante Omicron, che è verosimilmente meno aggressiva della Delta ma in una popolazione vaccinata". E' lo scenario ipotizzato nei giorni scorsi da Pierpaolo Sileri, sottosegretario alla Salute. Che ha aggiunto: "Questo potrebbe significare convivere con un virus meno cattivo, che determinerà un certo numero di ricoveri e di decessi annui, ma più contenuto rispetto a quelli che abbiamo visto fino ad oggi, quindi con un impatto molto più gestibile e prevenibile".

La tesi dell'endemia è sostenuta anche da Matteo Bassetti, direttore della Clinica di Malattie infettive all'ospedale San Martino di Genova: "Credo che siamo molto vicini al picco di questa nuova ondata di Covid in Italia. In primavera avremo il 95% e forse più degli italiani che avranno una sorta di immunità, cioè saranno protetti chi dal vaccino chi dalla malattia superata. Avremo così una forma di influenza, magari rinforzata". Uno scenario, quindi, di "endemizzazione".

Così dopo epidemia e pandemia, le fasi che hanno caratterizzato questi oltre due anni di emergenza sanitaria, ecco spuntare l'endemia. Ma cosa significa? E quali sono le differenze proprio con epidemia e pandemia?

Epidemia

Secondo l'Istituto superiore di Sanità, con il termine epidemia si intende la manifestazione frequente e localizzata – ma limitata nel tempo – di una malattia infettiva, con una trasmissione diffusa del virus. L’epidemia si verifica quando un soggetto ammalato contagia più di una persona e il numero dei casi di malattia aumenta rapidamente in breve tempo. L’infezione si diffonde, dunque, in una popolazione costituita da un numero sufficiente di soggetti suscettibili.

Pandemia

La pandemia, proclamata dall'Organizzazione mondiale della Sanità a marzo 2020, è la diffusione di una malattia in più continenti o comunque in vaste aree del mondo. L’Oms definisce cinque fasi di una pandemia: in ordine la fase interpandemica, la fase di allerta, la fase pandemica, la fase di transizione prima di ritornare alla fase interandemica. La fase pandemica è caratterizzata da una trasmissione alla maggior parte della popolazione.

Endemia

Una malattia si considera endemica quando l'agente responsabile è stabilmente presente e circola nella popolazione, manifestandosi con un numero di casi più o meno elevato ma uniformemente distribuito nel tempo. Sono ad esempio endemiche in Italia malattie come morbillo, rosolia e varicella.

Endemia, epidemia e pandemia: quali sono le differenze. Tre parole sempre più usate. Che però non sono sinonimi. Ecco le loro definizioni. La Repubblica l'11 Gennaio 2022.   

A inizio 2020 per i casi di Covid si parlava di epidemia. Nel giro di qualche settimana la diffusione dei contagi e della malattia ha indotto l'Organizzazione Mondiale della Sanità a proclamare la pandemia.

Oggi, a due anni di distanza, si usa sempre più frequentemente il termine "endemia". Perché il virus sarà parte delle nostre vite. Come lo sono quelli del raffreddore o della polmonite. Grazie ai vaccini che ne abbassano la diffusione.

Dal punto di vista epidemiologico, le malattie infettive hanno caratteristiche diverse di diffusione. Ci sono malattie molto contagiose e altre che lo sono meno. In base alla suscettibilità della popolazione e alla circolazione del germe, una malattia infettiva può manifestarsi in una popolazione in forma epidemica, endemica o sporadica. Ecco quindi le differeze tra epidemia, pandemia ed endemia, così come sono spiegate dalle istituzioni sanitarie italiane e internazionali.

Casi sporadici

Il caso sporadico, si legge sul sito dell'Istituto Superiore di Sanità, è quello che si manifesta in una popolazione in cui una certa malattia non è stabilmente presente. Tuttavia, alcune malattie infettive non contagiose, abitualmente sporadiche (come il tetano), sono causate da microrganismi stabilmente presenti nel territorio. In questi casi, i germi sono confinati nei loro serbatoi naturali e solo eccezionalmente penetrano in un ospite umano dando luogo alla malattia.

I movimenti di popolazione, oggi molto più frequenti e rapidi di un tempo, possono mutare rapidamente la diffusione delle malattie infettive attraverso l'importazione di casi da un territorio endemico a uno in cui i casi normalmente non si verificano. Per lo stesso motivo spesso si verificano delle epidemie internazionali.

Epidemia

L'epidemia, come viene spiegato dall'Iss, si verifica quando un soggetto ammalato contagia più di una persona e il numero dei casi di malattia aumenta rapidamente in breve tempo. L'infezione si diffonde, dunque, in una popolazione costituita da un numero sufficiente di soggetti suscettibili. Spesso si riferisce al termine di epidemia con un aumento del numero dei casi oltre l'atteso in un particolare area e in uno specifico intervallo temporale.

Pandemia

La pandemia è la diffusione di un nuovo virus da uomo a uomo in più continenti o comunque in vaste aree del mondo. La fase pandemica, viene spiegato nel glossario dell'Iss, è caratterizzata da una trasmissione alla maggior parte della popolazione.

L'11 marzo 2020, l'OMS, dopo aver valutato i livelli di gravità e la diffusione globale dell'infezione da SARS-CoV-2, ha dichiarato che l'epidemia di COVID-19 può essere considerata una pandemia. Il 30 gennaio 2020, dopo la seconda riunione del Comitato di sicurezza, il Direttore generale dell'OMS aveva già dichiarato il focolaio internazionale da SARS-CoV-2 un'emergenza di sanità pubblica di rilevanza internazionale (Public Health Emergency of International Concern - PHEIC), come sancito nel Regolamento sanitario internazionale (International Health Regulations, IHR, 2005. Per "emergenza di sanità pubblica di rilevanza internazionale" si intende: "un evento straordinario che può costituire una minaccia sanitaria per altri Stati membri attraverso la diffusione di una malattia e richiedere potenzialmente una risposta coordinata a livello internazionale". Ciò implica un evento grave, improvviso, insolito o inaspettato; comporta ricadute per la salute pubblica oltre il confine nazionale dello Stato colpito; e può richiedere un'azione internazionale immediata.

Endemia

Una malattia si considera endemica quando l'agente responsabile è stabilmente presente e circola nella popolazione, manifestandosi con un numero di casi più o meno elevato ma uniformemente distribuito nel tempo.

"Possiamo definire endemico un virus che si diffonde in una popolazione in modo costante nel tempo, senza presentare particolari picchi di frequenza", spiega l'epidemiologo Pierluigi Lopalco. Una malattia endemica può comunque presentare le cosiddette recrudescenze epidemiche, quando cioè il virus genera ogni tanto dei focolai o degli aumenti epidemici per poi rientrare in una "normale" circolazione tra la popolazione.

Covid, che cosa vuol dire davvero vivere con un virus endemico (e perché l’ottimismo è un ostacolo). Cristina Marrone su Il Corriere della Sera il 20 Gennaio 2022.

La convivenza con un virus non è per forza indolore, come insegna la malaria. Troppo ottimismo e pensare sempre che la pandemia sta per finire, rallenta gli investimenti essenziali per raggiungere una «nuova normalità».  

Secondo alcuni scienziati la fine della pandemia non sarebbe lontana. I dati che arrivano dal Regno Unito sono incoraggianti, i contagi e i ricoveri stanno calando grazie al vaccino ma anche per l’elevata circolazione del virus. Anche in Italia contagi e ricoveri crescono in modo meno esplosivo rispetto ai giorni scorsi e questo fa ben sperare sul futuro.

Ma che cosa succederà dopo? No, il virus non andrà via con uno schiocco di dita, ed è ormai qui con l’intenzione di restare. Come ha spiegato il dottor Anthony Fauci, consulente medico del presidente Usa Biden per il Covid siamo ancora nella prima fase delle «cinque fasi pandemiche», con un impatto ancora molto negativo sul globo intero. Seguirà una decelerazione, presumibilmente nel periodo estivo come abbiamo già visto per ben due volte, e seguirà, salvo varianti, la fase di controllo, quella definita endemica.

Endemicità significa che il virus continuerà a circolare in alcune parti della popolazione mondiale per anni, ma la sua prevalenza e il suo impatto scenderanno a livelli relativamente gestibili, quindi il Covid dovrebbe diventare più simile a un’influenza piuttosto che una malattia in grado di bloccare il mondo. Per classificare una malattia infettiva nella fase endemica il tasso di infezione deve più o meno stabilizzarsi nel corso degli anni piuttosto che palesarsi con picchi difficilmente gestibili come sta avvenendo adesso con il Covid. «Una malattia è endemica se il numero di riproduzione di base R0 (erre con zero) è stabile a uno» spiega l‘epidemiologa della Boston University Eleanor Murray. «Significa che una persona infetta in media contagia un’altra persona, in assenza di misure di contenimento».

È evidente che siamo ancora lontani da questo momento (sia chiaro, Omicron non è endemico) , tuttavia molti scienziati prevedono che Omicron rappresenti un periodo di passaggio per arrivare all’endemia perché contagiando un numero così elevato di persone si creerà un importante strato di immunità naturale. Anche perché Omicron sembra essere meno grave della variante Delta. Gli studi ci dicono che la variante prospera più nelle vie aeree superiori che nei polmoni. Di conseguenza, le degenze ospedaliere sono più brevi e un minor numero di pazienti necessita di terapia intensiva e la convinzione è che con il tempo Sars-CoV-2 diventerà come gli altri coronavirus che causano il raffreddore.

Il senso di una fine imminente della pandemia è dunque rafforzato dall’immagine di una variante «mite» (in buona parte come conseguenza delle vaccinazioni) unita ai molti riferimenti all’«endemicità» e all’«imparare a convivere con il virus» citati da diversi politici negli ultimi giorni. Ma Omicron, con il su alto tasso di contagiosità sta ancora stressando i sistemi sanitari del mondo, ancora in difficoltà, e la nuova variante sembra avere un importante potenziale per ritardare l’endemicità tanto attesa.

Ma che cosa significa in concreto avere a che fare con un virus endemico? Il termine «endemico» si riferisce a una malattia che è costantemente presente in una determinata area, indipendentemente dalla sua gravità. La malaria, ad esempio, è endemica nelle aree tropicali e subtropicali e ha ucciso più di 600.000 persone nel 2020. È vero che le persone ci convivono, ma non in modo indolore. «L’endemicità non implica una malattia lieve e una malattia lieve non implica endemicità» chiarisce al Financial Times Elizabeth Halloran, direttore del Center for Inference and Dynamics of Infectious Diseases di Seattle. «L’endemicità non consiste solo nel ridurre a uno il numero riproduttivo del virus. Questo è il minimo indispensabile per ottenere la classificazione endemica - sottolinea Angela Rasmussen, virologa dell’Università del Saskatchewan in Canada - ma ci sono anche altri fattori che entrano in gioco: qual è il tasso di ricoveri e decessi? Il sistema sanitario è sovraccaricato al punto da rischiare una carenza di personale? Sono disponibili trattamenti per limitare al massimo il numero di persone che si ammaleranno gravemente?».

«Non c’è molto che noi umani possiamo fare intenzionalmente per andare verso l’endemicità. . . molto dipende da come si evolve il virus» aggiunge Halloran. «Non si può prevedere il suo prossimo passo, a parte il fatto che qualsiasi nuova variante dovrà essere più trasmissibile o più capace di sfuggire all’immunità - o entrambi - per avere la meglio su Omicron».

L’incognita più grande in questo viaggio verso l’endemicità è la possibilità, molto concreta, che sorgano nuove varianti. Non esiste una «legge» che imponga che un virus debba diventare più mite nel tempo. «È molto difficile prevedere l’evoluzione della virulenza» dice Eddie Holmes, biologo evoluzionista che ha contribuito a pubblicare la sequenza del genoma di Sars-CoV-2 nel gennaio 2020. «Potrebbe salire, scendere o rimanere la stessa. Certamente è ancora possibile che in futuro emerga una variante più virulenta». Il virus sta circolando moltissimo in tutto il mondo, ed è noto che è proprio l’alta circolazione a favorire l’emergere di nuove varianti. Con il rischio concreto di dover ripartire da capo a ottobre, quando si affaccerà la stagione fredda.

L’idea che Sars-CoV-2 possa restare con noi per sempre può certamente suonare inquietante. Si potrà mai tornare alla nostra vita pre pandemica senza dover sempre indossare le odiose mascherine (non così odiate dagli adolescenti perché nascondono i brufoli), senza dover mostrare il green pass ovunque si vada, senza rinunciare a viaggi, strette di mano, viaggi, concerti rock in piedi sul parterre?

Forse comprendere (e accettare) che la pandemia è un’emergenza a lungo termine potrebbe aiutare i governi (e psicologicamente i cittadini) ad organizzarsi in modo più efficace, introducendo nuove misure di sicurezza nella vita quotidiana, scegliendo i giusti investimenti. Piuttosto che pensare a quando finirà la pandemia andrebbe forse discusso come riuscire a convivere con il Covid, senza sorprendersi ad ogni ondata a pensare: «Ma non era finita?».

Lo scorso autunno, quando la variante Delta sembrava sotto controllo, poco prima dell’invasione esplosiva di Omicron, Jeremy Farrar, direttore di Wellcome, una fondazione sanitaria globale con sede a Londra aveva dichiarato al New York Times: «Dobbiamo cominciare a pensare, a pianificare e a comprendere che siamo di fronte a un’infezione che non andrà mai via». Proprio l’ottimismo potrebbe essere uno dei maggiori ostacoli a realizzare piani «di convivenza»: se ogni volta si pensa che il Covid stia andando via si tenderà ad abbassare la guardia senza procedere con investimenti essenziali.

Quali?

1 Potenziare il più possibile la ricerca per arrivare a un vaccino universale monodose che valga su tutte le varianti (sfida ardita, ma i lavori sono in corso);

2 Sviluppare un vero piano pandemico puntando sulla medicina territoriale e reparti ospedalieri ad hoc perché dopo oltre due anni di pandemia medici e operatori sanitari non possono lavorare in continuo affanno, così come i pazienti di altre patologie, in primis oncologiche e cardiache, non possono vedersi rimandati esami o interventi ogni volta che si entra in una fase emergenziale;

3 Proseguire nello sviluppo di farmaci antivirali efficaci, sicuri e a basso costo (ad oggi abbiamo le pillole Pfizer e Merck);

4 Assicurare il vaccino a tutti i Paesi del mondo perché solo così sarà davvero possibile ridurre la circolazione del virus;

5 Per abbattere il rischio di contagio (che coi grandi numeri comporta restrizioni e stress per il sistema sanitario) l’ingegneria può subito venire in soccorso e contribuire a creare una nuova normalità, grazie alla ventilazione meccanica controllata all’interno degli edifici, un sistema simile alle ventole che nelle cucine aspirano fumi e odori: con un ricambio d’aria tarato in base al livello di rischio si può rendere un ambiente chiuso, saturo di virus, come se fosse aperto. E aspetto cruciale, le varianti non influiscono sul suo funzionamento.

·        Le Epidemie.

L'altra pandemia. Report Rai PUNTATA DEL 19/12/2022

di Giulio Valesini e Cataldo Ciccolella

Collaborazione di Norma Ferrara

I batteri sono ovunque, nell’aria che respiriamo, sul terreno dove camminiamo, nel nostro intestino.

Ci sono più batteri nel corpo di un solo uomo che uomini sul pianeta terra. Grazie ai batteri abbiamo il pane lievitato, la birra e il vino. Per colpa dei batteri, quelli patogeni, ci ammaliamo con il tetano o la gastroenterite. Viviamo in una sorta di pace armata, ma da circa un secolo con il miglioramento dell’igiene clinica e la scoperta della penicillina, il primo degli antibiotici, sembrava che avessimo imparato a tenerli a bada. Ora l’equilibrio sta per interrompersi. La prescrizione inappropriata o l’uso eccessivo, le cattive condizioni igieniche dei nosocomi, il rilascio di contaminanti in ambiente: grazie ai nostri errori li abbiamo allenati a rafforzarsi. E oggi una nuova epidemia avanza silenziosa: nello stesso anno in cui il Covid muoveva i suoi primi passi, sono morte nel mondo oltre 1,3 milioni di persone per infezioni batteriche resistenti agli antibiotici. Le stime prevedono 10 milioni di decessi all'anno intorno al 2050. In Italia ogni anno sono registrati circa 15 mila morti, ma i numeri reali sono molto più alti. Perché siamo fanalino di coda nella lotta all’antibiotico resistenza in Europa? Report indagherà sul ruolo dei medici e delle aziende farmaceutiche. Inoltre, esiste un piano nazionale contro i superbatteri che per anni non è stato finanziato. E quando sono arrivati 40 milioni di euro per farlo partire, il Ministero della Salute a guida Speranza non è stato capace di spenderli. Report è in possesso di documenti interni che rivelano cosa è successo.

Lo studio commissionato da Epfia sulla convenienza dei voucher per supportare la ricerca di nuovi antibiotici

La dichiarazione della società farmaceutica Plivia

L’ALTRA PANDEMIA di Cataldo Ciccolella – Giulio Valesini con la collaborazione di Norma Ferrara Immagini di Paolo Palermo e Fabio Martinelli Montaggio di Marcelo Lippi Grafiche di Giorgio Vallati

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO E’ il 28 Ottobre del 2020. All’ospedale di Camposampiero, vicino Padova viene ricoverato per Covid Pasquale Letizia, 77 enne, ex carabiniere in pensione, era diventato un punto di riferimento per la comunità. Da volontario guida il pulmino che porta i ragazzi disabili a scuola.

AGOSTINO LETIZIA – FIGLIO DI PASQUALE LETIZIA Sembrava che le cose comunque fossero stabili. Poi tre o quattro giorni dopo il ricovero in terapia intensiva in una delle telefonate ci comunicano che si era sovra infettato.

GIULIO VALESINI Che vuol dire?

AGOSTINO LETIZIA – FIGLIO DI PASQUALE LETIZIA Ha preso dei batteri. Punto. Ma la comunicazione si è fermata lì.

GIULIO VALESINI E si è preso dei batteri presenti in reparto?

AGOSTINO LETIZIA – FIGLIO DI PASQUALE LETIZIA Fondamentalmente sì. Perché comunque lui dal reparto non era mai uscito.

GIULIO VALESINI Il cinque novembre e compaiono i primi due batteri. Due giorni dopo esce fuori anche lo stafilococco… Poi esce fuori la klebsiella, il 12. Poi esce fuori l'enterococco. Poi esce fuori un microrganismo sentinella.

AGOSTINO LETIZIA – FIGLIO DI PASQUALE LETIZIA Noi ne abbiamo contati sette o otto.

GIULIO VALESINI Otto batteri in un mese di ricovero.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Alle due di notte dell’11 dicembre Pasquale Letizia muore. Sulla cartella clinica c’è scritto: prima causa di morte polmonite da Covid-19 e poi neuropatia e infine choc settico.

AGOSTINO LETIZIA – FIGLIO DI PASQUALE LETIZIA Noi lo abbiamo ricoverato per covid. Però poi, dopo tutto quello che è venuto su, dopo il covid, noi abbiamo delle informazioni molto frammentate, cioè della serie... cercatele.

GIULIO VALESINI Un libro.

AGOSTINO LETIZIA – FIGLIO DI PASQUALE LETIZIA 400 e rotte pagine. A un certo punto, negli ultimi giorni, abbiamo trovato anche un referto di un tampone negativo. Quindi il covid era l'ultimo dei problemi. Probabilmente il covid l’ha debilitato in maniera importante e i batteri hanno fatto tutto il resto.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO I vertici dell’ospedale di Camposampiero non hanno voluto parlare con noi. Abbiamo però letto la comunicazione mandata all’Istat. La prima causa di morte del sig. Letizia riportata è covid e dunque rientra nei bollettini ufficiali. Il dubbio è che se in Italia abbiamo avuto numeri così alti per il covid è perché la pandemia si è incrociata con i super-batteri.

EVELINA TACCONELLI - DIRETTRICE MALATTIE INFETTIVE - AZIENDA OSPEDALIERA VERONA Una delle prime cose che è successo è purtroppo una riduzione dell'attenzione alla trasmissione delle infezioni ospedaliere. Perché? Perché il medico era completamente bardato e i pazienti erano costretti anche in stanze con un piccolissimo spazio.

GIULIO VALESINI Pensavo che più attenzione alla trasmissione del virus avesse in qualche modo rafforzato dei protocolli…

EVELINA TACCONELLI - DIRETTRICE MALATTIE INFETTIVE - AZIENDA OSPEDALIERA VERONA Solo quelli per via respiratoria. Ma quelli che ci preoccupano sull’antibiotico resistenza per lo più sono da contatto.

GIULIO VALESINI Io pensavo il contrario …

EVELINA TACCONELLI - DIRETTRICE MALATTIE INFETTIVE - AZIENDA OSPEDALIERA VERONA Se io mi vesto da astronauta e visito un paziente per passare all’altro paziente.

GIULIO VALESINI Mi dovrei cambiare la divisa da astronauta.

EVELINA TACCONELLI - DIRETTRICE MALATTIE INFETTIVE - AZIENDA OSPEDALIERA VERONA E rimettermi un’altra divisa…che è assolutamente impensabile nel periodo covid che abbiamo vissuto.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO E’ la tempesta perfetta perché si incrociano due pandemie: una nota al mondo, quella causata dal covid e l’altra sommersa causata dai batteri resistenti agli antibiotici. Per la quale l’Italia detiene il record di decessi in Europa: 15mila morti l’anno, secondo le stime ufficiali, ma nei fatti certamente molti di più. E la causa dell’infezione spesso è l’ospedale. In quello di Terni hanno messo a confronto i numeri dei ricoveri prima e durante il Covid. Il dato che emerge fa impressione.

STEFANO CAPPANERA - MALATTIE INFETTIVE - AZIENDA OSPEDALIERA SANTA MARIA TERNI Prima del covid avevamo un'incidenza di circa cinque-sei per cento l'anno. Pazienti che entravano da negativo e venivano colonizzati in rianimazione. Quando arrivò il covid ci siamo passati da un cinque per cento a un 50 percento. Ci siamo interrogati perché era successo: la presenza di personale non perfettamente formato e la grande manipolazione dei pazienti. Pronare un paziente significa intervenire in quattro cinque operatori.

GIULIO VALESINI Toccarlo, certo.

STEFANO CAPPANERA - MALATTIE INFETTIVE - AZIENDA OSPEDALIERA SANTA MARIA TERNI Per metterlo a pancia in giù. E abbiamo visto che il paziente pronato aveva il doppio della possibilità circa di colonizzarsi rispetto al paziente non pronato.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO In Europa continentale, l’Italia sulle prime due ondate del covid presenta dati disastrosi sui decessi. Più alti rispetto a Francia, Germania e Spagna nonostante le nostre rigide restrizioni.

CRISTOPH LÜBBERT - MALATTIE INFETTIVE E MEDICINA TROPICALE UNIVERSITÀ DI LIPSIA I pazienti covid, erano ricoverati a lungo e se in quell’ospedale c’è già un grosso problema con l’antibiotico resistenza, come accade in Italia, la degenza si prolunga e si associa a un alto tasso di complicazioni e quindi ad alta mortalità.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Ma in Italia non si sono fatte autopsie sui morti per covid. A Report ora l’ha confermato l’Istituto superiore di sanità. Ci ha mandato uno studio che potrebbe riscrivere la storia della pandemia: il 19 per cento dei morti Covid aveva anche infezioni batteriche. Su un campione di 157 pazienti morti con covid e batteri, tra il 2020 e il 2021, ben l’88 per cento aveva preso le infezioni proprio in ospedale, con punte del 95,5 per cento di resistenza agli antibiotici. Insomma, infezioni incurabili. Adesso arrivano le conferme ufficiali.

CLAUDIO D'AMARIO - DIRETTORE GENERALE PREVENZIONE MINISTERO DELLA SALUTE 2018-2020 Molti di questi pazienti sono morti per la sepsi. Non sono morti per il covid.

GIULIO VALESINI Solo che ufficialmente sono morti per covid…

CLAUDIO D'AMARIO - DIRETTORE GENERALE PREVENZIONE MINISTERO DELLA SALUTE 2018-2020 Anche pazienti intubati alla fine… dopo tre settimane, morivano per questi germi che purtroppo girano negli ospedali.

GIULIO VALESINI E non si facevano le autopsie.

CLAUDIO D'AMARIO - DIRETTORE GENERALE PREVENZIONE MINISTERO DELLA SALUTE 2018-2020 È stato un problema metodologico. Un problema anche che l'istituto doveva rivedere tutte le cartelle, ma era un lavoro disumano, quindi ... ma se andassimo a fa una revisione, 40 percento di quei decessi non c'ha nulla a che vedere con il covid.

NICOLA MAGRINI – DIRETTORE GENERALE AIFA L’antibiotico resistenza è stato un fattore che ha contribuito alla difficoltà di trattamenti di cura.

GIULIO VALESINI Potremmo avere avuto questo alto indice di morti perché in realtà i pazienti entravano con il covid ma si infettavano di batteri e poi alla fine morivano, anche per questo. Questo sta dicendo…

NICOLA MAGRINI - DIRETTORE GENERALE AIFA Chi è andato in terapia intensiva in Italia è andato nelle migliori terapie intensive d'Europa.

GIULIO VALESINI Però siamo anche il paese con un altissimo tasso di infezione ospedaliera.

NICOLA MAGRINI - DIRETTORE GENERALE AIFA È stato un elemento aggiuntivo in un paziente comunque molto critico. Qualcuno di questi certamente è morto avendo acquisito questa infezione o con anche questa infezione.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Forse è il momento di riscrivere la storia della pandemia. L’azienda sanitaria di Terni ha detto che prima del Covid, avevano registrato colonizzazioni di batteri del 5-6 percento dei casi, che poi sono aumentati al 50 percento con il covid, come hanno giustificato questo? Intanto con la densità dei pazienti, c’erano troppi malati e poi anche con il fatto che sono stati arruolati, infermieri, personale ospedaliero non formato e anche poi a causa della manipolazione che richiedevano alcuni pazienti che erano intubati andavano anche messi, pronati, con la pancia in giù. E proprio questi pazienti sono risultati quelli più infettati. Ecco, e che cosa significa questa incidenza, che cosa comporta questa incidenza di infezioni? Un documentato studio dell’Istituto superiore di sanità ci dice che il 19 percento dei morti di Covid avevano anche contratto dei batteri, l’88 percento dei casi l’aveva poi contratto proprio entrando, dopo essere entrato, in ospedale. Di questi batteri, alcuni di questi batteri, hanno mostrato una resistenza sino al 95 percento agli antibiotici. Significa che son praticamente incurabili. Anche il direttore generale del ministero della Salute, Claudio D’Amario, intervistato dal nostro Giulio Valesini cha detto guardate che se poi andiamo a vedere poi alla fine il 40 percento dei morti non ha nulla a che vedere con il covid ma bisognerebbe andare a vedere dentro ciascuna cartella. E’ un lavoro disumano però riscriverebbe la storia della mortalità da covid nel nostro Paese. Ora quella con i batteri è una convivenza dura, ce ne sono più nel nostro corpo che umani nel mondo. A volte ci aiutano perché magari ci aiutano nella lievitazione del pane, della birra, a smaltire i rifiuti e a depurare l’acqua. A volte ci uccidono o ci indeboliscono se ci trovano in una condizione di fragilità. Insomma, è un equilibrio difficilissimo: nell’antichità bastava un piccolo taglietto per portare una infezione che poteva causare la morte, poi abbiamo scoperto gli antibiotici come la penicillina ma abbiamo cominciato anche ad abusarne e a usarli in maniera non mirata. Questo è successo anche negli allevamenti intesivi e dunque si è rotto un equilibrio e la responsabilità è solo la nostra.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Laboratorio di microbiologia di Rimini. Qui arrivano in un anno 250 mila piastrine dei pazienti ricoverati negli ospedali dell'azienda sanitaria Romagna.

MONICA CRICCA - MICROBIOLOGIA AUSL ROMAGNA UNIVERSITA’ DI BOLOGNA Questo è uno stafilococco aureo. Questi invece sono dei gram negativi. Qui c’è questo batterio, ad esempio, che è una pseudomonas che ha questa pigmentazione invece naturale colore blu o verde tipica, che può dare diverse problematiche anche nelle infezioni ospedaliere perché è un germe anche questo molto resistente.

GIULIO VALESINI Resistente.

VITTORIO SAMBRI - DIRETTORE UNITÀ OPERATIVA MICROBIOLOGIA AUSL ROMAGNA- UNIVERSITÀ DI BOLOGNA Queste viola sono colonie di enterococco, vancomicina resistente.

GIULIO VALESINI A forza di usare la vancomicina…

VITTORIO SAMBRI - DIRETTORE UNITÀ OPERATIVA MICROBIOLOGIA AUSL ROMAGNA - UNIVERSITÀ DI BOLOGNA Dopo un po’ di anni qualcun altro ha imparato a diventare resistente alla vancomicina... l’enterococco. È un meccanismo abbastanza comune diciamo di rincorsa. Cioè noi usiamo un farmaco nuovo. I batteri imparano, fondamentalmente, imparano a diventare resistenti.

GIULIO VALESINI Lei dirige questo laboratorio da quanto?

VITTORIO SAMBRI - DIRETTORE UNITÀ OPERATIVA MICROBIOLOGIA AUSL ROMAGNA- UNIVERSITÀ DI BOLOGNA Sono dieci anni.

GIULIO VALESINI Queste piastrine aumentano?

VITTORIO SAMBRI - DIRETTORE UNITÀ OPERATIVA MICROBIOLOGIA AUSL ROMAGNA- UNIVERSITÀ DI BOLOGNA Sì, aumentano. È una rincorsa senza fine. E alla fine vincono loro.

GIULIO VALESINI Vincono loro?

VITTORIO SAMBRI - DIRETTORE UNITÀ OPERATIVA MICROBIOLOGIA AUSL ROMAGNA- UNIVERSITÀ DI BOLOGNA Si, se non cambiamo il nostro paradigma d'uso degli antibiotici, vincono loro.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Si tratta di un fenomeno naturale: alcuni ceppi sviluppano geni che li rendono resistenti agli antibiotici, loro imparano a sopravvivere, il paziente muore. Secondo le ultime stime questi batteri causano 1,3 milioni morti l’anno. Ci stiamo avvicinando alla drammatica previsione contenuta nel rapporto affidato dal governo britannico a un team guidato dal noto economista Jim O’Neill: 10 milioni di morti l’anno per batteri resistenti entro il 2050, più del cancro.

JIM O'NEILL - ECONOMISTA Quest'anno è stato pubblicato uno studio, molto dettagliato: il numero di persone che muoiono di malattie legate all'antibiotico resistenza è doppio rispetto alle nostre stime del 2016. Quindi se fai una proiezione è molto facile che si raggiungeranno anche oltre i 10 milioni di morti.

GIULIO VALESINI Cosa è cambiato a distanza di sei anni dal suo rapporto?

JIM O'NEILL – ECONOMISTA Il problema sembra peggiorare ma almeno il covid ha detto al mondo che le epidemie di malattie infettive possono uccidere molte persone. Quindi ora tutte le persone che sostenevano che le nostre stime di 10 milioni di persone all'anno che muoiono erano folli, non lo pensano più.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Senza antibiotici efficaci, diventano a rischio tutte le operazioni chirurgiche, a partire da quelle più comuni come un parto cesareo o l’estrazione di un dente.

EVELINA TACCONELLI - DIRETTRICE MALATTIE INFETTIVE - AZIENDA OSPEDALIERA VERONA I dati confermano che siamo di fronte a uno tsunami. Potremmo arrivare in una situazione in cui le chemioterapie non avranno più effetto. Perché? Perché il paziente avrà debellato il tumore ma morirà post chemioterapia o post trapianto di un'infezione resistente agli antibiotici.

GIULIO VALESINI Quindi la fine della medicina moderna.

EVELINA TACCONELLI - DIRETTRICE MALATTIE INFETTIVE - AZIENDA OSPEDALIERA VERONA La fine della medicina moderna…

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Pietro La Grassa è un tecnico di farmacia ospedaliera. A causa di un‘infezione batterica gli hanno dovuto amputare la gamba sotto al ginocchio. Ma è solo l’inizio della sua odissea.

PIETRO LA GRASSA Era uno stafilococco aureo. Dopo una settimana, mi arrivano altre due infezioni: sempre uno stafilococco aureo e un enterobacter. Da lì è cominciata la ferita a non rimarginarsi più …i margini della ferita a sgretolarsi, non potendo più avere la ricostruzione della cute. E anche lì hanno anche provato a curarmi con antibiotici per circa un venti, trenta giorni.

GIULIO VALESINI Ma non facevano effetto?

PIETRO LA GRASSA Niente, nessun effetto, nessun risultato.

GIULIO VALESINI La sua è un'infezione … come dire… cutanea?

PIETRO LA GRASSA Sì, era, adesso è molto più profonda. L’infettivologa palesa l'idea anche di dovermi tagliare proprio tutta definitivamente la gamba.

GIULIO VALESINI Lei da quant'è che prende antibiotici?

PIETRO LA GRASSA Dal 22 aprile, penso.

GIULIO VALESINI Quasi senza...

PIETRO LA GRASSA Senza stoppare, 39 giorni, una settimana e qualche giorno no…poi si ricomincia.

GIULIO VALESINI Adesso a lei la gamba le fa male?

PIETRO LA GRASSA Di brutto, mi brucia, brucia, proprio brucia, non è un dolore, è un bruciore come se veramente mi si stesse mangiando dall'interno.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Siamo di fronte a un problema globale ma in Italia è fuori controllo. È l’impietosa considerazione dell’Ecdc - l’ente europeo contro le malattie infettive – dopo i risultati di un’ispezione che aveva condotto nel 2017 nel nostro Paese, su richiesta dell’allora direttore generale della prevenzione, Ranieri Guerra.

EVELINA TACCONELLI - DIRETTRICE MALATTIE INFETTIVE - AZIENDA OSPEDALIERA VERONA Ho letto la relazione quando ero in Germania e io definirei non solo preoccupante ma agghiacciante. C'era una consapevolezza da parte del ministero della problematica nel 2017.

GIULIO VALESINI Dopo quella relazione. C'è stata una svolta?

EVELINA TACCONELLI - DIRETTRICE MALATTIE INFETTIVE - AZIENDA OSPEDALIERA VERONA Assolutamente no.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Le conclusioni dell’Ecdc sul quadro italiano sono spietate. Gli ispettori sottolineano la grave minaccia per la salute pubblica del Paese. Alcuni batteri sono ormai iperendemici. Il disastro è accettato da medici e funzionari del sistema sanitario italiano come se fosse inevitabile. Manca una strategia. È una figuraccia, E il ministero guidato all’epoca da Beatrice Lorenzin, cerca di correre ai ripari e redige un piano triennale per rispondere all’emergenza.

MARIA LUISA MORO - PRESIDENTE SOCIETÀ ITALIANA MULTIDISCIPLINARE PER LA PREVENZIONE DELLE INFEZIONI NELLE ORGANIZZAZIONI SANITARIE Quanto era necessario mettere in atto era sufficientemente chiaro.

GIULIO VALESINI Poi che è successo?

MARIA LUISA MORO - PRESIDENTE SOCIETÀ ITALIANA MULTIDISCIPLINARE PER LA PREVENZIONE DELLE INFEZIONI NELLE ORGANIZZAZIONI SANITARIE Non c'è stata quella creazione di un gruppo di governo del piano a livello nazionale che consentisse di farlo marciare.

GIULIO VALESINI Quindi è stato scritto non è stato seguito, non è stato implementato….

MARIA LUISA MORO - PRESIDENTE SOCIETÀ ITALIANA MULTIDISCIPLINARE PER LA PREVENZIONE DELLE INFEZIONI NELLE ORGANIZZAZIONI SANITARIE È necessario avere dati per contrastare l’antibiotico resistenza. Bisognerebbe fare in modo che questi sistemi di sorveglianza diventino sistematici. Devono partecipare tutti, devono essere obbligatori.

GIULIO VALESINI Perché oggi non sono obbligatori?

MARIA LUISA MORO - PRESIDENTE SOCIETÀ ITALIANA MULTIDISCIPLINARE PER LA PREVENZIONE DELLE INFEZIONI NELLE ORGANIZZAZIONI SANITARIE Non sono ancora obbligatori.

GIULIO VALESINI Io posso inviare, possono non inviare. Posso inviare parzialmente. Faccio un po’ come mi pare.

MARIA LUISA MORO - PRESIDENTE SOCIETÀ ITALIANA MULTIDISCIPLINARE PER LA PREVENZIONE DELLE INFEZIONI NELLE ORGANIZZAZIONI SANITARIE Sì, è così.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Il piano, nonostante l’allarme lanciato dall’ Ecdc è rimasto al palo. Senza sorveglianza siamo al buio, non riusciamo a capire dove nascono i focolai e come contrastare la diffusione dei batteri. Un esempio: l’incidenza delle pericolose infezioni da enterobatteri resistenti, è molto più bassa negli ospedali di Molise, Basilicata e Calabria che in Veneto o in Emilia. Ma non perché siano le più virtuose ma perché non inviano i dati. E così le regioni più scrupolose sembrano quelle messe peggio. La Calabria, due milioni di abitanti, e il commissariamento della sanità per debiti. Ma sulla carta è una delle regioni più sicure d’Italia.

GIULIO VALESINI E voi segnalate due casi in tutta la regione. Allora i casi sono due: o siete fenomeni oppure non li segnalate?

ERNESTO ESPOSITO - SUBCOMMISSARIO ALLA SANITA’ REGIONE CALABRIA Sicuramente no. Abbiamo una difficoltà nel fare le nostre attività di controllo costante.

GIULIO VALESINI Quindi non li mandate i dati?

ERNESTO ESPOSITO - SUBCOMMISSARIO ALLA SANITA’ REGIONE CALABRIA Ci sta sicuramente un dato scarso, dovuto ai rilievi, dovuto alla carenza di personale.

GIULIO VALESINI Se io vedo questa mappa io dico beh, vado a curarmi in Calabria, perché qui rischio molto meno di prendere un'infezione ospedaliera.

ERNESTO ESPOSITO - SUBCOMMISSARIO ALLA SANITA’ REGIONE CALABRIA Laddove ci viene spiegato che dobbiamo avvalerci della consulenza degli infettivologi. Ma dove sono?

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO In Sicilia sono attivi 21 laboratori che analizzano i referti delle aziende sanitarie provinciali e degli ospedali. E quando ci sono tanti dati emerge una realtà inquietante: alcuni batteri resistono agli antibiotici nel 100 per cento dei casi. Un salto nel passato o forse nel futuro che ci aspetta tutti.

GIULIO VALESINI Io quando ho letto il report mi è venuta una certa….

STEFANIA STEFANI - PROFESSORESSA ORDINARIA DIPARTIMENTO BIOMETEC UNIVERSITA’ DI CATANIA Si è preso... paura.

GIULIO VALESINI Beh, sì.

STEFANIA STEFANI - PROFESSORESSA ORDINARIA DIPARTIMENTO BIOMETEC UNIVERSITA’ DI CATANIA Ma non siamo mica soli…

GIULIO VALESINI Appunto!

STEFANIA STEFANI - PROFESSORESSA ORDINARIA DIPARTIMENTO BIOMETEC UNIVERSITA’ DI CATANIA Ma non siamo mica soli, eh. Siamo ben accompagnati in tante altre regioni.

GIULIO VALESINI Ci sono alcuni batteri che hanno delle resistenze...

STEFANIA STEFANI - PROFESSORESSA ORDINARIA DIPARTIMENTO BIOMETEC UNIVERSITA’ DI CATANIA Quasi totali.

GIULIO VALESINI Ho letto bene?

STEFANIA STEFANI - PROFESSORESSA ORDINARIA DIPARTIMENTO BIOMETEC UNIVERSITA’ DI CATANIA Sì, sono resistenti a tutte le famiglie di antibiotici.

 GIULIO VALESINI Lei ha sottomano un po’ i dati di tutta la regione Sicilia, giusto? Le infezioni ospedaliere stanno aumentando?

STEFANIA STEFANI - PROFESSORESSA ORDINARIA DIPARTIMENTO BIOMETEC UNIVERSITA’ DI CATANIA Sono in aumento quelle sostenute da microorganismi resistenti.

GIULIO VALESINI Cioè sono in aumento quelle più pericolose.

STEFANIA STEFANI - PROFESSORESSA ORDINARIA DIPARTIMENTO BIOMETEC UNIVERSITA’ DI CATANIA Sì, tre direttrici servono in questo momento: migliorare la qualità della diagnostica, arrivare a una terapia mirata rapidamente. Quindi la diagnostica va subito ad aiutare…

GIULIO VALESINI Ti aiuta a individuare … certo.

STEFANIA STEFANI – PROFESSORESSA ORDINARIA DIPARTIMENTO BIOMETEC UNIVERSITA’ DI CATANIA Ad accorciare i tempi per l'uso corretto degli antibiotici e la terza direttrice è infection control: si deve controllare il focolaio infettivo, la diffusione in ospedale.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO La Regione Sicilia ha messo in rete i dati delle infezioni che sono consultabili da tutti in tempo reale. Per controllare la diffusione dei focolai dentro gli ospedali sono stati anche nominati i gruppi di lavoro previsti dal piano nazionale.

GIUSEPPE MUROLO - DIPARTIMENTO PER LE ATTIVITÀ SANITARIE REGIONE SICILIANA Abbiamo anche realizzato un provvedimento che sono le linee di indirizzo per la cosiddetta stewardship antibiotica per cui abbiamo istituito dentro le aziende delle funzioni.

GIULIO VALESINI Funzionano? GIUSEPPE MUROLO - DIPARTIMENTO PER LE ATTIVITÀ SANITARIE REGIONE SICILIANA .... Funzionano si... che funzionano.

GIULIO VALESINI Più convinto...ni!

GIUSEPPE MUROLO - DIPARTIMENTO PER LE ATTIVITÀ SANITARIE REGIONE SICILIANA Dico, non ho il polso. Non mi stupirei se non funzionassero in tutti i posti.

GIULIO VALESINI Voi non avete avuto risorse dedicate?

GIUSEPPE MUROLO - DIPARTIMENTO PER LE ATTIVITÀ SANITARIE REGIONE SICILIANA No, su questo no.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Giuseppe Murolo è stato nominato dalla regione nel 2018 referente per la Sicilia del vecchio e nuovo Pncar. Insomma, l'attuazione nel territorio del piano nazionale di contrasto all’antibiotico resistenza passa dalle sue mani.

GIULIO VALESINI Lei quanti anni è stato referente?

GIUSEPPE MUROLO - DIPARTIMENTO PER LE ATTIVITÀ SANITARIE REGIONE SICILIANA Al momento no io ho cambiato lavoro, per cui faccio il direttore sanitario in un policlinico, al policlinico di Messina.  

GIULIO VALESINI Chi ha preso il suo posto?

GIUSEPPE MUROLO - DIPARTIMENTO PER LE ATTIVITÀ SANITARIE REGIONE SICILIANA Al momento nessuno.

GIUSEPPE MUROLO - DIPARTIMENTO PER LE ATTIVITÀ SANITARIE REGIONE SICILIANA Io sono stato via, sono andato via da circa un anno.

GIULIO VALESINI Sul nuovo Pncar chi è che se ne è occupato per la Sicilia di seguire i lavori?

GIUSEPPE MUROLO - DIPARTIMENTO PER LE ATTIVITÀ SANITARIE REGIONE SICILIANA Sul nuovo Pncar ci starei io sempre, anche.

GIULIO VALESINI Che però non c'è più da un anno, quindi.

GIUSEPPE MUROLO - DIPARTIMENTO PER LE ATTIVITÀ SANITARIE REGIONE SICILIANA Al momento ci sono sempre io.

GIULIO VALESINI Che però non c'è più.

GIUSEPPE MUROLO - DIPARTIMENTO PER LE ATTIVITÀ SANITARIE REGIONE SICILIANA Adesso non ci sono.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Insomma, c’è e non c’è. Un po’ come il Pncar, il Piano Nazionale di Contrasto, lo strumento per fermare l’avanzata di questi super batteri. Richiederebbe di mettere in atto subito alcune misure: intanto, una diagnosi precoce e accurata, l’altra cosa è prescrivere antibiotici mirati, poi monitorare l’evoluzione di questi batteri e assumere e formare del personale specializzato per questo tipo di emergenze. Incrementare, perché poi c’è anche questo vulnus, l’igiene clinica. Si trattava di misure da dover mettere in pratica subito, già tre anni prima della pandemia, il giorno dopo quell’ispezione dell’Ecdc del 2017, il centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie, gli ispettori hanno stilato un rapporto spietato nei confronti dell’Italia che l’infettivologa Evelina Tacconelli di Verona dice essere un rapporto agghiacciante. Invece, abbiamo consentito che i malati di covid, i pazienti con il covid, abbiano poi contratto in ospedale anche i batteri, alcuni resistenti agli antibiotici. Oggi c’è la consapevolezza che siamo di fronte alla vigilia della fine della medicina moderna perché tu potresti guarire da un tumore ma poi rimanere con il fisico debilitato colpito e infettato da batteri che possono condurti alla morte. Ma tanto questo piano non è stato applicato, nonostante tutto, nonostante gli allarmi, nonostante le ispezioni, perché tanto non chiede conto a nessuno a un ministro, a un direttore generale che non lo applica. Così come non ci sono sanzioni per quelle regioni come la Campania che non comunicano dati all’Istituto superiore di sanità pur avendo un numero altissimo di infezioni. Poi qualche regione ci prova come la Calabria ma dice: come facciamo a raccogliere e inviare i dati se ci mancano gli infettivologi, dice il subcommissario? Ecco al ministero qualcuno si era accorto che c’era un problema e ad un certo punto stanziano anche 40 milioni di euro, si era anche firmato l’assegno. Ma che fine hanno fatto questi milioni?

GIULIO VALESINI Io so che erano previsti dei soldi sul Pncar a partire dal 2021.

ERNESTO ESPOSITO – SUBCOMMISSARIO ALLA SANITA’ REGIONE CALABRIA No, non li abbiamo visti. Non ne sappiamo proprio.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Invece, da quanto risulta a Report c’erano 40 milioni del ministero della Salute per aiutare le regioni ad attuare il piano nazionale nel 2021.

MARIA LUISA MORO - PRESIDENTE SOCIETÀ ITALIANA MULTIDISCIPLINARE PER LA PREVENZIONE DELLE INFEZIONI NELLE ORGANIZZAZIONI SANITARIE Non sono mai stati erogati.

GIULIO VALESINI Come mai?

MARIA LUISA MORO - PRESIDENTE SOCIETÀ ITALIANA MULTIDISCIPLINARE PER LA PREVENZIONE DELLE INFEZIONI NELLE ORGANIZZAZIONI SANITARIE Questo sinceramente non lo so, non lo so.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Grazie a fonti interne al ministero abbiamo ricostruito la vicenda. I soldi per il Pncar erano già stanziati ma sono rimasti incastrati dentro le stanze del ministero della Salute. È scoppiata una controversia tra direzioni generali: quella della Prevenzione da una parte, cioè chi decide, dall’altra la programmazione che è quella che deve aprire il portafoglio. Alla fine, tutto è rimasto fermo.

ANDREA URBANI - DIRETTORE GENERALE PROGRAMMAZIONE MINISTERO DELLA SALUTE 2017 – 2022 Il problema per cui non furono ripartiti i 40 milioni nel 2021. È perché l'intesa fu fatta male, non stabiliva né criteri di riparto, né obiettivi, né finalità né modalità diciamo di controllo. Era inapplicabile l’intesa.

 GIULIO VALESINI Ma si lavora in modo così superficiale al ministero della Salute, scusi?

ANDREA URBANI - DIRETTORE GENERALE PROGRAMMAZIONE MINISTERO DELLA SALUTE 2017 - 2022 Era un po’ irricevibile. La prevenzione è rimasta inerte su questo. Poi io la lascio a giugno, io poi dopo a giugno sono andato via.

GIULIO VALESINI Ma come avete fatto a non spendere 40 milioni di euro? Il tema è importante.

ANDREA URBANI - DIRETTORE GENERALE PROGRAMMAZIONE MINISTERO DELLA SALUTE 2017 - 2022 I soldi per fare antibiotico resistenza non sono progetti di formazione, ma sono dei processi che vanno instaurati all'interno delle regioni monitorati. Non è dando soldi a pioggia sul nulla, come si fa di solito.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Da maggio del 2020 l’ex ministro Roberto Speranza ha messo a capo della prevenzione Gianni Rezza.

GIULIO VALESINI Su un argomento così importante, si fa un’intesa, 40 milioni di euro e si sbaglia a scrivere l’intesa?

GIANNI REZZA - DIRETTORE GENERALE ALLA PREVENZIONE MINISTERO DELLA SALUTE Capisco che sia scritta veramente in maniera che dopo… non dà adito…non è consequenziale.

GIULIO VALESINI A Roma si dice: “manco le basi”.

GIANNI REZZA - DIRETTORE GENERALE ALLA PREVENZIONE MINISTERO DELLA SALUTE Però l’intesa non la scriviamo noi.

GIULIO VALESINI E chi l’ha scritta l’intesa?

GIANNI REZZA - DIRETTORE GENERALE ALLA PREVENZIONE MINISTERO DELLA SALUTE L’intesa si scrive in Stato-Regioni. Chiaramente è il ministero ma non la direzione che scrive l’intesa.

GIULIO VALESINI Chi? il ministro, no?

GIANNI REZZA - DIRETTORE GENERALE ALLA PREVENZIONE MINISTERO DELLA SALUTE Beh, il ministro in persona no…chi per lui ritengo. Adesso in questo caso non le so dire chi l’abbia scritta. C’è il gabinetto…ci sono le regioni…

GIULIO VALESINI La programmazione dice è colpa della prevenzione ci hanno presentato un piano che non stava in piedi… era proprio non applicabile. Noi gli abbiamo detto facciamo una cosa seria.

GIANNI REZZA - DIRETTORE GENERALE ALLA PREVENZIONE MINISTERO DELLA SALUTE No, ma noi non sappiamo neanche perché ad un certo punto un piano isorisorse dopo escono fuori 40 milioni per una proroga, a partire dal 2021. E che siamo noi che scriviamo, a partire dal 2021?

GIULIO VALESINI Ma chi l’ha scritta però scusi?

GIANNI REZZA - DIRETTORE GENERALE ALLA PREVENZIONE MINISTERO DELLA SALUTE Se lo sapessi glielo direi.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Insomma, ormai è un giallo. Ma Rezza si è lasciato sfuggire un indizio su chi è il maggiordomo della storia. Qualcuno nell’entourage di Speranza, probabilmente il suo gabinetto. Abbiamo chiesto un'intervista all’ex ministro che ha preferito declinare. Il mistero rimane. E intanto ci riprovano. Nell’ultima finanziaria sono previsti altri 40 milioni a partire dal prossimo anno. Sperando che questa volta i soldi non rimangano bloccati.

STEFANIA STEFANI - PROFESSORESSA ORDINARIA DIPARTIMENTO BIOMETEC UNIVERSITA’ DI CATANIA Qui noi siamo pronti con le azioni da mettere in atto.

GIULIO VALESINI Cosa vi manca?

STEFANIA STEFANI - PROFESSORESSA ORDINARIA DIPARTIMENTO BIOMETEC UNIVERSITA’ DI CATANIA Certamente servono finanziamenti. Lei può obbligare un laboratorio a comprare una macchina super sofisticata se nessuno contribuisce economicamente all'acquisto?

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO A giugno ha visto la luce anche il nuovo piano valido fino al 2025. Le Regioni prima di ratificare aspettano stavolta rassicurazioni sui soldi. Ma ci vogliono indicazioni su come spenderli.

EVELINA TACCONELLI - DIRETTRICE DIVISIONE MALATTIE INFETTIVE - AZIENDA OSPEDALIERA VERONA Ci sono dei fondi ma non so come sono destinati questi fondi e come vengono rendicontati. GIULIO VALESINI Lei fa parte, è componente della commissione del nuovo Pncar e non sa quanti fondi e come vengono spesi i fondi?

EVELINA TACCONELLI - DIRETTRICE DIVISIONE MALATTIE INFETTIVE - AZIENDA OSPEDALIERA VERONA No, perché non è stato un argomento di discussione.

GIULIO VALESINI Ma è strana come cosa, eh?

EVELINA TACCONELLI - DIRETTRICE DIVISIONE MALATTIE INFETTIVE - AZIENDA OSPEDALIERA VERONA Io lo trovo strano perché l'intervento deve essere pianificato non solo con indicatori, ma deve esserci un budget correlato. E’ essenziale che in ogni ospedale ci sia una sorveglianza attiva che dica quante infezioni ci sono in ogni momento e che ci sia un team esperto che lavori al 100 percento sul controllo. Se io devo attuare questo nel mio ospedale, ma non ho budget, vuol dire che io posso anche decidere che questa è una priorità. Però devo togliere persone da un’altra organizzazione e deputarli al 100 percento su questo.

GIULIO VALESINI Servono finanziamenti.

EVELINA TACCONELLI - DIRETTRICE DIVISIONE MALATTIE INFETTIVE - AZIENDA OSPEDALIERA VERONA Servono finanziamenti e volontà politica. C’è chi la volontà per contrastare le infezioni da super batteri ce l’ha messa già dal 2014. Alla Asl Romagna sono partiti con un piano finanziato da fondi regionali, risultano tra le regioni che sono più colpite dalle infezioni ma solo perché a differenza di altri, le segnalano.

CARLO BIAGETTI – DIRETTORE MALATTIE INFETTIVE RIMINI Abbiamo un algoritmo, io chirurgo, faccio la mia chirurgia, faccio un prelievo di follow – up che è di 30 giorni o di 90 giorni se vado a mettere una protesi e se all’interno di quei 30 giorni trovo una infezione, faccio la scheda. Io ho dovuto lavorare molto per convincere quelli sopra di me che i programmi che stavo attuando erano un investimento e necessitavano risorse.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Le priorità degli interventi sono decise da un nucleo di specialisti: infettivologo, farmacista, microbiologo e l’infermiera sentinella.

CARLO BIAGETTI – DIRETTORE MALATTIE INFETTIVE RIMINI Sono la nostra anima, quelle che poi nella quotidianità fanno il grande del lavoro.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO All’ospedale di Rimini hanno assunto sei infermiere specializzate in infezioni batteriche che sorvegliano i reparti.

ALESSANDRA AMADORI – INFERMIERA SPECIALIZZATA RISCHIO INFETTIVO - AUSL ROMAGNA Abbiamo anche un collegamento diretto con il laboratorio di microbiologia che ci fornisce in tempo reale l’isolamento di microrganismi sui vari pazienti.

GIULIO VALESINI E poi a quel punto che succede?

ALESSANDRA AMADORI – INFERMIERA SPECIALIZZATA RISCHIO INFETTIVO - AUSL ROMAGNA Facciamo una verifica sulle condizioni del paziente.

GIULIO VALESINI Quindi il laboratorio segnala batterio, scatta l’allarme e voi controllate…

ALESSANDRA AMADORI – INFERMIERA SPECIALIZZATA RISCHIO INFETTIVO - AUSL ROMAGNA Esatto, poi andiamo in reparto controlliamo come è stato collocato e che tipo di dispositivi vengono utilizzati per il paziente sia dispositivi di protezione che dispositivi medici da utilizzare per l’assistenza. Con l’obiettivo appunto di evitare che questo microrganismo si diffonda.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Le infermiere sentinelle hanno anche il compito di controllare che il personale sanitario si lavi le mani. Sembra incredibile ma non è così scontato.

ALESSANDRA AMADORI – INFERMIERA SPECIALIZZATA RISCHIO INFETTIVO - AUSL ROMAGNA Questo lo facciamo attraverso dei dati, oggi l’indicatore è 20 litri per mille giornate di degenza. Quindi noi calcoliamo…

GIULIO VALESINI Qui quante ne usate?

ALESSANDRA AMADORI – INFERMIERA SPECIALIZZATA RISCHIO INFETTIVO - AUSL ROMAGNA Ah, glielo faccio vedere. La nostra azienda oggi, 80,2 percento.

GIULIO VALESINI Ma è vero che i medici, soprattutto, sono si lavano poco le mani?

ALESSANDRA AMADORI – INFERMIERA SPECIALIZZATA RISCHIO INFETTIVO - AUSL ROMAGNA I medici sono la categoria che si lava meno le mani.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO L’emergenza ormai non è solo negli ospedali. Le infezioni colpiscono anche fuori. L’odissea di Simona dura due anni di inutili cure con gli antibiotici. Inizia tutto con un’infezione al piede. SIMONA GESTRI Il piede era diventato così dolorante e gonfio che andavo in giro con le stampelle. C'era un'infezione sì sì, che stava consumando le ossa del piede. Dopo qualche mese, mi si creò un fenomeno simile sotto il braccio mi sono cominciate a venire delle ulcere importanti. Erano veri e propri crateri nella pelle.

GIULIO VALESINI In due anni quante volte ha avuto infezioni, lei?

SIMONA GESTRI Mi venne quindi 13 volte, 13 volte. A distanza di un mese sempre una volta dall’altra.

GIULIO VALESINI Alla fine risolveva la questione, incidendo la ferita e facendo uscire l'infezione.

SIMONA GESTRI Non sapendo da cosa era dovuta questa infiammazione, mi consegnavano un antibiotico ad ampio spettro.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO L’intuizione giusta arriva da un ricercatore dello Spallanzani che fa fare un tampone a Simona ed emerge la verità: infezione da stafilococco aureo resistente a più farmaci.

SIMONA GESTRI Questo medico dello Spallanzani mi prescrisse delle cure antibiotiche specifiche.

GIULIO VALESINI Fece una combinazione di antibiotici.

SIMONA GESTRI Una combinazione sì, perché…

GIULIO VALESINI Non c'era un antibiotico specifico.

SIMONA GESTRI Non c'era un antibiotico specifico. Mi disse anche che questo era un tentativo, mi disse non sono sicuro che possa funzionare.

GIULIO VALESINI Lei è mai stata in un ospedale?

SIMONA GESTRI No, non sono mai stata ricoverata in un ospedale, non ho mai subito un intervento operatorio. La cosa che ci ha più inquietato è stato il fatto che ho contagiato alcuni membri della mia famiglia.

LORD JIM O’NEILL – ECONOMISTA Ero entusiasta che il G20 avesse iniziato a parlare di antibiotico resistenza. Ma ora guarda caso, non ci sono soldi. Basta con queste sciocchezze, politici: smettete di twittare, via da Facebook, fate qualcosa di concreto! Il mio appello al governo italiano e a tutti i membri del G20 è: “E’ ora di trattare questo tema con più serietà”, altrimenti da qui al 2050 quello che è successo con il Covid vi sembrerà una festa in giardino.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Secondo l’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, curare un paziente che ha contratto dei batteri resistenti può costare fra gli 8.500 e i 34.000 euro a persona, perché questo richiede la cura una lunga degenza. Poi prevede anche una spesa di 11 miliardi di euro da qui al 2050. Chiede anche di mettere in atto un pacchetto di misure urgenti per la prescrizione di antibiotici più mirate, maggiore igiene clinica negli ospedali, perché questo è un problema anche degli ospedali italiani. Ecco, un investimento sulla prevenzione di 240 milioni l’anno, farebbe risparmiare 521 milioni l’anno. Soprattutto, con la prevenzione si eviterebbero dagli 8 e ai 9 mila morti ogni anno. Ora Report ha scoperto che c’è un piano dove c’è anche scritta questa cosa qui però ha fatto un po’ la fine del fratello del piano, quello un po’ più sfortunato, il piano pandemico, che abbiamo scoperto proprio noi di Report, essere rimasto sulla carta perché non è stato mai aggiornato, dal 2006, e quindi non è stato possibile applicarlo. E così la stessa sorte l’ha avuta, quasi, il piano nazionale per contrastare l’avanzata dei super batteri. C’erano anche i soldi, 40 milioni di euro, perché non è stato attuato, perché non sono stati stanziati, non sono stati spesi, questi soldi? Lo vedremo fra un minuto, golden minute.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora, bentornati. Parlavamo dei super batteri che in Italia provocano la morte di 15 mila persone ogni anno e dell’esistenza di un piano per contrastarli che però non è stato mai attuato. Report ha scoperto che sono stati anche stanziati 40 milioni di euro e che però sono rimasti in un cassetto del ministero della Salute perché è stato scritto male il progetto. Si erano anche dimenticati di indicare i limiti per gli scarichi dei fiumi delle lavorazioni, delle scorie degli antibiotici. E non è un fatto da poco.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Il caso più clamoroso di mancato rispetto delle precauzioni sulle prescrizioni di antibiotici indicate nel piano di contrasto ai super batteri è stata l’azitromicina, un antibiotico che si usa per numerose infezioni. Ma è stato tra i farmaci più prescritti ai pazienti che avevano contratto il covid nonostante sin dal primo anno alla facoltà di medicina insegnano che i virus non si curano con gli antibatterici.

CRISTOPH LÜBBERT - MALATTIE INFETTIVE E MEDICINA TROPICALE UNIVERSITÀ DI LIPSIA Sono stati prescritti troppi antibiotici non solo per i pazienti a casa ma anche in ospedale, e così è stata facilitata la selezione di batteri resistenti. Per il futuro questo è un grosso problema.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Da noi le vendite di questo antibiotico con il covid sono cresciute del 230 per cento. Sono due anni che in Italia il farmaco è praticamente introvabile nelle farmacie per eccesso di richiesta, sostiene Aifa.

NICOLA MAGRINI - DIRETTORE GENERALE AIFA C 'erano stati anche alcuni studi o pseudo studi che avevano detto che l'azitromicina e altri prodotti avevano anche una efficacia antivirale e non avevano solo un'efficacia antibiotica. Erano studi non credibili, non trasferibili nella pratica clinica.

GIULIO VALESINI Sì, ma dopo due anni, mi sembra una cosa assurda.

 NICOLA MAGRINI – DIRETTORE GENERALE AIFA Averlo visto nella seconda fase, quando avevamo a disposizione sia essendo vaccinati sia cure migliori e dimostrate è stato abbastanza sconfortante.

GIULIO VALESINI Per anni abbiamo prescritto l’azitromicina per un virus, in Italia.

VINCENZO SCOTTI - SEGRETARIO GENERALE NAZIONALE FEDERAZIONE ITALIANA MEDICI DI MEDICINA GENERALE Lei può dare per certo che la maggior parte dei pazienti covid non potesse avere una parte dei pazienti covid non potesse avere una complicanza batterica?

GIULIO VALESINI L’avete prescritto lo Zitromax in via preventiva che, male c’è a dirlo?

VINCENZO SCOTTI - SEGRETARIO GENERALE NAZIONALE FEDERAZIONE ITALIANA MEDICI DI MEDICINA GENERALE Alla fine il paziente se lo faceva anticipare e poi veniva a richiedere la prescrizione.

GIULIO VALESINI Ma lei è scandalizzato o no, del fatto che a due anni e rotti dall'inizio della pandemia, ancora oggi si prescriva lo Zitromax?

VINCENZO SCOTTI - SEGRETARIO GENERALE NAZIONALE FEDERAZIONE ITALIANA MEDICI DI MEDICINA GENERALE Assolutamente sì.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Qui siamo in Croazia, meta dei vacanzieri in estate e produttrice di orate che finiscono nei nostri piatti. Non lontano da Zagabria c’è la Pliva. I suoi ricercatori nel 1980 hanno scoperto l’azitromicina, e hanno ceduto i diritti di licenza alla Pfizer che ha venduto il farmaco in mezzo mondo col marchio Zitromax. Lì vicino passa il fiume Sava e hanno trovato la azitromicina in concentrazioni di mille volte superiori a quelle che si trovano nei fiumi.

RUZA KATIC - ATTIVISTA ASSOCIAZIONE EKO ZAPRESIC Di solito è più facile avvicinarsi. Questo è il punto dove il team del centro di ricerca Boskovic ha prelevato i campioni per la sua ricerca nel 2016.

VEDRANA SIMICEVIC - GIORNALISTA Hanno preso i campioni per un anno intero in diversi periodi dell'anno, in diversi giorni della settimana. I ricercatori hanno scoperto che era più alta durante i giorni festivi. Hanno puntato il dito contro l’azienda farmaceutica. Forse stavano cercando di risparmiare soldi. Anche se loro hanno sempre negato.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO L’ispettorato del ministero dell'Ambiente dovrebbe controllare la qualità di quest'acqua. Ma pare che da queste parti non si siano mai fatti vedere.

VEDRANA SIMICEVIC – GIORNALISTA Né in Croazia, né in Europa, ci sono leggi che fissano limiti alla quantità di antibiotici che finiscono nei fiumi.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO In questo punto del Po confluiscono gli scarichi dell'hinterland milanese. Cosa c’è nell’ acqua? Ce lo spiega una ricercatrice dell’Istituto Mario Negri.

SARA CASTIGLIONI – RICERCATRICE ISTITUTO MARIO NEGRI Questo strumento ci consente di raccogliere automaticamente dei campioni di acqua. Quindi ci muoviamo lungo il corso del fiume, raccogliamo per cinque sei volte in modo da avere più di un litro di acqua che poi ci servirà per le analisi.

 GIULIO VALESINI Quindi quei cinque sei punti diversi…

SARA CASTIGLIONI - RICERCATRICE ISTITUTO MARIO NEGRI In modo da avere un campione che sia rappresentativo di questo posto.

SARA CASTIGLIONI - RICERCATRICE ISTITUTO MARIO NEGRI La problematica degli antibiotici e dei farmaci che vengono continuamente immessi tutti i giorni nell'ambiente, e quindi sono considerati dei contaminanti semi persistenti.

GIULIO VALESINI Il fiume Po in questo caso è una palestra dove il batterio come dire si allena. Gonfia i muscoli e diventa più forte.

SARA CASTIGLIONI - RICERCATRICE ISTITUTO MARIO NEGRI Sì, sì. Il depuratore non è costruito per degradare queste sostanze. A volte succede che il quantitativo di antibiotico che entra è uguale al quantitativo di antibiotico che esce.

GIULIO VALESINI Le acque del Po raccolte sono state analizzate nei laboratori dell’Istituto Mario Negri di Milano.

SARA CASTIGLIONI - RICERCATRICE ISTITUTO MARIO NEGRI Quello giallo si chiama lincomicina e ha un uso molto basso a livello umano.

GIULIO VALESINI Quindi questa è roba di allevamento, animale.

SARA CASTIGLIONI - RICERCATRICE ISTITUTO MARIO NEGRI Abbiamo poi sulfamidici che hanno sia un umano per uso veterinario e macrolidi che prevalentemente a uso umano e fluorochinoloni che hanno un uso sia umano che veterinario.

GIULIO VALESINI Quindi gli antibiotici presi dagli esseri umani e dagli animali?

SARA CASTIGLIONI - RICERCATRICE ISTITUTO MARIO NEGRI Sì. GIULIO VALESINI Se uno dovesse quantificare no, tra l’altro solo questa parte di antibiotici.

SARA CASTIGLIONI - RICERCATRICE ISTITUTO MARIO NEGRI A valle del fiume Oglio noi abbiamo quotidianamente un carico di tre chili al giorno di antibiotici.

GIULIO VALESINI E’ tanto?

SARA CASTIGLIONI - RICERCATRICE ISTITUTO MARIO NEGRI E abbastanza, se pensiamo, comunque siamo nell’ordine dei chili.

GIULIO VALESINI Aldilà del problema ambientale. Uno potrebbe dire chi se ne frega degli antibiotici nel po’, sarà più curato il Po’. O no? Che ci importa alla fine?

SARA CASTIGLIONI - RICERCATRICE ISTITUTO MARIO NEGRI La presenza degli antibiotici nell'ambiente, in realtà, è un campanello d'allarme perché può fungere da serbatoio di resistenze.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Se qualcuno pensa che la formazione di colonie di batteri resistenti agli antibiotici sia fantascienza compie un errore di presunzione. La lezione viene dall’India, dove eravamo stati tre anni fa.

ANIL DYAKAR - PRESIDENTE GAMANA ONG Lì ci sono le grandi industrie farmaceutiche. Le acque di scarico sono sversate direttamente in questo lago che ormai è completamente inquinato. Puoi vedere anche tu: l’acqua di scarico arriva da lì.

GIULIO VALESINI Da quei buchi laggiù?

ANIL DYAKAR - PRESIDENTE GAMANA ONG Sì.

GIULIO VALESINI Ok. Sversano tutto qui e arriva fino laggiù?

ANIL DYAKAR - PRESIDENTE GAMANA ONG Sì.

GIULIO VALESINI Fino al lago laggiù.

ANIL DYAKAR - PRESIDENTE GAMANA ONG Per tutte le industrie è la stessa cosa: scaricano le loro acque grazie alla pendenza del terreno dall’alto verso il basso.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Lo avevamo documentato nel 2019 a Hyderabad, la capitale farmaceutica dell’india dove hanno gli stabilimenti grandi aziende come Aurobindo, Mylan che producono i farmaci generici che consumiamo tutti i giorni anche in Italia. Soprattutto antibiotici.

GIULIO VALESINI C’è una puzza tremenda qui.

ANIL DYAKAR – PRESIDENTE GAMANA ONG Sì, è tremenda. Ci sono antibiotici, i liquami fognari si mischiano agli scarti industriali ed è per questo che hai quella schiuma lì. Abbiamo raccolto dei campioni delle acque e anche i campioni del suolo e li abbiamo testati nell’ospedale di Lipsia.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Così Hyderabad è diventato il focolaio di un pericolo globale che può arrivare ovunque. Questo è il fiume Musi, analisi di laboratorio hanno trovato batteri con l’enzima New Dheli, che li rende molto resistenti agli antibiotici. Fu isolato per la prima volta su un turista svedese di ritorno dall’India. Nel 2019 è arrivato in Toscana causando più di un centinaio di morti e l’emergenza non è ancora finita.

UOMO Mio padre era una persona che aveva circa 88 anni, una persona in salute. Una mattina, in macchina, ha avuto questo problema. Febbre alta, brividi di lì è iniziato blocco renale, succede un po’ di problemi, non camminava più…

GIULIO VALESINI Erano quelli che potevano sembrare sintomi…

UOMO Di una banale influenza. Il medico mi ha detto: “Guardi, suo padre ha questo batterio” e di lì… non siamo riusciti a fare niente finché è deceduto. Mio padre era 110 chili.

GIULIO VALESINI Era un bell’omone, insomma.

UOMO Era un bell’omone, al momento del decesso era 47 chili.

SAURO LUCHI - PRIMARIO DI MALATTIE INFETTIVE OSPEDALE DI LUCCA Abbiamo ancora a che fare con questo microrganismo. Nel 2021 abbiamo avuto un aumento dei casi, legato soprattutto alla ripresa di tutte le attività chirurgiche. Qualche caso è in tutte le regioni di New Delhi. Noi speriamo di riportare la circolazione di questo microrganismo in termini come dire un pochino più fisiologici.

GIULIO VALESINI Ah quindi è arrivato in tutta Italia questo batterio?

SAURO LUCHI - PRIMARIO DI MALATTIE INFETTIVE OSPEDALE DI LUCCA Sì, ci sono segnalazioni un po’ in tutta Italia.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Se il batterio New Delhi si è formato in India con lo scarto degli antibiotici e si è diffuso nel mondo esportato da un turista. Dopo il covid potrebbe accadere qualcosa di simile da noi, nel lago Maggiore dal 2013 ogni mese i ricercatori del Cnr studiano la relazione fra gli scarichi, soprattutto domestici, nelle acque del lago e la formazione di batteri resistenti agli antibiotici e durante il covid, in seguito all’abuso di Zitromax, si sono accorti che qualcosa è cambiato.

GIANLUCA CORNO – RICERCATORE ECOLOGIA MICROBICA – CNR Abbiamo avuto attraverso il covid, un aumento dell’utilizzo improprio dell’antibiotico Azitromicina. Di fatto, noi per la prima volta, abbiamo trovato nel lago Maggiore in grossa quantità…

GIULIO VALESINI Quindi voi durante il covid avete osservato che si stava sviluppando una resistenza…

 GIANLUCA CORNO – RICERCATORE ECOLOGIA MICROBICA – CNR Diciamo c’erano più resistenze ai macrolidi, quindi alla Azitromicina, nel lago maggiore che ha correlato perfettamente con i primi picchi del coronavirus.

GIULIO VALESINI Quindi diciamo che il lago è un po’ uno specchio dei consumi.

GIANLUCA CORNO – RICERCATORE ECOLOGIA MICROBICA – CNR Questa è una ragione per cui l’antibiotico resistenza andrebbe valutata anche in ambiente. Perché a differenza di altre misure sulle vendite di antibiotici, sul consumo, va a coprire anche tutta quella parte un po’ grigia, di consumo, che poi diciamo non rientra nelle statistiche.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Secondo l'Aifa in Italia su alcune malattie un antibiotico su tre è prescritto dai medici in modo inappropriato: non serve a nulla, se non a rendere più resistenti i batteri.

GIULIO VALESINI Ma come mai secondo lei si prescrivevano così tanti antibiotici?

NICOLA MAGRINI - DIRETTORE GENERALE AIFA Da un lato per incultura.

 GIULIO VALESINI Dei medici? NICOLA MAGRINI - DIRETTORE GENERALE AIFA Dall’altro per tradizioni terapeutiche e dall'altro per un gioco delle attese… Mi aspetto che tu ti aspetti che io faccia qualcuno anche si dice a titolo precauzionale, non si usano antibiotici a titolo precauzionale.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Secondo l’Aifa in Italia sono i medici di base che fanno l’80 percento delle prescrizioni.

GIULIO VALESINI Siete voi che avete la ricetta facile?

VINCENZO SCOTTI- SEGRETARIO GENERALE NAZIONALE FEDERAZIONE ITALIANA MEDICI DI MEDICINA GENERALE Il medico di famiglia quando fa una prescrizione, molte volte fa una prescrizione sulla base di una ricetta che gli arriva da uno specialista.

GIULIO VALESINI Quindi lei dice voi prescrivete l’antibiotico perché a sua volta l’antibiotico è stato prescritto dallo specialista. Poi alla fine la ricetta la fate voi e il cialtrone è lei.

VINCENZO SCOTTI - SEGRETARIO GENERALE NAZIONALE FEDERAZIONE ITALIANA MEDICI DI MEDICINA GENERALE Divento io… il medico di medicina generale ha pochi strumenti diagnostici a disposizione. Il paziente oggi viene da te in prima battuta con un mal di gola, insorto da 12 ore. Puoi essere il miglior medico del mondo, ma non riuscirai a stabilire se quell’arrossamento della gola o l’iperemia sia di tipo batterico o di tipo virale.

GIULIO VALESINI Nel dubbio gli dai l’antibiotico.

VINCENZO SCOTTI - SEGRETARIO GENERALE NAZIONALE FEDERAZIONE ITALIANA MEDICI DI MEDICINA GENERALE In modo preventivo, per gestire l'attesa, eventualmente con una evoluzione che molti anni fa portava più spesso a fenomeni batterici che a fenomeni virali.

GIULIO VALESINI Rimutuando un famoso slogan del ministro Speranza invece che tachipirina e vigile attesa, “antibiotico e vigile attesa”, era questo un po’ il modello.

VINCENZO SCOTTI - SEGRETARIO GENERALE NAZIONALE FEDERAZIONE ITALIANA MEDICI DI MEDICINA GENERALE Vigile attesa e antibiotico, è diverso.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Ma perché molti di loro sono così disattenti? A mettere il sospetto è l’ispezione dell’Ecdc del 2017: “i rappresentanti delle aziende hanno un accesso costante ai medici e sembra che l'industria influenzi le abitudini di prescrizione.”

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO C'è anche l'idea che possano essere le aziende farmaceutiche a spingere molto sulla prescrizione di questi farmaci o a fare molta formazione per i medici, ad esempio.

NICOLA MAGRINI - DIRETTORE GENERALE AIFA Questo è un tema su cui, secondo me, si potrebbe trovare un modo affinché non ci siano convegni mono sponsor, per una formazione che risponda ai bisogni di salute pubblica e non a segnalare un antibiotico così che diventi interessante per pressioni di marketing.

GIULIO VALESINI I medici prescrivono troppi antibiotici perché dietro c'è lo zampino delle aziende farmaceutiche?

SILVIO GARATTINI - PRESIDENTE ISTITUTO MARIO NEGRI E’ chiaro che se l'informazione deriva solo dall'industria, l'industria è logico e in qualche modo normale che abbia l'interesse ad aumentare le sue vendite. Quello che a noi manca in Italia è un'informazione indipendente che non esiste e che dovrebbe essere invece invocata da tutti gli ordini dei medici. Perché dovrebbero essere i medici a dire non possiamo essere schiavi dell'informazione di parte.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Tra le più influenti società di formazione c’è la Metis, di proprietà del sindacato dei medici di base, la Fimmg. È una società che fattura quasi tre milioni di euro. Nei suoi bilanci la Metis parla sempre di contributi non condizionanti dall’industria. Eppure, nella relazione sulla gestione 2021 indirizzata proprio al socio unico Fimmg si arriva a definire le aziende farmaceutiche come “clientela”.

GIULIO VALESINI Le aziende farmaceutiche sono i vostri clienti?

VINCENZO SCOTTI - SEGRETARIO GENERALE NAZIONALE FEDERAZIONE ITALIANA MEDICI DI MEDICINA GENERALE Mi faccia meglio la domanda.

GIULIO VALESINI Ho letto la relazione del bilancio Metis 2021. E dice che le aziende farmaceutiche sono definite come clientela che sponsorizza la formazione dei medici. A me ha fatto un po’ effetto.

VINCENZO SCOTTI - SEGRETARIO GENERALE NAZIONALE FEDERAZIONE ITALIANA MEDICI DI MEDICINA GENERALE Questa cosa qua rientra nella dinamica che lei conosce, prevista per la normativa di legge. Non è in contrasto con la legge.

GIULIO VALESINI Ma sono clienti le aziende farmaceutiche? Siccome il cliente c’ha sempre ragione… non vorrei che.

VINCENZO SCOTTI - SEGRETARIO GENERALE NAZIONALE FEDERAZIONE ITALIANA MEDICI DI MEDICINA GENERALE Mica sempre.

GIULIO VALESINI Spesso.

VINCENZO SCOTTI - SEGRETARIO GENERALE NAZIONALE FEDERAZIONE ITALIANA MEDICI DI MEDICINA GENERALE Mica sempre.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Volevamo documentare il congresso della Fimmg organizzato a ottobre in Sardegna dalla Metis. Ci hanno negato l’accesso. Sarà un caso ma lo stesso giorno in cui avevamo chiesto l’accredito era previsto l’intervento dell’allora ministro Roberto Speranza che dopo lo scoop sul piano pandemico italiano mai aggiornato e mai attuato non ha mai voluto incontrarci.

GIULIO VALESINI Vedo che il giorno in cui devo andare io vedo Speranza, dico. Eccola là…

VINCENZO SCOTTI - SEGRETARIO GENERALE NAZIONALE FEDERAZIONE ITALIANA MEDICI DI MEDICINA GENERALE Non credo che abbiamo niente da nascondere, sinceramente.

GIULIO VALESINI Quindi ve l’ha chiesto lo staff del ministro?

VINCENZO SCOTTI - SEGRETARIO GENERALE NAZIONALE FEDERAZIONE ITALIANA MEDICI DI MEDICINA GENERALE Ah?

GIULIO VALESINI Quindi ve l’ha chiesto lo staff del ministro. Le viene un po’ da ridere?

VINCENZO SCOTTI - SEGRETARIO GENERALE NAZIONALE FEDERAZIONE ITALIANA MEDICI DI MEDICINA GENERALE No, su questo sia assolutamente tranquillo, anzi se posso fare qualcosa per riappacificarvi.

GIULIO VALESINI Adesso faremo pace.

VINCENZO SCOTTI - SEGRETARIO GENERALE NAZIONALE FEDERAZIONE ITALIANA MEDICI DI MEDICINA GENERALE Nei limiti chiaramente del vostro diritto di inchiesta e del diritto di posizione di Roberto.

GIULIO VALESINI Mi fa impazzire che lei lo chiama Roberto.

VINCENZO SCOTTI - SEGRETARIO GENERALE NAZIONALE FEDERAZIONE ITALIANA MEDICI DI MEDICINA GENERALE Ma le ripeto, io personalmente con il ministro, ho creduto molto in un rapporto personale, a prescindere da quelli che erano i ruoli.

GIULIO VALESINI Si è anche presentato a Napoli.

VINCENZO SCOTTI - SEGRETARIO GENERALE NAZIONALE FEDERAZIONE ITALIANA MEDICI DI MEDICINA GENERALE Tanto lo scopre... era nel mio collegio.

GIULIO VALESINI Ah, sì?

VINCENZO SCOTTI - SEGRETARIO GENERALE NAZIONALE FEDERAZIONE ITALIANA MEDICI DI MEDICINA GENERALE Eh, sì!

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Eh, sì. Però sono ancora tanti i medici prescrivono antibiotici anche quando non servirebbero. Secondo l’Aifa, le prescrizioni inappropriate arriverebbero a punte del 30 percento. I medici avrebbero anche prescritto con facilità, anche sotto il covid. I batteri ringraziano pagheremo le conseguenze in futuro perché si formano delle colonie resistenti, come abbiamo visti. Ora la ricetta facile è una questione culturale, ma anche di formazione che è quella dei medici poi viene spesso finanziata dalle stesse case farmaceutiche, le stesse che in questi anni non hanno sviluppato nuovi antibiotici. Perché è costoso, può arrivare a costare sino a un miliardo, un miliardo e mezzo, e poi non conviene perché non le puoi usare con grande, in grande intensità, perché poi li rendi inefficaci e formi batteri resistenti, come abbiamo visto. E’ per questo che la comunità europea, la commissione europea, sta studiando una forma di incentivo per sviluppare nuovi farmaci e renderli soprattutto permanenti perché sono preziosi. E poi senza aspettare insomma di dover trattare in emergenza, con le case farmaceutiche visto che loro son molto brave a trattare in queste situazione, con i vaccini hanno staccato manager e azionisti, dei dividenti mostruosi. Ora la speranza dell’umanità è chiusa nelle celle frigorifere di qualche piccola azienda.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO La Bayer ha venduto il dipartimento di ricerca sugli antibiotici nel 2005. Anche giganti come Astrazeneca, Sanofi e Novartis in questi anni hanno abbandonato. Pfizer, nonostante gli incassi da capogiro con i vaccini, non sta sviluppando nuovi antibiotici. A fare ricerca sono rimaste le piccole aziende, come Antabio a Tolosa, dove Marc Lemonnier sperimenta tre nuove molecole.

MARC LEMONNIER - FONDATORE ANTABIO L'industria farmaceutica ha abbandonato il campo per dedicarsi ad altri settori più interessanti dal punto di vista commerciale: non puoi costringere nessuno a perdere i soldi, nemmeno i più ricchi.

GIULIO VALESINI Lei si accolla un rischio che aziende ricche non si prendono. Chi glielo fa fare?

MARC LEMONNIER - FONDATORE ANTABIO Stavo assistendo all'abbandono del campo dell'industria di punta. Tutti conosciamo persone che stanno male. Bisognava fare qualcosa. Il cancro e l’antibiotico resistenza, sono ormai emergenze globali di simili proporzioni, eppure ci sono solo 80 antibiotici in fase di sviluppo clinico contro 2000 prodotti antitumorali.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO In queste celle frigorifere sono conservati campioni di vari batteri, tra cui uno del ceppo New Delhi che in Toscana ha fatto una strage di anziani e fragili. Antabio sta terminando la prima fase di sperimentazione sulle sue nuove molecole.

GIULIO VALESINI La sua speranza qual è che queste tre nuove molecole arrivino ad essere quasi messe in commercio e poi arrivi una azienda e le compri il brevetto?

MARC LEMONNIER - FONDATORE ANTABIO Sì, il nostro modello di business è esattamente questo. Una volta dimostrato che la molecola è sicura ed efficace, speriamo di siglare un accordo con una grande azienda farmaceutica. La soluzione è dare incentivi all'industria per farla tornare ad investire sugli antibiotici.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Ma su che tipo di incentivo dare alle aziende farmaceutiche si sta giocando una partita senza esclusione di colpi a Bruxelles, un’occasione unica dove la Commissione sta riscrivendo le regole europee del settore farmaceutico. In ballo ci sono miliardi di euro.

ROSA CASTRO - COORDINATRICE EPHA - ALLEANZA EUROPEA PER LA SALUTE PUBBLICA Quello che sta succedendo qua è, diciamo unico, lo si vede nel giro di qualche decennio. La Commissione ha già cominciato a lavorare su questa revisione della legislazione generale farmaceutica, già da un paio d'anni.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Al centro delle trattative ci sono varie idee: un abbonamento, ossia un paese paga all’azienda farmaceutica una cifra fissa per uno o più nuovi antibiotici, indipendentemente dalla quantità venduta. C’è il modello a entrate garantite con cui i governi compensano le aziende se i fatturati realizzati con i nuovi antibiotici sono minori di una soglia garantita. Poi c’è l’idea di una tassa extra per le aziende che non investono in antibiotici, per contribuire a un fondo dedicato allo sviluppo di nuovi farmaci per contrastare i batteri resistenti. Ma nessuna di queste ipotesi piace a Big Pharma.

JIM O'NEILL - ECONOMISTA Osservo le grandi aziende farmaceutiche e ho il sospetto che con gli antibiotici si comportino in modo cinico. Aspettano che il problema diventi grosso perché sanno che i governi, quando allora la tv e i giornali ne parleranno 24h al giorno, ci butteranno su un sacco di soldi. E quindi sanno che verranno pagati bene. Lo abbiamo visto già con i vaccini del Covid.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Ma il modello su cui punta davvero Big Pharma è il voucher. Funziona così: l’azienda che sviluppa un nuovo antibiotico riceve un buono che gli permette di allungare fino a 12 mesi l'esclusiva sul mercato europeo, cioè non far entrare generici che abbasserebbero i guadagni. Ma qui c’è il business: il buono si può vendere, a caro prezzo, a un’altra azienda che può utilizzarlo per altri tipi di farmaci molto più costosi e di largo consumo. E a pagare i governi e i pazienti europei.

ROSA CASTRO - COORDINATRICE EPHA - ALLEANZA EUROPEA PER LA SALUTE PUBBLICA Ci troviamo un mercato di cui noi non sappiamo in verità quali sono i costi reali di ricerca e sviluppo. Ci viene sempre detto che sono molto alti, ma non sappiamo quanto sono alti. Non sappiamo nemmeno i prezzi finali.

CATALDO CICCOLELLA Un antibiotico che è costato 100, potrebbe poi valere un rimborso invece tramite il voucher da mille.

ROSA CASTRO - COORDINATRICE EPHA - ALLEANZA EUROPEA PER LA SALUTE PUBBLICA Esattamente.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Ma la cosa più appetibile per le aziende farmaceutiche è che il voucher lo puoi rivendere all’asta a un’altra impresa a prezzi altissimi. Si pensa così di ricompensare la ricerca con un mega profitto.

CHRISTINE ARDALL - RICERCATRICE ISTITUTO NORVEGESE DI SANITÀ PUBBLICA Il valore potrebbe essere compreso tra i 3 e i 5 miliardi.

GIULIO VALESINI Da 3 a 5 miliardi? ok, è molto caro.

CHRISTINE ARDAL - RICERCATRICE ISTITUTO NORVEGESE DI SANITÀ PUBBLICA È molto caro!

GIULIO VALESINI Chi ci garantisce che una volta che abbiamo pagato un voucher molto costoso, poi l'antibiotico veramente rimanga sul mercato per anni?

CHRISTINE ARDAL - RICERCATRICE ISTITUTO NORVEGESE DI SANITÀ PUBBLICA Nessuno. È una transazione una tantum. Se si scopre un grave effetto collaterale dopo aver pagato il voucher, è finita. L'avete pagato, ma non avete accesso anche se l'azienda fallisce.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO A condurre le trattative per le aziende del farmaco europee è Efpia, l'influente associazione di categoria guidata da Nathalie Moll.

NATHALIE MOLL - FEDERAZIONE EUROPEA DELLE INDUSTRIE E DELLE ASSOCIAZIONI FARMACEUTICHE Il costo beneficio è 10 a uno e il beneficio maggiore è salvare delle vite umane. Oggi un parto cesareo è rischioso, oggi un intervento ai denti. Oggi qualcuno che prende chemioterapia potrebbe morire non di cancro ma di infezioni. Questo è scandaloso, questo è il problema che andiamo a risolvere.

GIULIO VALESINI Avete il coltello dalla parte del manico. Dite ok, qui rischiamo di morire tutti e l'emergenza sanitaria è forte. Se volete un nuovo antibiotico, accettate le nostre condizioni.

NATHALIE MOLL - FEDERAZIONE EUROPEA DELLE INDUSTRIE E DELLE ASSOCIAZIONI FARMACEUTICHE Altre soluzioni non ce ne sono oggi come oggi. Ci mettiamo 10- 15 anni per dare un prodotto, ma c'è l'aggiunta difficoltà di produrre dei prodotti che siano tossici per dei batteri ma non tossici per l'uomo. E questo diciamo rende le cose molto difficili.

GIULIO VALESINI Voi adesso state aspettando che l'Europa finanzi degli incentivi, vi dia una carota al traguardo.

NATHALIE MOLL - FEDERAZIONE EUROPEA DELLE INDUSTRIE E DELLE ASSOCIAZIONI FARMACEUTICHE Questi incentivi non sono soldi.

GIULIO VALESINI Voi chiedete il prolungamento dell'esclusività della commercializzazione di un prodotto no.

NATHALIE MOLL - FEDERAZIONE EUROPEA DELLE INDUSTRIE E DELLE ASSOCIAZIONI FARMACEUTICHE Se dovessimo basare il prezzo del primo antibiotico che uscirà su tutti i fallimenti passati, sarebbe un costo esorbitante. Invece quello che noi proponiamo di fare è di modulare il voucher in base al beneficio.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Nel 2020 le multinazionali del farmaco hanno lanciato un fondo: Action fund prevedono di investire un miliardo di euro in 10 anni su promettenti start-up con farmaci in fase avanzata di sperimentazione, per sviluppare quattro nuovi antibiotici entro il 2030.

NATHALIE MOLL - FEDERAZIONE EUROPEA DELLE INDUSTRIE E DELLE ASSOCIAZIONI FARMACEUTICHE Siccome nessuno fa niente, quindi noi come industrie abbiamo investito un miliardo di euro per arrivare a produrre fra due e quattro.

GIULIO VALESINI Chi è che non fa niente?

NATHALIE MOLL - FEDERAZIONE EUROPEA DELLE INDUSTRIE E DELLE ASSOCIAZIONI FARMACEUTICHE Non abbiamo altre soluzioni.

GIULIO VALESINI Chi è che dice… visto che nessuno fa niente, a chi si riferisce?

NATHALIE MOLL - FEDERAZIONE EUROPEA DELLE INDUSTRIE E DELLE ASSOCIAZIONI FARMACEUTICHE I governi.

GIULIO VALESINI Non le sembra un po’ ipocrita cioè io come azienda non investo più. Poi faccio un fondo comune, lo annuncio e agli occhi dell'opinione pubblica degli Stati sto dicendo:” guarda che a me interessa eccome. Muoviti anche tu, dammi il voucher”

NATHALIE MOLL - FEDERAZIONE EUROPEA DELLE INDUSTRIE E DELLE ASSOCIAZIONI FARMACEUTICHE Dobbiamo trovare soluzioni non tradizionali a un problema urgente. Forse il problema sanitario più urgente che ci sia.

HENRY SKINNER - AMR ACTION FUND Credo che gli incentivi siano fondamentali. Se vogliamo riportare i finanziamenti nell'innovazione degli antibiotici, deve esserci un modo per ricompensare gli innovatori.

GIULIO VALESINI Action Fund dichiara di fare lobbismo. Non è che tutta questa partita è un modo per poi potersi sedere un domani al tavolo e dire io ho investito dei soldi, per la salute pubblica, dammi i voucher domani?

HENRY SKINNER - AMR ACTION FUND Noi non facciamo lobbismo. Cerchiamo di aiutare i politici a capire che è necessario trovare una soluzione per riportare gli investimenti nel settore.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Action fund gode di uno sponsor influente: l'Oms e il suo gran capo, il direttore generale Tedros Ghebreyesus che a novembre 2020 ha benedetto pubblicamente l'iniziativa di Big Pharma.

VIDEO TEDROS GHEBREYESUS - DIRETTORE GENERALE OMS L'Oms non vede l'ora di collaborare con Action fund, e con chi è coinvolto, per accelerare la ricerca per affrontare questa crisi di salute pubblica.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Per la ricerca di base su nuovi antibiotici, Stati Uniti Inghilterra e Germania hanno investito denaro pubblico sul fondo CARB-X dove dentro ci sono anche i soldi privati del Wellcome trust e della fondazione che fa capo a Bill Gates, 360 milioni di euro.

GIULIO VALESINI La fase iniziale la pagate voi con i soldi pubblici e poi la molecola promettente che arriva in fondo viene acquistata da una grande società farmaceutica. Il brevetto, al tavolo con il regolatore ci si siederà l’azienda farmaceutica.

DAMIANO DE FELICE - DIRETTORE DELLO SVILUPPO - CARB-X Ma questo brevetto che l'impresa farmaceutica ha avrà attaccato, queste obbligazioni contrattuali che seguono il progetto in cui si impegnano ad avere un piano d'azione per espandere l'accesso e garantire l'uso responsabile come parte di questi obblighi contrattuali, ci sarà sicuramente il fatto che non possano fare troppi soldi e troppi profitti.

GIULIO VALESINI Cioè riuscirete a mettere un tetto ai soldi che un'azienda farmaceutica potrà fare con gli antibiotici?

 DAMIANO DE FELICE - DIRETTORE DELLO SVILUPPO - CARB-X Noi chiediamo che questo piano d'azione sia pubblico, quindi l'impresa deve dimostrare e sarà sul nostro sito e sarà disponibile a chiunque possa consultarlo.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Intanto la Commissione europea tramite un’agenzia ha indetto un bando di gara per realizzare uno studio sull'introduzione sul mercato di contromisure mediche per l’antibiotico resistenza. Servirà per orientare la selezione, il rimborso e l’incentivo di nuovi farmaci. E a chi lo ha affidato? A PricewaterhouseCoopers, la società di revisione e consulenza. Ma il gruppo PwC è stato partner di Efpia, la società che fa attività di lobbying per aziende farmaceutiche. E fa consulenza a svariate Big Pharma.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO A Bruxelles, al riparo da occhi indiscreti, incontriamo un importante dirigente sanitario che conosce bene la vicenda.

DIRIGENTE SANITARIO PwC non è certamente il massimo dell’indipendenza. E poi ha messo a lavorare su questa ricerca molti giovani che non hanno idea nemmeno di cos’è l’antibiotico resistenza. Ogni tanto mi chiamano per chiedermi che cosa scrivere. Pensi c’è uno che analizza i dati e viene dall’industria dei servizi offshore di Cipro.

GIULIO VALESINI Come è possibile che la Commissione non si sia accorta di nulla?

DIRIGENTE SANITARIO C’è stata superficialità, ma sapevano bene chi è PwC e per chi lavora di solito. Il rischio è che lo studio finale sia ridicolo oppure sbilanciato verso le multinazionali.

GIULIO VALESINI Eppure è costato un milione di euro!

DIRIGENTE SANITARIO Se lo chiedevano a me o a qualche accademico, lo avremmo scritto gratis, magari solo con un rimborso spese.

SIGFRIDO RANUCC IN STUDIO Abbiamo una consapevolezza: questa è l’emergenza sanitaria del futuro, facciamo qualcosa o aspettiamo di soccombere sotto gli eventi come è successo nella pandemia del covid già annunciata e aspettiamo di andare a trattare con l’acqua alla gola con le case farmaceutiche? Ora la proposta di un’agenzia pubblica per la ricerca dello sviluppo di nuovi farmaci per contrastare i batteri resistenti è arrivata da un italiano, l’ha presentata al parlamento europeo, è il professore della Statale di Milano, Massimo Florio. Speriamo che la Commissione la accolga anche perché abbiamo capito che con gli antibiotici non c’è da fare affari. È per questo che le case farmaceutiche se non annusano il business non si mettono in gioco, puntano infatti in questa vicenda all’incentivo, al voucher. Però insomma un voucher che gli consentirà di incassare a prescindere dal farmaco, a prescindere dal tempo. Ma dovranno lottare perché non tutti i paesi europei d’accordo, in 14 hanno scritto pochi giorni fa alla Commissione europea cioè quei paesi, soprattutto la Germania, che secondo mister O‘Neill hanno i lobbisti più ascoltati dalla presidente Von der Leyen. Insomma, vedremo come andrà a finire. Certo che bisognerà fare qualcosa se non vogliamo in un futuro cominciare a contare i milioni di morti, secondo le stime, morti che se ci saranno sarà per responsabilità della negligenza di chi abbiamo visto.

Scarlattina e altre infezioni da streptococco A, aumentano i casi e i decessi tra i bambini europei. Ruggiero Corcella su Il Corriere della Sera il 15 Dicembre 2022.

È l'allerta lanciata da Oms-Ecdc. In Francia, Irlanda, Paesi Bassi, Svezia e Regno Unito segnalato un aumento di malattia invasiva (iGas) tra i piccoli sotto i dieci anni

Crescono fra i bimbi europei i casi di malattia invasiva e i morti da streptococco di gruppo A. L’allerta arriva dall’Organizzazione mondiale della sanità-Ufficio regionale per l’Europa e dal Centro europeo per il controllo e la prevenzione delle malattie (Ecdc), in una dichiarazione congiunta. «Diversi Paesi europei, tra cui Francia, Irlanda, Paesi Bassi, Svezia e Regno Unito, hanno segnalato un aumento nel 2022, in particolare da settembre, del numero di casi di malattia invasiva da streptococco di gruppo A (iGas) tra i bambini sotto 10 anni di età», spiegano Oms Europa ed Ecdc.

«Nello stesso periodo, sempre tra gli under 10, sono stati segnalati diversi decessi associati all’infezione batterica, anche in Francia, Irlanda, Spagna e Regno Unito. In Francia e nel Regno Unito il numero di casi di malattia invasiva osservati nei bambini è stato di molte volte superiore ai livelli pre-pandemia», relativi allo stesso periodo di tempo. Gli aumenti sono stati osservati e segnalati all’Oms Europa e all’Ecdc dopo un periodo di ridotta incidenza di infezioni da streptococco di gruppo A durante la pandemia di Covid-19.

Il ruolo di influenza e virus respiratorio sinciziale

«È probabile — ipotizzano gli esperti — che l’aumento dei casi di malattia invasiva sia anch e associato al recente aumento della circolazione di virus respiratori, tra cui l’influenza stagionale e il virus respiratorio sinciziale, poiché la coinfezione dei virus con lo streptococco A può aumentare il rischio di malattia». Gli streptococchi di gruppo A - si legge nella nota - sono la causa più comune di faringite batterica nei bambini in età scolare. Le infezioni con questi batteri di solito causano malesseri lievi tra cui mal di gola, mal di testa e febbre, insieme a un’eruzione cutanea fatta di macchioline rosse e sottili (scarlattina). L’incidenza della faringite da Gas di solito raggiunge il picco durante i mesi invernali e all’inizio della primavera in Europa. Le epidemie negli asili e nelle scuole sono frequentemente segnalate.

La situazione in Italia

«Se certi paesi riferiscono un aumento di casi per queste patologie, è giusto che le autorità sanitarie internazionali allertino i sistemi nazionali», commenta il professor Giuseppe Banderali, vicepresidente della società italiana di pediatria e direttore della Struttura complessa di Pediatria, ospedale San Paolo di Milano. «In Italia, a quanto mi risulta, la situazione è al momento sotto controllo . Negli ultimi due mesi abbiamo assistito anche da noi a un incremento di patologie infettive e influenzali nei bambini sotto i sei anni, ma come accadeva di solito nel periodo pre-pandemico».

Che cos’è l’infezione da Streptococco di gruppo A (invasiva)

Lo streptococco di gruppo A è un batterio comunemente presente in gola e sulla pelle. Nella maggior parte dei casi scatena infezioni di lieve entità, ma a volte può essere associato a malattie serie e pericolose per la salute. L’infezione da streptococco di gruppo A presenta i suoi sintomi e malattie associate quando riesce a sopraffare le difese dell’organismo della persona infettata, ad esempio perché sono presenti ferite attraverso cui riesce a penetrare in profondità nei tessuti, oppure a causa di malattie che indeboliscono il sistema immunitario. Inoltre alcuni ceppi di questo batterio scatenano infezioni più gravi rispetto ad altri e il motivo di questa maggiore pericolosità non è stato ancora del tutto chiarito, ma sembra che ad entrare in gioco sia la produzione di tossine in grado di causare danni agli organi e shock e di enzimi che distruggono i tessuti.

Come si contrae

L’infezione da streptococco di gruppo A si trasmette per contatto diretto con le secrezioni provenienti dalla gola o dal naso di individui infetti o con lesioni cutanee infette. Anche i portatori asintomatici possono trasmetterla, ma l’infezione asintomatica è molto meno contagiosa. Lo streptococco di gruppo A può colonizzare la gola e la pelle restando asintomatica. L’infezione invasiva è una condizione grave, a volte pericolosa per la vita, in cui i batteri si sono disseminati nel corpo, ad esempio nel sangue, nei muscoli profondi, nel tessuto adiposo o nei polmoni.

Come si può diagnosticare

La diagnosi avviene mediante test rapido di rilevazione dell’antigene e/o coltura batterica e viene trattata con antibiotici e cure di supporto. In rari casi, questi batteri possono anche causare un’infezione grave e pericolosa per la vita nota come malattia iGas, che può manifestarsi come batteriemia, polmonite o infezione della pelle e delle ossa (cellulite, osteomielite, fascite necrotizzante). I bambini con infezioni virali in corso come l’influenza o la varicella sono a maggior rischio di sviluppare la malattia invasiva.

Rischio basso per la popolazione generale

Queste infezioni sono soggette a denuncia solo in un numero limitato di Paesi europei. È quindi difficile valutare in questo momento il livello complessivo di circolazione nella regione, puntualizzano Oms Europa ed Ecdc. «Sebbene le indagini siano in corso, i primi dati di tipizzazione — riportano — suggeriscono che l’ondata di casi non è correlata a un ceppo specifico o nuovo, né a un aumento della resistenza agli antibiotici» da parte degli streptococchi gruppo A. Visti questi elementi e il fatto che l’attuale aumento dei casi di malattia invasiva è nel complesso relativamente basso, il rischio viene attualmente valutato come basso per la popolazione generale da parte di Oms Europa ed Ecdc. Ma, avvertono i due organismi, «ci sarà una rivalutazione man mano che le indagini proseguono».

Serve una maggiore vigilanza

E «tutti i Paesi europei dovrebbero essere vigili su un simile aumento dei casi tra i bambini», soprattutto considerando l’aumento della circolazione dei virus respiratori che si sta verificando in tutta Europa. Ridurre la trasmissione di GAS contribuirà a ridurre il rischio di grave infezione da iGAS. Il riconoscimento precoce dell’iGAS e il tempestivo inizio di una terapia specifica e di supporto per i pazienti possono salvare la vita.

Le autorità sanitarie pubbliche dovrebbero quindi prendere in considerazione attività per sensibilizzare i medici e il pubblico in generale e incoraggiare test e trattamenti tempestivi delle infezioni da GAS secondo le linee guida nazionali. Le infezioni da GAS dovrebbero essere incluse nella diagnosi differenziale dei bambini che presentano gravi sindromi respiratorie e di quelli con precedente infezione virale (compresa la varicella), così come di quelli che sono stati a stretto contatto con pazienti affetti da scarlattina. I contatti stretti dei casi iGAS dovrebbero essere identificati, valutati e gestiti secondo le linee guida nazionali.

Più grave del Covid ma meno contagiosa. Cos’è l’ influenza del Cammello: sintomi, trasmissione, contagi in Italia e perché si temono i rientri dal Qatar. Elena Del Mastro su Il Riformista il 14 Dicembre 2022

Nel periodo delle influenze e del “liberi tutti” deli virus, se ne fa largo un altro: si chiama Mers, meglio come conosciuto come “influenza del cammello” perché è una forma virale che passa dai cammelli all’uomo. Non è sconosciuto, in Italia è stato segnalato già nel 2012 ma i primi casi sono stati rilevati in Qatar. E da qui la preoccupazione per i rientri dai mondiali. Secondo le autorità può essere più letale del Covid.

Che cos’è l’influenza del cammello

Mers sta per Middle East Respiratory Syndrome” ovvero sindrome respiratoria mediorientale. Appartiene alla famiglia del coronavirus ed è un’infezione delle vie respiratorie molto severa. È conosciuta come “influenza del cammello” perché è una forma virale che passa dal cammello all’uomo.

Quali sono i sintomi

I sintomi dell’influenza del cammello possono essere simili a quelli classici dell’influenza alle vie respiratorie, febbre, tosse, e possono portare a polmonite con respiro corto e difficoltà respiratorie. In alcuni casi gravi i sintomi possono degenerare in problemi gastrointestinali e insufficienza renale. Le forme più gravi sembrerebbero colpire maggiormente le persone anziane, immunodepresse e chi soffre di problemi polmonari cronici, diabete e malattie renali.

Come avviene il contagio

Come per tutti i virus basta entrare in contatto con persone già infette per rischiare il contagio. Non solo: può avvenire stando a stretto contatto con i cammelli, consumando alimenti derivati da questi animali, come ad esempio il latte, soprattutto se non è stato pastorizzato. Il contagio da persona a persona è possibile ma l’Oms lo riporta come caso piuttosto raro, che si verifica più spesso fra membri dello stesso nucleo familiare o all’interno di strutture sanitarie. Il virus è stato segnalato per la prima volta nel 2012 in Arabia Saudita, poi si è diffuso prevalentemente nei paesi medioriantali come Tunisia, Emirati Arabi Uniti, Bahrain, Egitto, Iran, Giordania, Kuwait, Libano, Oman, Qatar e Yemen. I casi di contagio degli ultimi anni sono avvenuti principalmente in soggetti a stretto contatto con gli animali.

I numeri del contagio

Secondo l’Oms dal 2012 ad oggi sono stati diagnosticati 2.600 casi di mers nel mondo, soprattutto nei paesi medio orientali. Fra essi in 935 sono stati fatali, pari al 36% del totale. Dunque, dati alla mano, questo tipo di influenza è molto più letale del Covid, perché quest’ultimo ha una mortalità del 4%. Allo stesso tempo, Mers è molto meno contagiosa del Covid: in circa due anni di pandemia da Covid-19 l’Oms ha registrato più di 645 milioni di contagi (e oltre 6 milioni di morti).

Inghilterra e Australia hanno diramato una nota con specifici consigli per chi viaggia in medio oriente specificando che “chiunque viaggi dal Medio Oriente, incluso il ritorno in Australia dopo aver partecipato alla Coppa del Mondo FIFA 2022, dovrebbe essere a conoscenza della sindrome respiratoria mediorientale (MERS)”. Non ci sono allerte al momento, ma un invito a prestare attenzione ai sintomi per chi ha viaggiato nelle zone “di interesse”

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Peste suina africana: cos’è e quali sono i rischi per l’uomo e per gli animali. Chiara Nava il 17 gennaio 2022 su Notizie.it.

Allarme per la peste suina africana anche in Italia. Si tratta di una malattia virale dei suini e dei cinghiali selvatici, solitamente letale.

La peste suina africana è una malattia virale dei suini e dei cinghiali selvatici, che può essere letale. Essendo altamente trasmissibile gli allevamenti di maiali e il commercio della carne suina è a rischio.

Peste suina africana: cos’è e quali sono i rischi per l’uomo e per gli animali

In Italia è scattato l’allarme per la peste suina africana, soprattutto in alcune regioni, come Piemonte, Liguria e Lombardia. Si tratta di una malattia virale dei suini e dei cinghiali selvatici, solitamente letale. È altamente trasmissibile, anche tra gli esseri umani, per questo mette a rischio gli allevamenti di maiali e il commercio di carni suine. Il virus può resistere per anni nella carne congelata e viene reso inattivo solo dalla cottura o da specifici disinfettanti.

I sintomi sono simili a quelli della peste suina classica, come febbre, perdita di appetito, debolezza, aborti spontanei, emorragie interne con emorragie evidenti su orecchie e fianchi. I ceppi più aggressivi sono letali. Gli animali che superano la malattia restano portatori del virus per un anno. Si tratta di un virus con una buona resistenza in ambiente esterno e può rimanere vitale fino a 100 giorni, sopravvivendo all’interno di salumi e resistendo alla temperatura per diversi mesi. 

Peste suina africana: prevenzione, cure e vaccini

La malattia si diffonde per il contatto tra animali infetti o tramite la puntura di vettori, come le zecche. La trasmissione si verifica attraverso attrezzature e indumenti contaminati o con la somministrazione ai maiali di scarti di cucina contaminati. La prevenzione viene effettuata tramite la sorveglianza passiva negli allevamenti domestici e sulle carcasse di cinghiale, il rispetto delle misure di biosicurezza negli allevamenti suini, il controllo dei prodotti importati e la sorveglianza sullo smaltimento dei rifiuti alimentari.

Nei Paesi infetti avviene l’abbattimento e la distruzione dei suini positivi e degli altri suini presenti nell’allevamento infetto. Sono molto importanti l’individuazione precoce e la delimitazione tempestiva delle zone infette, oltre il rintraccio, al controllo delle movimentazioni di suini vivi e derivati, le operazioni di pulizia e disinfezione e le indagini epidemiologiche. Al momento non esistono cure o vaccini. 

Peste suina africana: allarme in Italia

In Italia è scattato l’allarme per un caso riscontrato in Piemonte. Nelle analisi della carcassa di un cinghiale di Ovada, in provincia di Alessandria, è stato rilevato un caso di peste suina. L’analisi è stata trasmessa al ministero della Salute e verrà trasmesso alla Commissione Europea e all’Organizzazione mondiale della Sanità animale. In Piemonte al momento ci sono 5 animali infetti e 78 comuni nell’area di controllo. “A oggi abbiamo 5 casi in un’area che si era pensato di circoscrivere in 40 comuni, sono poi passati a 54 e oggi siamo a 78 nel Piemonte. Attendiamo nelle prossime ore l’ordinanza ministeriale che determini l’area esatta di circoscrizione e tutti i provvedimenti per contenere ed eradicare il focolaio dal Piemonte e dalla Liguria, che indicativamente ha altrettanti comuni coinvolti in questa triste vicenda” ha dichiarato Luigi Icardi, assessore alla Sanità. Si tratta della seconda ondata di peste suina africana, dopo quella del 1978 in Sardegna. La Regione Lombardia ha istituito una task force per prevenire e contrastare la malattia. Le organizzazioni agricole temono sia l’aspetto sanitario che quello economico e ritengono che sia stato fatto poco per bloccare la proliferazione di cinghiali. 

L’altra pandemia: il colera di 49 anni fa. Annabella De Robertis  su la Gazzetta del Mezzogiorno il 10 Settembre 2022

«Il colera può colpire ancora», si legge su La Gazzetta del Mezzogiorno del 10 settembre 1973. Nell’estate di 49 anni fa l’epidemia di colera colpì l’Italia: epicentro fu la città di Napoli e poi Bari. In prima pagina sulla Gazzetta una foto di Luca Turi ci mostra la Basilica di San Nicola con le porte sbarrate: «È stata ieri la seconda domenica senza messe per i baresi, dopo la chiusura delle chiese ordinata dal mons. Mincuzzi come misura di prevenzione contro l’infezione», recita la didascalia.

​​Tutto è iniziato nel mese di agosto: a Napoli si registrano alcuni casi di gastroenterite acuta, che non destano particolare allarme. In pochi giorni, identificata la malattia infettiva, nuovi casi si verificano a Bari, a Foggia e poi nel resto del paese.

Il 10 settembre il direttore sanitario del Policlinico esorta a non abbandonarsi a facili euforie dopo la diffusione dei dati leggermente in miglioramento. «Sul fronte del colera in Puglia si continua a lottare. Diminuisce in totale il numero dei sospetti colerosi ricoverati in tutta la regione, perché ieri sono state dimesse dagli ospedali 50 persone che erano state trattenute in osservazione: dopo le analisi, è stato accertato che non avevano vibrioni in corpo. Però sono state ricoverate nella stessa giornata altre 23 persone. Dei 262 pazienti che restano ancora isolati, 98 hanno certamente il colera. La cifra dei morti resta quella: 7 deceduti per colera, due deceduti per altre cause mentre erano ricoverati per l’epidemia».

Si teme che da un momento all’altro possa verificarsi una recrudescenza epidemiologica: scatta, così, l’operazione «richiamo» per chi si è già vaccinato e intende completare il ciclo immunizzante. Ancora sulle pagine della Gazzetta: «Vaccino ce n’è in abbondanza. Dobbiamo chiedere ai cittadini di non affollarsi negli ambulatori», dichiara il prof. Ermanno Piré, ufficiale sanitario. Egli aggiunge: «Penso di poter dichiarare che qui a Bari l’infezione è dominata e lo dico ad orgoglio di tutti i cittadini baresi. Occorre però che tutti continuino ad osservare le norme igieniche personali ed alimentari che abbiamo indicate nel decalogo della salute. Igiene, igiene, soprattutto igiene». In realtà l’emergenza durerà ancora per alcune settimane, tanto che le scuole apriranno quell’anno in ritardo.

Nel frattempo, le autorità sanitarie baresi rivolgono un importante invito: «I polpi vanno mangiati cotti! Tenuto conto del particolare momento epidemiologico, e considerate le abitudini alimentari di alcuni strati della popolazione cittadina, si precisa che è proibito l’arricciamento dei polpi e simili».

·        Virus, batteri, funghi.

Un virus congelato per 48.500 anni nel permafrost è tornato in vita. Cristina Marrone su Il Corriere della Sera il 28 Novembre 2022

L’incremento delle temperature potrebbe causare il «risveglio» di patogeni antichi di decine di migliaia di anni. Sette «virus giganti» hanno conservato la loro capacità infettiva e si sono replicati in laboratorio

Gli scienziati hanno scoperto sette tipi di virus rimasti congelati e sepolti per migliaia di anni nel permafrost siberiano e li hanno riportati in vita in laboratorio, dove si sono replicati. Nonostante possa sembrare molto rischioso, secondo il team di ricercatori questo genere di indagine è fondamentale nell’ottica del cambiamento climatico, tenendo conto che i ghiacci si stanno sciogliendo sempre di più rapidamente e gli organismi custoditi, magari evoluti in microsistemi ormai estinti, potrebbero comportarsi in modo imprevedibile e rappresentare una minaccia per la salute pubblica, avendo c onservato la loro capacità infettiva. L’incremento delle temperature potrebbe infatti causare il risveglio di virus patogeni antichi. Per questo occorre essere preparati.

Il virus di quasi 50 mila anni in fondo al lago

I virus più «giovani» sono stati congelati per 27 mila anni, il più «anziano» per 48.500 anni, il che lo rende il virus più antico mai riportato in vita finora. «48.500 anni sono un record mondiale per un virus» dice Jean-Michel Claverie dell’Università di Aix-Marseille in Francia, che con il sui team in passato aveva già riportato in vita altri due virus di 30 mila anni fa provenienti da resti di mammut congelati nel permafrost. Il virus di 48.500 anni proviene dal permafrost a 16 metri sotto il fondo di un lago a Yukechi Alas, in Yakutia, in Russia. È un tipo di pandoravirus – un virus gigante che infetta organismi unicellulari noti come amebe, come è stato sperimentato in laboratorio (ma questo tipo di virus non può infettare piante o animali). «Se gli antichi virus giganti rimangono infettivi dopo essere stati congelati per così tanto tempo, anche altri tipi di virus di mammiferi lo faranno» sostiene Claverie.

Contaminazioni

Mentre 48.500 anni possono essere un record per un virus, diversi gruppi di scienziati affermano di aver rianimato batteri intrappolati in sedimenti, ghiaccio o cristalli di sale che hanno fino a 250 milioni di anni. Tuttavia, non è chiaro se gli organismi siano effettivamente così antichi o siano stati contaminati da campioni più giovani. I nove virus riportati in vita dal team di Claverie sono distinti da quelli già noti, per questo sembra improbabile che derivino dalla contaminazione dei campioni da parte di entità moderne. Il team ha scartato molti altri virus rianimati perché i loro genomi erano troppo simili a virus già noti. «Potrebbe essere possibile “resuscitare” virus che hanno molto più di 48.500 anni - dice Claverie - perché il permafrost più profondo ha fino un milione di anni. Tuttavia è difficile stabilire l’età per permafrost antico perché la datazione standard con il radiocarbonio non funziona oltre i 50 mila anni».

Perché studiare virus scomparsi

«Come sfortunatamente documentato dalle recenti pandemie, ogni nuovo virus richiede quasi sempre una risposta medica precisa, sotto forma di antivirale o vaccino. È perciò legittimo riflettere sul rischio di antiche particelle virali che rimangono ancora infettive e che potrebbero tornare in circolazione a causa dello scioglimento del permafrost» commenta l’autore dello studio. «Mentre c’erano poche persone nell’Artico ad essere esposte a tali minacce di infezione - aggiunge Claverie - sempre più persone si stanno spostando in queste aree per estrarre risorse come oro e diamanti. E il primo passo nell’estrazione mineraria è quello di rimuovere gli strati superiori del permafrost. Il pericolo è reale ma è impossibile calcolare il rischio». Eric Delwart dell’Università della California, San Francisco, che ha ricreato virus vegetali da feci di caribù congelate, intervistato da NewScientist ritiene che il rischio che un antico virus del permafrost inneschi una pandemia sia molto più basso di quanto possa accadere con i virus che circolano tra animali selvatici e domestici. Rebecca Katz della Georgetown University di Washington non è della stessa opinione e ritiene che il pericolo sia da prendere seriamente: «La minaccia che antichi virus ritornino con lo scongelamento del permafrost è molto reale».

Certi virus fanno dei giri immensi. La Scienza che funziona è corale, contro lo Spillover della disinformazione. Matteo Castellucci su L’Inkiesta il 24 Novembre 2022.

L’ultimo libro di David Quammen, pubblicato da Adelphi, racconta vite ordinarie di straordinari ricercatori. “Senza respiro” documenta ciò che crediamo di sapere sul coronavirus e i suoi fratelli, oltre a smontare teorie (su tutte, la fuga dal laboratorio) circolate più in fretta della loro ritrattazione

I virus sono parassiti, parassiti genetici. La loro fama è (in parte) immeritata. Non ha deposto a favore della categoria il loro peggior rappresentante, il coronavirus che ha segnato un canonico “prima” e “dopo” nella nostra quotidianità. Ma in alcuni casi il rapporto che ci lega ai virus è simbiotico. Senza di loro, la vita sulla Terra non sarebbe la stessa. Per esempio, la nostra specie, che deve ai virus due tratti del suo prezioso Dna, non potrebbe portare a termine una gravidanza. «Sono gli angeli neri dell’evoluzione, grandiosi e terribili. Per questo vale la pena di comprenderli, anziché solo temerli o deprecarli».

L’ultimo libro di David Quammen, pubblicato (come gli altri) da Adelphi, ricorda quanto il Covid-19 abbia preso di sorpresa tutti, tranne i biologi. Erano un monito le sue opere precedenti, come quelle di alcuni dei ricercatori che ha intervistato nel suo nuovo lavoro. I titoli parlavano della «prossima pandemia» e non era battage editoriale. «Spillover», il salto da una specie all’altra, è diventato un termine di uso quasi corrente nelle nostre case in lockdown, ci siamo riciclati a Paese di virologi dopo un passato da c.t. della nazionale.

Eravamo affamati di certezze. La scienza è sempre «provvisoria»: ci sembrava un difetto, in realtà è la sua forza. In quei mesi abbiamo dato eccessivo credito a ipotesi fantasiose o, al più, «improbabili», perché alla fine il discorso è (anche) probabilistico. Non siamo guariti dalla xenofobia dell’ebola, già dimenticata. Il valore del libro è anche questo: smonta, a una a una, alcune teorie che sono diventate troppo in fretta “notizie” e non lo erano. Uno spillover anche quello, di fake news.

La zuppa di serpenti, la fuga dal laboratorio, la mattanza dei visoni o dei pangolini, i cani procione. Animaletti assurti a protagonisti del giorno, di cui ignoravamo persino l’aspetto. I media hanno colpevolmente rilanciato ricerche pre print (non ancora approvate né pubblicate) che sarebbero state cassate dalle riviste scientifiche e spesso ritirate dai rispettivi autori.

Non è un invito all’inerzia, tutt’altro. «Un virus nuovo, se la fortuna gira bene per il virus e male per noi, può attraversare la popolazione umana come un proiettile di grosso calibro penetra una tenera lombata di manzo». Va inteso come una spia sul cruscotto: il compito – della stampa, delle autorità sanitarie, delle istituzioni – è diffondere informazioni, non ansia.

Al tempo stesso, vanno garantite trasparenza e comunicazione. In fin dei conti, alle prime attestazioni pensavamo fosse un’influenza. Non lo era. In quei primi giorni dell’Apocalisse dalla Cina arrivano aggiornamenti di una «vaghezza frustrante». Nelle stesse ore viene chiuso il mercato di Wuhan, dentro una città di undici milioni di abitanti.

La spagnola è stata l’ultima pandemia di un’epoca – quella della peste bubbonica – dove i virus non si potevano ancora guardare al microscopio. Nel suo microscopio di carta, Quammen guida i lettori nelle vite ordinarie (e non) di straordinari scienziati, alle origini dei «parenti» meno celebri della famiglia dei coronavirus, dalla proteina spike che somiglia al velcro nel legarsi alle cellule dell’ospite, usate come una stampante 3D per replicarsi.

«Super diffusore» era un concetto vecchio, valeva già per l’Hiv, così novecentesca. Poi le prove generali. La Sars, nel 2003, quando «abbiamo schivato un proiettile» ma non abbiamo imparato – almeno, non in tutti i Paesi – che «una malattia in qualsiasi parte del mondo significa una malattia dappertutto». I virus a Rna mutano più velocemente di ogni altra specie sulla Terra. Così la maggior parte dei Paesi si farà trovare impreparato «per mancanza di immaginazione».

La Corea del Sud, memore di quella lezione, mobilita una macchina di tracciamento su scala nazionale e chiude tutto. Gli Stati Uniti perdono tempo (e vite). Il virologo della Casa Bianca Anthony Fauci, intervistato nel volume, rivendica la «decisione politica» di pronunciarsi contro il presidente Donald Trump, le cui sbandate rientrano in due sui tre casi di «magia» di cui scrive Quammen e che somigliano più al wishful thinking, il pensiero magico.

Il primo è aspettare che il virus se ne vada da solo, il secondo sperare nelle terapie farmacologiche della prima ora. Ricordate l’idrossiclorochina? L’Fda americana ritirerà l’autorizzazione d’emergenza concessa dietro le pressioni del presidente repubblicano. Infine, il mito dell’immunità di gregge, teorizzato anche dal premier inglese Boris Johnson: la strada per raggiungere quella fantomatica percentuale di immunizzati, il sessantacinque per cento della popolazione, sarebbe stata lastricata di morti.

L’unica «magia» che funziona sono i vaccini, rimasti però troppo a lungo una prerogativa del mondo ricco. In un paragrafo, Fauci propone il virus come metafora. Quelle di Quammen sono sorprendenti, mai un vezzo, ma sempre al servizio della chiarezza divulgativa. Anche quando si tratta di riconoscere che i virus fanno parte della vita. «Senza di loro non potremmo continuare a esistere, senza di loro non ci saremmo nemmeno alzati dal fango primordiale».

Non siamo i soli, insomma, a essere contagiati e contagiabili. L’esistenza stessa delle zoonosi – oltre a imporci di prevenirle, fermando per esempio il contrabbando illegale di animali selvatici vivi – è un’ammissione del nostro fisiologico egocentrismo. Un virus non esiste “solo” quando colpisce l’uomo. Prima di quel salto ci sono decenni, o secoli, di storia evolutiva. Molti visoni, abbattuti in massa in questa pandemia, erano stati infettati da umani prima di contagiarsi fra di loro e restituirci il favore.

Alfa, Beta, Gamma, Delta. Le varianti consumano l’alfabeto greco a disposizione dell’Oms. C’è la pressione della selezione naturale. È quella la costante, l’evoluzione. In un’immagine dell’autore: le gazzelle non correrebbero così veloci se non dovessero scappare dai leoni. «Il covid-19 non sarà l’ultima pandemia che vedremo nel ventunesimo secolo. Probabilmente non sarà la peggiore».

Nelle pagine di “Senza respiro” ogni tanto si ha l’impressione di ricostruire il colpevole di un delitto, però è una metafora che a Quammen non piacerebbe. Il libro ha la forza di un’inchiesta giornalistica, ma è scritta meglio. È una storia avvincente, tra aerei nella tempesta sopra la giungla tropicale e «cacciatori di virus» che immobilizzano pipistrelli nelle grotte per prelevare un campione. Siamo abituati a leggere di «cosa non ha funzionato», ma questa è la testimonianza di una comunità scientifica che era pronta e forse non è stata ascoltata abbastanza.

Alberto Simoni per “la Stampa” il 18 luglio 2022.

Quella mattina di febbraio di sei anni fa, quando i dottori chiamarono Steffanie avevano una voce diversa. Nel loro tono c'era il segno della resa. «Suo marito è divorato dai batteri, non riusciamo a salvarlo». Steffanie Strathdee tornò nella stanza dell'ospedale californiano dove da qualche mese Tom Patterson, uno psichiatra, era attaccato alla flebo in bilico fra il coma e una fine scritta. Gli prese la mano: «Tesoro, il tempo sta scadendo, devi dirmi se vuoi continuare a vivere. Non so se riesci a sentirmi, ma se puoi, stringi forte la mia mano». 

Passarono dei secondi lunghi un'eternità, poi le dita di Tom si irrigidirono attorno alla mano della moglie. Steffanie non aveva alcuna ricetta magica, ma è una epidemiologa e dirigente del dipartimento di scienze mediche globali dell'Università della California a San Diego.

Aveva sentito parlare dei fagi, virus naturali capaci di contrastare i batteri resistenti agli antibiotici. «Avevo iniziato a realizzare ben prima che i dottori ammettessero che non c'era nulla da fare - ha raccontato la dottoressa alla Conferenza Life Itself - che mio marito stava molto peggio di quanto pensassi e che la medicina moderna aveva esaurito il ventaglio di antibiotici per curalo».

Quindi aveva cominciato le ricerche. Come uno studente qualunque si mise su Google e scovò uno studio fatto a Tbilisi da un ricercatore sull'uso dei fagi in medicina. Scoprì dopo qualche telefonata che in Georgia il trattamento era molto usato, ma che in Occidente era considerato un metodo «marginale», ai confini della scienza e per questo trascurato. 

I fagi sono ovunque. Ce ne sono miliardi nel suolo, nell'acqua, nel nostro corpo, nei letamai, stagni, fienili. Non tutti però fanno lo stesso lavoro, non tutti sono adatti per uccidere i batteri, altri uccidono l'ospite. La dottoressa Strathdee cominciò a rintracciare gli scienziati che catalogavano e studiavano i batteriofagi. Scrisse e-mail a emeriti sconosciuti implorandoli di aiutarla. 

Dal Texas si fece vivo un biochimico, Ryland Young: professore alla Texas A&M University e da 45 anni studiava quei virus. Lo convinse a lavorare al suo caso. «Fu così determinata che in pochi giorni tutto lo staff si era messo al lavoro, 24 ore su 24, sette giorni su sette per passare al setaccio 100 differenti esemplari e per individuarne due nuovi». Alla missione ha partecipato anche il centro di ricerca della US Navy che ha una banca di fagi raccolti nei porti di tutto il mondo.

Dopo un po' i centri hanno incrociato i dati, le caratteristiche e le potenzialità dei vari virus fino a che è stato individuato quello che poteva aggredire i batteri nel corpo di Patterson. La Fda (Food and Drug Administration Usa) ha dato il via libera al cocktail di famaci non convenzionale per «motivi compassionevoli» accelerando così la procedura e facendo diventare il signor Patterson il primo paziente americano a subire un simile trattamento.

Pochi giorni dopo, il cocktail preparato dalla Us Navy arrivò in California e Steffanie era in piedi accanto ai medici che facevano una flebo con la «nuova pozione» al marito. Lentamente si è risvegliato dal coma. 

L'uomo si era sentito male durante una crociera sul Nilo nella settimana del Thanksgiving del 2015. Improvvisamente aveva sentito dei crampi allo stomaco. La clinica dove era stato ricoverato d'urgenza in Egitto non era riuscita a capire cosa stesse accadendo al suo corpo, le prime cure anzi peggiorarono la situazione e Patterson venne portato in Germania dove i dottori gli riscontrarono un ascesso grande come un chicco d'uva invaso dal Acinetobacter baumanii, un batterio virulento resistente a quasi ogni tipo di antibiotico catalogato fra i patogeni più pericoli dall'Organizzazione mondiale della Sanità.

Il batterio si trova fra le sabbie del Medio Oriente ed è stato sovente riscontrato nelle ferite dei soldati americani colpiti dalle schegge delle bombe lungo le strade dell'Iraq tanto da essere rinominato «Batterio iracheno». Dopo la tappa tedesca Tom era rientrato a San Diego, nessuna cura sembrava funzionare. Stava bene per alcuni giorni, poi peggio, un calvario che si allungava di settimana in settimana fino a che diversi organi erano compromessi.

La situazione era precipitata a fine 2015. Sette anni dopo quella crociera, Patterson è felicemente in pensione ed è tornato a girare il mondo. La lunga e devastante malattia ha lasciato strascichi evidenti: Tom soffre di diabete, di insufficienza cardiaca e i danni allo stomaco lo obbligano a una dieta povera. «Ma non ci lamentiamo proprio, ogni giorno che mi sveglio è un dono». Grazie a una stretta di mano, alla «follia» della moglie e ai fagi.

Virus, batteri, funghi: l'esercito di microrganismi che abita con noi. Gioia Locati l'8 Giugno 2022 su Il Giornale.

Così l'equilibrio dei batteri intestinali è indice di buona salute.

Quante volte ci siamo sentiti dire che la salute del corpo dipende dall'intestino e dall'equilibrio della flora batterica?

E che un sistema immunitario funzionante coinvolge soprattutto quest'organo?

Tante, al punto da scordarcene. Ma forse c'è il modo di non dimenticarsi di una condizione così importante per la nostra salute. Ed è quello di diventare consapevoli che possiamo sempre, in qualsiasi momento, cambiare l'assetto dei nostri batteri intestinali: modificando le nostre abitudini.

Sì perché, da diversi anni, la medicina ci sta dicendo che molte malattie importanti sono associate a determinate popolazioni di microrganismi del nostro corpo "che prendono il sopravvento sulle altre" creando un disequilibro.

C'è da sapere che un'infinità di germi abita stabilmente con noi, in tutto l'organismo e non solo nell'intestino. Conviviamo con 100 trilioni di microbi (microbiota), dalla bocca al naso, dalla gola ai polmoni, dai capelli allo stomaco, dai genitali all'intestino: solamente nel sangue e nel sistema nervoso non ci sono né batteri, né virus, né funghi.

Quando stiamo bene la relazione tra noi e i germi è di tipo simbiotico. Vi è dunque uno scambio reciproco che regola la convivenza.

"I microrganismi vivono approfittando delle risorse nutritive che trovano nel nostro corpo e in cambio ci restituiscono favori che consistono nel permetterci di usare gratuitamente per scopi metabolici alcune sostanze da loro prodotte. Una relazione di scambio che, quando tutto funziona bene, ci garantisce una salute di ferro. I nostri simbionti costituiscono infatti la migliore protezione possibile contro l'attacco da parte di batteri patogeni. Ma quando le cose si mettono male, e la nostra flora batterica si altera, allora possono verificarsi alcune tra le più famigerate malattie del progresso" spiegano gli autori del Progetto Microbioma Italiano che dal 2015 si occupa di mappare la flora batterica degli italiani.

Quasi ogni malattia è associata a una popolazione di batteri intestinali, vi sono i batteri prevalenti dell'obeso, quelli che ricorrono in chi soffre di morbo di Chron o di altre malattie infiammatorie intestinali. E ancora, quelli ricorrenti nelle malattie autoimmuni, nelle infezioni urinarie, perfino nell'ansia, nelle depressioni e in alcune forme di autismo. Oggi si parla anche di "intestino del fumatore": chi fuma è più soggetto a a permeabilità intestinale, oltre che a una disbiosi polmonare.

Ricercatori americani hanno dimostrato che è possibile far diventare permanentemente obesi i topi a cui era stata trapiantata nel loro intestino la flora batterica prelevata da un umano obeso.

Altri studiosi hanno ipotizzato un nesso biologico fra microbioma intestinale e Parkinson.

Non solo. Perfino l'umore dipende dai batteri. Cavie hanno sperimentato l'ansia quando hanno ricevuto i microbi del topo ansioso.

Molti fattori influiscono sul microbiota: l'età, il tipo di dieta seguita, il fatto di vivere a contatto con animali, di fumare o di assumere alcolici, i luoghi in cui una persona è cresciuta (e perfino la tipologia di parto, se naturale o cesareo). Sta emergendo da studi recenti che la popolazione residente in un certo territorio, gli italiani ad esempio (infatti l'indagine è stata condotta su italiani sani) ha solo un terzo del proprio patrimonio batterico simile agli altri individui della specie. La maggior parte del microbiota è specifico e individuale.

Cosa fare per migliorare la propria flora intestinale?

"Evitare di assumere antibiotici se non necessari o disinfettare le verdure e la cute in maniera eccessiva. Più sono i microbi con i quali entriamo in contatto, più facilmente il nostro sistema immunitario saprà distinguere i buoni dai cattivi. Soprattutto è importante privilegiare una dieta ricca di fibre vegetali, il nutrimento principe dei batteri sani poiché, in assenza del loro cibo preferito, i microorganismi si cibano di muco intestinale (e questo ne danneggia la parete protettiva) – ha spiegato Fabio Piccini, il medico e ricercatore che ha ideato il Progetto Microbioma italiano. La dieta deve essere varia, basata su vegetali, frutti e legumi e ricca di acidi grassi polinsaturi (omega 3, alghe, semi oleosi, frutta secca). In più, si è visto che i cibi fermentati svolgono un ruolo importante. Non solo yogurt o kefir (la bevanda ricca di fermenti della tradizione orientale), tutti gli ortaggi, perfino le carni, si possono lasciare fermentare in acqua e sale o spontaneamente".

"Un altro esperimento interessante - ha aggiunto Piccini - è quello che ha dimostrato che la flora batterica di un umano obeso influisce sull'appetito (aumentandolo a dismisura) e sull'utilizzo delle calorie presenti negli alimenti (aumentandone il deposito nell'organo adiposo anzichè dirigerle verso l'utilizzo energetico immediato)".

Il trapianto di microbiota

È possibile trapiantare la flora microbica da un organismo ad un altro ed è uno dei filoni di ricerca più promettenti.

Una ricerca appena pubblicata mostra un risultato sorprendente: il trapianto di microbiota fecale da topi giovani a topi più anziani ha invertito i segni distintivi dell'invecchiamento nell'intestino, nel cervello e negli occhi. Il trapianto del microbiota fecale da topi vecchi a topi giovani ha avuto l'effetto inverso, inducendo infiammazione nel cervello e impoverendo una proteina chiave associata a una vista sana. Secondo i ricercatori "l'invecchiamento del microbiota intestinale determina cambiamenti dannosi negli assi intestino - cervello e intestino - retina, suggerendo che la modulazione microbica può essere di beneficio terapeutico nel prevenire il declino dei tessuti correlato all'infiammazione in età avanzata".

·        L’Inquinamento atmosferico.

L'inquinamento ambientale in gravidanza danneggia il nascituro. Due ricerche mostrano gli effetti delle polveri sottili durante la gestazione: parti prematuri per le mamme e ritardi dello sviluppo motorio e della coordinazione nei bambini. Guido De Duccis il 22 Novembre 2022 su Il Giornale.

Che l'inquinamento ambientale sia nocivo per la salute è ampiamente noto.

Oggi però si sospetta che possa portare a una riduzione dell'età gestazionale alla nascita e addirittura aumentare il rischio di parto cesareo di urgenza nelle donne in gravidanza.

Un recente studio effettuato su un campione di circa 130 donne alla dodicesima settimana di gestazione pare confermare e precisare questa allarmante notizia.

La ricerca ha misurato i livelli di proteina Pcsk9, responsabile della regolazione del cosidetto colesterolo cattivo (Ldl). La notizia è che l'esposizione al particolato Pm2,5 si associa ad un aumento del livello circolante di questa proteina.

La stessa ricerca dimostrerebbe, inoltre, che l'età gestionale alla nascita si riduce di circa una settimana per ogni incremento pari a 100ng/ml dei livelli circolanti della stessa proteina. L'importante studio è stato coordinato dalla dottoressa Chiara Macchi, ricercatrice presso il Dipartimento di Scienze Farmacologiche e Biomolecolari dell'Università degli Studi di Milano e membro del gruppo di ricerca coordinato dai dottori Alberto Corsini e Massimo Ruscica dello stesso Dipartimento universitario milanese. Tale ricerca è stata pubblicata su Environment International e ha ricevuto una borsa di studio nell'ambito del Prix Galien Italian 2022.

Ma le cattive notizie, come i carabinieri delle barzellette, viaggiano sempre in coppia.

Lo studio a Taiwan

Un altro studio pubblicato su Developmental Medicine and Child Neurology ci avverte infatti che l'esposizione al PM25 ambientale è significativamente correlata al ritardo nello sviluppo motorio fine e grossolano e a quello dell'ambito personale e sociale dei bambini. Per "sviluppo motorio grossolano" si intende camminare, correre, saltare, rimanere in equilibrio con uno o due piedi etc; con l'espressione "sviluppo motorio fine" ci si riferisce sostanzialmente all'abilità di coordinazione occhio-mano, alle abilità manuali e a quelle grafomotorie.

Vediamo i passi più significativi dell'articolo: "Nell'analisi sono stati inclusi quasi 18.000 bambini che non presentavano malformazioni congenite. Gli esperti hanno osservato che una maggiore esposizione al Pm 2,5 durante il secondo trimestre di gravidanza è risultato associata ad un aumento del rischio di ritardi nelle tappe dello sviluppo neurologico motorio grossolano. È stato anche riscontrato un ritardo dello sviluppo motorio fine e dell'ambito delle abilità personali e sociali in correlazione all'esposizione a Pm 2,5 nel secondo e nel terzo trimestre di gravidanza..."

Pur essendo necessari ulteriori studi di conferma e di approfondimento i ricercatori concludono: "Dai nostri risultati appare evidente che la protezione dei bambini dall'inquinamento ambientale deve iniziare prima ancora della nascita".

Le conferme dell'epigenetica

Del resto, la scienza che studia le relazioni tra danni fetali e sostanze chimiche inquinanti, l'epigenetica, si è sviluppata a partire dalla fine dell'Ottocento, proprio sulla base dell'osservazione di un aumento esponenziale dei casi di obesità infantile, autismo, malattie autoimmuni e allergie infantili.

"Il periodo più sensibile per i danni epigenetici- conferma la dottoressa Simona Nava (che ha appena pubblicato il libro 1000 giorni di vita dal concepimento, Eifis Editore pag. 80) - sono, appunto, i primi mille giorni di vita, quelli che trascorrono dal giorno del concepimento al compimento del secondo compleanno. In questo periodo ogni stimolo stressogeno può comportare conseguenze dannose sul futuro sviluppo dell'individuo, soprattutto in quello nervoso e immunitario. L'inquinamento ambientale non causa quasi mai malformazioni visibili alla nascita, come può fare il virus della rosolia e la carenza di acido folico, ma determina un disturbo della programmazione cellulare fetale, facendo nascere un bambino con un sistema psico-neuro-endocrino-immunologico alterato e, quindi, predisposto al mal funzionamento".

La dottoressa ci ricorda che le fonti di disturbo maggiori per il feto, derivano da:

fumo e alcool (della madre, si intende!).

disturbatori endocrini e campi elettromagnetici, sui quali non ci possiamo soffermare ma che meriterebbero di essere approfonditi in altra sede.

metalli pesanti, polveri sottili e pesticidi (pollution), di cui si è parlato fin qui.

L'effetto di queste sostanze può comportare aborti spontanei e nascita di bambini pretermine e di basso peso. Ce ne sarebbe abbastanza ma vogliamo dar conto di un ulteriore ricerca finanziata dal Ministero della Salute e coordinata dal Dott. Luigi Montano con il gruppo di ricerca EcoFoodFertility sui giovani provenienti da varie località d'Italia ad alto rischio ambientale (Brescia, Frosinone, Terra dei Fuochi). In questo studio denominato FAST (Fertilità, Ambiente, Alimentazione, Stili di Vita) si dimostra che lo stato del liquido seminale in giovani uomini viene ampiamente compromesso dall'esposizione ad inquinanti ambientali e metalli pesanti. Tra i gruppi in studio, i giovani provenienti dalla Terra dei Fuochi, erano quelli con i danni maggiori alla loro fertilità, ma il ricercatore ci vuole mandare un messaggio di speranza proprio in quel gruppo: avendolo diviso in due sottogruppi, ha lasciato ad uno la dieta abituale e ha imposto al secondo una rigorosa dieta mediterranea, basata su prodotti di agricoltura naturale e priva di sostanze chimiche. Il risultato è stato confortante perchè ha dimostrato, una volta di più, che una dieta ricca di sostanze antiossidanti ha corretto i danni determinati dall'inquinamento.

Monica Perosino per “La Stampa” il 24 gennaio 2022.

Ogni anno in Europa muoiono oltre trecentomila persone a causa dell'aria inquinata. Le polveri sottili si insinuano nel naso, nella laringe, si spingono fino ai bronchi e provocano infarti, ictus, malattie respiratorie, diabete, tumori, ipertensione, malattie cardiovascolari. 

Nell'Unione Europea il 97% della popolazione urbana è esposta a livelli di particolato fine superiori agli ultimi livelli delle linee guida stabilite dall'Organizzazione Mondiale della Sanità, linee che, se seguite, eviterebbero 166mila morti premature all'anno.

Il rapporto 2021 sulla qualità dell'aria dell'Agenzia Europea per l'Ambiente, sebbene evidenzi un calo di tutti i principali inquinanti atmosferici dal 2005 in avanti, sottolinea che l'inquinamento atmosferico resta il più grande rischio per la salute dei cittadini europei, peggiore anche del fumo e della malnutrizione. 

Oltre a monossido di carbonio, biossido di azoto e zolfo, ozono e altri, le sostanze più pericolose per la salute sono particolato PM2.5 e PM10, quelle minuscole particelle prodotte dalla combustione del carburante nei trasporti, dalle industrie, dall'agricoltura e dal riscaldamento.

Il particolato con un diametro uguale o inferiore a 10 micron (µm), ovvero più piccolo di un quinto della larghezza di un capello umano, è in grado di penetrare in profondità nei polmoni, le PM2.5 possono entrare perfino nel flusso sanguigno. Per questo, il particolato fine è l'inquinante atmosferico con il maggiore impatto sulla salute in termini di morte prematura e malattie.

In questo caso, avverte l'Eea, «il luogo in cui vivi influisce sui rischi a cui sei esposto». E non c'è nulla per cui gioire. Guardando la mappa dell'Ue, si nota una macchia più scura sull'Europa dell'Est e sulla Pianura Padana, sono le aree in cui è più presente il particolato fine. 

Tra le città con i livelli di PM10 più elevati troviamo Zagabria, Bucarest, Salonicco e Belgrado, mentre il primato per le massime concentrazioni di biossido di azoto va a Napoli seguita da Cracovia, Atene e Parigi.

E se guardiamo i livelli di diossido di azoto nella classifica delle città europee più inquinate e con il più alto tasso di mortalità ci sono molti centri italiani. Per quanto riguarda la mortalità per PM2,5, in particolare, al primo posto c'è Cremona, seguita da Vicenza, Brescia, Pavia, con una presenza massiccia delle città della Pianura Padana. 

Le persone che vivono nelle città più grandi tendono ad essere esposte a concentrazioni più elevate di biossido di azoto a causa delle emissioni del traffico, mentre ci vive nell'Europa centrale e orientale, la combustione di combustibili solidi per il riscaldamento domestico e il loro utilizzo nell'industria determina le più alte concentrazioni di particolato e benzopirene (un cancerogeno).

L'Europa meridionale, invece, è esposta alle più alte concentrazioni di ozono, la cui formazione è determinata dalla luce solare. Se gli Stati Ue si adeguassero alle nuove e aggiornate linee guida dell'Organizzazione Mondiale della Sanità del 2021 si potrebbero evitare, nella sola Europa, oltre 166mila morti premature all'anno. Se si considera anche la correlazione tra inquinamento e diffusione delle pandemie, il beneficio per la salute sarebbe ancora maggiore.

Diversi studi infatti, hanno dimostrato che il Covid preferisce l'aria inquinata, e che l'inquinamento atmosferico può facilitare la trasmissione del virus e aumentarne la persistenza nell'atmosfera.

Rispetto al 2005, nel 2019 i decessi prematuri attribuiti all'esposizione al particolato fine sono diminuiti del 33% nell'Ue-27, ma certamente non basta. L'obiettivo, dice l'Oms, è che tutti i Paesi raggiungano i livelli di qualità dell'aria raccomandati, andando a limitare le emissioni delle auto vecchie, l'uso di combustibili fossili e gli allevamenti intensivi.

Federica Mereta per “la Repubblica - Salute” il 27 gennaio 2022.

Chi soffre di allergia e abituato: nei periodi a rischio, prima di mettersi in marcia, guarda la classica tabella dei pollini e provvede a fare le sue scelte, evitando che le sue mucose incontrino i possibili “nemici”. Per il benessere dell’apparato cardiovascolare, sarebbe necessario fare lo stesso.  

Se il vostro cuore e a rischio perchè soffrite di diabete, avete il colesterolo e/o la pressione alta, siete sovrappeso, fate i conti con malattie croniche dell’apparato respiratorio, abituatevi a guardare l’indice di qualità dell’aria oltre a controllare la temperatura esterna. Il cocktail clima rigido e ristagno degli inquinanti può diventare una minaccia per la salute delle arterie, tanto da aumentare il rischio di andare incontro a un infarto. 

A lanciare l’ennesimo appello sulla necessita di ridurre gli inquinanti emessi da tubi di scarico, riscaldamenti e fabbriche e un editoriale pubblicato sul New England Journal of Medicine, a firma di Sanjay Rajagopalan, dell’Ospedale Universitario di Cleveland, e Philip J. Landrigan, del Dipartimento di Biologia dell’Universita di Boston.  

L’analisi prende in esame le più recenti osservazioni scientifiche sul tema e, oltre a consigliare il controllo delle polluzioni atmosferiche prima di uscire per chi ha il cuore non proprio in forma, gli esperti avvisano di ridurre per quanto possibile jogging e corsa veloce quando l’aria e particolarmente inquinata, di non esporsi ad attività lavorative che possono farci respirare sostanze nocive, di utilizzare mascherine se l’inquinamento e alle stelle, di preferire per gli spostamenti gli orari in cui il traffico cala. 

Il tutto, ricordando che anche a casa possiamo fare qualcosa: in primo luogo tramite la classica misura di “aprire le finestre” (ovviamente se all’esterno l’aria e buona), utilizzando depuratori ambientali ed evitando quelle fonti di inquinamento domestico, a partire dal fumo di sigaretta fino all’abuso delle candele profumate, che possono mettere a repentaglio il benessere cardiovascolare.  

«I diversi inquinanti atmosferici possono avere un’azione negativa molto pesante su cuore e arterie, attraverso meccanismi diversi che purtroppo tendono a sommarsi tra loro e a moltiplicare gli effetti pericolosi», spiega Massimo Volpe, ordinario di Cardiologia all’Università Sapienza di Roma e Presidente della Societa italiana per la prevenzione cardiovascolare (Siprec): «Sappiamo che l’esposizione al particolato (riconoscibile con la sigla Pm e numeri diversi a seguire) può indurre un danno vascolare diretto, attraverso un aumento dei processi ossidativi delle cellule della parete arteriosa, con conseguente incremento dei radicali liberi nocivi per le cellule stesse, oltre a favorire l’infiammazione». 

Tutto e dovuto al fatto che il tessuto arterioso, esposto all’azione di questi componenti, sviluppa meccanismi difensivi che purtroppo col tempo risultano nocivi per la salute. Da un lato, questi sistemi di difesa portano ad attivare invisibili segnali intracellulari che a loro volta determinano appunto la produzione di radicali liberi; dall’altro, l’infiammazione tende a richiamare i polimorfonucleati (particolari globuli bianchi) e le piastrine con una maggior tendenza alla coagulazione del sangue. 

Il risultato e che si e maggiormente predisposti all’aterotrombosi, e, soprattutto, chi già soffre di patologie cardiovascolari – o comunque ha dei fattori predisponenti – rischia che si rompa più facilmente una placca su un’arteria, come per esempio una coronaria o la carotide, e che si ostruiscano i vasi. Aumenta, quindi, il pericolo di andare incontro a un infarto o a un ictus. 

A completare il quadro dei possibili effetti diretti dell’inquinamento sulla salute dell’apparato cardiovascolare, infine, «va ricordato che in genere l’esposizione cronica favorisce la vasocostrizione e quindi l’innalzamento della pressione, con la più probabile comparsa di ipertensione», aggiunge Volpe. Insomma: l’inquinamento atmosferico, come ricordano gli esperti sul New England Journal of Medicine, può quasi essere considerato un fattore di rischio cardiovascolare aggiuntivo di cui tenere conto. 

«La variazione a breve termine dei livelli di Pm (da ore a giorni) e associata a un aumento dei rischi di infarto miocardico, ictus e morte per malattie cardiovascolari», scrivono gli esperti sulla prestigiosa rivista americana. Che non e pero l’unica a sottolineare la relazione tra smog e malattie cardiovascolari. Al Nejm si aggiunge, infatti, il grande studio internazionale su quasi 160 mila persone adulte tra i 35 e i 70 anni seguite per 15 anni, coordinato dagli scienziati dell’Università Statale dell’Oregon e apparso su Lancet Planetary Health. 

Durante il periodo di osservazione più di 3200 persone sono morte per malattie cardiovascolari e circa 9.150 hanno avuto un infarto o un ictus. Gli eventi sono aumentati del 5% per ogni 10 microgrammi per metro cubo in più rilevati nella concentrazione di particolato fine (Pm 2.5), uno degli inquinanti atmosferici più diffusi, con una traslazione statistica che fa riflettere: il 14% di tutti gli eventi cardiovascolari osservati potrebbe essere attribuibile proprio al particolato Pm 2.5.

I dati sono confermati anche da osservazioni italiane, come la ricerca pubblicata su Jacc Cardiovascular Imaging dai cardiologi della Fondazione Policlinico Gemelli Irccs che mette in luce un’associazione tra i livelli di esposizione alle polveri fini (Pm 2,5) e la presenza di placche aterosclerotiche più infiammate e aggressive, cioè pronte a causare un infarto per rottura di placca.  

«La ricerca – spiega il primo autore dello studio, Rocco A. Montone, cardio- logo interventista e di terapia intensiva cardiologica del Gemelli – ha preso in esame 126 pazienti con infarto miocardico, sottoposti ad Optical Coheren- ce Tomography (Oct), un’indagine con uno speciale microscopio che permette di visualizzare le placche coronariche direttamente dall’interno dei vasi». 

Correlando le caratteristiche delle placche con l’esposizione anche per due anni precedenti a inquinanti ambientali si e visto che i pazienti che respirano a lungo aria inquinata, in particolare il particolato fine, che penetra in profondità nei polmoni soprattutto se respirato dalla bocca, presentano placche aterosclerotiche coronariche piu aggressive e prone alla rottura (sono più ricche di colesterolo e hanno un cappuccio fibroso più sottile).  

E, infatti, nelle persone esposte a elevati livelli di Pm 2,5, il fattore scatenante dell’infarto e più spesso la rottura del- portante sul campo mostrando che esiste una particolare associazione tra aumento del Pm 10 e patologie cardiovascolari durante i picchi di epidemie influenzali, a conferma di quanto le infezioni virali possano fare da “carburante” per le reazioni di arterie e cuore. 

Stando alla ricerca, in autunno e in inverno l’innalzamento di 10 microgrammi/m3 di Pm 10 causerebbe un incremento del rischio cardiovascolare tra il 18 e il 23%, probabilmente a causa della placca aterosclerotica.  

Le placche infiammate (cioè infiltrate da macrofagi) ed e presente anche un maggior livello di infiammazione sistemica, testimoniato dall’aumento dei livelli di proteina C reattiva nel sangue. Insomma: l’inquinamento atmosferico, e in particolare quello da particolato associato agli altri invisibili elementi che respiriamo, diventa una minaccia per il benessere cardiovascolare.  

Un’ulteriore conferma italiana la offre una ricerca pubblicata qualche tempo fa su International Journal of Environmen- tal Research and Public Health, condotta dall’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano e dall’Istituto Clinico Humanitas. Lo studio ha dimostrato come il rischio di accesso al pronto soccorso per eventi cardiovascolari acuti sia associato all’aumento del particolato atmosferico (Pm 10) secondo un andamento stagionale, più dannoso nel periodo autunno-inverno, ma anche più pericoloso nelle giornate con alte temperature atmosferiche. 

Non solo: la ricerca ha aggiunto un tassello importante sul campo mostrando che esiste una particolare associazione tra aumento del Pm 10 e patologie cardiovascolari durante i picchi di epidemie influenzali, a conferma di quanto le infezioni virali possano fare da “carburante” per le reazioni di arterie e cuore. Stando alla ricerca, in autunno e in inverno l’innalzamento di 10 microgrammi/m3 di Pm 10 causerebbe un incremento del rischio cardiovascolare tra il 18 e il 23%, probabilmente a causa della diversa composizione chimica del particolato atmosferico e della diversa risposta fisiologica agli stress ambientali. 

«D’altro canto, considerando anche quanto stiamo osservando con Covid-19, c’è pure questo ulteriore meccanismo indiretto che mette a repentaglio la salute dei vasi arteriosi», riprende Volpe: «Quando si verifica un’infiammazione delle vie respiratorie, magari indotta dall’esposizione a inquinanti e implementata da un’infezione virale come l’influenza o, appunto, da Sars-CoV 2, si liberano citochine, cioè composti che facilitano l’infiammazione. 

Quindi, a prescindere dall’oggettiva azione diretta dei virus sulle cellule cardiache, si crea una condizione che facilita l’infiammazione dell’endotelio (la parete più interna delle arterie) e quindi anche la possibilità che si manifestino fenomeni di trombosi all’interno dei vasi». Si tratta di osservazioni supportate da chiare ipotesi di laboratorio che confermano come alti livelli di Pm nell’aria possano contribuire al peggioramento delle condizioni cliniche di persone infette da Sars-CoV2 (e più in generale dai virus respiratori), soprattutto in correlazione con altre patologie pregresse. 

L’inquinamento non renderebbe più facile l’accesso del virus nell’organismo, ma piuttosto si comporterebbe proprio alla stregua di colesterolo alto, ipertensione, diabete e obesità, aumentando il pericolo per cuore e arterie. «Tutte queste osservazioni confermano come la prevenzione cardiovascolare si leghi indissolubilmente alla sostenibilità ambientale», conclude Volpe: «Le automobili, la produzione industriale e l’urbanizzazione hanno creato una condizione per cui, soprattutto in alcune aree, la qualità dell’aria può diventare una minaccia per la salute per il sistema cardiocircolatorio. Inoltre, la vita in citta può favorire anche l’inattività fisica e di conseguenza l’obesità e le alterazioni metaboliche, creando un circolo vizioso estremamente pericoloso per il cuore. 

Questa attenzione, in chiave preventiva, deve partire fin dai bambini, che già ora sono esposti a condizioni ambientali non ottimali e tendono a sviluppare frequentemente alterazioni metaboliche che mettono a rischio cuore e vasi». Nei più piccoli, peraltro, l’inquinamento atmosferico può aprire la strada all’ipertensione futura e alle sue conseguenze. Non ci credete? Rileggete una ricerca su 70 bambini seguiti poi fino all’età adulta a Los Angeles, pubblicata su Environmental Health e condotta dai ricercatori dell’Università della California del Sud. 

Lo studio ha valutato nel tempo un particolare parametro della salute delle arterie, ovvero i cambiamenti nello spessore tra tonaca intima e media (due strati della parete delle carotidi). Gli scienziati americani hanno esaminato l’esposizione media residenziale agli inquinanti ambientali come l’ozono, il biossido di azoto e il particolato, analizzando i dati derivanti dai sistemi di monitoraggio dell’aria, fino a stimare l’esposizione agli ossidi di azoto in base alla vicinanza della casa di un bambi- no alle strade maggiormente trafficate. 

Come parametro di valutazione e stato considerato appunto il mutamento dello spessore tra i due strati delle arterie carotidi, con misurazioni effettuate intorno ai 10 anni e poi di nuovo sui giovani di vent’anni. In chi risultava maggiormente esposto ai fumi di traffico e inquinamenti vari si e osservato una modificazione del parametro intimamedia della carotide di circa 1,7 micron l’anno: traslando i dati, questo “restringimento” del tutto impercettibile sarebbe correlabile a un incremento medio della pressione arteriosa di circa 10 millimetri di mercurio, con conseguente incremento del rischio cardiovascolare.

·        HIV: (il virus che provoca l'Aids).

Da ilmattino.it il 4 febbraio 2022.

In Olanda è stata scoperta una nuova variante dell'HIV (il virus che provoca l'Aids), più aggressiva e contagiosa. La forza della carica virale è stimata da 3,5 a 5,5 volte superiore rispetto a quella del virus HIV-1 (il più diffuso). Inoltre questa variante, chiamata VB (sottotipo virulento B), indebolisce il sistema immunitario con una velocità due volte superiore. 

La "buona" notizia è che le persone contagiate (109 quelle individuate finora) reagiscono normalmente alle terapie e hanno la stessa sopravvivenza degli altri pazienti, ma l'aggressività della variante rende ancora più importante l'intervento precoce.

La variante VB è stata inizialmente identificata in 17 sieropositivi nei Paesi Bassi. L'allarme ha spinto i ricercatori ad effettuare indagini più approfondite, che hanno rivelato altri 92 infetti. Secondo le analisi, sarebbe apparsa per la prima volta circa trent'anni fa tra la fine degli anni Ottanta e gli anni Novanta. La sua diffusione nei primi anni Duemila sarebbe stata più veloce rispetto a quella delle altre varianti, ma poi avrebbe rallentato nell'ultimo decennio.

«Non è raro trovare nuove varianti del virus Hiv: come tutti i virus a Rna muta facilmente, e lo vediamo dalla sua grande capacità di adattarsi ai farmaci antiretrovirali diventando resistente», commenta Stefano Vella, docente di Salute Globale all'Università Cattolica di Roma e neo presidente della nuova Commissione nazionale Aids del Ministero della Salute. «I ricercatori di Oxford hanno fatto uno straordinario lavoro di biologia molecolare andando a sequenziare i genomi virali isolati da pazienti sieropositivi che avevano dimostrato di ammalarsi più velocemente di Aids rispetto agli altri. Finora - spiega l'esperto - si dava per scontato che la progressione più veloce dipendesse dalla variabilità individuale del singolo paziente, e invece questo studio dimostra che può essere dovuta a una nuova variante virale più aggressiva». 

La variante VB «non rappresenta un'emergenza di sanità pubblica - rassicura Vella - però ci dà una lezione importante: sfata il mito che i virus diventino più buoni col tempo. In realtà la loro evoluzione avviene in maniera casuale e non si può escludere che un virus possa diventare anche più cattivo».

Una dimostrazione lampante ce l'ha data anche SarsCoV2. «Dopo la variante Alfa è comparsa la Delta, ancora più virulenta e trasmissibile. La Omicron a sua volta è diventata ancora più trasmissibile, anche se meno virulenta. Questo - conclude l'esperto - dimostra che l'evoluzione dei virus è imprevedibile e non va data per scontata».

Hiv, alla ricerca dei servizi perduti: in Italia la prevenzione è una lotteria. Servizi assenti, discriminazioni e informazioni contrastanti. Così nel nostro Paese la lotta all'Aids è al palo. E le associazioni Lgbt devono operare dove lo Stato non arriva. In anteprima per L'Espresso la ricerca lunga un anno di Arcigay sulla salute sessuale. Simone Alliva su L’Espresso il 30 novembre 2022.

Servizi poco istituzionalizzati o del tutto assenti. In qualche caso avversati o legati alla sensibilità e alla disponibilità del singolo. A distanza di 40 anni dalla scoperta del virus dell’HIV è Arcigay che illumina il punto esatto dove tutto crolla nella narrazione, assorbita in questi anni di pandemia, sull’importanza della triade: prevenzione, terapia, cura.

In Italia la diagnosi e prevenzione è una triste lotteria affidata al luogo in cui si è nati. «La partita contro il virus dell’HIV la possiamo vincere domani. Basterebbe una diagnosi precoce, l’accesso a terapie e informazioni. La persona che vive con Hiv con carica virale azzerata non trasmette il virus. Ma fare questo in Italia è problematico», lo racconta a L’Espresso Ilenia Penni, responsabile salute nella segreteria nazionale Arcigay che insieme ai volontari ha mappato per un anno 31 tra le più importanti città italiane, da Milano a Catania, sullo stato dei servizi nell’ambito della salute sessuale.

Non ci sono primati positivi in questa ricerca, soltanto ombre. Si parte dalle informazioni al paziente. Frammentate. «Abbiamo chiamato- raccontato gli attivisti- diverse volte gli stessi enti e abbiamo ottenuto informazioni differenti a seconda dell’operatore che ci rispondeva. Ad esempio, sul giorno in cui è possibile fare il test». E ancora: numeri di telefono o mail di contatto non funzionanti, a dispetto delle riforme sulla digitalizzazione nella PA. «In qualche caso l’informazione è data solo sulle bacheche informative presso la struttura».

La ricerca rompe anche lo squilibrio di assistenza sanitaria tra Nord e Sud: non vale per il benessere sessuale. Qui il divario è visibile tra piccoli e grandi centri. Sono le grandi città i punti di riferimento per i servizi assenti nel presidio sanitario ed è qui che bisogna recarsi per il trattamento dei casi specifici. «Questo costituisce sicuramente un problema per le emergenze che richiedono un servizio di prossimità, e nel caso non raro in cui il capoluogo sia distanti-sottolinea Pennini- ci sono persone che per accedere a un test devono fare chilometri. Come in Piemonte. Spesso, può capitare, che i test siano disponibili soltanto a orari assurdi dalle sei di mattina alle otto, ad esempio. C’è molta reticenza nel sottoporsi a certi test, difficoltà di tipo anche logistico non aiutano».

A differenza delle altre città, Siena è priva di un presidio dedicato all'Hiv. E i presidi non sempre sono gratuiti, anonimi e ad accesso diretto. Difficile anche trovare abbinato a questi servizi un'attività di counseling pre e post test, fondamentale per aiutare le persone a comprendere quali sono i comportamenti a rischio e sostenerle in caso di esito reattivo.

Non esiste solo l’HIV. Assenti i servizi di screening anche per le più comuni clamidia, gonorrea, sifilide, condilomi anogenitali e herpes genitale, malattie la cui incidenza continua a crescere interessando in particolare i giovanissimi tra i 15 e i 24 anni e le donne. Le città, tra le trentuno mappate, in cui non è possibile testarsi gratuitamente sono: Barletta, Belluno, Catania, Lecce, Palermo, Reggio Calabria, Rieti, Siena Venezia, Viterbo.

La PreP, uno degli strumenti che in altri Stati sta portando a un enorme riduzione delle nuove diagnosi da HIV, viene proposta in 22 città su 31 ma solo a Milano c'è una sperimentazione che permette la somministrazione gratuita. Implementare questo strumento in ogni parte d’Italia porterebbe a un enorme beneficio in termini di salute pubblica.

Dentro questo labirinto di mancanze fioriscono gli episodi di discriminazione (su più della metà dei territori mappati) che colpiscono soprattutto le persone con Hiv. La parola ai pazienti: «Quando l’infermiera è venuta a conoscenza dello stato sierologico del mio compagno si è rifiutata di fargli una semplice iniezione. Aveva paura». «Ero in cura da un dentista che fissa l’appuntamento sempre alle sette di sera. Ho capito dopo che lo faceva perché a fine turno sanificava lo studio». Tutto questo nonostante la ricerca scientifica abbia da tempo dimostrato che una persona con Hiv, che segue regolarmente la terapia e ha una carica virale stabilmente non rilevabile, non trasmette il virus.

Di fronte a uno Stato che non vede o finge di non vedere - oltre al lavoro svolto in tutte le 31 città dai comitati arcigay - in 14 centri soggetti del settore hanno strutturato servizi dedicati alla promozione della prevenzione, benessere e salute sessuale: precisamente Catania, Ferrara, Firenze, Mantova, Milano, Modena, Padova, Pesaro, Reggio Calabria, Roma, Torino, Treviso e Varese. Questi servizi non si sostituiscono a quelli sanitari ma garantiscono da anni a tante persone che temono gli ospedali o che trovano difficoltà nei servizi di testing sanitari, di fare il test e avere informazioni in ambienti accoglienti e non giudicanti. La filosofia del buonsenso, l'Italia che "fa da sé" mentre la politica resta a guardare.

40 anni di Aids: «Il diario di Forti fu una bomba in un’Italia sessuofoba e bigotta». C’era l’assenza delle istituzioni, la vergogna, il pregiudizio e la disinformazione. Tra chi squarciò il buio, l’inviato de L’Espresso. La sorella: «Con quella copertina volle dare un volto al virus innominabile». Franco Grillini: «Solo ora ne parlo senza piangere». Simone Alliva su L’Espresso l’1 dicembre 2021.

Un buco nero nella memoria collettiva italiana. Questo è quello che è rimasto a distanza di 40 anni dalla scoperta dell’Aids, la pandemia che dal 1981 ha ucciso più di 35 milioni persone. In quattro decadi l’Italia non è mai riuscita a fare i conti con la sua storia per spiegare dove eravamo e cosa stavamo facendo in quei giorni mentre l’infezione uccideva nel silenzio generale. In America non si contano le produzioni culturali: libri, film, spettacoli teatrali dedicati a quel tempo. In Italia l’oblio. Ci accompagna in quegli anni Enzo Cucco, insieme a molti altri protagonisti di quella storia rivoluzionaria che è stata il F.U.O.R.I. primo movimento per diritti delle persone lgbt.

Cucco oggi ha 61 anni, componente del direttivo dell’Associazione Radicale Certi Diritti, ricorda un’Italia fatta di emarginazione e indifferenza: «L’Aids non l’avevamo vista. La notizia era uscita ma nessuno se n’era accorto. Ricordo un’agenzia: scoperto un tumore molto diffuso nella popolazione americana. Lì si parlò per la prima volta del cancro dei gay. Era il 1981. Un numero spropositato di casi di sarcoma di Kaposi. E noi del FUORI! scrivemmo con un comunicato stampa che aveva più o meno questo tono: ecco, adesso si inventano il cancro dei gay, non è vero. Avevamo torto». La notizia, il viaggio in America e poi la raccolta della documentazione. «Negli Stati Uniti ci spiegavano che non c’entrava l’orientamento sessuale. Tornati a Roma cominciammo a parlare, volevamo risvegliare le coscienze. Ricordo le riunioni nell’ottobre del 1982 con l’ospedale Amedeo di Savoia, quello per le malattie infettive. Li ricordo stupiti, un po’ scocciati. Ripetevano che i casi in Italia non c’erano. Trovammo ascolto soprattutto presso l’Istituto superiore di Sanità. Grazie a un giovane Gianni Rezza, all’epoca un grande radicale e all’allora presidente dell’Istituto che era Giovanni Battista Rossi. Ricordo anche Giuseppe Ippolito molto attento e preparato. Giovanni Battista Rossi, Rezza Ippolito avevano preso contatto con il Circolo di Cultura Omosessuale Mario Mieli e costituirono insieme a Bruno Donato e Vanni Piccolo il primo gruppo di verifica. La storia della lotta all’Aids comincia in questo modo».

Gianni Rezza oggi è direttore generale della Prevenzione del ministero della Salute, Giuseppe Ippolito direttore scientifico dell'Istituto nazionale per le malattie infettive Lazzaro Spallanzani. Nomi che rimbalzano nelle cronache della nuova pandemia, in un paese senza tempo. Coinvolti in prima fila negli anni Ottanta erano i giovani specializzandi che vedevano morire intorno amici e amanti, come racconta Massimo Cernuschi, oggi infettivologo del San Raffale e presidente dell’Associazione ASA di Milano: «Morivano due, tre persone al giorno di Aids negli ospedali. Ricordo un amico che aveva scoperto di essere positivo da subito. Stava male per un ascesso al dente. Lo ricoverano. Dopo la diagnosi di linfoma chiese a me informazioni, in quel caso si cercava di omettere diciamo così. Gli dissi: hai una brutta tubercolosi. Capì. Il giorno stesso fece testamento. Il giorno dopo morì».

Si moriva così. Si spariva nel silenzio generale. «Abbiamo perso una generazione. Incontravo tutti i giorni al parco un ragazzo molto dolce, molto tranquillo. Ci facevamo insieme. All’epoca non si parlava di Aids. Era un argomento che veniva rimosso con fastidio. Dopo poco tempo questo ragazzo è sparito. L’ho ritrovato dopo qualche mese con le stampelle, emaciato. Poi è morto», lo ricorda Luigi, oggi volontario del gruppo Salute di Arcigay Torino, 61 anni, ragazzo negli anni del riflusso e della droga: «Ho scoperto di essere positivo soltanto nel 2008. Mi hanno preso per i capelli, come si suol dire. Entrai in ospedale che ero già in Aids». A 13 anni da quell’analisi ripensa agli anni Ottanta «ma anche Novanta e Duemila» come una «dimensione parallela. Si viveva congelati. Ci facevamo insieme e quelli sull’Aids erano discorsi tabù. E poi c’era questo fatalismo: prima o poi ci tocca. Dicevamo. Oppure sopravviveva una coscienza che era molto simile a quella dei no-vax di adesso, fatta di retropensieri: chissà questa malattia cos’è veramente. Sarà un business delle case farmaceutiche. Ed era anche il mio pensiero. Nella mia vita sono stato in comunità sette volte. Ho vissuto da clochard per strada. Nessuno mi ha mai detto: fai un test. Eravamo ai margini drogati e omosessuali. C’è stata certo una generazione che abbiamo perso. Io mi ritengo un sopravvissuto». C’era l’assenza. Delle istituzioni, della politica, della società. Il ministro della Sanità, Donat-Cattin, dopo aver detto «l’Aids ce l’ha chi se lo va a cercare», nel 1988 inviò una lettera a tutti gli italiani per dire che era «consigliabile attenersi» a «un’esistenza normale nei rapporti affettivi e sessuali». Il pregiudizio cresceva e così la disinformazione. «Adesso sono di nuovo in grado di parlarne senza mettermi a piangere», racconta Franco Grillini «Ma c’è stato un periodo in cui non ci riuscivo. Eppure facevo le orazioni funebri, andavo a trovare la gente che si disfaceva negli ospedali. Si moriva in due modi: o rimanevi intatto e normale fino al giorno prima di morire, oppure ti disfacevi, pesavi trentacinque chili. Non so come siamo sopravvissuti».

Non potendo contare sulle istituzioni, la comunità si organizzava. Distribuiva volantini informativi e preservativi fuori dai luoghi considerati a rischio-discoteche, battuage, saune- somministrava test. Marinella Zetti, storica attivista Lgbt, militante ASA | (Associazione solidarietà AIDS) lo racconta: «Si distribuivano preservativi con non poca diffidenza da parte anche di alcune associazioni. Dopodiché c’era questo pregiudizio difficile da sradicare» dice: «Partecipai a una trasmissione di Raidue sul tema. Non ho mai detto di essere sieronegativa. Quindi in mezzo a molte testimonianze apparivo agli occhi dei telespettatori come sieropositiva. Il giorno dopo andai al solito bar per fare colazione, ricordo mi misero in fondo. Isolata. Il proprietario si giustificò: signora ho visto il suo problema però devo metterla qui». Moltissimi i suicidi all’epoca di persone che non vedevano una via di uscita a una malattia che sembrava una sentenza a morte delle più cruente. Tra questi Ottavio Mai, regista e attivista Lgbt, fondatore insieme a Giovanni Minerba del più grande festival Lgbt d’Europa.

Anche Pier Vittorio Tondelli, morto di Aids a 36 anni, scelse il silenzio, casa sua a Correggio. Era un tempo di vergogna e di colpa. Come ricorda Fabrizio Caprara, anche lui attivista lgbt: «All’epoca avere trent’anni era come averne ottanta. C’era una generazione che spariva. Erano il tuo vicino di casa, il figlio dell’amica di tua madre, l’allenatore della palestra, il pasticciere all’angolo. Keith Haring, Tondelli, Ian Charleston, l’affascinantissimo protagonista di Momenti di gloria, Nureyev. Si viveva sospesi nella paura di essersi costantemente infettati, e nel frattempo molti amici scomparivano. Tra questi ricordo Giovanni Forti».

Giornalista e inviato per L’Espresso Giovanni Forti è stato il primo in Italia a scrivere la cronaca della malattia- mai pietista o scontata ma scarna e irrimediabilmente ottimista. Un diario che esplose con una copertina pubblicata su L’Espresso nel 16 febbraio 1992, qualche settimana prima della morte avvenuta il 3 aprile. La degenza in ospedale, i farmaci, i 25 chili che lo avevano ridotto al ricordo di uomo. Tutto questo per informare.

Dare un volto, il proprio, al virus innominabile. Enzo Biagi, poi, lo volle in tv e con la voce cavernosa ammonì la gente a usare il preservativo: «Quella voce non era quella di Giovanni. Era quello che gli aveva fatto la malattia», ricorda la sorella, Emanuela Forti, «Giovanni decise di posare per quella copertina per pubblicizzare l’uso del preservativo. Voleva convincere i giovani, convincere tutti non solo gli omosessuali. Proteggetevi. In un’Italia così sessuofoba e bigotta. Voleva dare un senso alla sua malattia e poi alla sua morte». Emanuela Forti che in quegli anni ha visto ammalarsi e poi morire prima il fratello e poi la sorella Flaminia, restituisce l’immagine di quel tempo: «Flaminia era un ex tossicodipendente. Ma ci è arrivata alla cura che le ha permesso di vivere più a lungo di Giovanni. Poi, anche lei, è morta. Tumore al fegato. Quegli anni sembrava di stare al fronte. Come combattere sulle montagne, ti alzavi sparavi ma quello si alzava ti sparava e morivi prima te. Una guerra impari. Ma Giovanni aveva una visione pubblica del privato. Diceva: bisogna nominare le cose. La mia tragedia deve permettere passi avanti a un sacco di gente. Ognuno di noi deve intervenire nel sociale». Quelle pagine rimangono una delle testimonianze più struggenti dell’epoca: «Ritengo di essermi contagiato nell'estate dell'81 durante una settimana di sfrenatezze nelle saune di San Francisco» scriveva l’inviato de L’Espresso. «Dopo la diagnosi non feci assolutamente nulla". Emanuela ricorda ogni istante di quell’epilogo, sempre al suo fianco insieme al marito Brett Saphiro: «Giovanni voleva stare bene. Fino all’ultimo tentammo una terapia sperimentale in Svizzera dato che i farmaci dell’epoca facevano più male che altro. Ma arrivammo troppo tardi, come ci disse il medico». La foto di Giovanni Forti nei suoi ultimi giorni di vita, le cronache mai banali hanno l’effetto deflagrante di una bomba: entra nell'ombra, scava negli angoli dell’ipocrisia, squarcia il velo del perbenismo. Forti spazza via la narrazione italiana con una luce prodigiosa che ferma il tempo, illumina i pensieri, consente di vedere dentro e vedere dopo. Sorride Emanuela: «Era un eroe? Forse sì. Eppure, era tutto meno che eroico. Ma ironizzava sempre al tempo. Era così».

Il tempo oggi è un altro tempo. In Italia il numero di diagnosi per Hiv è sceso nel 2020, ma la fascia interessata resta quella dei giovani tra i 25 e i 29 anni. U=U ripetono oggi medici e attivisti. Undetectable = Untrasmittable, ossia Non rilevabile = Non trasmissibile. Se la carica virale non è rilevabile, il rischio di trasmissione sessuale dell’Hiv è nullo. Serve controllarsi. Chi è in terapia e ha una carica virale stabilmente non rilevabile, non trasmette il virus ai partner e alle partner con cui ha rapporti sessuali non protetti dal profilattico. Per le persone positive al virus dell’Hiv il tempo oggi è come una luce, nitido e forte come le parole di Giovanni Forti che sopravvivono a distanza di quasi 30 anni.

Nei laboratori di Reithera dove si tenta il vaccino anti-Hiv. Francesco Castagna su L’Espresso l’1 dicembre 2021.

Dopo lo stop ai fondi pubblici l’azienda biotech di Castel Romano (Roma), trova un nuovo sponsor nella fondazione di Bill Gates e si impegna nella ricerca di un antidoto a basso costo per la lotta all’AIDS

Si erano impegnati durante tutto il 2020 a trovare un vaccino italiano contro il Covid-19, i laboratori di Reithera non hanno arrestato la loro attività anche dopo lo stop della Corte dei Conti ad un finanziamento statale. Sul progetto ha pesato anche l’abbandono da parte dell’Istituto per le malattie infettive Spallanzani. La casa farmaceutica di Castel Romano, superate le critiche della comunità scientifica, si è orientata su un nuovo studio: la lotta all’Hiv. Il 3 novembre di quest’anno poi Reithera Srl aveva comunicato di voler utilizzare un fondo da 1,4 milioni, ricevuto dalla Fondazione Bill e Melinda Gates, per lo sviluppo di nuovi vaccini contro le varianti Covid e l’Hiv. Quest’ultimo allo stato attuale è in una prima fase di ricerca.

Per non perdere gli sforzi fatti dall’inizio della pandemia, Reithera si è mossa per utilizzare la piattaforma tecnologica che aveva già messa in piedi per lo studio contro il Covid-19, sfruttandola anche per la lotta all’Hiv. Sul virus da immunodeficienza umana l’ultimo successo risale al 2009, con una cura sperimentata in Thailandia che si è dimostrata efficace in un terzo dei casi. Nonostante le riserve, i risultati di fase 1 e fase 2 di Reithera sul vaccino contro il Covid-19 hanno suscitato l’interesse della Fondazione Gates. I ricercatori infatti sostengono di aver ottenuto ottime risposte dagli anticorpi e di tipo cellulare contro gli antigeni di Sars Cov 2, quest’ultima molto importante per lo sviluppo poi di un nuovo vaccino contro l’Hiv.

40 anni fa, esattamente il 5 Giugno del 1981, questa malattia diventò un fenomeno endemico nei paesi sviluppati e tutti erano speranzosi su una possibile cura, senza farsi molti problemi sulle fasi di sperimentazione. Da allora i decessi a causa di questo virus furono 77,5 milioni e sono circa 33 milioni le persone morte per AIDS. Per fortuna la scoperta di una terapia antiretrovirale ha permesso a 27 milioni di persone (dei 37 con Hiv) di accedere alle terapie di cura, portando ad un calo significativo di persone che hanno sviluppato la sindrome da immunodeficienza acquisita (AIDS).

La presidente Reithera Antonella Folgori ha spiegato nel dettaglio la funzione della piattaforma tecnologica che stanno utilizzando per la produzione dei vaccini

"La fondazione Bill e Melinda Gates ha deciso di investire sulla nostra piattaforma tecnologica perché presenta una serie di caratteristiche molto importanti.", dice Antonella Folgori, Presidente di ReiThera Srl, mentre mostra i laboratori. "Per prima cosa può essere utilizzata per lo sviluppo di diversi vaccini contro infezioni virali. Il processo di produzione di questo vaccino poi è ben standardizzato e può essere facilmente trasferito anche nei paesi a basso e medio reddito, possono quindi essere costruite delle cosiddette facilities per la produzione. È anche un vaccino termostabile e fornisce una risposta immunitaria completa, quindi non solo anticorpi ma anche linfociti T che permettono di non far sviluppare una malattia grave".

A guidare dentro i laboratori Angelo Raggioli e Adriano Leuzzi, rispettivamente Head of Technology Development e Head of Process Development. Si parte da quello di "Sviluppo tecnologico", che si occupa della ricerca di vettori virali per vaccini e per curare malattie genetiche. Il finanziamento serve per una sperimentazione di tipo preclinico, ciò vuol dire che si stanno svolgendo le ricerche su modelli cellulari e animali. L’obiettivo è quello di individuare il miglior immunogeno (un agente in grado di sviluppare una risposta immunitaria). Per il Covid-19 le case farmaceutiche hanno utilizzato la proteina Spike, si dovrà quindi trovare l’equivalente per l’Hiv. Il laboratorio partner della fondazione Gates ha identificato una serie di immunogeni da testare per individuare il migliore contro l’Hiv. "Per noi è stato importante venire a contatto con laboratori molto esperti nel campo di Hiv. Studiosi con un’esperienza ventennale in questo campo possono contribuire con un disegno più razionale dell’immunogeno rispetto a chi non ci ha mai lavorato" – afferma Angelo Raggioli, spiegando che quello che Reithera Srl aggiunge al processo è una piattaforma tecnologica in grado di per sé di indurre una forte risposta cellulare (linfociti T). È la GRAd, basata sull’uso di vettori virali isolati da gorilla (GRAd), tra i più potenti per isolare sviluppare vaccini, che non si replicano all’interno dell’essere umano. Su questa piattaforma si basa il candidato vaccino contro il Covid-19 (GRAd Cov2)

La ricerca è destinata ai paesi a basso e medio reddito, nello specifico in Africa. Si mira quindi ad un processo di produzione facilmente trasferibile in siti esterni, dove l’Hiv colpisce senza tregua e l’accesso alle cure per il Covid-19 è quasi inesistente. La piattaforma, sostiene l’azienda, è in grado di rispondere a queste esigenze.

Con Adriano Leuzzi si parte dal dipartimento di sviluppo e di processo. Qui ci si occupa di ottimizzare il Processo per la fase successiva di produzione. Per far sì che il vettore virale venga prodotto e poi modificato, in maniera tale da arrivare ad un potenziale vaccino, in questo laboratorio si utilizzano strumenti come i bioreattori.

Questi macchinari rappresentano il sistema che permette alle cellule di crescere e funzionare come delle fabbriche di vettore virale. Strumenti attraverso i quali, in maniera molto sofisticata, è possibile monitorare la riproduzione delle cellule in un ambiente artificiale. Questo processo avviene tramite il controllo costante di una serie di parametri, che devono essere tenuti sotto osservazione e ottimizzati: nutrienti, ossigeno, scambi gassosi, PH. Una volta raggiunta una certa concentrazione delle cellule per cui il vettore virale è in grado di replicarsi, viene sottoposto al processo di purificazione. Migliore è la qualità di questa tecnica e più efficace sarà il vaccino. Il lavoro di questo dipartimento è quello di prendere il prodotto che arriva dal reparto di ricerca e sviluppo per costruire intorno a questo un processo di operazioni che permettano di averne uno pulito, sicuro e in grado di fornire un’efficace risposta immunitaria. "In questo laboratorio" – spiega Adriano Leuzzi – "lavoriamo su una scala detta pilota e una volta identificato il processo di qualità e pulizia del vaccino, lo trasliamo alla facility di produzione GMP del lotto clinico (ovvero chi si occupa di produrre medicinali secondo le linee guida europee)".

L’obiettivo è quindi quello di ottimizzare e adattare il processo di produzione di un vaccino utilizzando diverse tecnologie, come quella dei bioreattori. Lo scopo è sempre quello di contenere i costi.

"Reithera è un’azienda che è stata scelta" – afferma Antonella Folgori – "proprio perché al suo interno ha sia la parte di ricerca e sviluppo, ma anche la parte di produzione GMP (buone pratiche di produzione)". In quest’ultimo settore le attività si svolgono oltre un corridoio vetrato. Una serie di aree classificate: stanze per l’espansione e la coltura cellulare.

Per il Covid-19 è stata costruita un’area per la produzione su larga scala del vaccino, al cui interno sono presenti bioreattori grazie ai quali è stato preventivato di poter coprire una richiesta di dosi di 50-100 milioni di dosi all’anno.

Sul fronte della ricerca del vaccino contro l’Hiv si sta procedendo invece su due filoni: individuare l’agente immunogeno migliore da una parte e dall’altra il perfezionamento del vettore dal punto di vista genetico, ovvero la ricerca della tecnologia più buona.

·        L’Influenza.

Addio bollettini e tamponi, la svolta spagnola sul Covid che piace ai virologi. Bassetti e Gismondo invitano l'Italia a seguire il modello della Spagna, dove il premier ha annunciato di voler trattare il Covid come una normale influenza per tornare a una vita "normale". Il Dubbio l'11 gennaio 2022.

La Spagna si sta preparando a gestire il Covid come una normale influenza «e non vedo grosse differenze tra quel paese e l’Italia. Dobbiamo cercare di cambiare la testa dichi ci governa soprattutto nell’ambito della ministero della Salute con meno teoria e più pratica. Anche l’Italia è pronta a svoltare da pandemia a endemia. Ci sono però troppe leggi, leggine, lacci e lacciuoli, che ci stanno complicando la vita in maniera impressionate. L’Italia con un cambio di passo segua il modello spagnolo». A dirlo è Matteo Bassetti, direttore della Clinica di Malattie infettive all’ospedale San Martino di Genova, dopo l’annuncio del premier spagnolo Pedro Sanchez, il quale propone la questione a livello europeo: basta tracciare e confinare chiunque risulti positivo al tampone.

Secondo Sanchez infatti, sulla base dello scarto tra numero di contagi e decessi, si stanno creando le condizioni per passare da un quadro di «pandemia» a uno di «malattia endemica» come è appunto l’influenza stagionale. «Abbiamo quasi il 90% degli italiani che sono vaccinati (82%) o guariti dall’infezione, e in questi giorni con l’aumento imponente dei contagi più e più persone si stanno proteggendo anche in maniera naturale dall’infezione – ricorda Bassetti – Siamo quindi vicino all’immunità di gregge. Dobbiamo finire di fare alcune cose che andavano bene un anno fa ma oggi non vanno bene più: il report giornaliero dei contagi che francamente non fa altro che mettere ansia a chi lo legge; non ha più senso tamponare gli asintomatici, concentriamoci su chi ha i sintomi come si fa con l’influenza; classifichiamo come casi Covid solo chi ha una polmonite, ascoltando i medici; corriamo con le terze dosi; mettiamo l’obbligo vaccinale – suggerisce l’infettivologo – per chi ancora non si è immunizzato perché sono queste le persone che affollano gli ospedali; ma poi occorre avere una visione diversa, avvantaggiare i vaccinati rispetto ai non immunizzati intervenendo sulla durata delle quarantene».

D’accordo anche la microbiologa Maria Rita Gismondo, che invita a guardare al piano della Spagna. «Un modello di convivenza con il virus che, come dico da tempo, avremmo dovuto cominciare a pianificare anche noi», sottolinea all’Adnkronos la direttrice del Laboratorio di microbiologia clinica, virologia e diagnostica delle bioemergenze dell’ospedale Sacco di Milano. Mentre in Italia «purtroppo viviamo ancora in un isterismo che deve finire. E soprattutto deve finire questo “tamponificio” che non serve a nulla e ci sta facendo sprecare tante risorse economiche e umane che potrebbero essere investite diversamente». Se l’intenzione della Spagna è di «proporre un progetto da discutere a livello Ue per una condivisione almeno nell’area europea – dice l’esperta – credo che sia davvero arrivato il tempo di metterlo in atto, perché abbiamo capito che questo virus resterà con noi per tanti anni o forse per sempre, e perché oggi abbiamo i mezzi per convivere con Sars-CoV-2 minimizzandone il più possibile i danni: armi come ivaccini, soprattutto, ma anche come i nuovi farmaci antivirali». Considerando inoltre che «la tendenza è verso una sostituzione della variante Delta con la Omicron, molto contagiosa ma con una patogenicità inferiore ormai acclarata», secondo Gismondo «abbiamo tutti gli elementi per poter pensare di gestire Covid-19, così come ha spiegato il premier spagnolo, come un’influenza stagionale. Malattia che certamente non è da sottovalutare, specie per le persone fragili – tiene a precisare – ma che non è un’emergenza».

Intanto Donato Greco, infettivologo e membro del Cts, fa sapere che «sarebbe un’ottima idea far diventare settimanale il bollettino dei contagi Covid, mi sembrerebbe naturale farlo. Noi del Cts stiamo discutendo del parlarne col governo».  Mentre il sottosegretario al ministero della Salute, Andrea Costa, dice: «Sicuramente l’obiettivo è convivere con il virus, ma una convivenza che non produca più decessi e ricoveri, soprattutto in terapia intensiva. E per arrivare a questa convivenza bisogna aumentare la platea di vaccinati». Nel 2022 ci libereremo del virus? «Penso di sì, dobbiamo mettere in evidenza che la scienza sta continuando a studiare ogni giorno quindi in futuro potremmo avere a disposizione nuovi strumenti per combattere la pandemia».

Da ansa.it il 30 dicembre 2021. Israele ha registrato il suo primo caso di quella che è stata chiamata "flurona": un'infezione contemporanea di influenza e Covid. Lo riporta il sito Ynet spiegando che si tratta di una partoriente trovata positiva alle due infezioni durante analisi all'ospedale Beilinson di Petach Tikva, nel centro di Israele. Secondo il nosocomio - citato da Ynet - la giovane madre, che non è vaccinata contro nessuno dei due virus, si sente bene e dovrebbe essere dimessa dall'ospedale oggi stesso. Il ministero della sanità - ha precisato il sito - sta ancora esaminando il caso che era relativamente leggero, per determinare se la combinazione delle due infezioni può causare una malattia più grave. Funzionari della sanità hanno stimato - secondo il sito - che molti altri pazienti hanno contratto i due virus ma non sono stati diagnosticati. «Lo scorso anno - ha detto il professor Arnon Vizhnitser, direttore del dipartimento ginecologia dell'ospedale - non abbiamo visto casi di influenza tra le donne gravide o le partorienti. Oggi assistiamo a casi sia di Covid sia di influenza che stanno iniziando ad alzare la testa. Vediamo sempre più donne in gravidanza con l'influenza».

Si stima che il 3% dei positivi abbia anche un’altra infezione virale. Quali sono i sintomi di Flurona, la doppia infezione da Covid e influenza: “Doppio vaccino per evitarlo”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 3 Gennaio 2022. Si chiama Flurona ed è un’infiammazione simultanea di influenza di tipo A o B e da Coronavirus Sars-CoV-2. Praticamente nello stesso momento una persona che l’ha contratta ha in contemporanea due influenze. Lo dice la parola stessa: “Flu”, influenza in inglese e “rona”, che sta per coronavirus. Non si tratta di un nome scientifico ma di una invenzione giornalistica del quotidiano israeliano Ynet che proprio lì ne dava notizia del primo caso: una donna in gravidanza.

Non si tratta di una situazione impossibile e nemmeno di una novità in campo scientifico. Anche nelle altre influenze può capitare una coinfezione batterica. A spiegarlo in un’intervista al Corriere della Sera è Pierangelo Clerici, presidente dell’Associazione microbiologi italiani e della Federazione italiana società scientifiche di laboratorio. “Nelle pandemie influenzali le coinfezioni batteriche sono una delle principali cause di mortalità – ha spiegato l’esperto ma sono meno diffuse tra i positivi a Sars-CoV-2 tant’è che non è raccomandato l’uso routinario di antibiotici per gestire l’infezione da Covid-19. Sono anche state documentate fin dall’inizio della pandemia coinfezioni tra Sars-CoV2 e altri virus respiratori tra cui rinovirus, enterovirus, influenza e altri coronavirus del raffreddore in circolazione”.

Ma il microbiologo rassicura che i due virus non si mescolano generando una nuova malattia. “Non è ancora chiaro se la doppia infezione possa causare una malattia più grave e come i due agenti virali interagiscono tra loro – continua Clerici – anche se in genere un patogeno prevale sull’altro. È però verosimile che una coinfezione in un paziente fragile possa avere un decorso più complesso dal momento coesistono due azioni infiammatorie che possono causare problemi respiratori anche importanti. Non va dimenticato che in era pre pandemica ogni anno si registravano in Italia tra gli otto e i diecimila morti per complicanze dell’influenza”.

I casi di Flurona non sono ancora certi. Si stima che il 3% dei positivi abbia anche un’altra infezione virale. “A inizio pandemia la co-infezione era stimata intorno al 12%: all’epoca non erano ancora utilizzate le mascherine dalla popolazione generale, che proteggono anche dall’influenza – spiega Clerici – Una volta diagnosticato Covid-19 con un tampone molecolare il paziente viene trattato per quella patologia e non è prassi indagare con un altro test molecolare per capire se è presente anche l’influenza o un altro virus respiratorio, che peraltro presentano sintomi sovrapponibili, pertanto moltissimi casi sfuggono al tracciamento”.

I sintomi di Flurona non sembrerebbero essere troppo diversi da quelli del Covid o di altre influenze. “febbre alta e almeno un sintomo sistemico (ad esempio spossatezza, dolori muscolari) e un sintomo respiratorio (come tosse, congestione nasale). I sintomi del Covid sono più vari ma comunque tutti sovrapponibili ai disturbi stagionali. Con la variante Omicron i sintomi sembrano più leggeri almeno tra la popolazione vaccinata e prevalgono mal di gola, raffreddore e naso che cola. La perdita di gusto e olfatto, caratteristico delle prime ondate del coronavirus sembra oggi meno frequente. Non è comunque possibile distinguere il Covid da un’influenza e l’unico modo certo per fare una diagnosi differenziale è eseguire un tampone”.

Come fare per evitare la coinfezione? “Per limitare il più possibile il rischio di coinfezione è raccomandato il vaccino sia contro l’influenza sia contro il Covid. Non è una garanzia assoluta di non contrarre le infezioni virali, ma è un modo per mitigare il rischio di andare incontro a una malattia grave”

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

·        La Sars-CoV-2 e le sue varianti.

Da Ansa il 16 gennaio 2021.

"Il mio nome è Kovid e non sono un virus". Inizia così l'articolo che il Washington Post dedica alle persone e aziende che nel mondo hanno il nome del virus. Kovid Kapoor di Bangalore, in India, ha scritto quel tweet nel febbraio 2020, subito dopo che l'Oms aveva annunciato il nome ufficiale del covid-19. A quell'epoca non aveva idea di cosa avrebbe comportato il suo nome, che in sanscrito significa 'studioso, persona colta', e tanti come lui si sono addirittura riuniti sui social per lamentarsi delle loro brutte esperienze.

"E' stato pazzesco, ma ho deciso di prendere la situazione con buon umore", ha detto al Wp. La 28enne Kovid Jain, della città indiana di Indore, ha raccontato invece che "per il primo anno è stato esilarante", ma ora sceglie spesso di non usare il suo nome in pubblico, optando per quello di suo marito o altri soprannomi, "per risparmiarsi prese in giro indesiderate".

Il Wp cita nel suo articolo anche altre persone o aziende con nomi collegati al virus: dalla birra messicana Corona (una delle prime prese di mira nel 2020) alla compagnia area americana Delta. Mentre l'artista Omarion, il cui vero nome è Omari Ishmael Grandberry, su Twitter ha cercato di cancellare qualsiasi confusione riguardo il suo nome e la variante omicron: "Sono un musicista e intrattenitore, non una variante", ha scherzato mentre augurava ai fan un felice anno nuovo.

Maria Sorbi per “il Giornale” il 17 dicembre 2022.

E forse, dopo tre-anni-tre, ce la facciamo a mettere la parola fine alla pandemia che ha travolto le nostre famiglie, i nostri ospedali, le nostre abitudini. Che ha messo in ginocchio la nostra economia. E che ha ucciso 182mila persone. «Il Covid non è più una pandemia e non è nemmeno un'endemia» decreta l'agenzia del farmaco Aifa e sono parole che suonano come musica. Soprattutto se con la mente torniamo solo all'anno scorso, quando erano a rischio i pranzi di Natale coi parenti, la scuola in presenza ed era tutto un metti e togli di mascherine che ci sembrava perfino normale. 

«È un virus che in questa fase mantiene una circolazione diffusa nella popolazione di vaste aree del globo come quello di Dengue e Hiv - spiega il virologo Giorgio Palù, presidente Aifa - Continuerà ad essere presente con picchi nella stagione invernale assieme agli altri virus respiratori ma la sua letalità su stima globale è ora dello 0,045% rispetto all'1-2% di quando ha esordito nel nostro Paese, quindi meno letale dell'influenza che questa settimana». 

Continueremo a vaccinare i più fragili e, anzi, non ci si dimentichi che è stata proprio la vaccinazione di massa a permetterci di arrivare a questo risultato. Per di più Omicron si è stabilizzata e con l'autunno, contrariamente a quanto si temeva, non sono spuntate nuove varianti nè più veloci nè più pericolose.

In una sorta di bilancio, il virologo Guido Silvestri, a capo del board internazionale dell'istituto Spallanzani di Roma, cita il lavoro pubblicato su Bmj che ha valutato l'efficacia dei vaccini in bambini e ragazzi durante l'era Delta e l'era Omicron. Gli esperti concludono che l'efficacia del vaccino nella prevenzione della mortalità sia rimasta elevata in questa fascia d'età indipendentemente dalla variante circolante. «Chi ne ha sostenuto l'utilità, come il sottoscritto - dice Silvestri - non ha 'messo a repentaglio la salute dei nostri figli', come qualcuno ha scritto, ma ha contribuito a salvare vite di bambini e adolescenti.

Chi invece ha remato contro dovrà vedersela con la propria coscienza». «C'è purtroppo ancora un sacco di gente non vaccinata tra i 70 e gli 80 anni e queste persone, purtroppo, se prendono Omicron, muoiono esattamente come si moriva prima, finiscono in terapia intensiva come prima, finiscono intubati e con il casco come prima» tiene a precisare Matteo Bassetti, direttore della Clinica di Malattie infettive del Policlinico San Martino di Genova, che sostiene sia passato un concetto sbagliato su Omicron. Si è pensato fosse meno aggressiva rispetto alle stime. In realtà è diventata meno aggressiva perchè abbiamo lo scudo dei vaccini.

Quest' anno a mettere a rischio il pranzo di Natale sono l'influenza e le altre malattie respiratorie che hanno un'incidenza di cinque volte superiore rispetto al virus: 16 adulti e 60 bambini ogni mille abitanti. «Come previsto, la stagione fredda porta con sé il consueto aumento dei casi di influenza. 

Dobbiamo spaventarci? Assolutamente no. Cosa dobbiamo fare? Innanzitutto vaccinare le persone fragili e gli anziani» suggerisce Francesco Vaia, direttore generale dell'Inmi Spallanzani di Roma.

La Mers, ribattezzata «influenza del cammello», è una patologia che conosciamo dal 2012, è un coronavirus che ha un'alta letalità e che non si riesce a controllare da allora nelle regioni del Medio Oriente. 

Sta colpendo soprattutto i bambini e, in base ai dati Iss, alcune regioni hanno già superato la soglia di intensità: Piemonte, provincia autonoma di Bolzano, Emilia Romagna, Toscana, Marche e Abruzzo. 

«È sostanzialmente come il Covid e durante la stagione provocherà qualcosa come 10 milioni di casi complessivi» spiega il virologo Fabrizio Pregliasco. «Vedendo i dati del report Influnet - spiega Antonello Maruotti, ordinario di Statistica dell'Università Lumsa l'influenza ha raggiunto il picco per tutte le fasce d'età, anche tra i bambini 0-4 anni, la fascia più colpita e non è detto che scenda. Per le altre fasce, 5-14 anni, 15-64 anni e over 65, potrebbe essere la prima fase di discesa.

Questa e probabilmente la prossima settimana saranno le settimane peggiori».

Le sottovarianti di Omicron. Covid, Gryphon e le altre varianti che potrebbero arrivare dalla Cina: i sintomi a cui fare attenzione. Elena Del Mastro su Il Riformista il 29 Dicembre 2022

La Cina torna a preoccupare il mondo per quanto riguarda i contagi Covid. Il responsabile della recente impennata potrebbe essere la sottovariante XBB.1.5 del virus SarsCoV2, conosciuta anche come ‘Gryphon‘, una variante dell’ormai conosciuta Omicron. Ma secondo gli esperti a farsi strada impennando il numero di contagi sono anche Cerberus e Centaurus. Purtroppo dalla Cina su numero contagi e tipo di varianti in circolazione non ci sono dati certi. Ed è questo il motivo per cui molti governi nel mondo hanno deciso di correre ai ripari per evitare una nuova ondata imponendo tamponi e sequenziamento per tutti i viaggiatori provenienti dalla Cina.

Nei primi giorni di tamponi obbligatori negli aeroporti italiani è emerso che i viaggiatori dalla Cina per la metà circa sono risultati positivi al Covid, virus portato dal Paese asiatico dove si contano circa 1 milione di contagi e 5mila morti al giorno. Quale variante vada per la maggiore non è possibile saperlo con certezza. La buona notizia è che sembrerebbero essere tutte sottovarianti di Omicron, un tipo di virus che circola da tempo in Europa e nel resto del mondo e verso cui moltissimi hanno un qualche grado di immunità, derivante dai vaccini o da pregressa infezione.

Secondo quanto riportato dal Corriere, i sequenziamenti avvenuti in Lombardia dai tamponi di chi arrivava dalla Cina hanno evidenziato solo varianti Omicron, in particolare: B 5.7, BA 5.2, BE 1.1.1, BF 7, BQ 1.1. Quel poco che il paese del Dragone ha depositato e ufficializzato riguarda le sequenze di XBB, BF.7, BA.5.2 e BA.2.3.20 che sono tutte Omicron. L’altra buona notizia è che si tratta di tutte sottovarianti che sono sotto osservazione da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) da ottobre. Tra queste anche Gryphon che in particolare preoccupa di più gli esperti che la considerano la possibile causa dell’eventuale ondata cinese di contagi.

Gryphon in particolare era già presente in Italia e in Cina, è il risultato ricombinante dei sotto-lignaggi BJ.1 e BM.1.1.1, ma a sua volta ha generato XBB.1.5 che è la vera indiziata perché a New York è aumentata del 140% nell’ultimo mese e ha fatto segnare un tasso di ricoveri ospedalieri da Covid superiore rispetto a quello dell’ondata dell’estate 2021. Questa sottovariante, XBB.1.5, contiene una mutazione chiamata F486P, che le permetterebbe di sfuggire agli anticorpi meglio delle cugine e sarebbe anche più trasmissibile. E da qui il motivo della preoccupazione. Ma uno studio della Emory University, della Stanford University e del NIAID pubblicato il 21 dicembre sul New England Journal of Medicine mostra che i vaccini bivalenti a Rna che sono stati usati in Italia per i richiami, migliorano la neutralizzazione contro le sotto varianti Omicron tra cui anche BA.2.75.2, BQ.1.1 e XBB.

I sintomi a cui prestare attenzione

Cerberus e Gryphon sono più veloci nell’eludere il sistema immunitario e provocano conseguenze talvolta difficili da distinguere. Come riconoscerle? Occorre essere prudenti: non bisogna aspettare di avere la febbre a 38 o di respirare male per fare un tampone. Anche una temperatura non elevata, sotto i 38 gradi, deve indurre alla cautela. Sarebbe meglio comunque fare un controllo.

I sintomi chiave delle varianti Gryphon, Centaurus e Cerberus sono respiratori: naso che cola, mal di gola, mal di testa, mosse secca, affaticamento, starnuti, vertigini, mal di orecchio. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), nel caso della Gryphon sarebbero più aggressivi. Se si avvertono sintomi simili a quelli dell’influenza, come raffreddore, tosse stizzosa e mal di gola, vale quindi la pena fare un test per verificare di non avere il Covid. La particolarità di queste nuove varianti è che sono difficili da riconoscere. Sono simili all’influenza (che in questo momento sta vivendo il suo picco) e non hanno più quei sintomi inconfondibili che c’erano all’inizio della pandemia come ageusia e anosmia, ossia perdita (temporanea) di gusto e olfatto. Per questo gli esperti consigliano di ricorrere al tampone al più presto.

“Stiamo cominciando a conoscere meglio Gryphon e Cerberus – spiega – . È confermato che tendono a manifestarsi soprattutto nelle alte vie respiratorie, causando sintomi simili a quelli dell’influenza, come raffreddore, tosse stizzosa e mal di gola. Fermo restando che è da capire quanto ciò sia ‘demeritò di un virus meno patogeno e quanto merito dell’immunità che si è creata nella popolazione”, ha spiegato Fabrizio Pregliasco, direttore sanitario dell’Istituto Galeazzi di Milano.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Da lastampa.it il 29 Dicembre 2022.

«La variante Omicron, fino a poco fa, è circolata poco in Cina. A differenza di quanto avvenuto in Europa negli ultimi mesi soltanto una piccola parte di popolazione è venuta a contatto con il virus. La riapertura della circolazione, con una politica sanitaria sbagliata e inaccettabile per una democrazia che precedentemente aveva imposto misure restrittive esagerate, ha avuto l’effetto di un detonatore». Così il ministro della Salute Schillaci nell’informativa al Senato sul «caso Cina» e sui controlli sanitari negli aeroporti sui passeggeri provenienti da Pechino e dintorni.

La politica sanitaria cinese «quasi paradossale»

«La situazione in Cina sul Covid appare un unicum quasi paradossale», ha affernato il ministro. «Un percorso inverso rispetto a quanto fatto in Europa e in Nord America. E' stata la prima nazione ad osservare i casi e nella primavera del 2020 ha avuto il più alto numero di contagi. Le immagini degli ospedali di Wuhan e delle altre megalopoli cinesi sono state un'icona della malattia. Anche altri stati dell'area del Pacifico - ha ricordato - avevano scelto una politica di stretto controllo della diffusione del contagio, ma parallelamente avevano attuato campagne vaccinali altamente efficienti». 

I primi controlli a Malpensa

«I primi sequenziamenti del virus effettuati sui tamponi di Malpensa sono già presenti», ha aggiunto il ministro. «In Cina sembra prevalere Omicron BF7, una variante nota, e questo è rassicurante, ma i dati sono ancora poco affidabili. Il salto evolutivo da monitorare è quello delle varianti del virus che vadano oltre Omicron. In questo momento è importante evitare interpretazioni allarmistiche».

I controlli e il richiamo all’Europa

Poi il ministro ha affrontato il problema dei voli che arrivano nel nostro paese non direttamente dalla Cina: «Impossibile tracciare i percorsi e i voli di chi viene, serve un raccordo con Ue per limitare l'afflusso di passeggeri positivi dal paese asiatico: abbiamo tenuto rapporti con Ecdc per uno continuo scambio di informazioni per provvedimenti rapidi e l'Italia partecipa al progetto di allerte precoci». L’agenzia europea ha risposto, a breve giro, ritenendo «ingiustificata» l’introduzione di test obbligatori per i viaggiatori provenienti dalla Cina per l’Ue nel suo complesso».

Le misure adottate

«Per rafforzare il monitoraggio sui potenziali rischi legati alla situazione in Cina ho convocato per domani l'unità di crisi come osservatorio del ministero sulla materia». Schillaci ha confermato le misure, con i tamponi effettuati a chi entra in Italia, e ha annunciato la proroga al 30 aprile dell’uso delle mascherine in ospedali e Rsa.

La Cina chiede «misure scientifiche e appropriate»

La Cina tenta di rassicurare sulla diffusione del Covid-19 e chiede misure «scientifiche e appropriate» dopo l'imposizione di restrizioni da parte di alcuni Paesi all'arrivo di passeggeri provenienti dalla Cina. Italia compresa.

Covid, polmoniti, lockdown e vaccini: problemi pesanti anche per gli occhi. Maddalena Bonaccorso su Panorama il 25/09/22

Maculopatie, cataratte, abbassamento della vista, occhi rossi, uveiti e altri problemi oculistici. Sono le eredità della pandemia, sia della malattia da Sars Cov 2 in sé (e soprattutto delle sue diffusissime complicazioni polmonari) che dei lunghi periodi di lockdown, inchiodati ai computer e agli schermi televisivi, e sotto costante stress oculare. La salute degli occhi degli italiani potrebbe andare molto meglio, sostiene il dottor Claudio Savaresi, responsabile del Centro del Benessere Visivo di Palazzo della Salute e responsabile dell’Unità di Oculistica del Policlinico San Marco, struttura bergamasca del Gruppo San Donato: “Durante il periodo del Covid” spiega il medico “che ovviamente comprende anche i mesi della campagna vaccinale, si sono manifestate diverse patologie oculari, in numero superiore rispetto a quanto fosse stato evidenziato prima. Parlo per esempio di forme di cataratta abbastanza precoci, e cataratte secondarie, che sono quelle che si manifestano dopo aver tolto il cristallino naturale e averlo sostituito. Inoltre, la pericolosissima “tempesta di citochine” che colpisce chi contrae il Covid in forma grave può causare trombi che possono spostarsi nel circolo sanguigno e raggiungere arterie, vene e capillari oculari. Sono anche osservazioni sul campo, che in molti in oftalmologia stiamo riscontrando. Dobbiamo tenerne conto”.

Riguardo alle uveiti e recrudescenze delle stesse, sono stati segnalati anche 21 casi –nella letteratura sottoposta a revisione - verificatisi nelle settimane successive alla vaccinazione con Pfizer: percentuali ovviamente bassissime ma che comunque vanno annoverate. Da notare, inoltre, come le uveiti rientrino da sempre anche tra gli effetti collaterali di altri vaccini, come quelli contro l’epatite B o il papilloma virus: niente di nuovo o di inaspettato, quindi: “E ovviamente nulla a confronto dei danni da Covid-19 e nulla che possa inficiare l’utilità della campagna vaccinale, senza la quale non saremmo qui a parlare dei problemi dell’occhio” continua Savaresi “Anche perché sono stati tutti casi brillantemente risolti. E’ stato rilevato anche qualche caso isolato di neuropatia ottica, ma sono davvero eventi molto rari, quindi con una percentuale rischio-beneficio assolutamente a favore del vaccino. Teniamo anche presente che durante il Covid, verificandosi numerose bronco-polmoniti, era molto facile riscontrare poi problemi oculari, data la forte correlazione tra la patologia polmonare e quelle dell’occhio. Possiamo quindi dire che erano effetti secondari della principale complicazione del virus. Dopo la malattia abbiamo affrontato una grande problematica legata a occhi rossi e congiuntiviti, e a tempi lunghi abbiamo evidenziato anche una serie di cataratte particolari, retro lenticolare alla lente artificiale che erano state impiantate. Probabilmente affronteremo in futuro tutta una serie di strascichi dovuti anche al long covid, emergenza sanitaria della quale ancora si sa troppo poco”. STILI DI VITA E SALUTE DELL’OCCHIO Sicuramente, occorrerebbe anche una revisione degli studi internazionali, per meglio comprendere i danni che la pandemia potrà ancora creare ai nostri occhi, con le necessarie ricadute – non solo di salute pubblica, ma anche di spesa- sul sistema sanitario nazionale. “Il fatto che da “semplici” esami, per esempio sulle cataratte, si possa quasi con certezza affermare se il paziente ha fatto o meno il Covid” prosegue Savaresi “è sufficiente per capire quanto questo nuovo virus con tutte le sue conseguenze abbia impattato sulla nostra salute generale e su quella degli occhi. Di certo anche i lockdown hanno avuto il loro peso, soprattutto ovviamente nelle fasce di popolazione degli over 60, costringendo ad interrompere le attività fisiche, aumentando il sovrappeso e i valori pressori e giocoforza spingendo le persone a trascorrere molto tempo davanti agli schermi di tv, smartphone e computer”. IN VISTA DELL’AUTUNNO A livello di Covid, le patologie Con la diffusione di Omicron e l’affacciarsi di nuove varianti, per fortuna al momento non eccessivamente preoccupanti, occorre sicuramente essere prudenti e dedicare ai nostri occhi tutta una serie di attenzioni in più, per esempio sottoponendosi a visite di controllo anche in assenza di disturbi particolari : “E’ fondamentale curare la salute dell’occhio” conclude Claudio Savaresi “prestando attenzione a ogni cambiamento dello status di vista e benessere oculare. Perché trascurare la prevenzione, come fatto –giocoforza durante i mesi più oscuri della pandemia, può peggiora

Il coronavirus si diffonde rapidamente nel corpo e può rimanere negli organi per mesi. Cristina Marrone su Il Corriere della Sera il 14 Gennaio 2022.

Il nuovo studio del National Institutes of Health degli Stati Uniti contribuisce a spiegare gli effetti del Long Covid anche in chi è paziente asintomatico o con malattia lieve.  

Il coronavirus che causa il Covid-19 può diffondersi al cuore e al cervello entro pochi giorni dall'infezione e può sopravvivere per mesi negli organi, secondo un nuovo studio del National Institutes of Health. La ricerca ha evidenziato come Sars CoV-2 oltre a intaccare organi anche al di fuori del sistema respiratorio può permanere anche mesi dopo l’infezione iniziale. Il lavoro è stato condotto nel primo anno di pandemia, prima che i vaccini fossero disponibili e non ha esaminato l’impatto dell’immunizzazione sulla diffusione del virus. Lo studio, che può contribuire a spiegare il cosidetto «Long Covid», sintomi che persistono a lungo, anche mesi dopo la guarigione virologica, cioé con tampone negativo, è considerato una delle revisioni più complete su come il virus si replica nelle cellule umane e persiste nel corpo ed è in fase di revisione per la pubblicazione sulla rivista Nature. «Per tanto tempo ci siamo chiesti perché il Long-Covid possa colpire così tanti organi e apparati e questa ricerca è un aiuto concreto per spiegare come mai il Long Covid possa riguardare anche persone che hanno avuto una malattia lieve o asintomatica» ha commentato a Bloomberg Ziyad Al-Aly direttore del Clinical Epidemiology Center presso il Veterans Affairs St. Louis Health Care System nel Missouri.

I ricercatori del National Institutes of Health hanno campionato e analizzato i tessuti delle autopsie su 44 pazienti morti dopo aver contratto il coronavirus durante il primo anno della pandemia . Hanno trovato particelle virali persistenti in più parti del corpo, inclusi cuore e cervello, fino a 230 giorni dopo l'inizio dei sintomi anche in chi era deceduto per altre cause, pur risultando positivo in modo lieve o asintomatico. Lo stesso meccanismo di infezione persistente è stato osservato in pazienti con morbillo.

Le infezioni sono risultate più importanti nel sistema respiratorio, ma i risultati hanno mostrato che il virus si può «diffondere precocemente durante l’infezione e colpire le cellule in tutto il corpo, compreso il cervello, così come il tessuto oculare, i muscoli, la pelle, i nervi, i tessuti periferici, il sistema cardiovascolare, gastrointestinale, endocrino e linfatico» spiegano gli autori.

«Non sappiamo ancora quale sarà il peso della malattia cronica negli anni a venire» da detto a Bloomberg News Raina MacIntyre, professoressa di biosicurezza all'Università del New South Wales. «Vedremo un'insufficienza cardiaca a esordio giovanile? Una demenza a esordio precoce? Non abbiamo ancora risposte ma per questo dobbiamo essere cauti e mitigare il più possibile la diffusione di questo virus».

DAGONEWS il 28 novembre 2022.

Uno studio di un laboratorio sudafricano che per sei mesi ha utilizzato campioni di Covid-19 prelevati da un individuo immunodepresso, ha dimostrato che il virus si è evoluto diventando più pericoloso, indicando che una nuova variante potrebbe causare malattie peggiori dell'attuale predominante ceppo omicron.

Secondo uno studio di laboratorio, il prossimo ceppo di Covid-19 potrebbe essere più pericoloso.

La ricerca, condotta dallo stesso laboratorio che l'anno scorso aveva testato per la prima volta il ceppo Omicron contro i vaccini, ha utilizzato campioni di una persona infettata dall'HIV. 

Il virus ha inizialmente causato lo stesso livello di fusione e morte cellulare del ceppo omicron BA.1, ma con l'evoluzione i livelli sono aumentati fino a diventare simili alla prima versione del coronavirus identificata a Wuhan in Cina. 

Guidato da Alex Sigal dell'Africa Health Research Institute di Durban, lo studio indica che l'agente patogeno potrebbe continuare a mutare e una nuova variante potrebbe causare malattie più gravi e morte rispetto al ceppo omicron, relativamente mite. Lo studio non è ancora stato sottoposto a revisione paritaria e si basa esclusivamente sul lavoro di laboratorio su campioni di un solo individuo.

Sigal e altri scienziati hanno precedentemente ipotizzato che varianti come la beta e la omicron - entrambe inizialmente identificate nell'Africa meridionale - possano essersi evolute in persone immunodepresse come quelle affette da HIV. Il lungo tempo necessario a questi individui per scrollarsi di dosso la malattia permette al virus di mutare e di diventare più abile nell'eludere gli anticorpi.

Secondo Christian Drosten, il più importante virologo tedesco, la Cina, dove la politica del vaccino zero ha finora limitato il contagio, potrebbe generare una nuova variante se le infezioni prendessero piede e si verificasse un'impennata dei casi. 

La copertura vaccinale della Cina non è elevata tra gli anziani e ha utilizzato esclusivamente vaccini prodotti in patria che non si sono dimostrati efficaci come quelli prodotti da Pfizer Inc. e Moderna Inc.

LA PANDEMIA NON È FINITA. È arrivata una nuova (preoccupante) variante del coronavirus. ANDREA CASADIO su Il Domani il 20 settembre 2022

In India è comparsa una nuova variante di Omicron, denominata BA.2.75.2, che è più trasmissibile e più immunoevasiva di tutte le precedenti, e si sta diffondendo rapidamente.

La sottovariante BA.2.75.2 per ora è presente in India, Cile, Gran Bretagna, Singapore, Spagna e Germania.

La sottovariante BA.2.75.2 è dotata di alcune mutazioni aggiuntive a livello della proteina Spike che le conferiscono grandi capacità di sfuggire agli anticorpi neutralizzanti. Anche chi si era già ammalato di Covid ora potrebbe ammalarsi di nuovo.

Da ilgiorno.it il 13 agosto 2022.

I ricercatori stanno studiando le prossime mosse del Covid-19 (per anticiparle), mentre i paesi attendono la fine delle ondate causate dalla variante BA.5. In particolare, c'è una sottovariante Omicron chiamata BA.2.75 e soprannominata 'Centaurus' che sta crescendo rapidamente in India. Alcuni scienziati, in un articolo su Nature, stanno lanciando l'allarme, mentre altri affermano che è troppo presto per dire se la variante si diffonderà ampiamente.

BA.2.75 è stato rilevato in più di 20 paesi in tutto il mondo e i ricercatori sono in attesa di sapere se aumenterà il numero di casi. Una serie di studi suggerisce che le due varianti hanno capacità più o meno simili di schivare l'immunità conferita dall'infezione e dalla vaccinazione. Ciò suggerisce che 'Centaurus' potrebbe non spingere i casi al di fuori dell'India (dove non sembrano ancora aumentare i tassi di ospedalizzazione o mortalità), almeno non mentre l'immunità della popolazione è alta e prima che la variante raccolga molte mutazioni extra.

La sorveglianza delle varianti Sars-Cov-2 sta cadendo nel dimenticatoio in molti paesi, ma l'India sembra essere l'epicentro della diffusione di BA.2.75. Questo lignaggio carico di mutazioni si è evoluto dalla sottovariante BA.2 di Omicron, che si è diffusa ampiamente all'inizio del 2022. I ricercatori in India hanno sequenziato più di 1.000 campioni della variante da maggio. I dati suggeriscono che circa due terzi dei nuovi casi sono attualmente causati da BA.2.75, afferma Shahid Jameel, virologo dell'Università di Oxford, nel Regno Unito, che in precedenza ha guidato il consorzio indiano di sequenziamento Sars-Cov-2. 

Centaurus in Italia

L'Istituto superiore di Sanità segnala che in Italia l'incidenza della variante BA.2.75 - Centaurus , secondo i dati al 2 agosto, è ferma. Finora è stato registrato solo un caso di Centaurus in Italia. 

I sintomi della variante Centaurus

Non essendo ancora alto il numero di casi dovuti a questa variante di Omicron, non si hanno dati precisi sui sintomi. Ma parlando di Covid, i sintomi non sembrano essere diversi dalle altre varianti e sottovarianti. 

Quindi può comparire come una normale influenza , con tosse, raffreddore, febbre, affaticamento e dolori muscolari, ma possono esserci anche complicazioni respiratorie . Come è stato appurato in questi anni di pandemia, molto dipende anche dall'età del paziente e dalla presenza o meno di malattie pregresse.

  Covid, Centaurus pronta a fare migliaia di contagi: da settembre sarà dominante. Donatella Zorzetto su La Repubblica il 26 Agosto 2022 

Secondo gli esperti la nuova variante soppianterà Omicron 5 diffondendosi a macchia d'olio grazie all'elevata velocità di contagio. Pensiamoci adesso, senza dover sempre rincorrere il virus

L'autunno apre le porte a Centaurus. La nuovissima variante Covid Omicron, che porta la sigla BA.2.75, minaccia di avanzare in modo massiccio in Europa. E a settembre, secondo le previsioni, dovrebbe entrare con forza nella vita degli italiani. Centaurus fa paura perché è veloce. Talmente rapida nel contagiare che, si ritiene, diventi prevalente in poche settimane, scalzando Omicron 5, che oggi ancora occupa la prima posizione nella classifica dei contagi nazionali.

OLTRE OMICRON. Cosa sappiamo su Ba.2.75, la nuova variante del Covid-19. Il Domani il 05 luglio 2022

Per gli esperti ha un alto tasso di contagiosità, ma non è ancora chiaro quanto sia letale. Casi registrati in India, Regno Unito, Australia e Nuova Zelanda

La variante Omicron del Covid-19 continua a generare nuove sotto varianti. Gli scienziati ne hanno già evidenziate alcune come la Ba.2, prevalente già da alcune settimane in Italia e in Europa. Tuttavia, ora, soprattutto dall’India, emerge anche una nuova sotto variante, si chiama Ba.2.75 ed è stata già rilevata in diverse aree del paese. Gli esperti sono convinti che sia più virulenta e abbia un grado di trasmissione più alto.

LA DIFFUSIONE E LE CARATTERISTICHE

I ricercatori indiani hanno trovato una nuova sotto variante di Omicron altamente virulenta. Si chiama Ba.2.75 ed è stata rilevata già in dieci regioni diverse dell’India oltre che in paesi come Australia, Nuova Zelanda e Regno Unito. Gli scienziati sospettano che abbia un alto grado di trasmissibilità e che la Ba.2.75 sia anche in grado di eludere l’immunità indotta dal vaccino che invece continuava a proteggere dalla sotto variante Omicron Ba.2. Tuttavia, al momento non si hanno informazioni sulla maggiore o minore letalità della variante.

Giorgio Gilestro, professore di Neurobiologia all’Imperial College di Londra, intervistato da Fanpage ha detto: «Pare essere cinque volte più contagiosa di Omicron 5. Ci sono differenze antigeniche che la rendono immunoevasiva. Dovremo aggiornare il nome della malattia, che è completamente diversa da quella originaria».

I CASI IN ITALIA

In Italia continuano ad aumentare i casi da Covid-19. Stando al bollettino del ministero della Salute di lunedì 4 luglio sono 36.282 i nuovi casi di Covid registrati su 129.908 tamponi processati, con un tasso di positività che …

Da nicolaporro.it il 12 febbraio 2022.

Pressioni da Paesi stranieri. Inviti a dire che Omicron fosse «pericolosa». E sollecitazioni affinché non dichiarasse pubblicamente che la nuova variante causava «principalmente una malattia lieve». Sono queste le incredibili rivelazioni di Angelique Coetzee, scienziata sudafricana che ha "scoperto” per prima la mutazione, rilasciate al Welt e al Daily Telegraph. Dichiarazioni che dovrebbero mobilitare la stampa mondiale e i colleghi scienziati. E che invece stanno passando sotto traccia.

L’appello della scienziata controcorrente

I lettori di questo giornale ricorderanno Coetzee. Fu lei, nel pieno della psicosi Omicron, ad annunciare al mondo che non occorreva allarmarsi troppo. Lo aveva detto e ridetto: «La studio da un mese, dà sintomi lievi». Ma quasi nessuno l’ha voluta ascoltare. Il direttore generale dell’Oms arrivò a dire che «lo tsunami di casi» era così forte che la variante non poteva «essere classificata come lieve». 

E i governi di mezzo mondo hanno inasprito le restrizioni, anziché procedere con calma e gesso. Se il Sudafrica era a conoscenza della minore pericolosità della mutazione, perché chiudere tutto? Non è che l’obiettivo era proprio quello di mantenere alta la tensione al fine di poter stringere le maglie del controllo sociale? 

Le pressioni: “Devi dire che Omicron è grave”

Il dubbio viene. Soprattutto dopo aver letto l’intervista alla scienziata sudafricana. «Mi è stato chiesto di non dichiarare pubblicamente che si trattava di una malattia lieve. E di dire che eravamo di fronte ad una malattia grave», spiega la Coetzee. «Io ho rifiutato perché dal quadro clinico non vi erano indicazioni che si trattasse di una malattia molto grave. Il decorso è per lo più mite. Non sto dicendo che si ammalerà nessuno. Ma la definizione di malattia lieve da Covid-19 è chiara, ed è una definizione dell’OMS: i pazienti possono essere curati a casa e non hanno bisogno di ossigeno o di ricovero». E visto che, a differenza della Delta, con Omicron meno persone finiscono in ospedale o in terapia intensiva, Coetzee non se l’è sentita di mentire esagerandone la pericolosità. «Ho detto: "Non posso affermarlo perché non è quello che sto osservando"».

L’accusa ai Paesi europei

La domanda ora è: da chi sarebbero arrivate queste pressioni? «Sono stata criticata dai Paesi europei», denuncia la presidente della South African Medical Assciation (Sama). In particolare Paesi Bassi e Regno Unito, ma non solo. «Quello che ho detto a un certo punto, perché ero solo stanca, è stato: in Sud Africa questa è una malattia lieve, ma in Europa è molto grave. Era ciò che i politici Ue volevano sentire».

Andrea Casadio per editorialedomani.it il 17 febbraio 2022.

Nei giorni scorsi molti giornali di destra hanno riportato tutti la stessa notizia a titoli cubitali. Libero: «Omicron, la rivelazione della dottoressa sudafricana Coetzee: Dall'Europa mi hanno detto di tacere». Recita l’articolo: «Angelique Coetzee, scienziata sudafricana che ha scoperto per prima la variante Omicron, ha dichiarato di aver subìto pressioni da alcuni Paesi stranieri». Doveva dire che Omicron era pericolosa e non che causava «principalmente una malattia lieve» come invece aveva fatto.

Il Tempo: «Le bugie dei politici europei su Omicron. La denuncia della scienziata: “Costretta a dire che era grave”». La Verità: «L’Europa voleva che mentissi su Omicron». 

La notizia viene riportata con toni roboanti anche sul sito del giornalista Nicola Porro. Si legge: «La dottoressa sudafricana rivela: Dall’Europa mi chiesero di dire che Omicron è grave. L’intervista choc a Angelique Coetzee, la scienziata che ha scoperto Omicron per prima in Sudafrica.

Pressioni da Paesi stranieri. Inviti a dire che Omicron fosse pericolosa. E sollecitazioni affinché non dichiarasse pubblicamente che la nuova variante causava “principalmente una malattia lieve”. Sono queste le incredibili rivelazioni di Angelique Coetzee, che dovrebbero mobilitare la stampa mondiale e i colleghi scienziati. E che invece stanno passando sotto traccia».

Forse, caro Porro, nessuno della stampa mondiale e dei colleghi scienziati si è mobilitato perché quella notizia è totalmente falsa. Per scoprirlo, bastava controllare le fonti, cosa che evidentemente tutti quei solerti giornalisti, Nicola Porro compreso, non hanno fatto. 

Andiamo con ordine.

La dottoressa Angelique Coetzee non ha affatto scoperto la variante Omicron, l’hanno scoperta altri. Bastava andare a cercare l’articolo fondamentale, noto a tutti gli scienziati del globo, e pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica Nature, dal titolo: “Rilevamento di una variante di SARS-CoV-2 in Sudafrica”, che ovviamente è la variante Omicron.

Lo studio è stato condotto da una quarantina di scienziati, guidati da Richard Lessells e Tulio De Oliveira, per lo più appartenenti alla Università KwaZulu–Natal di Durban, in Sudafrica, i cui nomi figurano tutti come autori dell’articolo. Il nome della dottoressa Angelica Coetzee non c’è, quindi la variante Omicron non l’ha scoperta lei. 

Ci potrebbe essere un’altra possibilità. La dottoressa Coetzee non ha scoperto Omicron ma potrebbe essere stata lei a segnalare per prima i pazienti affetti dalla nuova variante. Nell’intervista, la Coetzee racconta: «Il 18 novembre nella mia clinica ho visitato un paziente che diceva di essere estremamente affaticato, aveva dolori muscolari e un forte mal di testa.

I sintomi mi hanno fatto pensare a un’infezione da Covid, e così lo sottoposi al test, che è risultato positivo». Tutto qui? La dottoressa Coetzee è stata la prima ad accorgersi dell’esistenza di una nuova variante del coronavirus che dava solo sintomi lievi? Non è vero neanche questo. 

Bastava leggere l’altro articolo scientifico, pubblicato anch’esso sulla prestigiosa rivista scientifica Nature, e intitolato: “Rapida espansione epidemica della variante Omicron del SARS-CoV-2 in Sudafrica”, che descrive come è stata rilevata la variante Omicron, e da chi.

Lo studio è stato condotto da una cinquantina di scienziati, appartenenti in parte al team della Università KwaZulu–Natal di Durban sempre guidato da Richard Lessells e Tulio De Oliveira, e in parte al team dell’Istituto congiunto di ricerca sull’Aids delle Università di Harvard e di Gaborone, in Botswana, guidato da Richard Shapiro e Sikhulile Mojo. 

Scrivono gli scienziati: «A metà novembre è stato notato un rapido incremento dei casi di COVID-19 nella provincia di Gauteng. In particolare, questo incremento di casi è stato osservato tra gli studenti universitari di Tshwane».

Questi pazienti presentavano tutti una caratteristica particolare che aveva insospettito gli scienziati. Normalmente, nel test a tampone molecolare – che in realtà noi scienziati chiamiamo PCR, ovvero Reazione a Catena della Polimerasi-  si utilizzano tre “esche” molecolari per pescare tre geni del virus, che, se sono presenti, abboccano all’amo, vengono amplificati da una macchina, e poi rilevati nell’esame. 

In quei pazienti sudafricani, il tampone molecolare rilevava la presenza di due geni ma non del terzo, il gene S che codifica per la proteina Spike del virus – fenomeno che viene detto “fallimento del bersaglio del gene S”.

Gli scienziati cominciarono a sospettare che, se questo capitava, significava che quei pazienti erano infettati da una nuova variante di Sars-CoV-2 dotato di un gene S della proteina Spike con così tante mutazioni da non essere riconosciuto dalle esche molecolari precedenti. 

Scrivono gli scienziati: «Il sequenziamento effettuato il 19 novembre 2021 su campioni prelevati da otto pazienti tra il 14 e il 16 novembre ci indicò che si trattava di una nuova variante di SARS-CoV-2».

Gli studiosi trovarono la stessa nuova variante in campioni raccolti prima del 15 novembre da altri 29 pazienti. Gli scienziati aggiungono: «Contemporaneamente, i genomi raccolti l’11 novembre da quattro pazienti positivi al Covid presso dall’Istituto per l’Aids di Gaborone, in Botswana…. e poi da altri 15 pazienti nei giorni successivi, mostrarono lo stesso set di mutazioni». 

Gli scienziati ovviamente hanno costantemente informato il ministero della Salute sudafricano e l’Oms delle loro scoperte, e così, il 26 novembre, la nuova variante scoperta è stata denominata Omicron. Anche in questo caso la dottoressa Coetzee non ha dato alcun contributo di rilievo visto che tra i cinquanta e passa nomi degli autori dello studio, il suo non c’è. In pratica, la dottoressa Coetzee ha solo visitato nel suo studio alcuni pazienti affetti dal Covid, quando Omicron era stata già scoperta da altri. 

E CHI È LA DOTTORESSA COETZEE?

Ma chi è questa dottoressa Angelique Coetzee? Nel suo curriculum lei scrive di essere un general practictioner, cioè un medico condotto, con un suo studio privato. Non lavora in nessuno dei grandi ospedali di Johannesburg, di Praetoria, o di Durban, in cui si sono svolte le ricerche condotte per conto dal Ministero della Salute del Sudafrica sulla nuova variante. La dottoressa Coetzee non ha mai pubblicato alcun studio di rilievo sul Covid.

Risulta essere la presidentessa della South African Medical Assciation, ma non lasciatevi ingannare dal nome altisonante: l’Associazione dei medici audafricani è semplicemente una specie di sindacato «che – si legge sul sito-  rappresenta collettivamente i medici sudafricani, e  ha lo scopo di influenzare la legislazione, i regolamenti e le politiche in materia di salute e sanità». 

La dottoressa Coetzee aggiunge: «Mi è stato chiesto di non dichiarare pubblicamente che si trattava di una malattia lieve, e di dire che eravamo di fronte ad una malattia grave, io ho rifiutato perché il decorso è per lo più mite».

L’avrà osservato nei pochi pazienti che ha visitato nel suo studio? Quando le hanno chiesto da chi sarebbero arrivate queste pressioni, lei ha risposto: «Sono stata criticata dai paesi europei, in particolare Paesi Bassi e Regno Unito, ma non solo». Per farli contenti, doveva dire che Omicron dà una malattia lieve in Sudafrica, ma che «in Europa è molto grave. Era ciò che i politici Ue volevano sentire». 

E come no, Boris Johnson, Mario Draghi e gli altri premier europei devono chiamare uno sconosciuto medico condotto di Pretoria, Sudafrica, per convincerla a dire al mondo che Omicron dà una malattia grave, quando tutti ma proprio tutti gli studi sulle più prestigiose riviste scientifiche del pianeta, come quello più recente dal titolo “Endemico non significa innocuo,” dimostrano che Omicron è poco più mite di Delta e forse diventerà endemica, ma se non fossimo tutti vaccinati avrebbe fatto lo stesso milioni di morti. Dai, Nicola Porro, ritenta, sarai più fortunato.

Da Ansa il 20 aprile 2022.

E' stato sequenziato dal Laboratorio di genetica, citogenetica e diagnostica molecolare dell'Ospedale dell'Angelo di Mestre (Venezia) un nuovo ricombinante della variante Omicron presente in Italia diverso da XE e XJ . E' il primo identificato in Veneto e comprende porzioni delle sottovarianti di Omicron BA.1 e BA.2. ma con porzioni diverse del genoma.

Lo ha reso noto l'Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie, nell'ambito della sorveglianza coordinata dall'Istituto Superiore di Sanità. Il virus, prelevato da un paziente veneziano a marzo, è simile ai ricombinanti "XJ" identificati inizialmente nel nord Europa, ma è differente per alcune mutazioni caratteristiche, e si distingue dalla variante "XE", responsabile di più di mille casi nel Regno Unito.

Dopo questa prima identificazione, a inizio aprile sono stati rilevati altri due casi ascrivibili allo stesso virus nelle province di Venezia e Padova. Nel ricombinante Veneto la prima metà circa del genoma appartiene alla variante BA.1 e la seconda alla BA.2, mentre nella variante XE la porzione BA.2 è più estesa e rappresenta circa il 60% del genoma.

"Non si conoscono - sottolinea lo Zooprofilattico - le caratteristiche fenotipiche del ricombinante identificato in Veneto perché ad oggi è stato caratterizzato solo geneticamente, e la continua sorveglianza genetica sarà strategica per capire l'eventuale diffusione del virus sul territorio regionale".

Graziella Melina per “il Messaggero” l'8 aprile 2022.

Mentre si pensa già alle prossime settimane senza più l'uso obbligatorio delle mascherine, anche se il numero di contagiati e dei morti continua a essere preoccupante, ecco ora spuntare la variante Xe del Covid. «I dati che abbiamo non sono ancora sufficienti per capire come evolverà e se diventerà prevalente - dice Francesco Menichetti, ordinario di malattie infettive dell'università di Pisa -. Ma di sicuro si tratta di un fenomeno atteso da un punto di vista virologico quando si lascia circolare liberamente il virus».

Ma quali caratteristiche ha la variante Xe? È frutto della ricombinazione tra due lignaggi di omicron, la Ba1 e la Ba2, spiega Menichetti, con la Ba2 che progressivamente si sta sostituendo alla Ba1. Una nuova variante, la Xe, che non è ibrida, come la Delta-Omicron. 

PRIMI CASI La variante Xe è stata documentata la prima volta il 19 gennaio scorso in Gran Bretagna. «Dall'inizio della pandemia gli inglesi sequenziano con maggiore intensità e accuratezza - dice ancora Menichetti -. Ed è altamente probabile che circoli già anche in Italia. Ci troviamo in un momento di massima circolazione e diffusione del virus». Molti virologi ed esperti sostengono che sia più contagiosa di Omicron, «ma non sappiamo ancora se questa sottovariante dimostri un vantaggio di crescita», afferma Menichetti ricordando che mancano i dati clinici e che la variante Xe rappresenta poco più dell'1% dei sequenziamenti.

I SINTOMI I sintomi della nuova variante Xe, trattandosi di Omicron, puntualizza il virologo Menichetti, sono ipotizzabili a carico delle alte vie respiratorie e possono anche essere presenti disturbi a carico dell'apparato gastrointestinale, sempre più frequentemente segnalati. Quindi tosse continua e perdita di olfatto, e anche del gusto. E per la cura, tra gli antivirali il Molnupiravir, secondo Menichetti, è quello che dimostra un'interessante attività. I vaccini, poi, dovrebbero essere in grado di protegge anche dalla variante Xe, e sull'efficacia del booster dovrebbe esserci la convergenza dei virologi.

«Non c'è motivo di ritenere che questa sottovariante possa mettere in crisi l'effetto protettivo di chi ha ricevuto tre dosi di vaccino», dice Menichetti, ricordando che bisogna vaccinare chi non lo ha fatto perché questo virus può essere problematico per anziani e non vaccinati: «In Italia 1 milione e 200mila over 70 ancora non sono vaccinati - ricorda il virologo -. Il vaccino serve, perché non è detto che i soggetti fragili e non protetti, se si infettano, alla fine riescano a cavarsela con un raffreddore». E tra i non vaccinati, una buona fetta è rappresentata dai bambini, piccoli che «rappresentano ancora un problema», come sottolinea Roberto Cauda, direttore dell'Uoc Malattie Infettive del Policlinico Gemelli di Roma, potenziali vettori non solo di Omicron 2 ma anche della sottovariante Xe.

Variante Xe che potrebbe indicare la fine della pandemia: «C'è una forte somiglianza tra Omicron, con i suoi sottolignaggi, e l'influenza russa che fece un milione di morti e che alla fine si trasformò in un raffreddore - dice il virologo Menichetti -. La perdita di patogenicità e la trasformazione di un virus che dal polmone passa alle vie respiratorie potrebbe forse essere il futuro che tutti noi auspichiamo. Continuando ad indossare la mascherina al chiuso: offre protezione se non si riesce a mantenere il distanziamento durante questo picco di diffusione del Covid».

Epatite acuta di origine sconosciuta, "incrocio tra adenovirus e Omicron". "Sconcerto" tra gli esperti. Libero Quotidiano il 23 aprile 2022.

Sono almeno nove i casi di epatite acuta di origine sconosciuta che sta colpendo i bambini in Italia. Le segnalazioni stanno aumentando e si teme che possano crescere ancora come è già accaduto a dicembre con l'ondata di polmoniti da virus respiratorio sinciziale nei neonati. In queste ore preoccupa il caso del bimbo di 3 anni, trasferito dal Meyer di Firenze alla terapia intensiva dell'ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma. Altri due casi di bambini malati sono stati segnalati in Lombardia ma non sarebbero gravi. Giuseppe Maggiore, primario all'ospedale Bambino Gesù di Roma, precisa che "il bambino che abbiamo in cura è in terapia intensiva per una epatite severa con importante impegno del fegato. In questo momento questo bambino è in discrete condizioni, leggermente migliorato, stiamo alla finestra e vediamo l'evoluzione". 

I ricercatori anglosassoni che per primi hanno descritto l'epidemia si dicono sconcertati, molti si chiedono se stia circolando un microorganismo della famiglia degli adenovirus (nel caso del bambino toscano questa ipotesi è stata esclusa) o un ibrido in qualche modo imparentato con una delle ultime varianti del Covid, riporta il Giorno. 

"Sicuramente c'è stato un aumento del numero di casi di epatite in Europa che ha destato allarme", osserva Guido Castelli Gattinara, presidente Sitip, Società italiana di infettivologia pediatrica. "Episodi simili, in Italia, sono estremamente rari, ma dobbiamo ugualmente fare attenzione, pronti a intervenire se un bambino sta male e manifesta sintomi caratteristici, quali il colorito giallo della cute". "I pediatri hanno alzato il livello di guardia anche se in Italia", prosegue Paolo Biasci, past president della Federazione italiana medici pediatri, "abbiamo ancora pochi elementi. Purtroppo sembra che queste epatiti si stiano diffondendo, come tutte le infezioni virali. Covid ci ha insegnato che all'inizio si brancola nel buio, con queste epatiti succede qualcosa di analogo. Per cui è possibile pensare a una variante, ci sono delle segnalazioni che ci sia un incrocio tra adenovirus e una variante di Omicron, la BA2, predominante in Scozia".  

Margherita De Bac per il “Corriere della Sera” il 17 giugno 2022.

Risalgono i nuovi casi di Covid. Ieri ne sono stati segnalati ancora 36.573, circa cinquemila in più rispetto al giorno precedente: Regioni con la maggior crescita Lombardia, Lazio, Emilia-Romagna e Veneto. Tutta colpa dell'ultima sottovariante di Omicron, la BA 5? Vediamo. 

1 La sintomatologia dell'infezione da BA 5 può essere paragonata a quella che ha caratterizzato la variante Delta?

No, è meno grave - risponde Massimo Andreoni, direttore di Malattie infettive al Policlinico di Tor Vergata -. La variante Omicron in tutti i suoi sottotipi, fin dalla sua comparsa (novembre 2021) si è rivelata meno virulenta. Il virus è causa di infezioni che si localizzano nelle alte vie respiratorie, dando luogo a faringo-tonsilliti nella maggior parte dei casi, e meno frequentemente di polmoniti nei pazienti protetti con ciclo vaccinale di tre dosi.

Questo è dovuto a un recettore che permette al virus BA 5 di replicarsi molto efficacemente nelle vie respiratorie superiori senza bisogno di scendere nei polmoni. In parole semplici, è come se il virus si accontentasse di aver raggiunto questo risultato, per lui vitale. È la connotazione che lo distingue profondamente da Delta. 

2 La sottovariante BA 5 è però più contagiosa. Come mai?

Succede in virtù di due mutazioni che il virus ha sviluppato in più, differenziandosi dalle sottovarianti precedenti. Questi cambiamenti del patrimonio genetico permettono al virus di legarsi più facilmente alle cellule umane e di neutralizzare l'immunità prodotta dai vaccini e dall'infezione naturale. Ecco perché BA 5 è più diffusiva e, per contagiosità, è paragonabile al virus del morbillo. Ogni portatore può passare il microrganismo ad altre 15-18 persone. Ma ricordiamo che la maggiore diffusione non si accompagna a un maggiore tasso di ospedalizzazioni, vale a dire i casi gravi sono contenuti.

3 Sintomi lievi, dunque?

È una forzatura affermare il contrario, non ci sono elementi a favore della maggiore virulenza. Anche se i risultati di ricerche in vitro sembrerebbero indicare una superiore capacità di Omicron BA 5 di colpire pesantemente l'organismo, sul piano clinico non c'è riscontro. La variante Delta è sicuramente più patogena. 

4 Quali sono?

I principali sono forte raffreddore e forte mal di gola (caratterizzato da dolore alla faringe), meno evidenti nelle infezioni indotte dagli altri virus Sars-CoV-2. Osserviamo una minore incidenza dei disturbi legati a gusto e olfatto, la febbre può essere elevata e accompagnata da dolori muscolari e delle articolazioni.

Sembra che l'infezione duri qualche giorno in più. I vaccini oggi disponibili proteggono bene dalla malattia grave. 

5 L'aumento di casi dipende dalla minore efficacia dei vaccini e dalla capacità del virus di evadere la sorveglianza del sistema immunitario?

Sì. A parità di misure di contenimento (mascherina indossata e distanziamento) Omicron BA 5 contagia di più ma fa ammalare di meno rispetto a Delta. 

6 E le cure?

I farmaci antivirali continuano ad aver ottima efficacia nel prevenire il rischio di progressione verso la malattia grave se somministrati tempestivamente (entro cinque giorni dalla comparsa dei disturbi). Lo stesso vale per alcuni anticorpi monoclonali.

7 È vero che Omicron BA 5 non viene rilevato dal tampone?

Sul piano diagnostico non è cambiato nulla - chiarisce Concetta Castilletti, responsabile dell'unità di virologia e patogeni emergenti al Negrar di Verona, istituto di ricerca e cura delle malattie infettive -. Non abbiamo ricevuto informazioni di allerta dalle agenzie internazionali sull'ipotesi di inefficacia dei tamponi.

Di solito i test non cercano un solo gene ma due o tre ed è molto difficile che in tutti i geni oggetto della ricerca siano presenti mutazioni nelle parti scelte per essere rilevate. Per evitare che i kit perdano efficacia si scelgono tratti del genoma del virus non soggetti a mutazione proprio perché mantengano affidabilità. Questo vale, afferma la virologa, sia per i tamponi antigenici sia per i molecolari il cui livello di precisione è decisamente migliorato rispetto all'inizio della pandemia.

Il mago dei numeri. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 21 giugno 2022.  

In base alla famosa legge della impenetrabilità dei talk (a ogni riduzione di professore pacifista corrisponde un aumento uguale e contrario di virologo allarmista) lo stallo della guerra ha prodotto una recrudescenza immediata dell’emergenza pandemica. Il ritorno di Crisanti, molto atteso, non ha deluso le speranze di chi, e siamo tanti, gira con la mascherina al polso per essere pronto a indossarla al primo avvistamento umano: se la situazione non precipiterà a ottobre — ha vaticinato il principe delle tenebre — è perché precipiterà già a luglio, dato che i vaccini non riescono a stare dietro alle varianti. Un Crisanti a suo modo rassicurante, in quanto identico a quello che avevamo lasciato il giorno in cui Putin invase l’Ucraina pur di farlo tacere. Invece Pregliasco si è ripresentato con un colpo di genio. In questi mesi di forzato digiuno mediatico ha capito che, per attirare l’attenzione di un pubblico sempre meno fiducioso nel potere delle parole, era necessario ricorrere al fascino dei numeri. Così, quando a Un giorno da pecora gli hanno chiesto di definire l’ultima variante, non è ricorso alle solite perifrasi (più di un raffreddore, ma meno di un’influenza; più di un’influenza, ma meno di una scissione dei Cinque Stelle) e ha detto: «Omicron 5 è quattro volte un’influenza forte». Perché quattro e non tre o cinque? O dodici volte un’influenza leggera? Nessuno lo sa, forse neanche lui. Ma adesso che ho un numeretto a cui aggrappare la mia ansia, mi sento già meglio.

Paolo Russo per “la Stampa” il 25 giugno 2022.  

Il Covid? «Cambiamogli nome perché non ha più nulla a che vedere con quello di Wuhan che sparse così tanto dolore». I ricoveri in aumento «Solo il 20% sono veramente per Covid». E poi via l'isolamento dei positivi asintomatici «che tra poche settimane rischia di riportarci in lockdown con 2-3 milioni di italiani rinchiusi in casa». Su come gestire l'«ondata estiva» l'infettivologo del San Martino di Genova, Matteo Bassetti, ha le idee chiare. A cominciare da come cambiare l'approccio semantico alla pandemia.

Cambiare nome al Sars Cov-2 è un modo per esorcizzare la paura?

«È una provocazione. Però paragonare Omicron 5 di oggi con il virus di Wuhan che ha fatto così tanti morti per me è come mancare di rispetto a chi quel dramma lo ha vissuto in prima persona. Qui continuiamo a parlare di picchi, ondate, ma i pazienti non sono numeri: il quadro clinico dei positivi di oggi non ha nulla a che vedere con quello delle drammatiche prime ondate. Vuoi perché Omicron è meno patogena, vuoi perché siamo ormai tutti immunizzati dal vaccino o dalla malattia, ma è così. Io da sei mesi non vedo più quelle polmoniti gravi che mi hanno tolto anni di vita quando ho dovuto cercare di salvare uomini e donne che boccheggiavano». 

Provocazione per provocazione come lo chiamerebbe ora?

«Leverei dal Sars almeno quella S iniziale di "Severe" e lo chiamerei Ars-22. Questo non è un virus che ha perso la sua forza. È proprio diverso». 

Però come la mettiamo con i ricoveri in aumento?

«Prima di tutto c'è una buona fetta che entra in ospedale per altri problemi e si scopre positiva al tampone di ingresso senza avere sintomi. Poi ci sono gli anziani, che magari sono soli a casa e pur avendo sintomi lievi si spaventano e arrivano qui per essere parcheggiati in quei lazzaretti che sono i reparti Covid. La terza categoria è quella degli immunodepressi, che sono positivi magari da settimane ma vengono in ospedale per fare altre terapie. Alla fine i ricoverati veramente per Covid saranno il 20%».

C'è chi punta l'indice contro l'eccesso di tamponi 

«Siamo il Paese al mondo che ne fa di più. Ma un test clinico deve essere interpretato e gestito da un medico. Invece qui prevale il fai da te anche nelle cure. C'è chi dopo esserselo fatto in casa e aver scoperto di essere positivo con pochi o zero sintomi ha iniziato ad autosomministrarsi il cortisone o gli anticoagulanti. Ieri un paziente asintomatico mi ha chiamato per dirmi che si stava facendo due punture al giorno di eparina sulla pancia. Una follia». 

Che ne pensa dell'idea di togliere l'isolamento per i positivi asintomatici? 

«Credo sia una buona idea. Oggi abbiamo una situazione paradossale con positivi di serie A, che si fanno il tampone in casa per andarsene poi tranquillamente in giro e quelli di serie B, che per aver fatto il test in farmacia o in ospedale finiscono in isolamento per 7-10 giorni. Dobbiamo dire che se hai la febbre e la tosse stai casa per almeno 5 giorni, come per gli altri virus respiratori, e poi senza tampone esci come fanno gli svizzeri. Liberare gli asintomatici spingerebbe anche tanti positivi non dichiarati ad indossare la Ffp2 almeno nei luoghi chiusi, anziché andarsene in giro senza alcuna protezione per non essere scoperti». 

C'è chi dice che così faremmo circolare troppo liberamente il virus, favorendone nuove e forse più pericolose mutazioni 

«Ma viviamo in un mondo globalizzato. Siamo tornati ad essere un magnifico Paese ospitale e tutte queste restrizioni non hanno senso quando chi viene da fuori le ha già abrogate. E guardi che se continuiamo così nelle prossime settimane ci troviamo come in lockdown con 2-3 milioni di italiani isolati a casa». 

 E le mascherine nei luoghi di lavoro le toglierebbe? 

«Leverei l'obbligo ma le raccomanderei fortemente».  

In attesa dei vaccini aggiornati su Omicron non crede che potremmo usare meglio monoclonali e antivirali? 

«Sicuramente. Quando dissi che i medici di famiglia non erano pronti a gestire un farmaco con così tante interazioni e controindicazioni come l'antivirale Paxlovid avevo ragione, visto che oggi viene prescritto meno di prima. Basterebbe che i medici di famiglia si raccordassero con gli specialisti lasciando poi il cittadino libero di acquistarli in farmacia. Il monoclonale Evusheld, l'unico efficace a scopo preventivo, lo somministrerei invece a tutti gli immunodepressi».  

E cosa suggerirebbe ai no vax che sui muri dello Spallanzani hanno dato degli assassini a medici e infermieri? 

«Qualora sappiano leggere di sfogliare l'ultimo numero di Lancet, dove è documentato che solo nel 2021 i vaccini hanno salvato 20 milioni di vite».

Colpiti orecchie, testa e stomaco. Con Omicron 2 cambiano i sintomi. Michele Bocci su La Repubblica l'8 aprile 2022.

E' storia comune di tanti malati: i sintomi del Covid si stanno allargando. Quelli ormai considerati classici, come tosse secca, febbre alta, e perdita di gusto e olfatto, sfumano o comunque vengono affiancati da altri disturbi. Forte mal di testa ma in certi casi anche il mal di pancia, raffreddore, spossatezza, dolori. Qualcuno ha male a un orecchio. Quello che succede lo vedono bene i medici di famiglia, che nei loro studi curano ancora decine di pazienti infettati dal virus.

La curva dell’epidemia sta scendendo ma molto lentamente. Oggi a trainarla è Omicron 2, che è diventata prevalente nel nostro Paese, come ha spiegato ieri il presidente dell’Istituto superiore di sanità Silvio Brusaferro. Rappresenta cioè l’80% dei casi. Il resto è Omicron 1. Poi "c’è anche l’ipotesi in fase di conferma della presenza del sottolignaggio Xe", dice Brusaferro. Non si tratta di una nuova variante, specificano gli esperti, ma di una ricombinazione di Omicron 1 e 2. Potrebbe essere del 10% più contagiosa ma non ci sono ancora certezze e per ora sta provocando pochi casi. E ieri a Reggio Calabria è stata isolata per la prima volta la “Xj”, un’altra ricombinazione.

Il cambiamento dei sintomi potrebbe essere legato a Omicron. Il servizio sanitario inglese ha allungato parecchio la lista dei disturbi provocati del Covid. A tosse persistente e febbre sono stati introdotti tra l’altro l’affaticamento, il naso chiuso, la perdita dell’appetito. Insomma stanno diventando tanti i segnali che dovrebbero spingere a fare un tampone. "La sintomatologia ormai è notevolmente variata. È più vicina a quelle di forme influenzali, a volte la febbre non è alta, c’è raffreddore — spiega Alberto Chiriatti, medico di famiglia di Ostia —. Io in questi tre mesi ho visto almeno 300 casi, nessuno è andato in ospedale. Ora devo visitare due anziani positivi non vaccinati e sono preoccupato". I cambiamenti si osservano anche in Veneto, a Padova, nello studio di un altro medico di famiglia, Domenico Crisarà. "Ho casi di persone con problemi di mal di pancia, ma anche qualcuno che ancora perde olfatto o gusto. Diciamo che sintomi che nelle ondate precedenti sembravano secondari adesso sono più evidenti. Forse perché si è un po’ ridotta la febbre. Ci sono tanti malesseri. Una cosa è certa, i numeri non stanno ancora scendendo molto, io ho più o meno gli stessi assistiti positivi dell’anno scorso".

Anna Teresa Palamara, che dirige le Malattie infettive, dell’Istituto Superiore di Sanità dice che sui sintomi sono necessari approfondimenti. "Dobbiamo però tenere conto di una cosa - spiega - Nella prima fase eravamo molto concentrati sui casi gravi di polmonite, sulle persone che avevano importanti compromissioni multi organo. Andando avanti, abbiamo avuto a disposizione mezzi diagnostici che hanno consentito di individuare molti più casi di persone infettate che, anche grazie ai vaccini, erano  paucisintomatiche. Per questo abbiamo potuto guardare e descrivere  con più attenzione anche sintomi meno frequenti". Cioè coloro che non finiscono in ospedale ma fanno la malattia a casa, talvolta con pochi disturbi, in certi casi con problemi un po’ più importanti. "Poi, con l’avvento di Omicron - dice Palamara – con l’aumento della circolazione del virus, il numero di persone infettate è cresciuto di molto e così è aumentata anche la nostra attenzione a tutti i sintomi. Magari all’inizio la madre di un bambino piccolo con un po’ di febbre e diarrea non faceva il tampone, ora invece sì". Quindi la sintomatologia ampia poteva esserci anche nei mesi passati ma non veniva presa in considerazione.

Palamara sostiene che tra Omicron 1 e 2 non ci siano grosse differenze dal punto di vista dei sintomi. Esiste discussione sul fatto che le due varianti siano meno violente rispetto a quelle precedenti. "Sappiamo che Omicron ha una propensione maggiore a replicare nelle vie aeree superiori. Questo ha due conseguenze: si trasmette di più e attiva con grande efficacia le risposte immunitarie a livello delle mucose appunto, delle prime vie aeree. Questo contribuisce a farla arrivare con meno efficacia in quelle profonde. Ma quando facciamo queste analisi non dobbiamo dimenticare che Omicron, per fortuna, è arrivata nel momento in cui la stragrande maggiorana delle persone era protetta dal dal vaccino. Il suo contributo è stato fondamentale".

I sintomi di Omicron raccolti dall’app Zoe: quali sono, quanto durano. Margherita De Bac su Il Corriere della Sera l'8 aprile 2022.

Milanese, 40 anni, ricercatrice del dipartimento di studi sui gemelli presso il King’s College di Londra, Cristina Menni La variante Omicron è causa di sintomi più lievi rispetto alla variante che l’ha preceduta, la Delta, ed è responsabile di forme che raramente portano un vaccinato in ospedale. La conclusione trova supporto in una analisi dei dati contenuti in una app. Si tratta di Zoe, un’applicazione creata in Gran Bretagna per raccogliere le «testimonianze» di utenti che volontariamente l’hanno scaricata segnalando i tempi e le caratteristiche dell’infezione da Sars-CoV-2: circa 4 milioni di persone.

Allora è confermato, Omicron è meno aggressiva per i vaccinati? «Decisamente sì. Tanto per dirne una, solo il 17% dei pazienti contagiati da questa variante ha dichiarato di aver perso gusto e olfatto contro il 53% di quelli che hanno sperimentato le conseguenze di Delta. Al contrario il mal di gola è molto più frequente nei primi rispetto ai secondi. Un mal di gola particolarmente accentuato, addirittura alcuni hanno riferito di aver avuto difficoltà a deglutire o si sono spaventati a tal punto da pensare che la respirazione fosse compromessa».

Come si è svolto il lavoro, che verrà presentato al congresso della società europea di microbiologia clinica? «Abbiamo esaminato i dati di 63 mila cittadini inglesi immunizzati col vaccino e positivi. Sono stati selezionati due gruppi da circa 5 mila individui ciascuno. Quelli che si sono ammalati fino a novembre 2021, quando circolava Delta, e quelli che hanno contratto il virus successivamente, nel periodo in cui era prevalente Omicron. I sintomi sono risultati diversi per durata e caratteristiche. Si va da una media di 6,5 giorni per Omicron agli 8,9 per Delta. La differenza è maggiore quando il ciclo di vaccinazione è stato completato con la terza dose: 4,4 giorni con Omicron, 7,7 con Delta. Anche il rischio di ospedalizzazione è inferiore nei pazienti vittime della variante presente fino a novembre».

Avete calcolato i sintomi provocati anche dalla sotto-variante di Omicron, la BA2, come è indicata col codice internazionale? «No, la ricerca riguarda il periodo in cui circolava soltanto Omicron BA1, la prima che è comparsa. Abbiamo però cominciato a classificare i sintomi causati da B i sintomi causati da BA2. Il profilo è più o meno lo stesso, non crediamo emergeranno differenze».

I dati di una app possono esser ? «L’applicazione Zoe è stata creata dal King’s College. Zoe è una compagnia che opera nel campo della salute in collaborazione con due note università in Usa e Svezia. È facile da scaricare ed ha avuto molto successo di adesione da parte della popolazione. Noi abbiamo utilizzato una metodologia statistica che permette di abbassare di molto la probabilità di errori. I due gruppi di pazienti sono stati selezionati secondo precise caratteristiche di età e sesso, proprio per renderli omogenei».

Perché Omicron predilige il bersaglio della gola? «Lo spiegano studi già pubblicati da altri istituti di ricerca. È uscito un lavoro sulla rivista Nature appena un mese fa, di autori cinesi. Omicron non si replica nei polmoni, resta nella parte alta delle vie respiratorie, colpisce la trachea. Ecco perché è più contagiosa. È più facile che goccioline infette si propaghino».

Lei ha studiato a Manchester e Cambridge dove si è laureata in matematica. Poi ha svolto un dottorato in biostatistica presso l’università Bicocca, infine è tornata in Gran Bretagna, al King’s. Cosa c’entra col Covid? «Sono stata coinvolta in lavori di bioinformatica applicati al Covid. Normalmente mi occupo di microbioma e microbiota, sì insomma dei microbi che vivono nell’intestino. Studio come modificare il metabolismo intestinale con la dieta. Il centro di ricerca di cui faccio parte si trova all’interno del Dipartimento sui gemelli dove ha sede il più grande registro del mondo di coppie di bambini».

Giampiero Valenza per il Messaggero il 12 marzo 2022.

Quando una persona viene infettata da due varianti di uno stesso virus (come nel caso di Sars Cov-2), può capitare che queste si combinino tra loro. Ed è così che è nata la Deltacron, la mutazione che somma la variante Delta con la Omicron. Era stata trovata a gennaio a Cipro, ma poi arrivò subito una smentita: si sospettava un errore di un'analisi di laboratorio. Così invece non è. La variante esiste eccome. 

L'Organizzazione mondiale della sanità ha confermato che il lavoro di sequenziamento ha trovato casi in Francia, Paesi Bassi, Danimarca e negli Stati Uniti. Ma, almeno finora, non preoccupa gli scienziati.

Stando a un'analisi del laboratorio californiano Helix, che ha in piedi una collaborazione con i Centri per il controllo e la prevenzione delle malattie degli Usa proprio per monitorare l'evoluzione dei contagi di Covid-19, su 29.719 campioni sono stati trovati solo due casi di Deltacron. Altre 20 persone, invece, avevano entrambe le varianti (la Delta e la Omicron) e solo una aveva avuto un triplo contagio con la Delta, la Omicron e la Deltacron in contemporanea.

A rassicurare è anche Maria Van Kerkhove, epidemiologa responsabile tecnico dell'Oms per la pandemia di Covid. I numeri di questi contagi sono molto bassi e fotografano una situazione che non dovrebbe destare preoccupazione, tant'è che per la mutazione mix delle due (una, la Delta, più aggressiva, l'altra, la Omicron più contagiosa) non si sta neanche pensando di dare un nuovo nome con una delle lettere dell'alfabeto greco. Dopo la scoperta ormai due mesi fa all'Università di Cipro, è stato uno studio pubblicato sulla rivista scientifica Nature ad aver avanzato l'ipotesi di un probabile errore dovuto a una contaminazione in laboratorio tra vari campioni. 

IL SEQUENZIAMENTO Ma il sequenziamento dei campioni dei tamponi infetti ha riaperto di nuovo il capitolo che sembrava si fosse chiuso una volta per tutte. «È chiaro che può accadere che si crei una variante con una ricombinazione - spiega Massimo Ciccozzi, direttore dell'Unità di Statistica medica ed epidemiologia molecolare del Campus Bio-medico di Roma - Ma da qui a dire che sia qualcosa di più performante in grado di diffondersi di più rispetto alla variante Omicron, ce ne vuole».

Sull'evoluzione della pandemia, comunque, si cammina con prudenza. «Sars Cov-2 non è andato via. Diventerà sicuramente endemico perché ciò è nella storia dei virus - prosegue l'esperto - Abbiamo accelerato questa endemizzazione grazie ai vaccini e alle mascherine. La variante Omicron è più contagiosa delle altre e spesso non dà sintomi. Questa sua caratteristica ci ha anche dato una mano perché non ha stressato di più né i ricoveri ordinari né le terapie intensive».

Ma c'è la possibilità che possano svilupparsi altre varianti? Sotto i riflettori ci sono i Paesi in via di sviluppo, lì dove ci può essere una maggiore circolazione del virus e dove i tassi di vaccinazione sono molto bassi. «È possibile che si creino in India o in Africa, tra le zone più a rischio. Lo ha dimostrato la stessa pandemia Covid - prosegue Ciccozzi - Dobbiamo assistere questi Paesi perché proteggendo loro proteggiamo anche noi. Non credo sia possibile che una futura variante diventi però più contagiosa della Omicron. Invece è molto più probabile che possa aggirare' il vaccino. Per questo credo che una quarta dose di richiamo sarà necessaria a ottobre e che la dose dovrà essere tarata sulla variante Omicron e non più sul ceppo originale di Wuhan. Un po' come accade per l'influenza, il parco vaccini messo a disposizione va rinnovato».

Sarà un vaccino obbligatorio per tutti? «Iniziamo come sempre dai più fragili e dalle persone più a rischio. Poi saranno i dati a dirci se dovranno essere coinvolte altre fasce della popolazione - conclude l'epidemiologo - Da ormai due anni stiamo assistendo a una stagionalità di Sars Cov-2. E ogni anno, fino a che non diventerà poca cosa, dovremo fare i conti con la vaccinazione». 

Cristina Marrone per corriere.it il 18 marzo 2022.

In Europa il coronavirus ha ricominciato a correre: ovunque stanno aumentando i contagi. Proprio mentre i Paesi stanno allenando le restrizioni, Italia compresa, ancora una volta il Covid rialza la testa spinto «dall’aumento della circolazione della subvariante Omicron BA2, che sembra più trasmissibile delle alte varianti Covid -19» ha detto in conferenza stampa Marco Cavaleri, capo della strategia vaccinale dell’Ema. Secondo l’immunologo statunitense Anthony Fauci BA.2 sta assumendo un maggior grado di dominanza a livello globale e ormai arriva al 60%.

Non sappiamo quanto in realtà la variante sia diffusa in Italia. L’ultimo monitoraggio dell’Istituto Superiore di Sanità risale addirittura al 31 gennaio e all’epoca BA.2 rappresentava il 3% delle sequenze. Emerge qualche informazioni da indagini autonome di vari laboratori. Sappiamo ad esempio che nella Bergamasca Omicron rappresenta il 58% dei casi positivi. In Umbria Omicron 2 è stata individuata nel 60% di 56 tamponi sequenziati lo scorso 7 marzo.

Quanto è contagioso ora il virus?

Tutte le sottovarianti Omicron sono altamente contagiose ed è per questo che la variante Omicron ha rapidamente eliminato Delta, già più contagiosa di Alfa. Numerosi studi hanno però scoperto che la sottovariante BA.2 è ancora più trasmissibile di BA.1. In Danimarca gli scienziati hanno esaminato la diffusione di entrambe le sottovarianti nelle famiglie scoprendo che le persone infette da BA.2 avevano una probabilità sostanzialmente maggiore di infettare le persone con cui condividevano una casa rispetto a quelle con BA.1.

Gli studi finora condotti ipotizzano una contagiosità maggiore del 30% rispetto all’Omicron. I dati devono ancora essere confermati ma se così fosse ci troveremmo di fronte al virus più contagioso mai apparso sul pianeta, con un R0 tra il 15 e il 18: in assenza di contromisure una persona infetta potrebbe contagiarne altre 15-18, più del morbillo. 

Qual è il tempo di incubazione?

In Inghilterra i ricercatori hanno scoperto che in media una persona con BA.2 impiegava meno tempo per infettare un’altra persona, accelerandone la diffusione nelle comunità con tempi di incubazione più brevi.

Il tempo medio di insorgenza dei sintomi sembrerebbe essere di circa mezza giornata più breve per BA.2 rispetto a BA.1, con un periodo medio che rispettivamente è di 3,27 giorni rispetto a 3,72 giorni. 

Con Delta l’intervallo tra il contagio e l’insorgenza dei sintomi era pari a circa 4 giorni. Il tempo di incubazione più breve potrebbe contribuire all’aumento del tasso di crescita di BA.2

Quanto protegge il vaccino dalla malattia?

Il vaccino continua a essere protettivo contro il ricovero e la malattia grave, anche nei confronti di Omicron 2. 

Anzi, i dati l’ultimo report della UK Health Security Agency relativi all’efficacia dei vaccini nel prevenire i sintomi della malattia da Covid evidenziano che fino alla nona settimana i vaccini garantiscono addirittura una protezione più alta contro BA.2. Uno studio su 21 ospedali negli Stati Uniti conferma una protezione contro il ricovero dell’86% con tre dosi di vaccino.

Quanto protegge il vaccino dall'infezione? Quali i sintomi?

Numerosi studi sottolineano tuttavia un calo della protezione del vaccino nei confronti dell’infezione che varia tra il 44% e il 72%, anche con tre dosi. 

Ed è per questo motivo che molte persone, pur avendo fatto il booster, si stanno oggi contagiando, presumibilmente con BA.2, in particolare se l’iniezione è avvenuta mesi fa. 

Nella stragrande maggioranza dei casi i vaccinati che si stanno contagiando accusano sintomi lievi come mal di testa, mal di gola o raffreddore. «Senza la vaccinazione avremmo il doppio dei casi: la vaccinazione ostacola la diffusione del virus» ha commentato il virologo dell’ospedale San Raffaele di Milano Roberto Burioni.

È possibile ricontagiarsi?

Con BA.2, così come era già con Omicron, le reinfezioni sono possibili. Ad esempio una persona che si è contagiata un anno fa con Delta o due anni fa con Alfa potrebbe riprendersi Omicron o Omicron 2 perché le nuove varianti hanno mutazioni importanti rispetto ai virus precedenti e l’organismo non ha prodotto anticorpi specifici. In Lombardia emergono ogni giorno 5/6 per cento di reinfezioni (la maggior parte delle persone, il 4 per cento circa, non si è protetto col vaccino anti-Covid dopo la prima infezione). Anche l’Istituto Superiore di Sanità segnala un tasso di reinfezione del 3,3% e più a rischio sono giovani, donne e sanitari.

La buona notizia è che chi si è contagiato con Omicron dovrebbe invece essere altamente protetto da BA2: la nuova sottovariante non sarebbe in grado di eludere l’immunità acquisita con Omicron, almeno nel breve termine. 

Tuttavia uno studio danese ha identificato 47 casi di infezioni da BA.2 verificatesi poco dopo un’infezione da BA.1: si trattava soprattutto di giovani per la maggior parte non vaccinati. Secondo gli autori del report «le reinfezioni di Omicron BA.2 possono verificarsi poco dopo le infezioni da BA.1, ma sono rare». L’Organizzazione mondiale della Sanità ha comunque affermato che l’infezione con Omicron fornisce una forte protezione contro l’infezione BA.2.

La malattia è più grave?

Al momento ci sono prove limitate su possibili differenze nella gravità della malattia indotta da BA.1 e BA.2. Un’analisi condotta in Danimarca non ha mostrato differenze nel rischio di ricovero tra persone infette con BA.1 o BA.2. Anche ricercatori britannici hanno scoperto che l’infezione da BA.2 non comporta un rischio di ricovero più elevato rispetto a BA.1. Finora solo ricercatori giapponesi che hanno infettato i criceti con le due varianti hanno scoperto che BA.2 causa una malattia più grave.

Quali sono i sintomi?

I sintomi causati da Omicron 2 non sembrano diversi rispetto a Omicron. Entrambi i ceppi causano sintomi più lievi rispetto a Delta, in particolare a carico delle vie respiratorie superiori e la malattia si manifesta nella maggior parte dei casi come un raffreddore o una lieve influenza con dolori muscolari e articolari, almeno tra chi è vaccinato.

Rapporti aneddotici segnalano la diffusione di sintomi intestinali come nausea, diarrea, vomito, dolore addominale, bruciore di stomaco e gonfiore. Si tratta tuttavia di autosegnalazioni raccolte dallo studioso Tim Spector attraverso l’app Covid Symptom Study. I report ufficiali non segnalano sintomi diversi rispetto a Omicron.

I farmaci funzionano?

Come BA.1, anche BA.2 è in grado di eludere la maggior parte dei trattamenti con anticorpi monoclonali, rendendoli inefficaci. Il monoclonale preventivo Evusheld di AstraZeneca, conserva invece la capacità di neutralizzare la sottovariante Omicron BA2. Altri monoclonali che non funzionavano contro BA.1 hanno invece dimostrato attività neutralizzante contro BA.2 secondo un recentissimo studio pubblicato sul New England Journal of Medicine. I farmaci antivirali Paxlovid, molnupiravir e remdesivir rimangono tutti altamente efficaci contro entrambe le varianti di Omicron se assunti rapidamente, subito dopo un test positivo ma per capirne la reale efficacia sono necessari studi clinici specifici su BA.2

Lo studio su Nature Communications. La misteriosa variante Covid ‘scoperta’ nelle fogne di New York: la mutazione (forse) dal mondo animale. Redazione su Il Riformista il 5 Febbraio 2022.  

Una sequenza inedita, una variante mai vista prima. È quella scoperta da scienziati americani nella rete fognaria di New York, la ‘Grande Mela’. 

Al momento le informazioni, pubblicate sulla rivista “Nature Communications”, non sono tante e soprattutto non devono destare spavento: questa nuova variante circolerebbe infatti nelle acque di scarico della metropoli statunitense da più di un anno ma non ha lasciato segno di passaggio tra la popolazione. A New York, così come nel resto degli Stati Uniti e del mondo, a prevalere è sempre la Omicron, e in parte minore la più letale Delta.

Come scrive oggi il Corriere della Sera, la variante del virus è stata rintracciata nel corso di una indagine a campione sulle acque di scarico di 14 impianti newyorkesi, cominciata nel giugno del 2020: la sequenza è comparsa con regolarità in cinque di questi siti, che non sono stati resi noti.

Quello che al momento non è chiaro è l’origine della variante scoperta nelle fogne di New York. Due le ipotesi in campo: una è che sia una variante sfuggita ai milioni di tamponi effettuati nella metropoli, teoria che non convince i virologi, dato che ad oggi non è stata rintracciate se non nelle fogne; l’altra ipotesi è che sia una mutazione proveniente dal mondo animale.

Gli ‘indiziati’ in questo caso sono i topi, che vivono a migliaia nella rete fognaria della città. Ad oggi comunque non vi sono tracce di topi infettati dal virus, anche se Marc Johnson, uno dei virologi che hanno firmato l’articolo su “Nature Communications”, ha spiegato al New York Times che gli esperimenti hanno dimostrato come la variante misteriosa possa contagiare le cellule delle diverse specie di roditori.

"Mai rilevata sull'uomo", misteriosa variante spunta dalle fogne di New York. Alessandro Ferro il 5 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Una variante del Covid-19 mai sequenziata in precedenza è stata rilevata in alcuni campioni raccolti nelle fogne della città di New York: ecco le ipotesi dei ricercatori. 

Mentre un team di ricercatori di New York stava cercando tracce di Covid-19 nelle acque reflue della città, è venuto alla luce qualcosa di sorprendente: sono stati raccolti frammenti virali di una variante del Sars-Cov-2 mai scoperta fino ad ora.

Di cosa si tratta

I campioni raccolti hanno mostrato una costellazione unica di mutazioni mai rilevata sull'uomo: potrebbe essere il segno di una potenziale nuova variante del virus ma gli scienziati non si sono voluti sbilanciare su quali potranno essere, se ci saranno, le implicazioni future. Anche a New York, come nel resto del mondo, la variante dominante rimane sempre Omicron, con Delta che sembra ormai quasi scomparsa e Omicron 2 rilevata in molti sequenziamenti ma certamente molto minoritaria rispetto alla "sorella maggiore". I risultati di questa importante scoperta sono stati pubblicati sulla rivista Nature Communications: al momento, come sottolineano gli esperti, non c'è nessuna prova che questa nuova versione del Covid possa costituire un pericolo per l'uomo.

Le ipotesi dei ricercatori

"Offriamo diverse ipotesi per la presenza anomala di questi lignaggi, inclusa la possibilità che derivino da infezioni umane Covid-19 non campionate o che indichino la presenza di un serbatoio animale non umano", scrivono i ricercatori. "Penso che sia davvero importante trovare la fonte perché non siamo stati in grado di definirla", ha affermato al New York Times uno dei ricercatori, John Dennehy, virologo del Queens College. Nell'ultimo anno, almeno dal giugno 2020, era già accaduto che queste strane sequenze comparissero nelle acque reflue della Grande Mela. Le ipotesi, come detto, sono due: una sequenza sfuggita al tracciamento (molto raro) oppure una mutazione che proviene dal mondo animale, in particolare dai topi anche se non si esclude la possibilità che ci sia lo zampino di altri roditori quali scoiattoli e puzzole.

"A questo punto, quello che possiamo dire è che non abbiamo trovato i lignaggi criptici nei database umani e abbiamo guardato dappertutto", ha affermato al quotidiano americano Monica Trujillo, microbiologa del Queensborough Community College e autrice del nuovo articolo. Insomma, al momento le risposte sono sfuggenti e si brancola nel buio ma grande attenzione verrà posta, da questo momento, al nuovo sequenziamento del Covid-19. Rimane strana anche un'altra cosa: fino a questo momento, Sars-Cov-2 non ha infettato i ratti anche se il prof. Marc Johnson, uno dei virologi dell'articolo pubblicato su Nature Communications, ha affermato al NYT che gli esperimenti "hanno dimostrato come la 'variante misteriosa' possa contagiare le cellule delle diverse specie di roditori". Siamo soltanto all'inizio di un nuovo capitolo sul virus? Speriamo di no ma la ricerca intanto va avanti. 

Alessandro Ferro. Catanese classe '82, vivo tra Catania e Roma dove esercito la mia professione di giornalista dal 2012. Tifoso del Milan dalla nascita, la mia più grande passione è la meteorologia. Rimarranno indimenticabili gli anni in cui fui autore televisivo dell’unico canale italiano mai dedicato, Skymeteo24. Scrivo per ilGiornale.it dal mese di novembre del 2019 occupandomi soprattutto di cronaca, economia e numerosi approfondimenti riguardanti il Covid (purtroppo). Amo fare sport, organizzare eventi e stare in compagnia delle persone più care. Avviso ai naviganti: l’arancino è sempre maschio, diffidate da chi sostiene il contrario.

Francesco Grignetti per "la Stampa" il 10 gennaio 2022.

E ora preoccupiamoci pure di Deltacron, l'ultimo grido in fatto di varianti. Lo hanno scovato a Cipro, sabato scorso, grazie al dottor Leondios Kostrikis, che guida il team di scienziati che lavorano presso il laboratorio di biotecnologia e virologia molecolare dell'Università dell'isola. Già il nome che gli hanno dato è evocativo di un brutto mostriciattolo, una sorta di dr Frankenstein, metà Delta, metà Omicron. E va da sé che se prendesse la letalità del primo, e la contagiosità del secondo, saremmo tutti in guai seri. Per il momento, la scoperta cipriota è all'esame della comunità scientifica.

Il dottor Kostrikis ne ha dato notizia all'istituto Pasteur di Parigi, che tiene d'occhio tutte le varianti che vengono alla luce sul pianeta, al quotidiano locale Cyprus Times e all'agenzia internazionale Bloomberg. Ovviamente mezz' ora dopo era una celebrità planetaria. Il nome sicuramente è azzeccato. E c'è chi fa dell'ironia. Nino Cartabellotta, della fondazione Gimbe, ad esempio: «Perché Deltacron e non Omelta?». 

La notizia di Deltacron ha ovviamente messo in allarme non solo i giornali e le opinioni pubbliche, ma anche le autorità sanitarie d'Europa. Cipro è a un passo da tutti noi. Per il momento, però, nessun allarme è stato diramato dalla Rete sanitaria europea. Il che non vuol dire che la cosa sia caduta nel nulla. Al contrario. La storia della variante Omicron, che fu scoperta pochissime settimane fa in Sudafrica, racconta che la pandemia può avere impressionanti accelerazioni in ogni momento.

Ci sono però molte perplessità sulla scoperta cipriota. Il dottor Tom Peacock, virologo all'Imperial College di Londra, ha scritto su Twitter che a suo parere la variante Deltacron «sembra essere chiaramente una contaminazione. I veri ricombinanti tendono ad apparire solo poche settimane o mesi dopo che c'è stata una sostanziale co-circolazione». E secondo Giorgio Gilestro, professore di Neurobiologia anche lui all'Imperial College, sarà difficile che Deltacron possa scalzare Omicron: «Una variante ricombinante Delta/Omicron - ha scritto - si è quasi sicuramente già formata da qualche parte, ma il fatto che si formi non basta: deve essere anche più performante di Omicron per diffondersi e questo è molto difficile. Per nulla scontato».

In pratica, non ci sono precedenti di virus che si fondino uno nell'altro dopo un periodo così ristretto di co-circolazione. Anche un illustre virologo greco, il dottor Gkikas Magiorkinis dell'Università di Atene, è scettico: «Le prime analisi indipendenti mostrano che si tratta di un errore tecnico del laboratorio nel processo di lettura del genoma». Si torna cioè all'ipotesi di una contaminazione tra campioni in laboratorio.

Vere o presunte che siano, l'incubo delle varianti incombe. Dapprima la Delta ha mostrato una contagiosità e una letalità maggiori della Alfa. Poi è arrivata Omicron. E al momento le due varianti circolano alla pari. «Mi preoccupa - dice Walter Ricciardi, professore ordinario di Igiene all'Università Cattolica e consulente del ministro Speranza - la combinazione tra Delta e Omicron, che produrrà un gennaio catastrofico con una fortissima pressione sugli ospedali. Non prevedo un lockdown, ma una serie di misure restrittive».

Altre varianti accertate sono poi all'attenzione dell'Organizzazione mondiale di Sanità. Una è Lambda, che fu identificata in Perù e dall'estate scorsa è molto presente in Sudamerica. «Gamma» fu sequenziata in Brasile. Un'altra è Mu, trovata in Colombia. Poi c'è Ihu, che proverrebbe dal Camerun, e che però è stata isolata a Marsiglia: è ancora sotto osservazione e al pari di altre varianti viene monitorata dall'Oms.

Vittorio Sabadin per La Stampa il 9 febbraio 2022.

A causa di Omicron, da un secolo nel mondo non ci sono mai stati così tanti malati come oggi: per trovare percentuali analoghe bisogna risalire al 1918, l’anno in cui cominciò l’influenza Spagnola. Negli Stati Uniti, la nuova variante del Covid è ormai responsabile del 98,3% dei contagi e si sta diffondendo con percentuali analoghe in tutti i paesi. «Omicron – ha confermato Sara Murray, dell’Università della California - è diventata la seconda malattia più contagiosa al mondo, seconda solo al morbillo».

La nuova mutazione del Covid non è grave come lo è stata Delta, ma sta mettendo a dura prova i servizi sanitari per l’alto numero di persone infettate. Anche se i sintomi sono lievi o inesistenti, chi viene contagiato deve restare in quarantena e questo sta riducendo il numero di infermieri e medici in servizio. Negli Stati Uniti quasi 20.000 persone entrano ogni giorno in ospedale con il Covid e a molte altre il contagio viene diagnosticato negli esami ai quali si sottopongono mentre vengono ricoverate per qualcos’altro. 

Anche se i sintomi sono lievi o inesistenti, l’ospedale deve applicare protocolli di sicurezza aggiuntivi e isolare il paziente, aumentando il costo del suo ricovero. Sta crescendo anche il numero di bambini ricoverati, con punte significative tra chi ha meno di 5 anni. Manifestano casi lievi di bronchite o di gonfiore della gola, e la quantità di ricoveri in questa fascia di età è la più elevata da quando è cominciata la pandemia.

Le persone malate di Covid nel mondo sono attualmente 395 milioni e secondo i calcoli degli esperti citati dal “Wall Street Journal” era dal 1918 che non si registrava un numero così elevato di malati tra gli esseri umani. L’ultima grande pandemia, quella causata dal virus dell’influenza H1N1, verificatasi tra il 1918 e il 1920, uccise 50 milioni di persone su una popolazione mondiale di 2 miliardi. 

Il Covid ha finora causato la morte di 5,7 milioni di persone su una popolazione di 7 miliardi. Prima del 1980, quando si diffuse a livello globale la vaccinazione contro il morbillo, la malattia uccideva in media 2,5 milioni di bambini ogni anno e colpiva nove persone su dieci fra quelle che venivano in contatto con un malato.

Uno studio del Global Burden of Desease aveva già evidenziato anni fa che il numero di persone malate di qualcosa sta aumentando nel mondo di anno in anno. Nel 2013 solo il 4% degli abitanti umani della Terra non aveva avuto problemi di salute, mentre un terzo della popolazione ne aveva avuti più di cinque. 

Il numero di anni che ogni individuo si vede guastati da qualche malanno è aumentato dal 21% del 1990 al 31% del 2013, ed è ulteriormente cresciuto negli anni seguenti. Colpa anche dell’allungamento dell’aspettativa di vita e della prolungata vecchiaia, segnata da una miriade di acciacchi che gli anziani sopportano, perché l’alternativa resta comunque peggiore.

Identificata la cugina di Omicron anche in USA: la sub-variante BA.2. Già diffusa in California, New Mexico, Texas e nello stato di Washington l'ultima variante del Covid preoccupa i medici. Intanto a New York regole meno severe. Emma Pistarino La Voce di New York il 26 gennaio 2022.

Sono 2166 le persone che ogni giorno perdono la vita negli Stati Uniti a causa del COVID-19. Un trend che non si verificava da almeno 11 mesi, durante l’ultimo strascico di un’ondata di contagi pre-vaccino. Ma gli esperti si aspettavano proprio che il picco delle morti sarebbe stato nel momento in cui il tasso d’infezione avrebbe iniziato a calare, e infatti, negli ultimi 14 giorni, i casi sono diminuiti del 14%, mentre le morti sono aumentate del 35%. 

Nonostante il recente aumento dei deceduti però, la variante Omicron si conferma più contagiosa, ma meno letale di quelle precedenti. Proprio in queste ore, è stata identificata una sub-variante ugualmente contagiosa, chiamata BA.2, e soprannominata “invisibile” poiché non è possibile riconoscerla con un normale tampone molecolare. I CDC hanno chiesto ai ricercatori di studiarla in modo da capire se BA.2 sia più pericolosa nei suoi sintomi rispetto alla cugina Omicron.

L’ultima sottovariante è già stata identificata in diversi stati americani, tra cui Washington, New Mexico, Texas e California, ma anche in Europa, Asia e alcuni paesi dell’America Latina. E come la versione iniziale di Omicron, la sua diffusione sta mettendo particolarmente a rischio i paesi con il tasso vaccinale più basso. “Ci sono più di tre miliardi di persone che non hanno ancora ricevuto la prima dose di iniezione, quindi abbiamo ancora molta strada da fare”, ha detto la dottoressa Maria Van Kerkhove, guida tecnica dell’Organizzazione mondiale della Sanità nella risposta contro la pandemia. 

Intanto, a New York, la diminuzione dei casi positivi sta spingendo le istituzioni ad abbassare il periodo di quarantena, che anche per studenti ed insegnanti è passato da dieci a cinque giorni dall’inizio dei sintomi o dal tampone positivo. L’obbligo di mascherina nei locali pubblici dello stato, a cui aveva fatto ricorso un giudice della contea di Nassau, è stato confermato grazie al giudice della corte d’appello Robert J. Miller. Miller ha confermato la costituzionalità della legge, rispondendo alla mozione della procuratrice generale Letitia James. 

Nonostante i casi siano diminuiti del 10% nelle ultime settimane, gli ospedali dello stato intero rimangono sotto pressione: i ricoveri non erano così alti dal maggio del 2020 e un minimo di 130 persone muoiono ogni giorno.

Emma Pistarino, torinese, si è laureata alla University of Northern Iowa in giornalismo, global studies e etica nel 2021.

Mutazioni ma stessi sintomi: la "sorella" non fa paura. Redazione il 29 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Omicron 2 presente in molti Paesi europei. È difficile da individuare però non buca i vaccini.

Mentre Omicron dilaga e suona come una salvezza, spunta Omicron 2. Non si può definire una nuova mutazione del virus ma una sotto-variante, sorella di Omicron. I virologi tranquillizzano subito: sembra non cambi nulla, nè nella gravità dei malati nè nella gestione dei casi. Per altro la variante non buca lo scudo del vaccino e quindi risulta, al momento, del tutto gestibile.

«Omicron 2 - conferma Gianni Rezza, direttore della programmazione sanitaria del ministero della Salute - non differisce molto nelle caratteristiche rispetto ad Omicron 1». È stata sequenziata per la prima volta in Italia dal laboratorio di Igiene del Policlinico San Martino di Genova diretto da Giancarlo Icardi: due i casi accertati, uno dopo il sequenziamento di routine nel laboratorio dell'ospedale ligure, il secondo emerso dal sequenziamento di un campione derivante dal monitoraggio nazionale.

Omicron 2, conferma il presidente dell'Istituto superiore di sanità Silvio Brusaferro, sembra essersi diffusa in nove Regioni ed è pari all'1% delle sequenze classificate come Omicron. È stata segnalata in Campania, Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Liguria, Lombardia, Piemonte, Sicilia e Toscana. Lo evidenzia l'indagine rapida condotta dall'Iss e dal ministero della Salute insieme ai laboratori regionali e alla Fondazione Bruno Kessler. Ma i casi effettivi potrebbero essere molti di più. La sorella minore di Omicron in alcuni paesi europei è causa della metà dei contagi e si è diffusa soprattutto in Danimarca, in Gran Bretagna e in Germania. Viene anche chiamata la sorella «invisibile», poichè è estremamente difficile da individuare. Per trovarla è necessario infatti sequenziare tutti i campioni e questo implica una capacità di laboratorio che non tutti i Paesi hanno. Un lavoro lungo, che ha dato il tempo al virus di giocare d'anticipo sul lavoro degli scienziati e diversificare prima che qualche laboratorio se ne accorgesse. Le prime sequenze sono state inviate a Gisaid - il portale internazionale di dati genomici - da Sudafrica e Filippine e la maggior parte dei campioni è stata caricata dalla Danimarca (che però è tra le prime nazioni al mondo per capacità di sequenziamento). Altri Paesi con più di 100 campioni sono India, Svezia e Singapore.

Omicron 2, cosa sappiamo della variante «sorella invisibile» di Omicron e dove è stata segnalata in Italia. Silvia Turin su Il Corriere della Sera il 28 Gennaio 2022.

Segnalata anche in Italia. Ha 28 mutazioni peculiari, 28 in comune con BA.1. I dati su contagiosità e letalità sono ancora limitati, anche perché non è facile identificarla (bisogna sequenziare tutti i campioni).

Sotto la lente degli scienziati e delle autorità sanitarie la crescita, in alcuni Paesi europei e asiatici, della sorella di Omicron, il lignaggio BA.2, che differisce da BA.1 per alcune mutazioni (anche nella proteina Spike).

Dov’è diffusa maggiormente

In totale, 40 Paesi hanno caricato più di 8.000 sequenze BA.2 su Gisaid (il portale internazionale di dati genomici) dal 17 novembre 2021. Le tre sottolinee distinte di Omicron (chiamate BA.1, BA.2 e BA.3) sembrano essere emerse tutte più o meno nello stesso periodo. Ciò significa che Omicron ha avuto il tempo di diversificare prima che gli scienziati se ne accorgessero. Anche se non è possibile determinare dove possa aver avuto origine esattamente il sottolignaggio BA.2, le prime sequenze sono state inviate da Sudafrica e Filippine e la maggior parte dei campioni è stata caricata dalla Danimarca (che però è tra le prime nazioni al mondo per capacità di sequenziamento). Altri Paesi con più di 100 campioni sono l’India, la Svezia e Singapore.

Perché si è detta anche «invisibile»

La «sorella» di Omicron è stata definita anche «invisibile» perché è di difficile identificazione, dato che non presenta la «delezione del gene S» caratteristica di Omicron BA.1: per trovarla, quindi, è necessario sequenziare tutti i campioni e questo implica una capacità di laboratorio che non tutti i Paesi hanno. La mancanza del gene S, invece, è quella che permette di sospettare l’appartenenza di un campione alla variante Omicron del tipo «classico» direttamente dal tampone (senza sequenziamento, che viene fatto successivamente).

La situazione in Danimarca, India e UK

In Danimarca BA.2 si sta diffondendo rapidamente ed è ormai prevalente rispetto a BA.1. Anders Fomsgaard, virologo presso lo State Serum Institute danese, ha dichiarato che ora rappresenta circa il 65% dei nuovi casi. Allo stesso tempo, ha rassicurato: «Non siamo così preoccupati, dal momento che finora non vediamo grandi differenze nella distribuzione per età, stato vaccinale, reinfezioni e rischio di ricovero. Inoltre, nonostante l’alto tasso di infezione di BA. 2, il numero dei ricoveri in terapia intensiva sta diminuendo». Il picco in Danimarca non è stato raggiunto e i casi sono ancora in aumento: «Non ci sono prove che la variante BA.2 causi malattia più grave, ma deve essere più contagiosa», ha detto il ministro della Salute danese, Magnus Heunicke, secondo lo Statens Serum Institut potrebbe essere 1,5 volte più infettiva di BA.1.

Tassi di crescita simili di BA.2 si trovano in India rispetto ad altre varianti (con raddoppio ogni 4 giorni). Nel Paese è diventata dominante verso la fine di dicembre.

Nel Regno Unito l’Agenzia per la sicurezza sanitaria (UKHSA) ha designato il sotto-lignaggio BA.2 come «variante sotto inchiesta» il 21 gennaio. L’agenzia segnala circa 426 casi di Omicron BA.2 confermati dal Whole Genome Sequencing inglese (WGS), con il primo datato 6 dicembre 2021. Le aree con il maggior numero di casi confermati sono Londra e il Sud Est. Uno studio inglese segnala un aumento dei nuovi casi sintomatici giornalieri di Covid saliti di circa il 10% in una settimana e ipotizza una maggior contagiosità di BA.2, tutta da confermare. All’Imperial College su 1.816 campioni positivi analizzati, il 99% erano Omicron e 6 BA.2, il restante 1% erano Delta.

Segnalata anche in Italia

In alcuni Paesi un test positivo con gene S può ancora far sospettare una presenza di Delta, ma in Inghilterra si stima che sia comunque maggiore la probabilità di avere un BA.2 rispetto a Delta, questo perché Delta è stata soppiantata da tempo. 

Anche in Italia Delta è minoritaria: secondo l’ultimissima indagine sulla prevalenza delle varianti pubblicata dall’Istituto Superiore di Sanità proprio il 28 gennaio e riferita al 17 gennaio scorso, la variante Omicron è predominante al 95,8%, mentre Delta rappresenta il 4,2% del campione esaminato.

La BA.2 è in 9 Regioni ed è pari all’1% delle sequenze classificate come Omicron. È stata segnalata 21 volte: in Campania, Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Liguria, Lombardia, Piemonte, Sicilia e Toscana.

Germania, Sudafrica e Usa

La sorella di Omicron cresce anche in Germania, dove il 25 gennaio sono stati rilevati più casi giornalieri di BA.2 (5%) rispetto a Delta (2-3%). BA.2 rappresenta circa il 30% dei sequenziamenti a Berlino, con un vantaggio di crescita rispetto a Delta di circa il 20% al giorno.

BA.2 è in aumento anche in Sudafrica. Alla fine di novembre BA.2 rappresentava circa il 2% dei casi Omicron rilevati, nella settimana dal 10 gennaio al 17 gennaio era al 25%, in alcune province al 40%, ma la crescita per ora è associata a una costante diminuzione delle infezioni nel Paese.

BA.2 è diffusa anche in tutto il sud-est asiatico, meno negli Usa, dove comunque è segnalata, anche se davvero marginale.

Per ora non sembra diversa negli effetti

Attualmente, non ci sono dati sufficienti per determinare se il lignaggio BA.2 sia più trasmissibile o abbia un vantaggio di evasione immunitaria rispetto al lignaggio BA.1. Le prime osservazioni dall’India e dalla Danimarca suggeriscono che non vi sia alcuna differenza di gravità.

BA.2 condivide 32 mutazioni con BA.1, ma presenta anche 28 mutazioni uniche. E in tutto ha 70 mutazioni in più rispetto al ceppo originario Wuhan, rispetto alle 53 di BA.1.

Alcune analisi suggeriscono che le mutazioni Spike abbiano un impatto abbastanza minimo sull’antigenicità rispetto a BA.1 e che quindi le differenze nell’efficacia dei vaccini contro BA.2 rispetto a BA.1 siano trascurabili.

I primi studi dall’Imperial College dicono che l’efficacia vaccinale verso casi sintomatici è preservata, anzi leggermente più alta per BA.2 rispetto a BA.1.

È anche altamente probabile che l’infezione da BA.1 dia una discreta reattività crociata contro l’infezione da BA.2.

Il vantaggio di BA.2 rispetto a BA.1 è stimato del 10-15% circa in Danimarca e del 5-6% in Germania: in alcuni Paesi il picco Omicron è stato superato, quindi molti scienziati prevedono che BA.2 non possa da sola provocare altre ondate (si veda la discesa dei casi in Sudafrica), potrebbe però sostituire lentamente la BA.1 nei prossimi mesi, ma i dati su contagiosità e letalità sono davvero limitati (visto anche la difficoltà a intercettare la sotto-variante), quindi è necessario continuare a indagare.

·        Alle origini del Covid-19.

Xi Jinping, i maiali fabbrica di virus: "Da lì verrà la nuova peste globale". Mirko Molteni su Libero Quotidiano il 28 novembre 2022

A guardarlo da fuori sembra un palazzo di uffici o un edificio residenziale. Invece, il grattacielo di 26 piani che sorge alla periferia di Ezhou, cittadina della provincia dell'Hubei in Cina, è un enorme allevamento di maiali. Il più grande al mondo, all'interno di un singolo edificio. A pieno regime, sarà in grado di "sfornare" un milione e 200mila maiali l'anno. Nati, allevati e macellati senza mai essere usciti anche solo per un attimo da quei 26 piani di cemento armato. L'artefice dell'ennesima follia cinese è la Zhongxin Kaiwei, colosso del cemento con decine di stabilimenti nelle province dell'Hubei e dell'Henan. Cina profonda, lontana dalla maestosità della Muraglia, dalla Città Proibita di Pechino e dalle luci sfavillanti di Shanghai.

INVESTIMENTI

Quando, sul finire del decennio scorso, il business dell'edilizia ha subito un brusco rallentamento nel Paese, l'azienda ha pensato di diversificare i suoi investimenti, individuando negli allevamenti intensivi di animali un settore nel quale usare i propri materiali da costruzione per realizzare fattorie verticali di più e più piani.

Quella di Ezhou è stata realizzata con una spesa di 4 miliardi di Yuan (pari a circa 535 milioni di euro) proprio accanto a una delle fabbriche di cemento della Zhongxin Kaiwei. A mesi sarà completata con la costruzione di un secondo edificio identico a quello già entrato in funzione durante lo scorso mese di ottobre con l'arrivo delle prime 3.700 scrofe. A regime, i due grattacieli potranno ospitare contemporaneamente fino a 650mila suini su una superficie di corca 800mila metri quadrati, con uno spazio pro-capite di poco superiore al metro quadrato per animale.

Una control room collegata a centinaia di telecamere controlla la ventilazione e la temperatura degli ambienti, oltre che la fornitura di cibo agli animali, che avviene attraverso 30mila mangiatoie automatiche. L'elevata automazione permette di contenere nell'ordine delle centinaia il numero di addetti, che devono sottoporsi a un rigido protocollo di test e di disinfezione per poter accedere alla struttura, dalla quale non possono uscire fino al termine del loro turno settimanale, dormendo e trascorrendo il loro tempo libero in spazi e alloggi ricavati all'interno della fattoria. L'enorme quantità (tonnellate) di escrementi prodotti ogni giorno dalle bestie viene trattata per generare biogas, usato per ricavare elettricità e riscaldare l'acqua e gli ambienti all'interno del complesso. Strutture come quella di Ezhou (ma nessuna di quelle proporzioni) hanno iniziato a prendere piede in Cina a partire dal 2019, quando il ministero dell'Agricoltura e degli Affari Rurali ha dato il via libera ad allevamenti ultra-intensivi di maiali per compensare le perdite di capi riportate nel Paese tra il 2018 e il 2020 a causa di una devastante epidemia di febbre suina africana che ha provocato la morte di almeno cento milioni di maiali. I cinesi sono particolarmente ghiotti di quel tipo di carne, al punto che il 50% del consumo mondiale di carne suina avviene proprio sulle loro tavole.

PERICOLI

I sostenitori delle mega-fattorie, come Zhu Zengyong dell'Accademia cinese di Scienze animali, osservano che «rispetto agli allevamenti tradizionali, le fattorie verticali garantiscono maggiore biosicurezza, oltre a consentire un notevole risparmio di suolo. Ciò dovrebbe avere l'effetto di elevare gli standard in tutto il settore degli allevamenti suini, inclusi quelli tradizionali». I detrattori, però, intravvedono pericoli gravissimi: «È vero che gli allevamenti verticali possono annullare l'interazione tra animali domestici e selvatici, che sono più spesso portatori di malattie. Ma se per un qualche motivo un virus dovesse riuscire a penetrare in queste strutture, l'estrema concentrazione degli animali porterebbe a una sua diffusione rapidissima e senza via d'uscita, se non con l'uccisione di tutti i capi», spiega Matthew Hayek della New York University, mentre Dirk Pfeiffer, professore alla City University di Hong Kong mette in guardia dall'elevato "rischio di mutazioni cui un virus potrebbe andare incontro trasmettendosi in breve tempo a centinaia di migliaia di animali». E, purtroppo, quella della Cina e di virus animali mutati in grado di colpire l'uomo è una storia che abbiamo sentito già tante, troppe volte.

Massimo Gaggi per corriere.it l'1 novembre 2022.

Il pendolo della ricerca delle cause della diffusione dell’epidemia da coronavirus si muove con sempre più forza verso l’ipotesi della fuga da un laboratorio cinese – con ogni probabilità il Wuhan Institute of Virology - dove si facevano esperimenti di manipolazione dei ceppi virali. 

Quasi certamente la smoking gun che consentirebbe di dimostrare con certezza che il virus del Covid-19 è uscito da un mercato di animali o, per errore (nessun ritiene che fosse in corso un tentativo di produrre armi biologiche), da un laboratorio, non si troverà mai. Ma l’ipotesi di un virus manipolato nei laboratori e sfuggito per carenza delle procedure di sicurezza e limitata disponibilità di personale specializzato, circolata già nel 2020 e subito scartata come illazione inconsistente, nelle ultime settimane si è molto rafforzata.

Due anni e mezzo fa il maggiore sostenitore della tesi dell’intervento di una mano umana era stato l’allora presidente Trump che, col suo gusto per le parole che rimbombano e la tendenza a trattare anche le questioni più delicate e vitali come fenomeni da baraccone, si era messo a chiamare il Covid -19 kung flu (flu è l’inglese per influenza, ndr). La sua volontà di politicizzare la questione spinse molti, anche tra gli scienziati, a tirarsi indietro. Eppure già allora c’erano quelli, come il capo della CDC di Atlanta dell’epoca, Robert Redfield, che davano, invece credito, all’ipotesi dell’errore di laboratorio.

A cercare di mettere una pietra tombale sulla questione fu, nel febbraio del 2021, la stessa WHO, l’Organizzazione mondiale per la sanità, che definì estremamente improbabile l’ipotesi dell’intervento umano. Ma a metà del 2022 anche l’authority planetaria della salute ha cambiato rotta invitando a indagare in profondità sull’ipotesi dell’incidente di laboratorio.

Più di recente sono tre i fattori che hanno spostato sempre più l’ago della bilancia verso l’ipotesi del virus «fabbricato» e sfuggito. Il primo è il rapporto «intermedio» della componente repubblicana della Commissione Sanità e Istruzione del Senato. Il documento, presentato giovedì scorso e firmato dal senatore Richard Barr, un conservatore moderato che due anni fa fu tra i pochi, nel suo partito, a votare per l’impeachment di Trump e che fra due mesi lascerà il Congresso non essendosi ricandidato, è il frutto di una lunga indagine bipartisan. Per ora, però, i democratici si sono sfilati, anche se dicono che la collaborazione bipartisan continuerà e che il documento conclusivo potrebbe essere comune.

Il rapporto raccoglie i molti indizi di un incidente di laboratorio che ha consentito la fuga di un virus manipolato. In particolare appare inverosimile che due team di scienziati dell’esercito siano riusciti a mettere a punto un vaccino, pronto nel febbraio 2020, in meno di due mesi. Secondo gli esperti che hanno partecipato ai lavori, è assai più verosimile che il team abbia avuto accesso alla sequenza genomica del virus fin dal novembre 2019. Dunque, cinesi responsabili per incuria, anche se la pista del mercato non viene totalmente esclusa.

Il secondo passaggio è un saggio di 40 pagine frutto delle ricerche di un’equipe di giornalisti di Vanity Fair e di ProPublica . Hanno lavorato per 5 mesi facendo analizzare tutte le comunicazioni uscite dai laboratori cinesi e le interazioni col Comitato centrale del Partito comunista da esperti che parlano bene il mandarino e sanno decrittare il linguaggio opaco e ampolloso della comunicazione politica ufficiale.

Molti indizi fanno pensare che a novembre 2019 i laboratori di Wuhan siano stati travolti da una gravissima emergenza per la quale si è mobilitato il vertice del PCC e, probabilmente, lo stesso Xi Jinping. 

Intercettati allarmi precrisi dei laboratori per mancanza di risorse economiche e di personale per risolvere i complessi problemi che si presentavano. Un anno prima del disastro il direttore dell’istituto aveva scritto, in un articolo per una rivista scientifica cinese di enormi problemi di sicurezza dei laboratori. E aveva avvertito: «La manipolazione dei virus in laboratorio può produrre grandi benefici, ma può anche provocare catastrofi».

Il terzo elemento è uno studio scientifico pubblicato da tre scienziati – un genetista del Montana, un farmacologo della Duke University e un ginecologo tedesco – secondo i quali la dimostrazione dell’origine non naturale del virus del Covid-19 va ricercata nel mondo in cui sono attaccati i vari segmenti del genoma. 

In natura queste «cerniere», chiamate restriction site (in italiano si parla di tagli con enzimi di restrizione), compaiono in modo casuale e in misura limitata lungo la catena del genoma. Quando c’è l’intervento dell’uomo (molti lavoratori nel mondo manipolano virus a fini di ricerca medica e farmacologica) questi tagli sono, invece, molto più numerosi e non appaiono in modo random (a casaccio) ma sono ben distanziati.

I tre ricercatori sostengono di aver sperimentato questa loro teoria sul genoma del Covid-19, confrontandolo con quello di altri 70 coronavirus trovati in natura: la differenza, dicono, è lampante. Qui gli scienziati si sono divisi in due gruppi: quelli – pochi – che fin dall’inizio hanno considerato certa l’origine animale del virus, liquidano il metodo proposto dai loro tre colleghi come totalmente inaffidabile, fallace.

Molti altri, colpiti dalla semplicità di un metodo al quale nessuno aveva pensato prima, stanno riproducendo l’esperimento sui database dei loro campioni, alla ricerca di conferme. Che probabilmente ci saranno, porteranno a considerare altamente probabile la manipolazione genetica del virus del Covid-19 ma non consentiranno comunque di arrivare a una certezza assoluta.

USA, Commissione d’inchiesta del Senato: il Covid è nato probabilmente in laboratorio. di Valeria Casolaro su L’Indipendente il 29 ottobre 2022.

Secondo un rapporto della Commissione per la salute, l’istruzione, il lavoro e le pensioni del Senato statunitense, l’origine della pandemia potrebbe essere riscontrabile verosimilmente in un “incidente legato alla ricerca”. Per quanto siano ancora incerte le cause della diffusione del virus Sars-CoV-2, la Commissione ritiene che non sia verosimile dare per certa l’origine zoonotica, teoria per la quale i ricercatori dovrebbero fornire prove maggiormente “chiare e convincenti”. Ad oggi infatti, scrive la Commissione, sarebbero ancora molte le domande alle quali tale ipotesi non ha fornito risposta, non potendo così essere considerata la più verosimile tra tutte quelle possibili.

Negli scorsi 15 mesi la Commissione ha analizzato centinaia di studi, interviste e report resi disponibili al pubblico e intervistato “dozzine di esperti in materia” per indagare la possibile origine del virus che ha dato inizio alla pandemia scoppiata alla fine del 2019. Quanto emerso dalle analisi renderebbe evidente come non sia ancora possibile evincere con certezza assoluta quale sia l’origine primaria della diffusione del virus del Covid-19, le cui ipotesi maggiormente accreditate sono la trasmissione zoonotica e l’incidente di laboratorio.

Le conclusioni del documento redatto dalla Commissione confermano quanto già osservato dal Gruppo consultivo scientifico dell’OMS per le origini dei nuovi agenti patogeni, dalla Commissione Covid-19 di Lancet e dalla Valutazione a 90 giorni sulle origini del Covid-19 dell’Ufficio del Direttore dell’Intelligence nazionale degli Stati Uniti. Le informazioni pubblicamente disponibili, scrive la Commissione, indurrebbero a pensare che la causa più probabile sia da identificare in un “incidente legato alla ricerca”, e che “l’ipotesi di un’origine zoonotica naturale” non possa più godere della “presunzione di accuratezza”. Tra gli interrogativi lasciati ancora aperti da tale ipotesi, infatti, vi sono infatti quelli riguardanti la natura dell’ospite intermedio del virus Sars-CoV-2, dove sia stato infettato per la prima volta l’uomo, dove si trovi il serbatoio virale e in che modo il virus sia riuscito ad acquisire le sue caratteristiche genetiche uniche.

Per tali motivi, riporta il documento, è necessario attendere l’esito di ulteriori studi prima di poter affermare di disporre di informazioni chiare e incontrovertibili riguardo l’origine della pandemia. [di Valeria Casolaro]

Covid, spuntano “prove” sulla tesi proibita: “Non è naturale”. L’inchiesta choc dei Repubblicani americani sulle origini della pandemia da Covid: “Ci sono prove sostanziali”. Matteo Milanesi su Nicolaporro.it il 30 Ottobre 2022,

La bocciatura della linea Speranza, da parte del governo Meloni, è ormai chiara. Dopo l’eliminazione del bollettino giornaliero ed il reintegro del personale sanitario non vaccinato, il prossimo obiettivo del centrodestra è il perseguimento della “chiarezza su quanto avvenuto durante la gestione della crisi pandemica”. Insomma, in poche parole: una commissione d’inchiesta sul periodo sanitario emergenziale in Italia.

Commissione d’inchiesta

Il primo indiziato, ovviamente, è l’ex ministro Speranza, che si troverebbe al centro del polverone sul lato del mancato aggiornamento pandemico; del dossier dell’Oms, stilato da Francesco Zambon, poi prontamente ritirato; delle attività delle decine di task force istituite dal governo Conte II. La durata della commissione d’inchiesta sarebbe di 18 mesi, e tra i firmatari balza all’occhio non solo la Lega, ma soprattutto il partito di Matteo Renzi, Italia Viva, che al momento dello scoppio della pandemia risultava essere una delle forze sostenitrici dell’esecutivo giallorosso.

Inchiesta americana

Eppure, sembra che anche dall’altra parte dell’Oceano Atlantico, negli Stati Uniti, si voglia approfondire retroattivamente, in particolare sulle vere origini della pandemia da Covid-19. Secondo i membri repubblicani della Commissione sanitaria del Senato, vi sarebbero “prove sostanziali” sul fatto che il virus sia derivato da un’accidentale fuoriuscita dal laboratorio di Wuhan. “Sembra ragionevole concludere che la pandemia Covid-19 sia stata, molto probabilmente, il risultato di un incidente legato alla ricerca”, hanno affermato i membri del Gop.

L’indagine è stata anche ripresa dal quotidiano britannico conservatore, il Daily Mail, secondo cui vi sarebbero “sei incidenti legati alla ricerca che hanno coinvolto il Covid presso laboratori di biosicurezza in Cina, Taiwan e Singapore”. Donald Trump fu il primo a definire il Covid un “virus cinese” e fu anche tra i primi a sollevare l’ipotesi – ai tempi un vero e proprio tabù – della sua uscita dal laboratorio della città di Wuhan. Fin dall’inizio, le viro-star italiane ed americane, si ricordi anche il virologo Fauci, liquidarono la teoria come puro “complottismo”; ad oggi, però, è la stessa Oms a non aver escluso l’ipotesi di un virus modificato artificialmente, e sfuggito per errore umano.

Omissioni cinesi

A ciò, ricordiamo, si aggiungono le continue omissioni della Cina, la quale non ha mai condiviso tutti i dati sul coronavirus con l’Organizzazione Mondiale di Sanità. Fu lo stesso capo delle investigazioni dell’Oms sull’origine del Sars-Cov-2, nel rapporto stilato a marzo 2021, a sollevare la teoria proibita, secondo cui il paziente zero sarebbe un sanitario del laboratorio di Wuhan, che lavorava a stretto contatto con i pipistrelli.

Lo scenario trova riscontro anche nelle parole del professore ed economista, Jeffrey Sachs, inserito due volte dal Time tra i cento personaggi più influenti del mondo. “A mio avviso, si tratta di un errore della biotecnologia, non di un incidente di percorso naturale“, ha affermato Sachs, dopo l’esamina di una sequenza di otto aminoacidi sulla proteina spike del virus con quella trovata nelle cellule che rivestono le vie respiratorie umane. “Non lo sappiamo per certo, ma ci sono prove sufficienti che dovrebbero essere esaminate e non sono oggetto di indagine, non negli Stati Uniti, né da nessuna parte”. Da poche ore, però, l’indagine conclamata poche settimane fa ha avuto ufficialmente inizio. Matteo Milanesi, 30 ottobre 2022

L’origine del Covid: che cosa è successo (davvero) nel mercato del pesce di Wuhan. Federico Giuliani il 29 Luglio 2022 su Inside Over su Il Giornale.

I riflettori sono tornati ad accendersi sul Wuhan Huanan Haixian Pifa Shichang, ossia il mercato del pesce di Wuhan. Il Sars-CoV-2, con ogni probabilità, sarebbe nato proprio qui, in questa città situata nella provincia cinese dello Hubei, nella Cina centrale. L’ennesima conferma, la più accreditata tra quelle fin qui messe sul tavolo, proviene da uno studio realizzato da un gruppo di ricercatori dello Scripps Research Institute di La Jolla, e pubblicato su Science.

A quanto pare, non sembrano esserci più dubbi sul fatto che il virus autore della pandemia di Covid-19 si sia originata tra i banchi del mercato ittico di Wuhan, registrato all’incrocio tra New China Road e Development Road, a pochi passi dalla stazione ferroviaria Hankou. Evaporano come neve al sole le ipotesi di una possibile manipolazione del virus e quella relativa alla fuga del patogeno dal famigerato laboratorio di ricerca di Wuhan.

La causa è da ricercare nel cosiddetto salto di specie (zoonosi) grazie al quale Sars-CoV-2 è sbarcato dal mondo animale al mondo umano. Mistero risolto, dunque? Nemmeno per idea, visto che permangono ancora diverse domande senza risposta. Intanto non sappiamo da quale animale sia partito tutto. Di sicuro, è coinvolta una delle bestiole in vendita al mercato ma, anche qui, non è dato sapere se l’animale X, nel senso di ignoro, abbia contratto il virus da un’altra specie animale. Per quanto riguarda, invece, l’origine temporale della pandemia, i ricercatori hanno parlato degli ultimi giorni di novembre del 2019. E cioè almeno un mese prima rispetto alle prime indiscrezioni apparse sui media.

L’epicentro della pandemia

Lo studio che dovrebbe aver definitivamente chiarito la natura zoonotica di Sars-CoV-2 si intitola The Huanan Seafood Wholesale Market in Wuhan was the early epicenter of the COVID-19 pandemic (consultabile al seguente link). I primi casi noti di Covid-19 risalenti al dicembre 2019, compresi quelli senza collegamenti diretti segnalati, erano geograficamente concentrati nei pressi di questo mercato. Segnaliamo, inoltre, che i mammiferi vivi e sensibili alla Sars-CoV-2 sono stati venduti tra i banchi dello stesso mercato fino alla fine del 2019. Come se non bastasse, all’interno del mercato i campioni ambientali positivi al virus sono stati associati ai venditori che vendevano i suddetti mammiferi. Partendo da qui, la ricerca ricostruisce quanto avvenuto.

Il 31 dicembre 2019 il governo cinese ha notificato all’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) la comparsa di un focolaio di polmonite grave di eziologia sconosciuta a Wuhan. Delle prime 41 persone ricoverate in ospedale con polmonite fino al 2 gennaio 2020, 27 di loro (il 66%) avevano un’esposizione diretta con il mercato ittico. Indizi interessanti, ma non ancora sufficienti per svelare l’arcano. I ricercatori hanno così ricostruito le coordinate geografiche di 155 dei primi 174 casi censiti nel primo rapporto sulla pandemia stilato dall’Oms. È emerso che i primi contagi erano attribuiti al mercato di Huanan, in effetti considerato fin da subito il possibile epicentro del contagio. Ben presto, il contagio ha coinvolto anche persone che non avevano visitato la struttura: segno tangibile di come il virus, nel frattempo, si stava diffondendo in tutta la città.

Ma che cosa è accaduto nel mercato del pesce di Wuhan? La deflagrazione della pandemia è da ricollegare al contatto avvenuto tra gli esseri umani e alcuni animali vivi venduti nell’area sudoccidentale del mercato. Tra i possibili “responsabili” troviamo le volpi rosse (Vulpes vulpes), i tassi del maiale settentrionale (Arctonyx albogularis) e i cani procioni (Nyctereutes procyonoides). Non ci sono ricosontri del contagio sugli animali, anche se le tracce del virus sono state rilevate in uno dei banchi del mercato e in vari campioni d’acqua relativi alla medesima area dove venivano venduti questi animali.

Il mercato Huanan di Wuhan e la doppia zoonosi

Prima che scoppiasse l’epidemia, il mercato Huanan di Wuhan contava oltre 1.100 lavoratori suddivisi in centinaia di bancarelle disposte su un’area delle dimensioni di circa quattro campi da calcio. L’area occupata dalla struttura è suddivisa in più piani. Il piano terra, dove sorgeva il mercato, è sigillato, ma l’edificio in cui era ubicato è tornato operativo. Al secondo piano del mercato, infatti, sono presenti varie attività commerciali. In ogni caso, il raggruppamento geografico dei primi casi noti di Covid-19, e la vicinanza di campioni ambientali positivi ai venditori di animali vivi, suggeriscono che il mercato all’ingrosso di frutti di mare di Huanan, a Wuhan, sia il sito di origine della pandemia di Covid-19.

Attenzione però, perché occorre capire che cosa sia accaduto prima che gli animali incrimanti arrivassero al mercato. In altre parole, manca il tassello finale che consentirebbe di chiudere il caso, definendolo una doppia zoonosi: dal pipistrello, o un’altra bestiola, ad un animale venduto a Wuhan, e da qui all’uomo. Chiamiamo qui in causa un secondo studio intitolato The molecular epidemiology of multiple zoonotic origins of SARS-CoV-2 (consultabile al seguente link), secondo cui i salti di specie sarebbero stati due.

In base ad una complessa analisi dei dati genomici riguardanti i primi infetti, i ricercatori hanno conclusi che i primi contagi sono da attribuire a due diversi lignaggi di Sars-CoV-2. Detto altrimenti, un primo salto di specie sarebbe avvenuto nel periodo compreso tra il 23 ottobre e l’8 dicembre 2019, mentre il secondo salto, quello che avrebbe sancito il passaggio del virus dall’animale all’uomo, sarebbe avvenuto qualche settimana più tardi. Quando? Poco prima che le autorità cinesi chiudessero il mercato ittico di Wuhan (gennaio 2020). Mancano ormai pochi tasselli per completare il mosaico. Il più è stato fatto.

Fabio Di Todaro per “la Repubblica” il 27 luglio 2022.  

Ormai non sembrano esserci più dubbi. La pandemia di Covid-19 che ha finora provocato 567 milioni di casi e oltre 6,3 milioni di decessi - ha avuto origine nel mercato ittico di Wuhan. Nessuna manipolazione e fuga di Sars-CoV-2 dai laboratori di ricerca. L'ipotesi più accreditata trova un'ulteriore conferma in uno studio pubblicato su Science da un gruppo di ricercatori dello Scripps Research Institute di La Jolla. 

«Analizzando le prove disponibili abbiamo avuto conferma che il salto di specie con cui il virus si è fatto largo nell'uomo è avvenuto a partire da animali in vendita al mercato di Wuhan negli ultimi giorni di novembre del 2019», afferma Kristian Andersen, docente di immunologia e microbiologia e coordinatore dei due studi con cui si fa luce sull'origine della pandemia. In maniera, questa volta, definitiva. 

I ricercatori - il loro studio era stato anticipato già a febbraio - sono giunti a questa conclusione dopo aver ricostruito le coordinate geografiche di 155 dei primi 174 casi censiti e riportati anche nel primo rapporto sulla pandemia stilato dall'Organizzazione Mondiale della Sanità. Sebbene i primi contagi siano stati attribuiti a Wuhan, oltre 11 milioni di abitanti distribuiti su una superficie di quasi 8.500 chilometri quadrati, Sars-CoV-2 ha iniziato a circolare in un'area ristretta: a ridosso del mercato di Huanan, considerato fin dall'inizio un possibile 'detonatore' della pandemia.

Coinvolgendo anche persone che non lo avevano visitato: segno di un passaggio del virus avvenuto da uomo a uomo. Da qui, con il passare delle settimane, Sars-CoV-2 si sarebbe poi diffuso nei quartieri a più alta densità abitativa della metropoli. 

Un percorso sostenuto dai dati ricavati dal social network Sina Weibo, in quella fase utilizzato dai cinesi esclusivamente per aggiornarsi sull'andamento della pandemia. A dare il la ai contagi, con ogni probabilità, il contatto con alcuni animali venduti vivi nell'area sudoccidentale del mercato di Huanan: come le volpi rosse (Vulpes vulpes), i tassi del maiale settentrionale (Arctonyx albogularis) e i cani procioni comuni (Nyctereutes procyonoides). Mancano i riscontri del contagio sugli animali. Ma le tracce del virus sono state rilevate in una bancarella e in campioni di acqua proveniente da quest' area del mercato. Segno che il passaggio di Sars-CoV-2 nell'uomo è avvenuto qui: a questo punto senza ulteriori dubbi.

"Il Covid è nato al mercato di Wuhan". La conferma nell'ultimo studio. Il salto di specie del coronavirus sarebbe avvenuto a novembre nel mercato ittico di Wuhan: la conferma in due ricerche pubblicate su Science. Francesca Galici il 27 Luglio 2022 su Il Giornale.

A due anni dall'inizio della pandemia di coronavirus non sembrano esserci dubbi sull'innesco dell'epidemia, che sarebbe partita dal mercato ittico di Wuhan. A questa conclusione sarebbero giunti un gruppo di ricercatori dello Scripps Research Institute di La Jolla, che dopo ulteriori analisi è giunto a questa conclusione. I risultati sono stati pubblicati sulla prestigiosa rivista scientifica Science e ricalcano studi già effettuati in precedenza, allontanando ulteriormente le ipotesi della fuga dal laboratorio.

"I nostri risultati forniscono la prova che il mercato di Wuhan è stato il primo epicentro della pandemia di Covid-19 e suggeriscono che SarsCoV2 è probabilmente emerso dal commercio di fauna selvatica in Cina", si legge nell'articolo della rivista Science. La ricerca ha ricostruito le prime fasi della pandemia, concentrandosi sulla distribuzione dei primi casi noti nell'uomo, di quelli nei mammiferi sensibili a SarsCoV2 e collegandoli a campioni positivi prelevati nell'ambiente, per esempio nelle gabbie.

La paziente zero? Al mercato di Wuhan

Gli scienziati di La Jolla hanno seguito le ricostruzioni che portavano al Huanan Seafood Wholesale Market di Wuhan, anche se "gli eventi a monte del mercato, così come le circostanze esatte all'interno mercato, rimangono oscuri", precisano i ricercatori. "I nostri risultati forniscono la prova che il mercato di Wuhan è stato il primo epicentro della pandemia di Covid-19 e suggeriscono che SarsCoV2 è probabilmente emerso dal commercio di fauna selvatica in Cina", spiegano gli scienziati.

In contemporanea con lo studio del gruppo di ricerca dello Scripps Research Institute, sullo stesso numero di Science ne è stato pubblicato un altro che, invece, aveva come obiettivo dal ricostruzione dell'albero genealogico di SarsCoV2 risalendo ai primi due lignaggi del virus. Il cammino genetico a ritroso dei ricercatori è riuscito a concludere che il virus SarsCoV2 è stato probabilmente trasferito per la prima volta dall'animale all'uomo tra il 23 ottobre e l'8 dicembre 2019. Gli studiosi sono ancora più precisi nell'indicare intorno al 19 novembre la data del primo passaggio di specie ma ce ne sono stati anche altri nei giorni successivi.

"Questi risultati indicano che è improbabile che SarsCoV2 sia circolato ampiamente negli esseri umani prima di novembre 2019 e definiscono la finestra stretta tra quando SarsCoV2 si è trasferito per la prima volta negli esseri umani e quando sono stati segnalati i primi casi di Covid-19", conclude lo studio. "I ricercatori non hanno rinvenuto alcun sostegno all'ipotesi che il coronavirus sia sfuggito da un laboratorio della città. "Quando si guarda all'insieme delle prove, emerge un quadro straordinariamente chiaro del fatto che la pandemia è iniziata al mercato", afferma Michael Worobey, biologo evoluzionista della University of Arizona e co-autore dei due studi", conclude lo studio.

Dagonews l'11 giugno 2022.

Il ceppo originario del coronavirus non sarebbe stato creato dai cinesi nell’Istituto di virologia di Wuhan, ma nel laboratorio del Vector State Scientific Center for Virology and Biotechnology in Russia. A lanciare la bomba è il canale Telegram di controinformazione russa “General SVR”, che rivendica informazioni privilegiate sul Cremlino presumibilmente gestito da un ex generale dei servizi segreti esteri russi noto con lo pseudonimo di “Viktor Mikhailovich”, e che ne racconta antefatti e sviluppi. Non sappiamo se la fonte dell’informazione è attendibile,  possiamo però dire che fino ad oggi non solo le notizie del canale sono state rilanciate dalla stampa internazionale, ma anche che alcune si sono poi rilevate vere.

Ed ecco il retroscena. Tra la fine del 2018 e l’inizio del 2019, le relazioni tra la leadership cinese e quella russa si sono intensificate. Un’enorme quantità di droghe sintetiche, economiche e convenienti, prodotte in Cina è stato contrabbandato in Russia dalla Cina. Parte delle forniture erano state concordate dalla leadership dei due paesi e viaggiavano sotto il controllo dell’FSB (il servizio segreto russo) attraverso la Russia verso l’Europa, alcuni paesi dell’Africa (l’uomo di Putin laggiù è l’imprenditore russo Evgenij Prigozhin), il Sudamerica (per barattarla con la cocaina) e alcuni paesi dell’ex Urss. Ma parte degli stupefacenti importanti in Russia dalla Cina sono entrati senza approvazione e hanno portato a conseguenze catastrofiche: tossicodipendenza diffusa, anche tra i più giovani, e di conseguenza un aumento della mortalità a causa dell’uso di droghe in tutte le regioni confinanti con la Cina. Il problema si è poi allargato a livello nazionale (anche se non ne troverete traccia nelle statistiche ufficiali).

Le autorità russe hanno cercato di convincere la Cina a smettere di trafficare droga oltre quella concordata, ma in cambio hanno ricevuto solo promesse non mantenute. Il volume delle forniture  invece è cresciuto. Così Putin e Patrushev, Segretario del Consiglio di Stato, hanno deciso di dare una lezione alla leadership cinese organizzando il contrabbando di eroina e cocaina in Cina a prezzi stracciati, ma la Cina ha bloccato velocemente questi canali. Inoltre, l’atteggiamento della leadership cinese nei confronti di Putin è diventato sprezzante, e questo ha avuto un ruolo decisivo nella decisione di Putin di vendicarsi.

L’idea di punire le autorità attraverso l’uso di armi biologiche è stata presentata da Nikolai Patrushev durante la discussione che è seguita alla riunione del Consiglio di sicurezza del 9 maggio 2019 tra Putin, Patrushev, Bortnikov, Shoigu e Naryshkin. Patrushev non aveva una semplice idea, ma un vero e proprio piano. Ha suggerito di utilizzare un virus realizzato dalla Vector, il laboratorio di virologia russo. Patrushev ha presentato i dati forniti dai creatori del virus, spiegando che era stato creato per essere utilizzato nei paesi del sud-est asiatico (per via di alcuni recettori attraverso i quali il virus entra nell’organismo e che gli scienziati russi avevano valutato essere presenti in maggior misura in questa popolazione), che il tasso di mortalità nel gruppo-bersaglio sarebbe stato tra il 5 e l’8%, mentre in altri gruppi di meno del 3%. Secondo quanto riferito da Patrushev, l’epidemia sarebbe durata da 3 a 6 mesi e, sempre secondo la sua analisi, avrebbe provocato una forte crisi politica ed economica in quella regione. Ultimo dettaglio: gli scienziati russi pensavano di aver sviluppato giù un vaccino, e volevano testarlo entro ottobre di quell’anno. Così Patrushev ha informato Putin.

Al 15 agosto 2019, il piano operativo speciale era stato elaborato e concordato e Putin lo aveva approvato. Nella seconda metà di agosto, i dipendenti dell’ambasciata russa in Iran, avvalendosi di collegamenti con l’IRGC (le guardie rivoluzionarie islamiche) e promettendo sostegno finanziario e politico, hanno convinto la leadership iraniana a partecipare a un’operazione speciale e hanno consegnato all’intelligence dell’IRGC un virus e quello che hanno chiamato «un vaccino», da trasferire all’intelligence cinese con l’indicazione di informare che i campioni erano stati trovati in un laboratorio segreto in Iraq. Ed è andata così.

Tra il 20 e il 29 agosto 2019, l’intelligence dell’IRGC ha fornito i campioni ai colleghi cinesi, raccontando la storia sul laboratorio iracheno. L’intelligence cinese ha trasferito il virus all’Istituto di Virologia di Wuhan. E due gruppi di dipendenti della Direzione Principale dello Stato Maggiore Centrale, arrivati in Cina a settembre e ottobre 2019, hanno contagiato i dipendenti dell’Istituto di Wuhan e i loro parenti in modo che sembrasse una fuga dal laboratorio da Wuhan. Il secondo gruppo, arrivato a ottobre, è stato necessario perché dopo il “lavoro” del primo gruppo, l’intelligence russa non aveva avuto notizie di contagi. Il che non significa che il primo gruppo non abbia lavorato bene, ma solo che in quel momento non era stato possibile confermare l’infezione, quindi i primi casi potrebbero benissimo essere comparsi già a settembre.

Ma c’è un altro capitolo di questa storia. La dirigenza dell’IRGC iraniano ha conservato alcuni campioni di questo virus e del suo presunto vaccino e li ha trasferiti per studiarli in un laboratorio in Iran (i primi casi in Iran sono comparsi nell’ottobre del 2019). E proprio all’inizio del 2020, uno dei dipendenti del laboratorio iraniano ha dato un campione del virus e del suo vaccino a un suo amico, lo scienziato canadese e dottore in immunologia Forugh Khadem. L’IRCG è venuto a conoscenza del fatto l’8 gennaio 2020, mentre Khardem era a bordo del volo PS752 insieme al virus e al suo vaccino pronto a partire da Teheran in direzione Kiev sul 737-800 della Ukraine International Airlines. L’IRGC ha deciso di non prelevare Khadem dall’aereo, per paura di uno scandalo internazionale e di una pubblicità non necessaria, ma non ha corso rischi, decidendo di distruggere l’aereo con il suo carico (ricorderete il fatto di cronaca: l’aereo fu colpito da due missili, gli iraniani dissero che erano stati loro «per un errore umano»). E, a proposito, sul tema si sono tenute consultazioni con Patrushev, che era in contatto diretto con Putin.

Ora le conseguenze. Il piano, a parte le circostanze impreviste in Iran, ha avuto successo. Ma né Putin, né Patrushev, né i creatori del virus né quelli che hanno partecipato allo sviluppo e all’attuazione del piano si aspettavano conseguenze così drammatiche: ha superato le aspettative e si è trasformato in una catastrofe globale. Putin ha avuto paura della vendetta della leadership cinese ed è scomparso nel suo “bunker”, si è isolato, ma poi è peggiorato anche il suo stato di salute.

La parte cinese conosce tutti i dettagli di questa storia? Oggi sì. Scopriremo solo in futuro come la leadership russa pagherà per la sua idiozia. Le trattative con la parte cinese sono in pieno svolgimento. Putin si è un po’ calmato e crede che finché avrà qualcosa da prendere, nessuno lo distruggerà, il che è abbastanza ragionevole. 

Il vaccino ideato dagli scienziati è il famoso “Sputnik V”: è stato sviluppato nel 2019. Tutti i partecipanti all’operazione speciale sono stati vaccinati con quel ritrovato, e quando ad aprile-maggio 2020 è diventato chiaro che il virus era pericoloso per tutti, quasi tutta l’intera dirigenza russa era stata vaccinata. 

Nel settembre 2019, una bombola di gas è esplosa nell'edificio del laboratorio del Vector State Scientific Center for Virology and Biotechnology, e l'incendio che ne è seguito avrebbe dovrebbe aver distrutto le prove della creazione del virus in questa istituzione.

Da blitzquotidiano.it il 29 aprile 2022.  

Il Covid è stato solo l’inizio. Il cambiamento climatico potrebbe far emergere ben 15mila nuovi virus entro il 2070. E’ lo scenario pubblicato sulla rivista Nature, frutto della ricerca coordinata dal biologo Colin Carlson dell’americana Georgetown University. 

Cambiamento climatico, 15mila nuovi virus entro il 2070

Dai pipistrelli a molte altre specie di mammiferi, fino agli uccelli. Sono moltissime le specie note per essere portatrici di virus e che, sulla spinta dei cambiamenti climatici, potrebbero spingersi a occupare aree diverse da quelle in cui vivono abitualmente. Questo potrebbe comportare il fatto che i virus di questi animali possano in questo modo entrare a contatto con noi tramite quello che viene chiamato il “salto di specie”. Si tratta del virus che muta fino a poter aggredire una nuova specie, in un effetto domino che potrebbe arrivare all’uomo. Quello che sarebbe accaduto per il Covid per intenderci. 

Il Covid è solo l’inizio: con soli due gradi di più arriveranno 15mila nuovi virus

La colpa è del cambiamento climatico e dell’aumento di temperatura. Con soli due gradi rispetto alla temperatura attuale, entro il 2070 potrebbero emergere ben 15mila nuovi virus. Attualmente, in circolazione ce ne sono 10mila. E’ molto più stretto di quanto si immagini, quindi, il legame fra il cambiamento climatico e la comparsa di virus che potrebbero veicolare malattie mai viste. 

Il clima, rilevano gli autori della ricerca, ha il potenziale per diventare una forza trainante nella trasmissione virale tra specie diverse. Il che potrebbe aumentare il rischio di trasmissione di malattie infettive all’uomo, in una visione in linea con la cosiddetta One Health, l’approccio che collega la salute animale con quella umana e l’ambiente.

A rischio anche gli allevamenti

Oltre alle malattie contagiose per l’uomo, i futuri virus potrebbero essere una minaccia per la salute animale. Potrebbero causare epidemie nocive per gli allevamenti. Punto di partenza della ricerca è stata l’analisi del modo in cui le aree geografiche attualmente popolate da 3.870 specie di mammiferi potrebbero cambiare in relazione a diversi scenari da qui al 2070.

Applicando un modello relativo alla trasmissione di virus fra specie a un sottoinsieme di 3.139 animali, i ricercatori hanno elaborato la previsione sulle opportunità future di scambi di virus fra specie. Occasioni di simili mix biologici sono possibili ovunque nel mondo, ma sono particolarmente concentrate nelle aree densamente popolate dagli esseri umani, come l’Africa tropicale e il Sud-Est asiatico.

Pipistrelli ancora una volta “protagonisti”

Ancora una volta, rilevano gli autori della ricerca, i “protagonisti” di queste contaminazioni potrebbero essere i pipistrelli, che costituiscono il serbatoio naturale di virus potenzialmente capaci di diventare trasmissibili all’uomo. Prevenire il dilagare di nuovi virus richiede fin da adesso una sorveglianza capillare delle zone in cui potrebbero trovarsi a convivere specie diverse. 

Per gli autori della ricerca è importante spingere fin da adesso capire quanto sia importante combinare la sorveglianza virologica con la valutazione dei cambiamenti nelle nuove aree occupate dalle specie a causa dei cambiamenti climatici. Questo, rilevano, è vero soprattutto nelle regioni tropicali, nelle quali attualmente ha origine la maggior parte delle malattie infettive che possono essere trasmesse dagli animali all’uomo.

Margherita De Bac per il “Corriere della Sera” il 19 aprile 2022.  

Professor Giorgio Palù oggi esce il suo libro, «All'origine, il virus che ci ha cambiato la vita», Mondadori. Perché lo ha scritto?

«È stata una sofferenza vedere la disciplina che studio da 50 anni svilita da virologi che la comunità scientifica non riconosce tali. La virologia ha contribuito all'avanzamento della conoscenza biomedica in modo determinante. Non va trattata così». 

Così come?

«Materia di comparsate televisive. Il problema viene banalizzato o estremizzato. Catastrofisti, negazionisti e chi più ne ha più ne metta». 

Cosa condanna?

«Oggi parla chiunque. Basta che sia anti qualcosa. Non ci sto». 

Cosa c'è all'origine di questo virus?

«Ho raccontato quello che è successo a giugno del 2014 quando il governo americano nominò una commissione per decidere se abolire le manipolazioni di virus respiratori. Nel 2011 i virologi veterinari Kawaoka e Fouchier avevano modificato il virus dell'influenza aviaria per renderlo capace di compiere il salto di specie. Alla riunione, a Washington, partecipai come esperto».

Cosa accadde?

«Si decise di sospendere gli esperimenti sui virus influenzali. La messa al bando sarebbe stata rimossa nel 2017. Dalla moratoria restarono però esclusi i coronavirus. Era necessario studiare la Mers (Meaddle East Respiratory Syndrome) comparsa nel 2012, ancora endemica in alcune aree dell'Arabia Saudita. Fu una collega del laboratorio di Wuhan a opporsi al bando». 

E la sua posizione qual é?

«Modificare un virus animale e renderlo infettivo per l'uomo è giusto se la finalità è comprendere i meccanismi del salto di specie. Purché si usino le dovute cautele e la trasparenza, informando l'opinione pubblica». 

Le ricerche sui coronavirus continuarono a Wuhan. Il Sars-CoV-2 può essere sfuggito?

«Non sappiamo se lo spill over sia stato naturale oppure si sia trattato di un incidente.

Non lo sapremo finché i cinesi non romperanno il silenzio. Non hanno voluto consegnare i registri di laboratorio né dato risposte agli inviati dell'Oms, l'organizzazione mondiale della sanità. Tanti interrogativi. Non si è trovato l'ospite animale intermedio che avrebbe fatto da ponte tra pipistrello e uomo. Questo virus non infetta più i chirotteri quindi qualcosa è accaduto».

Cosa abbiamo appreso?

«Primo. Investire nella scienza. Siamo immersi nei virus, viviamo in una virusfera. Finanziamo allora la virologia di base ed evoluzionistica. Secondo: puntiamo sull'industria farmaceutica high tech. Quasi tutti i Paesi europei hanno un vaccino proprio, inglesi, tedeschi, francesi e spagnoli. Noi no. Abbiamo poi bisogno di principi attivi made in Italy per non doverli acquistare all'estero».

Terzo?

«Serve un'organizzazione europea per rispondere a queste emergenze, come in Usa. Ora esiste, ma è un ufficio burocratico. Altre pandemie arriveranno. Abbiamo imparato che le calamità vanno gestite a livello centrale, non regionale, e che i virus respiratori vanno contrastati seguendo i malati a casa, non in ospedale. La medicina di famiglia va rifondata». 

La pandemia si è spenta?

«Il virus circola sempre meno. Se continua così a maggio l'epidemia dovrebbe essersi estinta. Da noi in estate i virus respiratori vanno in vacanza».

E in autunno?

«Gli italiani tra vaccinati e immunizzati per via naturale sono largamente protetti. Molti soggetti a rischio mancano all'appello. Il Sars-CoV-2 infetta dove trova spazio». 

Servirà la quarta dose per i 50-60enni?

«Sì se arriverà un vaccino allestito sull'ultima variante Omicron, comprensivo del ceppo originario di Wuhan. Altrimenti non avrebbe molto senso. Per over 80 e 60-79enni fragili il secondo richiamo è raccomandato anche col vaccino attuale».

Margherita De Bac per il “Corriere della Sera” l'8 marzo 2022.

Arnaldo Caruso, presidente della Società italiana di virologia, la convince l'ipotesi sull'origine del virus della pandemia? In un'intervista al «Corriere della Sera» il suo collega Giorgio Palù definisce plausibile che «lo spillover con salto di specie animale uomo potrebbe essere avvenuto per cause accidentali in laboratorio» mentre veniva coltivato in vitro il virus del pipistrello.

«Sì, anche io ritengo l'ipotesi suggestiva e verosimile, soprattutto alla luce delle evidenze che vengono descritte nello studio pubblicato il 21 febbraio sulla rivista Frontiers in virology di cui Palù è uno degli autori.

Nel gene del virus che codifica la proteina Spike è inserita una sequenza di 19 lettere, sequenza che è appannaggio esclusivo dell'uomo. Ed è proprio quella che ha permesso al Sars-CoV-2 di adattarsi alle nostre cellule».

Quindi?

«Potrebbe essere avvenuta una ricombinazione tra due virus, del pipistrello e dell'uomo, in un ambiente destinato alla manipolazione di microrganismi per fini di ricerca. Una contaminazione involontaria, senza dolo, e lo sottolineo. Non vorrei ci fossero delle speculazioni né che si pensasse ad un'operazione criminosa. Chi mai avrebbe avuto interesse a scatenare una pandemia?».

Un no vax risponderebbe che alle aziende farmaceutiche una pandemia avrebbe fatto comodo.

«Suvvia. Questa è fantascienza e non voglio neppure commentare. È pericoloso prestare orecchio a queste invenzioni». 

L'Organizzazione mondiale della sanità più volte ha inviato i suoi ispettori in Cina per indagare sull'origine della pandemia, ma le autorità locali non hanno fornito risposte esaurienti a domande cruciali. Servono altri indizi?

«Certamente, per rafforzare l'ipotesi della fuga dal laboratorio servono nuovi approfondimenti e lo studio di Frontiers in virology , correttamente, lo sottolinea due volte.

Non si esclude che la ricombinazione possa essere avvenuta in natura, lo scopriremo soltanto sequenziando il maggior numero possibile di coronavirus del pipistrello per scoprire che magari ne esiste qualcuno più vicino al Sars-CoV-2 di quanto si potesse immaginare». 

Dunque resta in piedi la tesi di un'origine naturale?

«Come osserva lo stesso Palù, mancano prove oggettive che il virus sia passato direttamente dal pipistrello all'uomo o indirettamente attraverso un ospite intermedio (si è parlato del pangolino e di un serpente, ndr ) o, ancora, attraverso più scambi successivi».

Non sarebbe la prima volta che un microrganismo sfugge al sistema di controllo del laboratorio, magari infettando un operatore durante uno degli esperimenti. Può essere successo anche nel centro di Wuhan, la città dove si sono avuti i primi casi di polmonite?

«Abbiamo tanti precedenti nella storia della ricerca. No, non sarebbe la prima volta che un'entità virale sfugge al controllo, per errore». 

In un editoriale pubblicato il 14 febbraio sulla rivista «Plos Biology» gli autori si chiedono se non sarebbe meglio evitare alcuni esperimenti che, seppure disegnati sulla base di buone finalità, si servono di cellule umane e virus. Che ne pensa?

«Noi siamo dei professionisti, ogni esperimento, se condotto con rigore, deve essere portato avanti altrimenti non si procederà mai nell'accumulare nuove conoscenze. Sarebbe sbagliato fissare dei limiti. 

Certe ricerche possono essere pericolose ma in laboratori qualificati il rischio è vicino allo zero. L'importante è che queste attività vengano controllate da commissioni di esperti esterni, anche come garanti della sicurezza. La sperimentazione può diventare pericolosa in centri non controllati o controllabili».

Siamo quasi alla fine dell'epidemia in Italia, non verremo più coinvolti da nuove ondate?

«È molto difficile che salti fuori una variante del virus così minacciosa da metterci in difficoltà. Ogni cambiamento del virus sarà per lui peggiorativo nel senso che dovrà rinunciare a qualche sua capacità, in termini di trasmissibilità o aggressività, se vorrà adattarsi all'uomo, come ha tutto l'interesse di fare. Noi però dobbiamo abituarci all'idea di rivedere il prossimo autunno dei focolai. Per questo è importantissimo vaccinare i fragili con la quarta dose».

Palù: «Covid scappato dal laboratorio, ci sono nuovi indizi. Così potrebbe essere sfuggito il virus». Margherita De Bac su Il Corriere della Sera il 7 marzo 2022.

Il presidente di Aifa commenta l'ipotesi che il virus Sars-CoV-2 sia fuoriuscito da un laboratorio cinese: «Lo spillover potrebbe essere stato compiuto per cause accidentali. Il Sars-CoV-2 potrebbe essere il risultato di una manipolazione ma con scopo di ricerca, senza intenzioni malevole». 

Si rinsalda l’ipotesi che a scatenare la pandemia sia stato un virus fuoriuscito involontariamente da un centro di ricerca. «Lo spillover con salto di specie animale-uomo potrebbe essere stato compiuto per cause accidentali da un virus del pipistrello sperimentalmente adattato a crescere in vitro», squarcia il velo sulle origini del Sars-CoV-2, Giorgio Palù, virologo doc, presidente dell’Agenzia italiana del farmaco.

Lei ha contribuito a corroborare questa tesi, in un articolo recente. Quali sarebbero le nuove prove?

«È suggestivo un dato, che andrà comunque confermato da ulteriori verifiche di altri ricercatori. Il ceppo prototipo di Wuhan, quello che ha cominciato a manifestarsi in Cina con forme gravi di polmonite, e tutte le varianti che ne sono derivate, anche quelle considerate non interessanti nella classificazione internazionale, presentano una caratteristica affatto peculiare. Nel gene che produce la proteina Spike (quella che il virus utilizza per agganciare la cellula da infettare), appare inserita una sequenza di 19 lettere appartenente ad un gene umano e assente da tutti i genomi dei virus umani, animali, batterici, vegetali, sinora sequenziati. La probabilità che si tratti di un evento casuale è pari a circa una su un trilione. Una sequenza essenziale perché conferisce al virus la capacità di fondersi con le cellule umane e di determinare la malattia».

Dunque questa sequenza è stata inserita apposta?

«Si può ipotizzare una manipolazione effettuata per soli scopi di ricerca, non certo con intenzioni malevole. Non sarebbe la prima volta che un virus scappa per sbaglio da un laboratorio ad alta sicurezza».

Quale potrebbe essere stata la finalità dello studio?

«Ad esempio per scoprire se certi virus di mammiferi, in questo caso del pipistrello, possano avere potenziale pandemico e decifrare quali caratteristiche genetiche vi contribuiscano. Uno scopo nobile dal punto di vista, ne sono certissimo: prevenire uno spillover naturale, cioè l’esatto contrario di quello che magari può essere avvenuto nella realtà. Non è una novità che il laboratorio di Wuhan da oltre una decade si dedichi tra l’altro alla coltura di virus di pipistrelli».

Resta sempre in piedi l’ipotesi dell’origine del virus dal pipistrello con un passaggio diretto all’uomo o indiretto attraverso un ospite intermedio (si è parlato del pangolino) o una serie di scambi successivi uomo-animale-uomo?

«Alcuni studi recenti che usano la bioinformatica per indagare l’evoluzione dei virus ci orienterebbero in tal senso. Manca però la prova regina che suffraghi l’origine naturale. Da un lato, non si è ancora trovato l’ospite intermedio e dall’altro, RaTG13, il virus del pipistrello Rhinolophus affinis il cui genoma è al 97% identico al Sars-CoV-2, ha scarsa capacità di infettarci. Per validare quale delle ipotesi in campo (spillover naturale o di laboratorio) sia più verosimile, sarebbe quanto mai auspicabile, come più volte richiesto dall’OMS e dalla comunità scientifica, la collaborazione delle autorità cinesi».

A che serve scoprire da dove viene questo virus?

«È estremamente utile. Identificando un eventuale ospite intermedio, sarebbe possibile risalire all’iniziale sorgente del contagio e bloccare la trasmissione epidemica, come è avvenuto per altri virus provenienti dal mondo animale».

L’epidemia in Italia è agli sgoccioli. Ci aspetta un’estate libera?

«Non si può prevedere cosa avverrà tra qualche mese. Certo è che la prospettiva sembra favorevole se consideriamo l’andamento di questi giorni e l’approssimarsi della bella stagione che ostacola la trasmissione di tutti i virus a diffusione aerea».

L’adesione al vaccino Novavax a rilento. Eppure era stato accolto come quello ideale per convincere esitanti e no vax.

«Credo che la fascia dei no vax che irriducibilmente si oppone alle vaccinazioni (una sparuta minoranza, fortunatamente) non accetterà mai nessun vaccino. Il grosso vantaggio di Novavax, oltre alla dimostrata efficacia e sicurezza, è un altro. Può essere conservato per mesi a temperature da frigorifero, 3-4 gradi e a temperatura ambiente, condizione che faciliterà il suo impiego nelle popolazioni del mondo che non hanno a disposizione una catena del freddo e hanno bisogno di essere immunizzate se vogliamo la fine della pandemia».

Eugenia Tognotti per “la Stampa” il 5 marzo 2022.  

Il mercato di Wuhan come Ground zero del Covid-19. Il crollo della pista del laboratorio. L'ipotesi del cane-procione come responsabile dello spillover. Non si può ancora parlare di "pistola fumante", parlando delle nuovissime prove fornite dai tre nuovi studi di scienziati di diverse organizzazioni e paesi, che concordano nell'individuare l'epicentro della pandemia nella zona del mercato Huanan a Wuhan, riservata alla vendita di animali vivi. 

Cosa che assesta un ulteriore colpo alle teorie di Trump che aveva battezzato, da par suo, col nome di "kung flu" il coronavirus, sostenendo che fosse un "prodotto" di laboratorio made in China. La notizia dei risultati appena acquisiti - con il corollario di implicazioni geopolitiche - è di tale rilevanza da essere subito balzata in primo piano nel dibattito scientifico, lo stesso giorno dell'accorato appello di 600 scienziati russi contro la guerra di aggressione di Putin in Ucraina: una minaccia alla libertà di studio e di ricerca, denunciata con fermezza anche dalla Federazione delle accademie scientifiche e umanistiche europee. 

Ma che cosa aggiungono di nuovo questi studi rispetto a quanto si sapeva sul ruolo del mercato all'ingrosso di pesce di Huanan, subito identificato come la potenziale fonte di un focolaio virale? C'è da dire intanto, che le tre ricerche si basano su una pluralità di fonti e dati, tra cui le analisi genetiche dei campioni raccolti all'interno del mercato e tra le persone infettate da Covid-19 a cavallo tra il 2019 e il 2020; nonché sui dati della geolocalizzazione che ricostruiscono gli spostamenti dei primi casi. 

All'inizio, nella speranza di arginare l'epidemia, le autorità cinesi avevano chiuso quel mercato dove erano stati raccolti, nella caccia dei ricercatori all'agente patogeno, un'infinità di campioni: pollame, serpenti, coccodrilli siamesi e altri animali in vendita. Inoltre, avevano sigillato gli scarichi, le gabbie, i servizi igienici e le bancarelle dei venditori.  

Stando al discusso rapporto divulgato un anno fa degli scienziati dell'Oms che avevano condotto un'indagine in Cina, era risultato che quasi tutti i duecento campioni prelevati dagli animali erano negativi, mentre circa mille campioni ambientali, provenienti dai banchi di vendita e da altre aree del mercato, erano positivi. 

Nel primo pre-print, pubblicato on line , un gruppo di ricercatori del Cdc cinese ha dimostrato che contenevano sequenze di Sars-CoV-2 quasi identiche a quelle degli esseri umani e che erano presenti due lignaggi del virus, A e B. L'uscita di quel rapporto ha spinto il virologo Kristian Andersen - Research Institute, La Jolla, California - a pubblicare, quasi contemporaneamente, i risultati di due studi a più mani. 

Uno di essi prende in esame la sezione sud-occidentale di quel mercato dove gli animali vivi erano in commercio al tempo. I risultati dei tre studi combinati tra loro, se confermati, "raccontano" una storia di origine zoonotica simile a quella dell'Hiv, del virus Zika, di Ebola e di numerosi virus influenzali e portano direttamente a quella stessa zona del mercato dove venivano venduti animali vivi. Il virus è probabilmente con almeno due trasmissioni animali, con un mammifero come un procione responsabile dello spillover. 

Non si chiude qui il dibattito sulle origini del virus, già in corso. Alcuni virologi, ad esempio, affermano che le prove raccolte non escludono un'ipotesi alternativa. Piuttosto che il luogo dello spillover originale, il mercato potrebbe essere stato il posto in cui si è verificato un evento di amplificazione, partendo da un individuo infetto che ha diffuso il virus e innescando la funesta catena del contagio. 

Altri ricercatori di vari paesi e istituzioni, pur segnalando gli eccellenti risultati di questi studi, avanzano riserve e dubbi. Giusto così. Sperando che non vengano mai a mancare l'autonomia e la libertà della ricerca, nonché la collaborazione internazionale tra scienziati, che in questi giorni sperimentano lo choc dell'incursione militare della Russia in Ucraina, gravido di tante implicazioni per le comunità accademiche e scientifiche dei due paesi. 

Dagotraduzione dal Daily Mail il 24 febbraio 2022.

Ricercatori internazionali alle prese con lo studio sull’origine del Covid hanno scoperto che all’interno della proteina spike ci sono tracce di materiale genetico di proprietà di Moderna, un’altra prova che il virus è stato creato in laboratorio. 

Gli scienziati hanno idenficato infatti un minuscolo frammento di codice identico a una parte di un gene brevettato da Moderna tre anni prima della pandemia. È stato scoperto nell'esclusivo sito di scissione della furina di SARS-CoV-2 , la parte che rende il virus così efficace a infettare le persone e lo identifica rispetto agli altri coronavirus. La struttura è stata uno dei punti focali del dibattito sull'origine del virus, con alcuni scienziati che hanno affermato che non avrebbe potuto essere acquisito naturalmente. 

Il team internazionale di ricercatori suggerisce che il virus potrebbe essere mutato per avere un sito di scissione della furina durante gli esperimenti su cellule umane in un laboratorio. Affermano che c'è una possibilità su tre trilioni che la sequenza di Moderna sia apparsa casualmente attraverso l'evoluzione naturale. 

Ma c'è un certo dibattito sul fatto che l’eventualità sia così rara come afferma lo studio, e altri esperti la descrivono come una coincidenza "bizzarra" piuttosto che una "pistola fumante".

Nell'ultimo studio, pubblicato su Frontiers in Virology, i ricercatori hanno confrontato la composizione di Covid con milioni di proteinesequenziate su un database online. Il virus è composto da 30.000 lettere di codice genetico che portano le informazioni di cui ha bisogno per diffondersi, note come nucleotidi. È l'unico coronavirus del suo tipo a trasportare 12 lettere uniche che consentono alla sua proteina spike di essere attivata da un enzima comune chiamato furina, permettendogli di diffondersi facilmente tra le cellule umane.

L'analisi del genoma originale di Covid ha rilevato che il virus condivide una sequenza di 19 lettere specifiche con una sezione genetica di proprietà di Moderna, che ha un totale di 3.300 nucleotidi. 

L'azienda farmaceutica con sede negli Stati Uniti ha depositato il brevetto nel febbraio 2016 come parte della sua divisione di ricerca sul cancro, secondo i registri. La sequenza brevettata fa parte di un gene chiamato MSH3 che è noto per influenzare il modo in cui le cellule danneggiate si riparano nel corpo. Gli scienziati avevano evidenziato questo percorso come un potenziale obiettivo per nuovi trattamenti contro il cancro. 

Dodici delle lettere condivise costituiscono la struttura del sito di scissione della furina di Covid, mentre il resto è una corrispondenza con nucleotidi su una parte vicina del genoma.

Nell'articolo, il team guidato dal dottor Balamurali Ambati, dell'Università dell'Oregon, ha affermato che il codice di corrispondenza potrebbe essere stato originariamente introdotto nel genoma di Covid attraverso cellule umane infette che esprimono il gene MSH3.   

Il professor Lawrence Young, virologo della Warwick University, ha ammesso che l'ultima scoperta era interessante, ma ha affermato che non era abbastanza significativa da suggerire una manipolazione di laboratorio. Ha detto a MailOnline: «Stiamo parlando di un pezzo molto, molto, molto piccolo composto da 19 nucleotidi. Quindi non significa molto essere sinceri, se fai questo tipo di ricerche puoi sempre trovare corrispondenze».

«A volte queste cose accadono casualmente, a volte è il risultato di un'evoluzione convergente (quando gli organismi si evolvono indipendentemente per avere tratti simili per adattarsi al loro ambiente). È un'osservazione bizzarra, ma non la chiamerei una pistola fumante perché è troppo piccola. Non ci porta oltre con il dibattito sul fatto che il Covid sia stato progettato».  

Il dottor Simon Clarke, un microbiologo della Reading University, si è chiesto se la scoperta fosse così rara come afferma lo studio. «Ci può essere solo un certo numero di [combinazioni genetiche all'interno] dei siti di scissione della furina. Funzionano come un lucchetto e una chiave nella cella, e i due si adattano solo in un numero limitato di combinazioni. Quindi è una coincidenza interessante, ma è sicuramente del tutto casuale».  

Prove circostanziali hanno a lungo sollevato interrogativi sull'origine del Covid e sul suo legame con l'Istituto di virologia di Wuhan. La struttura era infatti nota per condurre esperimenti su ceppi di coronavirus di pipistrello simili a quello responsabile della pandemia. 

La Cina ha insistito presto e spesso sul fatto che il virus non fosse fuoriuscito dal laboratorio, sostenendo che il crossover con gli esseri umani doveva essersi verificato in un "mercato umido" a Wuhan che vendeva animali vivi. Forse spinti dall'animosità per l'allora presidente degli Stati Uniti Donald Trump, che ha abbracciato presto la teoria della perdita di laboratorio, i media mainstream e gli accademici in Occidente hanno disprezzato questa possibilità, definendola una teoria del complotto sfrenata.

Ma le e-mail trapelate hanno mostrato che i migliori scienziati che consigliano i governi del Regno Unito e degli Stati Uniti hanno espresso, in privato, preoccupazione per la narrativa ufficiale.

Covid, tracce di materiale genetico di Moderna nella proteina spike: un terremoto, cosa significa. Libero Quotidiano il 24 febbraio 2022

All'interno della proteina spike del Covid ci sarebbero tracce di materiale genetico di proprietà di Moderna. È quanto hanno scoperto alcuni ricercatori internazionali che stanno studiando le origini del virus. È la prova che il coronavirus è stato creato in laboratorio? Gli scienziati, come riporta il Daily mail citato da Dagospia, infatti, hanno identificato un minuscolo frammento di codice identico a una parte di un gene brevettato da Moderna tre anni prima della pandemia. È stato scoperto nell'esclusivo sito di scissione della furina di Sars-CoV-2, la parte che rende il virus così infettivo e che lo caratterizza rispetto agli altri coronavirus. 

Il team internazionale di ricercatori suggerisce che il virus potrebbe essere mutato per avere un sito di scissione della furina durante gli esperimenti su cellule umane in un laboratorio. Mentre affermano che c'è una possibilità su tre trilioni che la sequenza di Moderna sia apparsa casualmente attraverso l'evoluzione naturale.

Una tesi che però viene contraddetta da alcuni scienziati secondo i quali si tratta di una coincidenza "bizzarra" ma pur sempre una coincidenza. 

L'analisi del genoma originale di Covid ha rilevato che il virus condivide una sequenza di 19 lettere specifiche con una sezione genetica di proprietà di Moderna, che ha un totale di 3.300 nucleotidi. 

Nell'articolo, il team guidato dal dottor Balamurali Ambati, dell'Università dell'Oregon, ha affermato che il codice di corrispondenza potrebbe essere stato originariamente introdotto nel genoma di Covid attraverso cellule umane infette che esprimono il gene MSH3.   

Laura Cuppini per corriere.it il 21 Febbraio 2022.   

Tre coronavirus con un genoma simile a quello di Sars-CoV-2 sono stati individuati nei pipistrelli in Laos, nel Sudest asiatico. Banal-103, Banal-236 e Banal-52, così sono stati chiamati i virus, mostrano somiglianze specifiche in un dominio chiave della proteina Spike che permette al virus di legarsi alle cellule umane. Lo studio, dell’Institut Pasteur di Parigi, Università nazionale del Laos e Institut Pasteur del Laos, è pubblicato sulla rivista Nature.

«La scoperta dei tre virus avvalora la teoria che Sars-CoV-2 possa provenire da pipistrelli che vivono negli altipiani carsici della penisola indocinese, che si estende attraverso Laos, Vietnam e Cina» ha detto Marc Eloit dell’Institut Pasteur di Parigi. Tuttora non sappiamo con certezza quale sia il serbatoio animale o l’ospite intermedio di Sars-CoV-2, nonostante le segnalazioni di virus «cugini» nei pipistrelli asiatici e nei pangolini. I risultati dello studio, scrivono gli autori, indicano comunque che virus potenzialmente infettivi per l’uomo circolano tra i Rinolofi (pipistrelli detti «a ferro di cavallo») nel Sudest asiatico. 

Ad oggi il genoma più vicino a Sars-CoV-2 rimane quello individuato in un pipistrello Rhinolophus affinis in Cina nel 2013 (il virus è stato chiamato RaTG13), con il 96,1% di somiglianza a livello dell’intero genoma. Ma anche in questo caso il dominio di legame al recettore (RBD, receptor-binding domain) ha una limitata somiglianza con quello di Sars-CoV-2 e un’affinità limitata con il recettore umano ACE2 (enzima di conversione dell’angiotensina 2).  

Finora nessun virus dei pipistrelli simile a Sars-CoV-2 ha mostrato di utilizzare ACE2 per entrare efficacemente nelle cellule umane, e nessuno presenta il sito di taglio della furina (un enzima), caratteristica che sembra associata a una maggiore patogenicità nell’uomo.

Secondo gli autori del nuovo studio, virus con RBD capace di legarsi al recettore ACE2 potrebbero essere proprio quelli identificati nei pipistrelli che vivono nella penisola indocinese. Dunque potrebbero rappresentare un rischio futuro di trasmissione all’uomo. Nonostante l’assenza del sito di taglio della furina, i coronavirus laotiani sono gli antenati più vicini a Sars-CoV-2 conosciuti fino ad oggi. 

Solo uno o due amminoacidi che interagiscono con ACE2 sono modificati in questi ceppi rispetto al virus responsabile della pandemia. Secondo gli autori, i risultati del lavoro supportano l’ipotesi che Sars-CoV-2 possa originariamente derivare da una ricombinazione di sequenze preesistenti in pipistrelli Rhinolophus che vivono nelle grotte dell’Asia sud-orientale e della Cina meridionale. Il legame epidemiologico tra i virus di pipistrello e i primi casi umani rimane però ignoto. 

Per concludere, gli autori affermano che i virus dei pipistrelli analizzati sembrano avere lo stesso potenziale di infettare gli esseri umani dei primi ceppi di Sars-CoV-2. I membri di comunità religiose ascetiche che passano il tempo nelle grotte, così come i turisti che le visitano, sono particolarmente a rischio di essere infettati, affermano gli scienziati. Sono necessarie ulteriori indagini per valutare se tali popolazioni siano state contagiate da uno di questi virus e se l’infezione possa conferire protezione contro Sars-CoV-2.

«Questa scoperta non risponde ancora a tutte le domande aperte, ma rafforza ulteriormente l’ipotesi dell’origine naturale di Sars-CoV-2 — ha commentato Antonella Viola, immunologa dell’Università di Padova —. Tuttavia allo stesso tempo ci conferma che molti altri virus sono già pronti a fare il salto di specie e infettarci. Bisogna quindi non solo monitorare l’evoluzione dei coronavirus da vicino per evitare di essere colti impreparati, ma anche effettuare quei cambiamenti strutturali nella nostra sanità che ci avrebbero consentito una gestione migliore dell’emergenza. Dobbiamo imparare la lezione».

L'agghiacciante scoperta degli scienziati sui pipistrelli. Lo studio choc su Nature: tre nuovi Coronavirus. Il Tempo il 19 febbraio 2022.

Un gruppo di scienziati della National University e dell’Institut Pasteur del Laos hanno identificato nei pipistrelli tre nuovi coronavirus che mostrano «somiglianze specifiche» al Sars-CoV-2 responsabile di Covid-19 «in un dominio chiave della proteina Spike» che permette al virus di attaccare le cellule bersaglio agganciando il recettore umano Ace-2. Lo studio, pubblicato su Nature, rimbalza sui media internazionali e mette in guardia contro nuovi eventuali rischi futuri per la salute globale. I tre coronavirus individuati si chiamano Banal-52, Banal-103 e Banal-236 e appaiono «estremamente simili al Sars-CoV-2 (96,8% nel caso di Banal-52), soprattutto nella proteina Spike». 

«Questa scoperta - commenta su Facebook Antonella Viola, immunologa dell’università di Padova - non risponde ancora a tutte le domande aperte, ma rafforza ulteriormente l’ipotesi dell’origine naturale del Sars-CoV-2», argomento oggetto di dibattito fin dall’esordio dell’emergenza pandemica. «Tuttavia, allo stesso tempo - precisa l’esperta - ci conferma che molti altri virus sono già pronti a fare il salto di specie e infettarci. Bisogna quindi non solo monitorare l’evoluzione dei coronavirus da vicino, per evitare di essere colti impreparati - esorta la professoressa Viola - ma anche effettuare quei cambiamenti strutturali nella nostra sanità che ci avrebbero consentito una gestione migliore dell’emergenza. Bisogna imparare la lezione».

Dagotraduzione dal Daily Mail il 10 febbraio 2022.

Gli scienziati hanno trovato tracce di coronavirus che potrebbero rafforzare la teoria secondo cui la pandemia è iniziata con una perdita da un laboratorio. La scoperta, dall'analisi dei campioni di suolo, suggerisce che il coronavirus potrebbe non essere passato dalla fauna selvatica all'uomo in modo naturale. 

Tuttavia, sono necessarie ulteriori prove, in particolare relative al momento esatto in cui il virus è entrato nei campioni.

Scienziati in Ungheria hanno trovato tracce di una variante unica del coronavirus mentre esaminavano il DNA del suolo dell'Antartide che era stato inviato all'azienda Sangon Biotech a Shanghai. I ricercatori hanno anche trovato materiale genetico di criceti cinesi e scimmie verdi, che potrebbero suggerire che il virus fosse esaminato in laboratorio, utilizzando gli animali stessi o le loro cellule. 

Alcuni di coloro che supportano la teoria della perdita di laboratorio suggeriscono che gli scienziati cinesi hanno progettato il virus in un laboratorio per renderlo più pericoloso come parte di un esperimento, prima che il virus sfuggisse. 

Il visconte Ridley, autore di Viral: The Search for the Origin of Covid-19, ha suggerito che le ultime prove potrebbero supportare la teoria delle perdite di laboratorio a causa della presenza di "tre mutazioni chiave [Covid]" che sono caratteristiche delle prime sequenze del virus.

Tuttavia, i risultati devono essere interpretati con cautela, poiché il DNA del suolo potrebbe essere stato contaminato dal virus dai primi pazienti Covid, che sono stati segnalati dalla Cina nel dicembre 2019. 

I campioni di terreno sono stati inviati nello stesso mese a Sangon Biotech ma non è chiaro quando siano stati analizzati. 

I risultati, dell'Università Eotvos Lorand e dell'Università di Medicina Veterinaria, entrambe a Budapest, sono stati pubblicati online ma non sono stati ancora formalmente esaminati da altri scienziati.

Il professor Jesse Bloom, del Fred Hutchinson Cancer Research Center di Seattle negli Stati Uniti, ha riesaminato i dati dall'Ungheria per confermare che i campioni antartici contenevano il virus. Ma ha detto che «le ultime implicazioni rimangono poco chiare». 

"Coronavirus, non date la colpa al pipistrello: senza la nostra complicità lo spillover è improbabile". Anna Lisa Bonfranceschi su La Repubblica  il 27 Febbraio 2022.

Stefania Leopardi è una cacciatrice di virus nei pipistrelli e nel suo libro "L'innocenza del pipistrello" racconta come l'unica colpa degli animali è di essere portatori di un virus. Il resto è, in buona parte, nostra responsabilità. 

Stefania Leopardi è una veterinaria, esperta di malattie infettive negli animali selvatici ed esotici. Lavora presso l'Istituto Zooprofilattico sperimentale delle Venezie e per buona parte del suo tempo conduce indagini. Già, perché se sei esperta di malattie infettive negli animali selvatici, parte del lavoro è dedicato a fare il controllore - o meglio, il sorvegliante - e a ricostruire le strade percorse dai patogeni. Per identificare pericoli tanto per la salute degli animali quanto per quella degli esseri umani. E se in alcuni casi le indagini sono abbastanza semplici - è facile trovare subito i sospettati e metterli alla prova - in altre sono più complicate. Non di rado poi si concludono con lo scagionamento dei principali indiziati: succede ai pipistrelli, ospiti graditi di tantissimi virus e sorvegliati speciali da parte della veterinaria. Al punto che - mettendo in fila gli eventi degli ultimi due anni dalla prospettiva personalissima e professionale di cacciatrice di virus e raccontando le dinamiche degli spillover - Leopardi li assolve del tutto. Si intitola infatti L'innocenza del pipistrello, il suo libro per Edizioni Ambiente, con un altrettanto eloquente sottotitolo: (Eco) logica di uno spillover. 

"I pipistrelli sì convivono con molti virus, ma ogni organismo ha i propri virus, è qualcosa di normale, atteso, logico. Al contrario con lo spillover si ha una rottura di questo equilibrio, dovuta per lo più ad azioni umane, per un aumento del contatto con il virus e il suo ospite naturale - racconta a Green&Blue - Quindi se all'inizio possiamo vedere il pipistrello come 'colpevole', in realtà è solo una sorta di spioncino per vedere tutte le azioni che noi, come specie, stiamo facendo sull'ambiente, che sono quelle che favoriscono il salto di specie dei patogeni, indipendentemente dalla presenza dei virus".

Perché sebbene lo spillover possa considerarsi un fenomeno naturale, di per sé sarebbe abbastanza raro: per spiegarlo Leopardi ricorre all'immagine di una corsa ad ostacoli, quelli che un virus deve passare per fare il salto di specie finale. "L'unica 'colpa' dell'animale è essere presente ed eliminare il virus, cosa che l'animale fa naturalmente - spiega - il resto sono contributi dovuti al caso, ovvero se il virus è o meno in grado di infettare l'essere umano, o all'uomo, che favorisce questo contatto, o direttamente con il contatto con gli animali selvatici, o tramite fattori intermedi, come gli animali domestici". 

La presenza dei virus nei loro ospiti dunque è un fatto normale dal punto di vista ecologico. Non lo è tutto quello che viene dopo. Virus quali i Sars-like coronavirus, per esempio, sono ormai vecchie conoscenze, stanno con noi da tempo, ricorda la ricercatrice. Al punto per cui, alla notizia di un cluster di malattie respiratorie in Cina, arrivata a capodanno del 2020 dritta nella email di Leopardi, tramite la mailing list di PROMED, riservata agli infettivologi - soprattutto a quelli "appassionati di malattie emergenti", scrive la ricercatrice - il pensiero è andato quasi subito a un coronavirus.

"La storia che si ripete", ricorda Leopardi, riferendosi chiaramente alla Sars di qualche anno prima. Troppo strano, infatti, il fatto che la Cina - dove certo non mancano le possibilità diagnostiche - non fosse riuscita a identificare le cause di quelle polmoniti. Quello che avvenne dopo è ormai storia. Il sequenziamento del genoma del virus mostrò che si trattava effettivamente di un Sars-related coronavirus, indirizzando l'attenzione di Leopardi e colleghi verso i Rinolophus, noti come pipistrelli ferri di cavallo. 

"Ogni genere di pipistrelli ha il suo tipo di coronavirus e i sars-like sono collegati a questo genere in particolare - spiega la ricercatrice - Ma parliamo di animali che vivono in grotta, non dovremmo venire a contatto con loro, ma in ambienti modificati con progressiva distruzione e perdita di habitat, questi animali si trovano più spesso vicino a noi". 

A volte in maniera anche indiretta. È il caso, curioso, raccontato nel libro dalla ricercatrice che risale alla prima estate con la pandemia, quando arriva la notizia di un gatto che ha morso alcune persone ad Arezzo, e in cui è stato ritrovato un virus di cui non si aveva praticamente notizia, se non per una segnalazione del 2002. In Russia, in un miniottero comune (un pipistrello). È un lyssavirus (il genere di cui fa parte il virus della rabbia). Ma spiegare la sua presenza in quel gatto era un mistero. 

Le indagini, su impulso del Ministero della salute, puntavano ai pipistrelli, al miniottero appunto, che però in città non dovrebbe esserci. "Abbiamo cercato altre specie di pipistrelli, analizzando tutti quelli trovati morti o deceduti nei centri di recupero, finché non abbiamo trovato in un tunnel il miniottero. Li abbiamo catturati, prelevato il sangue, e liberati e abbiamo avuto la conferma: avevano anticorpi diretti contro il virus". L'indagine ecologica, con tanto di fototrappole che hanno immortalato gatti andare e venire dal tunnel, e la vicinanza della casa di quel gatto in particolare alla colonia positiva, ha permesso di chiudere il cerchio, spiega Leopardi. 

"Il problema, anche in questo caso, non è la presenza del virus nei chirotteri. Quello che dovremmo chiederci semmai è perché questo pipistrello che normalmente abita in grotta si è dovuto spostare fino in città? Forse i suoi ambienti naturali non sono più così adatti, obbligandolo a cambiare casa, e a incontrare un gatto predatore, che poteva fungere da ponte tra pipistrello e uomo se fosse stato in grado di trasmettere ulteriormente il virus. Cosa che fortunatamente non è stata".

Wuhan, la ricerca sul Covid finanziata dagli Stati Uniti: la lettera incriminata al senatore Comer. Libero Quotidiano il 16 gennaio 2022.  

L'origine del virus SARS-CoV-2 che causa il COVID-19 rimane ancora poco chiara, ma recenti rivelazioni rafforzano la probabilità che la vera fonte sia stata una fuga dal laboratorio dall'Istituto di virologia di Wuhan . Una lettera di Lawrence Tabak , il vicedirettore principale del National Institutes of Health , al senatore James Comer del Kentucky conferma che l'istituto americano ha finanziato la ricerca presso il laboratorio cinesedurante il biennio 2018-2019 che ha manipolato un coronavirus di pipistrello chiamato WIV1. I ricercatori dell'istituto hanno innestato proteine ​​​​spike da altri coronavirus su WIV1 per vedere se il virus modificato era in grado di legarsi in un topo che possedeva i recettori ACE2 trovati nell'uomo, lo stesso recettore a cui si lega SARS-CoV -2. Il virus modificato si è riprodotto più rapidamente e ha reso i topi umanizzati infetti più malati del virus non modificato.

Diego Fusaro, "e come mai Bill Gates...". Covid, l'ultima agghiacciante accusa: complotto ed ecatombe. Libero Quotidiano il 23 gennaio 2022.

Un distillato di "perle" negazionisti e cospirazioniste, il profilo Twitter di Diego Fusaro, il filosofo no-vax e no-green pass che rilancia la qualunque in termini di teorie del complotto e accuse agghiaccianti. E così, dando una scorsa al suo feed in una tranquilla domenica mattina, ecco che ci si imbatte in una tripletta a tempo record di post che suscitano indignazione. 

Il primo, però, è quello che di indignazione ne suscita di meno. Si tratta di un video in cui Fusaro ricorda come "Citigroup vuole Mario Draghi al Quirinale, Goldman Sachs al governo... comandano le banche ormai", taglia corto. Evvai col complotto, snocciolato con il consueto lessico fusariano, lessico su cui ci si interroga sempre: ma dice sul serio? 

Passiamo poi al secondo post. Ecco che rilancia un articolo di servizio del sito del Corriere della Sera, che spiega "cosa si può fare senza green pass" a partire dal primo febbraio, giorno in cui sono entrate in vigore le nuove limitazioni. A corredo dell'articolo, ecco che Fusaro commenta: "Questo abominio segna una delle pagine più infauste della storia del nostro Paese". Sì, come no... 

Ma il post più agghiacciante è il terzo. Ecco che Fusaro rilancia un titolo che riprende le parole di Walter Ricciardi, il consulente di Roberto Speranza che ricorda come "Bill Gates ha sempre azzeccato le previsioni". Ed ecco che il filosofo commenta: "E come mai le azzecca sempre? Una risposta ci sarebbe". Vien da chiedergli: quale? Forse il fatto che come i peggiori deliri complottisti sostengono che dietro la pandemia ci sia lo zampino di Bill Gates? Ogni commento è superfluo. 

Covid, Wuhan e Bill Gates, Antonio Socci: "Virus letale in laboratorio, chi minaccia l'umanità". Antonio Socci Libero Quotidiano il 24 gennaio 2022.

Nei giorni scorsi Bill Gates, fondatore di Microsoft, facendo una donazione per la lotta contro la pandemia di Covid-19, ha giustamente osservato che per il futuro c'è bisogno di garantire a tutti la fornitura di vaccini e occorre predisporre strumenti in grado di circoscrivere subito eventuali focolai: «Nella mia personale lista di obiettivi voglio aggiungere quella di far si che il mondo sia preparato alla prossima pandemia». A questo proposito, secondo le ricostruzioni giornalistiche, Gates ha affermato che il prossimo virus potrebbe essere più letale e più contagioso del Covid. Una previsione che mette i brividi. Anche perché proprio Gates, nel 2015, aveva lanciato un allarme analogo, avvertendo che, dopo Ebola, era necessario che il mondo si preparasse alla prossima epidemia: «Se qualcosa ucciderà più di 10 milioni di persone nei prossimi decenni» aveva detto «non sarà una guerra, ma un virus. Non missili, ma microbi. Perché abbiamo speso cifre enormi in deterrenti nucleari e investito molto poco invece in un sistema che possa fermare un'epidemia. Non siamo pronti». Parole che oggi, dopo due anni di tempesta Covid, appaiono lungimiranti. Dobbiamo credere che Gates sia dotato di doni profetici o abbia accesso a chissà quali segreti? No. Conosceva la situazione che era nota agli addetti ai lavori e ai governanti, ma anche a chiunque avesse approfondito seriamente il problema (pure i media ne avevano parlato). Non erano notizie segrete.

I COSTI UMANI - L'aumento di epidemie - anche per l'attuale facilità di movimento delle popolazioni - era cosa nota: l'Organizzazione Mondiale della Sanità aveva "censito" 1.483 eventi epidemici, in 172 paesi, solo fra il 2011 e il 2018. Nel settembre 2019 - due mesi prima che in Cina si riconoscessero i primi segni del Covid 19 - il Global Preparedness Monitoring Board, la commissione di esperti istituita da Banca Mondiale e Oms, pubblicava il rapporto annuale, intitolato "Un mondo a rischio", nel quale si metteva in guardia da qualche possibile nuovo virus, analogo a quello dell'influenza spagnola. Vi si calcolavano i costi enormi sia in termini di vite umane (circa 80 milioni di vittime) che di costi economici (si calcolava una riduzione del Pil mondiale del 5 per cento). Il Rapporto avvertiva che il mondo non era preparato ed era urgente prepararsi. Dovevano ascoltare soprattutto i governi che invece non mossero dito. Trovandosi così impotenti, pochi mesi dopo, davanti alla pandemia che era arrivata. Del resto la possibile origine del Covid 19 da un incidente di laboratorio (ancora non si è arrivati a chiarire i fatti) ci fa capire che nuove pandemie possono derivare pure da errori umani e dalla mancanza di efficaci interventi internazionali di regolamentazione. Questa situazione dovrebbe allarmare almeno quanto ci allarmano gli arsenali nucleari. È noto che l'umanità, con armi atomiche che potrebbero distruggere molte volte il nostro pianeta, vive costantemente sull'orlo dell'abisso e che, negli ultimi settant' anni, molte volte si è sfiorato il cataclisma per motivi accidentali. «Pochi fra gli abitanti del pianeta sanno di essere vivi non già per un singolo miracolo, ma per diversi miracoli, mentre l'annientamento atomico stava per materializzarsi a causa di incredibili fraintendimenti, e fu evitato per un soffio», scrive Paolo Barnard in un libro con Steven Quay e Angus Dalgleish, "L'origine del virus" (Chiarelettere), dove però affronta l'altro abisso - poco conosciuto - in cui l'umanità rischia di precipitare. 

VITE APPESE - «È capitato più volte che la vita di milioni di noi» vi si legge «sia stata appesa a errori del tutto umani scaturiti nel contesto di tecnologie di distruzione di massa e ai quali si rimediò per puro caso all'ultimo secondo. Ed è precisamente ciò che non di rado è avvenuto nei laboratori dove si conservano o si manipolano virus pandemici, in particolare nelle istallazioni di ricerca virologica definite Biosafety Level 3 o Level 4, com' è quella di Wuhan. Anche in questi casi fu solo l'elemento fortuito a impedire tragedie globali». Gli autori elencano una serie impressionante di fughe accidentali di virus pericolosi dai laboratori che fortunosamente il caso (ovvero la Provvidenza) ha permesso di circoscrivere per tempo. Secondo Barnard «centoventisei milioni di esseri umani non sanno oggi di vivere nei pressi di un laboratorio di virologia Biosafety Level 4, dove si maneggiano i patogeni più pericolosi del pianeta come Ebola, Vaiolo o l'Aviaria H5N1». 

PUBBLICAZIONI - Anche in Europa. Il problema fu posto già con il libro "Cina Covid-19. La chimera che ha cambiato il mondo" (Cantagalli), dal professor Joseph Tritto che, nell'estate 2020, fu tra i primi ad accendere i riflettori sugli esperimenti che si stavano facendo nei laboratori di Wuhan. Tritto spiegava, con molti dettagli, che il problema riguarda non solo la Cina che peraltro «è l'unico grande paese del mondo che ha aderito, ma non ratificato la Convenzione sulle armi biologiche» cosa che «rappresenta un grave problema internazionale per la sicurezza globale». Ma il problema riguarda - secondo Tritto anche altri paesi e laboratori dove si fanno certi tipi di ricerche. C'è un rischio relativo al bioterrorismo e alla possibile fabbricazione di armi per la guerra biologica. E c'è poi il rischio di fughe accidentali di virus (potrebbe essere il caso del Covid 19). «In merito a tante sperimentazioni» scrive Tritto «alcune domande sorgono spontanee: perché vengono eseguite? Qual è il beneficio a fronte del rischio che viene corso? Hanno un'applicazione concreta? Hanno un'importanza rilevante per la salute umana?». Di fatto le regolamentazioni internazionali non sono efficaci e non esiste nemmeno «un accordo tra gli Stati per attribuire un significato univoco ai concetti di Biosafety e Biosecurity». Dopo la tragedia del Covid 19 (tuttora in corso) l'umanità non può continuare a vivere sul crinale dell'abisso. Occorre che anzitutto Onu e Oms, quindi i governi, corrano ai ripari. È necessario che l'opinione pubblica apra gli occhi su questi rischi planetari come a suo tempo accadde per gli arsenali atomici. E occorre che si cominci a far pressione sui governi da parte dei cittadini (e anche da parti di istituzioni come la Chiesa che giustamente da decenni preme per il disarmo e lo smantellamento delle armi nucleari). Se neanche la lezione del Covid 19 ci ha aperto gli occhi, significa che presto vivremo tempi molto cupi.

Dai pipistrelli ai topi: il ruolo degli animali nella pandemia di Covid (e, forse, nell’origine di Omicron). Sandro Modeo su Il Corriere della Sera il 23 Gennaio 2022.

Nessuna specie è un’isola: e questi anni di pandemia lo hanno ricordato, drammaticamente, anche a quella umana. Dallo spillover dai pipistrelli al ruolo degli ospiti intermedi, dalle osservazioni sugli animali domestici al possibile «spillback» dall’uomo al topo e ritorno, un viaggio inedito nel rapporto tra Sars-CoV-2 e specie. 

Difficile dimenticare, del primo lockdown — prolungato e radicale — lo spalancarsi degli scenari di «rewilding» urbano da Mondo senza di noi, per citare il grande libro di Alan Weismann sulla Terra post-umana. E questo in ogni area del globo: il rifluire di pesci di ogni specie e cigni nei canali di Venezia ; i cinghiali tornati (o accresciuti di numero) in tante città-fantasma italiane e spagnole (in Galizia e Castiglia insieme a lupi e caprioli); le capre a pelo lungo sciamate verso i giardini e le strade deserte di Llandudno e di altre cittadine del Galles; gli sciacalli mescolati ai runner nei parchi di Tel Aviv; i tacchini selvatici apparsi nei cortili di Harvard; le scimmie confluite in massa a Lopburi, Thailandia; gli orsi neri riapparsi in tutto l’Estremo Oriente; i coccodrilli e le tartarughe migrati a rimpossessarsi di baie e spiagge a loro a lungo interdette. Un break visionario intensificato, per così dire, dalla luce inedita, quasi ancestrale, di un ambiente ripulito dalle «cataratte» delle emissioni inquinanti; esemplari, al riguardo, le immagini giunte da Jalandhar, Punjab, e da altre aree attigue, con le vette innevate dell’Himalaya tornate a stagliarsi nitide all’orizzonte dopo decenni. Questo memento eco-biologico non è stato (ed è) solo un esercizio utile a ricordarci i limiti del nostro (per certi veri comprensibile, se non inevitabile) compiacimento antropocentrico. È anche — proprio in tempo di pandemia — un memento sulla nostra contiguità molecolare con gli «animali non umani», accentuata dalla (rinata) consapevolezza di dover condividere con loro la competizione con altre forme del vivente come gli agenti patogeni. Non a caso, uno dei modi — delle vie — migliori per orientarsi nell’evoluzione pandemica di Covid-19 è stato e rimane quello di seguire le indicazioni e le sequenze degli «altri animali» (o meglio «altri mammiferi»), intrecciate e sovrapposte alle nostre. 

Questo saggio è suddiviso in diversi capitoli:

1. Pipistrelli / 1 - Lo spillover, o alle origini del Covid

2. Pangolini e zibetti: la diversa sorte degli ospiti intermedi

3. Visoni: gli spillback e i «rientri» nell’uomo

4. Animali d’allevamento e domestici: il politropismo virale

5. Pipistrelli / 2: Sars CoV-2 e la teoria del laboratorio

6. Topi e criceti: il «rientro» nell’uomo e la possibile uscita dalla pandemia 

Pipistrelli/1 - Lo spillover, o alle origini del Covid

Fin dall’outbreak di Wuhan tra fine 2019 e inizio 2020 (grazie soprattutto a un libro-chiave come «Spillover» di David Quammen), animali egemoni sono diventati i chirotteri ovvero i pipistrelli (come spiegato qui), in quanto principali «ospiti serbatoio» di tanti agenti patogeni «emergenti» degli ultimi decenni: paramixovirus come Hendra o Nipah, filovirus come Ebola (solo ipotizzato) o Marburg (sicuro), e soprattutto coronavirus come Sars, Mers e ora Sars- CoV-2 (l’agente del Covid-19). 

In generale, la loro familiarità coi virus è riconducibile a molti fattori: la loro lontananza nel «tempo profondo» della storia della vita (sono apparsi tra 65 e 56 milioni di anni fa, il periodo dei dinosauri), che li ha condotti a maturare con molti virus un legame di coabitazione coevolutiva; il mix tra consistenza demografica e varietà filogenetica (sono 1116 specie, addirittura un quarto dei mammiferi); la spiccata socialità-promiscuità che li porta, per il riposo o il letargo, a concentrazioni impressionanti, fino a un milione di individui a sito; e il volo, con cui possono contrarre e diffondere virus su aree molto estese, percorse con spostamenti di decine di chilometri in una sola notte (quando predano) o centinaia in una stagione (quando migrano, coi siti estivi e invernali separati anche da 1300 chilometri). 

Nel dettaglio, lo snodo decisivo della loro permeabilità virale (e quindi della possibilità di contagiare altri animali attraverso lo spillover, il «salto di specie») è nascosto nel loro «mistero immunitario». Un mistero, in realtà, sempre più sfoltito. Alla base, molto gioca il rapporto tra dimensione popolazionale e longevità (fino a 20-25 anni), il fatto cioè che in comunità così grandi ai «vecchi» chirotteri che acquisiscono l’immunità corrisponde un numero costante di «neonati» suscettibili: è la «dimensione critica di popolazione», che consente a un patogeno di diventare da epidemico a endemico, come succede col morbillo (o meglio succedeva, prima del vaccino) in comunità umane di almeno 500.000 abitanti; o come potrebbe succedere (e in parte sta già succedendo) con la variante Omicron di Covid-19. 

Ma diversi altri aspetti incidono sulla tolleranza dei chirotteri a infezioni virali croniche: il freddo dei siti, con eventuale immunosoppressione; anticorpi di durata media inferiore a quella umana; la loro stessa arcaicità evolutiva, che li ha staccati dall’albero dei mammiferi prima che il loro sistema immunitario raggiungesse l’efficacia di quello di roditori e primati; la «convenienza» della stessa coabitazione endemica. A questi, il massimo studioso vivente di pipistrelli, Linfa Wang della Duke di Singapore, ne ha recentemente aggiunto un altro, al momento eretico: l’intensità e la frequenza del loro volo (1000 battiti d’ali al minuto, con temperatura corporea portata a oltre 100 gradi Farenheit) implica una tale accelerazione del metabolismo dell’ossigeno da poter danneggiare il Dna e persino causarne una fuoruscita dal nucleo cellulare. La conseguenza del danno, secondo Wang, sarebbe l’inibizione di parte della risposta immunitaria primaria (gli interferoni) e quindi del processo infiammatorio. Conseguenza paradossale, che secondo alcuni potrebbe addirittura fornirci indicazioni terapeutiche. Com’è noto, infatti, noi abbiamo semmai il problema opposto: quello di risposte immunitarie sregolate, a partire dalla parossistica risposta infiammatoria (la tempesta di citochine) che incide anche nei casi severi di Covid-19. 

Comunque sia, Sars-CoV-2 è entrato nelle nostre cellule partendo dai pipistrelli: e questo sia nel caso (largamente più probabile) di un’origine «naturale» (in via diretta o attraverso un «ospite intermedio» o «di amplificazione» in qualche wet market, com’è successo con lo zibetto nel Sars-CoV del 2003), sia in quello di un’origine «artificiale» nel laboratorio di Wuhan, secondo tesi hard (la premeditazione) o soft (il «lab-leak»). Per le novità al riguardo, si veda il paragrafo sotto (Pipistrelli 2). 

2. Pangolini e zibetti: la diversa sorte degli «ospiti intermedi»

Sempre nella prima fase della pandemia si è pensato che l’«ospite intermedio» o «di amplificazione» del patogeno — in definitiva il trait d’union tra pipistrelli e uomo — fosse il pangolino o «formichiere squamoso», unico mammifero della classe dei folidoti. In particolare, una serie di studi su Nature (tra marzo e maggio 2020) ipotizzava come Sars-CoV-2 potesse risultare dalla ricombinazione tra un virus similare a un virus del pipistrello (l’ormai celebre RaTG13) e un altro similare a un virus del pangolino malese, che aveva in comune con Sars-CoV-2 la quasi totalità del genoma, compresi i tratti della regione RBD (S1) della proteina spike che si lega ai recettori ACE2 umani. Presto sospesa, più che scartata, quella pista è tornata e torna periodicamente e legittimamente in primo piano. Aspetto non secondario: al pangolino in quanto possibile «ospite intermedio» di Sars-CoV-2 è stata risparmiata la sorte dello zibetto (o civetta delle palme), sicuro ospite intermedio di Sars-CoV tra 2003 e 2004: nella (errata) convinzione che si trattasse del reservoir (l’ospite serbatoio, invece poi individuato appunto nel pipistrello), il governo cinese ordinava (5 gennaio 2004) l’abbattimento e lo «smaltimento» degli esemplari di quella specie, così che nei giorni a seguire più di 1000 civette in cattività venivano «soffocate, bruciate vive, gettate in acqua bollente, fritte con la corrente ad alto voltaggio o annegate». «Sembrava — commenta Quammen — un pogrom medievale contro una razza di gatti demoniaci”. 

3. Visoni: gli spillback e i «rientri» nell’uomo

Preservati i pangolini (anzi, l’attivista vietnamita Thai Van Nguyen vince l’ultimo Goldman Environmental Price, il Nobel per l’ambiente, per averne sottratti 1500 ai bracconieri interessati a venderli come prelibatezze della cucina yewei o per la loro preziosa corazza), la parabola del Covid-19 registra in compenso l’ecatombe dei visoni. 

La vicenda è più o meno nota: dopo i contagi americani di mustelidi in certi stati tra marzo e ottobre 2020 (Utah su tutti), vengono registrati in autunno quelli olandesi e, a ruota, quelli danesi (anche se poi si scoprirà che qui se ne erano avuti tre casi in giugno): solo che, a differenza di quelli americani, i contagi europei non si limitano a una probabile zoonosi inversa o spillback (il contrario dello spillover, cioè il contagio uomo-animale) ma registrano anche il «rientro» nell’uomo, l’ulteriore spillover, con 12 contagiati in Danimarca a novembre. La preoccupazione è che quel reingresso — una variante di Sars-CoV 2 molto mutata — possa innescare un inasprimento pandemico, specie nella capacità di aggirare i vaccini imminenti e la relativa campagna. 

L’esito è tragico: nella sola Danimarca, Paese leader del settore, vengono sterminati dai 15 ai 17 milioni di esemplari (in altri Paesi molti meno, ma comunque a decine di migliaia, Italia compresa): col «mink-gate» danese a seguire (la giovane Premier Mette Fredriksen sotto assedio e il Ministro dell’Agricoltura Mogens Jensen costretto alle dimissioni) legato meno a mozioni etiche (le stesse che avevano contrastato la liceità degli allevamenti) che a ragioni economico-commerciali (la lesione su un fatturato annuale di 840 milioni di euro annui) o politico-giuridiche (il provvedimento di soppressione è emesso da un governo di minoranza col tacito placet delle forze di polizia). 

Ma a restare inevasa o ameno sfocata è la questione centrale, quella virologico-epidemiologica: se davvero un reingresso di Sars-CoV-2 mutato dai visoni all’uomo avrebbe provocato un peggioramento pandemico per contagiosità e/o letalità. Da un lato, infatti, studi successivi (Anette Boklund et al.) hanno confermato l’altissima suscettibilità dei visoni a contagiarsi, meno a trasmettere ad altre specie, incluso l’uomo. Dall’altro, un reingresso nell’uomo di un virus mutato dopo uno spillback, potrebbe non essere necessariamente — non sempre — una cattiva notizia (vedi, più sotto, il capitolo 6, sui topi). 

4. Animali d’allevamento e domestici: il politropismo virale

Per diversi mesi, forse di più, dall’inizio della pandemia, non solo l’opinione pubblica ma anche tanti ambienti medico-sanitari si sono interrogati sull’inafferrabilità e l’«erraticità» sintomatica di Sars-CoV-2, anche perché la maggior parte dei coronavirus «umani» finora conosciuti investe quasi solo le vie respiratorie alte (diciamo rinofaringee, il «semplice mal di gola e raffreddore»). In realtà, già il letale Sars-CoV era caratterizzato da pan o politropismo virale, dato che il patogeno colpiva non solo a livello polmonare, ma anche cardiaco, renale o neuro-psicologico, incluse «letargie» e disagi neuropsichiatrici a lungo termine non dissimili da antefatti di Long Covid. 

Ma l’insegnamento più stringente, al riguardo, viene proprio dagli animali non umani; e da animali non necessariamente esotici, ma «interni» alla nostra quotidianità economico-produttiva e/o sociale, che sono spesso i «reservoir» misconosciuti di diversi coronavirus, a lungo negletti per la loro scarsa incidenza nell’uomo. 

Gli esempi sono numerosi: il caso da manuale dell’IBV dei polli, che replica «in una miriade di superfici epiteliali» e colpisce a livello polmonare, gastroenterico e con, certi ceppi, renale; l’MHV (virus dell’epatite nei topi), che all’inizio replicava solo nell’intestino, poi si è esteso al fegato e al sistema nervoso centrale; l’ FCoV felino, che dopo un episodio gastroenterico può arrivare — per ragioni non del tutto chiarite, forse legate a danni immunitari — a causare vasculite e peritonite; l’HEV dei maiali, che si espande dal tratto respiratorio e faringeo al sistema nervoso periferico a quello centrale; e così via, secondo l’adagio accademico per cui un virus (e i coronavirus non fanno eccezione) si lega a tutti i recettori possibili per la sua diffusione e replicazione nell’ospite. 

La sintesi più interessante, ancora una volta, è OC-43 (come spiegato in questo pezzo sulla lezione possibile dell’«oscura influenza russa»). Oggi, è nell’uomo (H-CoV) uno dei principali coronavirus del «raffreddore comune», insieme a 229E; ma in passato era molto meno innocuo. Virus che ha nel bestiame il suo principale «ospite serbatoio» (B-CoV), OC-43 deve aver maturato una lunga familiarità col nostro genoma; ma il primo «salto di specie» documentato è probabilmente quello del 1889-90, anno di outbreak di una pandemia a lungo rubricata come «influenza russa», e che forse è invece la prima da coronavirus: lo studio-spartiacque, al riguardo, è quello di Leen Vijgen nel febbraio 2005, anche se le sue conclusioni sono ancora dibattute. 

In rapporto a Covid-19, colpiscono due elementi: la varietà di sintomi indotta proprio dal politropismo virale (evidente già nel bestiame), estesa dalla polmonite all’anosmia ai danni neuropsicologici a lungo termine tipo Long Covid, che colpiscono anche il Primo Ministro britannico Lord Roseberry (mentre un Churchill quindicenne scrive, su quell’«influenza», addirittura un poema); e l’evoluzione, in cinque anni, verso ceppi sempre più contagiosi e meno aggressivi, al punto che in diverse analisi epidemiologiche predittive (a partire da quella di Stephen M. Kissler et al., Science, 14 aprile e 22 maggio 2020) OC-43 ha avuto e ha un posto di preminenza. 

5. Pipistrelli / 2: Sars-CoV-2 e la teoria del laboratorio

Il denso libro di Alina Chan e Matt Ridley uscito da poco (Viral, HarperCollins, novembre 2021) è tra i pochissimi a tenere aperta a livelli non caricaturali l’ipotesi del «lab-leak» a Wuhan. Tra gli argomenti centrali spiccano, ancora e sempre, la possibilità che il citato virus RaTG13 del pipistrello (coincidente solo al 96% del genoma con Sars-CoV-2) possa essere stato «ingegnerizzato» per un miglior adattamento ai ricettori cellulari umani attraverso la tecnica «gain of function» o «guadagno di funzione» (artefici, a Wuhan, l’ormai leggendaria BatWoman Shi Zhengli e la sua equipe); e che sospetto sia, in particolare, l’aggregato molecolare decisivo in questo adattamento, cioè i 4 aminoacidi di una proteasi chiamata furina, inseriti in un peculiare «sito di taglio» tra i due domini della proteina spike, quello (il citato RBD o S1) deputato all’aggancio ai nostri recettori (ACE2, ma non solo) e quello (S2) per la fusione con la membrana delle nostre cellule. 

Come riassume Mark Honigsbaum in uno sferzante articolo sul Guardian, sono argomenti tutt’altro che risolutivi: secondo un contributo recente di 21 studiosi la sequenza molecolare del «sito di taglio della furina» (assente anche in Sars-CoV, altro imputato della manipolazione) non solo è ritenuta «suboptimal», ma è «near identical» a quello di decine di coronavirus che contagiano abitualmente umani e bovini; quanto alla «distanza» filogenetica tra RaTG13 e Sars-CoV-2, Honigsbaum cita di sfuggita uno studio di fine settembre 2022 (quando il libro di Chan-Ridley è ancora in bozze) ritenuto risolutivo da eminenti virologi evoluzionisti. Si tratta della scoperta in alcune grotte del Laos — da parte del team virologico di Marc Eloit, Pasteur di Parigi — di tre genomi di rhinolophus o pipistrello «ferro di cavallo» (BANAL -52, -103 e -236), il primo dei quali porta la prossimità a Sars-CoV-2 al 96,8%; il che significa, in termini filogenetici, la condivisione di un antenato comune non più quarant’anni prima (come per RaTG13) ma — come sottolinea il virologo evoluzionista di Glasgow Spyros Litras — solo dieci. Senza dimenticare — come ricorda di nuovo Linfa Wang — la possibilità di ulteriori «avvicinamenti» in genomi di altri pipistrelli del Laos stesso, del confinante Yunnan cinese, della Thailandia; né quella di trovare l’«ospite intermedio» (del pangolino si è già detto, ma non sono esclusi altri animali, né esotici né domestici), sempre valida alternativa al contatto diretto pipistrello-uomo (magari col guano delle cavità, usato come fertilizzante in tanti villaggi). 

L’ipotesi del virus ingegnerizzato non è ancora off; ma quella adombrata nel formidabile studio del genetista Peter Forster e dell’eminente archeologo Colin Renfrew (Pnas, 7 aprile 2020, citato in questo articolo) circa un’origine «naturale» del virus spostata sul piano geocronologico («prima e più a sud di Wuhan», in aree come quelle appena citate) sembra arricchirsi di tasselli consistenti. 

6. Topi e criceti: il «rientro» nell’uomo e la possibile uscita dalla pandemia

Intratteniamo con certi roditori, come topi e ratti, una ripugnanza «ancestrale» (una memoria panica) per certi aspetti simile a quella maturata nell’evoluzione verso serpenti o ragni. E con buone ragioni, dato che la loro presenza è linkata a patogeni come il batterio della peste (che vede i topi come «ospiti serbatoio» e le pulci come «vettori»), le spirochete della leptospira (che può degenerare in forme letali come la sindrome di Weil) o gli hantavirus alla base di severe sindromi renali e polmonari. 

Eppure, la regressione della peste, almeno in Europa, avviene a un certo punto non solo per nuove abitudini igienico-profilattiche (l’impiego del sapone di Marsiglia e lo spogliarsi per dormire), ma anche per due svolte genetico-evolutive, una più sicura, l’altra più ipotetica: la sostituzione, dovuta anche a cambiamenti climatici, del ratto nero col ratto grigio (o surmolotto o pantegana), più resistente al bacillo; e la diffusione di un mutante non patogeno dello stesso, Yersinia pseudotubercolosis, tra i roditori europei, con effetto immunizzante. 

Con Omicron di Covid-19, non siamo in presenza di svolte così radicali; ma i roditori sembrerebbero implicati in modo significativo, se non a livello di insorgenza della variante, almeno in quello della sua decrittazione. 

Il tutto attraverso due snodi emersi di recente.

Il primo è sull’eventuale incidenza dei topi nell’insorgenza.

Tre sono infatti le ipotesi sulla genesi di Omicron:

a) la circolazione «undetected» della stessa in Paesi con poca sorveglianza e sequenziamento;

b) l’evoluzione — e l’accumulo di mutazioni — in un soggetto con infezione a lungo termine e dal sistema immunitario compromesso, per una concomitante infezione a HIV o per l’azione di un farmaco immunosoppressore;

c) l’evoluzione — e l’accumulo di mutazioni — in un organismo animale, con successivo spillover; candidati principali, i topi, con una cadenza che collocherebbe lo spillback (il salto uomo-topo) a metà 2020, e il «reingresso» del virus mutato nell’uomo (spillover) nel tardo 2021. 

Ora, la seconda ipotesi è ancora nettamente prevalente nella comunità scientifica; ma la terza ha argomenti genetico-molecolari non trascurabili. 

Tutto è in un notevole, anche se dibattuto, paper coordinato da Wenfeng Qian per la Chinese Academy of Science (Journal of Genetics and Genomics, 24 dicembre), da cui risaltano alcuni aspetti dirimenti: per esempio, come lo spettro molecolare di mutazione del progenitore di Omicron sia significativamente diverso da quello evoluto nell’uomo e invece significativamente somigliante a quello evoluto nei topi, a conferma dell’assunto secondo cui molte mutazioni de novo nei genomi di virus a Rna sono generate da replicazioni «altamente dipendenti» dai meccanismi mutagenici specifici nell’ambiente cellulare dell’ospite; poi, come tale principio valga specialmente per le mutazioni sulla proteina spike, tutte tese a efficientare il legame tra RBD e recettore dell’ospite (vedi, in particolare, Q493R e Q498R) posto alla base dell’incremento di trasmissibilità-contagiosità. Il tutto integrato da specificità di metodo che diventano di merito, se lo studio confronta l’evoluzione del progenitore di Omicron con quella in tre pazienti umani cronici (per cercare di rispondere all’ipotesi b) e con altre 32 specie di mammiferi, mostrando come nell’uno e nell’altro caso la rispondenza e la prossimità siano nettamente inferiori. 

Ora, Omicron parrebbe davvero una variante più trasmissibile ma meno letale delle precedenti; e questo al netto dello scudo vaccinale, che potrebbe a sua volta aver contribuito a quell’attenuazione. 

Dunque, se l’ipotesi di Qiang et al. fosse confermata, l’«orologiaio cieco” dell’evoluzione avrebbe eletto proprio nel genoma dei topi un possibile canale di passaggio dall’orizzonte pandemico a quello endemico, e all’agognato exit. 

Intanto (siamo al secondo snodo), topi e criceti sembrano contribuire «almeno» alla verifica di quell’attenuazione, come mostrano altri studi-esperimenti di cui riferisce un decano come William A. Haseltine. 

Già a caldo, Omicron aveva evidenziato maggiore trasmissibilità (da 2,7 a 3,7 volte più di Delta tra i vaccinati) con un balzo marcato negli asintomatici (dall’1-2 % di Delta al 30), oltre a sintomi più lievi (soprattutto nei vaccinati). Di questi nuovi studi, alcuni (svolti contagiando topi e criceti con Omicron e comparando i dati con roditori contagiati da ceppi precedenti, Delta in testa) hanno confermato sintomi meno severi (a partire dall’assenza di perdita di peso) e la minor patogenicità, con «viral burden» (il «peso» popolazionale del virus) nelle vie respiratorie complessive dalle 10 alle 100 volte minore rispetto a Beta, e la carica virale (individuale) addirittura 1000 volte minore nelle conche nasali. Altri, hanno evidenziato — a conferma dello «schema» atteso — come Omicron infetti le vie aree superiori con una velocità 70 volte superiore a Delta, mentre la concentrazione nelle vie sottofaringee (bronchiali e polmonari) cala di 10 volte nelle 48 ore successive all’infezione. 

Secondo Ravindra Gupta — microbiologo clinico all’Istituto di immunologia terapeutica di Cambridge — sembra che questo dipenda da una minor capacità di Omicron di legarsi a Tmprss2, proteina comune nei tratti respiratori bassi, ma non altrettanto in quelli aerei; e la conferma, a contrario, sarebbe data dall’efficacia di certi farmaci in grado di sottoregolare Tmprss2 (enzalutamide) nell’impedire l’ingresso di Sars-CoV-2 nelle vie polmonari (Nature, 1 luglio 2021). 

Dopo di che, lo stesso Haseltine invita a cautela multipla: sul trasferire dati dai roditori all’uomo in maniera disinvolta; su un’attenuata patogenicità (quella di Omicron) non ancora coincidente con una forma «mild» del virus; e sulla crescita di contagi infantili, con Rochelle Walensky (CDC di Atlanta) che registra in USA «il più alto numero di ospedalizzazioni pediatriche da inizio pandemia». 

L’exit — ammesso e non concesso che sia possibile fendere con sicurezza un prima da un dopo pandemico — è ancora in parte nell’indeterminato, come riassume l’ombra di ulteriori varianti. 

Però niente più di questo biennio avrebbe potuto risvegliarci al senso profondo della nostra incessante interazione con gli altri animali, se in questo percorso — dai pipistrelli e dal rewilding urbano al rapporto dei roditori con Omicron — risaltano sia le responsabilità legate allo spicchio di libero arbitrio di cui disponiamo (spesso siamo noi a spalancare i vasi di Pandora epidemici, che si tratti — nello specifico — di wet market, sfruttamenti ambientali indiscriminati o — al limite — incidenti di laboratorio), sia la casualità del processo evolutivo, per cui uno spillover favorevole potrebbe salvarci laddove uno sfavorevole ci aveva dannato. 

Chiosando la famosa poesia di John Donne («Nessun uomo è un’isola») risalta forse come, a maggior ragione, non lo sia nessuna specie. 

FONTI

Sui pipistrelli in generale: Linfa Wang, Bats and Viruses, Wiley Blackwell, 2015.

Sui pipistrelli delle grotte del Laos e l’origine di SARS-CoV-2: Smriti Mallapaty, Closest Known Relatives of Virus Behind COVID-19 Found in Laos, Nature, 24-27 settembre 2021.

Su pipistrelli e ipotesi del «lab-leak» Alina Chan-Matt Ridley, Viral. The Search of Origin of COVID-19, HarperCollins, novembre 2021.

Sui pangolini: lo studio di partenza è quello celebre di Kristian G. Andersen, Andrew Rambaut et al., The Proximal Origins of SARS-Cov-2, Nature, 26 marzo 2020, seguito nei mesi successivi da altri più dettagliati.

Sui visoni: Anette Boklund et al., SARS-CoV-2 in Danish Mink Farms: Course of the Epidemic and a Descriptive Analysis of the Outbreaks in 2020, in Animals, Veterinary Clinical Studies, 12 gennaio 2021.

Sul politropismo dei coronavirus negli animali e negli uomini: a cura di Axel Schmidt, Manfred P.H. Wolff e Olaf F. Weber, Coronaviruses With Special Emphasis of First Insights, Birkhauser, 2005; a cura di David Cavanagh, SARS- and Other Coronaviruses, Springer, 2008.

Sui roditori (topi e criceti) rispetto a Omicron: Changshuo Wei et al., Evidence For a Mouse Origin of the SARS-CoV-2 Omicron Variant, Journal of Genetics and Genomics, 24 dicembre 2021; William A. Haseltine, Omicron, Less Virulent But Still Dangerous, Forbes, 11 gennaio 2022.

·        Le Fake News.

Tutte le bufale raccontate su covid e vaccini. FABRIZIA FLAVIA SERNIA su Il Quotidiano del Sud il 7 Novembre 2022. 

DURANTE la pandemia disinformazione e fake news hanno rappresentato, e tuttora rappresentano, nemici invisibili sia per la salute delle persone, sia per la tutela delle democrazie. L’Unesco all’inizio della pandemia ha lanciato un allarme sul rischio per le vite umane della disinformazione dilagante, mentre secondo un focus curato dall’ufficio del Parlamento Europeo in Italia su “Fake news e Covid-19” in Europa, quello che è accaduto con il Covid-19 “è un caso di scuola” per l’impatto che la comunicazione di notizie false – o potenzialmente false – può esercitare sui sistemi democratici. Un caso utile anche a capire come prevenire, di questi tempi, ragionevolmente meglio la diffusione di alcune distorsioni o curvature informative che possono affiorare in altri contesti, ad esempio riguardo al conflitto Russia-Ucraina.

L’aspetto colto dal Parlamento europeo è uno degli effetti più subdoli e minacciosi generati dalla pandemia. Gli altri riguardano, oltre al rischio per la salute delle persone, il sovraffollamento di informazioni e l’impatto di queste ultime sulle dinamiche e i comportamenti sociali, sulla fiducia nelle istituzioni e sulla relazione fra la scienza e i cittadini. Un impatto, insomma, che si è manifestato sotto varie forme e in innumerevoli circostanze, aprendo interrogativi e alimentando dubbi e fake news, su cui sia le Istituzioni europee, sia quelle nazionali hanno cercato di fare chiarezza in modo costante, adottando misure per contrastare la disinformazione.

Il primo e più insidioso interrogativo è stato quello sull’origine del virus Sars-Cov-2. Dove si era manifestato per la prima volta? La campagna di disinformazione è iniziata così.

LA CONTROINFORMAZIONE CINESE

Nel marzo 2020 il Governo cinese era preoccupato per aver lanciato in ritardo l’allarme sul Covid-19. Gli account cinesi diffusero la notizia secondo cui sarebbero stati militari americani a portare il virus in Cina durante una missione. Nei mesi immediatamente successivi allo scoppio dell’infezione a Wuhan, i servizi segreti olandesi lanciarono in Europa l’allarme sul tentativo della Cina di dipingersi agli occhi del mondo come luogo ideale di contenimento del contagio, nascondendo l’epidemia di Wuhan, mentre la stessa Repubblica Popolare Cinese diffondeva il messaggio sul fallimento dell’UE nella gestione della crisi pandemica.

A far data da marzo 2020, fra le molteplici iniziative intraprese, la Commissione Europea ha attivato una pagina web per distinguere fatti veri e falsità, al fine di contrastare la retorica sulla mancanza – falsa – di aiuti dell’UE ai paesi membri. In quel periodo, in coincidenza della missione di aiuto della Russia in Italia, i siti simpatizzanti del Cremlino enfatizzarono l’intervento russo. Sui social circolavano le immagini di cittadini italiani che sostituivano la bandiera nazionale con quella russa, mentre sulla tv della Federazione di Putin le immagini di veicoli russi sulle strade italiane sfilavano al commento “i nostri convogli solcano le strade della NATO”, mettendo anche in contrapposizione l’efficacia della battaglia cinese al Coronavirus con le misure dell’UE.

PANDEMIA, INFODEMIA E GLI “SCIENZIATI VISIBILI”

Da quando a febbraio 2020 la pandemia è diventata tale, ovvero un contagio che interessava il pianeta, come ammesso dall’OMS superati tutti i tentennamenti, l’accesso all’informazione su Internet ha conosciuto un’accelerazione senza precedenti: in assenza di notizie certe, alla diffusione del virus si è associata in modo indissolubile la diffusione incontrollata di affermazioni vere e affermazioni non confermate scientificamente sui vari canali informativi, che ha condotto a quella che è stata definita “infodemia”. Così, fra pandemia e infodemia, il virus ha viaggiato con l’informazione, come hanno spiegato, analizzando le modalità con cui il fenomeno si è dispiegato, due esperti di calibro del CNR: Marco Ferrazzoli, giornalista di lunghissima esperienza nell’Ente di Ricerca e Giovanni Maga, virologo e direttore dell’Istituto di Genetica Molecolare “Luigi Luca Cavalli Sforza” – IGM CNR di Pavia.

Nel libro “Pandemia e Infodemia -Come il virus viaggia con l’informazione”, i due autori hanno spiegato il tentativo di mettere a fuoco soprattutto due aspetti: da un lato “il ruolo della scienza nelle società contemporanee, i suoi limiti, la difficoltà di dialogo con gli altri soggetti pubblici e con i cittadini”; dall’altro, l’infodemia, il sovraccarico informativo provocato dalla multimedialità con i relativi rischi, dalla confusione che tutti proviamo fino alle cosiddette fake news”. Un’indagine in cui i due esperti hanno allargato la visuale anche alle fonti scientifiche reclutate dai media durante la pandemia. “Non si può pretendere che i giornalisti scelgano chi interpellare solo per meriti scientifici; servono anche capacità comunicative e una disponibilità che non tutti i ricercatori offrono”, ammettono.

Tuttavia, in base alla classifica dei centomila migliori scienziati a livello mondiale curata dalla rivista Plos Biology, i 10 virologi, infettivologi ed epidemiologi italiani più quotati compaiono poche volte o addirittura nessuna sulla carta stampata e sui siti nazionali. Fa eccezione Alberto Mantovani, 102° in assoluto e primo tra i circa quattromila ricercatori italiani presenti”. Insomma, “la tesi del sociologo Rae Goodell, che coniò l’espressione «scienziati visibili», notando come quelli più esposti non fossero altrettanto brillanti quanto a produzione scientifica”, alimenta il sospetto, dicono gli autori, “che i media tendano a riproporre sempre i soliti nomi che funzionano e non sono necessariamente i più qualificati”. Rispetto alla confusione generata dalle “voci dissonanti fra scienziati”, Marco Ferrazzoli condivide che “spesso sono dovute a esasperazioni giornalistiche. Ma è vero anche – aggiunge – che le istituzioni competenti non hanno attivato un sistema coerente unitario di informazione tale da evitarle”.

DALLA TEORIA DEL COMPLOTTO, AL 5G, ALLA VITAMINA C: LE BUFALE CIRCOLATE IN ITALIA…

“I vaccini contro SARS-Cov-2 avranno costi altissimi e non tutti potranno permetterseli”; “I vaccini usati per la quarta dose non funzionano contro le nuove varianti”; “Vengono inoculati vaccini scaduti”. Sono soltanto tre delle fake news più recenti smentite sul sito del Ministero della Salute. Dall’inizio della pandemia sono state milioni le notizie infondate circolate in rete, alcune perfino pittoresche, su cui il Dicastero della Salute con l’ISS e l’AGCOM hanno fatto un’azione continua di contrasto. Nelle bufale della disinformazione ai tempi del Covid-19 è entrato di tutto: dalla teoria del complotto ai rimedi miracolosi con le iniezioni di disinfettante – Donald Trump ne è stato un grande sponsor – alle abitudini alimentari per contrastare il virus. Con la campagna vaccinale, per le fake news c’è stato un nuovo slancio, che ha portato l’ISS a pubblicare un “Vademecum” per fare chiarezza. Da “I vaccini causano il contagio” a “I vaccini provocano l’infezione”, a “D’estate non serve vaccinarsi” a “I vaccini anti Covid sono sperimentali” l’antologia è davvero vasta.

L’AGCOM ha raccolto i fact-check delle principali 10 notizie false sull’emergenza epidemiologica da COVID-19 e 10 tra le bufale più diffuse sul Covid-19 in Italia, Gran Bretagna, Francia, Germania e Stati Uniti, svelando dove sono nate e come si sono sviluppate. Nel primo set rientra la notizia del “falso resoconto degli ospedali lombardi sulla vitamina C che favorisce la guarigione da Covid-19”, il “finto audio di Whatsapp dove un italiano racconta di trovarsi in Cina bloccato dal Coronavirus”, la “falsa circolare dell’INPS sulle pensioni dimezzate al 50% ad aprile 2020 per colpa del coronavirus”, la bufala per cui “Bere acqua ogni 15 minuti spazza via il nuovo Coronavirus SARS-CoV-2”.

…E LE BUFALE NEL MONDO

Fra le bufale che hanno tenuto banco nel mondo al primo posto quella per cui “il virus del Covid-19 è stato sottratto da un laboratorio canadese da spie cinesi”. Tre verificatori internazionali hanno concluso che “non ci sono prove”. Poi c’è la bufala per cui “la tecnologia dei telefoni cellulari 5G è collegata alla pandemia di coronavirus”. Anche in questo caso, “non ci sono prove che gli effetti sulla salute del virus del Covid-19 siano legati al 5G, secondo quanto pubblicato dalla Reuters e da FullFact.org”.  E poi, ancora bufale sui rimedi naturali. Da quella: “Limone e acqua calda possono curare il Covid-19”, all’altra: “L’argento colloidale può curare il Covid-19” per arrivare all’”aglio può curare il Covid-19”. Infine, impossibile non citare la più pittoresca: “Bill Gates vuole servirsi del Covid-19 per attuare un programma di vaccinazione obbligatorio con un microchip per sorvegliare la popolazione”.

In realtà, riporta il sito Newsgard che ha collaborato con AGCOM sulla raccolta, “il co-fondatore di Microsoft Bill Gates e la sua fondazione da tempo promuovono iniziative a sostegno dei vaccini. Tuttavia, non esiste alcun vaccino – per il Covid-19 o per altre malattie – che contenga un microchip o un altro strumento di sorveglianza”.

Il quotidiano La Verità di Maurizio Belpietro diffonde falsità sul Covid. ANDREA CASADIO su Il Domani il 02 novembre 2022

Nel suo articolo pubblicato il 31 ottobre sul quotidiano la Verità, intitolato “Nuovi studi e il bollettino dell’Istituto Superiore di Sanità (Iss) smontano le balle sui vaccini,” il direttore Maurizio Belpietro scrive: «I dati dell’Iss dimostrano che chi si è sottoposto alle tre iniezioni si infetta più facilmente di chi non le ha fatte».

 Ovviamente, non è vero nulla.

Anzi, quel documento dell’Iss dimostra che chi è vaccinato si infetta meno di chi non è vaccinato in tutte le fasce di età, e soprattutto è protetto dalla malattia grave e dalla morte, cosa che Belpietro stranamente si dimentica di dire.

Per continuare a leggere questo articolo 

ANDREA CASADIO. È medico, giornalista e autore tv. Ex docente universitario ed ex ricercatore di neuroscienze alla Columbia University di New York, ha partecipato agli studi sulla memoria che hanno permesso a Eric Kandel, capo del laboratorio, di ottenere il premio Nobel per la Medicina nell'anno 2000. Ha collaborato come inviato e autore televisivo a varie trasmissioni (Turisti per caso, Sciuscià, Velisti per caso, Annozero, Servizio pubblico, Piazzapulita).

Andrea Casadio per editorialedomani.it il 3 novembre 2022.

Certe volte mi domando come facciano certi giornalisti italiani a scrivere quello che scrivono quando parlano di Covid. Mi chiedo: non capiscono i dati e le pubblicazioni scientifiche che leggono, non hanno le competenze e le conoscenze tecniche per interpretarli, oppure manipolano volontariamente i numeri e la realtà a loro uso e consumo? Forse un mix delle tre ipotesi. 

Questa volta vi voglio parlare di un articolo scritto da Maurizio Belpietro pubblicato il 31 ottobre sul quotidiano che dirige, la Verità, intitolato “Nuovi studi e il bollettino dell’Istituto Superiore di Sanità (Iss) smontano le balle sui vaccini”.

Scrive Belpietro: «I dati dell’Iss dimostrano che chi si è sottoposto alle tre iniezioni si infetta più facilmente di chi non le ha fatte».  Ovviamente, non è vero nulla. 

Belpietro prosegue: «C’è un grafico diffuso dell’Iss che taglia la testa al toro a qualsiasi polemica sulla diffusione del Covid da parte dei non vaccinati rispetto a coloro che si sono sottoposti all’iniezione antivirus». 

Nel grafico, scrive Belpietro, «si scopre che coloro che non hanno offerto il braccio alla patria hanno un tasso di incidenza – ossia di contagio – ogni 100.000 abitanti inferiore rispetto a chi ha portato a compimento il ciclo vaccinale per la fascia che va dai 12 ai 60 anni. Solo per gli ultraottantenni la curva torna a favore di chi si è vaccinato».

Sembrerà strano, ma è vero esattamente l’opposto: quel documento dell’Iss dimostra che chi è vaccinato si infetta meno di chi non è vaccinato in tutte le fasce di età, e soprattutto è protetto dalla malattia grave e dalla morte, cosa che Belpietro stranamente si dimentica di dire. 

Basta leggerlo, questo famoso documento, e uno capisce. Se si osserva la figura a cui fa riferimento Belpietro, per la precisione la numero 24, si può notare alla prima occhiata che dal marzo di quest’anno fino a oggi il tasso di incidenza del Covid ogni 100mila abitanti tra i non vaccinati è costantemente superiore a quello dei vaccinati per ogni classe di età (dai 12 ai 39 anni, dai 40 ai 59, dai 60 ai 79 e dagli 80 in su).

E chi è vaccinato ha una probabilità di essere contagiato dal virus tanto più bassa quanto più alto è il numero dei suoi richiami e quanto più recente è la data in cui ha fatto il richiamo: chi ha fatto la quarta dose rischia di essere contagiato meno di chi ha solo la terza, e chi lo ha fatto da più di 120 giorni rischia più di chi lo ha fatto da meno di 120 giorni.

C’è solo una eccezione: nell’ultimo mese, il rischio di contagio sembra più alto tra i non vaccinati che tra i vaccinati, ma solo nelle classi di età tra 12 e 59 anni, mentre i vaccinati dai 60 in su hanno un rischio di contagio molto inferiore rispetto ai non vaccinati di pari età. 

Come mai accade questo apparente paradosso? Lo spiega il bollettino stesso.

Sotto la figura c’è scritto: «Il tasso di incidenza degli ultimi 30 giorni potrebbe essere sottostimato. A causa dell’elevato numero di nuove infezioni, spesso non diagnosticate o autodiagnosticate e quindi non riportate alla sorveglianza, il numero delle persone a rischio considerate per il calcolo del tasso di incidenza e verosimilmente sovrastimato, in particolare nelle fasce 12-39 e 40-59. E inoltre verosimile la presenza di una piu elevata sottonotifica delle diagnosi nella popolazione non vaccinata e vaccinata da oltre 120 giorni».

Che cosa significa? Significa che dato che la notifica della positività al coronavirus avviene su base volontaria, è assai probabile che molti – specie tra i non vaccinati, che non si fidano dello stato, e specie negli ultimi mesi, visto che è decaduto l’obbligo del green pass – non abbiano comunicato alle autorità sanitarie che erano stati positivi al coronavirus, e quindi erano diventati immuni al coronavirus. 

In altre parole, secondo il bollettino nell’ultimo mese tra i non vaccinati solo 1.959 persone ogni 100mila sono risultate infette dal virus, ma è probabile che siano molto di più dato che soprattutto i non vaccinati sono più restii degli altri –  diciamo così, per militanza – a comunicare allo stato la propria positività. Ma questo sballa ogni confronto.

Gli scienziati dell’Iss lo dicono chiaro e tondo: queste cifre non sono attendibili perché probabilmente i positivi non vaccinati sono molti di più, e quindi in realtà i vaccini proteggono dal contagio anche adesso, come hanno sempre fatto.

Ogni bravo scienziato sa che tutti i dati raccolti su base volontaria non hanno praticamente valore statistico, valgono solo come indicazione di tendenza, difatti in nessuna pubblicazione scientifica seria sul Covid si usa “il numero dei cittadini che comunicano la propria positività allo stato”.

Ve lo spiego con un esempio. Immaginiamo che voi vogliate calcolare il numero dei cittadini italiani che hanno un reddito superiore ai 100mila euro. Cosa fate? Annunciate: “Chi ha un reddito superiore ai 100mila euro lo comunichi al comune”, e magari nella mia Bologna – città di 400mila abitanti – si presentano in quattro, così calcolate che 1 italiano su 100mila ha un reddito superiore ai 100mila euro: prendereste questa cifra come buona? Io no. 

Difatti nessuno statistico si fiderebbe di questo dato. Uno statistico serio userebbe altri metodi: per esempio, sorteggerebbe a caso i conti bancari di 10milacittadini di Bologna oppure prenderebbe i conti bancari dei cittadini di un intero quartiere della città, e vedrebbe quanti di questi hanno entrate superiori ai 100mila euro annui, e da qui stimerebbe il numero di cittadini italiani con reddito superiore ai 100mila euro. Gli statistici fanno proprio così.

In quello stesso bollettino dell’Iss si trovano statistiche sulle quali non si può mentire, e che Belpietro dimentica di citare, forse perché dimostrano che i vaccini sono efficaci eccome. 

Quando ti ammali di Covid grave e ti devono ricoverare in ospedale o addirittura in terapia intensiva, o peggio ancora muori, non sei tu che decidi se comunicarlo o no. I medici lo notificano allo stato, e basta.

La figura 25 del bollettino e le relative tabelle dimostrano che chi è vaccinato ha una probabilità tre volte inferiore di finire in ospedale o in terapia intensiva e sei volte inferiore di morire rispetto a chi non è vaccinato; per certe classi di età il rischio è ancora minore: per esempio, chi è vaccinato e ha più di 70 anni corre un rischio di morire di Covid dieci volte inferiore a un non vaccinato. 

Lo stesso bollettino dimostra che la quarta dose protegge in maniera efficientissima dalla malattia grave e dalla morte. 

Ma c’è di più. Nello stesso articolo, Belpietro scrive: «Aggiungo una ulteriore considerazione per i tanti che ancora si impalcano a distribuire lezioni a chi ha ritenuto liberamente di non vaccinarsi. Secondo uno studio del Journal of Clinical Medicine, l’immunità naturale, cioè quella conseguita da chi si è ammalato di Covid ed è guarito, dura più a lungo di quella indotta dai vaccini».

Chiariamo alcune cose. Per prima cosa, lo “studio” a cui fa riferimento Belpietro non è uno studio. Gli “scienziati” citati del Belpietro non hanno fatto uno studio, cioè una analisi statistica su una popolazione. No. 

Alcuni “studiosi” italiani, molti dei quali ignoti alla comunità scientifica, hanno pubblicato un articolo dal titolo: “SARS-CoV-2- il ruolo dell’immunità naturale: una revisione narrativa”, e che quindi – come scrivono loro stessi – è una “revisione narrativa” e non uno studio. 

Cioè, hanno preso alcuni articoli scientifici alla rinfusa, molti dei quali di scarso valore scientifico, e senza uno straccio di analisi statistica hanno dedotto che l’immunità naturale indotta dal Covid dura più di quella indotta dal vaccino.

Invece, decine e decine di articoli scientifici provano che l’immunità indotta dal vaccino è più efficace e duratura di quella indotta dalla infezione del virus. 

Poi, quella su cui è pubblicato l’articolo non è una rivista scientifica vera e propria – difatti non è catalogata su Pubmed, il database della scienza – ma una rivista predatoria, dove chiunque può pubblicare un articolo sborsando pochi dollari.

Che ne so, io potrei scrivere uno “studio” in cui affermo che mangiare merluzzo previene il Covid, dato che la vitamina D contenuta nel pesce fortifica il sistema immunitario, e se pago lo potrei tranquillamente pubblicare su una rivista predatoria. 

E gli autori di quello studio? Il primo autore è la dottoressa Sara Diani, una omeopata della scuola di musicoterapia dell’università Jean Monnet di Padova, ignota alla scienza; e tra gli altri figurano il dottor Eugenio Serravalle, noto medico No-vax, e il dottor Alberto Donzelli, della Fondazione Allineare Sanità e Salute. Ecco, allineiamo sanità e salute, così magari scopriamo che suonare il flauto dolce previene il Covid.

Covid, tutte le fake news del presidente Sergio Mattarella. L'Indipendente il 30 ottobre 2022.

Dopo le ormai note conferenze stampa di Mario Draghi, in cui l’ex premier ha più volte rifilato numerose fake news a stampa e opinione pubblica – da quella secondo cui il green pass garantisce di «ritrovarsi tra persone non contagiose» alla celebre «Non ti vaccini, ti ammali, muori. Oppure fai morire: non ti vaccini, ti ammali, contagi, qualcuno muore» – ora è la volta del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che intervenendo alla celebrazione de “I Giorni della Ricerca”, ha diffuso una serie di affermazioni pseudo-scientifiche sul Covid che ad una attenta analisi si mostrano assolutamente prive di qualsiasi base scientifica a supporto.

«Senza l’ammirevole impegno della scienza per individuare i vaccini, scoperti e prodotti in tempi record, anche grazie alle scoperte realizzate nella lotta contro il cancro oggi saremmo costretti a contare molte migliaia di morti in più. Se oggi possiamo, nella gran parte dei casi, affrontare il Covid, come se si trattasse di un’influenza poco insidiosa, è perché ne è stata fortemente derubricata la pericolosità per effetto della vaccinazione; dalla grande adesione alla vaccinazione, dovuta all’ammirevole senso di responsabilità della quasi totalità dei nostri concittadini, sollecitati a farvi ricorso dalla consapevolezza di salvaguardare, in tal modo, la salute propria e quella degli altri», queste le parole declamate da Mattarella.

Di nuovo, quindi, il presidente è tornato ad affermare “verità” che tali non sono, in quanto non suffragate da alcun dato scientifico oppure ormai smentite senza dubbio. Che il Covid sia evoluto verso la forma di «un’influenza poco pericolosa» per effetto dei vaccini è questione non suffragata da alcun dato scientifico. Il Sars-COV-2, come ogni virus, ha prodotto innumerevoli varianti che lo hanno reso progressivamente maggiormente adatto al corpo umano. Il modo in cui solitamente i virus evolvono è conosciuto da lungo tempo dai ricercatori, per dirla con il biologo americano Jared Auclarir: «Se il virus uccide la persona che lo ospita muore con lui vanifica totalmente il suo scopo. Poiché l’obiettivo di un virus è sopravvivere, replicarsi e diffondersi, esso tende ad evolversi per essere più contagioso e meno letale». Nessun indizio, ricerca o teoria con una autorità scientifica permette di ipotizzare che – come detto da Mattarella – il virus sia evoluto verso forme meno letali grazie alla campagna vaccinale.

Stupisce poi anche per tempismo il passaggio presidenziale sul «senso di responsabilità» degli italiani che vaccinandosi hanno «protetto gli altri». Una dichiarazione che suona paradossale dopo le ammissioni della dirigente Pfizer Janine Small, che ha ammesso – dopo mesi di bugie veicolate anche dalla sua stessa azienda – che la multinazionale americana non ha testato l’efficacia dei vaccini nel prevenire il contagio ma solo nel prevenire le forme gravi di malattia. Una dichiarazione che ha certificato ciò che i bollettini istituzionali hanno evidenziato da sempre monitorando la realtà: chi si è vaccinato si contagia – e verosimilmente contagia gli altri – in modo analogo a chi non si è vaccinato. Consultando i dati dell’ultimo report di Epicentro, ad esempio, si evince che nella fascia 60-79 anni la quota dei contagiati con la quarta dose è pressoché identica a quella dei non vaccinati.

Passiamo infine alla retorica sulla «grande adesione alla vaccinazione dovuta all’ammirevole senso di responsabilità della quasi totalità dei nostri concittadini». Sottolineando solo l’adesione volontaria alla campagna vaccinale Mattarella si dimentica un particolare. L’Italia è stato il Paese – per dirla con il Washington Post – dove il governo si è spinto «in territori inesplorati dalle democrazie occidentali» dividendo «la società in diversi livelli di libertà». Green pass, super green pass, multe, sospensioni dal lavoro, revoca degli stipendi, impossibilità di fare sport anche per i ragazzini, sono solo alcune delle misure con le quali l’Italia ha forzato «il senso di responsabilità» dei cittadini attuando politiche che Amnesty International non ha esitato a definire «un fallimento pieno di discriminazioni».

"Prove costruite". Assolto il medico accusato di omicidio colposo durante il Covid. Francesca Galici l'1 Luglio 2022 su Il Giornale.

L'accusa imputava al medico la somministrazione di due farmaci letali ai malati di Covid per i quali si è sempre dichiarato innocente.

Assoluzione da parte della corte d'assise di Brescia per il medico Carlo Mosca, accusato di omicidio volontario. Il medico era stato sospeso dal pronto soccorso dell'ospedale di Montichiari ed era a processo per la morte di due pazienti Covid di 61 e 79 anni, ricoverati a marzo 2020. L'accusa aveva chiesto 24 anni di carcere per omicidio volontario, la difesa l'assoluzione sostenendo che "dietro questa vicenda ci sia tutta una macchinazione".

L'uomo si trovava agli arresti domiciliari dal 25 gennaio 2021. Secondo l'accusa il medico avrebbe somministrato Propofol e Succinilcolina, "farmaci incompatibili con la vita" che andrebbero utilizzati prima dell'intubazione di un paziente. Intubazione che nei casi in questione non è mai stata eseguita. "Nessuno ha visto Mosca somministrare i farmaci ma l'intercettazione ambientale del 2 luglio 2020, quando Mosca risponde 'eh sì' a chi gli chiede se avesse usato quei farmaci è stata ritenuta un'ammissione. Ed è alla base, insieme alla presenza del Propofol nel corpo di uno dei cadaveri riesumati, della richiesta d'arresto", ha detto in aula il pm Federica Ceschi.

A denunciare il caso è stato un infermiere ma il medico si è sempre professato innocente, parlando di complotto: "Io non ho somministrato il Propofol. Qualcuno ha voluto farmi del male e può averlo iniettato a paziente già morto". Una "spiegazione fantasiosa, una assurdità", per il pm Ceschi, secondo cui "l'unico che ha avuto lo spazio e il tempo per iniettare il Propofol è stato Mosca". La difesa del medico sospeso del Pronto soccorso di Montichiari ha chiesto invece l'assoluzione: "Siamo davanti a una serie di prove costruite. A partire dalla chat tra gli infermieri che si scambiano una foto con fiale di farmaci gettate in un cestino". Così ha dichiarato l'avvocato Elena Frigo, sottolineando che i "due infermieri lo accusano ma in aula si contraddicono, mentre un intero reparto sta dalla parte di Mosca e non crede alle maldicenze diffuse dai due infermieri. Non sappiamo che cosa abbia spinto le due persone a dire quelle cose. Ma riteniamo che l'ipotesi accusatoria sia fantascientifica".

Dopo due ore di camera di consiglio la corte d'assise di Brescia ha disposto la cessazione della misura degli arresti domiciliari. Inoltre, è stata disposta anche la trasmissione degli atti in procura per calunnia nei confronti dei due infermieri che avevano accusato il medico.

Covid, Hoara Borselli: “La liturgia del terrore non va in vacanza”. Hoara Borselli, Giornalista, su Il Riformista il 30 Giugno 2022 

Siamo ripiombati nella solita narrazione liturgica del terrore sul Covid.

È innegabile che ci sia un’ondata di contagi dalla variante Omicron 5, si contano circa un milione di positivi. Ma la domanda che mi pongo è la seguente: quando si può iniziare veramente ad affrontare questo virus come una malattia endemica ed abbandonare definitivamente quel clima di emergenza perenne che vuole renderci tutti dei pazienti a vita? È giusto o no fomentare un clima di allerta ed instillare negli italiani la convinzione che questo virus sarà per noi una costante minaccia?

A leggere i titoli di oggi che campeggiano sulle prime pagine dei principali quotidiani nazionali sembra che si voglia persistere nel dire che nulla è cambiato. Ci sono stati i vaccini, c’è ormai un atteggiamento consapevole rispetto alle precauzioni individuali, ma tutto questo non basta per dire che forse qualcosa è cambiato.

Che l’approccio deve essere diverso ce lo dice il Primario del reparto di malattie infettive dell’Ospedale San Martino di Genova, Bassetti. Dobbiamo mentalizzarci a trattare come endemia quella che fino a ieri era una pandemia.

Questa mattina ero presente con lui in un dibattito durante la trasmissione Morning News e ha ribadito senza alcuna esitazione che continuare a trasmettere bollettini giornalieri con numeri e percentuali è deleterio.

Lo è per le persone che si sentono divise in due fazioni, i buoni che non si riescono a staccare dalle mascherine e che si sentono quindi ancora in pericolo e i cattivi che invece stanno affrontando anche questa ondata con la consapevolezza di viverla senza allarmismi e che hanno abbandonato il feticcio sul volto.

Ha tuonato a gran voce che i numeri non indicano nulla perché le terapie intensive sono occupate per l’80% da fragili che hanno altre patologie e si sono poi scoperti “anche” positivi al Covid. Detta così è un po’ diversa la narrazione non trovate? Essere contagiati non vuol dire essere malati.

Leggendo però la grande stampa è palese che non c’è alcun interesse a far si che si vogliano tranquillizzare gli italiani. Vi riporto qualche titolo di oggi.

“Messaggero”: Tornano le mascherine al chiuso? L’assessore alla sanità del Lazio: “Chiederò l’obbligo al governo”.

“La Stampa”: Crisanti: «La nuova ondata? Sarà come una vaccinazione di massa. Basta tamponi fai-da-te, serve un’indagine sui positivi» E ancora sul “Messaggero”: virologi si dividono mentre riesplodono i contagi

Capite che tutto questo non fa altro che da cassa di risonanza alla paura. Sembra essere tornati indietro di mesi. Sembra che i vaccini non siano mai esistiti. È anche su questo che il Professore Bassetti ha lanciato un allarme.

“Questa campagna di terrore mediatico sarà deleteria per la prossima campagna vaccinale. Lancia un messaggio pericolosissimo. Sta dicendo agli italiani che nonostante i vaccini le terapie intensive di riempiono. È chiaro che tutto ciò porterà le persone a non fidarsi più quando verranno chiamate a sottoporsi all’inoculazione autunnale”.

Non so quale interesse possa esserci dietro la necessità di dover reiterare nel tenere gli italiani incatenati nella morsa della paura, qualunque esso sia, rischia di creare danni enormi.

A livello psicologico e alla nostra economia, con un turismo che rischia di bloccarsi se continuiamo ad offrire al mondo, l’immagine dell’Italia come di un Paese perennemente in stato di emergenza.

Dagotraduzione da Axios il 2 febbraio 2022.

Un numero crescente di musicisti ha recentemente annunciato che rimuoverà la propria musica da Spotify a causa della disinformazione COVID-19 sul podcast di Joe Rogan. Questi artisti si uniscono a Neil Young, che la scorsa settimana è diventato il primo artista di alto profilo a boicottare Spotify a causa di problemi di moderazione dei contenuti. 

Gli artisti che boicottano Spotify sono: 

1. Neil Young

«Lo sto facendo perché Spotify sta diffondendo informazioni false sui vaccini, causando potenzialmente la morte a coloro che credono in loro», ha scritto Young in una lettera la scorsa settimana chiedendo a Spotify di rimuovere la sua musica. Un portavoce di Spotify ha dichiarato che la piattaforma si rammarica della decisione di Young, ma spera «di dargli presto il benvenuto». 

2. Joni Mitchell

Anche Joni Mitchell venerdì scorso ha dichiarato che avrebbe rimosso la sua musica da Spotify «in solidarietà con Neil Young e le comunità scientifiche e mediche globali su questo tema». 

3. Nils Lofgren

Il chitarrista della E Street Band di Bruce Springsteen, Nils Lofgren, ha annunciato sabato in una lettera sul sito web di Young che si sarebbe unito anche lui al boicottaggio per la disinformazione sui vaccini. Lofgren ha affermato di essere al fianco di operatori sanitari, scienziati e altri nell’accusare Spotify di promuovere la disinformazione sui vaccini. «Quando queste donne e uomini eroici, che hanno passato la loro vita a guarire e salvare la nostra vita, chiedono aiuto, non voltare loro le spalle per denaro e potere. Li ascolti e stai con loro», ha scritto.

4. India Arie

La cantante India Arie ha annunciato lunedì su Instagram che anche lei sta rimuovendo la sua musica e il suo podcast dalla piattaforma, citando preoccupazioni per i commenti passati di Rogan sulla razza e sul COVID-19. «Neil Young ha aperto una porta che devo attraversare», ha scritto.

«Credo nella libertà di parola. Tuttavia, trovo Joe Rogan problematico per ragioni diverse dalle sue interviste Covid. Per me, è anche il suo linguaggio sulla razza». 

5. Graham Nash

Il cantautore Graham Nash ha annunciato martedì via Instagram che «avendo sentito la disinformazione Covid diffusa da Joe Rogan su Spotify, sono completamente d'accordo e sostengo il mio amico, Neil Young». «Chiedo che le mie registrazioni da solista vengano rimosse dal servizio», ha aggiunto in una dichiarazione, per Variety.

Rispondendo alla controversia, il CEO di Spotify Daniel Ek ha raddoppiato l'impegno della piattaforma per «l'espressione del creatore» e ha promesso di essere più trasparente sulle sue regole, ha scritto Sara Fischer di Axios. 

In un video pubblicato su Instagram domenica sera, Rogan ha negato di aver promosso la disinformazione e ha detto che avrebbe «fatto di più per convincere persone con opinioni diverse» sul suo programma e «del mio meglio per assicurarmi di aver studiato questi argomenti».

Covid, masse di analfabeti e influencer della "scienza": così per difendere la salute l'abbiamo fatta a pezzi. Iuri Maria Prado su Libero Quotidiano il 25 gennaio 2022.

Ora qualcuno comincia ad accorgersi di quanto sono amari i frutti dell'inseminazione pan-salutista con cui s' è preteso di preparare il terreno della battaglia contro il virus. L'idea sbagliatissima si fondava sul fraintendimento micidiale per cui le energie dell'azione politica dovessero essere impegnate sul fronte medico-sanitario. E il problema non era solo che in nome di quel fraintendimento era possibile sacrificare tutto, libertà essenziali, attività economiche, istruzione e perfino la messa: il problema era anche che il canone "prima la salute" avrebbe finito per far pagare un prezzo incalcolato proprio in termini di salute pubblica, salvo credere che suicidi, depressione, sbando sociale, scientifica produzione di masse di analfabeti, ineducazione al lavoro, prolungata inibitoria delle relazioni sociali, non attentino in modo anche più grave al bene che quella politica vorrebbe proteggere.

Lo osservammo, dall'inizio di quella vera e propria follia, per spiegare che il problema politico in tempo di guerra non è dar armi ai generali, ma mantenere la vita nelle città sotto i bombardamenti. E vale anche per la comunicazione che in tempo di guerra non è appaltata ai colonnelli come qui, invece, è stata affidata agli influencer della "scienza".

È benvenuto chi (vedi Veltroni, sul Corriere) spiega oggi che occorre "accelerare verso la normalità". Ma la normalità si raggiunge in sicurezza solo riconoscendo che è stata abbandonata spericolatamente. 

Il nuovo delirio ecologista: sterilizzarsi per fermare il cambiamento climatico. LA CHIAMANO “VASECTOMIA CLIMATICA”: È L’ULTIMA FOLLIA PRODOTTA DALL’IDEOLOGIA GREEN E PROGRESSISTA. Redazione di Nicolaporro.it il 26 Gennaio 2022.

Si chiama “vasectomia climatica” ed è esattamente la follia che il nome roboante e dal sapore politically correct lascia immaginare: sterilizzarsi volontariamente per limitare il proprio impatto ambientale.

Ne ha parlato qualche giorno fa Vanity Fair, citando uno studio secondo cui “l’azione più efficace che un individuo possa intraprendere per aiutare il pianeta sarebbe avere un figlio in meno”. Potremmo anche concluderne che, se il cambiamento climatico è accelerato da fattori antropici, la soluzione ideale sarebbe direttamente quella di far sparire il genere umano. Nel mondo, comunque, si stima che siano fino a 60 milioni i maschietti, alcuni dei quali contagiati dal delirio verde, che si sono privati deliberatamente della possibilità di generare una vita. Vanity Fair cita l’intervista al Guardian di un medico australiano, Nick Demediuk, il quale racconta di aver trattato almeno 200 pazienti giovani e senza figli, tra cui circa 130 gli avrebbero confessato di volersi sottoporre all’intervento (con il quale si recidono i dotti che trasportano lo sperma dai testicoli) per ragioni ambientali. Uno degli squinternati sentito dal quotidiano inglese, un trentaseienne americano, riferisce di essersi convinto dopo l’elezione di Donald Trump (ma vi rendete conto?): “Stiamo portando gli ecosistemi fuori equilibrio”, si è messo a predicare, “causando l’estinzione di massa di innumerevoli specie”. Ecco: se tutti (s)ragionassero come lui, la prossima a estinguersi sarebbe la nostra.

Non c’è da meravigliarsi se in questo pazzo mondo siamo arrivati a una simile deriva di fanatismo. Nell’era in cui, come ha lamentato papa Francesco, gli animali domestici hanno sostituito i figli, non è così strano se pure noi finiamo con il sottoporci alle sterilizzazioni chirurgiche, alla stregua dei nostri animali domestici.

Ironia a parte – e tenuto conto che il fenomeno, com’è ovvio, riguarda un’esigua minoranza di babbuassi – va però sottolineato che il terrorismo green sta provocando i suoi gravi danni psicologici tra le giovani generazioni, seguaci di Greta Thunberg. La stessa attivista svedese, già affetta da sindrome di Asperger, aveva ammesso di essere stata profondamente turbata, fino addirittura alla depressione, dai documentari catastrofisti che le sottoponevano in classe, quando, a 7 anni, ancora frequentava la scuola tutti i giorni. La cosiddetta “ecoansia” sta dilagando tra i giovanissimi e, come riporta Michael Schallenberger nel libro L’apocalisse può attendere, ce ne sono parecchi che sono stati convinti, dalla propaganda ecologista radicale, che non arriveranno a 30 anni, o che entro pochi decenni, prima che possano semplicemente invecchiare, saranno destinati a un’orribile morte causata da qualche cataclisma.

Come stupirsi se, alla fine, in tema di quelle che le femministe chiamerebbero “scelte riproduttive”, un certo numero di persone si abbandona alle farneticazioni? Sono pur sempre gli epigoni in salsa verde del vecchissimo pessimismo eracliteo. Il filosofo greco, in un frammento, apostrofava così i contemporanei: “Mettono al mondo figli, in modo che altri destini di morte si compiano”. Allora non esistevano così bravi chirurghi…

"Questi dati non tornano". Giletti inchioda Speranza in diretta. Luca Sablone il 20 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Il conduttore di Non è l'arena ha confrontato i dati del ministro della Salute con quelli dell'Istituto superiore di sanità: ecco cosa non torna.

Continua a far discutere la slide mostrata da Roberto Speranza nel corso della conferenza stampa dello scorso 10 gennaio. Fin da subito in molti hanno esternato le proprie perplessità dai dati resi pubblici dal ministro della Salute. Del caso si è occupato Non è l'arena, programma in onda il mercoledì sera su La7: il conduttore Massimo Giletti ha confrontato i numeri presentati dal titolare della Sanità con quelli pubblicati cinque giorni più tardi dall'Istituto superiore di sanità.

Giletti stana Speranza

"Speranza aveva al suo fianco Draghi. Bisogna essere molto attenti sulle cose che si fanno. Evidentemente all'Iss si erano accorti che qualcosa non era andato per il verso giusto...", ha tuonato Giletti. Il punto è questo: il ministro della Salute ha portato in conferenza stampa dei numeri che si riferivano all'arco temporale che va dal 12 novembre 2021 al 12 dicembre 2021. Un range troppo più in là, che fotografava una situazione ormai del passato?

Il 15 gennaio 2022 l'Istituto superiore di sanità ha reso noti i dati in riferimento al periodo tra il 26 novembre 2021 al 26 dicembre 2021, ovvero più a ridosso della conferenza stampa del 10 gennaio 2022. Dunque la fotografia scattata dall'Iss dovrebbe ritenersi più recente rispetto a quella presentata da Speranza.

Il grafico pone in alto al centro il termine "terapia intensiva". Quel giorno si afferma che i non vaccinati corrispondono alla cifra di 6.660.263 persone. Invece nel grafico dell'Istituto superiore di sanità si legge che in quell'arco di tempo ammontano a 6.873.025. Altra riflessione importante va data alla questione dei booster: per la slide del ministro corrispondevano a 8.102.818, mentre per quella dell'Iss a 5.697.985.

Per Giletti questa è stata l'occasione per tirare una serie di frecciatine all'indirizzo del ministro Roberto Speranza, richiamato all'attenzione per una corretta informazione e comunicazione dei dati ufficiali in un momento già di per sé caotico per l'intero Paese: "Vuol dire che evidentemente hanno preso un punto di riferimento, un giorno, che non era lo stesso. Alla fine la credibilità è anche nella correttezza delle cose che si dicono. Come si fa ad andare in una conferenza stampa così importante dando dei dati vecchi?".

Il conduttore di Non è l'arena ha lanciato infine una sorta di "provocazione", visto che Speranza non interviene negli studi della sua trasmissione ma preferisce affidare la sua voce ad altri programmi televisivi: "Io mi dico, ministro... Quando va da Fabio Fazio si faccia fare la domanda: tra Iss e ministero vi parlate? È incredibile che i suoi uomini abbiano esposto Draghi a una figura di questo tipo".

Luca Sablone. Classe 2000, nato a Chieti. Fieramente abruzzese nel sangue e nei fatti. Estrema passione per il calcio, prima giocato e poi raccontato: sono passato dai guantoni da portiere alla tastiera del computer. Diplomato in informatica "per caso", aspirante giornalista per natura. Provo a raccontare tutto nei

Giuseppe Salvaggiulo per "la Stampa" il 18 gennaio 2022.

La quarta ondata di pandemia ha prodotto anche una quarta ondata di fake news, spiega il report sulla disinformazione in Italia, pubblicato da Italian Digital Media Observatory monitorando con cadenza mensile cinque progetti editoriali che hanno un servizio di verifica fattuale. A dicembre gli articoli di smascheramento di fake news sono stati 212, di cui 146 (il 69%) in tema di pandemia. Un dato in crescita rispetto al 58% di novembre. Il report certifica che la curva della disinformazione è analoga a quella pandemica.

«Analizzando la disinformazione circolata nell'Unione Europea nel periodo giugno - dicembre 2021 - scrivono gli analisti - abbiamo riscontrato che all'aumentare dei contagi aumenta il peso della disinformazione a tema Covid-19 sul totale della disinformazione rilevata. Anche i dati italiani sembrano confermare questo trend». La disinformazione ha trovato nel Covid un formidabile terreno di coltura. E nelle posizioni sempre più radicalizzate dei No Vax un'audience particolarmente ricettiva. Basti dire che gli altri temi su cui si concentrano le fake news, peraltro con numeri enormemente inferiori, sono volatili. A novembre era il clima, a dicembre l'economia e la politica nazionale (15 articoli in tutto, un decimo del virus).

Interesse crescente Ma anche gli articoli di debunking (verifica e smascheramento di fake news) suscitano un interesse crescente. I siti presi in considerazione dalla ricerca documentano che a dicembre gli articoli più letti avevano come oggetto la disinformazione sul Covid o comunque argomenti collegati alla pandemia, a sfondo politico o sanitario.

Nella classifica delle fake news smontate: il dato (falso) della Fifa secondo cui nel 2021 sono quintuplicate le morti cardiache improvvise di calciatori; l'annuncio (falso) della presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, di voler eliminare il codice di Norimberga, varato dopo la condanna dei medici nazisti per regolare gli esperimenti medici su esseri umani; la (falsa) narrazione No Vax di Robert Malone, studioso sostenitore della tossicità della proteina spike dei vaccini; la (falsa) notizia di 17 bambini morti su 500 vaccinati in Veneto, che associa due dati diversi: i bambini vaccinati e i morti per Covid nello stesso giorno.

«Le prime tre sono state tra le più diffuse anche a livello europeo», scrive il Report citando i dati del network Edmo che raduna organizzazioni in tutto il continente, sotto l'egida dell'università di Firenze. In Europa ha suscitato molto interesse anche la notizia (falsa) secondo cui l'ex caposala dell'University Medical Center di Lubiana si è dimessa e ha svelato l'esistenza di un codice segreto in base al quale ad alcuni pazienti viene dato un placebo al posto del vaccino, e ad altri viene iniettato un siero che causa il cancro.

Il censimento del web La produzione di fake news è vorticosa. A novembre, in Europa, le più gettonate tra quelle smascherate erano: la diffusione di immagini di manifestazioni associate a presunte manifestazioni No Vax (ma in realtà si trattava di altri contesti, anche di anni precedenti al 2021); la rivelazione (falsa) della pianificazione della diffusione della pandemia, a cui era allegato un documento con i loghi della Johns Hopkins University, dell'Organizzazione mondiale della sanità e della Fondazione Bill e Melinda Gates, in cui si evidenziava il calendario con la distribuzione delle varianti del coronavirus; la (falsa) notizia di un suicidio legato al vaccino come «genocidio» e la presunta revisione delle stime dei morti da Covid da parte dell'Istituto Superiore di Sanità.

Il gruppo giornalistico NewsGuard ha identificato (l'ultimo dato disponibile risale a metà dicembre) 542 siti web che hanno pubblicato disinformazione sul Covid in Usa, Regno Unito, Francia, Germania e Italia, mettendo l'elenco a disposizione di piattaforme e governi. In Italia sono una cinquantina, contro i 42 della Germania e i 21 del Regno Unito che pure hanno una popolazione decisamente superiore.

La sottile arte di manipolare l’informazione. Gianni Riotta su La Repubblica il 27 Gennaio 2022.  

Dalla Guerra Fredda ai No Vax, dalle fake news ai dossieraggi un saggio ripercorre il fenomeno di creare una verità alternativa. Il 5 maggio del 1971, il compunto funzionario Lawrence Bitt apparve davanti alla Commissione Giustizia del Senato americano dichiarando: "La ragione per cui la disinformazione funziona sempre così bene è che tanti giornalisti e politici vogliono davvero credere ai nostri messaggi, che confermano le loro opinioni". Dietro lo pseudonimo "Bitt" si nascondeva in realtà la spia cecoslovacca Ladislav Bittman, dirigente della disinformazione per l'intelligence del Patto di Varsavia, e autore della leggendaria "Operazione Nettuno" del 1964, falsi documenti nazisti, che, misti ad autentici reperti hitleriani, vennero fatti ritrovare in un lago al confine con la Germania Ovest, per imbarazzarne i governi democratici. 

La censura e il vaccino per la disinformazione. Riccardo Luna su La Repubblica il 27 Gennaio 2022.  

Ieri sera ho aperto Spotify e lanciato la playlist di Neil Young. Prima che sparisca. La piattaforma infatti ha deciso di rimuovere tutte le sue canzoni dopo che la vecchia stella del rock aveva intimato: o me o Joe Rogan. Joe Rogan è il re del podcast. Uno con uno show ascoltato da oltre 10 milioni di persone per volta. E non si tratta di un prodotto banale: le sue interviste durano anche tre o quattro ore in cui Joe Rogan tiene la scena come certi leggendari conduttori radiofonici. Il fatto è che di  interviste ne ha fatta una ad uno scienziato che ha detto cose contro i vaccini sul covid. Disinformazione pericolosa!, hanno protestato centinaia dì scienziati. Da qui l’ultimatum dì Neil Young. Finito male per ora. Spotify ha scelto il re del podcast. Vedremo se altri, con più followers, seguiranno Neil Young ma intanto colpisce che la battaglia contro le fake news dopo i social network si stia estendendo a tutte le piattaforme. Spotify ha detto di aver rimosso oltre ventimila podcast perché facevano disinformazione. Ventimila podcast rimossi è un numero enorme: possiamo saperne di più? Chi ha deciso che andassero censurati? E perché Rogan no? 

Il prossimo terreno di scontro saranno le newsletter: è stato calcolato che i no vax usando la piattaforma Substack abbiano incassato in un anno due milioni e mezzo di dollari; e i fondatori hanno replicato di non voler limitare la libertà di espressione. E' un problema serio. In rete siamo fragili, esposti a mille stimoli di cui fatichiamo a capire i meccanismi. Ma anche la libertà di espressione non sta benissimo. E’ la censura il vaccino per recuperare la fiducia perduta? Non credo: quando finirà la pandemia dovremo ragionarci. 

Su giustizia e sanità informazione manipolata. Dalla persecuzione di Pittelli ai dati Covid. Fabrizio Cicchitto su Il Tempo il 15 gennaio 2022.

Sulla completezza e sulla libertà dell’informazione sono in atto operazioni assai pericolose che riguardano sia la giustizia che la sanità. Sulla manipolazione dell’informazione per ciò che riguarda la giustizia ci sarebbe da scrivere non un libro, ma una biblioteca. Allora concentriamo la nostra attenzione su un singolo caso, quello dell’avvocato Pittelli, vittima di un’autentica persecuzione resa ancor più efficace dall’assoluto silenzio che circonda il caso tranne la meritoria campagna svolta dal Riformista.

Pittelli è stato arrestato nella notte del 19 dicembre 2019 alle 3:30 del mattino. Fra i vari addebiti c’era quello di partecipazione ad associazione mafiosa. La documentazione era costituita da ben 29 faldoni. Nel primo interrogatorio svoltosi un giorno dopo Pittelli fu costretto ad avvalersi della facoltà di non rispondere perché né lui, né i suoi avvocati avevano potuto leggere una carta, però successivamente Pittelli non è stato più interrogato tranne che per un interrogatorio del tutto formale svoltosi a Nuoro da parte di pm che a loro volta non conoscevano le carte perché egli nel frattempo era stato trasferito nel carcere di massima sicurezza di Badcarros in Sardegna, operazione che rendeva assai difficili le visite di parlamentari e di familiari.

Ovviamente subito dopo l’arresto fu scatenata una campagna mediatica contro Pittelli anche con la pubblicazione di intercettazioni riguardanti la sua vita privata. Successivamente il tribunale della libertà ha ridimensionato le accuse (da associazione a concorso esterno), per cui egli ha ottenuto dopo molto tempo gli arresti domiciliari.

Pittelli però è stato nuovamente arrestato nel dicembre 2021 per aver mandato una lettera, con raccomandata a/r, al ministro Carfagna nella quale parlava del suo caso. A parte alcuni aspetti assai inquietanti di quest’ultima vicenda è evidente la linea persecutoria portata avanti dalla procura contro Pittelli. Adesso Pittelli ha inviato un telegramma al direttore del Riformista Piero Sansonetti nel quale dichiara: «Porterò lo sciopero della fame fino alle estreme conseguenze contro una giustizia mostruosa».

Ebbene, così come di fronte all’articolo sul Dubbio del magistrato Guido Salvini a proposito dei trucchi procedurali del pool di Mani Pulite, così sul caso Pittelli c’è un silenzio assoluto da parte delle televisioni e dei grandi giornali.

Passiamo al tentativo in corso di manipolare l’informazione anche sulla sanità. A nostro avviso se c’è una critica da rivolgere al governo e alle regioni sulla sanità è di avere attenuato il necessario rigore specie da ottobre fino alle feste di Natale per ragioni politiche e per ragioni economiche. Siccome adesso a causa della maggiore contagiosità della variante Omicron e dei precedenti errori stanno aumentando il numero dei contagi e, cosa gravissima, anche quello dei morti, alcuni presidenti di regione chiedono di cambiare le cifre escludendo dal computo gli asintomatici.

C’è da essere esterrefatti: forse gli asintomatici non sono in grado di contagiare gli altri? Ricordiamo a questo proposito che quando esplose il contagio a gennaio-febbraio 2020 la Regione Veneto, diversamente dalla Lombardia, evitò il peggio proprio perché fece tamponi a spron battuto identificando gli asintomatici. Ciò fu il frutto della collaborazione fra il presidente Zaia e il professor Crisanti (che successivamente purtroppo hanno litigato per ragioni mediatiche) e la Regione Veneto fece un’ottima figura di fronte al disastro verificatosi invece in Lombardia (poi in Lombardia le cose sono migliorate quando al posto dell’ineffabile Gallera sono arrivati all’assessorato alla Sanità Letizia Moratti e Guido Bertolaso). Adesso Zaia e Crisanti sul tema sostengono tesi opposte, ma quest’ultimo ha buon gioco nel ricordare che la proposta di non contagiare gli asintomatici, fatta per la chiara ragione economica per non far cambiare di colore la regione, punta ad imitare l’aperturismo di Johnson rimuovendo però il fatto che in Inghilterra in questi mesi ci sono stati ben 15.000 morti in più.

Non nascondiamo che dietro questa discussione c’è una questione di principio che riguarda l’interrogativo se la scelta fondamentale è quella di tutelare in primo luogo la salute o quella di assicurare comunque le attività economiche, indipendentemente dai contagiati e dai morti. Francamente a nostro avviso l’espressione «convivere con il contagio» ha un’ambiguità assai inquietante.

Mai così tanti morti da aprile. Il bollettino choc, aumentano anche i contagi. Il Tempo il 18 gennaio 2022.

Nuovo record assoluto di casi e di tamponi: i nuovi contagi in Italia nelle 24 ore sono 228.179, contro gli 83.403 di ieri ma soprattutto i 220.532 di martedì scorso, giorno del precedente record, un piccolo rimbalzo dopo il calo dei giorni scorsi. Con 1.481.349 tamponi, mai così tanti, e il tasso di positività che rimane stabile rispetto a ieri, 15,4%.

I decessi sono 434, picco della quarta ondata, mai così tanti dal 14 aprile scorso (ieri erano stati 287): il totale delle vittime sale a 141.825. In leggera diminuzione le terapie intensive, 2 in meno (ieri +26) con 150 ingressi del giorno, e sono 1.715 in tutto, mentre i ricoveri ordinari salgono di altre 220 unità (ieri +509), 19.448 in tutto. È quanto emerge dal bollettino quotidiano del ministero della Salute.

Gli attualmente i positivi sono 2.562.156.  I dimessi/guariti sono 220.811, per un totale di 6.314.444 dall’inizio dell’epidemia. A livello territoriale, le Regioni con il maggior incremento di contagi sono Lombardia (37.823), Puglia (28.589) e Veneto (25.166). 

Oggi nel Lazio su 22.945 tamponi molecolari e 97.206 tamponi antigenici per un totale di 120.151 tamponi, si registrano 13.286 nuovi casi positivi (+6.839), sono 26 i decessi (+9), 1.849 i ricoverati (+60), 207 le terapie intensive (+3) e +5.247 i guariti. il rapporto tra positivi e tamponi è all’11%. I casi a Roma città sono a quota 5.195.

Matteo Bassetti in aeroporto e il Greenpass: "Ora mi devono spiegare". La foto che imbarazza il governo.  Libero Quotidiano il 19 gennaio 2022.

Matteo Bassetti indignato. L'infettivologo del San Martino di Genova non nasconde il suo stupore nel vedere le stesse regole di un anno e mezzo fa, quando la pandemia da Covid era nel pieno del suo corso. Lo sfogo è arrivato direttamente su Facebook, dove l'esperto ha pubblicato una foto con tanto di spiegazione. "Imbarco del volo ITA da Roma a Genova. Per un volo di 45’ lunga coda per i controlli al gate per imbarcare forse 50-60 passeggeri. Io triplo vaccinato con mascherina ffp2 ho mostrato 2 volte il Green-pass e 2 volte mi hanno misurato la temperatura corporea (al controllo di sicurezza e poi al gate)". 

Da qui la denuncia: "Ora mi devono spiegare perché si controlla tutto due volte? E la temperatura? Che senso ha per un’infezione che decorre nella maggior parte dei casi in maniera asintomatica misurare la febbre? Abbiamo ancora le regole del maggio 2020 e chissà quando mai le cambieranno. Non stupiamoci poi se gli aerei sono vuoti e in Italia non vengano più i turisti. Troppe regole complicate e inutili. Occorre semplificare altrimenti sarà sempre peggio".

Per Bassetti semplificare non significa affatto eliminare le regole, ma semplicemente tenere solo quelle che sono strettamente necessarie. "C’è troppa lontananza tra obblighi e imposizioni e vita reale e percezione che servano veramente", è la sua conclusione. D'altronde l'infettivologo è da giorni che va chiedendo un nuovo passo nella gestione del coronavirus. In particolare nella diffusione dei numeri e del bollettino. Secondo l'infettivologo i contagi vanno dati per quello che sono: "Se una persona fa tre tamponi al giorno, contano per tre contagi. Questi tamponi bisogna associarli ai pazienti o si genera ansia, non è censura". 

Deltacron, "una menzogna dietro alla variante". Covid, operazione-terrore? Una inquietante scoperta. Giuseppe Valditara su Libero Quotidiano l'11 gennaio 2022.

Deltacron è dunque probabilmente una bufala. Così scrive il genetista Marco Gerdol su nature.com: «Vale la pena di spendere due o tre parole sulla questione Deltacron, visto chela notizia della presunta identificazione di una variante “ibrida” che combinerebbe mutazioni di Omicron e Delta sta iniziando a circolare con una certa insistenza sui media nazionali. E queste due o tre parole sono “Deltacron non esiste”». Francamente trovo controproducente che i media inseguano compulsivamente e con grande risalto tutte le evoluzioni della pandemia. Sappiamo che rimarrà a lungo e chela promessa che i vaccini lo avrebbero fatto sparire era una falsa promessa. I vaccini sono stati utilissimi: hanno dimostrato di servire ad attenuarne, nella gran parte dei casi, l’impatto e a rallentarne la diffusione.

La scienza segua con grande attenzione le varianti e predisponga rimedi, dopodiché torniamo a vivere normalmente, con le ben note precauzioni. Consapevoli che probabilmente per alcuni anni a venire dovremo imparare a convivere con questo virus.Continuare a tempestare l’opinione pubblica di notizie ansiogene rende invivibile quel poco di libertà e di serenità che ci rimane. Ma se è vero che questo virus non sparirà a breve, sono altre le questioni che dovremmo porci in questo momento. Chiediamoci piuttosto: è stato previsto di raddoppiare gli iscritti a Medicina? Quante risorse sono state stanziate per assumere docenti di Medicina per poter insegnare al doppio degli attuali iscritti? Sono stati moltiplicati i posti in certe specializzazioni strategiche? Si intendono autorizzare flessibilità salariali per incentivare a scegliere quei settori dove oggi nessuno vuole più lavorare per esempio la rianimazione e la medicina d’urgenza?

È stato previsto un piano di aumento significativo dei posti in terapia intensiva? È stato avviato il potenziamento della medicina domiciliare? E i pronto soccorso degli ospedali, vogliamo finalmente renderli efficienti? Sono stati previsti interventi per sanificare l’aria negli uffici pubblici e nelle scuole? Facciamo tutti il nostro dovere portando la mascherina quando siamo in presenza di altre persone, vacciniamoci, e magari spieghiamo agli amici che hanno paura che se si vuole vivere in una società occorre assumersi anche dei doveri, non solo pretendere diritti. E poi viviamo, e pretendiamo da chi ci governa che ci lasci vivere, perché di vita ne abbiamo solo una.

Dagospia l'11 gennaio 2022. Da “Radio Cusano Campus”.

Draghi sui no vax? E’ evidente che chi non si vaccina mette a rischio la propria salute e quella del Sistema sanitario. In reparto ho 19 ricoverati e 18 sono non vaccinati. Giusto tenere le scuole aperte, nessuno in Europa le ha chiuse”.  

Il Prof. Matteo Bassetti, primario di Malattie infettive all'ospedale San Martino di Genova, è intervenuto ai microfoni della trasmissione “L’Italia s’è desta”, condotta dal direttore Gianluca Fabi, Matteo Torrioli e Daniel Moretti su Radio Cusano Campus.

Per Draghi gran parte dei problemi dipendono dai no vax. “E’ evidente che chi non si vaccina mette a rischio la propria salute e quella del Sistema sanitario –ha affermato Bassetti-, oggi chi arriva in ospedale con il covid segue un percorso che porta via energia e risorse e quindi non vaccinarsi è una scelta che mette a rischio tutta la comunità. Nel mio reparto su 19 ricoverati, 18 sono non vaccinati e l’unico malato aveva un’endocardite e il tampone positivo, quindi non era un malato di covid”.

Sui numeri della pandemia. “Questa modalità di gestione del covid deve cambiare. Non dobbiamo continuare a contare come malati di covid quelli che vengono ricoverati per un braccio rotto e risultano positivi al tampone. Bisogna anche finirla col report serale, che non dice nulla e non serve a nulla se non mettere l’ansia alle persone, siamo rimasti gli unici a fare il report giornaliero.

Che senso ha dire che abbiamo 250mila persone che hanno tampone positivo? Bisogna specificare se sono sintomatici, asintomatici, sono ricoverati, stanno a casa. Da una parte sono numeri che ci fanno fare brutta figura col resto del mondo, perché sembra che vada tutto male e invece non è così, nella realtà altri Paesi che hanno molti più contagi di noi cercano di gestirli in maniera diversa.

Se continuiamo così finiremo con l’andare in lockdown di tipo psicologico e sociale. Continuando a fare tutti questi tamponi immotivati, arriveremo a un punto che avremo talmente tanti positivi e contatti con positivi che l’Italia si fermerà. La cosa importante sarebbe sapere quanta gente entra in ospedale con la polmonite da covid e quanta gente invece entra in ospedale per altre patologie e ha un tampone positivo. 

Bisogna capire se la pressione sugli ospedali è da polmonite da covid oppure se è dovuto all’enorme numero di tamponi che viene fatto. Ci vorrebbe una distinzione molto chiara. Bisognerebbe ascoltare un po’ di più i medici. Oggi questo virus per la maggioranza dei vaccinati dà una forma influenzale. Gli ospedali sono pieni di non vaccinati, che devono vaccinarsi. Nella gestione della pandemia ci vuole un cambio di passo necessario e urgente”.

Sulla scuola. “Bene ha fatto il governo a riaprire le scuole. Sarebbe stato incomprensibile chiuderle. I ragazzi trascorrono a scuola 5 ore della loro giornata, poi vanno ai giardinetti, all’oratorio, in piscina, in palestra, vanno a mangiare la pizza. Se nessun Paese in Europa ha deciso di chiudere le scuole, non è che noi possiamo pensare di essere i più furbi del reame. Cerchiamo di guardare anche fuori, perché in questa pandemia abbiamo fatto delle cose fatte bene, ma anche tante fatte male”.

Sul Covid ci stiamo concentrando sui numeri sbagliati? Cristina Marrone Il Corriere della Sera il 6 Gennaio 2022.

Con l’esplosione di casi di Covid alcuni esperti ritengono che l’attenzione andrebbe spostata dai nuovi contagi ai ricoveri ospedalieri. La raccolta dati resta fondamentale «ma in questa fase va cambiata la comunicazione». 

Sono ormai quasi due anni che viene diffuso il bollettino quotidiano con il conteggio dei nuovi casi Covid, gli «attualmente positivi» i ricoveri ospedalieri, i decessi, il tasso di positività. All’inizio della pandemia ogni giorno alle 17 era convocata una conferenza stampa con Angelo Borrelli che in diretta tv elencava numeri drammatici di ricoveri e decessi (sono stati sfiorati i mille morti il 3 dicembre 2020). Mesi dopo si è detto addio alla conferenza stampa, passando a un bollettino pubblicato online. 

Con l’arrivo della variante Omicron, che ha dimostrato un’importante evasione immunitaria, infettando anche chi ha già concluso il ciclo vaccinale, il numero delle infezioni giornaliere è schizzato alle stelle (ieri, 5 gennaio 2022, il dato record mai raggiunto di 189.109 contagi con 231 decessi: ed è probabile che il record non duri a lungo). Un anno fa i contagi erano stati 15.378 e 649 i morti. Tra il 27 dicembre e il 2 gennaio in Italia sono stati registrati 680 mila nuovi casi di coronavirus, quasi il triplo rispetto alla settimana precedente, mentre i dati sui ricoverati, (in area medica e terapia intensiva) e sui decessi, pur crescendo costantemente sono ancora lontani dai picchi che abbiamo toccato un anno fa, soprattutto se rapportati al numero dei contagi — e questo, non lo si ripete mai abbastanza, è grazie alla campagna vaccinale. 

Ora la domanda che molti si stanno ponendo è se non sia il caso di cambiare il modo di «contare» il Covid: abbassando la rilevanza data al conteggio dei nuovi casi giornalieri (o lasciandolo perdere del tutto) e non sia invece più opportuno concentrarsi sul numero dei ricoveri, il dato che più interessa per monitorare la pressione ospedaliera. 

È una buona idea? Quali sono le ragioni della richiesta, e quali effetti avrebbe? 

Da un lato un numero di casi così enorme sembra meno significativo del numero di ospedalizzazioni (il nostro sistema dei colori del resto non guarda al numero giornaliero di contagi nella scelta dei colori per le regioni, e dunque delle restrizioni). D’altro canto non contando i casi si rischia di vedere tardi l’onda delle ospedalizzazioni. 

Inoltre ridurre il Covid alle sole conseguenze per il sistema sanitario, senza guardare a quelle vissute dalla società nel suo insieme, come i servizi pubblici a singhiozzo per mancanza di personale o negozi chiusi perché proprietari e commessi sono positivi, potrebbe essere riduttivo e non fare cogliere la reale portata della pandemia, facendo passare in secondo piano un atteggiamento prudenziale più che mai utile in questa fase. 

Il consulente per la pandemia alla Casa Bianca, l’immunologo Antony Fauci, intervistato dall’ABC, ha detto che con molte infezioni che causano pochi o nessun sintomo «è molto più rilevante concentrarsi sui ricoveri rispetto al numero totale dei casi». (Anche gli Stati Uniti sono alle prese con numeri record. Con Omicron che infuria , i nuovi contagi di Covid-19 sono quadruplicati in una settimana e il 5 gennaio hanno raggiunto il numero record di un milione di casi in 24 ore, con 103 mila persone ricoverate negli ospedali). 

Anche il dottor Wafaa El-Sadr, direttore dell’ICAP, un centro sanitario globale presso la Columbia University, ha affermato che «il conteggio dei casi non sembra essere il numero più importante da tenere in considerazione in questo momento, mentre sarebbe più opportuno concentrarsi sulla prevenzione di malattia, disabilità e morte causate dal Covid in un contesto post vaccinazione, e quindi contare quelli». Senza dimenticare che il numero di infezioni in tutto il mondo è sottostimato dal momento che sono conteggiati solo i casi confermati con test antigenici e molecolari (sono esclusi i test fai da te) e non rientrano nei conteggi i molti asintomatici che proprio perché non hanno sintomi non si sottopongono a tampone. 

Molti altri esperti di salute non sono però d’accordo con l’idea di eliminare il conteggio dei casi positivi, fondamentalmente perché sulla base dei nuovi contagi è possibile ipotizzare come si evolverà l’epidemia. 

«Se puntiamo tutto su ricoveri e decessi — puntualizza il virologo dell’Università di Milano Fabrizio Pregliasco — rischiamo di rimanere indietro rispetto all’andamento dell’epidemia perché tra quando una persona si contagia e quando sviluppa sintomi passano fra i 3 e i 5 giorni; tra l’insorgere dei sintomi e il risultato dei tamponi ne passano altri 2-3. Quindi quel contagio ci sta dicendo come si stava muovendo l’epidemia una settimana prima. Con il dato dei ricoveri vediamo invece come si stava evolvendo l’epidemia 10-15 giorni prima. Se rinunciamo a conoscere il numero di contagi rinunciamo anche a capire cosa succederà a distanza di giorni rischiando di arrivare impreparati di fronte a uno tsunami di ricoveri».

In questo momento il numero di ricoveri non è elevatissimo rispetto al numero di positivi perché l’aumento dei contagi sta colpendo principalmente i giovani tra i 10 e i 29 anni, che in genere manifestano la malattia in modo più lieve. Tuttavia da settimane si registra un incremento progressivo dei contagi anche tra gli over 60 che, anche se vaccinati, spesso anche per la concomitanza di malattie pregresse, rischiano il ricovero. Senza l’analisi dei nuovi contagi, suddivisa per fascia di età, si rischierebbe di non poter fare stime su come si muoverà la curva dei ricoveri. 

«È logico che non possiamo smettere di contare il numero di persone positive , questo è uno strumento epidemiologico irrinunciabile per gli addetti ai lavori» aggiunge l’epidemiologo P aolo Bonanni, professore ordinario di Igiene all’Università di Firenze. Ma appunto, sono numeri oggi utili a chi deve studiare le varianti e fare previsioni sugli andamenti epidemiologici per muoversi in anticipo nell’organizzazione degli ospedali — sottolineano anche Pregliasco e l’immunologa dell’Università di Padova Antonella Viola. «Il dato assoluto dei contagi oggi è fuorviante e non c’è corrispondenza tra il numero assoluto di infezioni e quello che succederà in termini di ospedalizzazioni e morti» dice Bonanni.

Sono tutti d’accordo con l’idea che siamo in una fase nuova: «Ed è la comunicazione al pubblico che deve cambiare» aggiunge Antonella Viola. «Quello che conta è la situazione negli ospedali , i ricoverati sono per la maggior parte non vaccinati o pazienti in attesa del richiamo. Il dato assoluto dei contagi, se pubblicato senza adeguato contesto, rischia soltanto di spaventare e scoraggiare; le persone potrebbero addirittura essere tentate di pensare che i vaccini non servono a niente, mentre al contrario proteggono bene dalla malattia severa. Andrebbero comunicati solo i dati dei ricoveri e dei decessi, specificando quanti sono vaccinati e quanti no. Non siamo più in una fase emergenziale in cui si deve fare ricadere l’ansia e la responsabilità sui cittadini. È una scelta politica decidere di entrare nella normale gestione della pandemia. È giusto spiegare le regole, ma con il virus dobbiamo convivere e abbiamo gli strumenti per farlo». 

Anche Paolo Bonanni suggerisce una sorta di «nuovo bollettino» che metta in una nuova cornice, più ampia, il dato assoluto dei contagi. «Il balletto quotidiano dei nuovi positivi ha un effetto deleterio sulla psiche delle persone . Mi sembra invece più utile divulgare il dato sul tasso di positività perché è quello meno soggetto alle oscillazioni quotidiane ed eventualmente, anche se è un po’ ritardato rispetto a quando viene raccolto, si può divulgare anche l’indice di contagio Rt (quante persone possono essere contagiate da una sola persona in media e in un certo periodo di tempo in relazione, però, all’efficacia delle misure restrittive, ndr). L’indice Rt ci dice come sta andando l’epidemia: sopra 1 vuol dire che siamo in una fase di espansione epidemica tanto più veloce quanto più il valore è sopra uno. Se invece siamo sotto 1 significa che siamo in fase di regresso». 

«Anche il dato delle ospedalizzazioni — conclude Pregliasco — andrebbe migliorato. Con Omicron vediamo sempre più pazienti che risultano p ositivi al tampone di ingresso in ospedale, dove arrivano magari per un incidente stradale o per un infarto, e per questo vengono ricoverati in reparti Covid anche se asintomatici. Nonostante ciò rientrano nel conteggio dei ricoverati per Covid: ma il dato andrebbe scorporato per non avere una cifra sovrastimata».

Corbelli commenta le parole di Miozzo, poi svela: “Nei media c’è l’ordine superiore di non pubblicare pareri dubbiosi sui vaccini”.  Zaira Bartucca su recnews.it il 9 Gennaio 2022.  

Intervista al leader di Diritti Civili, che chiede la rimozione dall’incarico del Consulente di Occhiuto. E racconta cosa sta significando la pandemia per chi perde il lavoro, per chi non si può operare, per chi viene diffamato e per chi si va a vaccinare perché si sente costretto.

In un Paese normale, Corbelli sarebbe uno dei papabili per l’elezione del Presidente della Repubblica. Lo chiamano “il Gandhi italiano” per i suoi 35 anni spesi a favore degli ultimi, che gli hanno fatto portare a casa elogi bipartisan. Stimato a destra come a sinistra, è stato l’unico a non stare zitto di fronte all’invito – lanciato dalle colonne del Corriere della Sera dal Consulente per la Sanità e la Protezione Civile Agostino Miozzo di sovvertire l’ordine democratico causa pandemia. E di arrestare i No-vax. “Ha superato ogni limite”, ha tuonato Corbelli. “Chiedo ad Occhiuto di rimuoverlo immediatamente, o andrò a protestare a Catanzaro, alla Cittadella, davanti alla sede della Regione Calabria, come ho fatto in altre occasioni”, ha riferito alla stampa locale.

Ormai si permettono di dire, impuniti, che bisogna sovvertire l’ordine democratico A tanto si è spinto Miozzo, l’ex coordinatore del CTS prontamente riciclato in Calabria, dove ricopre l’incarico di consulente per la Sanità e la Protezione Civile. Il clima del resto è sempre più sovversivo, ma non è detto che tutto continui a passare in sordina.

Miozzo a noi ha detto che quelle parole non le ha mai pronunciate.

Miozzo è impazzito o cosa? Ha negato? Ormai c’è un impazzimento collettivo. Siamo di fronte a dei drammi, ma c’è un limite a tutto. Con il doveroso rispetto per tutti, ritengo che affermazioni del genere siano irresponsabili, pericolosissime. Forse questo dottore, Miozzo, non ha percezione del dramma che vivono milioni di persone. Si parla di centinaia di migliaia di famiglie, di persone cadute depressione, insegnanti che si sono visti la vita distrutta, per aver fatto cosa? Per aver detto un no motivato a un siero sperimentale. Ma come fanno a imporre un siero sperimentale? E si invoca la sospensione della democrazia e l’arresto? Questa è gente che un giorno pagherà per quelli che io considero crimini contro l’umanità. A tutti i livelli, sia chiaro, perché qui si sta colpendo e distruggendo un popolo. Come fa un governo a ignorare la libertà di scelta e a fare quello che fa? Siamo di fronte alla pagina di storia più buia dal dopoguerra a oggi.

Si sta forse alzando un po’ troppo il tiro e si rischia una qualche deriva pericolosa.

Esattamente, brava. Le persone sono ormai esasperate, oltre ogni limite umano di sopportazione. Si parla delle multe a chi non si vuole vaccinare, ma non dicono che hanno tolto anche il pane a questa gente.

Non si possono più dire cose che possono turbare la narrazione dominante.

Una pagina nera di storia recente è quella che riguarda Facebook. E’ un canale social asservito. Sono stato sospeso per un mese per aver pubblicato un’istanza per evitare che docenti e Forze dell’Ordine venissero sospesi dal lavoro. E’ una cosa allucinante. Neanche in tempo di guerra si arrivava a questo. C’è una disinformazione spaventosa che riguarda anche il diritto costituzionale.

Corbelli commenta le parole di Mizzo, poi svela: "Nei media c'è l'ordine superiore di non pubblicare pareri dubbiosi sui vaccini" …

L’Articolo 32 esiste ancora?

L’Articolo 32 e gli altri articoli vengono ripresi dai media di massa in maniera strumentale, nelle parti che si vogliono utilizzare. Perché dell’Articolo 32 non dicono che nessun cittadino può essere sottoposto, anche nell’interesse collettivo, a un trattamento sanitario se questo calpesta e vìola la dignità umana? Questo aspetto, che è quello fondamentale, viene nascosto. Mi perdoni: perché non viene dimostrato che questo siero non è sperimentale? C’è un rapporto AIFA del dicembre 2020 dove viene scritto nero su bianco che il termine della sperimentazione è previsto per dicembre 2023. Mi segua: non solo l’AIFA, ma anche EMA parlava di sperimentazione a settembre dello scorso anno, rilanciata da tutti i giornali talebani. Come hanno potuto? E adesso invocano l’arresto per chi non si vuole vaccinare? Di fronte a questa deriva in una Nazione meno civile e meno ghandiana ci sarebbe stata un’insurrezione popolare. Hanno soppresso la Libertà di manifestare, la Libertà di critica. Questi provvedimenti sono reati, perché colpiscono i diritti delle persone. La magistratura dov’è?

Con la pandemia sembra si possa fare di tutto e restare impuniti. Siamo in presenza di una pandemia?

Lo sono anche in Inghilterra, in Germania e in Francia ma perché lì non trovano terreno fertile provvedimenti come quelli fatti in Italia?

Abbiamo anche numeri che sono incoraggianti, perché non siamo certo al 2020.

Esatto, abbiamo numeri più incoraggianti. Gli studi che arrivano dal Sudafrica inoltre confermano che questa Omicron è più lieve, non dà conseguenze drammatiche, si va verso un miglioramento e, dicono gli studi, verso un superamento di questa pandemia e verso il raggiungimento della cosiddetta immunità di gregge. E loro anziché alleggerire le misure, loro vanno non solo a rafforzarle ma a renderle disumane. Seguo il caso di un’insegnante di Procida che ha programmato un’intervento chirurgico e non può lasciare l’isola per farlo, perché non si può vaccinare e non ha il Green Pass rafforzato. Questo è qualcosa di allucinante, qualcosa che definire indegno è poco. Come ha fatto il Presidente della Repubblica a firmare questo provvedimento? Il Presidente Mattarella, che ho sempre stimato, sarà ricordato dalla storia per queste firme che sta mettendo. Firme che cancellano la civiltà di un Paese. I morti? Ci sono i morti, certo, ma ogni morto di covid che viene pianto dovrebbe essere ascritto al covid e basta. Invece si mettono insieme il malato di tumore, l’infartuato e chi è deceduto per il virus e si sparano questi numeri per terrorizzare la gente.

Ormai si muore solo per covid.

Nessuno vuole sminuire la portata di questo male, ma bisogna dire che i numeri di decessi che registriamo oggi sono di gran lunga inferiori rispetto ai decessi per tumore o per malattie cardio-circolatorie. Ci sono poi altri morti che non sono numeri come molti pensano, ma volti con una storia, un nome e cognome. Parlo di quelli della postvaccinazione. Non ci sono stati solo la povera e sfortunata Camilla o Augusta, la bravissima insegnante di Messina o il Maresciallo dei Carabinieri, o il Finanziere, l’avvocato o l’imprenditore, ci sono anche le morti improvvise dei giovani. Perché muoiono all’improvviso di infarto, dopo aver fatto la vaccinazione? Di questi casi non si parla.

Ci sono anche casi di persone che hanno necessità di recarsi in ospedali e pronto soccorsi che nel frattempo sono stati convertiti in via esclusiva in centri covid.

Ma se dedichiamo tutto al covid, queste persone dobbiamo lasciarle morire?

Cosa ne pensa dell’Esenzione? C’è chi vorrebbe ottenerla, come da circolare del ministero della Salute del 4 agosto, ma se la vede negare dal medico di medicina generale o dall’Asl.

I medici in molti casi vengono anche intimiditi. I medici che segnalano determinati casi vengono raggiunti anche da provvedimenti disciplinari. Sono zittiti. Io mi sono a lungo battuto per i migranti, anzi stavo lavorando all’apertura del cimitero per migranti di Tarsia ma tutto si è interrotto a causa del covid. Credo che sia per la mia storia di attivismo che molti evitano di attaccarmi, sennò anch’io sarei stato bersagliato come gli altri.

Considerazione interessante. Ricapitolando: medici radiati, persone ridotte al lastrico, senza lavoro, individui non tutelati nella loro salute e demonizzati. Siamo arrivati a questo?

Sì, siamo arrivati a questo. Ha fotografato perfettamente quella che è la realtà, e io non riesco a credere che sia possibile, nonostante ne abbia viste tante e combattute tante. La pandemia riguarda tutti e tutti dobbiamo combatterla, ma non è che dobbiamo mettere italiani contro italiani, vaccinati contro non vaccinati o arrivare alle dichiarazioni inscusabili di Miozzo, che comunque non è il solo. Ci sono intellettuali, se così si possono chiamare, che fanno dichiarazioni di cui si dovrebbero vergognare per il resto della loro vita, e ormai le accettiamo come se fossero cosa normale. E’ una strategia militare di guerra , lei da giornalista lo avrà notato prima di me: f anno partire prima i giornali con i titoli, tastano il terreno, sparano le notizie, vedono gli effetti, condizionano l’opinione pubblica e poi escono con il provvedimento. Ci faccia caso: non arriva mai il provvedimento se prima non è caricato dai killer dell’informazione che si prestano a fare questo servizio. Ci sono giornalisti e direttori di giornali che io stimavo che sono arrivati a dire di essere orgogliosi di non ospitare un parere diverso rispetto a quello dominante.

Evviva il pluralismo, verrebbe da dire.

Evviva il puralismo, eh sì. Ci sono fior fior di scienziati che vorrebbero confrontarsi con questi del comitato tecnico scientifico, invece vengono screditati, dileggiati e massacrati ogni giorno . Non si può più esprimere una constatazione oggettiva sulle violazioni dei diritti umani delle persone. Ormai è peggio del Medioevo. Non puoi esprimere un’opinione diversa che subito si tenta di zittirti e silenziarti. Io lo sto vedendo: io che avevo sempre spazio per le mie battaglie ore trovo un sacco di spazi chiusi, e con grande onestà molti colleghi mi dicono “abbiamo ordini superiori di dare spazio solo a quelli favorevoli alla vaccinazione”.

Ho capito bene? C’è chi dice abbiamo l’ordine superiore di non dare spazio a chi nutre qualche dubbio sul vaccino anti-covid?

Si, si, si! Io lo confermo! Io lo confermo!

Faccio di nuovo riferimento alla sua storia di difensore dei diritti basilari per dire che verrebbe quasi da chiederle un consiglio: chi oggi si trova spaesato e impaurito da questo terrorismo mediatico, cosa dovrebbe fare?

Bisogna resistere, perché non potrà andare avanti ancora a lungo questa cancellazione brutale della democrazia e dei diritti dei cittadini. Molti purtroppo stanno cedendo, molti per il timore di perdere il lavoro pur provando molto paura stanno andando sotto costrizione a farsi iniettare questo siero sperimentale. Questo mi sta provocando molta amarezza e tantissima rabbia. Io in questa tragedia sono, come sempre, dalla parte degli ultimi, degli esclusi. Questo è per spiegare perché ho iniziato questa battaglia. Non si tratta di essere contro i vaccini: li abbiamo fatti tutti nella vita, ma oggi è diverso perché si è costretti. Devono fermarsi. Devono ridare i diritti fondamentali che hanno calpestato in maniera brutale.

Zaira Bartucca Direttore e Founder di Rec News, Giornalista. Inizia a scrivere nel 2010 per la versione cartacea dell’attuale Quotidiano del Sud. Presso la testata ottiene l’abilitazione per iscriversi all’Albo nazionale dei giornalisti, che avviene nel 2013. Dal 2015 è giornalista praticante. Ha firmato diverse inchieste per quotidiani, siti e settimanali sulla sanità calabrese, sulle ambiguità dell’Ordine dei giornalisti, sul sistema Riace, sui rapporti tra imprenditoria e Vaticano, sulle malattie professionali e sulle correlazioni tra determinati fattori ambientali e l’incidenza di particolari patologie. Più di recente, sull’affare Coronavirus e su “Milano come Bibbiano”.

Scatta la faida tra giornalisti. Marco Travaglio accusa: quasi tutti vaccinati e ora abbiamo molti più contagi. Il Tempo il 04 gennaio 2022. "Basta balle anti-vax. L'efficacia nel prevenire il contagio spiegata a Fusaro e Travaglio”. È questo l’incipit di un articolo a firma di Luciano Capone apparso su Il Foglio che ha fatto andare su tutte le furie Marco Travaglio. Il direttore de Il Fatto Quotidiano ha risposto con un mini-editoriale, intitolato “Ballistan”. “Infatti siamo quasi tutti vaccinati e abbiamo molti più contagi di quando nessuno era vaccinato” le parole di Travaglio sul suo giornale sull’argomento Covid, alle quali Capone ha replicato così su Twitter: “In effetti l’articolo era troppo pretenzioso… Spiegare qualcosa a Travaglio è come tentare di mangiare il brodo con la forchetta”. I veleni tra giornalisti non si spengono.

Basta allarmismi. Perché bisogna cambiare la comunicazione sui contagiati. Una modesta proposta. Marco Fattorini su L'Inkiesta il 5 Gennaio 2022. Al terzo anno di emergenza forse è arrivato il momento di modificare il bollettino quotidiano. Il contesto è cambiato, anche grazie ai vaccini. Il solo numero dei nuovi infetti spaventa i cittadini senza spiegare l’evoluzione della pandemia e la situazione degli ospedali. In assenza di un'altra interpretazione, questi dati offrono un alibi pericoloso alla propaganda no-vax.

Sono passati quasi due anni dalla prima ondata della pandemia, ma ogni giorno il dato che tutti aspettano e rilanciano è quello dei nuovi positivi. Su questo numero si concentrano i titoli dei giornali, i commenti degli esperti, le valutazioni della politica. Non senza allarmismi. L’aumento dei contagi entra come prima notizia nelle case degli italiani. Complice la diffusione della variante Omicron, il documento quotidiano diffuso dal Ministero della Salute è sempre più simile a un bollettino di guerra: nel giro di una settimana si passa da 100mila a 170mila casi.

A una prima lettura, sono numeri che gettano nel panico persone già provate da mesi di virus e restrizioni. O peggio, alimentano la retorica no-vax secondo cui i vaccini non funzionano e le varianti bucano le difese degli immunizzati. Ma spesso non si considera il numero di tamponi eseguiti, mai così alto come in questi giorni. E bisogna fare i conti con una variante dalla notevole velocità di trasmissione che però sembra meno letale. Siamo in una nuova fase della pandemia e non possiamo continuare a leggere i dati con la stessa interpretazione di un anno fa. Forse è arrivato il momento di cambiare la comunicazione istituzionale sul Covid, magari integrandola e aggiornandola.

I vaccini rappresentano uno scudo fondamentale contro la malattia grave. Adesso la maggioranza delle persone che si ammala di Covid non subisce conseguenze pesanti, non finisce in ospedale e spesso se la cava con sintomi influenzali restando a casa propria. Un fatto straordinario, se pensiamo alle immagini delle ondate precedenti con i reparti al collasso e la tragica conta dei morti. È vero, non sempre i vaccini riescono a proteggere dal contagio. Ma finalmente il loro uso generalizzato ha consentito di gestire il virus.

Continuare a enfatizzare il solo numero dei contagi, senza leggerlo alla luce del nuovo contesto, rischia di confondere e impaurire, lasciando praterie a chi diffonde notizie false sui vaccini. Dunque, che fare? Magari si può cominciare a comunicare nel dettaglio l’occupazione degli ospedali distinguendo tra quanti dei ricoverati sono vaccinati e quanti no. Nei reparti ordinari e nelle terapie intensive. Alcune Regioni, come Emilia-Romagna e Toscana lo fanno già. Un primo passo verso la chiarezza, dopo mesi di caos.

Le bufale dei no vax si sprecano: che fine ha fatto l’articolo 656 del codice penale? Fabio Cacciavillani su Il Fatto Quotidiano il 3 gennaio 2021. L’articolo 656 del Codice Penale è estremamente conciso e preciso: Chiunque pubblica o diffonde notizie false, esagerate o tendenziose, per le quali possa essere turbato l’ordine pubblico, è punito, se il fatto non costituisce un più grave reato, con l’arresto fino a tre mesi o con l’ammenda fino a euro 309.

Si tratta di un cosiddetto reato di pericolo per cui, come ha stabilito una sentenza della Cassazione (Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 9475 del 7 novembre 1996), non è necessario che la pubblicazione o la diffusione delle suddette notizie false, esagerate o tendenziose provochi direttamente disordini, assalti, scontri, distruzione di proprietà privata, aggressioni o altri “turbamenti” dell’ordine pubblico. E’ sufficiente che venga ravvisato il concreto pericolo. Tantomeno è necessario provare l’intenzionalità del tentativo di turbare l’ordine pubblico.

Nel caso delle notizie false, esagerate e tendenziose diffuse quotidianamente dalle varie organizzazioni formali o informali che raccolgono la galassia no vax, i disordini gravi si sono già concretizzati in molteplici occasioni. La più eclatante è stato l’assalto e la devastazione alla sede della Cgil, preceduta dall’aggressione vigliacca ai malcapitati poliziotti preposti a proteggerla. Ma per mesi si sono tenute manifestazioni non autorizzate nei centri cittadini, picchetti illegali, interruzioni di pubblico servizio, aggressioni a giornalisti, irruzioni, distruzioni di proprietà privata, scontri con la polizia e via elencando. Il tutto provocato da notizie oggettivamente false, esagerate o tendenziose.

Ecco un elenco sintetico, purtroppo incompleto:

– I vaccini sono sieri genici sperimentali;

– Le vaccinazioni costituiscono un piano per ridurre drasticamente la popolazione mondiale con uno sterminio di massa;

– Il virus è stato creato in laboratorio per effettuare il Grande Reset, un piano concepito dall’élite del World Economic Forum che organizza la conferenza annuale a Davos;

– I vaccini modificano il Dna;

– I vaccini causano infertilità e aborti;

– I vaccini contengono grandi quantità di metalli per cui una moneta sul braccio di un vaccinato (o addirittura uno smartphone sulla gamba di un neonato) rimane attaccata per effetto di un non meglio precisato “magnetismo”;

– I vaccini alimentano le varianti;

– I vaccini hanno causato migliaia di morti che vengono tenuti nascosti dalle autorità

– I vaccini sono realizzati con feti abortiti;

– Con la scusa del vaccino vengono inseriti nel corpo dei microchip per controllare gli umani attraverso le reti 5G, con un software sviluppato appositamente da Bill Gates;

– Le immagini delle vaccinazioni agli operatori sanitari mostrate dai media sono finte perché fatte con siringhe dagli aghi retrattili;

– I governi celano le cure efficaci contro il virus per favorire gli interessi e i profitti delle multinazionali;

– I vaccini a mRNA possono causare un aumento di malattie neurodegenerative rare chiamate malattie da prioni;

– I politici che si sono vaccinati, da Mattarella a Biden, da Draghi a De Luca hanno in realtà ricevuto una soluzione fisiologica innocua;

– Documenti segreti accertano che Moderna aveva sviluppato un vaccino contro il Covid-19 già nel dicembre 2019, quindi la pandemia è stata pianificata;

– I vaccini contro il Covid-19 contengono la luciferasi, una sostanza nociva battezzata in onore di Lucifero;

– Il vaccino contro il Covid-19 della Pfizer è composto al 99% da ossido di grafene, secondo quanto emerso in uno studio pubblicato dall’Università di Almeria in Spagna;

– Negli Stati Uniti sono morte più persone a causa dei vaccini che a causa del Covid-19;

– La direttrice dei CDC ha dichiarato che i vaccini non proteggono dalla variante Delta e i vaccinati possono essere super-diffusori del virus perché hanno cariche virali più elevate rispetto ai non vaccinati (una versione alternativa invece attribuisce tale bufala all’Università di Oxford);

– La Corte Suprema americana ha stabilito che il Dna modificato, non essendo presente in natura, può essere brevettato. Quindi gli individui inoculati con un vaccino mRna, che modifica il genoma umano, sono ora legalmente brevettati, non hanno diritti umani e di conseguenza sono “proprietà delle multinazionali”;

– I bambini hanno tre volte più probabilità di morire per i vaccini contro il Covid-19 che per la malattia stessa;

– L’SM-102, un componente del vaccino di Moderna, è tossico ed è inidoneo all’uso su animali e persone secondo la stessa azienda che lo mette in commercio.

Nonostante la diffusione ossessiva di tali “notizie” su tutti i media tradizionali e online (oltre che su chat di Telegram e WhatsApp), da nessuna delle oltre cento Procure italiane si è mosso un dito, anzi nemmeno un’unghietta fresca di manicure. Evidentemente, senza che fosse annunciato pubblicamente, o è stata abolita l’obbligatorietà dell’azione penale o è stato abrogato l’articolo 656.

Non possiamo nemmeno lontanamente ipotizzare che procuratori italiani – di solito così inflessibili da indagare un sindaco perché un bambino si è accidentalmente ferito all’asilo – non reputino che sia loro preciso dovere etico, oltre che professionale, intervenire per reprimere reati così plateali e devastanti per l’ordine pubblico (oltre che per la sanità pubblica). Non potremmo neanche lontanamente ipotizzare che la presenza di magistrati tra i caporioni no vax faccia scattare una strana solidarietà che, se fossi grillino, definirei di kasta. Oppure che l’ampia presenza di no vax tra le forze dell’ordine freni i tutori dell’ordine.

Ad esempio non riusciamo nemmeno ad ipotizzare che il discorso incendiario di tal Angelo Giorgianni alla manifestazione da cui originò il raid alla Cgil possa aver fatto trascurare l’obbligatorietà dell’azione penale a chi di dovere. Del resto, che Giorgianni (sanzionato persino dal Csm) non fosse nuovo a tali alzate di ingegno lo prova un suo libro intitolato Strage di Stato (in riferimento al Covid) scritto insieme ad un medico (ora no vax pentito), Pasquale Bacco (con prefazione di Nicola Gratteri).

E che fossero palesi falsità volte ad aizzare le folle non lo afferma qualche subdolo esponente del Nuovo Ordine Mondiale, della Spectre, del Grande Reset o del Bilderberg. Lo ha dichiarato a chiare lettere in molteplici occasioni­ – incluse una mezza dozzina di apparizioni nei più seguiti talk show della televisione italiana – nientepopodimeno che il suo stesso co-autore, Pasquale Bacco (che definiva il vaccino “acqua di fogna”).

Se non fosse stato abolito l’art. 656 del C.P., o l’obbligatorietà dell’azione penale, le Procure italiane in questi tempi tragici sarebbero oberate di lavoro!

Marina Palumbo per lastampa.it il 2 gennaio 2021. Non si tratta sempre di trame nefaste di Bill Gates, controllo mentale attraverso antenne 5G o elaborate cospirazioni su una "plandemia" che coinvolge armi biologiche create e messe in pista da Pfizer. Alcuni degli argomenti più convincenti dei No vax utilizzano dati reali e citano fonti ufficiali, ma traggono conclusioni errate. Ecco allora la guida del responsabile del canale Scienza del Times, Tom Whipple che ci viene in soccorso, spiegando sul quotidiano inglese alcuni degli argomenti più comuni e persuasivi e perché sono sbagliati.

«Migliaia di morti per i vaccini»

Per esempio, la teoria secondo cui «migliaia di persone» sarebbero morte per i vaccini o avrebbero avuto gravi conseguenze: la fonte dei dati non è falsa, è solo stata mal interpretata. Si tratta infatti di siti web ufficiali, governativi. Nel Regno Unito, nell'Ue e negli Stati Uniti, i medici segnalano malattie, stranezze e decessi che si verificano dopo il vaccino a un database centrale, indipendentemente da ciò che li ha causati.

Se si vaccina un'intera popolazione, ce ne saranno molti. Perché? Perché stranezze, decessi e malattie succedono comunque, a prescindere dal vaccino. Quello che è importante capire è quale nesso ci sia, cioè quanti di questi eventi negativi siano stati causati proprio dal vaccino e quanti siano eventi indipendenti. 

Una domanda chiave per capire questo è: sono più di quanto ti aspetteresti in una popolazione che non è stata vaccinata? Rispondere a questa domanda è incredibilmente difficile. Al momento, gli unici effetti collaterali confermati sono stati un rischio estremamente limitato di trombosi nel caso di somministrazione di Oxford-AstraZeneca e un fenomeno altrettanto rarissimo di alcune conseguenze cardiache, non fatali, per quello Pfizer. Inoltre, talvolta le testimonianze devono essere prese con le molle: per esempio, una persona ha riportato un implausibile ingrossamento del pene in seguito alla somministrazione del vaccino.

«I calciatori vaccinati continuano a morire»

Poi c’è l’accusa per cui «i calciatori vaccinati continuano a morire dopo il vaccino». La fonte, spiega Whipple sul Times, è un sito israeliano per cui 108 giocatori e allenatori sono morti nel mondo nel 2021, quindi in un periodo in cui si è avuta una vaccinazione di massa pressoché mondiale. Anche in questo caso, bisogna capire se un numero di morti come questo sia equiparabile a un anno in cui la vaccinazione non c’è stata o se invece l’incidenza sia molto più alta. 

Dei numeri su tutto il mondo purtroppo non li abbiamo, ma basta prendere una ricerca della Fifa (l’organo mondiale del calcio) che ha raccolto dati in 16 Paesi nel 2020, prima che i vaccini andassero a regime, per scoprire che 150 calciatori sono purtroppo morti in campo. Quindi anche ipotizzare un nesso morti-vaccino è davvero molto insensato.

«Big Pharma sta  eliminando i farmaci per sconfiggere il Covid perché su quelli non può guadagnarci»

L'ivermectina, uno dei farmaci celebri tra i No Vax, è un caso esplicativo ottimo per rendere evidente quanto questa tesi sia sballata. Si tratta di un farmaco economico, prodotto in serie e altamente efficace. Il problema è che è molto efficace nel trattare i parassiti. Ma da dove è nata l’idea che potesse invece fermare la pandemia?

Mesi fa alcuni studi di laboratorio suggerivano che, insieme a molti altri composti, potesse avere un effetto sul Covid. Successivamente, questa ipotesi è stata supportata da studi clinici. Il più impressionante di questi studi, incluso uno studio randomizzato in Egitto, si è rivelato fraudolento. Attualmente è in fase di valutazione nell'Oxford Recovery Trial, ma non ci sono ancora prove sufficienti per raccomandarne l'uso. 

E per quanto riguarda l'accusa secondo cui Big Pharma starebbe sopprimendo una medicina a basso costo, bene, è molto difficile far quadrare questa idea con il fatto che il primo farmaco che si è dimostrato in grado di curare il Covid è stato uno steroide di 60 anni fa chiamato desametasone, che costa pochi centesimi.

«Tra gli under 60 rischio di morte doppio per i vaccinati»

Altra teoria: «Le persone sotto i 60 anni vaccinate rischiano di morire il doppio di quelle non vaccinate». Whipple ammette: sono i dati ufficiali inglesi. Ma questa non è una lezione sul pericolo dei vaccini, bensì sul pericolo di statistiche controintuitive. Come ha affermato Stuart McDonald, presidente del Covid 19 Actuaries Response Group, è un esempio quasi da manuale di un fenomeno noto come il paradosso di Simpson.

In ogni fascia di età - da 30 a 40, da 40 a 50, da 50 a 60 - i vaccini riducono il rischio di morte. Tuttavia, quando queste età sono raggruppate, sembra che accada il contrario. Come mai? La risposta è semplice: è perché l'età media del gruppo vaccinato è molto più alta di quella dei non vaccinati. Quasi tutti i bambini sotto i dieci anni sono nel gruppo non vaccinato. Quasi tutti gli adulti sopra i 40 anni sono nel gruppo vaccinato. Ciò che la statistica mostra davvero è che le persone anziane hanno maggiori probabilità di morire.

«Il Covid è come l'influenza»

È pur vero che molti sintomi iniziali si rassomigliano, ma questo non significa che la mortalità sia la stessa. I decessi per influenza variano negli anni, a seconda del ceppo in circolazione e dell'efficacia del programma vaccinale. Secondo Public Health England, tuttavia, in un anno normale - un anno senza mitigazioni per la salute pubblica - non sarebbe insolito avere meno di 10.000 morti.

Negli ultimi due anni abbiamo avuto le misure di mitigazione della salute pubblica più rigorose della storia, tanto che l'influenza è quasi scomparsa. E abbiamo visto più di 150.000 morti per Covid. Il Covid, decisamente non è come l’influenza. 

«I vaccini non funzionano più»

Infine, ci sono quelli che sostengono che «i vaccini non funzionano più ora che c’è la variante Omicron». Non c’è dubbio che quest’ultima variante buchi i vaccini, basati sul Coronavirus versione Delta, più facilmente rispetto alle precedenti. Ma come dimostrano gli ultimi studi della sanità britannica, la terza dose detta “booster” contro Omicron protegge all’’88% dal ricovero in ospedale e, nei casi più gravi, dalla morte.

Oltre a evitare a tantissimi di finire ricoverati o in terapia intensiva. E qui Whipple fa un calcolo molto semplice: lo scorso inverno, nel Regno Unito, su 50mila casi di Covid ci sono stati mille decessi. Quest’autunno non hanno superato i cento.

·        Morti per…Morti con…

Il Covid ha ucciso più di 16 milioni di persone nel mondo (Ansa). Luca Sciortino su Panorama il 27 Dicembre 2022.

Stime precise ed ufficiali non ce ne sono ma l'incremento di decessi registrato nel biennio 2020-2021 rispetto al passato porta a considerazioni molto precise

È tempo di chiedersi quale sia stato il reale impatto della pandemia di Covid-19. Il migliore modo di rispondere a questa domanda è quantificare il numero di morti negli anni 2020 e 2021. Solo allora si potrà darle il giusto posto tra quelli che sono stati i flagelli dell’umanità e, cosa più importante, valutare le strategie di contenimento messe in atto da diversi governi in differenti contesti sociali ed economici

L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dato mandato a un gruppo di ricercatori guidati dallo statistico e demografo William Msemburi di compilare e divulgare una statistica della mortalità da Covid-19 a partire da Gennaio 2020 fino a Dicembre 2021. Ne è risultato uno studio, appena pubblicati sulla rivista Nature, che mirava a calcolare l’eccesso di mortalità, definito come la differenza tra il numero delle morti in un certo periodo e quelle previste su quello stesso lasso di tempo. Risulta, secondo questo studio, che nel mondo ci sono stati tra i 13,2 milioni e i 16,6 milioni di decessi in più di quelli previsti nel 2020 e 2021. Detto in soldoni, se la media dei decessi in due anni nel mondo è X, nel 2020-21 i decessi sono stati Y con Y-X che è stato un numero sicuramente maggiore di 13,2 milioni. Se poi uno facesse la somma dei decessi dichiarati dai vari governi nel mondo nello stesso periodo scoprirebbe che l’effettivo numero di morti da Covid è stato tra 2,4 e 3,1 volte più alto. A questo punto uno potrebbe chiedersi dove questo eccesso di mortalità è stato maggiore. Dallo studio emerge che la performance di Paesi come Perù, Messico, Bolivia ed Ecuador è stata pessima. Addirittura in Perù la mortalità è stata il doppio di quella prevista mentre in Messico, Bolivia ed Ecuador il numero dei decessi è stato tra il 40 e il 50 per cento maggiore del previsto. Ma hanno fatto ancora peggio India, Russia, Indonesia, Stati, Uniti e Brasile, che si situano ai primi cinque posti. L’Italia è al diciassettesimo posto, peggiore dato in Europa seguito da Polonia e Regno Unito. Se uno mette insieme questi venti Paesi, primi nella graduatoria, che ammontano al 48,9 per cento della popolazione globale scopre che rendono conto di più del 90 per cento delle morti in più registrate nel periodo tra Gennaio 2020 e Dicembre 2021. In India c’è stato un eccesso di morti di 4,74 milioni con un grosso errore statistico, ma non tale da mettere in dubbio la prima posizione nell’infausta classifica. In Russia l’eccesso di morti nel 2020 e 2021 è stato di 1,07 milioni, in Indonesia di 1,03 milioni e negli Stati Uniti di 932mila. Quello che si sapeva era che il numero di morti riportate dai vari Paesi del mondo era di 5.420.534 decessi, ma ora questi dati mostrano che questo numero è in effetti quasi il triplo. Nel 2021, il numero totale di morti ufficiale è stato pari a 10,14 milioni rispetto ai 9,98 milioni del 2020 e del 2021. Questo è quello che si sa dalle statistiche ufficiali. Attualmente questo Paese conta come decesso da Covid solo le morti da polmonite e insufficienza respiratoria, una definizione troppo restrittiva dato che le morti di Covid sono alte in pazienti con malattie preesistenti. Uno studio di Lancet dello scorso Aprile, stimava in 17900 le morti in più di Covid rispetto a quelle dichiarate (pari a 4820) nel periodo 2020-2021, dunque quasi quattro volte di più. Ora, il punto è che per l’incompletezza dei dati arrivati dal 37 per cento delle nazioni, riguardanti il numero totale di decessi per qualunque causa, , questi dati vanno presi con le pinze. Più una nazione è ricca più i dati sono precisi tanto che soltanto il 2 per cento dei Paesi europei non avevano dati per il 2020 contro l’87 per cento dei Paesi africani. I ricercatori hanno quindi dovuto fare delle inferenze statistiche ed estrapolazioni, stimando comunque l’errore. Nel 2005 la rivista Science stimò che il numero di morti nel mondo dell’influenza spagnola fu di circa 50 milioni. La peste nera a metà del quattordicesimo secolo uccise 20 milioni di persone in Europa, secondo stime qualitative. Questi dati vanno paragonati con il dato appena emerso che nel mondo ci sono stati tra i 13,2 milioni e i 16,6 milioni di decessi in più di quelli previsti nel 2020 e 2021.

“Il 40% non è morto per il Covid”. Bomba di Report sulla pandemia. Il caso dei decessi ospedalieri per infezioni da batteri resistenti. La rivelazione di D’Amario. Claudio Romiti su Nicolaporro.it il 26 Dicembre 2022,

“Questa inchiesta, quella che vedrete stasera, riscriverà la storia della pandemia”, così Sigrifido Ranucci, conduttore di Report, in onda su Rai3 ha presentato il lungo e sconvolgente reportage sulla “pandemia silenziosa”, la quale avrebbe ucciso almeno 4 persone su 10 conteggiate come Covid-19.

In particolare, si tratta della piaga delle infezioni nosocomiali che ogni anno, prima della pandemia, uccidevano circa 50 mila persone, a prescindere dai motivi per cui si era reso necessario il ricovero. Tanto è vero che Walter Ricciardi, all’epoca direttore dell’Osservatorio nazionale sulla salute, nel 2018 lanciò un preoccupato allarme citando una serie di dati agghiaccianti: dal 2003 al 2016 i decessi ospedalieri per superinfenzioni da batteri resistenti sono passati da 18.668 a 49.301. In tal senso l’Italia registra il 30% di tutte le morti per sepsi batterica nei 28 Paesi dell’Unione europea (comprendendo quindi anche il Regno Unito).

Interpellato su questo punto, Claudio D’Amario, direttore generale Prevenzione del ministero della Salute 2018/2020, ha sganciato la bomba: “Molti di questi pazienti sono morti per la Sepsi, non sono morti per il Covid – ha esordito il medico abruzzese -. Anche pazienti intubati, dopo tre settimane, morivano per questi germi che purtroppo girano negli ospedali”. Sulle autopsie ha poi aggiunto che “c’è stato un proprio un problema metodologico. Un problema che avrebbe costretto l’Iss a rivedere tutte le cartelle. Ma era un lavoro disumano, quindi….se andassero a fare una revisione, si scoprirebbe che il 40% dei quei decessi non ha nulla a che vedere con il Covid”.

E come tecnicamente sia potuto accadere questa strage passata sotto silenzio lo ha spiegato con grande chiarezza la professoressa Evelina Tacconelli, direttrice di Malattie infettive dell’Azienda integrata di Verona. In estrema sintesi, anche a causa dei protocolli anti-Covid, ossessivamente basati sui rischi di un virus respiratorio, dell’eccesso di ospedalizzazioni e della scarsa preparazione del personale reclutato durante l’emergenza, si sono completamente trascurate le infezioni da contatto, che sono poi quelle che costituiscono gran parte di quelle causate dai batteri resistenti agli antibiotici.

Soprattutto tra i pazienti intubati, che subivano molte manipolazioni, si è riscontrato il maggior numero di queste infezioni letali. Infezioni che venivano trasmesse da operatori sanitari vestiti testualmente – come astronauti, ma che avrebbero dovuto ad ogni paziente cambiare completamente la loro ingombrante tenuta. Cosa ovviamente impossibile nel caos determinato dalla corsa ai ricoveri che ha contraddistinto a lungo la nostra italica pandemia del terrore. Un caos che si sarebbe in buona parte evitato se molte persone fossero state curate a casa e non spinte da una martellante comunicazione del terrore ad affollare i pronto soccorso del Paese con qualche linea di febbre.

D’altro canto, dal momento che dall’arrivo del coronavirus gli stessi decessi per infezioni nosocomiali sono miracolosamente scomparsi, ma in realtà, secondo quanto sostenuto da D’Amario, essi sarebbero addirittura cresciuti di altre decine di migliaia di unità, forse è per questo – si è affermato nel reportage in oggetto – che l’Italia ha registrato un numero abnorme di morti Covid e continua a registrare un eccesso di mortalità generale che non si riscontra nel resto d’Europa, aggiungiamo noi.

Sta di fatto che, a quanto riportato nel servizio, nulla finora è stato fatto per almeno attenuare la piaga delle citate infezioni batteriche contratte negli ospedali. Si continua invece a perseverare con l’uso obbligatorio della mascherina per un virus che oramai è sceso ad un tasso di letalità assai più basso di quello legato all’influenza stagionale. E così, mentre migliaia di sfortunati muoiono ogni mese per infezioni da contatto, il nostro buon Schillaci, attuale ministro della Salute, ha già annunciato che prolungherà tale obbligo, relativamente a luoghi di cura ed Rsa, fino alla primavera inoltrata. Della serie, come essere completamente scollegati dalla realtà.

Claudio Romiti, 26 dicembre 2022

L'altra pandemia. Report Rai PUNTATA DEL 19/12/2022

di Giulio Valesini e Cataldo Ciccolella

Collaborazione di Norma Ferrara

I batteri sono ovunque, nell’aria che respiriamo, sul terreno dove camminiamo, nel nostro intestino.

Ci sono più batteri nel corpo di un solo uomo che uomini sul pianeta terra. Grazie ai batteri abbiamo il pane lievitato, la birra e il vino. Per colpa dei batteri, quelli patogeni, ci ammaliamo con il tetano o la gastroenterite. Viviamo in una sorta di pace armata, ma da circa un secolo con il miglioramento dell’igiene clinica e la scoperta della penicillina, il primo degli antibiotici, sembrava che avessimo imparato a tenerli a bada. Ora l’equilibrio sta per interrompersi. La prescrizione inappropriata o l’uso eccessivo, le cattive condizioni igieniche dei nosocomi, il rilascio di contaminanti in ambiente: grazie ai nostri errori li abbiamo allenati a rafforzarsi. E oggi una nuova epidemia avanza silenziosa: nello stesso anno in cui il Covid muoveva i suoi primi passi, sono morte nel mondo oltre 1,3 milioni di persone per infezioni batteriche resistenti agli antibiotici. Le stime prevedono 10 milioni di decessi all'anno intorno al 2050. In Italia ogni anno sono registrati circa 15 mila morti, ma i numeri reali sono molto più alti. Perché siamo fanalino di coda nella lotta all’antibiotico resistenza in Europa? Report indagherà sul ruolo dei medici e delle aziende farmaceutiche. Inoltre, esiste un piano nazionale contro i superbatteri che per anni non è stato finanziato. E quando sono arrivati 40 milioni di euro per farlo partire, il Ministero della Salute a guida Speranza non è stato capace di spenderli. Report è in possesso di documenti interni che rivelano cosa è successo.

Lo studio commissionato da Epfia sulla convenienza dei voucher per supportare la ricerca di nuovi antibiotici

La dichiarazione della società farmaceutica Plivia

L’ALTRA PANDEMIA di Cataldo Ciccolella – Giulio Valesini con la collaborazione di Norma Ferrara Immagini di Paolo Palermo e Fabio Martinelli Montaggio di Marcelo Lippi Grafiche di Giorgio Vallati

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO E’ il 28 Ottobre del 2020. All’ospedale di Camposampiero, vicino Padova viene ricoverato per Covid Pasquale Letizia, 77 enne, ex carabiniere in pensione, era diventato un punto di riferimento per la comunità. Da volontario guida il pulmino che porta i ragazzi disabili a scuola.

AGOSTINO LETIZIA – FIGLIO DI PASQUALE LETIZIA Sembrava che le cose comunque fossero stabili. Poi tre o quattro giorni dopo il ricovero in terapia intensiva in una delle telefonate ci comunicano che si era sovra infettato.

GIULIO VALESINI Che vuol dire?

AGOSTINO LETIZIA – FIGLIO DI PASQUALE LETIZIA Ha preso dei batteri. Punto. Ma la comunicazione si è fermata lì.

GIULIO VALESINI E si è preso dei batteri presenti in reparto?

AGOSTINO LETIZIA – FIGLIO DI PASQUALE LETIZIA Fondamentalmente sì. Perché comunque lui dal reparto non era mai uscito.

GIULIO VALESINI Il cinque novembre e compaiono i primi due batteri. Due giorni dopo esce fuori anche lo stafilococco… Poi esce fuori la klebsiella, il 12. Poi esce fuori l'enterococco. Poi esce fuori un microrganismo sentinella.

AGOSTINO LETIZIA – FIGLIO DI PASQUALE LETIZIA Noi ne abbiamo contati sette o otto.

GIULIO VALESINI Otto batteri in un mese di ricovero.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Alle due di notte dell’11 dicembre Pasquale Letizia muore. Sulla cartella clinica c’è scritto: prima causa di morte polmonite da Covid-19 e poi neuropatia e infine choc settico.

AGOSTINO LETIZIA – FIGLIO DI PASQUALE LETIZIA Noi lo abbiamo ricoverato per covid. Però poi, dopo tutto quello che è venuto su, dopo il covid, noi abbiamo delle informazioni molto frammentate, cioè della serie... cercatele.

GIULIO VALESINI Un libro.

AGOSTINO LETIZIA – FIGLIO DI PASQUALE LETIZIA 400 e rotte pagine. A un certo punto, negli ultimi giorni, abbiamo trovato anche un referto di un tampone negativo. Quindi il covid era l'ultimo dei problemi. Probabilmente il covid l’ha debilitato in maniera importante e i batteri hanno fatto tutto il resto.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO I vertici dell’ospedale di Camposampiero non hanno voluto parlare con noi. Abbiamo però letto la comunicazione mandata all’Istat. La prima causa di morte del sig. Letizia riportata è covid e dunque rientra nei bollettini ufficiali. Il dubbio è che se in Italia abbiamo avuto numeri così alti per il covid è perché la pandemia si è incrociata con i super-batteri.

EVELINA TACCONELLI - DIRETTRICE MALATTIE INFETTIVE - AZIENDA OSPEDALIERA VERONA Una delle prime cose che è successo è purtroppo una riduzione dell'attenzione alla trasmissione delle infezioni ospedaliere. Perché? Perché il medico era completamente bardato e i pazienti erano costretti anche in stanze con un piccolissimo spazio.

GIULIO VALESINI Pensavo che più attenzione alla trasmissione del virus avesse in qualche modo rafforzato dei protocolli…

EVELINA TACCONELLI - DIRETTRICE MALATTIE INFETTIVE - AZIENDA OSPEDALIERA VERONA Solo quelli per via respiratoria. Ma quelli che ci preoccupano sull’antibiotico resistenza per lo più sono da contatto.

GIULIO VALESINI Io pensavo il contrario …

EVELINA TACCONELLI - DIRETTRICE MALATTIE INFETTIVE - AZIENDA OSPEDALIERA VERONA Se io mi vesto da astronauta e visito un paziente per passare all’altro paziente.

GIULIO VALESINI Mi dovrei cambiare la divisa da astronauta.

EVELINA TACCONELLI - DIRETTRICE MALATTIE INFETTIVE - AZIENDA OSPEDALIERA VERONA E rimettermi un’altra divisa…che è assolutamente impensabile nel periodo covid che abbiamo vissuto.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO E’ la tempesta perfetta perché si incrociano due pandemie: una nota al mondo, quella causata dal covid e l’altra sommersa causata dai batteri resistenti agli antibiotici. Per la quale l’Italia detiene il record di decessi in Europa: 15mila morti l’anno, secondo le stime ufficiali, ma nei fatti certamente molti di più. E la causa dell’infezione spesso è l’ospedale. In quello di Terni hanno messo a confronto i numeri dei ricoveri prima e durante il Covid. Il dato che emerge fa impressione.

STEFANO CAPPANERA - MALATTIE INFETTIVE - AZIENDA OSPEDALIERA SANTA MARIA TERNI Prima del covid avevamo un'incidenza di circa cinque-sei per cento l'anno. Pazienti che entravano da negativo e venivano colonizzati in rianimazione. Quando arrivò il covid ci siamo passati da un cinque per cento a un 50 percento. Ci siamo interrogati perché era successo: la presenza di personale non perfettamente formato e la grande manipolazione dei pazienti. Pronare un paziente significa intervenire in quattro cinque operatori.

GIULIO VALESINI Toccarlo, certo.

STEFANO CAPPANERA - MALATTIE INFETTIVE - AZIENDA OSPEDALIERA SANTA MARIA TERNI Per metterlo a pancia in giù. E abbiamo visto che il paziente pronato aveva il doppio della possibilità circa di colonizzarsi rispetto al paziente non pronato.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO In Europa continentale, l’Italia sulle prime due ondate del covid presenta dati disastrosi sui decessi. Più alti rispetto a Francia, Germania e Spagna nonostante le nostre rigide restrizioni.

CRISTOPH LÜBBERT - MALATTIE INFETTIVE E MEDICINA TROPICALE UNIVERSITÀ DI LIPSIA I pazienti covid, erano ricoverati a lungo e se in quell’ospedale c’è già un grosso problema con l’antibiotico resistenza, come accade in Italia, la degenza si prolunga e si associa a un alto tasso di complicazioni e quindi ad alta mortalità.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Ma in Italia non si sono fatte autopsie sui morti per covid. A Report ora l’ha confermato l’Istituto superiore di sanità. Ci ha mandato uno studio che potrebbe riscrivere la storia della pandemia: il 19 per cento dei morti Covid aveva anche infezioni batteriche. Su un campione di 157 pazienti morti con covid e batteri, tra il 2020 e il 2021, ben l’88 per cento aveva preso le infezioni proprio in ospedale, con punte del 95,5 per cento di resistenza agli antibiotici. Insomma, infezioni incurabili. Adesso arrivano le conferme ufficiali.

CLAUDIO D'AMARIO - DIRETTORE GENERALE PREVENZIONE MINISTERO DELLA SALUTE 2018-2020 Molti di questi pazienti sono morti per la sepsi. Non sono morti per il covid.

GIULIO VALESINI Solo che ufficialmente sono morti per covid…

CLAUDIO D'AMARIO - DIRETTORE GENERALE PREVENZIONE MINISTERO DELLA SALUTE 2018-2020 Anche pazienti intubati alla fine… dopo tre settimane, morivano per questi germi che purtroppo girano negli ospedali.

GIULIO VALESINI E non si facevano le autopsie.

CLAUDIO D'AMARIO - DIRETTORE GENERALE PREVENZIONE MINISTERO DELLA SALUTE 2018-2020 È stato un problema metodologico. Un problema anche che l'istituto doveva rivedere tutte le cartelle, ma era un lavoro disumano, quindi ... ma se andassimo a fa una revisione, 40 percento di quei decessi non c'ha nulla a che vedere con il covid.

NICOLA MAGRINI – DIRETTORE GENERALE AIFA L’antibiotico resistenza è stato un fattore che ha contribuito alla difficoltà di trattamenti di cura.

GIULIO VALESINI Potremmo avere avuto questo alto indice di morti perché in realtà i pazienti entravano con il covid ma si infettavano di batteri e poi alla fine morivano, anche per questo. Questo sta dicendo…

NICOLA MAGRINI - DIRETTORE GENERALE AIFA Chi è andato in terapia intensiva in Italia è andato nelle migliori terapie intensive d'Europa.

GIULIO VALESINI Però siamo anche il paese con un altissimo tasso di infezione ospedaliera.

NICOLA MAGRINI - DIRETTORE GENERALE AIFA È stato un elemento aggiuntivo in un paziente comunque molto critico. Qualcuno di questi certamente è morto avendo acquisito questa infezione o con anche questa infezione.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Forse è il momento di riscrivere la storia della pandemia. L’azienda sanitaria di Terni ha detto che prima del Covid, avevano registrato colonizzazioni di batteri del 5-6 percento dei casi, che poi sono aumentati al 50 percento con il covid, come hanno giustificato questo? Intanto con la densità dei pazienti, c’erano troppi malati e poi anche con il fatto che sono stati arruolati, infermieri, personale ospedaliero non formato e anche poi a causa della manipolazione che richiedevano alcuni pazienti che erano intubati andavano anche messi, pronati, con la pancia in giù. E proprio questi pazienti sono risultati quelli più infettati. Ecco, e che cosa significa questa incidenza, che cosa comporta questa incidenza di infezioni? Un documentato studio dell’Istituto superiore di sanità ci dice che il 19 percento dei morti di Covid avevano anche contratto dei batteri, l’88 percento dei casi l’aveva poi contratto proprio entrando, dopo essere entrato, in ospedale. Di questi batteri, alcuni di questi batteri, hanno mostrato una resistenza sino al 95 percento agli antibiotici. Significa che son praticamente incurabili. Anche il direttore generale del ministero della Salute, Claudio D’Amario, intervistato dal nostro Giulio Valesini cha detto guardate che se poi andiamo a vedere poi alla fine il 40 percento dei morti non ha nulla a che vedere con il covid ma bisognerebbe andare a vedere dentro ciascuna cartella. E’ un lavoro disumano però riscriverebbe la storia della mortalità da covid nel nostro Paese. Ora quella con i batteri è una convivenza dura, ce ne sono più nel nostro corpo che umani nel mondo. A volte ci aiutano perché magari ci aiutano nella lievitazione del pane, della birra, a smaltire i rifiuti e a depurare l’acqua. A volte ci uccidono o ci indeboliscono se ci trovano in una condizione di fragilità. Insomma, è un equilibrio difficilissimo: nell’antichità bastava un piccolo taglietto per portare una infezione che poteva causare la morte, poi abbiamo scoperto gli antibiotici come la penicillina ma abbiamo cominciato anche ad abusarne e a usarli in maniera non mirata. Questo è successo anche negli allevamenti intesivi e dunque si è rotto un equilibrio e la responsabilità è solo la nostra.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Laboratorio di microbiologia di Rimini. Qui arrivano in un anno 250 mila piastrine dei pazienti ricoverati negli ospedali dell'azienda sanitaria Romagna.

MONICA CRICCA - MICROBIOLOGIA AUSL ROMAGNA UNIVERSITA’ DI BOLOGNA Questo è uno stafilococco aureo. Questi invece sono dei gram negativi. Qui c’è questo batterio, ad esempio, che è una pseudomonas che ha questa pigmentazione invece naturale colore blu o verde tipica, che può dare diverse problematiche anche nelle infezioni ospedaliere perché è un germe anche questo molto resistente.

GIULIO VALESINI Resistente.

VITTORIO SAMBRI - DIRETTORE UNITÀ OPERATIVA MICROBIOLOGIA AUSL ROMAGNA- UNIVERSITÀ DI BOLOGNA Queste viola sono colonie di enterococco, vancomicina resistente.

GIULIO VALESINI A forza di usare la vancomicina…

VITTORIO SAMBRI - DIRETTORE UNITÀ OPERATIVA MICROBIOLOGIA AUSL ROMAGNA - UNIVERSITÀ DI BOLOGNA Dopo un po’ di anni qualcun altro ha imparato a diventare resistente alla vancomicina... l’enterococco. È un meccanismo abbastanza comune diciamo di rincorsa. Cioè noi usiamo un farmaco nuovo. I batteri imparano, fondamentalmente, imparano a diventare resistenti.

GIULIO VALESINI Lei dirige questo laboratorio da quanto?

VITTORIO SAMBRI - DIRETTORE UNITÀ OPERATIVA MICROBIOLOGIA AUSL ROMAGNA- UNIVERSITÀ DI BOLOGNA Sono dieci anni.

GIULIO VALESINI Queste piastrine aumentano?

VITTORIO SAMBRI - DIRETTORE UNITÀ OPERATIVA MICROBIOLOGIA AUSL ROMAGNA- UNIVERSITÀ DI BOLOGNA Sì, aumentano. È una rincorsa senza fine. E alla fine vincono loro.

GIULIO VALESINI Vincono loro?

VITTORIO SAMBRI - DIRETTORE UNITÀ OPERATIVA MICROBIOLOGIA AUSL ROMAGNA- UNIVERSITÀ DI BOLOGNA Si, se non cambiamo il nostro paradigma d'uso degli antibiotici, vincono loro.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Si tratta di un fenomeno naturale: alcuni ceppi sviluppano geni che li rendono resistenti agli antibiotici, loro imparano a sopravvivere, il paziente muore. Secondo le ultime stime questi batteri causano 1,3 milioni morti l’anno. Ci stiamo avvicinando alla drammatica previsione contenuta nel rapporto affidato dal governo britannico a un team guidato dal noto economista Jim O’Neill: 10 milioni di morti l’anno per batteri resistenti entro il 2050, più del cancro.

JIM O'NEILL - ECONOMISTA Quest'anno è stato pubblicato uno studio, molto dettagliato: il numero di persone che muoiono di malattie legate all'antibiotico resistenza è doppio rispetto alle nostre stime del 2016. Quindi se fai una proiezione è molto facile che si raggiungeranno anche oltre i 10 milioni di morti.

GIULIO VALESINI Cosa è cambiato a distanza di sei anni dal suo rapporto?

JIM O'NEILL – ECONOMISTA Il problema sembra peggiorare ma almeno il covid ha detto al mondo che le epidemie di malattie infettive possono uccidere molte persone. Quindi ora tutte le persone che sostenevano che le nostre stime di 10 milioni di persone all'anno che muoiono erano folli, non lo pensano più.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Senza antibiotici efficaci, diventano a rischio tutte le operazioni chirurgiche, a partire da quelle più comuni come un parto cesareo o l’estrazione di un dente.

EVELINA TACCONELLI - DIRETTRICE MALATTIE INFETTIVE - AZIENDA OSPEDALIERA VERONA I dati confermano che siamo di fronte a uno tsunami. Potremmo arrivare in una situazione in cui le chemioterapie non avranno più effetto. Perché? Perché il paziente avrà debellato il tumore ma morirà post chemioterapia o post trapianto di un'infezione resistente agli antibiotici.

GIULIO VALESINI Quindi la fine della medicina moderna.

EVELINA TACCONELLI - DIRETTRICE MALATTIE INFETTIVE - AZIENDA OSPEDALIERA VERONA La fine della medicina moderna…

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Pietro La Grassa è un tecnico di farmacia ospedaliera. A causa di un‘infezione batterica gli hanno dovuto amputare la gamba sotto al ginocchio. Ma è solo l’inizio della sua odissea.

PIETRO LA GRASSA Era uno stafilococco aureo. Dopo una settimana, mi arrivano altre due infezioni: sempre uno stafilococco aureo e un enterobacter. Da lì è cominciata la ferita a non rimarginarsi più …i margini della ferita a sgretolarsi, non potendo più avere la ricostruzione della cute. E anche lì hanno anche provato a curarmi con antibiotici per circa un venti, trenta giorni.

GIULIO VALESINI Ma non facevano effetto?

PIETRO LA GRASSA Niente, nessun effetto, nessun risultato.

GIULIO VALESINI La sua è un'infezione … come dire… cutanea?

PIETRO LA GRASSA Sì, era, adesso è molto più profonda. L’infettivologa palesa l'idea anche di dovermi tagliare proprio tutta definitivamente la gamba.

GIULIO VALESINI Lei da quant'è che prende antibiotici?

PIETRO LA GRASSA Dal 22 aprile, penso.

GIULIO VALESINI Quasi senza...

PIETRO LA GRASSA Senza stoppare, 39 giorni, una settimana e qualche giorno no…poi si ricomincia.

GIULIO VALESINI Adesso a lei la gamba le fa male?

PIETRO LA GRASSA Di brutto, mi brucia, brucia, proprio brucia, non è un dolore, è un bruciore come se veramente mi si stesse mangiando dall'interno.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Siamo di fronte a un problema globale ma in Italia è fuori controllo. È l’impietosa considerazione dell’Ecdc - l’ente europeo contro le malattie infettive – dopo i risultati di un’ispezione che aveva condotto nel 2017 nel nostro Paese, su richiesta dell’allora direttore generale della prevenzione, Ranieri Guerra.

EVELINA TACCONELLI - DIRETTRICE MALATTIE INFETTIVE - AZIENDA OSPEDALIERA VERONA Ho letto la relazione quando ero in Germania e io definirei non solo preoccupante ma agghiacciante. C'era una consapevolezza da parte del ministero della problematica nel 2017.

GIULIO VALESINI Dopo quella relazione. C'è stata una svolta?

EVELINA TACCONELLI - DIRETTRICE MALATTIE INFETTIVE - AZIENDA OSPEDALIERA VERONA Assolutamente no.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Le conclusioni dell’Ecdc sul quadro italiano sono spietate. Gli ispettori sottolineano la grave minaccia per la salute pubblica del Paese. Alcuni batteri sono ormai iperendemici. Il disastro è accettato da medici e funzionari del sistema sanitario italiano come se fosse inevitabile. Manca una strategia. È una figuraccia, E il ministero guidato all’epoca da Beatrice Lorenzin, cerca di correre ai ripari e redige un piano triennale per rispondere all’emergenza.

MARIA LUISA MORO - PRESIDENTE SOCIETÀ ITALIANA MULTIDISCIPLINARE PER LA PREVENZIONE DELLE INFEZIONI NELLE ORGANIZZAZIONI SANITARIE Quanto era necessario mettere in atto era sufficientemente chiaro.

GIULIO VALESINI Poi che è successo?

MARIA LUISA MORO - PRESIDENTE SOCIETÀ ITALIANA MULTIDISCIPLINARE PER LA PREVENZIONE DELLE INFEZIONI NELLE ORGANIZZAZIONI SANITARIE Non c'è stata quella creazione di un gruppo di governo del piano a livello nazionale che consentisse di farlo marciare.

GIULIO VALESINI Quindi è stato scritto non è stato seguito, non è stato implementato….

MARIA LUISA MORO - PRESIDENTE SOCIETÀ ITALIANA MULTIDISCIPLINARE PER LA PREVENZIONE DELLE INFEZIONI NELLE ORGANIZZAZIONI SANITARIE È necessario avere dati per contrastare l’antibiotico resistenza. Bisognerebbe fare in modo che questi sistemi di sorveglianza diventino sistematici. Devono partecipare tutti, devono essere obbligatori.

GIULIO VALESINI Perché oggi non sono obbligatori?

MARIA LUISA MORO - PRESIDENTE SOCIETÀ ITALIANA MULTIDISCIPLINARE PER LA PREVENZIONE DELLE INFEZIONI NELLE ORGANIZZAZIONI SANITARIE Non sono ancora obbligatori.

GIULIO VALESINI Io posso inviare, possono non inviare. Posso inviare parzialmente. Faccio un po’ come mi pare.

MARIA LUISA MORO - PRESIDENTE SOCIETÀ ITALIANA MULTIDISCIPLINARE PER LA PREVENZIONE DELLE INFEZIONI NELLE ORGANIZZAZIONI SANITARIE Sì, è così.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Il piano, nonostante l’allarme lanciato dall’ Ecdc è rimasto al palo. Senza sorveglianza siamo al buio, non riusciamo a capire dove nascono i focolai e come contrastare la diffusione dei batteri. Un esempio: l’incidenza delle pericolose infezioni da enterobatteri resistenti, è molto più bassa negli ospedali di Molise, Basilicata e Calabria che in Veneto o in Emilia. Ma non perché siano le più virtuose ma perché non inviano i dati. E così le regioni più scrupolose sembrano quelle messe peggio. La Calabria, due milioni di abitanti, e il commissariamento della sanità per debiti. Ma sulla carta è una delle regioni più sicure d’Italia.

GIULIO VALESINI E voi segnalate due casi in tutta la regione. Allora i casi sono due: o siete fenomeni oppure non li segnalate?

ERNESTO ESPOSITO - SUBCOMMISSARIO ALLA SANITA’ REGIONE CALABRIA Sicuramente no. Abbiamo una difficoltà nel fare le nostre attività di controllo costante.

GIULIO VALESINI Quindi non li mandate i dati?

ERNESTO ESPOSITO - SUBCOMMISSARIO ALLA SANITA’ REGIONE CALABRIA Ci sta sicuramente un dato scarso, dovuto ai rilievi, dovuto alla carenza di personale.

GIULIO VALESINI Se io vedo questa mappa io dico beh, vado a curarmi in Calabria, perché qui rischio molto meno di prendere un'infezione ospedaliera.

ERNESTO ESPOSITO - SUBCOMMISSARIO ALLA SANITA’ REGIONE CALABRIA Laddove ci viene spiegato che dobbiamo avvalerci della consulenza degli infettivologi. Ma dove sono?

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO In Sicilia sono attivi 21 laboratori che analizzano i referti delle aziende sanitarie provinciali e degli ospedali. E quando ci sono tanti dati emerge una realtà inquietante: alcuni batteri resistono agli antibiotici nel 100 per cento dei casi. Un salto nel passato o forse nel futuro che ci aspetta tutti.

GIULIO VALESINI Io quando ho letto il report mi è venuta una certa….

STEFANIA STEFANI - PROFESSORESSA ORDINARIA DIPARTIMENTO BIOMETEC UNIVERSITA’ DI CATANIA Si è preso... paura.

GIULIO VALESINI Beh, sì.

STEFANIA STEFANI - PROFESSORESSA ORDINARIA DIPARTIMENTO BIOMETEC UNIVERSITA’ DI CATANIA Ma non siamo mica soli…

GIULIO VALESINI Appunto!

STEFANIA STEFANI - PROFESSORESSA ORDINARIA DIPARTIMENTO BIOMETEC UNIVERSITA’ DI CATANIA Ma non siamo mica soli, eh. Siamo ben accompagnati in tante altre regioni.

GIULIO VALESINI Ci sono alcuni batteri che hanno delle resistenze...

STEFANIA STEFANI - PROFESSORESSA ORDINARIA DIPARTIMENTO BIOMETEC UNIVERSITA’ DI CATANIA Quasi totali.

GIULIO VALESINI Ho letto bene?

STEFANIA STEFANI - PROFESSORESSA ORDINARIA DIPARTIMENTO BIOMETEC UNIVERSITA’ DI CATANIA Sì, sono resistenti a tutte le famiglie di antibiotici.

 GIULIO VALESINI Lei ha sottomano un po’ i dati di tutta la regione Sicilia, giusto? Le infezioni ospedaliere stanno aumentando?

STEFANIA STEFANI - PROFESSORESSA ORDINARIA DIPARTIMENTO BIOMETEC UNIVERSITA’ DI CATANIA Sono in aumento quelle sostenute da microorganismi resistenti.

GIULIO VALESINI Cioè sono in aumento quelle più pericolose.

STEFANIA STEFANI - PROFESSORESSA ORDINARIA DIPARTIMENTO BIOMETEC UNIVERSITA’ DI CATANIA Sì, tre direttrici servono in questo momento: migliorare la qualità della diagnostica, arrivare a una terapia mirata rapidamente. Quindi la diagnostica va subito ad aiutare…

GIULIO VALESINI Ti aiuta a individuare … certo.

STEFANIA STEFANI – PROFESSORESSA ORDINARIA DIPARTIMENTO BIOMETEC UNIVERSITA’ DI CATANIA Ad accorciare i tempi per l'uso corretto degli antibiotici e la terza direttrice è infection control: si deve controllare il focolaio infettivo, la diffusione in ospedale.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO La Regione Sicilia ha messo in rete i dati delle infezioni che sono consultabili da tutti in tempo reale. Per controllare la diffusione dei focolai dentro gli ospedali sono stati anche nominati i gruppi di lavoro previsti dal piano nazionale.

GIUSEPPE MUROLO - DIPARTIMENTO PER LE ATTIVITÀ SANITARIE REGIONE SICILIANA Abbiamo anche realizzato un provvedimento che sono le linee di indirizzo per la cosiddetta stewardship antibiotica per cui abbiamo istituito dentro le aziende delle funzioni.

GIULIO VALESINI Funzionano? GIUSEPPE MUROLO - DIPARTIMENTO PER LE ATTIVITÀ SANITARIE REGIONE SICILIANA .... Funzionano si... che funzionano.

GIULIO VALESINI Più convinto...ni!

GIUSEPPE MUROLO - DIPARTIMENTO PER LE ATTIVITÀ SANITARIE REGIONE SICILIANA Dico, non ho il polso. Non mi stupirei se non funzionassero in tutti i posti.

GIULIO VALESINI Voi non avete avuto risorse dedicate?

GIUSEPPE MUROLO - DIPARTIMENTO PER LE ATTIVITÀ SANITARIE REGIONE SICILIANA No, su questo no.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Giuseppe Murolo è stato nominato dalla regione nel 2018 referente per la Sicilia del vecchio e nuovo Pncar. Insomma, l'attuazione nel territorio del piano nazionale di contrasto all’antibiotico resistenza passa dalle sue mani.

GIULIO VALESINI Lei quanti anni è stato referente?

GIUSEPPE MUROLO - DIPARTIMENTO PER LE ATTIVITÀ SANITARIE REGIONE SICILIANA Al momento no io ho cambiato lavoro, per cui faccio il direttore sanitario in un policlinico, al policlinico di Messina.  

GIULIO VALESINI Chi ha preso il suo posto?

GIUSEPPE MUROLO - DIPARTIMENTO PER LE ATTIVITÀ SANITARIE REGIONE SICILIANA Al momento nessuno.

GIUSEPPE MUROLO - DIPARTIMENTO PER LE ATTIVITÀ SANITARIE REGIONE SICILIANA Io sono stato via, sono andato via da circa un anno.

GIULIO VALESINI Sul nuovo Pncar chi è che se ne è occupato per la Sicilia di seguire i lavori?

GIUSEPPE MUROLO - DIPARTIMENTO PER LE ATTIVITÀ SANITARIE REGIONE SICILIANA Sul nuovo Pncar ci starei io sempre, anche.

GIULIO VALESINI Che però non c'è più da un anno, quindi.

GIUSEPPE MUROLO - DIPARTIMENTO PER LE ATTIVITÀ SANITARIE REGIONE SICILIANA Al momento ci sono sempre io.

GIULIO VALESINI Che però non c'è più.

GIUSEPPE MUROLO - DIPARTIMENTO PER LE ATTIVITÀ SANITARIE REGIONE SICILIANA Adesso non ci sono.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Insomma, c’è e non c’è. Un po’ come il Pncar, il Piano Nazionale di Contrasto, lo strumento per fermare l’avanzata di questi super batteri. Richiederebbe di mettere in atto subito alcune misure: intanto, una diagnosi precoce e accurata, l’altra cosa è prescrivere antibiotici mirati, poi monitorare l’evoluzione di questi batteri e assumere e formare del personale specializzato per questo tipo di emergenze. Incrementare, perché poi c’è anche questo vulnus, l’igiene clinica. Si trattava di misure da dover mettere in pratica subito, già tre anni prima della pandemia, il giorno dopo quell’ispezione dell’Ecdc del 2017, il centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie, gli ispettori hanno stilato un rapporto spietato nei confronti dell’Italia che l’infettivologa Evelina Tacconelli di Verona dice essere un rapporto agghiacciante. Invece, abbiamo consentito che i malati di covid, i pazienti con il covid, abbiano poi contratto in ospedale anche i batteri, alcuni resistenti agli antibiotici. Oggi c’è la consapevolezza che siamo di fronte alla vigilia della fine della medicina moderna perché tu potresti guarire da un tumore ma poi rimanere con il fisico debilitato colpito e infettato da batteri che possono condurti alla morte. Ma tanto questo piano non è stato applicato, nonostante tutto, nonostante gli allarmi, nonostante le ispezioni, perché tanto non chiede conto a nessuno a un ministro, a un direttore generale che non lo applica. Così come non ci sono sanzioni per quelle regioni come la Campania che non comunicano dati all’Istituto superiore di sanità pur avendo un numero altissimo di infezioni. Poi qualche regione ci prova come la Calabria ma dice: come facciamo a raccogliere e inviare i dati se ci mancano gli infettivologi, dice il subcommissario? Ecco al ministero qualcuno si era accorto che c’era un problema e ad un certo punto stanziano anche 40 milioni di euro, si era anche firmato l’assegno. Ma che fine hanno fatto questi milioni?

GIULIO VALESINI Io so che erano previsti dei soldi sul Pncar a partire dal 2021.

ERNESTO ESPOSITO – SUBCOMMISSARIO ALLA SANITA’ REGIONE CALABRIA No, non li abbiamo visti. Non ne sappiamo proprio.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Invece, da quanto risulta a Report c’erano 40 milioni del ministero della Salute per aiutare le regioni ad attuare il piano nazionale nel 2021.

MARIA LUISA MORO - PRESIDENTE SOCIETÀ ITALIANA MULTIDISCIPLINARE PER LA PREVENZIONE DELLE INFEZIONI NELLE ORGANIZZAZIONI SANITARIE Non sono mai stati erogati.

GIULIO VALESINI Come mai?

MARIA LUISA MORO - PRESIDENTE SOCIETÀ ITALIANA MULTIDISCIPLINARE PER LA PREVENZIONE DELLE INFEZIONI NELLE ORGANIZZAZIONI SANITARIE Questo sinceramente non lo so, non lo so.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Grazie a fonti interne al ministero abbiamo ricostruito la vicenda. I soldi per il Pncar erano già stanziati ma sono rimasti incastrati dentro le stanze del ministero della Salute. È scoppiata una controversia tra direzioni generali: quella della Prevenzione da una parte, cioè chi decide, dall’altra la programmazione che è quella che deve aprire il portafoglio. Alla fine, tutto è rimasto fermo.

ANDREA URBANI - DIRETTORE GENERALE PROGRAMMAZIONE MINISTERO DELLA SALUTE 2017 – 2022 Il problema per cui non furono ripartiti i 40 milioni nel 2021. È perché l'intesa fu fatta male, non stabiliva né criteri di riparto, né obiettivi, né finalità né modalità diciamo di controllo. Era inapplicabile l’intesa.

 GIULIO VALESINI Ma si lavora in modo così superficiale al ministero della Salute, scusi?

ANDREA URBANI - DIRETTORE GENERALE PROGRAMMAZIONE MINISTERO DELLA SALUTE 2017 - 2022 Era un po’ irricevibile. La prevenzione è rimasta inerte su questo. Poi io la lascio a giugno, io poi dopo a giugno sono andato via.

GIULIO VALESINI Ma come avete fatto a non spendere 40 milioni di euro? Il tema è importante.

ANDREA URBANI - DIRETTORE GENERALE PROGRAMMAZIONE MINISTERO DELLA SALUTE 2017 - 2022 I soldi per fare antibiotico resistenza non sono progetti di formazione, ma sono dei processi che vanno instaurati all'interno delle regioni monitorati. Non è dando soldi a pioggia sul nulla, come si fa di solito.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Da maggio del 2020 l’ex ministro Roberto Speranza ha messo a capo della prevenzione Gianni Rezza.

GIULIO VALESINI Su un argomento così importante, si fa un’intesa, 40 milioni di euro e si sbaglia a scrivere l’intesa?

GIANNI REZZA - DIRETTORE GENERALE ALLA PREVENZIONE MINISTERO DELLA SALUTE Capisco che sia scritta veramente in maniera che dopo… non dà adito…non è consequenziale.

GIULIO VALESINI A Roma si dice: “manco le basi”.

GIANNI REZZA - DIRETTORE GENERALE ALLA PREVENZIONE MINISTERO DELLA SALUTE Però l’intesa non la scriviamo noi.

GIULIO VALESINI E chi l’ha scritta l’intesa?

GIANNI REZZA - DIRETTORE GENERALE ALLA PREVENZIONE MINISTERO DELLA SALUTE L’intesa si scrive in Stato-Regioni. Chiaramente è il ministero ma non la direzione che scrive l’intesa.

GIULIO VALESINI Chi? il ministro, no?

GIANNI REZZA - DIRETTORE GENERALE ALLA PREVENZIONE MINISTERO DELLA SALUTE Beh, il ministro in persona no…chi per lui ritengo. Adesso in questo caso non le so dire chi l’abbia scritta. C’è il gabinetto…ci sono le regioni…

GIULIO VALESINI La programmazione dice è colpa della prevenzione ci hanno presentato un piano che non stava in piedi… era proprio non applicabile. Noi gli abbiamo detto facciamo una cosa seria.

GIANNI REZZA - DIRETTORE GENERALE ALLA PREVENZIONE MINISTERO DELLA SALUTE No, ma noi non sappiamo neanche perché ad un certo punto un piano isorisorse dopo escono fuori 40 milioni per una proroga, a partire dal 2021. E che siamo noi che scriviamo, a partire dal 2021?

GIULIO VALESINI Ma chi l’ha scritta però scusi?

GIANNI REZZA - DIRETTORE GENERALE ALLA PREVENZIONE MINISTERO DELLA SALUTE Se lo sapessi glielo direi.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Insomma, ormai è un giallo. Ma Rezza si è lasciato sfuggire un indizio su chi è il maggiordomo della storia. Qualcuno nell’entourage di Speranza, probabilmente il suo gabinetto. Abbiamo chiesto un'intervista all’ex ministro che ha preferito declinare. Il mistero rimane. E intanto ci riprovano. Nell’ultima finanziaria sono previsti altri 40 milioni a partire dal prossimo anno. Sperando che questa volta i soldi non rimangano bloccati.

STEFANIA STEFANI - PROFESSORESSA ORDINARIA DIPARTIMENTO BIOMETEC UNIVERSITA’ DI CATANIA Qui noi siamo pronti con le azioni da mettere in atto.

GIULIO VALESINI Cosa vi manca?

STEFANIA STEFANI - PROFESSORESSA ORDINARIA DIPARTIMENTO BIOMETEC UNIVERSITA’ DI CATANIA Certamente servono finanziamenti. Lei può obbligare un laboratorio a comprare una macchina super sofisticata se nessuno contribuisce economicamente all'acquisto?

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO A giugno ha visto la luce anche il nuovo piano valido fino al 2025. Le Regioni prima di ratificare aspettano stavolta rassicurazioni sui soldi. Ma ci vogliono indicazioni su come spenderli.

EVELINA TACCONELLI - DIRETTRICE DIVISIONE MALATTIE INFETTIVE - AZIENDA OSPEDALIERA VERONA Ci sono dei fondi ma non so come sono destinati questi fondi e come vengono rendicontati. GIULIO VALESINI Lei fa parte, è componente della commissione del nuovo Pncar e non sa quanti fondi e come vengono spesi i fondi?

EVELINA TACCONELLI - DIRETTRICE DIVISIONE MALATTIE INFETTIVE - AZIENDA OSPEDALIERA VERONA No, perché non è stato un argomento di discussione.

GIULIO VALESINI Ma è strana come cosa, eh?

EVELINA TACCONELLI - DIRETTRICE DIVISIONE MALATTIE INFETTIVE - AZIENDA OSPEDALIERA VERONA Io lo trovo strano perché l'intervento deve essere pianificato non solo con indicatori, ma deve esserci un budget correlato. E’ essenziale che in ogni ospedale ci sia una sorveglianza attiva che dica quante infezioni ci sono in ogni momento e che ci sia un team esperto che lavori al 100 percento sul controllo. Se io devo attuare questo nel mio ospedale, ma non ho budget, vuol dire che io posso anche decidere che questa è una priorità. Però devo togliere persone da un’altra organizzazione e deputarli al 100 percento su questo.

GIULIO VALESINI Servono finanziamenti.

EVELINA TACCONELLI - DIRETTRICE DIVISIONE MALATTIE INFETTIVE - AZIENDA OSPEDALIERA VERONA Servono finanziamenti e volontà politica. C’è chi la volontà per contrastare le infezioni da super batteri ce l’ha messa già dal 2014. Alla Asl Romagna sono partiti con un piano finanziato da fondi regionali, risultano tra le regioni che sono più colpite dalle infezioni ma solo perché a differenza di altri, le segnalano.

CARLO BIAGETTI – DIRETTORE MALATTIE INFETTIVE RIMINI Abbiamo un algoritmo, io chirurgo, faccio la mia chirurgia, faccio un prelievo di follow – up che è di 30 giorni o di 90 giorni se vado a mettere una protesi e se all’interno di quei 30 giorni trovo una infezione, faccio la scheda. Io ho dovuto lavorare molto per convincere quelli sopra di me che i programmi che stavo attuando erano un investimento e necessitavano risorse.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Le priorità degli interventi sono decise da un nucleo di specialisti: infettivologo, farmacista, microbiologo e l’infermiera sentinella.

CARLO BIAGETTI – DIRETTORE MALATTIE INFETTIVE RIMINI Sono la nostra anima, quelle che poi nella quotidianità fanno il grande del lavoro.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO All’ospedale di Rimini hanno assunto sei infermiere specializzate in infezioni batteriche che sorvegliano i reparti.

ALESSANDRA AMADORI – INFERMIERA SPECIALIZZATA RISCHIO INFETTIVO - AUSL ROMAGNA Abbiamo anche un collegamento diretto con il laboratorio di microbiologia che ci fornisce in tempo reale l’isolamento di microrganismi sui vari pazienti.

GIULIO VALESINI E poi a quel punto che succede?

ALESSANDRA AMADORI – INFERMIERA SPECIALIZZATA RISCHIO INFETTIVO - AUSL ROMAGNA Facciamo una verifica sulle condizioni del paziente.

GIULIO VALESINI Quindi il laboratorio segnala batterio, scatta l’allarme e voi controllate…

ALESSANDRA AMADORI – INFERMIERA SPECIALIZZATA RISCHIO INFETTIVO - AUSL ROMAGNA Esatto, poi andiamo in reparto controlliamo come è stato collocato e che tipo di dispositivi vengono utilizzati per il paziente sia dispositivi di protezione che dispositivi medici da utilizzare per l’assistenza. Con l’obiettivo appunto di evitare che questo microrganismo si diffonda.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Le infermiere sentinelle hanno anche il compito di controllare che il personale sanitario si lavi le mani. Sembra incredibile ma non è così scontato.

ALESSANDRA AMADORI – INFERMIERA SPECIALIZZATA RISCHIO INFETTIVO - AUSL ROMAGNA Questo lo facciamo attraverso dei dati, oggi l’indicatore è 20 litri per mille giornate di degenza. Quindi noi calcoliamo…

GIULIO VALESINI Qui quante ne usate?

ALESSANDRA AMADORI – INFERMIERA SPECIALIZZATA RISCHIO INFETTIVO - AUSL ROMAGNA Ah, glielo faccio vedere. La nostra azienda oggi, 80,2 percento.

GIULIO VALESINI Ma è vero che i medici, soprattutto, sono si lavano poco le mani?

ALESSANDRA AMADORI – INFERMIERA SPECIALIZZATA RISCHIO INFETTIVO - AUSL ROMAGNA I medici sono la categoria che si lava meno le mani.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO L’emergenza ormai non è solo negli ospedali. Le infezioni colpiscono anche fuori. L’odissea di Simona dura due anni di inutili cure con gli antibiotici. Inizia tutto con un’infezione al piede. SIMONA GESTRI Il piede era diventato così dolorante e gonfio che andavo in giro con le stampelle. C'era un'infezione sì sì, che stava consumando le ossa del piede. Dopo qualche mese, mi si creò un fenomeno simile sotto il braccio mi sono cominciate a venire delle ulcere importanti. Erano veri e propri crateri nella pelle.

GIULIO VALESINI In due anni quante volte ha avuto infezioni, lei?

SIMONA GESTRI Mi venne quindi 13 volte, 13 volte. A distanza di un mese sempre una volta dall’altra.

GIULIO VALESINI Alla fine risolveva la questione, incidendo la ferita e facendo uscire l'infezione.

SIMONA GESTRI Non sapendo da cosa era dovuta questa infiammazione, mi consegnavano un antibiotico ad ampio spettro.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO L’intuizione giusta arriva da un ricercatore dello Spallanzani che fa fare un tampone a Simona ed emerge la verità: infezione da stafilococco aureo resistente a più farmaci.

SIMONA GESTRI Questo medico dello Spallanzani mi prescrisse delle cure antibiotiche specifiche.

GIULIO VALESINI Fece una combinazione di antibiotici.

SIMONA GESTRI Una combinazione sì, perché…

GIULIO VALESINI Non c'era un antibiotico specifico.

SIMONA GESTRI Non c'era un antibiotico specifico. Mi disse anche che questo era un tentativo, mi disse non sono sicuro che possa funzionare.

GIULIO VALESINI Lei è mai stata in un ospedale?

SIMONA GESTRI No, non sono mai stata ricoverata in un ospedale, non ho mai subito un intervento operatorio. La cosa che ci ha più inquietato è stato il fatto che ho contagiato alcuni membri della mia famiglia.

LORD JIM O’NEILL – ECONOMISTA Ero entusiasta che il G20 avesse iniziato a parlare di antibiotico resistenza. Ma ora guarda caso, non ci sono soldi. Basta con queste sciocchezze, politici: smettete di twittare, via da Facebook, fate qualcosa di concreto! Il mio appello al governo italiano e a tutti i membri del G20 è: “E’ ora di trattare questo tema con più serietà”, altrimenti da qui al 2050 quello che è successo con il Covid vi sembrerà una festa in giardino.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Secondo l’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, curare un paziente che ha contratto dei batteri resistenti può costare fra gli 8.500 e i 34.000 euro a persona, perché questo richiede la cura una lunga degenza. Poi prevede anche una spesa di 11 miliardi di euro da qui al 2050. Chiede anche di mettere in atto un pacchetto di misure urgenti per la prescrizione di antibiotici più mirate, maggiore igiene clinica negli ospedali, perché questo è un problema anche degli ospedali italiani. Ecco, un investimento sulla prevenzione di 240 milioni l’anno, farebbe risparmiare 521 milioni l’anno. Soprattutto, con la prevenzione si eviterebbero dagli 8 e ai 9 mila morti ogni anno. Ora Report ha scoperto che c’è un piano dove c’è anche scritta questa cosa qui però ha fatto un po’ la fine del fratello del piano, quello un po’ più sfortunato, il piano pandemico, che abbiamo scoperto proprio noi di Report, essere rimasto sulla carta perché non è stato mai aggiornato, dal 2006, e quindi non è stato possibile applicarlo. E così la stessa sorte l’ha avuta, quasi, il piano nazionale per contrastare l’avanzata dei super batteri. C’erano anche i soldi, 40 milioni di euro, perché non è stato attuato, perché non sono stati stanziati, non sono stati spesi, questi soldi? Lo vedremo fra un minuto, golden minute.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora, bentornati. Parlavamo dei super batteri che in Italia provocano la morte di 15 mila persone ogni anno e dell’esistenza di un piano per contrastarli che però non è stato mai attuato. Report ha scoperto che sono stati anche stanziati 40 milioni di euro e che però sono rimasti in un cassetto del ministero della Salute perché è stato scritto male il progetto. Si erano anche dimenticati di indicare i limiti per gli scarichi dei fiumi delle lavorazioni, delle scorie degli antibiotici. E non è un fatto da poco.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Il caso più clamoroso di mancato rispetto delle precauzioni sulle prescrizioni di antibiotici indicate nel piano di contrasto ai super batteri è stata l’azitromicina, un antibiotico che si usa per numerose infezioni. Ma è stato tra i farmaci più prescritti ai pazienti che avevano contratto il covid nonostante sin dal primo anno alla facoltà di medicina insegnano che i virus non si curano con gli antibatterici.

CRISTOPH LÜBBERT - MALATTIE INFETTIVE E MEDICINA TROPICALE UNIVERSITÀ DI LIPSIA Sono stati prescritti troppi antibiotici non solo per i pazienti a casa ma anche in ospedale, e così è stata facilitata la selezione di batteri resistenti. Per il futuro questo è un grosso problema.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Da noi le vendite di questo antibiotico con il covid sono cresciute del 230 per cento. Sono due anni che in Italia il farmaco è praticamente introvabile nelle farmacie per eccesso di richiesta, sostiene Aifa.

NICOLA MAGRINI - DIRETTORE GENERALE AIFA C 'erano stati anche alcuni studi o pseudo studi che avevano detto che l'azitromicina e altri prodotti avevano anche una efficacia antivirale e non avevano solo un'efficacia antibiotica. Erano studi non credibili, non trasferibili nella pratica clinica.

GIULIO VALESINI Sì, ma dopo due anni, mi sembra una cosa assurda.

 NICOLA MAGRINI – DIRETTORE GENERALE AIFA Averlo visto nella seconda fase, quando avevamo a disposizione sia essendo vaccinati sia cure migliori e dimostrate è stato abbastanza sconfortante.

GIULIO VALESINI Per anni abbiamo prescritto l’azitromicina per un virus, in Italia.

VINCENZO SCOTTI - SEGRETARIO GENERALE NAZIONALE FEDERAZIONE ITALIANA MEDICI DI MEDICINA GENERALE Lei può dare per certo che la maggior parte dei pazienti covid non potesse avere una parte dei pazienti covid non potesse avere una complicanza batterica?

GIULIO VALESINI L’avete prescritto lo Zitromax in via preventiva che, male c’è a dirlo?

VINCENZO SCOTTI - SEGRETARIO GENERALE NAZIONALE FEDERAZIONE ITALIANA MEDICI DI MEDICINA GENERALE Alla fine il paziente se lo faceva anticipare e poi veniva a richiedere la prescrizione.

GIULIO VALESINI Ma lei è scandalizzato o no, del fatto che a due anni e rotti dall'inizio della pandemia, ancora oggi si prescriva lo Zitromax?

VINCENZO SCOTTI - SEGRETARIO GENERALE NAZIONALE FEDERAZIONE ITALIANA MEDICI DI MEDICINA GENERALE Assolutamente sì.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Qui siamo in Croazia, meta dei vacanzieri in estate e produttrice di orate che finiscono nei nostri piatti. Non lontano da Zagabria c’è la Pliva. I suoi ricercatori nel 1980 hanno scoperto l’azitromicina, e hanno ceduto i diritti di licenza alla Pfizer che ha venduto il farmaco in mezzo mondo col marchio Zitromax. Lì vicino passa il fiume Sava e hanno trovato la azitromicina in concentrazioni di mille volte superiori a quelle che si trovano nei fiumi.

RUZA KATIC - ATTIVISTA ASSOCIAZIONE EKO ZAPRESIC Di solito è più facile avvicinarsi. Questo è il punto dove il team del centro di ricerca Boskovic ha prelevato i campioni per la sua ricerca nel 2016.

VEDRANA SIMICEVIC - GIORNALISTA Hanno preso i campioni per un anno intero in diversi periodi dell'anno, in diversi giorni della settimana. I ricercatori hanno scoperto che era più alta durante i giorni festivi. Hanno puntato il dito contro l’azienda farmaceutica. Forse stavano cercando di risparmiare soldi. Anche se loro hanno sempre negato.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO L’ispettorato del ministero dell'Ambiente dovrebbe controllare la qualità di quest'acqua. Ma pare che da queste parti non si siano mai fatti vedere.

VEDRANA SIMICEVIC – GIORNALISTA Né in Croazia, né in Europa, ci sono leggi che fissano limiti alla quantità di antibiotici che finiscono nei fiumi.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO In questo punto del Po confluiscono gli scarichi dell'hinterland milanese. Cosa c’è nell’ acqua? Ce lo spiega una ricercatrice dell’Istituto Mario Negri.

SARA CASTIGLIONI – RICERCATRICE ISTITUTO MARIO NEGRI Questo strumento ci consente di raccogliere automaticamente dei campioni di acqua. Quindi ci muoviamo lungo il corso del fiume, raccogliamo per cinque sei volte in modo da avere più di un litro di acqua che poi ci servirà per le analisi.

 GIULIO VALESINI Quindi quei cinque sei punti diversi…

SARA CASTIGLIONI - RICERCATRICE ISTITUTO MARIO NEGRI In modo da avere un campione che sia rappresentativo di questo posto.

SARA CASTIGLIONI - RICERCATRICE ISTITUTO MARIO NEGRI La problematica degli antibiotici e dei farmaci che vengono continuamente immessi tutti i giorni nell'ambiente, e quindi sono considerati dei contaminanti semi persistenti.

GIULIO VALESINI Il fiume Po in questo caso è una palestra dove il batterio come dire si allena. Gonfia i muscoli e diventa più forte.

SARA CASTIGLIONI - RICERCATRICE ISTITUTO MARIO NEGRI Sì, sì. Il depuratore non è costruito per degradare queste sostanze. A volte succede che il quantitativo di antibiotico che entra è uguale al quantitativo di antibiotico che esce.

GIULIO VALESINI Le acque del Po raccolte sono state analizzate nei laboratori dell’Istituto Mario Negri di Milano.

SARA CASTIGLIONI - RICERCATRICE ISTITUTO MARIO NEGRI Quello giallo si chiama lincomicina e ha un uso molto basso a livello umano.

GIULIO VALESINI Quindi questa è roba di allevamento, animale.

SARA CASTIGLIONI - RICERCATRICE ISTITUTO MARIO NEGRI Abbiamo poi sulfamidici che hanno sia un umano per uso veterinario e macrolidi che prevalentemente a uso umano e fluorochinoloni che hanno un uso sia umano che veterinario.

GIULIO VALESINI Quindi gli antibiotici presi dagli esseri umani e dagli animali?

SARA CASTIGLIONI - RICERCATRICE ISTITUTO MARIO NEGRI Sì. GIULIO VALESINI Se uno dovesse quantificare no, tra l’altro solo questa parte di antibiotici.

SARA CASTIGLIONI - RICERCATRICE ISTITUTO MARIO NEGRI A valle del fiume Oglio noi abbiamo quotidianamente un carico di tre chili al giorno di antibiotici.

GIULIO VALESINI E’ tanto?

SARA CASTIGLIONI - RICERCATRICE ISTITUTO MARIO NEGRI E abbastanza, se pensiamo, comunque siamo nell’ordine dei chili.

GIULIO VALESINI Aldilà del problema ambientale. Uno potrebbe dire chi se ne frega degli antibiotici nel po’, sarà più curato il Po’. O no? Che ci importa alla fine?

SARA CASTIGLIONI - RICERCATRICE ISTITUTO MARIO NEGRI La presenza degli antibiotici nell'ambiente, in realtà, è un campanello d'allarme perché può fungere da serbatoio di resistenze.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Se qualcuno pensa che la formazione di colonie di batteri resistenti agli antibiotici sia fantascienza compie un errore di presunzione. La lezione viene dall’India, dove eravamo stati tre anni fa.

ANIL DYAKAR - PRESIDENTE GAMANA ONG Lì ci sono le grandi industrie farmaceutiche. Le acque di scarico sono sversate direttamente in questo lago che ormai è completamente inquinato. Puoi vedere anche tu: l’acqua di scarico arriva da lì.

GIULIO VALESINI Da quei buchi laggiù?

ANIL DYAKAR - PRESIDENTE GAMANA ONG Sì.

GIULIO VALESINI Ok. Sversano tutto qui e arriva fino laggiù?

ANIL DYAKAR - PRESIDENTE GAMANA ONG Sì.

GIULIO VALESINI Fino al lago laggiù.

ANIL DYAKAR - PRESIDENTE GAMANA ONG Per tutte le industrie è la stessa cosa: scaricano le loro acque grazie alla pendenza del terreno dall’alto verso il basso.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Lo avevamo documentato nel 2019 a Hyderabad, la capitale farmaceutica dell’india dove hanno gli stabilimenti grandi aziende come Aurobindo, Mylan che producono i farmaci generici che consumiamo tutti i giorni anche in Italia. Soprattutto antibiotici.

GIULIO VALESINI C’è una puzza tremenda qui.

ANIL DYAKAR – PRESIDENTE GAMANA ONG Sì, è tremenda. Ci sono antibiotici, i liquami fognari si mischiano agli scarti industriali ed è per questo che hai quella schiuma lì. Abbiamo raccolto dei campioni delle acque e anche i campioni del suolo e li abbiamo testati nell’ospedale di Lipsia.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Così Hyderabad è diventato il focolaio di un pericolo globale che può arrivare ovunque. Questo è il fiume Musi, analisi di laboratorio hanno trovato batteri con l’enzima New Dheli, che li rende molto resistenti agli antibiotici. Fu isolato per la prima volta su un turista svedese di ritorno dall’India. Nel 2019 è arrivato in Toscana causando più di un centinaio di morti e l’emergenza non è ancora finita.

UOMO Mio padre era una persona che aveva circa 88 anni, una persona in salute. Una mattina, in macchina, ha avuto questo problema. Febbre alta, brividi di lì è iniziato blocco renale, succede un po’ di problemi, non camminava più…

GIULIO VALESINI Erano quelli che potevano sembrare sintomi…

UOMO Di una banale influenza. Il medico mi ha detto: “Guardi, suo padre ha questo batterio” e di lì… non siamo riusciti a fare niente finché è deceduto. Mio padre era 110 chili.

GIULIO VALESINI Era un bell’omone, insomma.

UOMO Era un bell’omone, al momento del decesso era 47 chili.

SAURO LUCHI - PRIMARIO DI MALATTIE INFETTIVE OSPEDALE DI LUCCA Abbiamo ancora a che fare con questo microrganismo. Nel 2021 abbiamo avuto un aumento dei casi, legato soprattutto alla ripresa di tutte le attività chirurgiche. Qualche caso è in tutte le regioni di New Delhi. Noi speriamo di riportare la circolazione di questo microrganismo in termini come dire un pochino più fisiologici.

GIULIO VALESINI Ah quindi è arrivato in tutta Italia questo batterio?

SAURO LUCHI - PRIMARIO DI MALATTIE INFETTIVE OSPEDALE DI LUCCA Sì, ci sono segnalazioni un po’ in tutta Italia.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Se il batterio New Delhi si è formato in India con lo scarto degli antibiotici e si è diffuso nel mondo esportato da un turista. Dopo il covid potrebbe accadere qualcosa di simile da noi, nel lago Maggiore dal 2013 ogni mese i ricercatori del Cnr studiano la relazione fra gli scarichi, soprattutto domestici, nelle acque del lago e la formazione di batteri resistenti agli antibiotici e durante il covid, in seguito all’abuso di Zitromax, si sono accorti che qualcosa è cambiato.

GIANLUCA CORNO – RICERCATORE ECOLOGIA MICROBICA – CNR Abbiamo avuto attraverso il covid, un aumento dell’utilizzo improprio dell’antibiotico Azitromicina. Di fatto, noi per la prima volta, abbiamo trovato nel lago Maggiore in grossa quantità…

GIULIO VALESINI Quindi voi durante il covid avete osservato che si stava sviluppando una resistenza…

 GIANLUCA CORNO – RICERCATORE ECOLOGIA MICROBICA – CNR Diciamo c’erano più resistenze ai macrolidi, quindi alla Azitromicina, nel lago maggiore che ha correlato perfettamente con i primi picchi del coronavirus.

GIULIO VALESINI Quindi diciamo che il lago è un po’ uno specchio dei consumi.

GIANLUCA CORNO – RICERCATORE ECOLOGIA MICROBICA – CNR Questa è una ragione per cui l’antibiotico resistenza andrebbe valutata anche in ambiente. Perché a differenza di altre misure sulle vendite di antibiotici, sul consumo, va a coprire anche tutta quella parte un po’ grigia, di consumo, che poi diciamo non rientra nelle statistiche.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Secondo l'Aifa in Italia su alcune malattie un antibiotico su tre è prescritto dai medici in modo inappropriato: non serve a nulla, se non a rendere più resistenti i batteri.

GIULIO VALESINI Ma come mai secondo lei si prescrivevano così tanti antibiotici?

NICOLA MAGRINI - DIRETTORE GENERALE AIFA Da un lato per incultura.

 GIULIO VALESINI Dei medici? NICOLA MAGRINI - DIRETTORE GENERALE AIFA Dall’altro per tradizioni terapeutiche e dall'altro per un gioco delle attese… Mi aspetto che tu ti aspetti che io faccia qualcuno anche si dice a titolo precauzionale, non si usano antibiotici a titolo precauzionale.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Secondo l’Aifa in Italia sono i medici di base che fanno l’80 percento delle prescrizioni.

GIULIO VALESINI Siete voi che avete la ricetta facile?

VINCENZO SCOTTI- SEGRETARIO GENERALE NAZIONALE FEDERAZIONE ITALIANA MEDICI DI MEDICINA GENERALE Il medico di famiglia quando fa una prescrizione, molte volte fa una prescrizione sulla base di una ricetta che gli arriva da uno specialista.

GIULIO VALESINI Quindi lei dice voi prescrivete l’antibiotico perché a sua volta l’antibiotico è stato prescritto dallo specialista. Poi alla fine la ricetta la fate voi e il cialtrone è lei.

VINCENZO SCOTTI - SEGRETARIO GENERALE NAZIONALE FEDERAZIONE ITALIANA MEDICI DI MEDICINA GENERALE Divento io… il medico di medicina generale ha pochi strumenti diagnostici a disposizione. Il paziente oggi viene da te in prima battuta con un mal di gola, insorto da 12 ore. Puoi essere il miglior medico del mondo, ma non riuscirai a stabilire se quell’arrossamento della gola o l’iperemia sia di tipo batterico o di tipo virale.

GIULIO VALESINI Nel dubbio gli dai l’antibiotico.

VINCENZO SCOTTI - SEGRETARIO GENERALE NAZIONALE FEDERAZIONE ITALIANA MEDICI DI MEDICINA GENERALE In modo preventivo, per gestire l'attesa, eventualmente con una evoluzione che molti anni fa portava più spesso a fenomeni batterici che a fenomeni virali.

GIULIO VALESINI Rimutuando un famoso slogan del ministro Speranza invece che tachipirina e vigile attesa, “antibiotico e vigile attesa”, era questo un po’ il modello.

VINCENZO SCOTTI - SEGRETARIO GENERALE NAZIONALE FEDERAZIONE ITALIANA MEDICI DI MEDICINA GENERALE Vigile attesa e antibiotico, è diverso.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Ma perché molti di loro sono così disattenti? A mettere il sospetto è l’ispezione dell’Ecdc del 2017: “i rappresentanti delle aziende hanno un accesso costante ai medici e sembra che l'industria influenzi le abitudini di prescrizione.”

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO C'è anche l'idea che possano essere le aziende farmaceutiche a spingere molto sulla prescrizione di questi farmaci o a fare molta formazione per i medici, ad esempio.

NICOLA MAGRINI - DIRETTORE GENERALE AIFA Questo è un tema su cui, secondo me, si potrebbe trovare un modo affinché non ci siano convegni mono sponsor, per una formazione che risponda ai bisogni di salute pubblica e non a segnalare un antibiotico così che diventi interessante per pressioni di marketing.

GIULIO VALESINI I medici prescrivono troppi antibiotici perché dietro c'è lo zampino delle aziende farmaceutiche?

SILVIO GARATTINI - PRESIDENTE ISTITUTO MARIO NEGRI E’ chiaro che se l'informazione deriva solo dall'industria, l'industria è logico e in qualche modo normale che abbia l'interesse ad aumentare le sue vendite. Quello che a noi manca in Italia è un'informazione indipendente che non esiste e che dovrebbe essere invece invocata da tutti gli ordini dei medici. Perché dovrebbero essere i medici a dire non possiamo essere schiavi dell'informazione di parte.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Tra le più influenti società di formazione c’è la Metis, di proprietà del sindacato dei medici di base, la Fimmg. È una società che fattura quasi tre milioni di euro. Nei suoi bilanci la Metis parla sempre di contributi non condizionanti dall’industria. Eppure, nella relazione sulla gestione 2021 indirizzata proprio al socio unico Fimmg si arriva a definire le aziende farmaceutiche come “clientela”.

GIULIO VALESINI Le aziende farmaceutiche sono i vostri clienti?

VINCENZO SCOTTI - SEGRETARIO GENERALE NAZIONALE FEDERAZIONE ITALIANA MEDICI DI MEDICINA GENERALE Mi faccia meglio la domanda.

GIULIO VALESINI Ho letto la relazione del bilancio Metis 2021. E dice che le aziende farmaceutiche sono definite come clientela che sponsorizza la formazione dei medici. A me ha fatto un po’ effetto.

VINCENZO SCOTTI - SEGRETARIO GENERALE NAZIONALE FEDERAZIONE ITALIANA MEDICI DI MEDICINA GENERALE Questa cosa qua rientra nella dinamica che lei conosce, prevista per la normativa di legge. Non è in contrasto con la legge.

GIULIO VALESINI Ma sono clienti le aziende farmaceutiche? Siccome il cliente c’ha sempre ragione… non vorrei che.

VINCENZO SCOTTI - SEGRETARIO GENERALE NAZIONALE FEDERAZIONE ITALIANA MEDICI DI MEDICINA GENERALE Mica sempre.

GIULIO VALESINI Spesso.

VINCENZO SCOTTI - SEGRETARIO GENERALE NAZIONALE FEDERAZIONE ITALIANA MEDICI DI MEDICINA GENERALE Mica sempre.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Volevamo documentare il congresso della Fimmg organizzato a ottobre in Sardegna dalla Metis. Ci hanno negato l’accesso. Sarà un caso ma lo stesso giorno in cui avevamo chiesto l’accredito era previsto l’intervento dell’allora ministro Roberto Speranza che dopo lo scoop sul piano pandemico italiano mai aggiornato e mai attuato non ha mai voluto incontrarci.

GIULIO VALESINI Vedo che il giorno in cui devo andare io vedo Speranza, dico. Eccola là…

VINCENZO SCOTTI - SEGRETARIO GENERALE NAZIONALE FEDERAZIONE ITALIANA MEDICI DI MEDICINA GENERALE Non credo che abbiamo niente da nascondere, sinceramente.

GIULIO VALESINI Quindi ve l’ha chiesto lo staff del ministro?

VINCENZO SCOTTI - SEGRETARIO GENERALE NAZIONALE FEDERAZIONE ITALIANA MEDICI DI MEDICINA GENERALE Ah?

GIULIO VALESINI Quindi ve l’ha chiesto lo staff del ministro. Le viene un po’ da ridere?

VINCENZO SCOTTI - SEGRETARIO GENERALE NAZIONALE FEDERAZIONE ITALIANA MEDICI DI MEDICINA GENERALE No, su questo sia assolutamente tranquillo, anzi se posso fare qualcosa per riappacificarvi.

GIULIO VALESINI Adesso faremo pace.

VINCENZO SCOTTI - SEGRETARIO GENERALE NAZIONALE FEDERAZIONE ITALIANA MEDICI DI MEDICINA GENERALE Nei limiti chiaramente del vostro diritto di inchiesta e del diritto di posizione di Roberto.

GIULIO VALESINI Mi fa impazzire che lei lo chiama Roberto.

VINCENZO SCOTTI - SEGRETARIO GENERALE NAZIONALE FEDERAZIONE ITALIANA MEDICI DI MEDICINA GENERALE Ma le ripeto, io personalmente con il ministro, ho creduto molto in un rapporto personale, a prescindere da quelli che erano i ruoli.

GIULIO VALESINI Si è anche presentato a Napoli.

VINCENZO SCOTTI - SEGRETARIO GENERALE NAZIONALE FEDERAZIONE ITALIANA MEDICI DI MEDICINA GENERALE Tanto lo scopre... era nel mio collegio.

GIULIO VALESINI Ah, sì?

VINCENZO SCOTTI - SEGRETARIO GENERALE NAZIONALE FEDERAZIONE ITALIANA MEDICI DI MEDICINA GENERALE Eh, sì!

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Eh, sì. Però sono ancora tanti i medici prescrivono antibiotici anche quando non servirebbero. Secondo l’Aifa, le prescrizioni inappropriate arriverebbero a punte del 30 percento. I medici avrebbero anche prescritto con facilità, anche sotto il covid. I batteri ringraziano pagheremo le conseguenze in futuro perché si formano delle colonie resistenti, come abbiamo visti. Ora la ricetta facile è una questione culturale, ma anche di formazione che è quella dei medici poi viene spesso finanziata dalle stesse case farmaceutiche, le stesse che in questi anni non hanno sviluppato nuovi antibiotici. Perché è costoso, può arrivare a costare sino a un miliardo, un miliardo e mezzo, e poi non conviene perché non le puoi usare con grande, in grande intensità, perché poi li rendi inefficaci e formi batteri resistenti, come abbiamo visto. E’ per questo che la comunità europea, la commissione europea, sta studiando una forma di incentivo per sviluppare nuovi farmaci e renderli soprattutto permanenti perché sono preziosi. E poi senza aspettare insomma di dover trattare in emergenza, con le case farmaceutiche visto che loro son molto brave a trattare in queste situazione, con i vaccini hanno staccato manager e azionisti, dei dividenti mostruosi. Ora la speranza dell’umanità è chiusa nelle celle frigorifere di qualche piccola azienda.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO La Bayer ha venduto il dipartimento di ricerca sugli antibiotici nel 2005. Anche giganti come Astrazeneca, Sanofi e Novartis in questi anni hanno abbandonato. Pfizer, nonostante gli incassi da capogiro con i vaccini, non sta sviluppando nuovi antibiotici. A fare ricerca sono rimaste le piccole aziende, come Antabio a Tolosa, dove Marc Lemonnier sperimenta tre nuove molecole.

MARC LEMONNIER - FONDATORE ANTABIO L'industria farmaceutica ha abbandonato il campo per dedicarsi ad altri settori più interessanti dal punto di vista commerciale: non puoi costringere nessuno a perdere i soldi, nemmeno i più ricchi.

GIULIO VALESINI Lei si accolla un rischio che aziende ricche non si prendono. Chi glielo fa fare?

MARC LEMONNIER - FONDATORE ANTABIO Stavo assistendo all'abbandono del campo dell'industria di punta. Tutti conosciamo persone che stanno male. Bisognava fare qualcosa. Il cancro e l’antibiotico resistenza, sono ormai emergenze globali di simili proporzioni, eppure ci sono solo 80 antibiotici in fase di sviluppo clinico contro 2000 prodotti antitumorali.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO In queste celle frigorifere sono conservati campioni di vari batteri, tra cui uno del ceppo New Delhi che in Toscana ha fatto una strage di anziani e fragili. Antabio sta terminando la prima fase di sperimentazione sulle sue nuove molecole.

GIULIO VALESINI La sua speranza qual è che queste tre nuove molecole arrivino ad essere quasi messe in commercio e poi arrivi una azienda e le compri il brevetto?

MARC LEMONNIER - FONDATORE ANTABIO Sì, il nostro modello di business è esattamente questo. Una volta dimostrato che la molecola è sicura ed efficace, speriamo di siglare un accordo con una grande azienda farmaceutica. La soluzione è dare incentivi all'industria per farla tornare ad investire sugli antibiotici.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Ma su che tipo di incentivo dare alle aziende farmaceutiche si sta giocando una partita senza esclusione di colpi a Bruxelles, un’occasione unica dove la Commissione sta riscrivendo le regole europee del settore farmaceutico. In ballo ci sono miliardi di euro.

ROSA CASTRO - COORDINATRICE EPHA - ALLEANZA EUROPEA PER LA SALUTE PUBBLICA Quello che sta succedendo qua è, diciamo unico, lo si vede nel giro di qualche decennio. La Commissione ha già cominciato a lavorare su questa revisione della legislazione generale farmaceutica, già da un paio d'anni.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Al centro delle trattative ci sono varie idee: un abbonamento, ossia un paese paga all’azienda farmaceutica una cifra fissa per uno o più nuovi antibiotici, indipendentemente dalla quantità venduta. C’è il modello a entrate garantite con cui i governi compensano le aziende se i fatturati realizzati con i nuovi antibiotici sono minori di una soglia garantita. Poi c’è l’idea di una tassa extra per le aziende che non investono in antibiotici, per contribuire a un fondo dedicato allo sviluppo di nuovi farmaci per contrastare i batteri resistenti. Ma nessuna di queste ipotesi piace a Big Pharma.

JIM O'NEILL - ECONOMISTA Osservo le grandi aziende farmaceutiche e ho il sospetto che con gli antibiotici si comportino in modo cinico. Aspettano che il problema diventi grosso perché sanno che i governi, quando allora la tv e i giornali ne parleranno 24h al giorno, ci butteranno su un sacco di soldi. E quindi sanno che verranno pagati bene. Lo abbiamo visto già con i vaccini del Covid.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Ma il modello su cui punta davvero Big Pharma è il voucher. Funziona così: l’azienda che sviluppa un nuovo antibiotico riceve un buono che gli permette di allungare fino a 12 mesi l'esclusiva sul mercato europeo, cioè non far entrare generici che abbasserebbero i guadagni. Ma qui c’è il business: il buono si può vendere, a caro prezzo, a un’altra azienda che può utilizzarlo per altri tipi di farmaci molto più costosi e di largo consumo. E a pagare i governi e i pazienti europei.

ROSA CASTRO - COORDINATRICE EPHA - ALLEANZA EUROPEA PER LA SALUTE PUBBLICA Ci troviamo un mercato di cui noi non sappiamo in verità quali sono i costi reali di ricerca e sviluppo. Ci viene sempre detto che sono molto alti, ma non sappiamo quanto sono alti. Non sappiamo nemmeno i prezzi finali.

CATALDO CICCOLELLA Un antibiotico che è costato 100, potrebbe poi valere un rimborso invece tramite il voucher da mille.

ROSA CASTRO - COORDINATRICE EPHA - ALLEANZA EUROPEA PER LA SALUTE PUBBLICA Esattamente.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Ma la cosa più appetibile per le aziende farmaceutiche è che il voucher lo puoi rivendere all’asta a un’altra impresa a prezzi altissimi. Si pensa così di ricompensare la ricerca con un mega profitto.

CHRISTINE ARDALL - RICERCATRICE ISTITUTO NORVEGESE DI SANITÀ PUBBLICA Il valore potrebbe essere compreso tra i 3 e i 5 miliardi.

GIULIO VALESINI Da 3 a 5 miliardi? ok, è molto caro.

CHRISTINE ARDAL - RICERCATRICE ISTITUTO NORVEGESE DI SANITÀ PUBBLICA È molto caro!

GIULIO VALESINI Chi ci garantisce che una volta che abbiamo pagato un voucher molto costoso, poi l'antibiotico veramente rimanga sul mercato per anni?

CHRISTINE ARDAL - RICERCATRICE ISTITUTO NORVEGESE DI SANITÀ PUBBLICA Nessuno. È una transazione una tantum. Se si scopre un grave effetto collaterale dopo aver pagato il voucher, è finita. L'avete pagato, ma non avete accesso anche se l'azienda fallisce.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO A condurre le trattative per le aziende del farmaco europee è Efpia, l'influente associazione di categoria guidata da Nathalie Moll.

NATHALIE MOLL - FEDERAZIONE EUROPEA DELLE INDUSTRIE E DELLE ASSOCIAZIONI FARMACEUTICHE Il costo beneficio è 10 a uno e il beneficio maggiore è salvare delle vite umane. Oggi un parto cesareo è rischioso, oggi un intervento ai denti. Oggi qualcuno che prende chemioterapia potrebbe morire non di cancro ma di infezioni. Questo è scandaloso, questo è il problema che andiamo a risolvere.

GIULIO VALESINI Avete il coltello dalla parte del manico. Dite ok, qui rischiamo di morire tutti e l'emergenza sanitaria è forte. Se volete un nuovo antibiotico, accettate le nostre condizioni.

NATHALIE MOLL - FEDERAZIONE EUROPEA DELLE INDUSTRIE E DELLE ASSOCIAZIONI FARMACEUTICHE Altre soluzioni non ce ne sono oggi come oggi. Ci mettiamo 10- 15 anni per dare un prodotto, ma c'è l'aggiunta difficoltà di produrre dei prodotti che siano tossici per dei batteri ma non tossici per l'uomo. E questo diciamo rende le cose molto difficili.

GIULIO VALESINI Voi adesso state aspettando che l'Europa finanzi degli incentivi, vi dia una carota al traguardo.

NATHALIE MOLL - FEDERAZIONE EUROPEA DELLE INDUSTRIE E DELLE ASSOCIAZIONI FARMACEUTICHE Questi incentivi non sono soldi.

GIULIO VALESINI Voi chiedete il prolungamento dell'esclusività della commercializzazione di un prodotto no.

NATHALIE MOLL - FEDERAZIONE EUROPEA DELLE INDUSTRIE E DELLE ASSOCIAZIONI FARMACEUTICHE Se dovessimo basare il prezzo del primo antibiotico che uscirà su tutti i fallimenti passati, sarebbe un costo esorbitante. Invece quello che noi proponiamo di fare è di modulare il voucher in base al beneficio.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Nel 2020 le multinazionali del farmaco hanno lanciato un fondo: Action fund prevedono di investire un miliardo di euro in 10 anni su promettenti start-up con farmaci in fase avanzata di sperimentazione, per sviluppare quattro nuovi antibiotici entro il 2030.

NATHALIE MOLL - FEDERAZIONE EUROPEA DELLE INDUSTRIE E DELLE ASSOCIAZIONI FARMACEUTICHE Siccome nessuno fa niente, quindi noi come industrie abbiamo investito un miliardo di euro per arrivare a produrre fra due e quattro.

GIULIO VALESINI Chi è che non fa niente?

NATHALIE MOLL - FEDERAZIONE EUROPEA DELLE INDUSTRIE E DELLE ASSOCIAZIONI FARMACEUTICHE Non abbiamo altre soluzioni.

GIULIO VALESINI Chi è che dice… visto che nessuno fa niente, a chi si riferisce?

NATHALIE MOLL - FEDERAZIONE EUROPEA DELLE INDUSTRIE E DELLE ASSOCIAZIONI FARMACEUTICHE I governi.

GIULIO VALESINI Non le sembra un po’ ipocrita cioè io come azienda non investo più. Poi faccio un fondo comune, lo annuncio e agli occhi dell'opinione pubblica degli Stati sto dicendo:” guarda che a me interessa eccome. Muoviti anche tu, dammi il voucher”

NATHALIE MOLL - FEDERAZIONE EUROPEA DELLE INDUSTRIE E DELLE ASSOCIAZIONI FARMACEUTICHE Dobbiamo trovare soluzioni non tradizionali a un problema urgente. Forse il problema sanitario più urgente che ci sia.

HENRY SKINNER - AMR ACTION FUND Credo che gli incentivi siano fondamentali. Se vogliamo riportare i finanziamenti nell'innovazione degli antibiotici, deve esserci un modo per ricompensare gli innovatori.

GIULIO VALESINI Action Fund dichiara di fare lobbismo. Non è che tutta questa partita è un modo per poi potersi sedere un domani al tavolo e dire io ho investito dei soldi, per la salute pubblica, dammi i voucher domani?

HENRY SKINNER - AMR ACTION FUND Noi non facciamo lobbismo. Cerchiamo di aiutare i politici a capire che è necessario trovare una soluzione per riportare gli investimenti nel settore.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Action fund gode di uno sponsor influente: l'Oms e il suo gran capo, il direttore generale Tedros Ghebreyesus che a novembre 2020 ha benedetto pubblicamente l'iniziativa di Big Pharma.

VIDEO TEDROS GHEBREYESUS - DIRETTORE GENERALE OMS L'Oms non vede l'ora di collaborare con Action fund, e con chi è coinvolto, per accelerare la ricerca per affrontare questa crisi di salute pubblica.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Per la ricerca di base su nuovi antibiotici, Stati Uniti Inghilterra e Germania hanno investito denaro pubblico sul fondo CARB-X dove dentro ci sono anche i soldi privati del Wellcome trust e della fondazione che fa capo a Bill Gates, 360 milioni di euro.

GIULIO VALESINI La fase iniziale la pagate voi con i soldi pubblici e poi la molecola promettente che arriva in fondo viene acquistata da una grande società farmaceutica. Il brevetto, al tavolo con il regolatore ci si siederà l’azienda farmaceutica.

DAMIANO DE FELICE - DIRETTORE DELLO SVILUPPO - CARB-X Ma questo brevetto che l'impresa farmaceutica ha avrà attaccato, queste obbligazioni contrattuali che seguono il progetto in cui si impegnano ad avere un piano d'azione per espandere l'accesso e garantire l'uso responsabile come parte di questi obblighi contrattuali, ci sarà sicuramente il fatto che non possano fare troppi soldi e troppi profitti.

GIULIO VALESINI Cioè riuscirete a mettere un tetto ai soldi che un'azienda farmaceutica potrà fare con gli antibiotici?

 DAMIANO DE FELICE - DIRETTORE DELLO SVILUPPO - CARB-X Noi chiediamo che questo piano d'azione sia pubblico, quindi l'impresa deve dimostrare e sarà sul nostro sito e sarà disponibile a chiunque possa consultarlo.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Intanto la Commissione europea tramite un’agenzia ha indetto un bando di gara per realizzare uno studio sull'introduzione sul mercato di contromisure mediche per l’antibiotico resistenza. Servirà per orientare la selezione, il rimborso e l’incentivo di nuovi farmaci. E a chi lo ha affidato? A PricewaterhouseCoopers, la società di revisione e consulenza. Ma il gruppo PwC è stato partner di Efpia, la società che fa attività di lobbying per aziende farmaceutiche. E fa consulenza a svariate Big Pharma.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO A Bruxelles, al riparo da occhi indiscreti, incontriamo un importante dirigente sanitario che conosce bene la vicenda.

DIRIGENTE SANITARIO PwC non è certamente il massimo dell’indipendenza. E poi ha messo a lavorare su questa ricerca molti giovani che non hanno idea nemmeno di cos’è l’antibiotico resistenza. Ogni tanto mi chiamano per chiedermi che cosa scrivere. Pensi c’è uno che analizza i dati e viene dall’industria dei servizi offshore di Cipro.

GIULIO VALESINI Come è possibile che la Commissione non si sia accorta di nulla?

DIRIGENTE SANITARIO C’è stata superficialità, ma sapevano bene chi è PwC e per chi lavora di solito. Il rischio è che lo studio finale sia ridicolo oppure sbilanciato verso le multinazionali.

GIULIO VALESINI Eppure è costato un milione di euro!

DIRIGENTE SANITARIO Se lo chiedevano a me o a qualche accademico, lo avremmo scritto gratis, magari solo con un rimborso spese.

SIGFRIDO RANUCC IN STUDIO Abbiamo una consapevolezza: questa è l’emergenza sanitaria del futuro, facciamo qualcosa o aspettiamo di soccombere sotto gli eventi come è successo nella pandemia del covid già annunciata e aspettiamo di andare a trattare con l’acqua alla gola con le case farmaceutiche? Ora la proposta di un’agenzia pubblica per la ricerca dello sviluppo di nuovi farmaci per contrastare i batteri resistenti è arrivata da un italiano, l’ha presentata al parlamento europeo, è il professore della Statale di Milano, Massimo Florio. Speriamo che la Commissione la accolga anche perché abbiamo capito che con gli antibiotici non c’è da fare affari. È per questo che le case farmaceutiche se non annusano il business non si mettono in gioco, puntano infatti in questa vicenda all’incentivo, al voucher. Però insomma un voucher che gli consentirà di incassare a prescindere dal farmaco, a prescindere dal tempo. Ma dovranno lottare perché non tutti i paesi europei d’accordo, in 14 hanno scritto pochi giorni fa alla Commissione europea cioè quei paesi, soprattutto la Germania, che secondo mister O‘Neill hanno i lobbisti più ascoltati dalla presidente Von der Leyen. Insomma, vedremo come andrà a finire. Certo che bisognerà fare qualcosa se non vogliamo in un futuro cominciare a contare i milioni di morti, secondo le stime, morti che se ci saranno sarà per responsabilità della negligenza di chi abbiamo visto.

Covid, perché così tanti morti rispetto all'estate del 2020? Aureliano Stingi su La Repubblica il 5 Settembre 2022.

Nonostante la diffusione dei vaccini e una variante intrinsecamente meno virulenta come Omicron il numero di morti di questa estate è altissimo, come mai? Proviamo a fare un po' di chiarezza sui numeri e il loro significato

Si sta concludendo la terza estate di pandemia e nonostante la diffusione dei vaccini e una variante intrinsecamente meno virulenta come Omicron il numero di morti di questa estate è altissimo, come mai?

Sars-CoV2 è un virus respiratorio che si diffonde tramite particelle (droplets) e areosol, abbiamo imparato che purtroppo non circola soltanto in inverno come gli altri virus respiratori ad esempio l’influenza. Le nuove varianti della famiglia Omicron grazie alla loro altissima trasmissibilità e capacità di aggirare parzialmente il sistema immunitario hanno contagiato milioni di persone negli ultimi mesi causando un numero considerevole di decessi.

Il primo agosto 2020 abbiamo registrato 6 decessi, un anno dopo nel 2021 i morti erano 16 e quest’anno addirittura 172. Quella del 2020 è stata un’estate molto particolare, uscivamo da diversi mesi di lockdown totale il quale ha praticamente azzerato la circolazione virale, inoltre possiamo immaginare che la popolazione fosse in generale più prudente.

Nell’estate del 2021 le misure di contenimento erano minime ma la popolazione, soprattutto quella a rischio iniziava ad essere vaccinata, e circolava la variante Delta. Non particolarmente contagiosa ma con una discreta virulenza. Infine l’estate 2022 è stata caratterizzata dalla circolazione delle varianti estremamente contagiose Omicron in una popolazione fortemente vaccinata o guarita.

Guardando il numero grezzo di decessi l’estate 2022 è andata decisamente peggio delle precedenti ma è davvero cosi o qualcosa è cambiato?

Il numero di decessi è correlato al numero di contagi e si può esprimere sotto forma di CFR, cioè il case fatality rate, in pratica la probabilità per un qualsiasi soggetto positivo alla Covid19 di morire a causa dell’infezione.

COVID WATCH L'archivio completo

Per renderci conto del significato di questo parametro proviamo a fare un esempio: un soggetto di 50 anni nell’estate del 2021 contrae la Covid19, il suo rischio di finire in ospedale è 11%, il suo rischio di finire in terapia intensiva è del 0.45% mentre il rischio di decesso è 0.8%. Ovviamente stiamo parlando di un rischio medio per quella fascia di età in quel periodo.

Prendiamo la stessa persona di 50 anni ma nell’estate 2022: rischio ospedalizzazione è del 0.5%, rischio terapia intensiva 0.01% cosi come il rischio di decesso è 0.01%.

Abbiamo imparato che la Covid19 è una malattia più aggressiva con l’aumentare dell’età e della presenza di comorbidità quindi le percentuali espresse nell’esempio scendono allo scendere dell’età e salgono con gli anni. L’85% dei decessi di Covid19 ha più di 70 anni e il 70% ha più di 3 patologie pregresse.

Questi numeri vanno ulteriormente disaggregati tra i soggetti vaccinati e non, infatti l’età media dei deceduti vaccinati è 84,7 anni mentre per un soggetto non vaccinato è 78.6. Per quanto riguarda il numero di patologie pregresse i soggetti deceduti vaccinati hanno in media 4.9 patologie mentre i soggetti senza vaccino hanno in media 3.9 patologie. 

Ma quindi oggi com’è la situazione generale della Covid19?

Se un soggetto oggi contrae la Covid19 nel 99% dei casi non necessita di ospedalizzazione, e il 99.86% dei soggetti sopravvive. Percentuali di questo tipo però possono trarre in inganno e illuderci che ormai la Covid19 sia una malattia totalmente innocua.

Purtroppo sappiamo che non è cosi, sappiamo ad esempio che l’esisto della malattia è totalmente diverso in base all’età, alla presenza o meno di co-morbidità ed infine sappiamo che l’esito cambia radicalmente tra soggetti vaccinati e non vaccinati. Va anche ricordato che alcuni soggetti presentano i sintomi della Covid19 anche a distanza di mesi dall’infezione. Quindi grazie ai vaccini la mortalità della Covid19 è crollata da inizio pandemia ma per alcune categorie rimane una malattia pericolosa, inoltre ricordiamoci sempre che un virus poco contagioso ma molto letale farà sempre meno morti di un virus molto contagioso ma poco letale.

Questo articolo è stato scritto con il contributo ed i dati di Francesco Branda dottorando presso l’università della Calabria.

Aureliano Stingi, dottore in biologia molecolare lavora nell'ambito dell'oncologia di precisione. Collabora con l'Organizzazione Mondiale della Sanità nella battaglia contro le fake news a tema Covid19

Troppi morti di Covid, cosa non torna nei calcoli. Da Burioni a Bassetti: commissione d'inchiesta. Il Tempo il 22 agosto 2022

Tra virologi ed esperti che spesso non hanno la stessa visione sulla lotta alla pandemia c'è una battaglia che sta mettendo molti d'accordo. Sul calcolo dei morti di Covid c'è qualcosa che non torna. La polemica va avanti da mesi ma nelle ultime ore le richieste si sono fatte pressanti. Un approfondimento sul numero di morti per Covid "che si continua a registrare in Italia" è "necessario", afferma sui social Roberto Burioni, professore di Microbiologia e Virologia all’Università Vita-Salute San Raffaele. "Basta ipotesi, ci vogliono dati". In un post di due giorni prima Burioni, commentando il dato quotidiano dei decessi per Covid, a tre cifre, aveva segnalato che "amici farmacisti mi raccontano di abbondanti prescrizioni di azitromicina (un antibiotico inutile per la cura di Covid e dannoso in generale) e rarissime prescrizioni di Paxlovid. Si può sapere dalle autorità come stanno davvero le cose?", Il virologo incassa l'approvazione di Roberto Bertollini, "un esperto mondiale autore di alcuni dei più importanti lavori usciti su COVID", ricorda Burioni. Anche Bertollini "ritiene necessario un approfondimento sul numero di morti". 

"Vorrei anche io dei dati precisi. Per questo sarei favorevole a una commissione di inchiesta medica per accertare quanti dei decessi degli ultimi tempi sono avvenuti per il Covid e quanti invece siano di persone, positive al tampone, ma decedute per tutt’altra causa", dice all’AGI l’infettivologo Matteo Bassetti, direttore della clinica malattie infettive dell’ospedale San Martino di Genova. "Io lo dico da tempo: o contiamo male i decessi, e secondo me è la spiegazione più probabile, perché se entri con il Covid, anche quando muori - dice Bassetti - resti in quel calderone, oppure, ipotesi per me meno probabile, vengono curati male: non vengono dati gli antivirali quando ce ne è bisogno, vengono dati troppi antibiotici".

Bassetti cita un dato significativo: "In Sicilia solo il 3% è in ospedale per il Covid e il resto è solo positivo. Dunque il 97% è lì positivo a un tampone, ma ricoverato per tutt’altro". "Io so chi è che compila le schede di morte: sulle cause accessorie c’è quasi sempre anche il Covid", spiega l'infettivologo.

Favorevole all'iniziativa seppur con qualche distinguo anche Walter Ricciardi, consigliere del ministro della Salute Roberto Speranza: "Da noi si muore di più di Covid e bisogna approfondire i motivi: sarei favorevole ad una indagine. Bisogna analizzare vari aspetti e non è possibile, al momento, dare una risposta certa". "Io sono preoccupato per ottobre -aggiunge Ricciardi -, i problemi sono molteplici: l’assistenza frammentata e l’eterogeneità della stessa assistenza territoriale. Bisognerebbe vedere dove si muore di più. Inoltre abbiamo tanti fragili e molti di questi non hanno fatto la quarta dose, parecchi nemmeno la terza".

Ricciardi non crede ci siano problemi nei conteggi: "Questa è una cretinata, anche gli altri in Europa li contano così e hanno meno decessi - dice -. La verità è che c’è un’asimmetria tra la domanda e la risposta: siamo un sistema profondamente in crisi e, tutto questo, in un Paese come il nostro, molto fragile: è necessario un maggiore investimento sul personale e la capacità di attarre e distribuire il personale, perché abbiamo un grande deficit". Per Ricciardi i medici sono pochi e gestiti male, e la formazione è carente se "fossero pronti e adeguatamente informati prescriverebbero meglio i farmaci, compresi gli antivirali per la cura del Covid", conclude. 

Come mai in Italia ci sono ancora tanti decessi da Covid rispetto ad altri Paesi? Silvia Turin su Il Corriere della Sera il 22 Agosto 2022.

Sotto la lente il modo di contare le vittime, i parametri di confronto, ma anche la campagna sulla quarta dose, poco efficace. L’Istituto Superiore di Sanità risponde al Corriere anche sui farmaci antivirali e le misure adottate. 

Come mai l’Italia conta così tanti decessi da Covid rispetto ad altri Paesi? È una domanda che ci insegue fin dalla prima ondata, ma che non ci saremmo forse aspettati in questo scorcio di fine estate.

In Italia si contano attualmente circa 174.722 morti da Covid e questa cifra, seppur riparametrata sulla popolazione, pone il nostro Paese tra i peggiori in Europa e nel mondo occidentale: meglio di noi Spagna, Belgio, UK. Peggio: Usa, Brasile e gli stati dell’Europa dell’est (si veda il grafico sotto che esprime i decessi totali per milioni di persone in alcuni Paesi scelti).

Una premessa necessaria è che l’ondata di decessi legata all’ultima risalita dei contagi estiva è comunque stata quella con il picco (superato all’inizio di agosto) più basso di tutte, salvo il periodo di plateau (simile) dello scorso aprile. 

Cosa ci dicono questi numeri? Più che parlare del numero totale di decessi sarebbe meglio parlare di «tasso di letalità», cioè del rapporto percentuale tra decessi e contagi da Covid certificati, che per l’Italia è allo 0,81% (si veda grafico sotto). Anche in questo caso Francia (0,45%), Germania (0,46%) e Regno Unito (0,80%) fanno meglio del nostro Paese e solo Spagna, ma soprattutto Usa e i Paesi dell’est europeo, fanno (molto) peggio del nostro.

Tasso di letalità da Covid (fonte Ourworldindata)

Da notare che i due numeri, il dato sui morti e sul tasso di letalità, dipendono a loro volta da come si contano e si registrano i morti da Covid e i positivi. Ad esempio, se tenessimo conto solo dell’ondata estiva, dovremmo ricordare che moltissime persone infettate dal Covid non si sono registrate e quindi non sono entrate nel conteggio. 

Come sono classificati i morti per Covid attualmente in Italia? Per rispondere a questa e ad altre domande il Corriere Salute ha contattato l’Istituto Superiore di Sanità (ISS) nella persona di Graziano Onder, geriatra.

«Fin dal maggio 2020 abbiamo adottato la classificazione secondo parametri internazionali, la regola prevede che siano classificati come “decessi da Covid-19” solo quelli in cui l’infezione è riconosciuta come plausibile causa del decesso”». 

Sono persone che magari sarebbero morte anche per altre infezioni, tipo polmoniti o influenza, ma in questo caso è stato il Covid?

«Sono persone molto fragili e molto vulnerabili in cui qualsiasi evento può portare a conseguenze molto severe, nel loro caso l’evento è stato il Covid». 

Come mai l’Italia conta così tanti decessi rispetto ad altri Paesi europei?

«Il confronto tra i vari Paesi non va fatto solo in base al numero assoluto dei morti o al tasso di letalità, perché ogni Paese conta i decessi in modo leggermente diverso. Inoltre il numero di vittime va contestualizzato in base alle ondate epidemiche, che possono non coincidere a livello temporale tra i diversi Stati. Il vero parametro su cui fare i confronti internazionali è quello dell’eccesso di mortalità: quanti morti in più abbiamo avuto rispetto alla media degli anni in cui non avevamo il Covid. Questo è un dato più standardizzato e comparabile. Attualmente il monitoraggio arriva fino a giugno quando, ad esempio, l’Italia era posizionata molto meglio rispetto ad altri Paesi».

Mortalità in eccesso a giugno (fonte Eurostat)

In effetti la pandemia a giugno in Italia era nella sua fase discendente (la più bassa) e l’eccesso di mortalità (i dati sono presi da Eurostat, si veda tabella sopra) era misurato in negativo -1,1% di quanto atteso, meglio di Francia o Germania. Se prendiamo però l’eccesso di mortalità al picco pandemico italiano dell’inverno (all’inizio di febbraio) l’eccesso di mortalità era stimato al 7,7%, comunque meglio di Francia e Grecia, ma peggio della Germania (3,2%) o dell’Austria (meno 2,5%), ma questi Paesi uscivano da un lockdown pesante.

Insomma, i numeri sono di difficile interpretazione perché sembrano dare risultati assoluti, ma in realtà nascondono miriadi di fattori da analizzare e che si incrociano. 

Chi sono i morti di questa ondata estiva?

«I deceduti di questa ondata sono persone che hanno un’età media molto alta – risponde ancora Onder —, circa 85 anni e un carico di malattie croniche preesistenti alto (4-5 malattie croniche in media), quindi sono persone molto fragili in cui qualsiasi tipo di evento che possa essere anche banale, come un’influenza, può causare delle conseguenze molto serie, dall’altro possono essere persone che magari non riescono a sviluppare un’immunità sufficiente da vaccinazione: questi due fattori fanno sì che possano morire come conseguenza dell’infezione da Covid».

Questa considerazione è ancora più importante se si guarda ai decessi dividendoli per fasce di età. Sappiamo che il Covid è pericoloso soprattutto per gli anziani: infatti il tasso di letalità calcolato per fasce di età (fonte ISS) riporta:

0,8% - 60/69 anni;

2,7% - 70/79 anni;

7,6% - 80/89;

14,1% - 90 anni e oltre. 

Come si vede, è altissimo soprattutto dai 70 anni in su. In Italia, mentre la campagna vaccinale primaria (le prime due dosi) ha avuto grande riscontro, con l’84,3% della popolazione raggiunta, i richiami non hanno avuto lo stesso successo: siamo al 67,6% con la terza dose e solo al 4,8% con la quarta. Proprio gli anziani dovrebbero sottoporsi alla quarta dose: la maggior parte delle terze dosi in Italia sono state fatte tra dicembre e gennaio, quindi l’efficacia vaccinale in estate e la conseguente protezione da malattia severa sono ora drasticamente calate. 

L’efficacia vaccinale di 3 dosi ricevute da più di 120 gg contro la malattia severa (dati ISS del 12 agosto) divisa in fasce di età è:

60,2% per i 60-79enni;

79,0% per gli 80enni e oltre. 

La stessa efficacia vaccinale con la quarta dose sale a:

84,3% per i 60-79enni;

89,9% per gli 80enni e oltre. 

A fronte di questo, pochissimi anziani hanno aderito alla campagna per la quarta dose che è partita in fasi distinte: ad aprile fragili e ultra 80enni e (solo) ad agosto ultra 60enni. Ecco le percentuali della quarta dose per età:

7,5% - 60/69 anni;

13,4% - 70/79 anni;

31,2% - 80 anni e oltre. 

Abbiamo avuto un’ondata estiva inaspettata forse, ma la campagna per la quarta dose non ha funzionato e per alcune fasce di età è anche partita in ritardo. Si poteva fare di più e prima?

«Sicuramente ci può essere stata la percezione che in estate le infezioni sarebbero calate. Sul ciclo primario delle vaccinazioni abbiamo lavorato bene, ma i dati della quarta dose sono molto bassi. Sarà chiave soprattutto la nuova campagna vaccinale, quella che partirà da settembre-ottobre con i vaccini modificati per le nuove varianti». 

La bassa adesione alla quarta dose è solo un fattore che potrebbe spiegare il dato dei decessi nel nostro Paese, ma ce ne sono altri ed è il loro insieme a dare un’idea dei motivi che potrebbero essere alla base della mortalità, al di là della posizione dell’Italia prima o dopo gli altri Stati.

Abbiamo scritto delle vaccinazioni, un’altra variabile sono le terapie anti Covid. 

Abbiamo pochi ma efficaci farmaci antivirali che però funzionano bene. Ad esempio il Paxlovid: pur essendo disponibile, è stato poco prescritto?

«Personalmente non ho in mano dati che mi consentano di dire che è stato poco prescritto — dice lo specialista —. È a disposizione anche dei medici di medicina generale che lo possono prescrivere ed è un medicinale che obiettivamente ha un impatto importante sugli eventi della malattia. In questo momento è impossibile dire se fosse stato prescritto o meno alle vittime. Sicuramente, però, un ragionamento su questo va fatto. In Italia ci sono a disposizione i mezzi terapeutici migliori come in qualsiasi altro Paese occidentale. È anche vero che dipende dal contesto: ci saranno medici che non l’hanno prescritto o che prescrivono in maniera non appropriata, ma è impossibile generalizzare». 

Restando sui farmaci, non è possibile che l’auto prescrizione (aiutata dalla consultazione in internet di notizie false e poco affidabili) abbia peggiorato la prognosi di alcune persone?

«Chiaro che la raccomandazione è di rivolgersi ai canali ufficiali per stabilire l’iter terapeutico. Ad esempio il Paxlovid deve essere preso dalle persone ad alto rischio nelle prime fasi di malattia, quando si hanno sintomi molto sfumati. Al contrario, il cortisone assunto nelle fasi iniziali del contagio può essere anche dannoso. Il fai-da-te è pericoloso: più che confrontare i protocolli su Internet bisogna sentire il proprio medico». 

C’è un fattore peggiorativo in questa ondata specifica legato all’assistenza sanitaria territoriale o ospedaliera?

«No, non credo: in questa fase gli ospedali non sono sovraccarichi. Abbiamo avuto un problema con le strutture sanitarie nella prima ondata, ma non ora». 

Alla luce di tutte le considerazioni espresse, le misure adottate erano corrette, cosa fare in autunno?

«Le misure date dal governo sono chiare e importanti: anche adesso viene strettamente raccomandato l’utilizzo della mascherina, soprattutto al chiuso. Certo non è più obbligatorio, però sono raccomandazioni sempre di estrema cautela e attenzione. In autunno l’Italia aspetta i vaccini aggiornati che avranno un ruolo chiave per ridurre l’impatto dell’infezione sui ricoveri e sui decessi nelle prossime ondate epidemiche. L’obbligatorietà o meno delle misure ora raccomandate dipenderà da che cosa ci troveremo di fronte».

Covid, i dati Oms: 15 milioni di morti nel mondo, il doppio di quelli ufficiali. La Repubblica l'8 Maggio 2022.  

Il conteggio comprende i decessi causati direttamente dal coronavirus o in qualche modo attribuiti all'impatto della pandemia sui sistemi sanitari.

L'Organizzazione mondiale della sanità stima che negli ultimi due anni quasi 15 milioni di persone siano state uccise dal coronavirus o dal suo impatto sui sistemi sanitari sopraffatti dalla pandemia, più del doppio del bilancio ufficiale delle vittime, che ammonta a 6 milioni. La maggior parte dei decessi si è verificata nel sud-est asiatico, in Europa e nelle Americhe.

In un rapporto pubblicato oggi, il direttore dell'Organizzazione mondiale della sanità, Tedros Adhanom Ghebreyesus, ha sottolineato che la cifra "fa riflettere" e dovrebbe spingere i paesi a investire di più nelle loro capacità di affrontare future emergenze sanitarie.

Gli scienziati incaricati dall'Oms di calcolare il numero effettivo di decessi per COVID-19 tra gennaio 2020 e la fine dello scorso anno hanno stimato che ci sono stati tra 13,3 milioni e 16,6 milioni di decessi causati direttamente dal coronavirus o in qualche modo attribuiti all'impatto della pandemia sui sistemi sanitari, come le persone malate di cancro che non hanno potuto farsi curare perchè gli ospedali erano pieni di pazienti affetti da Covid.

Paolo Russo per “la Stampa” il 6 maggio 2022.

Nella settimana dal 28 aprile al 5 maggio di morti il virus ne avrebbe fatti 935, la settimana precedente 1.015. Vuol dire circa 140 vittime al giorno. Ma sono tutte realmente da ascrivere al Covid o si tratta di «casualmente positivi al test», come sostiene una minoranza di esperti, seguita però da un non indifferente coro di aperturisti, politici e non? La domanda è tutt' altro che retorica perché dalla risposta dovrebbero dipendere comportamenti individuali e scelte politiche sulle misure protettive da adottare. Che, sia pure con gradualità, sembrano andare nella direzione del liberi tutti.

Sui numeri della mortalità da Covid sta studiando in questi giorni non uno qualunque ma il Nobel per la Fisica, Giorgio Parisi, che abbiamo incontrato nel suo studio alla Sapienza di Roma. «In Gran Bretagna hanno confrontato le persone decedute non oltre 28 giorni dal test positivo al virus con i certificati di morte per Covid e questi ultimi sarebbero risultati sovrastimati di circa un 10%. E comunque la letalità del virus è sempre intorno al 2 per mille, come in Italia», spiega il professore.

Per il quale «si tratta di differenze minime, la sostanza è che i morti che conteggiamo hanno come prima causa proprio il Covid». «Del resto - aggiunge - i decessi tra i non vaccinati sono 10 volte superiori a quelli riscontrati tra gli immunizzati. Questo vuol dire che sono morti per l'infezione, altrimenti non avremmo visto questo effetto protettivo del vaccino». Ossia, se fossero morti d'altro non avremmo dovuto riscontrare una grande differenza tra immunizzati e non. «E poi - ricorda ancora Parisi- l'Istat ha già condotto uno studio sui certificati di morte, dal quale è risultato che il 90% dei decessi è attribuibile al Covid».

A marzo la prestigiosa rivista scientifica Lancet ha pubblicato uno studio in base al quale la mortalità da Covid nel mondo reale sarebbe il triplo di quella rilevata dai numeri ufficiali, con 259 mila decessi rispetto ai 137 mila ufficializzati a dicembre in Italia.

«Ma quello studio parte dal presupposto che il calo della mortalità riscontrato negli anni pre-pandemici si sarebbe verificato anche successivamente, una teoria che però non trova riscontri oggettivi e che falsa anche i dati sulla mortalità da Covid, calcolata come eccesso rispetto a quella attesa in base all'andamento degli anni precedenti», spiega ancora Parisi, volendo così escludere che i morti siano persino di più.

«La letalità in Italia è comunque in linea con quella riscontrata in altri Paesi». Se poi in numeri assoluti il numero di vittime da noi risulta più alto questo dipende da altri fattori, non da errori nel conteggio. «In Italia abbiamo un'età media tra le più elevate del mondo e sappiamo che la maggior parte dei decessi da Covid si verifica nella popolazione più anziana. Forse - aggiunge il professore - nel confronto con la Gran Bretagna incide anche il fatto che lì hanno vaccinato quasi tutta la popolazione tra 60 a 80 anni, mentre da noi in quella fascia di età qualcuno è rimasto senza copertura».

Tra queste cause il consulente del ministro Speranza, Walter Ricciardi, ne aggiunge un'altra: «In Italia viviamo più a lungo ma anche con un maggior numero di anni in cattiva salute e questo influisce sulla mortalità che resta comunque "per" Covid». 

«Io da medico non mi riconosco in questi numeri della mortalità in Italia», afferma andando controcorrente l'infettivologo del San Martino di Genova, Matteo Bassetti.

«Nei reparti Covid c'è un 40% di asintomatici, togliendo questi avremmo una mortalità in linea con il resto d'Europa», afferma, portando poi un esempio. «Un ultraottantenne entrato nel mio ospedale piegato in due per problemi di diverticoli risulta positivo al tampone, trasferito nel reparto Covid, muore e finisce nel bollettino».

Sulla stessa lunghezza d'onda è Alberto Zangrillo, prorettore all'Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. «Il numero di decessi da Covid come causa primaria è a mio parere molto più basso di quanto ufficialmente dichiarato ogni giorno. Ma questo verrà dimostrato nel tempo», conclude un po' enigmaticamente. Per smentire la teoria dei morti «con» anziché «per» Covid si affida invece alla matematica il direttore del laboratorio di medicina molecolare di Padova, Andrea Crisanti.

La probabilità che una persona anziana 80-85enne con diverse patologie muoia indipendentemente dal Covid in un singolo giorno è di uno su mille, e nella stessa fascia di età la probabilità che questa persona sia infetta da Covid è di 4 su mille. Quindi la probabilità che una persona positiva muoia di qualsiasi altra patologia senza che il Covid c'entri nulla è bassissima, pari a 4 su 1 milione. Dunque il numero dei positivi morti però di altro è irrisorio». Per questo «il calcolo che si fa oggi è giusto». La fa più semplice il direttore dell'Osservatorio Salute della Cattolica, Alessandro Solipaca. «I 62 mila morti Covid del 2021 sommati a quelli attesi in base alla media dei 5 anni precedenti danno un totale di 707 mila, dato simile ai 705 mila di fine anno». Numeri che smentiscono la teoria dei «positivi per caso» e la narrazione di un'infezione equiparabile all'influenza. Che di morti in Italia ne fa dieci volte meno.

Da bitzquotidiano.it il 5 maggio 2022.

La pandemia di Covid-19 ha ucciso tra i 13,3 e i 16,6 milioni di persone tra il 2020 e il 2021. Sono le nuove stime dell‘Organizzazione mondiale della Sanità (Oms), che triplica così il numero di decessi attribuiti direttamente alla malattia. 

“Nuove stime dell’Organizzazione mondiale della sanità – si legge in un comunicato dell’Oms – mostrano che l’intero bilancio delle vittime associato direttamente o indirettamente alla pandemia di Covid-19 tra il 1 gennaio 2020 e il 31 dicembre 2021 è stato di circa 14,9 milioni (da 13,3 milioni a 16,6 milioni)”.

Il conteggio comprende i decessi causati direttamente dal coronavirus o in qualche modo attribuiti all’impatto della pandemia sui sistemi sanitari. La nuova stima quindi è più del doppio del bilancio ufficiale delle vittime, che ammonta a 6 milioni. 

La frenata della pandemia

Continua la frenata della pandemia nel mondo: nella settimana tra il 25 aprile e il primo maggio sono stati registrati 3,8 milioni di casi e poco più di 15 mila morti, con un calo rispettivamente del 17% e del 3% rispetto alla settimana precedente. 

Tuttavia, preoccupa la situazione dell’Africa e delle Americhe dove si assiste a una forte ripresa dei contagi, in aumento rispettivamente del 31% e del 13%. Sono alcuni questi dell’ultimo bollettino settimanale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms).

Le parole del direttore generale dell’Oms

“A livello globale, i casi segnalati e i decessi per Covid-19 continuano a diminuire, con i decessi settimanali segnalati ai minimi da marzo 2020. Ma queste tendenze, sebbene benvenute, non raccontano l’intera storia”, ha detto il direttore generale dell’Oms, Tedros Adhanom Ghebreyesus. “Spinti dalle sotto-varianti di Omicron, stiamo assistendo ad un aumento dei casi segnalati nelle Americhe e in Africa. È troppo presto per sapere se queste nuove sotto-varianti possono causare malattie più gravi rispetto ad altre sotto-varianti di Omicron, ma i primi dati suggeriscono che la vaccinazione rimane protettiva contro la malattia grave e la morte”.

Covid, Oms: 15 milioni i morti Il doppio di tutte le stime. Antonio Caperna il 6 Maggio 2022 su Il Giornale.

L'Ema annuncia: presto pronti i vaccini sulle varianti. Saranno disponibili già a settembre, i primi a mRna.

I numeri iniziano a dare un quadro più chiaro sul Covid e l'Oms mette nero su bianco il doppio dei decessi inizialmente stimati, portandoli a quasi 15 milioni tra diretti e indiretti fra il 1 gennaio 2020 e il 31 dicembre 2021. La maggior parte delle morti in eccesso (84%, in un range da 13,3 milioni a 16,6 milioni) si concentra nel Sudest asiatico, in Europa e nelle Americhe. Circa il 68% è in soli dieci Paesi a livello globale. Il bilancio globale è più alto per gli uomini (57% contro il 43% delle donne) e tra gli anziani. Il numero di decessi in eccesso ogni centomila fornisce un quadro più oggettivo della pandemia rispetto ai dati riportati sulla mortalità per Covid-19, poiché include quelli associati direttamente alla malattia o indirettamente ai sistemi sanitari e alla società (come minori incidenti stradali nel lockdown). Inoltre si considerano le morti attribuibili ad altre condizioni di salute, per le quali le persone non hanno potuto accedere alla prevenzione e alle cure, per il sovraccarico dei sistemi sanitari.

«La misurazione della mortalità in eccesso è una componente essenziale per comprendere l'impatto della pandemia. I cambiamenti nelle tendenze della mortalità forniscono informazioni ai decisori, per guidare le politiche per ridurre la mortalità e prevenire efficacemente crisi future», afferma Samira Asma, vicedirettore generale per i dati, l'analisi e la distribuzione dell'Oms. Queste stime sono il risultato di una collaborazione globale, supportata dal Technical Advisory Group for Covid-19 Mortality Assessment e dalle esperienze nazionali. Dati che potevano essere anche peggiori, poiché «quasi mezzo milione di vite, tra persone di età pari o superiore a 60 anni, sono state salvate in Europa, grazie ai vaccini anti-Covid. La situazione in Ue si è stabilizzata ma la pandemia non è finita e continuerà ad avere un impatto sulle nostre vite», evidenzia Marco Cavaleri, responsabile Vaccini e prodotti terapeutici Covid-19 di Ema. L'Agenzia europea del farmaco ha cominciato a esaminare la domanda di autorizzazione di Moderna, per estendere l'uso del vaccino ai bambini tra i 6 mesi e i 5 anni, e a valutare la richiesta di via libera per una dose booster del vaccino di Astrazeneca negli over18. Ema poi sta lavorando a stretto contatto con i produttori «verso lo sviluppo di vaccini adattati, per affrontare varianti attuali e emergenti e offrire una protezione più lunga», aggiunge, cioè attualmente autorizzati più vicini a Omicron e alle altre varianti emergenti e che possono «includere più di un ceppo. I risultati dei trial clinici in corso sono attesi nei prossimi 2 mesi. Questi vaccini potranno essere somministrati a persone non vaccinate o a vaccinati con un ciclo primario o con ciclo primario e booster», sottolinea l'esperto. Quindi c'è una probabilità «abbastanza alta» di vedere approvato entro settembre in EU il primo vaccino anti-Covid adatto alle varianti: «Non è un mistero che quelli più avanti al momento siano i vaccini a mRna». Nel complesso perciò protezioni di seconda generazione, che puntano anche a difendere contro un ampio range di coronavirus insieme a Sars-CoV-2, altri a prevenire infezione e trasmissione del virus, mentre altri ricercatori ancora stanno lavorando su vaccini combinati contro Covid e influenza stagionale. Intanto l'ultimo bollettino della Protezione Civile e del ministero della Salute parla di 48.255 i nuovi contagi in Italia con altri 138 morti. Sono stati effettuati 327.178 tamponi con un tasso di positività del 14,7% e sono ricoverati con sintomi 9.384 pazienti mentre 369 sono in terapia intensiva.

Andrea Crisanti sul Covid: "Troppi morti? Tutto falsato": l'accusa al governo. Libero Quotidiano il 23 aprile 2022.

Dubbi sulla gestione del Covid e sulla diffusione dei numeri nel bollettino quotidiano arrivano da Andrea Crisanti. Il microbiologo dell'Università di Padova, cifre alla mano, ricorda come "non ci possiamo permettere 150 o anche 130 decessi al giorno". Questo significa più di 50 mila morti all'anno, "altro che l'influenza - sbotta l'esperto - che ne fa 8-10 mila". Eppure, come premette in una lunga intervista al Fatto Quotidiano, "i morti non vengono, se non in misura marginale, dalle terapie intensive". 

Tutto secondo Crisanti "è stato falsato dalla polemica vax/no vax, solo all'ultimo hanno ammesso che la maggior parte dei morti sono persone fragili, anziane, vaccinate. Non le portano in terapia intensiva". Il professore contesta il fatto che in Italia muoiono circa 1.800 persone al giorno e i 140 morti Covid sono quasi l'8 per cento. Se sarebbero morti in ogni caso? "Allora l'8 per cento della popolazione italiana sarebbe infetto - ragiona -, più di cinque milioni, anzi 20 visto che la malattia dura cinque giorni. Ma non è così, i 60/70 mila contagi rilevati giornalmente corrispondono a 150-200 mila". Da qui la conclusione: "La verità è che il governo sta sbagliando, fatica a orientare le priorità sulla protezione dei fragili". 

L'unica soluzione? Proteggere i più fragili. Come? Presto detto per Crisanti: "Ci vuole un bonus per i pensionati sotto un certo reddito perché possano pagare i tamponi alle badanti, a chi va a trovarli a casa, a chi li assiste. Ci vuole lo smart working per ultrasessantenni che lavorano, invece l'hanno abolito. E poi vaccini e test anticorpali". Le somministrazioni della quarta dose sono iniziate, ma forse potrebbero non bastare.

Il calcolo. Secondo l’Iss, le morti per Covid in Italia sarebbero sovrastimate del 10%. Linkiesta il 15 Aprile 2022.

Lo spiega l’indagine redatta da Istat e Istituto superiore di sanità, partendo dalle certificazioni compilate dai medici. Ieri, 64.951 nuovi casi, con la variante Omicron dominante al 100%, e 149 decessi. 

Ieri, in Italia, si sono registrati 64.951 nuovi casi Covid, con la variante Omicron dominante al 100%, e 149 decessi. Il numero dei morti continua a essere alto. Ma secondo l’indagine redatta da Istat e Istituto superiore di sanità sulle cause di morte degli italiani, partendo dalle certificazioni compilate dai medici, nel nostro Paese i decessi per il Covid-19 sarebbero sovrastimati del 10% rispetto agli altri Paesi europei.

Come riporta il Corriere, nove certificati su dieci «attribuiscono al virus la causa direttamente responsabile del decesso». In una scheda su dieci la «morte è dovuta ad altre cause, tra le quali le più rappresentate sono le malattie del sistema circolatorio e i tumori». Questo è quello che spiega il geriatra dell’Iss, Graziano Onder.

Il campione di certificazioni redatto dall’Iss è sufficientemente rappresentativo, per età, provenienza geografica, patologie, dei decessi Covid nel complesso. Dunque è possibile, aggiunge Onder, che nel confronto con l’Europa l’Italia abbia una sovrastima di circa il 10% di morti Covid.

Considerando che da inizio pandemia abbiamo appena raggiunto le 161.336 vittime, contabilizzate dal sistema di sorveglianza del ministero della Salute su dati forniti dalle Regioni, circa 16mila decessi sarebbero avvenuti «con» il Covid e non «per» il Covid. Ecco perché l’Organizzazione mondiale della sanità ha riconosciuto come unico metodo attendibile il calcolo dell’eccesso di mortalità rispetto ai quattro-cinque anni precedenti al 2020.

«Restituisce una fotografia più attendibile dell’impatto del Covid sulla mortalità perché ogni Paese li ha calcolati come ha creduto, il Regno Unito ad esempio ha escluso dal conteggio delle morti Covid quelle avvenute dopo 28 giorni dal contagio, noi invece ricomprendiamo tutti», segnala Onder.

L’Italia quindi avrebbe molte più vittime dei Paesi nordici, molte più della Germania, mentre sarebbe in linea con la Francia. E avrebbe molti meno decessi della gran parte dei Paesi dell’Est Europa, in primis della Polonia, e del Belgio, se confrontiamo l’eccesso di mortalità del 2020 e del 2021 rispetto agli anni precedenti.

Nel confronto di questi ultimi sette mesi e mezzo, il nostro Paese si piazza al dodicesimo posto in Europa per morti Covid calcolati per milioni di abitanti, ma è al sesto posto nella speciale classifica di immunità vaccinale della popolazione con quasi l’80% di «coperti» almeno con una dose. Le due classifiche, messe in relazione tra loro, però non hanno senso. «Perché il calcolo di morti Covid per abitanti non è un parametro attendibile», segnala Onder. Ci sono infinite variabili che diventano concause.

Giocano elementi culturali, come il clima che incide «sul tasso di socialità della popolazione: infatti Spagna e Italia sono più colpite rispetto ai Paesi nordici dove la vita è più solitaria», segnala l’esperto. C’è la tenuta del sistema sanitario, soprattutto il numero di posti letto in terapia intensiva, classifica in cui svetta la Germania rispetto ad altri Paesi. C’è soprattutto l’elemento dell’età della popolazione, considerando che l’Italia è il secondo Paese più vecchio al mondo, dopo il Giappone.

Perché in Italia la mortalità per il Covid è così alta? Fabio Savelli su Il Corriere della Sera il 15 Aprile 2022.

L’Iss: sarebbero il 10% in più rispetto al resto d’Europa. Omicron variante prevalente al 100%. 

«Eccesso di mortalità» rispetto agli anni pre-pandemia. Per capire quanti decessi abbia causato il Covid in Italia e negli altri Paesi europei , con sistemi sanitari analoghi perché universalistici, conviene partire dall’analisi qualitativa più attendibile di questi due anni. Quella redatta dall’Istat in collaborazione con l’Istituto superiore di Sanità che ha analizzato le cause dei decessi partendo dalla certificazioni compilate dai medici. L’indagine si ferma a febbraio 2022, ma dà lo spaccato di quello che è accaduto. Il geriatra dell’Iss, Graziano Onder, spiega che nove certificati su dieci «attribuiscono al virus la causa direttamente responsabile del decesso». In una scheda su dieci la «morte è dovuta ad altre cause, tra le quali le più rappresentate sono le malattie del sistema circolatorio e i tumori», puntualizza Onder.

La sovrastima

Il campione di certificazioni redatto dall’Iss è sufficientemente rappresentativo — per età, provenienza geografica, patologie — dei decessi Covid nel complesso. Dunque, è possibile, aggiunge Onder, che nel confronto con l’Europa l’Italia abbia una sovrastima di circa il 10% di morti Covid. Considerando che da inizio pandemia abbiamo appena raggiunto le 161.336 vittime, contabilizzate dal sistema di sorveglianza del ministero della Salute su dati forniti dalle Regioni, circa 16 mila decessi sarebbero avvenuti “con” il Covid e non “per” il Covid. Ecco perché l’Organizzazione mondiale della Sanità ha riconosciuto come unico metodo attendibile il calcolo dell’eccesso di mortalità rispetto ai 4-5 anni precedenti al 2020. «Restituisce una fotografia più attendibile dell’impatto del Covid sulla mortalità perché ogni Paese li ha calcolati come ha creduto, il Regno Unito ad esempio ha escluso dal conteggio delle morti Covid quelle avvenute dopo 28 giorni dal contagio, noi invece ricomprendiamo tutti», segnala Onder. Secondo questo calcolo l’Italia avrebbe molte più vittime dei Paesi nordici, molte più della Germania, sarebbe in linea con la Francia, avrebbe molti meno decessi della gran parte dei Paesi dell’Est Europa, in primis della Polonia, e del Belgio, se confrontiamo l’ecesso di mortalità del 2020 e del 2021 rispetto agli anni precedenti.

Gli ultimi mesi

Eppure il primo settembre 2021, quando la campagna vaccinale era ormai diventata capillare ed erano stati vaccinati con almeno una dose circa 40 milioni di cittadini, il sistema delle Regioni aveva registrato da inizio pandemia 129.290 morti Covid. Significa che da quel giorno a oggi l’Italia ha arricchito questa triste contabilità di quasi 32 mila decessi. Nel confronto di questi ultimi sette mesi e mezzo il nostro Paese si piazza al dodicesimo posto in Europa per morti Covid calcolati per milioni di abitanti, ma è al sesto posto nella speciale classifica di immunità vaccinale della popolazione con quasi l’80% di «coperti» almeno con una dose. Le due classifiche, messe in relazione tra loro, però non hanno senso. «Perché il calcolo di morti Covid per abitanti non è un parametro attendibile», segnala Onder. Ci sono infinite variabili che diventano concause.

La socialità

Giocano elementi culturali, come il clima che si riverbera «sul tasso di socialità della popolazione e infatti Spagna e Italia sono più colpite rispetto ai Paesi nordici dove la vita è più solitaria», segnala l’esperto. C’è la tenuta del sistema sanitario, soprattutto il numero di posti letto in terapia intensiva dove svetta la Germania rispetto ad altri Paesi. C’è soprattutto l’elemento dell’anagrafica della popolazione: «L’Italia è il secondo Paese più vecchio al mondo dopo il Giappone», ricorda Onder. Un’aspettativa di vita più alta che con il Covid ha finito però per giocare a sfavore perché «i trattamenti farmacologici solo di recente hanno avuto un salto di qualità», segnala il geriatra. Una pandemia che ha provocato mezzo miliardo di contagi nel mondo e 6,2 milioni di morti. Ieri, in Italia, 64.951 nuovi casi, con la variante Omicron dominante al 100%, e 149 decessi.

Il dato non basta. La pandemia ha messo in luce l’incapacità degli italiani (e di molti giornali) di capire i numeri. Lorenzo Pregliasco su L'Inkiesta il 31 Marzo 2022.

Come ricorda Lorenzo Pregliasco nel suo ultimo libro, “Benedetti sondaggi” (Add), il Paese è preda di una sorta di analfabetismo che ha generato incomprensioni, errori di valutazione e ambiguità che hanno dato spazio a complottismi e no vax.

La pandemia ci ha anche messo di fronte un’enormità di situazioni nelle quali la scarsa abitudine a leggere dati ha portato tanti a trarre conclusioni sbagliate, a sottovalutare alcuni aspetti e a ingigantirne altri. La limitata “alfabetizzazione” sui dati nelle redazioni giornalistiche italiane, insieme a un certo gusto per il sensazionalismo e la polarizzazione esasperata del dibattito, ha talvolta indotto i media a proporre titoli fuorvianti e ingannevoli, che sembravano basarsi sui dati, mentre spesso ne travisavano il significato. Passiamo in esame alcuni articoli, per provare a costruire un “metodo di lettura” più consapevole dei dati presentati sui media.

Il 30 giugno 2021, per esempio, l’Ansa titolava: «Covid: in Alto Adige 1559 positivi dopo il vaccino». Il lancio riportava le dichiarazioni dell’assessore provinciale alla Sanità e conteneva un numero di cui non abbiamo motivo di dubitare, ma lo faceva in maniera sostanzialmente fuorviante.

Appena sotto il titolo, poco visibile, c’era la seconda parte dell’informazione: «Su 265.000 persone che hanno ricevuto almeno una dose».

Impostare il titolo sul dato dei 1559 positivi senza chiarire il contesto – i 265.000 vaccinati – equivaleva a diffondere una non-informazione, un non-dato, con il pericoloso potenziale di alimentare la disinformazione su una questione delicata come la vaccinazione e fornire un’arma di propaganda alle agguerrite sacche “no vax”, che infatti avrebbero ripreso e rilanciato questo e altri titoli di autorevoli testate come prova di teorie infondate sull’inefficacia dei vaccini. 

Gli elementi discutibili di un titolo così sono due: da una parte viene rafforzato un frame del tipo “I vaccini sono inefficaci. Non servono a niente! Ci si contagia anche dopo il vaccino”, aspetto pericoloso e inconsistente. In primis perché nessun vaccino è efficace al 100%, e tantomeno è efficace al 100% sull’infezione. Persino i due vaccini con l’efficacia più alta nei trial clinici, Pfizer e Moderna, avevano un’efficacia nel prevenire l’infezione intorno al 95%: sono vaccini straordinariamente efficaci, ma la prevenzione non è pari a 100. Sui 20.000 partecipanti ai trial che avevano ricevuto il vaccino Pfizer, le persone poi risultate positive erano state 9. L’efficacia del vaccino si osservava dal fatto che, tra i 20.000 partecipanti che invece avevano ricevuto un placebo, i positivi erano stati 169. In altre parole: 9 non è zero, ma è enormemente meno di 169.

Che una parte delle persone vaccinate potesse contrarre l’infezione da Covid-19 era noto e previsto. Come sappiamo da altri studi, l’efficacia stimata sull’infezione è poi risultata ben più bassa del 95% in altri contesti, anche per il diffondersi delle varianti Delta e Omicron. Quel che conta, però, non è l’efficacia sull’infezione, ma sui casi gravi (misurabili come casi di Covid-19 che portano all’ospedalizzazione, al ricovero in terapia intensiva o alla morte). L’efficacia sui casi gravi – misurata non su 40.000 partecipanti ai trial, ma su decine di milioni di persone vaccinate nel nostro Paese – è straordinariamente alta: a settembre 2021, tre mesi dopo l’articolo di cui abbiamo parlato, i dati dell’Istituto Superiore di Sanità mostravano che dopo il ciclo completo di vaccinazione l’efficacia dei vaccini era del 92,7% contro l’ospedalizzazione, del 95,1% contro i ricoveri in terapia intensiva e del 95,2% contro i decessi.

La scelta di focalizzarsi sul «numero di positivi dopo il vaccino» dell’articolo dell’Ansa era di per sé infelice, perché poneva l’attenzione su un aspetto quantomeno secondario (rischiando di cadere in un paradosso statistico che fa sembrare l’efficacia più bassa di quella reale). Ma la ragione per cui quel titolo era pericolosamente fuorviante è che non teneva in considerazione il dato fondamentale. Anche prendendo per buono i 1559 positivi, infatti, il lettore non aveva modo di capire se fosse un dato alto o altissimo, oppure basso o bassissimo. A un primo impatto tanti avranno pensato che fosse un numero alto, ma il problema è che si trattava di un numero assoluto non contestualizzato. Non sapevamo quanti fossero i vaccinati in totale in Alto Adige, tra i quali erano stati contati questi 1559 positivi. Certo, se fossero stati 2000, il dato sarebbe stato allarmante, perché ci avrebbe spinto a concludere che tre quarti dei vaccinati altoatesini erano risultati positivi a un tampone.

Lo stesso assessore alla Sanità citato dall’Ansa, però, chiariva che i vaccinati in Alto Adige erano stati 265.000. E 1559 su 265.000 corrisponde ad appena lo 0,6%, tanto che forse un titolo più attento sarebbe potuto essere «Covid: in Alto Adige solo lo 0,6% di positivi dopo il vaccino».

Con opportuni percorsi di “alfabetizzazione numerica”, rivolti anche alle redazioni dei giornali, capaci di dare il giusto rilievo alla cultura del dato e della sua interpretazione, non ci sarebbero sfuggiti altri elementi. Intanto, i 265.000 includevano anche persone vaccinate con una sola dose, il che rendeva complessa la valutazione, visto che diversi vaccini avevano un protocollo di somministrazione basato su due dosi.

Inoltre mancava comunque un “gruppo di controllo”, ossia il meccanismo su cui si basano i trial clinici nel settore farmaceutico. Non avevamo il dato, cioè, di quanti fossero i positivi tra i non vaccinati. Proprio questa mancanza è la chiave di tutta una serie di manipolazioni e di travisamento dei dati che ha accompagnato il dibattito sull’efficacia dei vaccini per buona parte dell’ultimo anno. È quello che potremmo definire un caso da manuale di inversione di numeratore e denominatore, che dobbiamo imparare a capire e riconoscere. Soprattutto dopo che, a luglio, si era diffuso il dato che il 40% dei pazienti ricoverati nel Regno Unito era completamente vaccinato, sui social – e non solo – si era scatenata la propaganda di gruppi scettici o contrari al vaccino, convinti che quel dato confermasse in modo inoppugnabile l’idea infondata che i vaccini non funzionano. Nulla di più sbagliato, e vediamo perché.

Il concetto di fondo da capire è che, più persone si vaccinano, più la percentuale di ricoverati vaccinati è destinata a salire, se non altro perché i non vaccinati, tra cui il virus può circolare, sono sempre meno. John Burn-Murdoch del «Financial Times», uno dei più bravi data journalist internazionali, ha spiegato il principio con un grafico molto efficace, ripubblicato il giorno successivo sul «Corriere della Sera». Come vediamo nelle pagine seguenti, nello scenario 1 abbiamo una percentuale molto alta di vaccinati nella popolazione, il 92%. Significa che su 1 milione di persone abbiamo 80.000 non vaccinati e 920.000 vaccinati. Applicando agli 80.000 non vaccinati e ai 920.000 vaccinati le probabilità di essere contagiati e poi di essere ricoverati, arriviamo a 160 ricoveri tra i non vaccinati e 110 tra i vaccinati. In altre parole, il 40% delle persone in ospedale ha ricevuto il vaccino, visto che 110 è il 40% di 270 (160+110). Nello scenario 2, invece, abbiamo una percentuale di vaccinati più bassa, pari al 70%. Vuol dire che su 1 milione di persone i non vaccinati sono 300.000 e i vaccinati 700.000. Applicando ai due gruppi le probabilità di infezione e ricovero, vediamo che appena il 12% dei ricoverati appartiene al gruppo dei vaccinati.

Qual è la ragione dell’apparente controsenso? Come è possibile che in questo scenario meno vaccinati finiscano in ospedale? Il paradosso nasce dal fatto che stiamo confondendo i numeri assoluti con le percentuali e il numeratore con il denominatore. Nello scenario 2, quello con solo il 70% di vaccinati nella popolazione, il totale delle persone che finiscono in ospedale è 684, più del doppio che nello scenario 1 con il 92% di vaccinati, dove è 270. Già questo dovrebbe bastare a capire che è meglio avere il 92% di vaccinati che il 70%, e che i vaccini funzionano, perché altrimenti con più vaccinati sulla popolazione non assisteremmo a meno ricoveri. Ma soprattutto non dobbiamo concentrarci tanto sulla percentuale di vaccinati tra i ricoverati, visto che più sono i vaccinati nella popolazione, più i (pochi) ricoverati tenderanno anch’essi a essere vaccinati. Per arrivare a un esempio estremo che ci aiuta a capire, se l’intera popolazione fosse vaccinata, tutti i (pochi) ricoverati sarebbero vaccinati. Ecco perché, nel momento in cui – come nel caso del Regno Unito a luglio 2021 – quasi 90 persone su 100 sono vaccinate, non c’è da spaventarsi se il 40% dei (pochi) ricoverati è vaccinato.

Quello su cui dobbiamo concentrarci, prendendo il giusto numeratore e il giusto denominatore, è la percentuale di ricoverati tra i vaccinati. Non ci serve sapere quanti sono i vaccinati e i non vaccinati su cento ricoverati, ma quanti sono i ricoverati su cento vaccinati e su cento non vaccinati.

da “Benedetti sondaggi. Leggere i dati, capire il presente”, di Lorenzo Pregliasco, Add editore, 2022, pagine 208, euro 18

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CONTAGIATI  2022

REGIONE

 

Gennaio

Febbraio

Marzo

Aprile

Maggio

Giugno

 

VALLE D’AOSTA

 

29.420

31.462

32.690

35.111

36.643

37.947

 

PIEMONTE

 

883.852

980.015

1.053.479

1.146.480

1.199.091

        1.255.993

 

LOMBARDIA

 

2.148.470

2.338.306

2.546.320

2.770.646

2.895.171

3.062.906

 

VENETO

 

1.167.152

1.334.054

1.498.035

1.672.534

1.755.381

1.867.336

 

TRENTO

 

124.661

139.344

149.988

161.473

167.792

175.309

 

BOLZANO

 

165.284

188.641

198.663

211.144

218.401

227.637

 

FRIULI

 

271.684

308.882

335.659

363.896

379.263

402.953

 

LIGURIA

 

301.070

346.209

386.854

427.791

450.180

476.820

 

EMILIA ROMAGNA

 

1.057.580

1.187.668

1.286.366

1.415.062

1.488.279

1.578.311

 

TOSCANA

 

749.183

858.942

989.177

1.099.975

1.152.078

1.217.125

 

UMBRIA

 

157.109

185.133

235.712

269.015

286.863

307.039

 

MARCHE

 

266.988

328.979

392.872

445.882

473.847

501.221

 

SARDEGNA

 

125.997

177.167

231.668

280.646

313.160

353.529

 

LAZIO

 

894.489

1.079.223

1.295.406

1.487.834

1.580.357

1.725.968

 

ABRUZZO

 

219.045

264.762

317.091

375.636

406.349

434.219

 

MOLISE

 

30.324

39.226

49.309

60.284

65.999

71.322

 

CAMPANIA

 

1.045.160

1.210.229

1.408.206

1.609.181

1.713.160

1.830.891

 

PUGLIA

 

610.904

738.545

924.698

1.069.433

1.134.580

1.212.257

 

BASILICATA

 

65.200

83.827

107.416

127.974

137.852

146.908

 

CALABRIA

 

171.780

217.806

299.051

359.129

390.339

418.629

 

SICILIA

 

631.070

791.552

980.734

1.115.665

1.195.447

1.305.691

 

CONTAGIATI  2022

REGIONE

Luglio

Agosto

Settembre

29 Ottobre

24 Novembre

29 Dicembre

 

VALLE D’AOSTA

41.968

43.676

44.697

47.564

48. 705

50.020

 

PIEMONTE

1.384.616

1.430.944

1.482.376

1.587.152

1.641.401

1.700.680

 

LOMBARDIA

3.372.927

3.476.403

3.579.530

3.778.186

3.918.510

4.059.723

 

VENETO

2.101.358

2.200.735

2.281.218

2.417.520

2.520.805

2.639.526

 

TRENTO

194.437

204.213

214.472

229.481

235.036

240.500

 

BOLZANO

247.126

255.460

264.961

281.542

286.317

289.808

 

FRIULI

453.661

476.338

493.988

525.038

542.576

565.067

 

LIGURIA

535.561

560.894

576.828

604.061

623.479

652.655

 

EMILIA ROMAGNA

1.761.791

1.823.059

1.868.453

1.957.498

2.023.026

2.105.144

 

TOSCANA

1.339.091

1.377.549

1.407.976

1.468.034

1.514.403

1.566.459

 

UMBRIA

351.096

365.914

377.820

400.820

413.420

427.803

 

MARCHE

575.959

605.266

623.926

653.197

672.388

702.746

 

SARDEGNA

417.923

439.544

450.244

467.935

482.438

498.722

 

LAZIO

1.954.349

2.020.463

2.075.231

2.165.500

2.239.105

2.322.732

 

ABRUZZO

508.039

540.255

560.440

587.217

606.455

635.217

 

MOLISE

82.389

87.537

90.392

93.757

95.954

99.658

 

CAMPANIA

2.110.756

2.185.046

2.233.696

2.291.891

2.338.694

2.405.365

 

PUGLIA

1.399.155

1.454.413

1.480.111

1.517.317

1.547.601

1.593.966

 

BASILICATA

170.758

179.158

184.113

188.808

191.882

196.436

 

CALABRIA

497.393

539.629

558.849

580.383

594.197

615.218

 

SICILIA

1.559.192

1.621.759

1.651.025

1.688.122

1.724.294

1.776.196

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

MORTI  2022

REGIONE

Gennaio

Febbraio

Marzo

Aprile

Maggio

Giugno

 

VALLE D’AOSTA

20

12

5

8

2

2

537

PIEMONTE

570

418

153

119

116

37

13.472

LOMBARDIA

2146

1390

637

712

572

292

40.844

VENETO

815

629

325

297

238

106

14.805

TRENTO

52

46

19

15

9

5

1.569

BOLZANO

51

55

35

15

16

6

1.485

FRIULI

279

278

138

84

102

50

5.156

LIGURIA

310

212

93

72

55

27

5.356

EMILIA ROMAGNA

897

791

351

361

317

163

17.110

TOSCANA

665

823

467

334

245

91

10.187

UMBRIA

127

107

70

26

17

33

1.884

MARCHE

177

171

112

131

65

35

3.940

SARDEGNA

120

209

179

116

110

53

2.516

LAZIO

573

590

379

330

220

138

11.475

ABRUZZO

174

149

132

125

110

48

3.378

MOLISE

21

35

23

25

13

6

635

CAMPANIA

731

568

264

253

226

117

10.630

PUGLIA

236

454

297

311

222

121

8.628

BASILICATA

48

79

68

55

35

15

935

CALABRIA

271

204

214

191

111

63

2.679

SICILIA

1059

925

606

495

343

262

11.204

MORTI  2022

REGIONE

Luglio

Agosto

Settembre

29 Ottobre

24 Novembre

29 Dicembre

 

VALLE D’AOSTA

8

2

4

4

4

5

564

PIEMONTE

63

62

23

57

35

71

13.783

LOMBARDIA

740

660

312

530

567

1026

44.688

VENETO

268

299

116

208

213

398

16.307

TRENTO

13

8

8

19

7

8

1.632

BOLZANO

24

21

14

28

18

9

1.599

FRIULI

105

108

63

142

103

167

5.844

LIGURIA

86

100

36

44

87

106

5.815

EMILIA ROMAGNA

411

371

144

198

223

477

18.934

TOSCANA

238

230

130

196

159

212

11.352

UMBRIA

85

100

53

57

71

89

2.339

MARCHE

91

61

21

47

36

86

4.282

SARDEGNA

87

119

46

15

49

34

2.866

LAZIO

291

233

86

132

123

197

12.537

ABRUZZO

165

91

33

41

48

72

3.828

MOLISE

0

18

8

5

9

14

707

CAMPANIA

16

467

123

72

88

158

11.538

PUGLIA

193

178

91

77

87

165

9.419

BASILICATA

39

5

6

4

30

17

1.036

CALABRIA

150

122

60

50

53

91

3.205

SICILIA

474

434

90

45

51

144

12.442

Totale 2022:

25.143.643 casi totali

24.959.001 dimessi-guariti

184.642 deceduti (questo numero potrà essere confermato dopo che l’Istituto Superiore di Sanità avrà stabilito la causa effettiva del decesso).

Dal bollettino ufficiale Ministero della Salute.

 

Totale 2021:

6.266.939 casi totali

5.107.729 dimessi-guariti

137.513 deceduti (questo numero potrà essere confermato dopo che l’Istituto Superiore di Sanità avrà stabilito la causa effettiva del decesso).

Dal bollettino ufficiale Ministero della Salute.

 

Totale 2020:

2.129.376 casi totali

1.479.988 guariti

74.621 deceduti (questo numero potrà essere confermato dopo che l’Istituto Superiore di Sanità avrà stabilito la causa effettiva del decesso).

Dal bollettino ufficiale Ministero della Salute.

 

Il bollettino giornaliero diventa settimanale. Stop al Report diventato difficoltoso.

Covid, guida alle nuove regole del governo Meloni: stop all'obbligo vaccinale per i medici, mascherine restano obbligatorie in ospedale e Rsa

Dal reintegro dei camici bianchi non vaccinati alla sospensione delle multe per i No Vax, tutte le novità.

La Repubblica il 31 ottobre 2022.

A una settimana e un giorno dall'insediamento del governo Meloni, arrivano le prime novità sulla gestione del Covid all'insegna della "discontinuità" voluta dall'attuale esecutivo rispetto al precedente. Vediamo quali sono le norme che cambieranno e quali sono ancora in vigore.

Il bollettino

Il 29 ottobre è stato l'ultimo giorno in cui il bollettino dei casi di Covid è stato diffuso quotidianamente. Dopo due anni e mezzo (il primo bollettino era datata 23 febbraio 2020) è arrivata la svolta annunciata dal neo ministro della Salute Orazio Schillaci: il bollettino sarà d'ora in avanti (salvo retromarce) settimanale. Il prossimo bollettino sarà dunque diffuso a livello nazionale il prossimo 4 novembre. Il 28 ottobre il ministero aveva annunciato la scelta in un comunicato che recitava così: "Il ministro della Salute, a sei mesi dalla sospensione dello stato d’emergenza e in considerazione dell’andamento del contagio da Covid-19, ritiene opportuno avviare un progressivo ritorno alla normalità nelle attività e nei comportamenti, ispirati a criteri di responsabilità e rispetto delle norme vigenti. Pertanto, anche in base alle indicazioni prevalenti in ambito medico e scientifico, si procederà alla sospensione della pubblicazione giornaliera del bollettino dei dati relativi alla diffusione dell’epidemia, ai ricoveri e ai decessi, che sarà ora reso noto con cadenza settimanale, fatta salva la possibilità per le autorità competenti di acquisire in qualsiasi momento le informazioni necessarie al controllo della situazione e all’adozione dei provvedimenti del caso".

Le mascherine

Prorogato l'obbligo di utilizzo delle mascherine negli ospedali e nelle Rsa. Lo prevede, secondo quanto si apprende, la nuova ordinanza del ministro della Salute Orazio Schillaci. Scade infatti oggi la precedente ordinanza firmata dall'ex ministro della Salute Roberto Speranza che stabiliva l'obbligatorietà dei dispositivi di protezione nelle strutture sanitarie.

Il nuovo esecutivo era orientato a non rinnovare il provvedimento restrittivo ma, dopo gli inviti alla cautela e alla precauzione arrivati anzitutto dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella e poi dal mondo sanitario e da diverse Regioni, si è deciso per la proroga e quindi di rinnovare l'obbligo negli ospedali e nelle Rsa per proteggere i più fragili e gli anziani.

L'obbligo vaccinale

In base alle norme attuali, l'obbligo vaccinale per i medici e i sanitari scade il 31 dicembre. Ma oggi il Consiglio dei ministri di oggi dovrebbe però anticipare a scadenza dell'obbligo vaccinale per il personale sanitario al primo novembre, dunque subito, e la relativa abrogazione delle sanzioni previste. Significa che per lavorare medici, infermieri, operatori sanitari e delle Rsa non dovranno più sottoporsi alla somministrazione a partire da domani.

Il reintegro dei sanitari No Vax

I medici e gli infermieri No Vax saranno reintegrati. Si tratta al momento di 3400 persone allontanate dal posto di lavoro perché inadempienti con gli obblighi vaccinali. Nel momento in cui però decade anche l'obbligo viene meno anche la ragione per tenerli fuori dai reparti. Ad annunciare il reintegro è stato il ministro della Salute Orazio Schillaci in un comunicato del 28 ottobre che recitava: "Per quanto riguarda il personale sanitario soggetto a procedimenti di sospensione per inadempienza all'obbligo vaccinale e l'annullamento delle multe previste dal dl 44/21, in vista della scadenza delle disposizioni in vigore e della preoccupante carenza di personale medico e sanitario segnalata dai responsabili delle strutture sanitarie e territoriali, è in via di definizione un provvedimento che consentirà il reintegro in servizio del suddetto personale prima del termine di scadenza della sospensione".

La sospensione delle multe ai No Vax

Le sanzioni comminate ai non vaccinati over 50 che non hanno proceduto all'immunizzazione entro lo scorso 15 giugno saranno congelate fino all'estate 2023. Il ministero dell'Economia e delle Finanze ha fatto sapere di aver "terminato la sua istruttoria" e di aver quindi "inviato al Dipartimento per i rapporti con il Parlamento una proposta emendativa ai fini della presentazione al disegno di legge di conversione del decreto-legge aiuti ter in esame alla camera. La proposta sospende fino al 30 giugno 2023 le attività e i procedimenti di irrogazione della sanzione nei casi di inadempimento dell'obbligo vaccinale Covid-19".

Il Green Pass in ospedali e Rsa

Negli ospedali e nelle Rsa vige ancora l'obbligo di Green Pass. Molto spesso inapplicato il provvedimento è ancora in vigore e la scadenza è fissata al 31 dicembre 2022. Il nuovo esecutivo non si è ancora espresso su questo punto.

Le mascherine al lavoro

Il protocollo siglato dalle parti sociali il 30 giugno scorso prevede che nei luoghi di lavoro l'uso delle mascherine non è più obbligatorio, anche se resta un presidio importante per la prevenzione del contagio. L'utilizzo o meno sarà quindi legato al ricorrere di alcune condizioni particolari di rischio: contesti di lavoro in ambienti chiusi e condivisi da più lavoratori; luoghi aperti al pubblico; luoghi di lavoro dove non è possibile il distanziamento interpersonale di un metro per le specificità delle attività lavorative. In tutti questi tre casi è necessario indossare la mascherina. Il protocollo, inoltre, pone a carico del datore di lavoro l'obbligo di assicurare la disponibilità delle mascherine. Le parti sociali, assieme a ministero del Lavoro, della Salute, all'Inail e alle associazioni di categoria si erano date il termine del 31 ottobre, oggi dunque, per una verifica delle nuove disposizioni alla luce dell’evoluzione normativa ed epidemiologica. L'incontro è stato fissato al 4 novembre.

“Una bugia il primato di morti dell’Italia”. Gli scienziati smentiscono la premier. Dal quinto posto del 2020 al 53° dell’anno dopo. Ricciardi: “Grazie a misure e vaccini”. La Repubblica il 2 Novembre 2022.

L’Italia è il Paese che ha avuto più morti di Covid pur applicando le misure più pesanti di tutti: è ormai diventato un leit motiv quello della presidente del Consiglio Giorgia Meloni quando si tratta di commentare le politiche anti pandemia del governo Draghi, in particolare dell’ex ministro della Salute Roberto Speranza. Un tipo di narrazione molto cara anche al mondo No Vax ma che è falsa, visto che i numeri degli istituti internazionali che raccolgono i dati dicono che ci sono 24 Paesi che hanno avuto un numero di morti superiore in rapporto agli abitanti.

"Non è affatto vero quel che dice il governo», spiega Walter Ricciardi, igienista della Cattolica e già consulente di Speranza. «I dati rivelano che nel 2020, anno nel quale siamo stati investiti per primi dalla pandemia, siamo stati quinti al mondo per numero di decessi ogni 100 mila abitanti, dietro a Paesi come Perù e Belgio". Se invece si osserva il 2021 "siamo al 53° posto. E questo è successo anche se la popolazione italiana è più anziana al mondo, e quindi più fragile ed esposta a un virus di questo tipo". I numeri del 2021 sarebbero legati agli effetti delle chiusure e in generale delle politiche anti Covid adottate dal nostro Paese nel 2020, il primo ad affrontare la pandemia. "Un impatto importante per ridurre la mortalità lo ha avuto di certo la vaccinazione — aggiunge l’epidemiologo dell’Università di Milano Carlo La Vecchia — L’adesione degli italiani è stata subito altissima, siamo stati tra i più coperti, con Spagna e Portogallo".

Ricciardi cita i numeri di una pubblicazione della stessa Cattolica, a firma di Michela Garlaschi. Il testo analizza più fonti. "I primi dieci posti nella classifica internazionale dei Paesi per numero di decessi da Covid ogni 100 mila abitanti, nel 2021 sono occupati da quelli dell’Europa orientale, a esclusione di Perù e Gibilterra — è scritto nel testo — La Bulgaria è al primo posto con 337 decessi (nel 2020 era occupato dal Perù, ora secondo). L’Italia nel 2021 è alla cinquantatreesima posizione con 107 decessi, appena dopo il Regno Unito con 111 decessi. Nel 2020 era quinta con 123".

Nel 2022, la mortalità è stata un po’ ovunque inferiore agli anni precedenti. Lo studio della Cattolica non calcola il totale dei morti per 100 mila abitanti dall’inizio della pandemia ad oggi ma osservando i numeri pubblicati da “Our world in data” dell’Università di Oxford, che prende in considerazione tutti i Paesi, l’Italia è venticinquesima. Ha una mortalità inferiore, tra gli altri, a Perù, Bulgaria, Ungheria, Georgia, Croazia, Romania, Lituania, Slovenia, Grecia, Brasile, Stati Uniti, Cile e Regno Unito. Chi ha comunicato i dati a Meloni ha sbagliato.

Secondo Ricciardi "avremmo potuto certamente fare meglio, ma con misure ancora più dure, non più morbide. Ad esempio quelle che hanno adottato Germania e Francia, che hanno fatto lockdown nazionali molto più tempestivi e prolungati di noi: è anche falso, quindi, che noi abbiamo adottato misure più dure degli altri".

Un’altra accusa rivolta dal governo attuale a quello passato è di non aver seguito la scienza affidandosi a decisioni politiche. "Sia il governo Conte che il governo Draghi hanno sempre posto l’evidenza scientifica alla base delle decisioni, facendosi supportare da Istituto superiore di sanità, Consiglio superiore di sanità e due Cts, dove c’erano scienziati e medici tra i più rilevanti e qualificati del Paese. Nel primo c’erano clinici di alto livello nel campo della pediatria, della geriatria, dell’anestesia, della pneumologia, dell’infettivologia. Non mi pare altrettanto basata sull’evidenza scientifica la decisione di riammettere il personale sanitario No Vax in grado di trasmettere l’infezione alle persone più fragili, in ambienti in cui il rischio dovrebbe essere minimizzato e non amplificato".

 Covid, "il vero numero delle vittime in Italia": Lancet, lo studio che riscrive la storia della pandemia. Libero Quotidiano il 16 marzo 2022.

Sulla rivista Lancet è uscito uno studio sui morti per Covid. Nello studio si svela che nel 2020 e nel 2021 in Italia ci siano stati ben 259 mila decessi in più rispetto a quelli attesi osservando la media degli anni precedenti. Numeri che sono in controtendenza con quelli ufficiali, visto che i morti per Covid registrati fino al 31 dicembre sono stati 137 mila. Il dato di Lancet è anche più alto di quello dei morti in eccesso (165 mila) stimato dall'Istat confrontando gli ultimi due anni con la media dei decessi avvenuti tra il 2015 e il 2019. Lo rivela Repubblica che spiega anche che c'è stata una riunione alla quale hanno partecipato Istat e Istituto superiore di sanità proprio per capire come mai i dati siano così diversi.

La ricerca di Lancet valuta i danni del coronavirus in tutto il mondo e arriva a stimare che la pandemia abbia fatto il triplo delle vittime rispetto a quelle effettivamente registrate, cioè circa 18,2 milioni (contro 5,9). I tassi di mortalità in eccesso più alti sono in America Latina andina (512 morti ogni 100mila abitanti), Europa orientale (345), Europa centrale (316), Africa subsahariana meridionale (309) e America Latina Centrale (274). Per l'Italia i morti potrebbero essere il doppio. La Calabria ha avuto 1.610 morti per Covid ma la mortalità in eccesso nei due anni è di 6.920 casi. In Campania 8.470 e 18.600. Il Lazio avrebbe avuto circa il doppio dei 9.270 morti ufficiali, la Puglia invece di 6.990 sarebbero 17.700.

"Saranno necessari ulteriori approfondimenti - afferma Haidong Wang, che ha guidato il team di ricerca di Ihme, l'istituto autore dello studio pubblicato da Lancet - per comprendere la percentuale di decessi dovuti all'infezione da SARS-CoV-2 e gli effetti indiretti della pandemia, comprese le conseguenze sui sistemi sanitari e sull'economia globale.. Lo studio non convince molti ricercatori italiani. Marina Davoli, che dirige il Dipartimento di epidemiologia (Dep) del Lazio, e che per il ministero alla Salute cura il sistema di sorveglianza della mortalità giornaliera in una cinquantina di città italiane spiega che, "i dati sono di difficile interpretazione, dal lavoro non è chiaro come vengano calcolati i decessi in eccesso. Sembrano sovrastimati rispetto a quanto rivela la sorveglianza giornaliera del nostro sistema di monitoraggio e anche rispetto a quanto prodotto dall'Istat, che ha numeri molto aggiornati. Non è chiaro ad esempio come viene calcolata la mortalità "attesa" rispetto alla quale poi si stima l'eccesso".

Da tg24.sky.it l'11 marzo 2022.

Il numero di vittime della pandemia di Covid-19 a livello mondiale potrebbe essere tre volte più alto rispetto al bilancio ufficiale, che dall'1 gennaio 2020 al 31 dicembre 2021 conteggia 5,9 milioni di decessi con coronavirus. È l'ipotesi avanzata dagli autori di un'analisi pubblicata sulla rivista "The Lancet". Le stime sono basate sulla cosiddetta "mortalità in eccesso", ovvero sul numero di morti in più registrati nel 2020 e nel 2021 rispetto alla media degli anni precedenti. Per quanto riguarda l'Italia, lo studio stima che in 2 anni si siano verificati 259mila decessi in eccesso, pari a quasi il doppio rispetto alle 137mila vittime Covid ufficiali al 31 dicembre 2021.

I risultati dell'analisi

Secondo i ricercatori, a livello globale, il numero di morti in eccesso registrato nel 2020 e 2021 è pari a 18,2 milioni, più del triplo di quelli che rientrano nella statistica dei decessi Covid: numero che suggerisce che l'impatto complessivo della pandemia potrebbe essere stato maggiore di quanto stimato. L'analisi evidenzia, inoltre, che i tassi di mortalità in eccesso variano ampiamente tra i Paesi e all'interno delle regioni.

Nello specifico, il reale bilancio delle vittime sembra sia stato molto più alto in alcune località, in particolare nell'Asia meridionale (5,3 milioni di morti in eccesso) e nell'Africa subsahariana, rispetto a quanto suggeriscono i dati ufficiali Covid. Tuttavia, gli autori sottolineano che saranno necessarie ulteriori ricerche per comprendere la quota di morti in eccesso dovuti direttamente all'infezione e agli effetti indiretti della pandemia, compreso l'impatto sui servizi sanitari, e i decessi per altre malattie o per gli impatti economici più ampi. 

In India il numero più alto di morti in eccesso: 4,1 milioni

La ricerca fornisce le stime globali e quelle di 191 Paesi e territori (e 252 località subnazionali come stati e province). A livello nazionale, stando alle stime dei ricercatori, il numero più alto di morti in eccesso si sarebbe verificato in India (4,1 milioni), Stati Uniti (1,1 milioni), Russia (1,1 milioni), Messico (798mila), Brasile (792mila), Indonesia (736mila) e Pakistan (664mila).

Questi 7 Paesi potrebbero aver rappresentato più della metà delle morti in eccesso globali causate dalla pandemia nel periodo di 24 mesi. Mentre i tassi di mortalità in eccesso più alti stimati erano in America Latina andina (512 morti ogni 100mila abitanti), Europa orientale (345 morti ogni 100mila), Europa centrale (316 morti ogni 100mila), Africa subsahariana meridionale (309 morti ogni 100mila) e America Latina Centrale (274 morti ogni 100mila).

Necessari ulteriori studi

Secondo gli autori dell'analisi, potrebbero aver influito su questi numeri una diagnosi insufficiente a causa della mancanza di test, ma anche problemi con la segnalazione dei dati di morte. "Distinguere tra i decessi causati direttamente da Covid e quelli che si sono verificati come risultato indiretto della pandemia è cruciale", hanno sottolineato gli autori, spiegando che "evidenze suggeriscono che una percentuale significativa delle morti in eccesso sia un risultato diretto di Covid". Tuttavia, i decessi potrebbero anche essersi verificati indirettamente per cause come suicidio o uso di droghe o alla mancanza di accesso all'assistenza sanitaria e ad altri servizi essenziali durante la pandemia.

"Determinare il vero bilancio delle vittime della pandemia è vitale per un efficace processo decisionale in materia di salute pubblica", ha osservato l'autore principale dell'analisi, Haidong Wang, dell'Institute for Health Metrics and Evaluation, negli Usa. "Studi di diversi Paesi, tra cui Svezia e Paesi Bassi, suggeriscono che Covid sia stata causa diretta della maggior parte delle morti in eccesso, ma al momento non abbiamo prove sufficienti per la maggior parte delle località. Ulteriori ricerche aiuteranno". 

Morti "per Covid" o "con Covid". L'Iss fa chiarezza sui decessi: unica causa nel 23% dei casi. Il Tempo il 02 marzo 2022.

L'Istituto superiore di sanità cerca di mettere la parola fine alla polemica sui morti "per Covid" o "con Covid". Lo fa con uno studio pubblicato oggi mercoledì 2 marzo 2022. Infatti, un campione di 6.530 schede di decessi avvenuti nel 2021 e riportati al sistema di sorveglianza integrata, il Covid-19 è stato ritenuto l’unica causa responsabile del decesso nel 23% dei casi. Nel 29% dei casi è presente una concausa oltre al coronavirus e nel 48% è stata riscontrata più di una causa. Questi dati sono contenuti nel settimo rapporto congiunto sull’impatto dell’epidemia sulla mortalità totale dell’Istituto nazionale di statistica (Istat) e dell’Iss. 

Il punto saliente su cui punta l'attenzione l'Istituto diretto da Silvio Brusaferro è questo: "Nel 90% delle schede Covid-19 è stata riportata come causa direttamente responsabile del decesso, similmente a quanto già osservato nel 2020 (89%)". Inoltre, "Nel 90% delle schede - si legge ancora - si riscontrano come complicanze condizioni tipicamente associate a Covid-19, quali polmonite, insufficienza respiratoria, distress respiratorio acuto (Ards) o altri sintomi respiratori. Covid-19 è l’unica causa responsabile del decesso nel 23% dei casi, mentre nel 29% dei casi è presente una concausa oltre a Covid-19 e nel 48% si riscontra più di una causa".

Covid, in Europa diminuiscono i decessi, ma l’Italia è seconda: il rapporto dell’Oms. Valentina Mericio il 24/02/2022 su Notizie.it.

Il numero delle vittime legate al covid in Europa è sceso, ma l'Italia è seconda dietro alla Russia. Questo è quanto emerge dal report dell'Oms. 

In Europa diminuiscono i decessi legati al Covid-19, ma l’Italia è seconda dietro solo alla Russia. Questo è quanto emerge dal report settimanale stilato dall’Oms. In particolare nel vecchio continente sono state registrate 24.000 nuove vittime ossia il 5% in meno rispetto al monitoraggio precedente. 

Covid, il report settimanale dell’Oms: l’Italia è seconda per numero di vittime

Secondo il monitoraggio dell’Organizzazione mondiale della sanità la “maglia nera” spetta alla Russia dove il numero di nuovi morti rilevati è di 5.252 contro i 2.024 dell’Italia. In linea generale, in Europa sono stati registrati oltre 7,2 milioni di nuovi casi segnando un -26% rispetto ai sette giorni precedenti. Un solo Paese, in particolare, ha fatto registrare su questo fronte un aumento superiore al 20% ossia l’Islanda dove, nell’ultima settimana sono stati rilevati 17.293 nuovi casi segnando un +30%.

Infine nel periodo tra il 14 e il 20 febbraio, sono stati oltre 12 milioni i nuovi casi a livello globale. 

Il bilancio nazionale di mercoledì 23 febbraio

Per ciò che riguarda il nostro Paese, nel bilancio diramato dal ministero della Salute di mercoledì 23 febbraio sono stati registrati 49.040 nuovi casi. Le vittime sono invece 252, mentre i guariti sono 119.280. Calano i ricoveri sia in area medica che in terapia intensiva segnando rispettivamente -549 e – 10.

Infine il tasso positività rilevato è del 10,2% con un +0,3% rispetto al monitoraggio delle 24 ore precedenti. Il totale dei tamponi effettuati è 479.447, mentre sono state 133.468.339 le dosi di vaccino somministrate. 

Covid, Matteo Bassetti e la verità sui morti da virus: "Il 40%", il dato che fa saltare il banco. Libero Quotidiano il 12 febbraio 2022.

"Se è vero, come ci dice un rapporto di Alisa, che fino al 40% dei ricoveri Covid oggi in media intensità in Liguria sono pazienti ricoverati non per Covid ma con Covid, potrebbe anche darsi che il 40% dei decessi in Liguria siano con Covid ma non per Covid". Lo ha spiegato Matteo Bassetti nel consueto punto di aggiornamento sulla pandemia in Liguria proprio nel giorno in cui la Regione, con 4.994 decessi Covid, arriva a sfiorare i 5.000 morti registrati dall'inizio della pandemia.

"Nell'attuale conteggio purtroppo escono indifferenziati i decessi per Covid e quelli con Covid - ha proseguito il primario della clinica di malattie infettive dell'ospedale San Martino di Genova - credo che su questo argomento si potrebbe lavorare anche con uno studio, andando ad analizzare per esempio le cartelle cliniche dei pazienti deceduti per Covid e studiare all'interno qual è stato il determinante della positività al tampone". 

Non è la prima volta che l'infettivologo invoca nuove modalità per il conteggio dei morti Covid in Italia. Qualche giorno fa, per esempio, riferendosi alla sua stessa esperienza di medico, ha detto: "Ho ricoverato 5 mila pazienti e nelle ultime tre settimane non ho avuto morti Covid. Non mi rivedo nei numeri della Liguria e sono sicuro che molta meno gente oggi muore di Covid e sempre più persone muoiono positive a un tampone, ma di tutt'altro".

IL RISCHIO DI UNA SOTTOSTIMA. I morti per Covid sono più di quelli che abbiamo contato. ANDREA CASADIO su Il Domani il 10 febbraio 2022

Molti continuano a ripetere bisogna distinguere chi è morto “con” il Covid da chi è morto “per” il Covid”, e che gran parte delle persone sono decedute non a causa del Covid, che quindi è molto meno letale di quello che si pensa, ma delle altre patologie di cui soffrivano.

Nel resto del mondo, gli scienziati sostengono una cosa contraria a quel che si dice in Italia, ovvero che le morti da Covid sono gravemente sottostimate.

In Italia secondo i dati ufficiali i morti da Covid risultano 149mila, ma in realtà probabilmente sono stati circa 190mila, cioè 40mila in più. 

ANDREA CASADIO. È medico, giornalista e autore tv. Ex docente universitario ed ex ricercatore di neuroscienze alla Columbia University di New York, ha partecipato agli studi sulla memoria che hanno permesso a Eric Kandel, capo del laboratorio, di ottenere il premio Nobel per la Medicina nell'anno 2000. Ha collaborato come inviato e autore televisivo a varie trasmissioni (Turisti per caso, Sciuscià, Velisti per caso, Annozero, Servizio pubblico, Piazzapulita).

Fabio Savelli per il "Corriere della Sera" l'11 febbraio 2022.

Aprile 2021, dieci mesi fa: con gli occhi di adesso un'era geologica. Lo abbiamo forse rimosso come riflesso condizionato (e collettivo). Però i dati, guardandoli in controluce, spiegano come lo scudo vaccinale abbia consentito di frenare l'impatto della pandemia, anche in presenza della variante Omicron molto più trasmissibile. Scampato il pericolo conviene però ricordare che cosa abbiamo vissuto proprio mentre la campagna di somministrazioni cominciava a prendere forma seppur con profonde differenze regionali.

Un alto numero di fragili e over 60 era ancora privo di copertura tanto da costringere il commissario Francesco Figliuolo, il 15 aprile scorso, a strigliare le Regioni con una circolare che le indicava come categorie prioritarie da vaccinare in fretta. L'11 aprile dell'anno scorso avevamo poi il coprifuoco alle 24 in tutto il Paese, i locali chiudevano alle 18 consentendo solo l'asporto, tavolate (e feste) erano vietate, la gran parte delle regioni presentava un allarmante (anche se in lieve miglioramento) quadro epidemiologico con una mobilità ridotta negli spostamenti. Eravamo soprattutto impotenti di fronte al «sovraccarico del sistema sanitario», messo nero su bianco dal ministero della Salute.

Perché il picco di quella ondata, la terza, era stato sì appena superato ma le terapie intensive erano affollate costringendo gli ospedali a riprogrammare gli interventi. Il monitoraggio dell'Istituto superiore di sanità di quella settimana, tra il 5 e l'11 aprile, restituiva una cartolina che ora ci sembra in bianco e nero, ma parliamo di appena 300 giorni fa. I ricoverati erano quasi 30 mila: il 6 aprile 29.337, ieri 17.354, poco più della metà. Ma sono i numeri relativi alle forme gravi a darci la differenza più evidente: nelle terapie intensive lo stesso giorno i posti occupati erano 3.743, ieri poco più di un terzo, 1.322. I dati assumono maggiore valore se consideriamo il rapporto col numero di casi.

Ad aprile si stava affacciando la variante Delta, che è poi diventata prevalente a luglio col suo indice di trasmissibilità superiore del 60% rispetto alla precedente. Ora l'impatto di Omicron ha fatto sparigliare qualunque confronto per la sua contagiosità. L'11 aprile scorso i nuovi positivi furono 15.746, ieri 75.861: dunque 5 volte tanto. Ma l'incidenza non si trasferisce sulle ospedalizzazioni e neanche sui decessi, che vanno necessariamente parametrati a questo numero di casi.

Le vittime per Covid, conteggiate dalle Regioni, furono l'11 aprile 331, ieri 325. Quasi in linea per due motivi. Primo, perché siamo probabilmente al picco di decessi della quarta ondata: la dinamica dei morti ha un andamento ritardato di due settimane rispetto ai contagi che a fine gennaio hanno oscillato tra 100 e 200 mila al giorno e ora si stanno riducendo.

Secondo, perché Omicron ha una trasmissibilità superiore di 5,4 volte alla precedente, secondo uno studio dell'Imperial College, e senza la barriera dei vaccini (e a parità di quelle misure restrittive) il conto dei decessi sarebbe nettamente più pesante. Gli studi sul tasso d'incidenza settimanale di casi Covid con forma severa, contenuti nell'ultimo monitoraggio Iss, spiegano quello che sta accadendo. Tra i 60 e i 79 anni i non vaccinati sviluppano una forma grave della malattia per 150 casi ogni 100 mila abitanti.

Per chi ha ricevuto la dose booster questo rapporto scende del 94%. Per gli over 80 il confronto è ancora più schiacciante: i non vaccinati sviluppano una forma severa secondo un rapporto di oltre 400 casi per 100 mila abitanti, per chi ha avuto tre dosi l'incidenza scende sotto 50. Merito di una campagna che ha ormai raggiunto oltre 49,3 milioni con una dose, 47,85 milioni con due, a cui aggiungere l'immunità da guarigione che riguarda ora 1,27 milioni di persone. Totale: 50,58 milioni, il 93,65% degli over 12. Quelli non coperti sono ormai una sparuta minoranza.

Michela Allegri per "Il Messaggero" l'11 febbraio 2022.

Più di 150mila morti. Ieri i dati diffusi dal ministero della Salute sull'andamento della pandemia in Italia hanno documentato un triste traguardo: dall'inizio dell'emergenza, nel nostro Paese le persone che hanno perso la battaglia contro il Covid sono state 150.122. 

Tantissime. È vero che la curva dei decessi è la più lenta a scendere, ma siamo ancora troppo in alto: l'Italia è la seconda in Europa per numero di morti, ed è il quarto Paese a livello mondiale, con oltre quattro morti ogni 100mila abitanti e oltre 1,2 milioni di contagi in 7 giorni, come emerge dall'ultimo bollettino dell'Oms.

Una situazione che dovrà essere analizzata, ma che porta a farsi domande sull'efficacia del sistema di assistenza nazionale e territoriale. Per Walter Ricciardi, consigliere scientifico del ministro della Salute, Roberto Speranza, i morti che si registrano ancora ogni giorno per Covid «sono tantissimi» e tra le cause ci potrebbe essere anche «la fragilità dell'assistenza sanitaria».

Servono investimenti, che portino all'assunzione di nuovo personale e all'efficientamento delle procedure. D'altronde, «abbiamo un Servizio sanitario nazionale che è arrivato alla pandemia due anni fa in condizioni di debolezza assoluta nell'organico - ha sottolineato Ricciardi, ospite a Tagadà, su La7 - abbiamo 53mila infermieri in meno rispetto a quelli che servirebbero e 10mila medici in meno».

Una carenza che si traduce in un servizio più scadente: «Significa che una persona anziana entra in ospedale e durante la notte è assistita da un infermiere invece che da 5 infermieri, da un medico invece che da 3 medici, è chiaro che la qualità dell'assistenza ne risente, anche se quei medici e quegli infermieri fanno tutto il possibile, a fronte di organici scarsissimi. La tempestività e la qualità dell'assistenza ne risentono».

Il consigliere di Speranza sostiene che «i soldi ci sono, li dobbiamo utilizzare», per una grande campagna di assunzioni.

Gli investimenti sono necessari anche nella medicina territoriale, che comprende tutte quelle prestazioni di primo livello e pronto intervento preventive e alternative all'ospedalizzazione. 

Un sistema che ha dimostrato tutta la sua debolezza - soprattutto nella prima fase dell'emergenza, con la saturazione degli ospedali - e che dovrebbe venire riformato con i fondi del Pnrr.

«Il Covid ha insegnato che gli ospedali sono importantissimi, ma che è fondamentale riuscire a creare una struttura in grado di assistere in modo diretto le persone, che sia più vicina ai cittadini - spiega Roberto Cauda, direttore di Malattie infettive al Policlinico Gemelli di Roma e docente dell'Università Cattolica - nel Lazio, per esempio, hanno questo scopo le Uscar, le Unità speciali di continuità assistenziale. È questa la medicina del futuro, che si è manifestata in tutta la sua importanza e carenza».

Il bollettino quotidiano diffuso dal Ministero indica che in 24 ore si sono registrate 325 vittime, anche se in calo rispetto alle 384 del giorno precedente. Il monitoraggio della Fondazione Gimbe rileva inoltre che dal 2 all'8 febbraio non sono per niente diminuiti i decessi rispetto alle settimane precedenti: sono stati 2.587 (+0,2%).

I numeri vanno letti in parallelo a un'altra circostanza non da poco: sono ancora oltre 7 milioni gli italiani non vaccinati, neppure con la prima dose, e si tratta soprattutto di over 50. 

Al 9 febbraio, l'85,4% della popolazione - sottolinea sempre Gimbe - ha ricevuto almeno una dose di vaccino e l'82% ha completato il ciclo vaccinale, ma 7,1 milioni di persone non hanno ancora ricevuto nemmeno una somministrazione.

Si è inoltre registrato un -35,2% di vaccinazioni rispetto alla settimana precedente nella fascia 5-11 anni e un -41,6% tra gli over 50. 

Alla base dell'altissima mortalità italiana ci sono anche altri elementi: la demografia e la fragilità. «L'età media è elevata - sottolinea Cauda - e c'è un numero importante di over 50 non ancora vaccinati che molto spesso si oppongono anche al ricovero in ospedale, arrivando quando ormai è troppo tardi per poterli curare».

Daniele Fogli: «Da 47 anni al servizio dei morti, ma che pena parlarne in famiglia». Stefano Lorenzetto su Il Corriere della Sera il 9 febbraio 2022.  

Da 47 anni vive tra i morti. A 71 potrebbe smettere, ma lui dice che si diverte così. In effetti è difficile incontrare una persona più radiosa dell’ingegner Daniele Fogli da Ferrara. Eppure è dal 1975 che si sobbarca i compiti più sgradevoli assegnabili a un essere umano. Dove collocare le salme nella prima ondata della pandemia, con la mortalità in certe zone aumentata dell’800 per cento? Chiamano Fogli. Chi riscrive i regolamenti statali e regionali di polizia mortuaria? Chiamano Fogli. Come ristrutturare, gestire o inserire nei piani regolatori i cimiteri di Roma, Torino, Bologna, Genova, Firenze, Verona, Trieste, Rovigo, Arezzo, Faenza, Asti, Gorizia, Trento, Bolzano, Como, Treviso, Mantova, Ravenna, Ancona, Forlì, Foggia, ma anche di località minori quali Casale Monferrato, Cinisello Balsamo, Paderno Dugnano, Follonica e Camaiore? Chiamano Fogli. Il massimo esperto del «dopo» ha talmente ben presente la precarietà della vita da essere uno dei pochi italiani a non aver mai chiesto un contratto di lavoro a tempo indeterminato: «Mi sono sempre accontentato di incarichi triennali». Puntualmente rinnovati. Anzi, quasi eterni, come quello di presidente del comitato tecnico della Federazione europea dei servizi funerari, ricoperto per ben 22 anni. L’ingegner Fogli è convinto che dopo la morte qualcosa resti. Infatti è anche l’esclusivista per l’Italia della olandese Orthometals, la prima multinazionale a riciclare i metalli lasciati incombusti dal fuoco in 1.250 dei 6.000 crematori sparsi nel mondo, di cui 87 nel nostro Paese.

«Tempus fugit». Ma le avanza del tempo libero, almeno?

«Poco. Lo uso per i seminari di studio. Credo d’aver formato non meno di 1.500 direttori di municipalizzate, cimiteri e imprese di pompe funebri».

Pensavo che fossimo fatti per il 65 per cento di ossigeno, per il 18,5 di carbonio, per il 9,5 di idrogeno, per il 3,3 di azoto, per l’1 di fosforo e per il 2,7 di altri elementi, oltre a 45 litri d’acqua, 1.250 grammi di calcio, zolfo pari a 2.000 fiammiferi e ferro quanto basterebbe per un chiodo lungo 2,5 centimetri.

«Dimentica dentiere, protesi ortopediche, pacemaker cardiaci, viti, placche. Una volta ho visto persino una baionetta. Solo nella mia pancia avrò dai 100 ai 150 punti metallici, esito dell’asportazione di un surrene subita a 36 anni. Vedendo lo sbrego, mio padre commentò: “Non capisco perché i chirurghi non ti abbiano completato la zip del girovita”».

Che metalli restano fra le ceneri?

«Alluminio, zirconio, vanadio, tantalio. Anche oro e argento. In media, ogni cremazione restituisce dai 300 ai 500 grammi di rifiuti metallici».

Buttarli via sarebbe un peccato.

«Di più: smaltirli comporterebbe una spesa, mentre da costo possono diventare ricavo. Lo intuì subito Ruud Verberne, quando sua figlia Nienke si ruppe una gamba sulle piste da sci. Al chirurgo ortopedico Jan Gabriëls, che stava per operarla, domandò: “Ma un giorno che ne sarà di questa protesi tanto preziosa?”. Così 25 anni fa i due si misero in società e nacque la Orthometals, che dai Paesi Bassi si è allargata fino all’Australia. Oggi ci lavora anche Nienke».

Quanti defunti si contano in Italia?

«In tempi normali, 600.000 l’anno. Più di 200.000 vengono inceneriti. In città come Milano e Bolzano la cremazione riguarda il 75 per cento delle salme. Ma nel Meridione siamo fermi a pochi punti percentuali».

Perché?

«In Sicilia, Calabria, Puglia, Basilicata e Abruzzo mancano gli impianti. Si salva la Campania, che ne ha cinque, per un totale di 13 forni».

Ci si fa cremare per risparmiare?

«Anche. La concessione del loculo al nord costa sui 5.000 euro. Ne aggiunga 4.000 per il funerale. Con la cremazione non si va oltre i 3.500 tutto compreso».

Alla fine sopravvivere è conveniente.

«Da noi la qualità del feretro incide moltissimo. In Gran Bretagna sono più attenti al corteo con le limousine».

È giusto che i morti dell’Ottocento godano di sepolture perpetue e quelli di oggi siano esumati dopo 10 anni?

«I poveri sono sempre stati trattati così. Per i cimiteri non ci sono più soldi. A Ferrara si vendevano 300-35o loculi l’anno. Ora, se va bene, uno a settimana».

Come mai a Roma e a Palermo si accatastano le bare insepolte?

«“Se la sente di preparare un progetto di ristrutturazione dei nostri cimiteri?”, mi chiese Francesco Rutelli, allora sindaco della Capitale. Risposi: ci provo, ma se non ci riesco io, non so chi altro ce la possa fare. Roma ha solo 6 forni, uno dei quali sempre fermo per manutenzione. Sarebbe bastato aggiungerne due nel camposanto più grande, Prima Porta, e due o tre al Laurentino, senza toccare quello storico, il Verano. I litigi fra la municipalizzata Ama e la giunta Raggi hanno completato il disastro».

Invece a Palermo che cos’è accaduto?

«Il Comune non ha proprio le risorse per costruire un nuovo cimitero. Lì servirebbero 4 forni, ma gestiti dall’esercito».

Dall’esercito?

«Esatto. Possibile che il crematorio di Santa Maria dei Rotoli sia l’unico in Italia che si rompe di continuo? C’è qualcuno che lavora per non farlo funzionare».

La mafia?

«Può darsi. Però non ho le prove».

Chi l’ha interpellata nel 2020 per la prima ondata pandemica?

«L’Anci, l’Associazione dei Comuni d’Italia. E subito dopo Luigi D’Angelo, direttore operativo della Protezione civile per il coordinamento delle emergenze. Non si comprendeva che cosa stesse accadendo. Mi hanno chiesto di scrivere in 48 ore alcune regole. Sono stato in chat giorno e notte con i direttori dei cimiteri e gli impresari di onoranze funebri».

Il principale consiglio che ha dato?

«Collocare le bare nei campisanti cittadini. Non serviva mandarle altrove per la cremazione. È stato un errore associare la pandemia al fuoco purificatore, come se si trattasse della peste manzoniana».

A che età vide la prima salma?

«A 11 anni. Quella del mio nonno materno, Sileno, composta nel letto. Non ho mai più pianto così tanto in vita mia».

Che cosa pensò?

«Che non fosse più lui. Io ero abituato a sentirlo parlare. Invece taceva».

Incontra bimbi nelle camere ardenti?

«Pochissimi, purtroppo. È sbagliato. Bisogna portarceli, tenuti per mano dai genitori. Devono sapere che esiste anche la morte nella vita. E guardarla. Invece la vedono solo nei videogiochi e nei telefilm, ed è quasi sempre violenta».

Lei ci avrà fatto il callo, immagino.

«Non accadrà mai. È un lavoro estremamente difficile, sa, parlare con i familiari del defunto e con gli operatori cimiteriali. I morti non sono mica tutti uguali, possono diventare mostruosi. Il personale vive di continuo il dolore e va incontro al burnout. Quelli che la gente chiama becchini talvolta si suicidano. Abbiamo svolto indagini con i medici del lavoro, per aiutarli. Devo ringraziare mia moglie, psicologa, che mi ha assistito».

Ma lei perché scelse questo lavoro?

«Per caso. Ero da due mesi e 20 giorni ispettore dell’Aviazione civile all’aeroporto di Bologna. Volevo avvicinarmi a casa. Vinsi il concorso del Comune di Ferrara. Al primo giorno di servizio, il capo tecnico dei cimiteri mi disse: “Stringi la mano a coloro che scavano le fosse, perché avvertono se hai paura di toccarli”».

Aveva davvero paura?

«Io no. Ma quando questi 100 lavoratori entravano al bar si faceva il vuoto intorno. I loro figli erano emarginati a scuola. Mi accettarono solo il giorno in cui scesi in una buca per scoprire come mai una salma sepolta da 10 anni non era ancora scheletrizzata. Oggi 95 defunti su 100 tolti dai loculi sono inconsunti, fino a 40 su 100 se esumati dalla nuda terra».

Si è mai sentito un reietto?

«Ho sofferto molto. Portavo queste angosce a casa. Non è facile parlarne a tavola. Mi è toccato mettere in conto gli sberleffi di amici e parenti: “A quale defunto hai rubato quell’abito scuro?”. Ormai sono diventato un beccamorto doc».

Ha cercato di cambiare impiego?

«Presentai domanda per diventare direttore del porto di Venezia, ma servivano cinque anni di esperienza come dirigente di un’azienda di trasporti e potei solo specificare che trasportavo morti».

I trapassati per lei sono ossa?

«A volte numeri statistici ed economici. Nel caso di bambini avverto le vibrazioni del dolore a 100 metri di distanza».

Ha deciso di farsi cremare?

«Senz’altro. È la prima scelta che feci appena iniziai a lavorare nei cimiteri».

E le ceneri dove?

«Non mi dispiacerebbe uno dei campisanti dell’Alto Adige, senza muri, attaccati alle chiese. Ma va benissimo anche la Certosa della mia Ferrara. È un museo all’aperto. Un dirigente comunista voleva farmi abbattere il monumento funebre a Giovanni Boldini: “È in stile fascista”. Non gli bastava che fosse stato occultato con una siepe quello a Italo Balbo dietro l’abside del tempio di San Cristoforo».

Ha paura della morte?

«No. Ho paura di soffrire morendo».

Ci pensa spesso?

«Penso solo a domani. Ho ancora troppe cose da imparare».

Non le pare che gli uomini d’oggi si siano dimenticati di doversi congedare?

«Sì. C’è questo senso di onnipotenza, che si accompagna a un’enorme impreparazione sul nostro destino finale. Non si tratta di una dimenticanza. La morte è stata rimossa. Crediamo di poter andare avanti in eterno. Ma non c’è una medicina per tutto. Viviamo in un mondo orribile, lo cantava anche Franco Battiato: “Ah, come t’inganni se pensi che gli anni non han da finire”. Bisogna morire».

David Puente per open.online il 9 febbraio 2022.

«Le bare di Bergamo stanno al COVID19 come il lago della Duchessa sta al sequestro Moro» è il testo di tweet (visibile anche qui) pubblicato questa sera, 8 febbraio 2022, dall’account TommasoMont. Un intervento social che fa eco a chi ancora nega la tragedia dietro i mezzi militari che trasportavano le bare sotto gli occhi dai cittadini bergamaschi quella sera del 18 marzo 2020. 

In questo caso il giornalista del quotidiano Libero paragona quelle scene con il caso del falso comunicato delle Brigate Rosse durante il sequestro Moro, quanto le ricerche del segretario della Dc furono depistate con la ricerca inconcludente del suo cadavere nei fondali del lago della Duchessa, in provincia di Rieti. Sembra di assistere alle teorie del complotto dei vari Tommix e Pam Morrigan di turno.

Tommaso Montesano è un giornalista, firma di Libero Quotidiano e autore dell’intervista a Enrico Montesano (copia incollata dal sito bufalaro Mag24.es) dove contesta l’etichetta di «negazionista» data a suo padre per i suoi particolari interventi. Era il 17 ottobre del 2020, entrambi commentavano la popolarità dell’allora in carica Governo Conte e di un presunto «lavaggio del cervello». Un pensiero che non va tanto lontano da un altro tweet del giornalista, pubblicato il 28 luglio 2020: «A posteriori, la parata dei camion dell’Esercito con le bare di Bergamo insospettisce. Mai più ripetuta, effettuata di notte, con tutti quei mezzi che si sarebbero potuti muovere alla spicciolata. Si è VOLUTO fare così, con evidenza teatrale, per terrorizzare. COVID19 Bocelli». 

Il tweet del 28 luglio 2020 di Montesano e i commenti della collega di Libero Brunella Bolloli: «Non esageriamo con le dietrologie adesso» dice lei, «Io sono un #negazionista» risponde lui. 

Non c’era posto, la camera mortuaria non riusciva ad accogliere tutti i feretri dei deceduti e le pompe funebri locali erano in grossa difficoltà. La sera del 18 marzo 2020 in cui sono state scattate le foto, a bordo dei mezzi militari vennero trasportate circa una settantina di bare, una piccola parte rispetto alle oltre 500 unità trasportate tra marzo e aprile 2020 da Bergamo nei crematori di diverse città italiane.

Dagospia il 9 febbraio 2022. Riceviamo e pubblichiamo: In merito alle vergognose parole del giornalista di "Libero", Tommaso Montesano, sui morti di Covid a Bergamo ho chiesto all’azienda di valutate se esistono o presupposti per il licenziamento per colpa grave e, comunque nell’attesa, la sospensione immediata di Montesano. Alessandro Sallusti

Il giornalista di «Libero» Tommaso Montesano su Twitter: «Le bare di Bergamo come il lago della Duchessa nel caso Moro». Sallusti: «Ho chiesto il licenziamento». Lui: «Un equivoco». Virginia Piccolillo su Il Corriere della Sera il 9 febbraio 2022.

«Un semplice parallelismo». Chiede scusa alle vittime il giornalista di Libero, figlio di Enrico Montesano per il parallelismo. Il comitato di redazione si dissocia. «Ci scusiamo con le famiglie di decine di migliaia di persone che hanno perso la vita». 

«Sono stato gravemente equivocato». «Era un semplice parallelismo». Chiede scusa Tommaso Montesano, il giornalista del quotidiano «Libero» — e figlio dell’attore Enrico Montesano , divenuto negli ultimi mesi una delle icone del movimento no vax e no green pass — che, nella giornata di martedì aveva scritto sul social network: «Le bare di Bergamo stanno al COVID19 come il lago della Duchessa sta al sequestro #Moro». Un post, poi rimosso, che paragonava la foto dei mezzi militari che trasportavano i feretri delle vittime del Covid al falso comunicato delle Br che depistò le indagini per il sequestro del segretario dc portandole alla ricerca senza risultato del suo cadavere nel lago della Duchessa, in provincia di Rieti. Ma le polemiche fioccano, fuori e dentro il quotidiano diretto da Alessandro Sallusti che ha chiesto di valutare il licenziamento. Secondo i legali dell’azienda ci sono gli estremi della sospensione.

Il tweet era stato seguito dalla pronta la reazione della rappresentanza sindacale dei giornalisti del quotidiano: «Il Comitato di redazione del quotidiano Libero — si leggeva in una nota — si dissocia dagli interventi con i quali un collega nella sostanza nega una correlazione tra la foto simbolo delle bare di Bergamo e il Covid. E si scusa con le famiglie delle decine di migliaia di persone che hanno perso la vita a causa della pandemia. Si possono avere le idee più diverse su vaccini e Green pass, ma le teorie negazioniste sono quanto di più lontano dai valori dei giornalisti di Libero».

Duro anche il commento del direttore del quotidiano Alessandro Sallusti: «In merito alle vergognose parole del giornalista di «Libero» Tommaso Montesano sui morti di Covid a Bergamo ho chiesto all’azienda di valutare se esistono presupposti per il licenziamento per colpa grave e, comunque nell’attesa, la sospensione immediata di Montesano».

«Ha scritto una c... , commenta con la sua consueta sincerità Vittorio Feltri. E aggiunge: «Capita. Se ne scrivo tante. Ma un ragionamento va fatto. Licenziarlo non lo licenzierei, ho diretto nove giornali e non ho mai cacciato nessuno. Ma io sono di bergamo. Le bare le ho viste. Negarle e chiudere gli occhi vuol dire anche chiudere il cervello».

Per fermare polemiche e «strumentalizzazioni», Montesano ha scritto un lungo post su Facebook. Spiegando che si trattava solo di un «parallelismo – espresso in modo icastico ma evidentemente infelice – tra la forza simbolica dei camion militari di Bergamo, che hanno avuto il merito di far aprire gli occhi anche ai più scettici che negavano la gravità della pandemia, e le immagini della ricerca del corpo dell’onorevole Moro nel lago della Duchessa che, secondo le ricostruzioni storiche, convinsero l’opinione pubblica ad accettare l’ineluttabilità del destino di Moro». «Volevo, in sostanza, sottolineare la forza evocativa di due immagini simbolo che hanno segnato in modo indelebile la storia, anche recentemente, del nostro Paese», ha aggiunto il giornalista di Libero. «Non ho mai inteso offendere il ricordo delle Vittime né i parenti che ancora oggi ne piangono la scomparsa. Né, tantomeno, contestare l’attendibilità dell’evento che ha colpito l’intera Comunità e la Nazione. Se ciò è avvenuto, me ne scuso e a loro esprimo la mia più sincera vicinanza, oltre all’augurio di trovare al più presto conforto e giustizia. Così come mi scuso con i miei colleghi, con il direttore e con l’Azienda. Chiedo che il tweet – peraltro rimosso – non sia ulteriormente strumentalizzato per fini estranei a quello che era il mio pensiero».

Il sindaco di Bergamo, Giorgio Gori, è a sua volta intervenuto su Twitter per annunciare che il Comune querelerà Montesano e per esprimere un plauso per la presa di posizione di Sallusti. «Il vergognoso tweet — commenta Gori — offende la memoria dei morti di Bergamo e di tutte le vittime del Covid». E dello stesso segno la reazione dei i parlamentari e dei consiglieri regionali bergamaschi della Lega che hanno parlato di «uso strumentale» della «tragedia che ha colpito a cuore aperto la nostra comunità». «Non possiamo più accettare simili parole — dicono in una nota — e per questo esprimiamo massima solidarietà e vicinanza a tutte le famiglie bergamasche che, ancora una volta, hanno visto il loro immenso dolore calpestato». Secondo il senatore del Pd Antonio Misiani «negare la tragedia delle bare di Bergamo» è «ripugnante» e rappresenta «uno schiaffo in pieno volto» per le famiglie delle vittime e per «un’intera comunità devastata dalla pandemia».

L'account ormai «inesistente» 

Molte, in ogni caso, le reazioni al post. Da parte di personaggi noti (Mentana, Madame) e di semplici utenti. Quasi tutti manifestano indignazione, solo qualcuno prova a sposare la linea negazionista del cronista («Qualcuno ha mai fotografato o filmato il caricamento delle bare su quei mezzi? Ci sono testimoni?»). L'account atommasoMont da cui era partito il post incriminato nel frattempo non risulta più esistere.

(ANSA il 10 febbraio 2022) "E' piuttosto evidente il gravissimo vilipendio alla memoria ad alla dignità di migliaia di vittime e dei loro familiari". Lo si legge nella denuncia presentata stamane alla Procura di Bergamo dalla associazione che tutela i parenti dei morti di Covid nella Bergamasca nei confronti del giornalista di Libero Tommaso Montesano per aver paragonato, con un tweet, la tragedia delle bare trasportate dai camion dell'esercito al caso del "lago della Duchessa" ai tempi del sequestro Moro. L'associazione chiede che si proceda quanto meno per diffamazione aggravata.

Giampiero Mughini per Dagospia il 10 febbraio 2022.

Caro Dago, non sono uso sparare contro la Croce Rossa e dunque figurati se intendo dire qualcosa di pungente contro Tommaso Montesano, cui fatico però ad attribuire la qualifica di “giornalista”. Le cose sono semplici semplici. Lui ha fatto quello che quotidianamente fanno milioni dei nostri concittadini a mezzo tweet. Quella di scrivere una colossale boiata, ma proprio colossale, e diffonderla attraverso gli oceani della comunicazione digitale. Montesano ha offeso, certo ha offeso, le tantissime vittime del Covid in quel di Bergamo, una città in cui quel dannato virus è stato particolarmente crudele. 

Vorrei ben vedere che il mio vecchio amico Giorgio Gori, sindaco di Bergamo, non lo querelasse, il che purtroppo non porterà a nulla dato il funzionamento della giustizia italiana. Bene che vada faranno la prima udienza fra un anno e mezzo. Bene che vada andranno a sentenza fra tre/quattro anni. Forse funzionerebbe meglio quello che definisco “il metodo Mughini”, nel senso che è il metodo che adotterò nel caso in cui qualcuno mi offenda pesantemente: andare ad aspettarlo sotto casa. 

Scherzi a parte, vedo che Montesano si tira indietro. Non intendeva questo e quello, s’era spiegato male, purtroppo la lingua italiana non è il suo forte e dunque ha pasticciato con i termini e con i concetti. No, no, non voleva dir quello che ha scritto. Non era compos sui, i tasti del computer lo hanno tradito, non sapeva né quello che stava dicendo né quello che stava pensando, ammesso che stesse pensando.

E’ un tantino semianalfabeta, bisogna perdonarlo. Del resto i tweet sono il reame dei semianalfabeti come lui, i quali non possono accedere alle edizioni Adelphi o alle edizioni Settecolori, per dire di due delle più belle case editrici italiane. Il guaio è che quei tweet infestano quotidianamente il tessuto della comunicazione italiana, anzi del suo comparto il più visibile, il più utilizzabile, il più utilizzato. Sono il pane quotidiano di milioni e milioni dei nostri concittadini nel veicolare tonnellate di odio e di ignoranza. I semianalfabeti al potere, questo è accaduto. Dio mio, Dio mio, Dio mio.

Da bergamo.corriere.it il 10 febbraio 2022.

Un’ondata di critiche, anche da parte dei politici, si è scatenata su un giornalista di Libero, che ha negato che sui camion del 18 marzo 2020 a Bergamo ci fossero le bare delle vittime del coronavirus. «Le bare di Bergamo stanno al Covid come il lago della duchessa sta al sequestro Moro»: lo ha scritto sul suo profilo twitter (il tweet diffuso ieri sera è stato cancellato) il giornalista del quotidiano «Libero» Tommaso Montesano, figlio dell’attore Enrico. Tempo addietro aveva scritto di essere «un negazionista», ma contestava questa definizione per il padre che è un noto No Green Pass.

Il giornalista sarà querelato dal Comune di Bergamo. «Il vergognoso tweet del giornalista Tommaso Montesano offende la memoria dei morti di Bergamo e di tutte le vittime del Covid. Bene la dissociazione dei colleghi di Libero e la netta presa di posizione del direttore Alessandtro Sallusti, ma si è passato il segno. Quereleremo Montesano». Lo ha annunciato su Twitter il sindaco di Bergamo Giorgio Gori. 

Il deputato leghista Daniele Belotti ha già presentato questa mattina un esposto al Collegio di disciplina dell’Ordine dei giornalisti del Lazio chiedendo «provvedimenti disciplinari per vilipendio ai defunti Covid di Bergamo per un post del giornalista Tommaso Montesano». «La data del 18 marzo, quella della straziante colonna militare con decine di defunti bergamaschi — scrive Belotti — è stata scelta all’unanimità dal Parlamento italiano come la Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’epidemia di coronavirus e dissacrarla bollandola come una bufala infanga non solo la memoria dei morti che erano su quei camion, non solo offende tutta la comunità bergamasca, ma umilia pure gli oltre 150 mila defunti per Covid in Italia».

Dura protesta dei parlamentari e dei consiglieri regionali leghisti bergamaschi: «Proviamo solo tanta vergogna nel leggere il tweet del giornalista di Libero Tommaso Montesano sulle bare di Bergamo. Condanniamo in modo fermo questo strumentale uso della tragedia che ha colpito a cuore aperto la nostra comunità, una ferita che merita il massimo rispetto da parte di tutti. Ringraziamo il direttore di Libero Alessandro Sallusti per aver richiesto all’azienda di valutare il licenziamento del giornalista e di procedere, nell’attesa, alla sospensione immediata di Montesano. Non possiamo più accettare simili parole e per questo esprimiamo massima solidarietà e vicinanza a tutte le famiglie bergamasche che, ancora una volta, hanno visto il loro immenso dolore calpestato». 

Toni durissimi anche da parte del senatore pd Antonio Misiani: «Negare la tragedia delle bare di Bergamo è ripugnante, uno schiaffo in pieno volto per migliaia dì famiglie che hanno perso propri cari e a un’intera comunità devastata dalla pandemia. Le scuse non bastano: serve un segnale netto e inequivocabile che sconfessi chi ha scritto questa ignominia e prenda le massime distanze dal mondo negazionista e complottista. «Dopo tutto quello che abbiamo passato qui a Bergamo — aggiunge un altro pd, Jacopo Scandella, consigliere regionale e componente della commissione d’inchiesta sul Covid-19 — il minimo che ci si possa attendere è un po’ di rispetto. I camion dell’esercito sono stati l’immagine con cui tutta Italia ha capito, ma per chi vive qui la situazione era ben chiara già prima. Poi ognuno è libero di negare anche le cose più ovvie, ma almeno non finga di essere un giornalista. Bene la decisione del sindaco Gori, perché a tutto c’è un limite».

«Un’offesa che la citta’ di Bergamo e la Lombardia tutta non possono accettare. Un commento che insulta la memoria, risveglia il dolore e mortifica la storia. Informare e’ un valore alto tanto quanto i valori che il giornalista di `Libero´ ha voluto offendere attraverso il suo tweet». Lo afferma il consigliere regionale del Movimento Cinque Stelle, Dario Violi. «L’immediato provvedimento di sospensione da parte del direttore Sallusti non basta - commenta Violi - ho chiesto che l’Ordine dei giornalisti intervenga al più presto, a tutela della deontologia professionale propria dell’intera categoria, avviando la procedura di radiazione per Montesano. La professione del giornalista non puo’ essere umiliata per un follower in più, esattamente come la memoria, il dolore e la storia di noi bergamaschi».

Il messaggio aveva infatti provocato l’immediata reazione dell’organismo sindacale della testata: «Il Comitato di redazione del quotidiano Libero si dissocia dagli interventi con i quali un collega nella sostanza nega una correlazione tra la foto simbolo delle bare di Bergamo e il Covid. E si scusa con le famiglie delle decine di migliaia di persone che hanno perso la vita a causa della pandemia. Si possono avere le idee più diverse su vaccini e Green pass, ma le teorie negazioniste sono quanto di più lontano dai valori dei giornalisti di Libero». Il direttore Alessandro Sallusti ha spiegato all’Ansa «di aver chiesto all’azienda di valutare con gli uffici legali se ci sono gli estremi per un licenziamento». «Trovo quanto scritto di una gravità inaccettabile - ha aggiunto il direttore -. Non solo è un falso ma è un falso che offende la nostra testata e la redazione: i più arrabbiati sono proprio i colleghi». 

«Trovo il tweet del giornalista Tommaso Montesano vergognoso e offensivo e irrispettoso nei confronti dei morti di Bergamo e di tutte le vittime della pandemia. Un forte abbraccio ai loro familiari e un pensiero ai defunti». Così il sottosegretario alla Salute Andrea Costa.

Alla fine si è espresso lo stesso Montesano, sul proprio profilo Facebook: «Il mio tweet, su cui in molti in queste ore si stanno scagliando, è stato gravemente equivocato. Il mio pensiero era un semplice parallelismo – espresso in modo icastico ma evidentemente infelice – tra la forza simbolica dei camion militari di Bergamo, che hanno avuto il merito di far aprire gli occhi anche ai più scettici che negavano la gravità della pandemia, e le immagini della ricerca del corpo dell’onorevole Moro nel lago della Duchessa che convinsero l’opinione pubblica ad accettare l’ineluttabilità del destino di Moro. 

Volevo, in sostanza, sottolineare la forza evocativa di due immagini simbolo che hanno segnato in modo indelebile la storia, anche recentemente, del nostro Paese». «Non ho mai inteso offendere il ricordo delle Vittime né i parenti che ancora oggi ne piangono la scomparsa. Né, tantomeno, contestare l’attendibilità dell’evento che ha colpito l’intera Comunità e la Nazione. Se ciò è avvenuto, me ne scuso e a loro esprimo la mia più sincera vicinanza»,

(ANSA l'11 febbraio 2022) - Verrà aperta nelle prossime ore dalla procura di Bergamo una indagine nei confronti di Tommaso Montesano, il giornalista di Libero autore del tweet con cui ha paragonato la tragedia delle bare dei morti per il Covid della Bergamasca trasportate dai camion dell'esercito al caso del "lago della Duchessa" ai tempi del sequestro Moro. 

L'iscrizione di un fascicolo dopo una denuncia, come è questo il caso, è pressoché automatica. Da quanto è stato riferito in ambienti giudiziari il reato, come minimo, è diffamazione aggravata come ipotizzato nella querela presentata dai familiari delle vittime.

(ANSA l'11 febbraio 2022) - "L'Ordine dei giornalisti della Lombardia ha deciso di presentare una segnalazione all'Ordine del Lazio perché sia valutato sul piano deontologico il contenuto del tweet sulla pandemia a Bergamo". 

Lo rende noto sul proprio sito lo stesso Ordine dei giornalisti della Lombardia, il cui presidente è Riccardo Sorrentino, che ha dunque deciso di presentare un "esposto disciplinare".

"La libertà di opinione - si legge nella nota dell'Ordine lombardo - non libera dall'obbligo di rispettare la verità sostanziale dei fatti e di argomentare con tesi solide le proprie idee che vanno espresse, in ogni caso, rispettando la dignità delle persone coinvolte. 

È un principio che vale per tutti, e ancora di più per i giornalisti. In questo senso appare grave il tweet di Tommaso Montesano, iscritto all'Ordine del Lazio, secondo il quale 'le bare di Bergamo stanno al Covid19 come il lago della Duchessa sta al sequesto Moro'. Anche se affidato a un social network".

 "È per questo motivo - conclude la nota - che l'Ordine dei giornalisti della Lombardia ha deciso di presentare una segnalazione all'Ordine del Lazio (dopo aver informato il suo presidente che trasmetterà l'esposto al Consiglio territoriale di disciplina) perché sia valutato sul piano deontologico il contenuto del tweet sulla pandemia a Bergamo". 

Tommaso Montesano, il mio tweet è stato equivocato. (ANSA l'11 febbraio 2022) - "Il mio tweet, su cui in molti in queste ore si stanno scagliando, è stato gravemente equivocato. Il mio pensiero era un semplice parallelismo - espresso in modo icastico ma evidentemente infelice - tra la forza simbolica dei camion militari di Bergamo, che hanno avuto il merito di far aprire gli occhi anche ai più scettici che negavano la gravità della pandemia, e le immagini della ricerca del corpo dell'onorevole Moro nel lago della Duchessa che, secondo le ricostruzioni storiche, convinsero l'opinione pubblica ad accettare l'ineluttabilità del destino di Moro". 

Lo afferma, sul suo profilo Facebook il giornalista Tommaso Montesano. "Volevo, in sostanza, sottolineare la forza evocativa di due immagini simbolo che hanno segnato in modo indelebile la storia, anche recentemente, del nostro Paese - prosegue -. Non ho mai inteso offendere il ricordo delle Vittime né i parenti che ancora oggi ne piangono la scomparsa. Né, tantomeno, contestare l'attendibilità dell'evento che ha colpito l'intera Comunità e la Nazione".

"Se ciò è avvenuto, me ne scuso e a loro esprimo la mia più sincera vicinanza, oltre - conclude Tommaso Montesano - all'augurio di trovare al più presto conforto e giustizia. Così come mi scuso con i miei colleghi, con il direttore e con l'Azienda. Chiedo che il tweet - peraltro rimosso - non sia ulteriormente strumentalizzato per fini estranei a quello che era il mio pensiero".

La polvere sotto il tappeto. Montesano jr lapidato, il fascino discreto della gogna. Otello Lupacchini su Il Riformista il 20 Febbraio 2022. 

Nelle democrazie attuali, un numero sempre crescente di cittadini liberi si sentono inghiottiti, spinti da una sorta di vischiosa dottrina che, insensibilmente, avvolge ogni ragionamento ribelle, lo inibisce, lo turba, lo paralizza e finisce per soffocarlo. Questa dottrina è il «pensiero unico», la sola autorizzata da un’invisibile e onnipresente polizia del pensiero. Dopo la caduta del muro di Berlino, il crollo dei regimi comunisti e la demoralizzazione del socialismo, l’arroganza, l’insolenza di questo nuovo Vangelo hanno prodotto un tale degrado che si può, senza esagerare, qualificare questo furore ideologico alla stregua di moderno dogmatismo.

Il pensiero unico è, infatti, l’assenza di differenziazione nell’ambito delle concezioni e delle idee politiche, economiche e sociali. Il relativo concetto, peraltro, venne prospettato, nel gennaio 1995, dal direttore di Le Monde Diplomatique, Ignacio Ramonet, quale «trasposizione in termini ideologici, che si pretendono universali, degli interessi di un insieme di forze economiche, e specificamente di quelle del capitale internazionale». Formulato e definito, sin dal 1944, in occasione degli accordi di Bretton-Woods, esso ha le sue fonti principali nelle grandi istituzioni economiche e monetarie, dalla banca mondiale al Fondo monetario internazionale, all’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, alla Commissione europea e via continuando, che, da quando funzionano, arruolano al servizio delle proprie idee, in tutto il pianeta, numerosi centri di ricerca, università, fondazioni che, a loro volta, affinano e diffondono la «buona novella».

Naturalmente, questo discorso è ripreso e riprodotto dai maggiori organi d’informazione economica e, soprattutto, dalle «bibbie» degli investitori e delle borse, quali The Wall Street Journal, Financial Times, The Economist, Far Eastern Economic Review, les Echos, Agence Reuter e via di seguito, di cui spesso sono proprietari grandi gruppi industriali o finanziari. Col tempo, peraltro, il Vangelo del pensiero unico s’è imposto in altri settori: basti pensare, così, tanto per fare un esempio, alla sua prepotente affermazione in campo sanitario, a causa della pandemia da Coronavirus. Nella stupida incuria nella quale versava la «Sanità», era inevitabile che prima o poi dilagasse anche nel nostro Paese la «Covid 19» che, per dirla con Ambrogio Spinola, autore della «grida» 13 giugno 1630, andava ormai «serpando» da qualche tempo: era la notte del 29 gennaio 2020, quando la Covid arrivò ufficialmente in Italia.

La prima immagine fu quella di una coppia di turisti cinesi, 67 anni lui 66 lei, in ambulanza, i volti terrorizzati, già con la maschera dell’ossigeno. Dopo giorni di falsi allarmi in varie città italiane, smentite dell’Istituto Superiore di Sanità chiamato a processare i tamponi, e costanti rassicurazioni, l’allarme in Italia non c’è, arrivò la doccia fredda. Ma ancora l’Oms stentava a dichiarare l’emergenza globale. E intanto diventava chiaro a tutti che le immagini che da settimane rimbalzavano dalla Cina, con strade deserte, medici imbracati dentro tute come scafandri, sanificazioni a tappeto e mega ospedali costruiti a tempo di record, sarebbero state solo questione di tempo. Ciò che in quella fredda notte di fine gennaio ancora non si sapeva è che il virus circolava già da tempo nel nostro Paese e sarebbe esploso di lì a poco con la scoperta del paziente zero a Codogno e dei primi casi in Veneto.

Da allora, nell’Italia che precipitava inesorabilmente nell’abisso di una pandemia incontrastabile, fiorì un’alchimia perversa. Da destra a sinistra, la politica si riempiva la bocca di elogi nei confronti dei medici e degli infermieri in trincea, paladini della lotta al Coronavirus, tra mascherine centellinate durante la prima ondata, ferie e giorni di riposo saltati, la costante degli organici ridotti, salvo poi, ma questa è storia recentissima, la beffa: in 369 dall’inizio dell’emergenza sanitaria, solo per rimanere al computo dei medici, hanno perso la vita uccisi dal virus: coniugi e figli non riceveranno un euro come indennizzo. Sconfortanti, peraltro, le opinioni diffuse nell’élite colta: poco è mancato che venisse chiamato in causa anche Satana.

Del resto, l’uomo ha da sempre un potente bisogno di percepire le cause dei disastri naturali, delle epidemie, delle sventure personali e della morte; non di meno, la magia e la stregoneria hanno per secoli fornito una teoria primitiva per spiegare simili argomenti, e metodi appropriati per farvi fronte: il comportamento di persone la cui condotta differisce da quella dei loro simili, sia cadendo al di sotto degli standard del gruppo sia superandoli, costituisce in entrambi i casi un mistero e una minaccia; la nozione d’invasamento demoniaco fornisce una teoria primitiva per spiegare simili eventi, e metodi appropriati per farvi fronte. Queste credenze universali e le pratiche a esse collegate sono i materiali dai quali l’uomo costruisce i movimenti e le istituzioni sociali: le credenze che temporibus illis portarono alla caccia alle streghe esistevano prima del secolo XIII, ma fu soltanto da allora che la società europea le utilizzò quali fondamenti per un movimento organizzato; questo movimento, il cui scopo dichiarato era quello di proteggere la società dal pericolo, divenne l’Inquisizione: la strega era il pericolo; l’inquisitore il protettore.

Lungi da me, voler porre sullo stesso piano la reazione «istituzionale» alle tesi negazioniste della pericolosità estrema della Covid 19, propugnate dai movimenti cosiddetti «no vax» o «anti green pass»: non vorrei essere accusato di voler assumere la difesa di portatori d’infamia e d’ignominia stabilita e confermata. Non posso, tuttavia, per un verso, non segnalare il fatto che il modello dell’Inquisizione abbia avuto e, purtroppo, continui a esercitare, per ovvi motivi psicologici, una perenne attrattiva; mentre, per l’altro, devo anche evidenziare quanto è accaduto da quando, il 30 gennaio, a tarda sera, il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte annunciò agli italiani che il virus era in Italia; il 20 febbraio, dall’ospedale di Codogno giungeva l’esito positivo del tampone di un giovane paziente, Mattia Maestri; e, il 22 febbraio, a Vo’ Euganeo, in Veneto, si registrava anche la prima vittima. Iniziarono allora giorni interminabili, fatti di numeri, che indicano contagi, ricoveri e decessi che tragicamente si rincorrevano, dietro i quali c’erano persone, intere famiglie devastate dal virus.

Iniziava allora l’ossessiva passarella sugli schermi di esperti, spesso soi disants, che tanto ricordano gli animali cattedratici incontrati da Jacques Cujas, correva l’anno 1567, nel suo voyage in Italie: campioni garruli, «verbosi et prolixi more suo, ut solent in re facili esse multi, in difficili muti, in angusta diffusi; cuius rei ego sum optimus testis». Alla fine, peraltro, l’agnizione degli agenti satanici: il mondo dei cosiddetti «no vax», movimenti ostili a vaccini e vaccinazioni, identificato soprattutto con le sue derive più radicali e complottiste, dalle ipotesi di disegni nascosti per il controllo della popolazione a quelle su una regia sotterranea dei gruppi farmaceutici. Ma il fenomeno include, anche, gruppi o singoli che non hanno nessuna intenzione di inquadrarsi come anti-vaccinisti e motivano il proprio no ai farmaci contro la Covid 19, con appelli alla «libertà di scelta» o all’obiezione di coscienza.

A tale ultimo proposito, è dolorosamente emblematica una sgradevole vicenda che, a mio sommesso avviso, sta vedendo «vittima», e sottolineo «vittima», di un’indegna quanto squallida lapidazione virtuale, con ricadute personali e lavorative, un onesto, e sottolineo onesto, giornalista, «colpevole», per un verso, di essere figlio di un noto attore, apertamente schierato, almeno così sembra, sul fronte «no vax»; e, per l’altro, di aver postato un tweet in forma di aforisma, di massima, cioè, in cui non conta solo la brevità della forma, ma anche, per dirla con Umberto Eco, l’arguzia del contenuto: secondo la tendenza odierna, si privilegia nell’aforisma la grazia o la brillantezza, a scapito dell’accettabilità dell’asserto in termini di verità. Debbo, in proposito, qualche precisazione: gli aforismi, innanzitutto, non solo non intendono necessariamente apparire spiritosi, ma neppure offendere le opinioni correnti, quanto, piuttosto, approfondire un punto su cui tali opinioni appaiono superficiali e vanno, dunque, emendate; il concetto di verità, peraltro, è relativo alle intenzioni dell’aforista: dire che un aforisma esprime una verità significa dire che esso intende esprimere ciò che l’autore considera come vero e di cui vuole persuadere i lettori.

Nel caso qui considerato, la verità dell’aforista, il quale, resosi conto del concreto pericolo di essere maliziosamente equivocato, non solo ha rimosso immediatamente il tweet ma ha anche spiegato che il suo «era un semplice parallelismo, espresso in modo icastico ed evidentemente infelice, tra la forza simbolica dei camion di Bergamo, che hanno avuto il merito di aprire gli occhi anche ai più scettici che negavano la gravità della pandemia, e le immagini della ricerca del corpo dell’onorevole Moro nel lago della Duchessa che convinsero l’opinione pubblica ad accettare l’ineluttabilità del destino di Moro», sembra non interessare nessuno. Men che meno quei «sepolcri imbiancati» che, a giorni alterni, magari per volgari ragioni di marketing, posano a campioni di garantismo, mentre sono intimamente squallidi cacciatori di streghe.

Otello Lupacchini. Giusfilosofo e magistrato in pensione

Francesco Vaia, "l'anomalia dei morti per Covid in Italia: cosa vedo in corsia". Una bomba: maxi-truffa sui numeri? Libero Quotidiano il 10 febbraio 2022.

"È un dato anomalo e per questo credo sia giunto il momento di fare un’analisi della mortalità da Covid": Francesco Vaia, direttore dell'ospedale Spallanzani di Roma, commenta il numero di morti da Covid in Italia. Un numero sempre molto alto, nonostante la discesa della curva dei contagi, e molto lontano da quello di molti altri Paesi. A tal proposito l'esperto, sentito da La Stampa, ha detto: "A mio giudizio molti decessi sono con e non per Covid, lo vediamo anche qui allo Spallanzani. Nei Paesi come la Germania che questa verifica l’hanno fatta, la mortalità effettiva per Covid si è ridotta del 25%".

Il medico, poi, ha affrontato la questione restrizioni, invocando un allentamento delle misure anti-Covid graduale ma necessario: "Le misure restrittive non possono, ma devono essere allentate", anche perché "siamo già in fase endemica, ossia di convivenza con il virus. Oltre il 90% di quello circolante è Omicron, che è molto meno patogeno". Questa variante, infatti, spinge rapidamente verso l'alto la curva dei contagi, ma altrettanto rapidamente la fa scendere. "In tempi non sospetti avevo messo in guardia dagli ingiustificati catastrofismi che ingenerano solo ansia nella popolazione - ha proseguito Vaia -. Oggi possiamo dire che siamo molto vicini al mare calmo".

Sulla necessità di una quarta dose, infine, il direttore dello Spallanzani è stato molto chiaro: "Bisogna fare degli studi immunologici per verificare quanta parte della popolazione si è immunizzata. Così capiremo se un nuovo richiamo sia necessario o no. Sul rischio di nuove varianti dico che nella coda di una pandemia i virus tendono a mutare in meglio. Certezze non ne abbiamo, ma possiamo nutrire buone speranze che sia così anche questa volta". 

L'anomalia italiana dei morti di Covid, anche per Vaia è ora di vederci chiaro. Il Tempo il 09 febbraio 2022.

"Le misure restrittive non possono, ma devono essere allentate". Francesco Vaia, direttore generale dell’Istituto nazionale malattie infettive Lazzaro Spallanzani di Roma, in un’intervista alla Stampa spiega che oggi "siamo già in fase endemica, ossia di convivenza con il virus. Oltre il 90% di quello circolante è Omicron, che è molto meno patogeno". Con questa variante di Sars-CoV-2 "la curva dei contagi sale rapidamente, ma altrettanto velocemente discende. In tempi non sospetti avevo messo in guardia dagli ingiustificati catastrofismi che ingenerano solo ansia nella popolazione. Oggi possiamo dire che siamo molto vicini al mare calmo".

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Ora "la popolazione - aggiunge l’esperto - è più protetta dal booster e dall’immunità indotta dai tanti contagi". E "sarebbe il caso - osserva - di fare degli studi immunologici per verificare quanta parte della popolazione si è immunizzata. Anche per capire se poi la quarta dose è ancora necessaria o no. Sul rischio di nuove varianti dico che nella coda di una pandemia i virus tendono a mutare in meglio. Certezze non ne abbiamo, ma possiamo nutrire buone speranze che sia così anche questa volta". 

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Per Vaia è il momento di allentare le restrizioni. "Dopo 5 giorni una persona asintomatica può essere liberata, magari portando l’Ffp2. Negli Usa già lo fanno anche con i non vaccinati e non hanno avuto impennate dei casi. Io sono per la via italiana della gradualità, per cui va bene per chi ha fatto la terza dose. Siamo in una fase nuova della lotta al virus, con vaccini e nuove terapie in grado di combatterlo". Altro segnale di normalità va dato sui test: "Se si è asintomatici basta con questo tamponificio - dice Vaia - È sufficiente cautelarsi con le Ffp2. Dobbiamo liberare il Paese e l’economia".

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Ma il dato italiano dei morti Covid, ancora alto, interroga molti esperti: "È un dato anomalo - riflette Vaia - e per questo credo che sia giunto il momento di fare un’analisi analitica della mortalità da Covid. A mio giudizio molti decessi sono con e non per Covid, lo vediamo anche qui allo Spallanzani. Nei Paesi come la Germania che questa verifica l’hanno fatta, la mortalità effettiva per Covid si è ridotta del 25%". 

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Poi c’è la pillola anti-Covid di Pfizer, Paxlovid*, ultimo arrivo. "Gli studi indicano un’efficacia attesa fino al 90% nel proteggere dal rischio di ospedalizzazione, ma la pillola va somministrata a non più di 5 giorni dalla comparsa dei sintomi nei soggetti a rischio di evoluzione grave della malattia. Abbiamo pazienti che dopo pochi giorni hanno visto la carica virale ridursi nettamente", spiega Vaia, secondo cui adesso questa pillola antivirale "deve poter essere prescritta anche dai medici di famiglia e dispensata ai più fragili gratuitamente in farmacia". Il farmaco "non sostituirà ma affiancherà" i monoclonali. Quanto alla quarta dose, "nemmeno le aziende produttrici l’hanno mai sponsorizzata".

Paolo Russo per "La Stampa" l'8 febbraio 2022.

Dopo i ricoveri da giorni è il turno dei morti «con» anziché «per» Covid. Il coro si è alzato tra esponenti politici favorevoli al «liberi tutti e subito», ma anche tra medici ed esperti. 

Perché nella corsa alla normalizzazione c'è un dato che stona e sono quelle 12 mila vittime del virus da Natale ad oggi, con il totale di 150 mila decessi che l'Italia sembra destinata a raggiungere già questa settimana.

Rapportato alla popolazione è il più alto tasso di mortalità da Covid in Europa. Perché probabilmente gli altri li contano in modo meno preciso di quanto non si faccia da noi e non per il fatto che il nostro servizio sanitario nazionale sia più scassato di altri.

Ma il dubbio che tutte quelle morti non siano di pazienti positivi deceduti poi per infarti tumori od altro lo sollevano i dati Istat e Iss. 

Punto di partenza per capire come effettivamente stiano le cose è la mortalità attesa, che si calcola facendo una media di quella rilevata in cinque anni, in questo caso dal 2015 al 2019.

I decessi anche nel 2020 sarebbero dovuti essere 645 mila. Aggiungendovi i 74 mila per Covid, riportati dalla Protezione civile nei bollettini quotidiani, si arriva a 719 mila. Se alcuni o molti di loro fossero morti «con» e non «per» Covid di decessi a fine 2020 ne avremmo dovuti contare meno, perché chi non ce l'ha fatta per altre cause dovrebbe rientrare nella «mortalità attesa».

E invece nell'annus horribilis 2020 di morti alla fine se ne sono contate 746 mila, 27 mila in più, che potrebbero essere catalogate come «morti sommerse da Covid». Infatti, «in un altro studio Istat-Iss sui decessi in eccesso osservati nei mesi di marzo e aprile 2020 rispetto alla media del periodo 2015-2019, si è evidenziato un aumento significativo di altre cause che, al momento, non trova una spiegazione di natura epidemiologica: polmoniti e influenza (10% del totale dei decessi in eccesso), demenze e malattia di Alzheimer (5% del totale dei decessi in eccesso), cardiopatie ipertensive (5% del totale dei decessi in eccesso) e diabete (3% del totale dei decessi in eccesso)», spiega Alessandro Solipaca, direttore scientifico dell'Osservatorio nazionale della Salute.

Numeri in eccesso «che si spiegano con il fatto che l'Italia è stato il primo Paese europeo a essere travolto dalla pandemia, con un impatto difficile da gestire sotto tutti i punti di vista. Tanto che molti anziani sono morti in casa e i certificati di morte sono in alcuni casi stati redatti prima che si accertasse la loro positività», prosegue il direttore dell'Osservatorio. 

Infatti nel 2021 quelle «morti sommerse» non si verificano più. I 62 mila morti per Covid sommati a quelli attesi danno un totale di 707 mila decessi, dato più o meno sovrapponibile ai 705 mila che si sono effettivamente contati a fine anno.

Quindi i morti per Covid sono quelli conteggiati da Iss e Protezione civile e per lo stesso ragionamento fatto con i dati del 2020 parliamo di persone che non ce l'hanno fatta «per» il Covid, e non perché malati di altro e positivi per caso.

C'è anche da dire che, «confrontando la mortalità attesa con quella effettiva in era Covid, scopriamo che i decessi attribuibili ai contagi negli altri Paesi europei non sono dissimili dai nostri», assicura Graziano Onder, che per l'Iss cura il rapporto sui decessi da coronavirus.

A smentire chi minimizza parlando di positivi morti di altro, c'è poi un altro studio condotto da Iss e Istat sulle cause dei decessi dei contagiati alla data del 25 maggio 2020. I risultati testimoniano che il Covid è la causa «direttamente» responsabile della morte dell'89% delle persone risultate essere positive al test. 

Il restante 11% è attribuibile a malattie cardiovascolari (4,6%), tumori (2,4%), malattie del sistema respiratorio (1%) e altro ancora. I numeri sembrano insomma smentire un racconto già sentito nei primi giorni di lockdown duro nel 2020, quando nelle conferenze stampa delle 18 si cercava di tranquillizzare gli italiani impauriti, ricordano che quei morti avevano più di 80 anni e si portavano dietro molte altre patologie.

Da qui la formula dei «morti con Covid» che nessuno osò più pronunciare dopo le immagini dei camion militari che scendevano da Bergamo carichi di bare. Oggi fortunatamente abbiamo i vaccini e il booster, sommato all'immunità acquisita dai tanti che si sono contagiati, sta piegando la curva dei contagi.

Ma come allora a non farcela sono gli ultra-fragili, vuoi per l'età avanzata, vuoi per malattie che ne hanno indebolito il sistema immunitario, rendendo meno robusta la protezione anticorpale alzata dai vaccini. 

Questo lo sanno anche i medici, che stanno cercando di far sentire la loro voce, chiedendo un uso più esteso delle nuove terapie antivirali, allargandone la prescrivibilità anche ai medici di famiglia.

Alessandra Ziniti, Michele Bocci per “la Repubblica” il 5 Febbraio 2022.  

Salgono ancora, 433 ieri. Come se cadessero due aerei al giorno. E poco cambia sapere che qualche decina sono morti dei giorni scorsi, visto che ormai da settimane il bollettino quotidiano delle vittime di Covid oscilla tra 350 e 450. Tremila questa settimana, 9.500 nell'ultimo mese. 

Un'enormità in assoluto ma soprattutto in rapporto al numero di contagi che fa schizzare il tasso di letalità dell'Italia molto più in alto rispetto a tutti gli altri Paesi dell'Europa occidentale, con più o meno analoghe percentuali di vaccinazioni. Più della Francia, della Germania, della Spagna, persino più del Regno Unito che mantiene (ancora per poco) il record assoluto di vittime in Europa dall'inizio della pandemia ma a fronte di un numero di contagi ben più alto di quelli dell'Italia e soprattutto a fronte di restrizioni inesistenti. 

Qualcosa non quadra. Lo pensano molti medici, scienziati, virologi, epidemiologi sempre più convinti che il calcolo italiano delle vittime del Covid includa (soprattutto in questa quarta ondata) un numero altissimo di persone, anziane, positive ma morte per altre patologie, magari non curate per la saturazione del sistema ospedaliero.  

Se così fosse il quadro generale dell'evoluzione della pandemia risulterebbe falsato. Una questione non da poco, un assist ai No Vax per mettere in discussione l'efficacia dei vaccini. Come è possibile che in un Paese dove il 90% della popolazione è vaccinata e con la meno aggressiva variante Omicron ormai prevalente da più di un mese ci siano ancora così tante vittime? 

«Bisogna indagare in maniera approfondita sulla casistica per capire perché in Italia, nonostante il calo di contagi e di ricoveri, il dato dei morti è così alto - dice Maria Rita Gismondo, virologa del Sacco di Milano - Potrebbero esserci ancora decessi dovuti alla variante Delta ma potrebbe esserci anche un'errata codificazione dei decessi Covid come in molti stanno ormai evidenziando». 

Ne è certo il direttore dello Spallanzani Francesco Vaia: «Pur considerando una coda della Delta e che la nostra popolazione è anziana, comunque i numeri sono eccessivi e probabilmente chi di dovere dovrà fare analisi approfondita del numero dei morti analizzando ogni dettaglio. C'è chi è deputato a farlo e sono certo che lo farà».  

Non ha dubbi neanche l'infettivologo Matteo Bassetti: «Nonostante la variante Omicron e i vaccini ci stiano portando fuori dalla pandemia, il numero di morti classificati come Covid in Italia, è troppo alto anche rispetto agli altri Paesi europei». I numeri parlano chiaro, quelli assoluti e quelli dell'ultimo mese. Partiamo da questi ultimi: nel gruppo dei Paesi dell'Europa occidentale, l'Italia è quello con il più alto numero di vittime, ben 9.260 a fronte di poco più di 4 milioni di contagi. 

La Francia, che nello stesso periodo ha registrato più del doppio di positivi (quasi 9 milioni), piange meno morti, 6.845. Spagna e Germania, con circa 3,2 milioni di contagi, hanno la metà dei morti italiani (4.203 e 4.872) e persino il Regno Unito (con 3,6 milioni di casi) ha meno vittime, 8.273. Ma l'Inghilterra è il Paese che ha adottato meno restrizioni. 

Se invece guardiamo i numeri assoluti, il Regno Unito fa segnare il più alto numero di vittime 158.266 contro le 147.734 dell'Italia ma a fronte di un numero di contagi maggiore, quasi 18 milioni in Uk contro gli 11,3 milioni in Italia. Anche l'identikit delle vittime di Covid in Italia induce a pensare che ci possano essere molte altre concause a parte il virus: età media 80 anni, con quasi 4 patologie a testa, dalle cardiopatie alle insufficienze respiratorie, dall'ipertensione alle malattie oncologiche.  

Ed ecco allora che anche i dati Istat possono offrire una lettura diversa, circa 165 mila decessi in più rispetto alla media del periodo 2015-2019. Nel 2020 sono morte 100 mila persone in più del previsto (il 15,5%), nel 2021 quasi 65 mila (circa il 10%). 

«Analizzare la mortalità totale ci permette di identificare i morti in eccesso, attribuibili direttamente al Covid ma anche che non dipendono dal virus o lo sono solo indirettamente - dice Marina Davoli, direttrice del Dipartimento di epidemiologia del Lazio che per il ministero della Salute gestisce il sistema di sorveglianza della mortalità giornaliera in circa 50 città - Nei dati potrebbero quindi entrare anche persone colpite da altre patologie ma non curate o curate in ritardo, a causa della pandemia».

Perché l’Italia ha avuto così tanti morti Covid? Federico Giuliani su Inside Over il 6 Febbraio 2022.

L’Italia è al terzo posto della classifica che riunisce i Paesi europei con il più alto numero di morti Covid dall’inizio della pandemia a oggi. Sul gradino più alto del podio troviamo la Russia, con oltre 334mila decessi, seguita dal Regno Unito e dalle sue quasi 158mila vittime. Arriviamo così all’Italia, con poco meno di 148mila persone che hanno perso la vita a causa del Sars-CoV-2. Per fare un confronto, Francia e Germania occupano il quarto e quinto slot, con rispettivamente quasi 132mila e 119mila vittime; la Spagna, caso di studio interessante, è ottava con neanche 100mila decessi raggiunti (94mila).

Prima di proseguire oltre è necessario fare un paio di precisazioni. Innanzitutto, i dati che abbiamo letto sono soltanto una fotografia istantanea che ritraggono la situazione epidemiologica in un determinato momento, e cioè quello nel quale stiamo leggendo quegli stessi numeri; quindi, senza ombra di dubbio, quando starete leggendo queste righe il conteggio delle morti che abbiamo utilizzato sarà già salito. Come se non bastasse, nonostante le cifre riportate nei bollettini ufficiali e tutti gli sforzi profusi dalle autorità sanitarie, bisogna sempre considerare un margine di errore.

Sia perché, magari, alcuni cittadini deceduti per Covid non sono stati segnalati come tali, sia per l’esatto contrario – ovvero persone decedute per altre cause sono state etichettate come “morte per Covid” – e sia, pure, per errori tecnici di conteggio. Insomma, prendere i bollettini come il Sacro Graal non è sempre utile, soprattutto se vogliamo effettuare un confronto tra Paesi. E qui arriviamo a un altro problema bello grosso, ossia alle modalità di conteggio seguite dai vari governi europei per stilare i bollettini epidemiologici. Già, perché a quanto pare nessuno ha mai seguito un principio generale.

Modalità di conteggio

A seconda del metodo di conteggio utilizzato cambiano anche tutti gli altri valori. C’è stato un momento, nella primavera del 2020, durante il quale in Italia il tasso di letalità del coronavirus superava il 10%, mentre in Spagna si aggirava intorno al 7% e in Germania era addirittura inferiore all’1% di tutti i contagiati accertati. Insomma, fin dalle prime ondate della pandemia – è evidente – non tutte le morti collegate al Sars-CoV-2 sono state registrate nel modo corretto. La Francia, ad esempio, non conteggiava i decessi avvenuti al di fuori degli ospedali mentre, in Spagna non testava le persone decedute in casa o nelle rsa. Nel Regno Unito, addirittura, fino al 5 marzo 2020, ogniqualvolta un paziente moriva in ospedale a causa di un’infezione respiratoria, il suo referto non conteneva la parola “Covid”, ma una generica “broncopolmonite”, “polmonite” o altro ancora; in più, i test Covid erano effettuati soltanto ai ricoverati in ospedale. Arriviamo così all’Italia, dove chiunque risultava positivo e deceduto finiva nel registro degli infetti, indipendentemente dalla presenza di altri fattori clinici o patologie presenti nel paziente in stato avanzato.

Con il passare dei mesi la situazione si è armonizzata, per lo meno a parole. Nell’aprile 2020 l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha pubblicato un documento contenente le linee guida a livello internazionale per definire un “decesso da Covid-19”. Il testo utilizza tre principi: “Un decesso dovuto a Covid-19 è definito ai fini della sorveglianza come un decesso risultante da una clinica malattia compatibile, in un caso Covid-19 probabile o confermato, a meno che non vi sia una chiara alternativa causa di morte che non può essere correlata alla malattia Covid (es. trauma). Non ci dovrebbe essere alcun periodo di completa guarigione da Covid-19 tra malattia e morte. Una morte dovuta a Covid-19 non può essere attribuita a un’altra malattia (es. cancro) e dovrebbe essere conteggiata indipendentemente da condizioni preesistenti che si sospetta possano innescare un decorso grave di Covid-19”. Attenzione però, perché quelle dell’OMS sono soltanto linee guida, e quindi raccomandazioni. Ogni Stato, in sostanza, avrebbe potuto – come in certi casi è avvenuto – seguire i propri criteri. L’Istituto Superiore di Sanità (ISS), e quindi l’Italia, ha recepito le raccomandazioni dell’OMS. Ma i numeri sembrano non tornare.

Burocrazia, demografia, sistema sanitario

Facciamo un esempio concreto per capire che cosa succede a Roma e dintorni. Quando una persona muore durante un incidente stradale, ed è positiva, in teoria non dovrebbe essere considerata come vittima Covid; se però quella stessa persona è affetta da una patologia renale, cardiovascolare o ha il diabete, e muore mentre è positiva, allora rientra nella lista di morti Covid. Il motivo? Il Covid è stato determinante. Restano tuttavia dubbi, gli stessi sollevati ad esempio dal Corsera nel corso di un lungo approfondimento. Si fa notare come dal 12 agosto 2021 fosse stato riconosciuto agli ospedali – con effetto retroattivo – un incremento tariffario massimo per ogni ricovero superiore a un giorno di 3.713 euro per l’area medica e 9.697 euro per la terapia intensiva. In base al confronto con altri Paesi, c’è chi ha ipotizzato, in certi casi, l’ombra di una mossa burocratica che avrebbe talvolta attribuito ricoveri e decessi di alcuni pazienti al Covid soltanto per incassare il suddetto rimborso. E questo anche se il paziente era nel frattempo guarito o morto a causa di patologie pregresse. Impossibile passare in rassegna ogni documento, ma il movente burocratico può senz’altro aver giocato un ruolo non secondario.

Passiamo poi alla possibile spiegazione demografica: in Italia il Covid ha ucciso più persone perché la popolazione italiana risulta essere più anziana? Questa versione regge fino a un certo punto. In Portogallo, dove la percentuale di over 65 equivale quasi a quella italiana (circa 22% contro 23%), ci sono stati appena 20mila decessi totali. In Germania e Finlandia, altri due Paesi con un numero di over 65 simile a quello italiano, si contano rispettivamente 119mila e circa 2mila vittime: molto meno rispetto all’Italia. Passiamo quindi ad analizzare il peso giocato dal sistema sanitario italiano, secondo alcuni non all’altezza dell’emergenza a causa dei tagli perpetuati negli anni alla sanità. Basta fare un confronto con la Germania per capire di che cosa stiamo parlando. Un anno fa, la Germania contava circa quattro medici ogni mille abitanti, un valore non troppo distante da quello italiano; il punto è che Berlino poteva contare su ben 13 infermieri per mille abitanti, ovvero il doppio dell’Italia ferma a 6. Unendo i punti, appare plausibile immaginare una serie di concause che potrebbero aver portato il nostro Paese ad essere tra i più martoriati dal Sars-CoV-2: dall’età particolarmente avanzata a un sistema sanitario da rafforzare, passando per un metodo di conteggio non sempre chiarissimo.

Anche gli esperti non sono convinti dei decessi conteggiati dall’Italia, decisamente elevati rispetto a quelli registrati in altri Paesi. Secondo Maria Rita Gismondo, virologa del Sacco di Milano, potrebbero esserci ancora morti collegate alla variante Delta, “ma potrebbe esserci pure un’errata classificazione dei decessi Covid come molti stanno evidenziando”. Impossibile che nell’ultimo mese l’Italia abbia totalizzato 9.620 vittime a fronte di circa 4 milioni di contagi, e che la Francia – che nello stesso lasso di tempo ha contato il doppio delle infezioni – sia ferma a 6.845, mentre Spagna e Germania (entrambe circa 3,2 milioni di casi) addirittura rispettivamente a 4.203 e 4.872. Persino il Regno Unito, Paese che ha sempre adottato minime restrizioni, sempre nell’ultimo mese, ha totalizzato meno morti dell’Italia (8.273). I conti non tornano. 

Il tasso di decessi in Italia è da record. Anziani e malati: le colpe della sanità. Antonio Caperna il 6 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Impietoso confronto con la Germania, che ha casi doppi e metà dei morti. Tra le spiegazioni i tanti over 65 e i metodi di conteggio: nessuna convince. Il nodo dei medici di base e la crisi degli ospedali.

Giochiamo una partita Italia-Germania sul campo del Covid: età media della popolazione simile, circa 46 anni, attesa di vita migliore per noi (85,6 anni per le donne e 81,2 per gli uomini rispetto a 83,3 e 78,6), ciclo completo vaccinale al 78,1 per cento, che da loro si ferma al 74,3. E poi il mistero: nelle ultime 24 ore 93.157 positivi e 375 vittime nella Penisola e 217mila contagi e 172 morti a Berlino. È questo il tema al centro del dibattito, perché il trend è sempre di un eccessivo numero di morti, che oscilla tra 350 e 450 ogni giorno, e quindi un tasso che supera i Paesi vicini, dalla Spagna alla Francia compreso quel Regno Unito (ieri 60.578 casi e 259 morti) con tantissime infezioni e poche restrizioni. Gli esperti si interrogano ma purtroppo i pareri non sono unanimi, perché probabilmente non c'è un unico motivo ma un concorso di cause.

VACCINAZIONE A oggi gli over 50 non vaccinati e oggetto dell'obbligo sono quasi 2 milioni. Soprattutto gli over 70 sono oltre mezzo milione. In questo caso l'Iss evidenzia che rispetto ai deceduti «non vaccinati», sia con «ciclo incompleto di vaccinazione» sia con «ciclo completo» (senza considerare i richiami) avevano un'età media notevolmente superiore (rispettivamente 82,6 e 84,7 contro 78,6). Inoltre nei non vaccinati la mortalità è 27 volte più alta rispetto a chi ha fatto il richiamo, il tasso dei ricoveri ordinari è 10 volte più alto e nelle terapie intensive sale di 27 volte rispetto a chi ha avuto la terza dose.

ANZIANI Poiché in Italia gli anziani sono il 22,9 per cento della popolazione, sono stati la prima motivazione fin dall'inizio della pandemia. «Difficile capire perché nel nostro Paese il numero dei decessi è più elevato. Uno dei fattori è sicuramente la popolazione più anziana e il numero importante di anziani non vaccinati. E questa è sicuramente una parte di spiegazione», afferma Massimo Galli, già direttore di Malattie infettive all'ospedale Sacco di Milano.

COMORBILITÀ Se la media delle persone morte e positive al Covid è intorno a 80 anni, i deceduti vaccinati hanno un'età media più alta e più patologie preesistenti (circa 5) rispetto a quelli non vaccinati. Tra le condizioni più a rischio c'è la pressione alta, che interessa un italiano su 3, poi il diabete e una qualche forma di cardiopatia, obesità, insufficienza renale acuta e demenza.

CURE Anticorpi monoclonali, antivirali, Fans, antibiotici, cortisonici e altri farmaci sono utilizzati in maniera eterogenea e spesso l'esito di un caso dipende da numerosi fattori a cominciare dall'efficienza della medicina del territorio, cioè da quanto si riesce a fare fin dalla prima chiamata a domicilio, per evitare il ricovero. Molto è lasciato all'abnegazione dei vari medici, ma le carenze della sanità non nascono dalla pandemia: affondano le radici in decenni di tagli, esplodendo ora.

Con o per Covid È il terreno di scontro maggiore. Per alcuni esperti è sbagliato mettere in un unico calderone tutti i decessi. Tra le posizioni più nette nei due «schieramenti» c'è Matteo Bassetti dell'Istituto San Martino di Genova («Bisogna differenziare chi ha sintomi e segni del Covid da chi è asintomatico. In questa fase sono moltissimi i decessi con Covid») e Maria Rita Gismondo dell'Istituto Sacco di Milano («È verosimile che molti pazienti morti negli ultimi 2 anni siano stati erroneamente attribuiti al virus») e dall'altra Andrea Crisanti dell'Università di Padova («Il calcolo dei morti per Covid è assolutamente giusto, è logica matematica; il contributo per cause proprie in coincidenza con Covid è irrisorio») e Fabrizio Pregliasco dell'Università di Milano («Il calcolo deve restare così, è importante ai fini statistici avere uno storico standardizzato»). Antonio Caperna

Covid, Annibale e Irma morti a mezz’ora di distanza dopo una vita insieme: erano sposati da 64 anni. Debora Faravelli il 02/02/2022 su Notizie.it.

Dopo una vita insieme e 64 anni di matrimonio, Annibale e Irma sono morti a mezz'ora di distanza a causa del Covid. 

Tragedia a Verona, dove Annibale Meneghelli e Irma Gilioli, insieme da 70 anni, sono morti dopo aver contratto il Covid a mezz’ora di distanza. Indivisibili da una vita, il destino ha voluto che fossero uniti anche nel momento della fine.

Annibale e Irma morti a mezz’ora di distanza

“Un amore, un’alchimia indissolubile, la classica coppia perfetta che pareva uscita da un libro di favole“. Così ha descritto i genitori il figlio Roberto raccontando la vicenda che li ha coinvolti. I due avevano superato indenni le prime tre ondate pandemiche, ma la quarta è stata per loro fatale. L’11 gennaio, dopo la comparsa dei primi sintomi, sono stati ricoverati all’ospedale di Villafranca dove due settimane dopo, il 27, sono spirati.

Mezz’ora il tempo intercorso tra i due decessi, come se il destino sapesse che non l’uno non avrebbe potuto fare a meno dell’altra. Sposati nel 1957 dopo 6 anni di fidanzamento, “lasciano un esempio di vita, valori, sentimenti da emulare, un faro per tutti noi“.

Secondo quanto emerso, nessuno dei due aveva fatto il vaccino. In passato Annibale aveva avuto pesanti strascichi per un siero antinfluenzale, così aveva voluto evitare qualsiasi rischio di complicanze per sé e per la moglie, affetta da una malattia degenerativa e dipendente da lui per qualsiasi cosa.

Annibale e Irma morti a mezz’ora di distanza: mercoledì i funerali

“Dopo un’intera esistenza trascorsa sempre insieme, è sembrato quasi che il papà abbia subito voluto raggiungere la mamma il prima possibile, in modo da non lasciarla sola neppure nella morte“, ha dichiarato commosso Roberto. I loro funerali si terranno mercoledì 2 febbraio 2022 alle 15 presso la chiesa di Bagnolo, a Nogarole Rocca, dove tutti li conoscevano.

Laura Tedesco per corriere.it il 2 febbraio 2022.

Il Covid ha stroncato anche loro, ma non è riuscito a separarli dopo 70 anni trascorsi sempre insieme, l’uno a fianco dell’altra. «Un amore, un’alchimia indissolubile, la classica coppia perfetta che pareva uscita da un libro di favole» li descrive commuovendosi il figlio Roberto. 

Irma Gilioli se n’è andata a 86 anni, il «suo» Annibale Meneghelli a 93: indivisibili nella vita, sono morti di Covid all’ospedale di Villafranca durante la stessa sera, a meno di mezz’ora di distanza. 

Non erano vaccinati

Nessuno dei due era vaccinato contro il virus: in passato Annibale aveva avuto pesanti strascichi per un siero antinfluenzale, così aveva voluto evitare qualsiasi rischio di complicanze per sé e soprattutto per sua moglie Irma che era affetta da una malattia degenerativa e dipendeva da lui per qualsiasi cosa.

I familiari hanno tentato in ogni modo di far cambiare idea all’irremovibile Annibale, ma non c’è stato nulla fare. La coppia aveva superato indenne le prime tre ondate pandemiche, ma non quella ora in corso: entrati entrambi in ospedale lo scorso 11 gennaio, sono spirati la sera del 27. 

Si trovavano ricoverati in stanze diverse, ma è come se fossero rimasti in contatto fino all’ultimo, decidendo addirittura di andarsene insieme: la prima ad arrendersi al virus è stata Irma attorno alle 23.30, meno di mezz’ora dopo Annibale. 

Unione salda e duratura

«A raccontarlo mi vengono i brividi — ricorda Roberto Meneghelli —, perché dopo un’intera esistenza trascorsa sempre insieme, è sembrato quasi che il papà abbia subito voluto raggiungere la mamma il prima possibile, in modo da non lasciarla sola neppure nella morte. Anche in questo, anche nella circostanza più tragica, quella dei miei genitori diventa una storia d’amore».

Un’unione eterna, che nemmeno il Covid è stato in grado di interrompere: mercoledì pomeriggio alle 15 verranno celebrati i funerali dell’«indissolubile coppia» nella chiesa di Bagnolo, a Nogarole Rocca, dove tutti li conoscevano. 

Si erano sposati nel 1957: 64 anni di matrimonio, preceduti da 6 di fidanzamento. Insieme viaggiavano, andavano a ballare e a fare lunghe passeggiate. Nessun altro uomo per lei, nessun’altra donna per lui: Irma era sarta, Annibale un vero tuttofare che, con il solo diploma di terza media, è stato un pioniere dell’imprenditoria locale, capace di fondare un supermercato nel 1971 a Bagnolo e un secondo a Trevenzuolo 12 anni fa. 

Una duplice attività che viene ora gestita dalla famiglia di cui Irma e Annibale sono stati capostipite: lasciano i figli Roberto e Antonella, i nipoti Luca, Paolo, Stefano, Emma, la pronipote Matilde. «Ma soprattutto — non riesce a trattenere le lacrime Roberto — lasciano un esempio di vita, valori, sentimenti da emulare, un faro per tutti noi».

La morte di Ginevra: quando a Lamezia c'era la terapia intensiva neonatale. RAFFAELE SPADA su Il Quotidiano del Sud il 2 Febbraio 2022.

La vita della piccola Ginevra, spezzata dal covid lontana dalla sua terra, poteva essere salvata? Come è noto, la bambina di appena due anni, originaria della città di Mesoraca (Crotone), era stata trasportata da Crotone all’ospedale Ciaccio di Catanzaro. Qui i medici della rianimazione, resisi conto della gravità delle condizioni in cui si trovava, hanno stabilito il trasferimento al Bambino Gesù di Roma, dove purtroppo è deceduta. Tornando alla domanda senza risposta, se Ginevra poteva essere salvata, forse bisognerebbe porla in un altro modo Può la regione Calabria offrire un servizio sanitario tale da competere con altre regioni d’Italia?

Ebbene tutti conoscono la risposta, non solo da adesso, ma da anni. Né si vuole puntare il dito contro l’attuale presidente della regione Calabria, Roberto Occhiuto, il quale, si sa, ha ereditato una condizione disastrosa della sanità. Tra i medici dell’ospedale di Lamezia Terme c’è qualcuno, come il dottore Cesare Perri, che ricorda che l’ospedale di Lamezia era dotato di una efficiente terapia intensiva neonatale (Tin) chiusa nel 2016 da Massimo Scura, il commissario straordinario della sanità presso la Regione Calabria.

Il dottore Perri, oggi, osserva che «il governatore Occhiuto, come un re Travicello, scrive di essere ovviamente sconvolto dalla vicenda della piccola Ginevra, la bimba calabrese di appena due anni deceduta a Roma a causa di gravi complicazioni causate dal Covid. Tutta la comunità regionale si strige alla famiglia, in questo difficilissimo momento. Ma in queste ore stiamo leggendo tante inesattezze, e corre l’obbligo di evitare una pericolosa disinformazione».

«Non è vero che la Regione Calabria non ha posti di terapia intensiva pediatrica, perché presso l’ospedale di Cosenza ci sono 6 posti letto attualmente attivi».

Il dottore Perri ricorda «a lui e ad una classe politica nazionale e regionale incapace e incompetente quanto denunciai nel 2016 (ovviamente non fui il solo)». In un post del 4 aprile 2016 intitolato “Solo bla bla?” il dottore Perri osservava: «Ecco un esempio di come i cittadini sono depauperati del diritto a livelli uniformi di assistenza in nome di un presunto piano di rientro: prendete il “punto nascita” di Lamezia Terme nel 2013 ha avuto 880 nati ed è tra gli ospedali spoke (di periferia), rispetto anche a quelli di Vibo e Crotone, quello con il numero maggiore di nati, grazie anche alla presenza della Terapia intensiva neonatale ora soppressa. La Tin di Lamezia Terme era il riferimento per un’ampia fascia di popolazione da Tropea fino ad Amantea».

«Ebbene, come sostituì questa chiusura il Commissario di governo Scura? Programmò con un decreto (il n. 30 del 30 marzo 2016) una costosissima “Rete regionale per il Trasporto Neonatale” con ambulanze attrezzate e personale specifico ma, all’ultimo rigo del decreto stava scritto che essa sarebbe stata attivata entro il 31 dicembre 2017. Inoltre non erano nemmeno indicati i relativi finanziamenti».

Bastano solo queste brevi ed amare considerazioni a rispondere a quella domanda. La morte della bambina di Mesoraca si aggiunge così alle tante altre già annunciate.

Covid, Ginevra morta a 2 anni in 48 ore: "Dalla Calabria a Roma, in che condizioni è arrivata in ospedale". Serenella Bettin su Libero Quotidiano il 31 gennaio 2022

Aveva due occhi neri che sembravano due gocce di inchiostro che nemmeno te li immagini. Due guanciotte piene, un nasino da vispa e un sorriso meraviglioso che ti catturava. L'undici dicembre scorso la mamma postava su Facebook una foto. «La mia famiglia». Nella foto ci sono lei, il marito e la piccola Ginevra. Tanti palloncini attorno. Rosa. Gialli. Dorati. Una torta grande di compleanno. Immensa. Gigantesca. Con l'immagine e i peluches di Lilli e il Vagabondo. Era tutto perfetto. Per festeggiare quella stupenda creatura miracolo della vita. Ma Ginevra Sorressa, 2 anni, è morta. Il covid bastardo se l'è portata via. La piccola, di Mesoraca, un piccolo paesino in provincia di Crotone, si è ammalata la settimana scorsa; venerdì è stata ricoverata in ospedale a Crotone che dista mezz' ora da Mesoraca. A Crotone vedendo che non riuscivano a fare niente, l'hanno trasferita in ospedale a Catanzaro a un'ora e 13 minuti da Crotone, ma qui è arrivata che aveva già febbre alta e difficoltà respiratorie dovute a una polmonite. Nel giro di poche ore, un aereo militare è andato a prendersela, trasportandola d'urgenza all'ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma. Ma non c'è stato nulla da fare.

IL NONNO - Ginevra è morta sabato sera senza che il covid le abbia consentito di lottare. Una crisi respiratoria. I genitori, Rossella Londino e Giuseppe Sorressa, entrambi vaccinati, il padre anch' egli positivo al covid, sono in stato di shock. Come lo è il nonno che sabato pomeriggio ha parlato col sindaco. «Mi ha detto che la piccolina stava male- racconta a Libero il sindaco di Mesoraca, Annibale Parise era in ansia. L'avevano appena trasportata a Roma. Ma nessuno avrebbe mai pensato una cosa del genere. L'hanno trasferita a Catanzaro perché l'ospedale di Catanzaro ha maggiori competenze, ma qui hanno visto che non riuscivano a fare niente e l'hanno portata al Bambino Gesù». La piccola è deceduta dopo poche ore dall'arrivo in capitale. Per trasportarla è accorso un C-130J dell'Aeronautica Militare e a richiedere il trasporto d'urgenza è stata la prefettura di Catanzaro. Pochi attimi. Un coordinamento con il Comando Operativo di vertice Interforze e l'ordine di decollo che arriva da parte del comando della Squadra aerea a uno degli equipaggi dell'aeronautica militare, pronti per il trasferimento di pazienti in questo genere di casi. Il C-130J della 46 esima Brigata Aerea di Pisa ha imbarcato l'ambulanza con dentro la piccola assistita per tutto il viaggio da una equipe medica. Atterrata all'aeroporto di Ciampino la corsa disperata in ospedale. «È deceduta nella tarda serata - si legge in una nota congiunta dell'Unità di crisi covid Regione Lazio e dell'ospedale pediatrico Bambino Gesù - La paziente era arrivata già intubata e in condizioni disperate, con insufficienza respiratoria e compromissione delle funzioni vitali. Nonostante tutti i tentativi dei sanitari, la bambina è deceduta poche ore dopo l'arrivo in ospedale». Il cordoglio arriva anche dall'assessore alla Sanità del Lazio, Alessio D'Amato. «La piccola è arrivata al Bambino Gesù in condizioni disperate dice - il team di medici non ha avuto nemmeno il tempo di intervenire. Oggi è una giornata triste».

Da ansa.it il 30 gennaio 2022.  

E' morta al Bambin Gesù la bimba di due anni giunta gravissima ieri da Catanzaro a Roma e trasportata da un C-130J dell'Aeronautica Militare atterrato a Ciampino. 

La piccola era stata giudicata in imminente pericolo di vita a causa di una grave insufficienza respiratoria. 

La paziente era ricoverata presso l'ospedale "Pugliese Ciaccio" di Catanzaro quando, a causa dell'aggravarsi delle condizioni cliniche, si è reso necessario l'immediato trasferimento al Bambino Gesù di Roma.

La bimba ieri sera era arrivata al nosocomio romano "già intubata e in condizioni disperate, con insufficienza respiratoria e compromissione delle funzioni vitali". Nonostante tutti i tentativi dei sanitari -comunica in una nota congiunta l'Unità di Crisi Covid della Regione Lazio e l'Ospedale pediatrico Bambino Gesù "la bambina è deceduta poche ore dopo l'arrivo in Ospedale". "Ai familiari della bambina va il più profondo sentimento di cordoglio e vicinanza", conclude la nota.

"Sarai un angelo meraviglioso, nel giardino dei piccoli angeli". Lo scrive in un post l'amministrazione e il sindaco di Mesoraca, comune in provincia di Crotone in Calabria, dove è residente la famiglia della piccola. 

Il sindaco il giorno dei funerali proclamerà il lutto cittadino del Comune dove vivono poco più di 6000 persone. "Quello di oggi è un messaggio che - si legge nel post - il Sindaco e l'Amministrazione Comunale non avrebbero mai voluto scrivere.

Un messaggio che esprime la tristezza di un'intera Comunità che, nel giro di pochi giorni, ha visto volare in cielo tre care concittadine a causa del coronavirus. Il risveglio di stamattina poi, è stato ancora più tragico e lascia un intero paese scosso e distrutto. E' volata in cielo una piccola creatura di appena due anni, bella, raggiante e dal sorriso meraviglioso. Il Sindaco, l'Amministrazione e l'intero Consiglio Comunale partecipano commossi ed increduli al dolore che ha colpito la famiglia".

Si era reso necessario l'utilizzo di un C-130J per poter imbarcare l'ambulanza all'interno della quale ha viaggiato, monitorata ed assistita alla respirazione, la bimba, insieme ad un'equipe medica. A richiedere il trasporto aereo d'urgenza era stata la Prefettura di Catanzaro.

E' deceduta poche ore dopo l'arrivo nella Capitale. Covid, muore bimba di 2 anni: l’odissea dalla Calabria al Bambino Gesù, poi il dramma. Giovanni Pisano su Il Riformista il 30 Gennaio 2022. 

Positiva al Covid-19, una bimba di 2 anni è morta la scorsa notte all’ospedale Bambino Gesù di Roma dove era arrivata nella mattinata di sabato 29 gennaio dalla Calabria. Una odissea, dovuta alla cronica insufficienza della sanità calabrese, finita poi nel drammatico epilogo delle scorse ore. Nella notte tra sabato e domenica la piccola, che si chiamava Ginevra, è peggiorata e per i medici non c’è stato nulla da fare. Troppo gravi i problemi respiratori dovuti a una polmonite.

Nei giorni scorsi la piccola, originaria di Mesoraca, comune in provincia di Crotone, era stata prima trasferita dall’ospedale della città calabrese al “Pugliese Ciaccio” di Catanzaro, poi in seguito all’aggravarsi delle condizioni di salute, è stato necessario il trasferimento a Roma con un aereo (C-130J) dell’Aeronautica militare. Per il trasporto sanitario di emergenza è stato necessario l’utilizzo del vettore della 46esima Brigata Aerea di Pisa, in grado di imbarcare l’ambulanza all’interno della quale ha viaggiato, monitorata ed assistita alla respirazione, la bimba, insieme ad un’equipe medica.

Dolore e sgomento nella comunità di Mesoraca, che si unisce al dolore dei genitori e dei familiari: “Da oggi in cielo c’è un angioletto in più” si legge nei gruppi social locali. “È un giorno triste, drammatico quello di oggi per la famiglia della piccola Ginevra e per l’intera comunità di Mesoraca. Due anni e tutta una vita davanti”.

“Covid malattia pediatrica”

Il Covid-19 sta diventando una ‘malattia pediatrica’, anche se la maggior parte dei piccoli pazienti colpiti dal virus non necessita del ricovero. A fine dicembre, a fare il punto sui contagi che riguardano i bambini e a lanciare l’allarme è stato Andrea Campana, responsabile del Centro Covid di Palidoro dell’ospedale Bambino Gesù, interpellato dall’agenzia di stampa LaPresse.

“Bimbi ricoverati sotto i 12 anni”

“Il Centro Covid sta andando bene per quanto riguarda l’espressione della malattia, nel senso che la clinica sembra simile a quella osservata nei mesi scorsi, non c’è maggiore gravità” spiega il Dott. Campana. “In prevalenza i bambini ricoverati hanno meno di 12 anni, molti sono sotto i cinque perché non vaccinati. Leggendo i miei posti letto occupati in questo momento, il più grande ha 16 anni, ci sono due bambini di sei giorni e altri di mesi, la metà sono bambini sotto i tre mesi“.

Nel reparto di Roma del Centro Covid, sottolinea, c’è un adolescente ricoverato in rianimazione, senza altre malattie. La vaccinazione si conferma l’unica arma a disposizione per proteggere non solo gli adulti, ma anche i più piccoli: l’invito quindi è quello di vaccinare, perché non bisogna sottovalutare la situazione. “Bisogna vaccinare i bambini per proteggere i bambini, non per proteggere gli adulti” sottolinea il primario. “I più piccoli hanno bisogno di essere protetti perché il Covid-19 sta diventando una malattia pediatrica, interessa un quarto della popolazione pediatrica, anche se la maggior parte dei contagiati non ha bisogno di essere ricoverato“.

In atto la ‘Fase 3’

Rispetto a marzo 2020, Andrea Campana segnala una ‘recrudescenza pediatrica’: la percentuale dei contagiati si attesta ora al 25% rispetto all’1% dell’anno scorso. “Dall’1 al 28 dicembre, sono stati 62 i bambini ricoverati, con 46 dimessi e 26 genitori risultati positivi. Al momento i ricoverati sono 16.” Ma c’è un aspetto positivo, nonostante i numeri in aumento. “La gravità non sembra essere importante, dobbiamo capire quanti hanno avuto la variante Omicron e capire se nel bambino oltre a essere più contagiosa ha un’espressione differente”.

Molti bimbi sono sintomatici ma vengono seguiti a casa, con una media di 2 ingressi al giorno. È però ancora presto, spiega, per capire quali saranno le conseguenze dei festeggiamenti per le festività natalizie e di Capodanno.

Le complicanze segnalate per i piccoli pazienti sono soprattutto “cardiache, grastrointestinale, polmonari, ematologiche, oltre alle convulsioni per febbre alta e persistente”.

Casi da mamme non vaccinate

La vaccinazione durante la gravidanza “non è mai partita come ci aspettavamo” evidenzia il responsabile del Centro Covid del Bambino Gesù. Di conseguenza, i bambini di pochi mesi positivi al virus Sars-Cov-2 arrivano proprio da mamme che non sono state vaccinate. “Eppure– aggiunge- ora sono tanti mesi che le indicazioni raccomandano il vaccino in gravidanza, più recente è quella che le raccomanda anche nei primi tre mesi.”

Ora è necessario capire quale sarà l’impatto delle varianti e in particolare della Omicron, che probabilmente prenderà il sopravvento sulla Delta: i dati saranno disponibili a breve. “Capiremo se sui bambini continuerà a essere una forma lieve o moderata di malattia” conclude il Dott. Campana.

Giovanni Pisano. Napoletano doc (ma con origini australiane e sannnite), sono un aspirante giornalista: mi occupo principalmente di cronaca, sport e salute.

Michela Allegri per “il Messaggero” il 31 gennaio 2022.

All'inizio aveva febbre e difficoltà respiratorie, ma è bastato poco ai medici dell'ospedale San Giovanni di Dio di Crotone per capire che la piccola Ginevra, di soli due anni, stava combattendo contro il Covid e che la situazione era seria. Il padre era positivo e il tampone rapido effettuato alla bimba ha dato lo stesso esito. 

Così, il 28 gennaio, Ginevra Soressa è stata trasferita all'ospedale Pugliese Ciaccio di Catanzaro, dove si trova la terapia intensiva pediatrica. Ieri è stata portata d'urgenza, con un aereo militare, al Bambino Gesù di Roma, dove altri sette bimbi si trovano in terapia intensiva a causa del Covid. 

Ma Ginevra non ce l'ha fatta: quando è arrivata le sue condizioni erano disperate. I medici hanno tentato in ogni modo di salvarla, ma la piccola non riusciva a respirare e i danni neurologici erano troppo pesanti. Non aveva patologie note, a parte la polmonite provocata dal virus.

La bambina era arrivata con mamma Rossella e papà Giuseppe da Mesoraca, un paesino di seimila persone in provincia di Crotone, in Calabria. È stata portata a Roma con un C-130J dell'Aeronautica Militare, su richiesta della Prefettura di Catanzaro, in coordinamento con la Italian Patient Evacuation Coordination Cell (Itapecc) del Comando Operativo di Vertice Interforze (Covi).

È stato necessario l'utilizzo di un C-130J della quarantaseiesima Brigata Aerea di Pisa, che ha imbarcato l'ambulanza all'interno della quale ha viaggiato la bimba, monitorata ed assistita alla respirazione da un'equipe medica. Il viaggio poi è proseguito dall'aeroporto di Ciampino al Bambino Gesù. 

«È deceduta purtroppo nella tarda serata - hanno comunicato in una nota congiunta l'Unità di crisi Covid della regione Lazio e l'ospedale - La paziente era arrivata già intubata e in condizioni disperate, con insufficienza respiratoria e compromissione delle funzioni vitali. Ai familiari va il più profondo sentimento di cordoglio e vicinanza». 

La piccola «è arrivata al Bambino Gesù in condizioni disperate, i team medici non hanno avuto neanche il tempo di intervenire. Ci sentiamo profondamente addolorati», ha detto invece l'assessore alla sanità della Regione Lazio, Alessio D'Amato. Ieri il paesino di Mesoraca era travolto dal dolore. «Sarai un angelo meraviglioso Ginevra, nel giardino dei piccoli angeli», ha scritto in un post il sindaco, che ha deciso di proclamare il lutto cittadino nel giorno dei funerali. 

«È un messaggio che non avremmo mai voluto scrivere - si legge ancora nel post - È volata in cielo una piccola creatura di appena due anni, bella, raggiante e dal sorriso meraviglioso». Lo stesso sorriso che si vede in una delle ultime foto pubblicate sui social dalla mamma, nella quale Ginevra sorride di fronte alla torta nel giorno del suo compleanno. Era dicembre. In tanti hanno ricordato la piccola su Facebook.

«Da oggi in cielo c'è un angioletto in più», scrive qualcuno.

«È un giorno triste, drammatico per l'intera comunità di Mesoraca. Due anni e tutta una vita davanti», un altro messaggio. Tutti nel paesino conoscono i genitori della piccola: Giovanni Soressa è un carabiniere molto stimato. 

Il caso della piccola Ginevra preoccupa i medici: il Covid sta colpendo sempre più duramente bambini e ragazzi. L'ultimo report settimanale dell'Iss ha evidenziato che sono in aumento i casi diagnosticati per 100mila abitanti nella fascia 5-11 anni e nei bambini sotto i 5 anni. Chi ha tra 5 e 11 anni può essere vaccinato con Pfizer, ma solo il 10,41 per cento ha completato il percorso vaccinale. Per i bimbi sotto i 5 anni, invece, non esiste ancora un vaccino autorizzato.

Covid, il numero dei morti è gonfiato? Cosa dicono i dati. Milena Gabanelli e Simona Ravizza su Il Corriere della Sera il 27 gennaio 2022.

Dall’inizio dell’epidemia al 10 gennaio sono stati comunicati con i bollettini quotidiani del Ministero della Salute 138.099 decessi Covid. C’è una domanda che si pongono in tanti: questi numeri sono gonfiati? Il dubbio nasce per come vengono conteggiati i decessi. Secondo l’Istituto Superiore di Sanità, che recepisce le raccomandazioni dell’Oms, un decesso è da attribuire al Covid quando contemporaneamente sono presenti le seguenti condizioni (qui il documento): tampone positivo al momento della morte, un quadro clinico compatibile con i sintomi del virus (febbre, tosse, dispnea, brividi, tremore, dolori muscolari, cefalea, mal di gola, perdita acuta di olfatto o gusto), assenza di recupero clinico tra la malattia e la morte, e assenza di una chiara causa di morte diversa dall’infezione. Il problema riguarda prevalentemente quest’ultimo punto. 

In base alle regole attuali, se una persona muore durante un incidente stradale mentre è positivo, non viene evidentemente conteggiato come morto Covid; ma se è affetto da patologia oncologica, cardiovascolare, renale, epatica, oppure ha il diabete, e cessa di vivere mentre è positivo, rientra nella contabilità dei morti Covid. Il ragionamento che accompagna le disposizioni è questo: «Le patologie preesistenti possono aver favorito o predisposto a un decorso negativo dell’infezione» ma il Covid è determinante. Questa spiegazione, però, spesso non viene ritenuta convincente e porta a considerare il numero dei morti come sovrastimato. Ma quale potrebbe essere l’interesse? Per i maliziosi è una questione legata ai rimborsi. Il 12 agosto 2021, con effetto retroattivo, è stato riconosciuto agli ospedali un incremento tariffario massimo per ciascun episodio di ricovero superiore a un giorno di 3.713 euro per l’area medica, e di 9.697 euro per la terapia intensiva. Incrementi giustissimi visto il peso di un paziente Covid su tutta l’organizzazione ospedaliera. Certo, nessuno può escludere la tentazione di attribuire il ricovero e il decesso al Covid, anche se magari il paziente nel frattempo è guarito ed il decesso è imputabile ad altra patologia pregressa.

Chi muore

Premesso che una verità assoluta, fino a prova contraria, è indimostrabile, vediamo cosa dice il «Report sulle caratteristiche dei pazienti deceduti positivi a Sars-CoV-2 in Italia» pubblicato l’altro ieri, 26 gennaio, dall’Istituto superiore di Sanità. Dei 138.099 decessi Covid registrati dall’inizio dell’epidemia al 10 gennaio, solo 1.743 sono sotto i 50 anni (1,3%), di cui 37 sotto i 19 anni. Tra i 50 e i 69 anni sono 19.511 (14,1%); sopra i 70 anni 116.840 (84,6%), di cui 55.338 tra gli 80 e gli 89 anni, e 26.722 over 90. L’età mediana (che si differenzia dalla media matematica perché è il valore intermedio tra gli estremi) dei morti è di 82 anni, mentre quella di tutti i contagiati è di 43 anni. Per i cinici che pensano: «In fondo muoiono solo gli anziani», come vediamo non è vero, in secondo luogo sappiano che l’aspettativa di vita in Italia è di 83,6 anni, ma come mostrano le tabelle Istat, chi ha tra gli 80 e gli 84 anni, e dunque è arrivato fino a lì, ha ancora un’aspettativa di sopravvivenza di 9 anni. Vuol dire che senza la falcidia del virus, avrebbero potuto campare un bel po’. 

Malattie pregresse: quanto contano

In base a un campione di 8.428 cartelle cliniche, i dati dell’Iss mostrano che chi è morto mentre aveva il Covid senza nessun’altra patologia concomitante è solo il 2,9% dei deceduti, con una patologia l’11,3%, con 2 il 17,9% e con tre o più il 67,8%. La questione qui è: il paziente è morto con il Covid o per il Covid? Abbiamo già visto come la scelta dell’Iss, in linea con le disposizioni internazionali, è di conteggiare come morto di Covid anche, per dire, un malato oncologico con polmonite e tampone positivo. Questo non dimostra che i dati sono gonfiati. Il fatto che il 97,1% dei deceduti avesse anche altre patologie, non vuol dire che sarebbero comunque passati a miglior vita in breve tempo. Basti pensare che in Italia, su una popolazione di quasi 51 milioni di persone con più di 18 anni, oltre 14 milioni convivono con una patologia cronica, e di questi 8,4 milioni sono ultra 65 enni. Si tratta di persone fragili, e quindi più esposte al rischio morte se contraggono il virus. Dei deceduti invece fra i 16 e 59 anni, il 9,5% non aveva patologie concomitanti, come non le aveva il 6,8% tra 60 e 69 anni, il 3,1% tra 70 e 79, e l’1,4% di over 80. Più sale l’età, meno persone muoiono senza avere altre malattie, semplicemente perché l’invecchiamento porta con sé patologie. 

Il ruolo dei vaccini

Il confronto dei decessi tra i non vaccinati e i vaccinati ci può aiutare a capire ancora meglio quanto il Covid possa essere in realtà determinante come causa di morte anche in presenza di patologie pregresse. L’analisi dell’Iss è fatta su un campione di 1.642 cartelle cliniche raccolte tra febbraio 2021 e il 10 gennaio 2022, periodo nel quale complessivamente sono decedute 46.572 persone, di cui 39.292 non vaccinate (84%) e 5.345 con ciclo completo. Il 3% dei non vaccinati è morto senza avere altre patologie contro lo 0,6% dei vaccinati con ciclo completo; con una patologia il 10,2% dei non vaccinati contro il 6,2% dei vaccinati; con due patologie il 17% dei non vaccinati contro il 9,5% dei vaccinati, con 3 o più patologie il 69% dei non vaccinati contro l’83,7% dei vaccinati con ciclo completo. A parità di condizioni di salute, con una/due patologie se non sono vaccinato, rischio di più.Fatto 100 il numero dei deceduti vaccinati, dunque, le morti si concentrano sui pazienti con tre e più malattie. Per quel che riguarda l’età media dei decessi fra i non vaccinati è di 78,6 anni, mentre nei vaccinati 84,7. Vuol dire che anche in persone già ammalate, il Covid può togliere 6 anni di vita. 

Dove si muore

Finalmente i dati dell’Iss sembrano fare chiarezza. Il 23,8% è deceduto in un reparto di terapia intensiva, il 58,5% nei reparti Covid ordinari, il 17,7%non è stato ricoverato, può essere deceduto dunque nella sua abitazione, in una casa di riposo o in un hospice. Qui è determinate capire cosa succede a seconda dell’età. Scrive l’Iss: «Sotto gli 80 anni, il 44% è stato ricoverato in un reparto di terapia intensiva, il 42,3% in ospedale ma non in terapia intensiva, il 13,7% in nessuno dei due. Di contro, negli over 80, l’8,2% è stato ricoverato in un reparto di terapia intensiva, il 71,1% in ospedale ma non in terapia intensiva, e il 20,7% in nessuno dei due».

Significa che chi è molto compromesso di salute, nella maggior parte dei casi non viene ricoverato in rianimazione perché intubarlo servirebbe solo a farlo soffrire ulteriormente

L’età media di chi muore dopo essere stato ricoverato in rianimazione, infatti, è in media di 68,2 anni con 3 patologie pregresse, contro gli 82 anni di chi muore in un reparto normale con 4 patologie pregresse. 

Sovrastima o sottostima?

In definitiva, si può dire che c’è una sovrastima dei morti Covid? «Da marzo a dicembre 2020 i morti positivi al Covid inclusi nel bollettino sono stati circa 78 mila, rispetto ai morti per tutte le cause degli anni 2015-2019 sono decedute 108 mila persone in più: la differenza è di 30 mila. Significa che sono stati contati meno decessi per Covid di quelli reali – riflette il ricercatore dell’Ispi Matteo Villa –. Tra gennaio e ottobre 2021, invece, i morti inclusi nel bollettino Covid sono stati circa 54 mila, mentre lo scostamento dalla mortalità media degli anni precedenti è stato di circa 49 mila persone. Questo potrebbe fare pensare a una sovrastima dei morti Covid, in realtà va considerato il fatto che l’influenza è sparita. Se escludiamo dal confronto i morti di influenza degli anni pregressi, i morti reali in più rispetto alle attese sono stati nel 2021 circa 63 mila, cioè novemila in più rispetto ai morti Covid dichiarati nel bollettino. Questo ci fa pensare che non ci siano extra-conteggi, ma che i morti inclusi nel bollettino siano una buona approssimazione delle persone per cui il Covid è stata davvero la causa determinante di morte negli ultimi due anni». Va soprattutto considerato che i dati arrivano a ottobre e il numero di decessi è aumentato a novembre e dicembre. Da ricordare, inoltre, che le schede di morte sono sotto la responsabilità del medico che le firma, e chi dovesse imbrogliare sulla causa reale del decesso per avere un rimborso più alto commette un reato. 

Svelati i dati nascosti del Covid: solo 1 su 4 è morto in terapia intensiva. Dario Martini su Il Tempo il 27 gennaio 2022.

Alla fine l’Istituto superiore di sanità ha risolto il giallo dei morti per Covid. In un report pubblicato ieri, per la prima volta viene fatto sapere che solo il 23,8% dei decessi è avvenuto in terapia intensiva. Un dato importante, perché ci dice che, di qui in avanti, sarà bene fare molta attenzione ai termini che usiamo. Non a caso l’Iss preferisce parlare di «pazienti deceduti positivi all’infezione» da coronavirus. E non di pazienti deceduti «per il coronavirus». Altrimenti si rischia solo una gran confusione. Soprattutto se consideriamo che, secondo gli esperti che hanno analizzato le cartelle cliniche, il 17,7% dei morti non si trovava nemmeno in ospedale.

Per rendere l’idea ancora meglio è opportuno tradurre queste percentuali in numeri assoluti. Il rapporto dell’Iss fa riferimento a 138.099 persone morte dall’inizio della pandemia fino al 10 gennaio scorso. Di queste, quasi 33mila (23,8%) sono decedute in terapia intensiva, 80.787 (58,5%) erano ricoverati in altri reparti e 24.443 non era nemmeno in ospedale. Il Covid è una malattia che quando attacca il sistema respiratorio può degenerare velocemente. Chi sviluppa una grave polmonite in poco tempo viene per forza portato in terapia intensiva. Se ciò non avviene, significa che la malattia non è grave. La causa del decesso, quindi, deve essere un’altra. Ovviamente, è difficile generalizzare. Ma è la tesi che ormai sostengono numerosi medici. Per citare alcuni dei più conosciuti, sia Matteo Bassetti che Andrea Crisanti invitano da tempo ad inserire nel bollettino giornaliero solo chi è morto veramente per Covid, depennando tutti gli altri.

L’operazione verità dell’Iss è stata possibile analizzando un campione rappresentativo di 8.436 cartelle cliniche provenienti dagli ospedali di tutto il Paese. Per quanto riguarda le patologie, a chi non è stato ricoverato in terapia intensiva sono stati riscontrati soprattutto ictus, demenza, tumore, insufficienza renale, fibrillazione artriale e cardiopatia ischemica. In media avevano 4 patologie preesistenti.

 Il Covid fa una strage tra chi ha diverse patologie. Il report Iss sulle caratteristiche dei morti. Il Tempo il 26 gennaio 2022.

Le persone morte in Italia per Covid-19 avevano in media 3,7 patologie pregresse. Complessivamente, 246 pazienti (2,9% del campione) non presentavano patologie, 955 (11,3%) presentavano una patologia, 1.512 (17,9%) ne avevano 2 e 5.723 (67,8%) presentavano 3 o più patologie preesistenti. È quanto emerge dall’analisi delle cartelle cliniche di 8.436 deceduti elaborata dall’Istituto superiore di sanità (Iss) all’interno dell’aggiornamento del report che analizza le caratteristiche dei 138.099 pazienti deceduti e positivi a Sars-CoV-2 in Italia dall’inizio della sorveglianza fino al 10 gennaio scorso, «Nei pazienti deceduti trasferiti in terapia intensiva il numero medio di patologie osservate è di 3,0. Nelle persone che non sono state ricoverate in terapia intensiva il numero medio di patologie osservate è di 3,9», osservano gli esperti dell’Iss.

L’età media delle persone decedute e positive a Sars-Cov-2 in Italia è di 80 anni. La maggior parte è stata ricoverata in ospedale ma non in terapia intensiva e i deceduti vaccinati hanno un’età media più alta e più patologie preesistenti rispetto a quelli non vaccinati. Il report si riferisce a 138.099 pazienti deceduti e positivi a Sars-cov-2 in Italia dall’inizio della sorveglianza al 10 gennaio 2022. Rispetto ai deceduti ‘non vaccinati’, sia quelli con ‘ciclo incompleto di vaccinazione’ che i decessi con ‘ciclo completo di vaccinazione’ (non sono presi in considerazione pazienti con ‘booster’) avevano un’età media notevolmente superiore (rispettivamente 82,6 e 84,7 contro 78,6). Anche il numero medio di patologie osservate è significativamente più alto nei gruppi di vaccinati con ‘ciclo incompleto di vaccinazione’ e ‘ciclo completo di vaccinazione’ rispetto ai ‘non vaccinati’ (rispettivamente 5,0 e 4,9 contro 3,9 patologie preesistenti). 

Dei deceduti positivi a Sars-CoV-2 in Italia, il 23,8% risulta essere stato ricoverato in un reparto di terapia intensiva, il 58,5% è stato ricoverato in ospedale ma non in terapia intensiva e il 17,7% non era ricoverato in ospedale.

Quanti sono i morti da Covid? Molti più di quelli che sappiamo: ecco perché. Noemi Penna su La Repubblica il 20 gennaio 2022.

il numero dei decessi a livello globale è stato decisamente sottostimato. Non ne hanno dubbi i demografi, data scientist ed esperti di salute pubblica, che hanno calcolato che un numero più realistico è dal doppio al quadruplo rispetto ai numeri ufficiali. L'indagine condotta da Nature.  

A due anni dall'inizio della pandemia, si sono superati i 5,55 milioni di morti Covid nel mondo. Questo dicono i dati ufficiali. Ma il vero bilancio delle vittime è decisamente lontano da quel numero. Quelle che all'inizio erano plausibili ipotesi, oggi sono tristi realtà: il numero dei decessi a livello globale è stato decisamente sottostimato. Non ne hanno dubbi i demografi, data scientist ed esperti di salute pubblica, che hanno calcolato che un numero più realistico è fra gli undici e i ventidue milioni di morti nel mondo, dal doppio al quadruplo rispetto ai numeri ufficiali.

Il numero di morti covid potrebbe essere sbagliato, lo dice uno studio su Nature. Giampiero Casoni il 21/01/2022 su Notizie.it.

Un'indagine che appare come una riflessione sulla possibilità di errore: il numero di morti covid potrebbe essere sbagliato, lo dice uno studio su Nature

Il numero di morti totali di covid nel mondo da quando la pandemia è apparsa potrebbe essere sbagliato, lo dice uno studio su Nature che prende a modello alcuni fattori. Fattori come le differenze fra criteri statistici e modelli di conteggio dei singoli stati ed una serie di “pecche” che in loop ormai vanno avanti da quando esiste la demografia.

Ma partiamo dai dati ufficiali: il numero delle vittime globali della pandemia di Covid-19 è ad oggi di circa 5,5 milioni, con il tetto dei 5 milioni toccato a novembre 2021 secondo l’Oms. 

Morti covid e lo studio su Nature: dove starebbe l’errore e perché è quasi impossibile correggerlo

Tuttavia errore o parzialità di calcolo secondo lo studio in questione avrebbero falsato tutto. Chiariamoci: al rialzo o al ribasso? Se da un lato ci sono misurazioni per cui le morti in eccesso a livello globale potrebbero essere il doppio o addirittura quadruplo della cifra ufficiale, con stime originarie parlerebbero di morti non covid attribuite al covid, dall’altro c’è la natura stessa del ragionamento, che è di approssimazione, che rende quelle stesse nuove stime suscettibili di aggiustamenti.

Insomma, Nature ha fatto una riflessione sull’errore piuttosto che un calcolo dello stesso per dare il risultato giusto. 

Lo studio su Nature in merito ai morti covid nel mondo: statistiche inaffidabili ed eccesso di mortalità

L’Organizzazione Mondiale della Sanità sta ancora lavorando alla sua prima stima globale e l’Institute for Health Metrics and Evaluation di Seattle, nello stato di Washington offre aggiornamenti quotidiani dei propri risultati ma il dato è che se si sbaglia dall’inizio trovare correggere l’errore è da matti anche per i più “studiati” degli scienziati.

Perciò più dei numeri secchi funzionano gli esempi di quelle “nicchie” dove potrebbe essersi generato l’errore. Un esempio citato dallo studio? Centinaia di paesi non raccolgono statistiche affidabili sui decessi previsti o effettivi. Altri non tengono conto delle registrazioni dell’eccesso di mortalità. Che significa? Calcolare l’eccesso di mortalità sulla carta non è difficile: si confrontano i morti durante la pandemia con la media registrata negli ultimi cinque anni circa. 

Due fattori che secondo lo studio di Nature rendono impossibile la revisione del numero dei morti covid

Solo che questo presuppone due cose: che tutti i paesi abbiano sistemi di computo così avanzati da aggiornare i dati con costanza, e non è così, e che quegli stessi paesi tengano tutti conto del margine che quei dati hanno di essere fuorvianti con aggiustamenti e revisione periodiche, e nemmeno così funziona. I Paesi Bassi per esempio nel 2020 hanno contato solo le persone morte in ospedale dopo essere risultate positive al coronavirus SARS-CoV-2. Il Belgio includeva tutti i morti che avevano mostrato i sintomi del virus. Poi sono arrivare le stime parallele di enti o media che avevano usato altri metodi. Quali? Dalle immagini satellitari dei cimiteri ai sondaggi porta a porta fino ai modelli computerizzati di apprendimento automatico. 

Fra 12 e 22 milioni di morti in eccesso: lo studio su Nature in merito ai decessi covid e il “peccato originale” della demografia

Fa fede ad esempio la stima della rivista The Economist di Londra: con un approccio di apprendimento automatico ha calcolato 12-22 milioni di morti in eccesso, ovvero tra 2 e 4 volte il bilancio ufficiale della pandemia. Giacomo De Nicola, statistico dell’università Ludwig Maximilian di Monaco in Germania, nel 2021 ha provato a calcolare la mortalità in eccesso causata dalla pandemia in Germania. E cosa ha scoperto? Che confrontare i decessi con la mortalità media negli anni precedenti sottostimava costantemente il numero di decessi previsti e quindi sovrastimava i decessi in eccesso. La chiosa migliore forse l’ha data  Andrew Noymer, demografo dell’Università della California. Per lui gli studi demografici carenti sono alla base delle stime di mortalità errate. “I demografi sono stati parte del problema, perché per 60 anni abbiamo aiutato a mettere i cerotti su questo. Abbiamo sviluppato tutti i tipi di tecniche per stimare i tassi demografici in assenza di dati concreti”.

Matteo Bassetti, scandalo-Covid: "Cosa c'è scritto nel referto sulla morte di un paziente". Dati gonfiati, la prova regina.  Libero Quotidiano il 18 gennaio 2022.

"Abbiamo caricato molto gli ospedali, quindi abbiamo tante persone che soffrono di polmonite da Covid": Matteo Bassetti, ospite di Myrta Merlino a L'Aria che tira su L7, non nega che le strutture sanitarie possano avere subito qualche difficoltà nell'ultimo periodo. Poi, però, incalzato dalla conduttrice, cerca di spiegare perché in Italia il numero di morti da Covid sia sempre così alto, marcando così una differenza enorme con gli altri Paesi: "Nel modulo con cui si referta la morte di un paziente, se il medico scrive 'positivo' al tampone, automaticamente purtroppo viene classificato come un decesso avvenuto per Covid. Questo è un argomento che dovrebbe essere affrontato, bisogna capire quanti di quei decessi siano realmente collegati alla polmonite da Covid e quanti invece ad altre problematiche".

Parlando di tale questione, quindi, l'infettivologo del San Martino di Genova ha lanciato una proposta piuttosto audace, spiegando che bisognerebbe rivedere tutte le statistiche degli ultimi due anni. Parlando, invece, della possibilità di fare ulteriori dosi booster in futuro, l'esperto ha detto: "E' probabile pensare che il richiamo non si farà ogni 3-4 mesi, ma nel 2022 credo che una quarta dose si farà. Non ci trovo nulla di male a vaccinarci una volta all'anno, io son vent'anni che mi vaccino contro l'influenza, se dovrò farlo contro il Covid lo farò". 

Infine, sulle numerose regole che oggi bisogna rispettare tra green pass base e rafforzato, Bassetti è stato netto: "I cittadini non comprendono più, per districarsi tra queste regole bisognerebbe andare in giro con un vademecum, come le istruzioni per montare i mobili dell'Ikea. Credo che siamo arrivati a un tale punto di circolazione del virus e di vaccinazioni fatte che forse varrebbe la pena andare verso il buonsenso e la semplicità, poche regole, chiare, precise e comprensibili a tutti".

Cosa non torna sui morti di Covid. Crisanti sgancia la bomba terapia intensiva: dove sono gli altri? Il Tempo il 16 gennaio 2022.

Andrea Crisanti torna sganciare granate nella gestione della pandemia da parte del governo e, prendendo come spunto il bollettino quotidiano del ministero della Salute, solleva il caso dei morti di Covid. Un vero e proprio giallo, sui numeri del ministero, che proietta ombre inquietanti. 

Tutto inizia durante una delle consuete interviste tv del microbiologo dell'università di Padova, ospite l’altra sera di Andrea Scanzi e Luca Sommi ad Accordi e disaccordi, sul canale Nove. Il discorso verte sui posti in terapia intensiva a disposizione e quelli occupati, circa 1.679 il 14 gennaio. "Una persona rimane in media in terapia intensiva 20 giorni e ha una probabilità di decesso pari al 50 per cento - rileva Crisanti - Questo significa che ogni 20 giorni muoiono 800 persone in terapia intensiva, il che significa che muoiono 40 persone al giorno. Allora, io voglio porre un problema che, a mio avviso, ha anche una componente etica: dove muoiono le altre 260 persone?".

Fermi tutti, la questione merita un approfondimento. "È una cosa che bisognerebbe dire perché i 300 morti non sono giustificati dai posti occupati in terapia intensiva", continua Crisanti. "Cioè, lei vuole dire che ci sono morti annoverati come morti di Covid che sono al di fuori della terapia intensiva?" riepiloga Sommi col microbiologo che replica: "Certo, la matematica non è un'opinione, si vede in un attimo che è così".

Durante la trasmissione Crisanti affronta anche il tema del vaccino e dei richiami reiterati presi in considerazione in queste settimane. "Fare un vaccino ogni 4 mesi vuol dire vaccinare 10 milioni di persone al mese, non è sostenibile - dice Crisanti - e non lo è neanche per il nostro fisico, non è tarato per questo. Questi vaccini ci hanno salvato ma hanno limiti, e c'è l'esigenza di sviluppare una nuova classe di vaccini". "Questo è il primo vaccino che ha una durata solo di 4 mesi, molto inferiore" a tutti gli altri. 

Fratelli gemelli muoiono di Covid: uno era No vax, l’altro si era vaccinato. Paolo e Carlantonio Mantovani sono morti a pochi giorni di distanza, uccisi dal virus: hanno sempre condiviso tutto ma sui vaccini avevano due posizioni opposte. Angiola Petronio su Il Corriere della Sera il 12 gennaio 2022.  

Da sinistra Paolo (convinto No vax) e Carlantonio Mantovani, che si era vaccinato. 

Il filo, quello della vita, ero lo stesso. Per tutti e due. Lo hanno tramato insieme, per 71 anni. Fino a quando a ordirlo ci ha pensato il Covid. Ma neanche il virus lo ha tagliato, quel filato lungo un’esistenza. E oltre. È la storia di due gemelli, quella di Paolo e Carlantonio Mantovani. Una delle tante storie di affetti che neanche la pandemia è riuscita a spezzare. Sono morti a pochi giorni di distanza. Uccisi da quella pandemia che li ha lambiti insieme, dopo l’ennesima vacanza in compagnia a Diano Marina, in provincia di Imperia, dove erano andati con alcuni amici.

Sui vaccini avevano posizioni opposte: uno favorevole, l’altro contrario

In realtà, per un periodo, il coronavirus ce l’aveva fatta a dividere quei due fratelli che vivevano una vita all’unisono. E c’era riuscito quando Paolo e Carlantonio hanno deciso se vaccinarsi: assolutamente contrario il primo. Più titubante Carlantonio che, alla fine, aveva deciso di proteggersi. L’unica scelta non condivisa.

Una vita insieme

Erano nati a Cogozzo, frazione di Viadana nel Mantovano, i fratelli Mantovani. Poi Paolo si era trasferito a Castel Maggiore, nel Bolognese. E Carlantonio a Villafranca, in provincia di Verona. Ma niente e nessuno aveva mai spezzato quel filo. Erano i figli della maestra di Cogozzo, i due gemelli. E in quella frazione che si snoda sulla riva sinistra del Po erano cresciuti. La gioventù all’ombra dell’oratorio, Paolo e Carlantonio. E una passione per il calcio che aveva regalato loro una certa notorietà anche nei paesi vicini. Ma la maestra Lea Maffini, conosciuta per la sua severità, aveva deciso che quei due figli dovevano fare altro. Dovevano studiare. Ci hanno provato, Paolo e Carlantonio. Ovviamente insieme. Facoltà di Medicina. E, insieme, hanno deciso che non faceva per loro. E allora il lavoro. Anche quello, manco a dirlo, lo stesso per entrambi. Informatori farmaceutici, i gemelli Mantovani. Uno in Emilia-Romagna, l’altro nel Veronese.

Il primo a morire è stato Paolo, convinto No vax

Le famiglie, le mogli e i figli. Federica e Chiara, quelle di Carlantonio. E sempre quel filo che li legava. Anche in quell’ultima vacanza a fine novembre. Quella in cui nella loro trama è arrivato il Covid. Sono morti a pochi giorni di distanza. Il primo ad andarsene è stato Paolo, convinto No vax. «Al contrario del fratello - ha scritto don Andrea Spreafico parroco di Cogozzo nella pagina Facebook della parrocchia - Carlantonio aveva ricevuto due dosi del vaccino, che inizialmente parevano in qualche modo avere rallentato la malattia. Lentamente, però, l’infezione lo ha portato alla morte, avvenuta durante il ricovero a Milano».

In ospedale c’è ancora la moglie del fratello contrario al vaccino

In ospedale, per il Covid, c’è ancora la moglie di Paolo. «Anche lei è sempre stata contraria al vaccino. Adesso è sotto il casco per l’ossigeno e rifiuta l’intubazione», dice don Andrea, che ha celebrato il funerale di Carlantonio. «Qui a Cogozzo avevano ancora molti amici. E qui, nella cappella di famiglia, verranno tumulati insieme». «Caro Carlantonio - ha scritto nel bollettino parrocchiale social - ci rincuora sapere che dopo questa tragedia tu possa rimanere insieme a tuo fratello». Come sempre sono stati, i gemelli Mantovani.

Clarida Salvatori per "il Corriere della Sera" il 7 gennaio 2022. «A questo punto serve fare chiarezza e non lanciare allarmi sui numeri dei contagi degli ultimi giorni. Nella storia delle malattie infettive, eccetto per i virus simil influenzali, non c'è mai stata un'incidenza così alta. E se non avessimo messo in campo un muro, costituito dalla protezione forte dei vaccini contro il Covid, oggi assisteremmo a una strage». 

Sono nette le parole del direttore sanitario dell'Istituto per le malattie infettive Lazzaro Spallanzani di Roma, Francesco Vaia. Eppure dalla fine di dicembre i casi sono molto al di sopra dei picchi delle precedenti ondate e gli ospedali sono ancora in sofferenza.

«Più aumentano i numeri assoluti dei contagiati, maggiore è la possibilità che qualcuno venga ricoverato. L'ospedalizzazione e la letalità elevate poi sono frutto di vari fattori, tra cui certamente la residua presenza di Delta, più patogena di Omicron. Quest' ultima è invece molto più contagiosa della prima. Ragion per cui, per evitare l'alta incidenza che stiamo osservando, oltre al superamento del brevetto, serve urgentemente un aggiornamento dei vaccini contro le varianti, per combattere questo virus vigliacco, che fa il forte con i deboli e il debole con i forti». 

Cosa si sa sulla variante Omicron?

«Studi in vivo e in vitro, come per esempio il recente lavoro di Michael Diamond e altri della Washington University, confermano quanto osservato dallo Spallanzani in collaborazione con il Sudafrica, ovvero che Omicron è poco patogena e presenta un'attenuazione della malattia. E non solo: quasi l'80% dei contagiati da Omicron è pauci o asintomatico. Tanto che all'Inmi la maggior parte li trattiamo negli ambulatori e non ci sono ospedalizzati». 

Chi è il malato tipo ricoverato in questo momento?

«L'identikit del ricoverato di oggi allo Spallanzani è costituito da non vaccinati, o immunizzati con seconda dose da più di 5 mesi. Con un rapporto di 90 a 10 in reparto ordinario e 96 a 4 in terapia intensiva».

C'è anche qualcuno con terza dose?

«Sì, ma è l'eccezione che conferma la regola specie sui grandi numeri. E magari si tratta di fragili». 

Se potesse guardare avanti, oltre questa quarta ondata, cosa vedrebbe?

«Il virus sembra avere sempre più i connotati di una malattia stagionale endemica».

Cioè, di una comune influenza?

«Il virus non sta più prendendo i polmoni, ma si sta fermando alle prime vie aeree, come capita con le più comuni patologie respiratorie». 

Quindi come tale andrà trattato?

«Ma certo. È inutile ora parlare di quarta, quinta, sesta dose di vaccino. In autunno si penserà a mettere al sicuro gli anziani e i fragili, proprio come da anni si fa con il virus stagionale». 

Nessuna quinta ondata?

«Non so dire se ci sarà, ma adesso abbiamo la capacità di far fronte alle ondate della pandemia con nuovi strumenti. Abbiamo i vaccini, gli anticorpi monoclonali e la nuova pillola in sperimentazione allo Spallanzani».

Ci sono grandi aspettative su questa cura. Come sta andando la sperimentazione?

«È iniziata da poco tempo. E le persone si affidano e si fidano ogni giorno di più». 

Ma cosa avete osservato? La malattia regredisce?

«Dai primi risultati sembrerebbe dare gli effetti sperati: la malattia non si aggrava». 

Tra pochi giorni riaprono le scuole. I presidi spingono per la didattica a distanza. Le Regioni per vaccinare più studenti possibile prima di tornare sui banchi.

«Io sono contrario a nuovi lockdown. Contrario alla chiusura delle scuole. Contrario alla chiusura di pezzi di società. Sono interventi che hanno una logica in altri momenti. Ora bisogna consentire di buttare il cuore oltre l'ostacolo e affrontare il problema con scelte coraggiose e procedure più snelle. Serve semplificare o la gente si perderà a star dietro a tutte le circolari».

Cosa occorre fare allora?

«Da quasi due anni ripeto che occorre adeguare il sistema dei trasporti e pensare a interventi massicci sulle strutture scolastiche. Servono nuovi sistemi di aerazione in classe, anche per eliminare le mascherine». 

È stato varato l'obbligo vaccinale per gli over 50. È d'accordo?

«Occorre allargare la fascia dell'obbligo vaccinale. Ma più che guardare all'anagrafe, secondo me bisogna guardare ai ruoli nella società: chi lavora a contatto con il pubblico deve essere protetto. Così come i ragazzi che fanno sport e hanno una vita sociale, compresi i professionisti che non vanno fermati come contatti se non sono sintomatici. Come già accade in America».

La strada è quella giusta?

«La strada giusta è la sintesi tra vaccini e misure della società. È come se pensassimo di vivere in un appartamento con un impianto della corrente inadeguato (le misure, ndr ) utilizzando solo le candele (i vaccini, ndr ). Prima o poi va accesa la luce».

Melania Rizzoli per "Libero quotidiano" il 7 gennaio 2022. Perché l'Italia continua a registrare così tanti decessi per Covid, rispetto a quanti se ne verificano negli altri Paesi dove i contagi sono in numero molto superiore al nostro? 

Perché se la circolazione virale è ugualmente elevata in molte nazioni il numero dei pazienti che decedono da noi non è confrontabile sia come quota quotidiana che come somma del totale?

E perché se la maggioranza della popolazione risulta contagiata dalla variante Omicron, che sviluppa una patologia definita "benigna" e niente affatto letale, si continua a morire al ritmo di 200/250 pazienti al giorno?

Ieri è stata superata la soglia psicologica dei 200mila nuovi casi (219.441), con 198 vittime. 

Sono questi i dati inequivocabili che vengono comunicati ogni giorno in queste settimane dalle autorità sanitarie italiane, e che invece andrebbero analizzati a dovere e indagati a fondo, per capire quali siano gli elementi che pesano e producono ancora troppi eventi negativi, ovvero bisognerebbe con urgenza verificare se è la popolazione notoriamente più anziana del nostro Paese ad incidere sui decessi, oppure la maggiore presenza di vulnerabilità della salute di chi viene contagiato per patologie associate, o peggio una diversa e colpevolmente erronea classificazione e comunicazione dei casi avversi, che inciderebbe sulle quote di mortalità non tutte effettivamente attribuibili al Covid.

 La medicina ha immediatamente accertato che la variante Omicron che attualmente circola diffusamente in Italia è il virus con la propagazione più rapida della Storia, con la più alta contagiosità, paragonata addirittura a quella del morbillo, ma con una carica virale niente affatto esplosiva, evidente o pericolosamente patogena, nel senso che fino al 30% delle sue infezioni risultano completamente asintomatiche, a differenza delle precedenti varianti, come l'epidemia Delta per esempio, nelle quali i sintomi infettivi erano sempre presenti insieme a una sintomatologia ben precisa ed immediatamente riconoscibile.

Inoltre la variante Omicron produce nei portatori una carica virale nasale e faringea elevata, che però resta ferma nelle vie aeree superiori, senza mai approfondirsi nel tessuto polmonare, quindi senza sviluppare alcuna polmonite sinciziale, che è stata la causa principale dei molti decessi nelle prime due tragiche ondate. 

E ancora. Le infezioni da variante Omicron sono molto più lievi nei soggetti non cronici producono al massimo raffreddore, mal di gola e qualche linea di febbre per un giorno o due, guariscono e negativizzano il paziente in un tempo più breve che varia dai 7 ai 10 giorni, per cui si è accertato che, grazie alla massiva campagna di vaccinazione, tale virus si sta "raffreddorizzando", ovvero sta iniziando il suo adattamento all'uomo e quindi si prevede a breve che si comporti o diventi come un normale coronavirus del raffreddore. 

A conferma di quanto scrivo aggiungo un ulteriore elemento, a mio parere molto importante, che non viene sottolineato e diffuso come meriterebbe, e cioè che la variante Omicron che infetta i soggetti sani non vaccinati neppure con la prima dose, non sviluppa nemmeno in loro, ripeto se sani e orfani di immunità artificiale indotta dal vaccino, una patologia pericolosa per la loro salute e perla loro deficitaria presenza di anticorpi specifici antiCovid. 

Diversamente tale variante diventa più altamente patogena nelle persone prive di scudo vaccinale ma già malate, che hanno cioè un bagaglio di patologie acute o croniche, quali cardiopatie, ipertensione, diabete, malattie metaboliche ed obesità, tali da compromettere anche gravemente il decorso della malattia virale in senso negativo nelle terapie intensive italiane.

Quindi essendo nella maggior dei casi ridotto o eliminato il rischio di polmoniti interstiziali registrate dal primo Covid e da Delta, e considerando che la popolazione immunizzata con una o due dosi, o guarita da sei mesi, in Italia ha superato il 90%, e pur venendo meno la copertura del contagio per chi si è vaccinato da almeno 5 mesi, e il rischio di ospedalizzazione resta relativamente basso, perché si continua a morire in modo così anomalo ed elevato vista l'evidenza dei dati scientifici ed epidemiologici in atto?

Questo non significa che 200mila casi positivi al giorno non rappresentino un dato di cui preoccuparsi, ma quello che risulta allarmante sono i dati dei decessi che vengono attribuiti ancora solo ed esclusivamente al Covid, perché se i contagi sono così alti e così diffusi ovunque, negli ospedali oltre ai medici e agli infermieri si contagiano sicuramente anche i pazienti più fragili ricoverati per altre patologie gravi e potenzialmente letali, che però una volta deceduti vengono classificati come morti Covid.

Una conta e un calcolo che a ragione il prof Alberto Zangrillo ha definito "criminale" nella modalità, per la falsa allerta che produce e soprattutto perla erronea comunicazione di dati epidemiologici di tale importanza statistica e soprattutto umana.

La scienza in questi mesi è stata fin troppo umiliata e minata da una disinformazione abbondante nei contenuti e nei principi scientifici da troppe persone diverse che si sono alternate a comunicare i propri convincimenti in disaccordo tra loro, e il Covid troppo spesso è stato affrontato con una crisi di condivisione unitaria senza precedenti, al punto da mettere in dubbio i principi scientifici che sono sempre stati e restano il fondamento della medicina e della ricerca, quelli che a fatica stanno traghettando il nostro Paese da una fase pandemica letale ad una endemica mite e senza complicanze a distanza.

Una riflessione profonda su tale fenomeno mortale evidenziato diventa imperativa per calmierare il Paese e restituire la fiducia nella scienza e nelle Istituzioni ai troppi cittadini ancora smarriti, storditi, impauriti ed incerti sul loro futuro sanitario, sociale, lavorativo e personale.

·        Il Contagio.

Covid, contagi 10 volte più dell’anno scorso. Quali rischi corriamo per Natale? Milena Gabanelli e Simona Ravizza su Il Corriere della Sera l’11 dicembre 2022.

Dopo quasi tre anni siamo tutti davvero molto stanchi, e sentire ancora parlare di Covid è sfibrante. La situazione attuale però suscita degli interrogativi che meritano risposte, anche per orientare i nostri comportamenti in vista delle resse natalizie. L’obiettivo è capire quali rischi ci sta facendo realmente correre oggi la corsa indisturbata del virus.

La definiamo così perché non ci sono più misure di contenimento, mentre nello stesso periodo del 2021 era obbligatorio l’uso della mascherina e serviva il green pass per andare a lavorare, salire su un treno, o andare al ristorante. La conseguenza è che nel solo periodo ottobre-novembre 2022 sono stati notificati quasi 2 milioni di casi, contro i 300 mila degli stessi mesi del 2021. Un numero peraltro sottostimato poiché adesso l’identificazione e la notifica di casi positivi è limitata a causa dell’utilizzo massiccio di test fai da te, i cui esiti non vengono comunicati alle autorità sanitarie. Al contrario i dati del 2021 si riferiscono al periodo di circolazione della variante Delta, quando il tracciamento dei contatti (pur con tutti i limiti ormai noti) era ancora sistematico. Vuol dire che la diffusione del virus oggi con la variante Omicron BA.5 è almeno 10 volte superiore a quella dello stesso periodo dello scorso anno. Sappiamo, però, che i rischi della sua circolazione devono preoccuparci nella misura in cui il Covid ci porta al ricovero in ospedale, in Terapia intensiva o al decesso. E allora vediamo cosa ci dicono i numeri.

I ricoveri in ospedale: raddoppiati

Utilizziamo gli ultimi dati disponibili che ci permettono di fare dei confronti significativi a livello statistico. A fine novembre di quest’anno erano ricoverate 8.179 persone, con un tasso di occupazione dei 63.649 posti letto del 12,9% (qui il documento). Nello stesso periodo del 2021 erano 5.227, con un tasso di occupazione dei posti letto del 9% (qui il documento).

Tra ottobre e novembre i ricoveri non sono mai scesi in media sotto i seimila, il doppio rispetto agli stessi mesi del 2021

Ma perché nonostante ci siano più ricoveri, l’allerta rispetto all’anno scorso è decisamente meno alta? È solo una questione di cambio di governo, con Giorgia Meloni e Matteo Salvini che hanno sempre criticato l’allarmismo.

Le Terapie intensive: pazienti dimezzati

Se la circolazione del virus è fino a 10 volte maggiore dello scorso anno e i ricoveri sono proporzionalmente il doppio, la conclusione che si può trarre è che il virus è meno aggressivo. È una supposizione confermata guardando cosa succede nelle Terapie intensive. Sempre a fine novembre si contano 289 ricoverati in Rianimazione, con un tasso di occupazione dei 9.180 posti letto al 3,1% (qui il documento). Nel 2021 erano 683, con un tasso di occupazione in Terapia intensiva al 7,5% (qui il documento). E in generale, sia per ottobre sia per novembre, i ricoveri in Rianimazione si confermano la metà rispetto allo stesso periodo 2021. Non è azzardato, dunque, sostenere che i casi sono meno gravi, tant’è che meno pazienti finiscono in Terapia intensiva.

L’efficacia incontrovertibile dei vaccini

Non è possibile sottovalutare l’effetto-vaccino. Ancora una volta sia i ricoveri in area medica sia quelli in Terapia intensiva di persone positive al Covid riguardano soprattutto chi non si è vaccinato. Tra i non vaccinati fra i 60 e 79 anni finiscono in ospedale in 75 su 100 mila, e in Terapia intensiva 5 su 100 mila. Tra i vaccinati finiscono in ospedale 30 su 100 mila, e in Terapia intensiva 2 su 100 mila. Tra gli over 80 non vaccinati, sempre su 100 mila, gli ospedalizzati arrivano a quasi 600, e 15 in Terapia intensiva, contro i 120-150 vaccinati in ospedale e i 2-3 in Terapia intensiva (a seconda se sono passati o meno 120 giorni dal vaccino o dal contagio).

I morti in aumento: come spiegarli?

Questo ragionamento supportato dall’evidenza dei dati va però, almeno a prima vista, a scontrarsi con il numero di morti.

A novembre sono stati 2.300 contro i 1.600 del novembre 2021; e lo scorso ottobre 2.100 contro i 1.100 dell’ottobre 2021. Il numero di decessi, dunque, è aumentato in modo impressionante anche se non fa praticamente più notizia

Domanda: perché muoiono più persone se il virus è meno aggressivo? Le spiegazioni dei numeri in crescita possono essere almeno due.

La prima: abbiamo già visto come la scelta dell’Istituto superiore di Sanità, in linea con le disposizioni internazionali, è di conteggiare come morto di Covid anche un malato oncologico con polmonite e tampone positivo (qui il Dataroom del 27 gennaio 2021).

La seconda: come dimostrato da uno studio dell’Iss oltre un decesso su due per Covid riguarda un paziente non ricoverato in Terapia intensiva (qui il documento).

In sintesi: il numero di morti è spropositato perché non sono tutti morti per Covid ma ci sono anche morti con Covid che, in ogni caso, possono non essere passati dalle Terapie intensive. L’esperienza ci ha insegnato che chi è molto compromesso di salute nella maggior parte dei casi non viene ricoverato in Rianimazione perché intubarlo servirebbe solo a farlo soffrire ulteriormente. Sono due motivazioni valide che però non bastano da sole a giustificare il fenomeno. Dobbiamo guardare cosa ci dicono i dati sui decessi. Tra i 60 e i 79 anni riguardano 8 persone su 100mila non vaccinate contro le 2-3 su 100 milavaccinate. Per gli over 80 salgono a 180 fra i non vaccinati, contro i 15-30 di vaccinati. Questa differenza sta a indicarci che il Covid è comunque una causa fondamentale di morte, tant’è che chi si protegge contro il virus vaccinandosi muore di meno anche in età avanzata.

Qual è la situazione reale

Proviamo a rimettere in fila tutti i dati per arrivare ad una conclusione. Il Covid sta correndo velocissimo e decisamente di più dello stesso periodo dello scorso anno; il numero di ricoveri è in crescita ma in proporzione meno rispetto alla diffusione dei casi positivi: da qui si deduce che il virus è meno aggressivo. Chi sta bene di salute ed è vaccinato davanti a un virus meno cattivo rischia meno rispetto all’anno scorso come confermano i dati sulle Terapie intensive. Mentre i morti sono in aumento perché il virus, circolando di più, fa finire in ospedale soprattutto i più fragili che in alcuni casi muoiono senza passare dalla Rianimazione dove solitamente non viene ricoverato chi è già in età avanzata e con un quadro clinico compromesso (meno ricoveri in Rianimazione). In sostanza i fragili, e a maggior ragione se non vaccinati, sono le vittime di questa ennesima ondata. Ovviamente per averne la certezza servirebbe l’analisi dettagliata su chi finisce in ospedale e sulle reali cause di morte: per fare studi di questo tipo però è necessario incrociare numerose banche dati che purtroppo per come sono costruite oggi in Italia non dialogano fra loro in tempo reale. In ogni caso, la banca dati Eurostat che arriva fino a settembre 2022 continua a segnare un eccesso di mortalità rispetto al 2016-2019: vuol dire, per esempio, che ancora nel mese di settembre è morto il 7,2% in più di popolazione rispetto alla media dei 4 anni precedenti senza il Covid. Tirando le somme questo è il tributo di vite umane che stiamo pagando per il nostro ritorno alla normalità (qui il documento).

Mascherine a portata di mano

In questo contesto conviene non ignorare le conseguenze, abbondantemente dimostrate, legate al long-Covid e quelle (magari da studiare ancora un po’) legate ai possibili rischi delle reinfezioni (qui il documento Iss). Come non è da sottovalutare il fatto che la protezione contro l’infezione si indebolisce con il passare del tempo. E questo vale sia per chi si è vaccinato che per i soggetti che hanno contratto Omicron BA.1 e BA.2 a inizio anno e BA.5 in estate. E allora se vogliamo proteggere noi stessi e i più fragili dobbiamo usare gli unici scudi disponibili: il vaccino e le mascherine. Già, le mascherine…chea pensarci bene non sono poi così odiose visto che fanno barriera anche contro l’impennata di raffreddori.

Immunità, vaccini ed eventi avversi: uno studio italiano sul Journal of Clinical Medicine. Iris Paganessi su L'Indipendente il 28 ottobre 2022. 

Il Journal of Clinical Medicine ha pubblicato uno degli studi sull’immunità naturale da Covid-19 più completi di sempre. Gli autori della ricerca hanno analizzato ogni aspetto dell’immunità naturale, quindi la sua durata post Covid-19 e post-vaccinazione; i vari tipi di immunità; la probabilità di reinfezione e le sue manifestazioni cliniche nei pazienti guariti, confrontando anche i vaccinati e i non vaccinati; l’efficacia dell’immunità naturale e indotta dal vaccino contro la variante di Omicron; infine l’incidenza degli effetti avversi dopo la vaccinazione in soggetti guariti rispetto a soggetti naïve (che non hanno avuto precedenti esposizioni terapeutiche ad uno specifico farmaco) al COVID-19.

Per realizzarlo sono stati analizzati 246 articoli scientifici relativi alla letteratura COVID-19, pubblicata da aprile 2020 a luglio 2022. Quella utilizzata dai ricercatori, è una metodologia molto consolidata a livello scientifico. Si tratta della revisione di letteratura narrativa, una modalità di ricerca attraverso la quale gli studiosi cercano sui vari database una serie di articoli scientifici e ciò che è pertinente – a prescindere dalle conclusioni che riporta – viene inserito nella ricerca, che si conclude con una discussione critica di quanto emerso. Lo studio dei ricercatori è stato poi inviato dal Journal of Clinical Medicine a tre revisori, due dei quali non hanno suggerito alcuna modifica, mentre uno ha chiesto di specificare meglio alcune parti ma senza alcuna modifica sostanziale ai metodi e ai contenuti già esistenti. Va sottolineato che, per questioni di trasparenza, il processo di revisione è consultabile sull’articolo.

L’obiettivo dei ricercatori era quello di far chiarezza, valutando il più alto numero di studi possibile, sull’efficacia e sulle differenze che riguardano immunità naturale, immunità indotta e ibrida (soggetti vaccinati affetti da COVID-19) e di evidenziare lo sviluppo e la conseguente efficacia di questi tipi di immunità all’interno della popolazione generale, per risolvere le numerose incertezze che ricoprono l’argomento.

Dallo studio, pubblicato il 25 ottobre 2022, è emerso che la stragrande maggioranza degli individui, una volta guariti dal COVID-19, sviluppa un’immunità naturale efficace nel tempo e che fornisce protezione sia contro la reinfezione (anche in caso di varianti) che contro malattie gravi. È stato dimostrato, inoltre, come l’immunità indotta dal vaccino decada più velocemente di quella naturale e che in generale, la gravità dei sintomi della reinfezione è significativamente inferiore rispetto all’infezione primaria, con un minor grado di ricoveri ospedalieri (0,06%) e una mortalità estremamente bassa. 

In un’intervista rilasciata a L’Indipendente, la dottoressa Sara Diani – prima firmataria dello studio -, ha sottolineato come «Tra i guariti, il rischio di sviluppare effetti avversi in seguito alla vaccinazione è del 50% in più rispetto agli individui non guariti. Conseguentemente, a fronte di quanto emerso, andrebbe rivalutato il rapporto rischio-benefici di questo farmaco sulle persone e anche il rapporto benefici-costi che il nostro Paese andrebbe a sostenere in caso di inoculazioni superflue. In un momento storico come quello che stiamo vivendo di crisi economica, quindi, utilizzare dosi per chi non ne ha bisogno sarebbe uno sperpero di denaro oltre ad essere un rischio per gli individui già guariti».

Immunità naturale e da vaccino a confronto

L’analisi della letteratura svolta dai ricercatori riguardante l’immunità naturale (post-COVID-19), ha evidenziato una serie di risultati che indicano una buona protezione immunologica nella stragrande maggioranza degli individui. Gli anticorpi protettivi e le cellule della memoria immunologica sono stati trovati in molti studi con follow-up da 12 a 18 mesi dopo la guarigione, e la loro presenza è stata dimostrata ancora più prolungata con l’allungamento dei tempi di osservazione. In particolare, una ricerca svedese con un follow-up dopo l’infezione naturale fino a 20 mesi ha mostrato un tasso di protezione del 95% dall’infezione e dell’87% dall’ospedalizzazione, in coloro che non hanno aggiunto vaccinazioni.

L’immunità indotta dal vaccino, invece, ha dimostrato di decadere più velocemente dell’immunità naturale (post-COVID-19). Questo tipo di protezione è molto buona dopo i primi 14 giorni, tuttavia tende a diminuire rapidamente nei mesi successivi, quasi scomparendo circa cinque mesi dopo la seconda dose. In generale, sembra che l’infezione da SARS-CoV-2 abbia fornito una protezione maggiore rispetto a quella offerta dal vaccino monodose o doppia/tripla.

Inoltre, a causa della risposta immunitaria in seguito all’infezione da COVID-19, l’ulteriore somministrazione di dosi di vaccino, soprattutto dal secondo in poi, non porta a un miglioramento significativo dell’immunità. Anzi, a causa delle ripetute vaccinazioni c’è la possibilità che si verifichino una serie di meccanismi patologici correlati alla disimmunità.

Immunità ibrida

Per quanto riguarda l’immunità ibrida, è disponibile un livello inferiore di evidenza per la letteratura sulla efficacia di quest’ultima, poiché i risultati degli studi sono talvolta contraddittori. “Sono pertanto necessarie ulteriori indagini, considerando che gli eventi avversi locali e sistemici post-vaccino sono superiori rispettivamente del 40% e del 60% in soggetti esposti con una precedente storia di infezione da SARS-CoV-2.” affermano i ricercatori.

Considerazioni

Gli autori, nella conclusione dello studio, hanno commentato così i risultati ottenuti: “La vaccinazione degli individui guariti dovrebbe essere rivalutata, poiché sembrano mostrare un’immunità naturale più efficace e duratura rispetto a quella indotta dal vaccino, come è già noto per altre malattie infettive. Anche se, molto probabilmente, la definizione del profilo immunologico dell’individuo verso il SARS_CoV-2 aiuterebbe a personalizzare un processo decisionale preventivo/terapeutico migliore, sempre in combinazione con il quadro clinico e il background anamnestico.”

Continuano ad affiorare, dunque, verità fino ad ora negate o ignorate. Dopo le ammissioni di Pfizer riguardanti i vaccini mai testati sul blocco della trasmissione e le verità sulle terapie precoci, anche quelle riguardanti immunità naturale ed effetti avversi stanno iniziando ad emergere. [di Iris Paganessi]

Donatella Zorzetto per lastampa.it il 16 agosto 2022.

Vi sentite bene, senza sintomi che facciano lontanamente pensare al Covid. In questi ultimi due anni e mezzo avete avuto parenti e amici contagiati, magari casi anche gravi. E invece voi vi sentite bene. Ma siete proprio sicuri di non aver mai incontrato il Covid sulla vostra strada? Gli esperti, virologi ed epidemiologi, si stanno interrogando sulle due facce del fenomeno: le persone che, test alla mano, Sars-Cov2 effettivamente non l'hanno mai sperimentato, unite a quelle che non hanno avuto sintomi e perciò sono convinte di esserne rimaste fuori. Sbagliandosi.

Le prove scientifiche

Una quantità crescente di prove scientifiche suggerisce che milioni di persone in tutto il mondo, tra cui centinaia di migliaia di italiani, sono state infettate dal virus senza mai saperlo, proprio perché non avevano sintomi o si trattava di casi lievi, tanto da indurle a pensare a un raffreddore o ad un'allergia. Il risultato? Questi casi silenziosi di Covid riflettono un lato nascosto della pandemia che potrebbe aiutare i ricercatori a guidare nuovi picchi e varianti virali. Come pure quelle persone che sono effettivamente riuscite a evitare del tutto l'infezione. Gli specialisti in malattie infettive affermano che entrambe le categorie - quelli inconsapevolmente infettati dal Covid e le persone che hanno evitato del tutto il virus - hanno un peso importante per la salute pubblica.

Ecco quanti hanno fatto i conti con il virus

Ma quanti sono, ad oggi, gli uomini, le donne e i bambini colpiti da Sars-Cov2? Al 9 agosto (dati del ministero), erano 585.421.147 i casi di Covid registrati in tutto il mondo e 6.420.315 i decessi. In Italia, il totale delle persone che hanno contratto il virus era di 21.325.402 (36,15%), mentre i deceduti 173.249. Inoltre, nel mondo ad oggi sono state somministrate oltre 12,01 miliardi di dosi di vaccino sono state somministrate nel mondo. Gli Usa, su questo fronte, fanno da esempio. Il coordinatore Covid per la Casa Bianca Ashish Jha, ha affermato che oltre il 70% della popolazione degli Stati Uniti ha avuto il virus, secondo gli ultimi dati del Cdc.

Dato in aumento rispetto al 33,5% del dicembre scorso

Ma il numero effettivo di persone che negli Stati Uniti è stata infettata si ritiene sia molto più alto se contiamo gli asintomatici non segnalati. Sin da inizio pandemia, i ricercatori hanno cercato di quantificare questi casi nascosti, ma l'entità della cifra è andata via via aumentando. "È sicuramente vero che alcune persone hanno avuto il Covid e non se ne rendono conto - ha sottolineato Stephen Kissler, ricercatore di Malattie infettive alla Harvard T.H. Chan School of Public Health - . È potenzialmente una buona notizia: testimonia che c'è più immunità nella popolazione di quanto ci rendiamo conto". 

Gli studi sugli asintomatici

Nel settembre 2020, uno studio pubblicato negli Annals of Internal Medicine, ha stabilito che "circa il 40-45% delle persone infette da SARS-CoV-2 è asintomatico". Mentre un'analisi di follow-up di 95 studi, pubblicata nel dicembre 2021, ha raggiunto risultati simili, stimando che oltre il 40% delle infezioni da Covid non presentava una sintomatologia. 

Per gestire meglio la questione, i funzionari del Cdc hanno lavorato insieme alla Croce Rossa americana e ad altre banche del sangue, tracciando gli anticorpi Covid (proteine che l'organismo produce dopo l'esposizione al virus per combattere un'infezione) nei donatori che hanno dichiarato di non aver mai essere state colpite dal virus.

Il monitoraggio sui donatori del sangue

I primi risultati del monitoraggio sui donatori di sangue (su 1,4 milioni di donazioni) rivelano che il numero di chi ha anticorpi generati dall'infezione Covid è aumentato nei donatori di sangue dal 3,5% nel luglio 2020 ad almeno il 20,2% nel maggio 2021. Da allora, quelle percentuali sono cresciute vertiginosamente, in parte a causa dell'introduzione di vaccini, che favoriscono la produzione di anticorpi. E i risultati più recenti testimoniano che l'83,3% dei donatori nel sangue ha una combinazione di anticorpi, indotti sia dall'infezione Covid, che dal vaccino. 

Quelli che non si infettano

Poi ci sono quelli che non si infettano. Anche in questo caso i ricercatori hanno avviato studi e monitoraggi. Premesso che alcuni lavori hanno accertato come alla 'protezione immunitarià possano contribuire il profilo genetico di una persona, l'esposizione passata ad altri virus, le allergie e persino farmaci che si assumono per altre patologie, i super immuni al Covid hanno sicuramente una marcia in più. Diverse ricerche recenti hanno suggerito che alcuni tratti genetici e del sistema immunitario possono proteggere meglio questo gruppo di persone dal Coronavirus, rendendole meno propense di altre ad essere infettate o gravemente malate.

C'è chi resiste a vaiolo ed ebola

"In tutte malattie infettive c'è sempre una quota di persone naturalmente resistenti all'infezione - conferma Fausto Baldanti, che da mesi analizza le varianti Covid nel Laboratorio di Virologia Molecolare del policlinico San Matteo di Pavia -. Chi sono? Molti report riguardano individui che, avendo strettissimi contatti con persone infette, non si infettano a loro volta. Parlo di nuclei familiari in cui uno su tanti viene risparmiato dal virus, nel senso che non ce n'è proprio evidenza, non che si tratti di asintomatici. Quindi per tutte le malattie infettive c'è una quota di resistenti. Anche quelle più terribili non uccidono il 100% delle persone coinvolte: il vaiolo, ad esempio, ha una mortalità dell'80%, l'ebola del 90%". 

I fattori naturali che azzerano il contagio

Ma quali sono i meccanismi che danno protezione naturale contro i virus, Covid compreso? "Sono due - risponde Baldanti - la prima è la presenza di un'immunità preesistente, crociata da infezioni similari. Alcune persone, ad esempio, hanno resistito al Covid perché avevano contratto una precedente infezione dovuta ad altri Coronavirus. In pratica, l'aver contratto qualcosa di simile al Covid conferisce una protezione perché ha generato una risposta crociata. Io ne sono l'esempio, perché da un campione di sangue che avevo prelevato tre anni fa e poi conservato, ho scoperto di aver prodotto una risposta immunitaria contro il Covid. In pratica avevo contratto un Beta Coronavirus umano che si chiama HKU1. Si stima che il 25-30% delle persone che non prendono il Covid abbia una risposta T-Cellulare residuale provocata da un'infezione con un virus parente. Dunque questo può proteggere dalla nuova infezione o determinarne di lievi o asintomatiche".

Super immuni e asintomatici come ci possono aiutare?

La storia medica e la genetica di una persona possono aiutare a stabilire il grado di rischio individuale rispetto a nuove malattie. Significa che "potremmo essere in grado di aiutare a identificare le persone che sono particolarmente ad alto rischio di infezione", sottolinea Kissler. "Questa conoscenza - prosegue l'infettivologo - potrebbe aiutare quelle stesse persone a proteggersi meglio dal contagio e ad ottenere un accesso più rapido al trattamento e ai vaccini. Sono in corso studi al riguardo".

Anche Amesh Adalja, specialista in Malattie infettive al Johns Hopkins Center for Health Security di Baltimora, concorda sul fatto che "la ricerca emergente su persone che hanno evitato l'infezione offra la possibilità di nuove strategie di salute pubblica per combattere il virus".

Perché è importante per la salute pubblica

Qundi perché è così importante indagare su positivi asintomatici e immuni al Covid? La risposta la danno gli stessi ricercatori: "Le persone  - spiegano  - hanno maggiori probabilità di cautelarsi se sanno che il numero di contagiati è alto nel luogo in cui vivono e lavorano". E concludono: "Al contrario, se credessero che i positivi al virus residenti nelle loro comunità fossero in numero inferiore rispetto alla realtà, avrebbero meno probabilità di essere vaccinati e protetti. Senza contare che si sentirebbero legittimati a non indossare mascherine al chiuso, a frequentare spazi interni affollati e ad evitare altre precauzioni per difendersi dall'infezione".

Massimo Sideri per corriere.it il 30 luglio 2022.

Per la prima volta un team scientifico thailandese che ha pubblicato su Emerging Infectious Diseases ha certificato con quelle che definisce essere «solide evidenze» il passaggio del virus Sars-Cov2 da un gatto a una persona, una veterinaria. 

«Sapevamo da due anni che era una delle possibilità» ha commentato su Nature Angela Bosco-Lauth, una scienziata della Colorado State University. Era la seconda paura dei tanti proprietari dei gatti in giro per il mondo: che gli amici casalinghi potessero trasmettere il virus all’uomo. La prima era che potessero ammalarsi essi stessi.

In realtà che i gatti potessero prendersi il virus senza sviluppare particolari problemi era già emerso. E dei casi sospetti di passaggi all’essere umano erano già stati studiati negli allevamenti in Europa e in America di altri animali, come i visoni. In particolare i gatti si sono passati il Sars-Cov2 tra comunità feline già diverse volte. 

Ma il «salto» di specie verso l’uomo cambia chiaramente le prospettive: il gatto entra così tra le specie che possono fare da veicolo anche se il livello di rischio è molto basso secondo gli esperti.

Il motivo è facile da comprendere: vista la diffusione enorme di gatti nelle case come animali di compagnia (quasi dei familiari) in tutto il mondo è evidente che il passaggio è da considerarsi un evento molto raro. 

Nel caso studiato dal team le evidenze sono molto solide: una famiglia che si era ammalata di Covid19 ha portato il gatto dalla propria veterinaria. L’animale le ha starnutito in faccia e dopo tre giorni lo stesso medico ha sviluppato la malattia senza che nessuno del suo cerchio di familiari, amici e colleghi lo avesse.

A quel punto è sorto il sospetto e le analisi ulteriori hanno confermato che aveva sviluppato la malattia dalla stessa variante di virus che risultava nel gatto.

Il gatto che ha trasmesso il Covid, Capua: «Il problema è l’effetto domino che potrebbe crearsi nel regno animale». Massimo Sideri su Il Corriere della Sera l'1 luglio 2022.  

«Siamo all’inizio di un macrociclo di circolazione virale: come una cascata che va a raccogliersi in molte pozze. Bisogna vigilare sul vaiolo delle scimmie»

Per la prima volta degli scienziati thailandesi che hanno pubblicato su «Emerging Infectious Diseases» e sono stati rilanciati da «Nature» hanno certificato con solide evidenze il passaggio del virus Sars-Cov2 da un gatto a una veterinaria. Si stima che nel mondo ci siano 220 milioni di gatti domestici, ma proprio questa diffusione sembra dirci che dovremmo essere di fronte a un evento molto raro. Professoressa Ilaria Capua, ci dobbiamo preoccupare?

«Non vi preoccupate: è altamente improbabile che vi prenderete il Covid-19 dal gatto di casa. Non solo perché è un’evenienza molto rara, ma perché è stato un caso di reverse spillover: il gatto ha preso il virus dall’homo sapiens e lo ha ritrasmesso con uno starnuto. Che i gatti potessero infettarsi lo sapevamo perché anche i grossi felini, sia tigri che leoni, hanno preso il virus. Chiaro che se un felino si infetta e vi è intensa replicazione virale in corso ti puoi prendere l’infezione, soprattutto se dorme sul tuo cuscino».

In sostanza non si tratta di un virus modificato ma dello stesso virus che circola tra di noi e che ha usato il gatto come passeggero. E in ogni caso è un’eccezione.

«Quello che bisogna comprendere è che questo virus non infetta solo l’homo sapiens ma circa 50 specie di animali, anche se nella stragrande maggioranza di questi casi il virus è autolimitante, si estingue senza grosse conseguenze per l’animale e senza allargare il contagio. In poche parole, tranne alcune eccezioni, l’animale non è un amplificatore».

Ci fa qualche esempio?

«È accertato che i cani lo hanno preso, come anche gli ippopotami e i criceti. Ma non ci sono evidenze di un ritorno del Covid-19 all’essere umano. Preoccupa invece che cervi con il virus sono stati trovati in oltre venti stati americani. E almeno in un caso è stato accertato il successivo passaggio dal cervo all’uomo. D’altra parte ricordiamo che una delle teorie sulla variante Omicron era che fosse emersa in Sudafrica dopo essere circolata tra gli animali, anche se non è mai stato confermato».

Ha detto nella stragrande maggioranza dei casi… dunque c’è una minoranza di casi in cui le cose potrebbero non andare nel verso giusto…

«Siamo all’inizio di un macrociclo di circolazione virale: come una cascata che va a raccogliersi in molte pozze. Dobbiamo aspettarci che gli animali si infettino e dobbiamo stare attenti perché il problema è che se il virus si endemizza in una popolazione di animali, a quel punto si potrebbero selezionare virus antigenicamente diversi. Come potrebbero tornare indietro? Non lo sappiamo, ma potrebbero anche essere più aggressivi. Ciò che deve preoccuparci è la magnitudo del fenomeno. Purtroppo non è finita. Il virus continua a girare — e questo lo stiamo vedendo — e il problema non è il gatto ma l’effetto domino che potrebbe crearsi nel regno animale».

Cosa fare?

«Aumentare la sorveglianza: bisogna andarlo a cercare in maniera più efficiente tra le popolazioni animali. Il fatto che il virus possa giocare a ping pong tra esseri umani e animali e animali ed esseri umani ci deve far capire che potrebbero emergere varianti che daranno del filo da torcere, ancora. Anche con il vaiolo delle scimmie che ha come ospiti i roditori, non tanto le scimmie tra l’altro, dobbiamo evitare errori».

Qual è la connessione?

«Che la prevenzione delle malattie passa attraverso i comportamenti, ma anche attraverso l’approccio culturale. Tra gli esseri umani abbiamo circa 5.000 casi. Ma a causa dello stigma che si è generato intorno a questa malattia, perché circola tra chi è sessualmente promiscuo, il risultato è che c’è un po’ di imbarazzo nell’andare dal medico. E allora può succedere che se ti metti il cerotto sulle lesioni, e poi lo getti nella spazzatura e questo entra in contatto con un roditore ecco che anche il vaiolo delle scimmie si può endemizzare nei roditori europei. Negli Usa stanno rispondendo all’emergenza rendendo disponibile un vaccino a chi ne faccia richiesta». Prevenire, non inseguire.

Covid, quante volte ci si può infettare? Fino a quattro volte all'anno. Donatella Zorzetto su La Repubblica il 23 maggio 2022.  

Il caso di reinfezione più veloce presentato a Lisbona: una operatrice sanitaria contagiata due volte in un mese. Perché Omicron dribbla l'immunità da vaccino e da malattia per altre varianti. Pregliasco: "Covid non è stagionale, come l'influenza".

Il caso clinico che testimonia la rapidità e frequenza dell'infezione da SARS-CoV 2 c'è, ed è stato presentato durante il congresso Europeo di Microbiologia clinica e Malattie infettive tenuto a Lisbona il 26 aprile scorso. E' il caso di una 31enne colpita dal virus per due volte a distanza di 20 giorni. La donna, vaccinata, è stata prima bersagliata dalla variante Delta e poi da Omicron.

Paolo Russo per “La Stampa” il 17 maggio 2022.

Le temperature salgono e i contagi scendono, ma la bella stagione potrebbe essere meno solare di quel che ci si aspetta per via dei «Covid mascherati», i circa 150 mila positivi sommersi dei test «fai da te». Quelli che per non perdere la giornata di lavoro o magari solo la partita allo stadio non fanno sapere a nessuno che nel display del test casalingo di barrette ne sono apparse due. Che fino a prova contraria imporrebbero di starsene a casa in isolamento fino a un tampone che accerti la riconquistata negatività.

Una regola che infranta, ancora oggi, equivale al commettere un reato penale. Impossibile da accertare, si dirà. Ma resta il fatto che andandosene spensieratamente in giro con il virus al seguito si mettono a rischio circa 9 milioni di fragili tra over 80 e immunodepressi, che nemmeno con il vaccino possono dirsi al sicuro. 

Secondo i farmacisti, ormai di test salivari e antigenici in formato domestico «se ne vendono più di quanti non siano i tamponi eseguiti quotidianamente in farmacia», ammette il presidente della Federfarma friulana, Luca De Grassi. Un po' di calcoli li ha fatti il professor Massimo Ciccozzi, responsabile di statistica medica ed epidemiologia molecolare all'Università Campus Bio-Medico di Roma. «Complessivamente si può stimare un abbondante 50% di casi sommersi: visti i 286 mila dell'ultima settimana, fanno circa 150 mila positivi, con un 15% che nasconde di esserlo, più un 30-35% di falsi negativi, perché non sanno fare correttamente un tampone».

«I test vanno eseguiti da personale istruito a farli, infermieri professionisti o farmacisti che hanno fatto dei corsi specifici. A casa invece per paura di farsi male molti fermano il tampone alla narice e così il risultato è chiaramente falsato», spiega a sua volta Roberto Tobia, segretario nazionale di Federfarma, la federazione dei titolari di farmacia.

«I test in sè sono abbastanza affidabili, siamo oltre il 90% di attendibilità, ma fatti in casa la percentuale scende al 50%. Noi continuiamo a consigliare di eseguire i test in farmacia o nei laboratori, perché la tracciabilità resta fondamentale». 

La pensa così anche Ciccozzi. «La guerra ce l'ha fatto dimenticare ma il virus c'è ancora. Omicron 4 e 5 hanno in realtà più o meno la stessa contagiosità e patogenicità della variante originale - spiega ancora il professore - a con una letalità intorno allo 0,2%. Ma se ho 50 mila contagi conteremo 100 vittime, se lasciamo troppi positivi liberi di circolare e contagiare il prossimo i casi raddoppiano e così anche i morti. Per questo dobbiamo far capire che la tracciabilità resta fondamentale». 

Ma a volte l'interesse personale prevale su quello collettivo. Magari perché dichiarando la positività si finisce per perdere soldi, come nel caso di commercianti, liberi professionisti o lavoratori a chiamata. In certi casi però i motivi sono molto più futili, come ci racconta tra il divertito e l'indispettito sempre Ciccozzi. «Tempo fa incontro un mio amico allo stadio con la Ffp2 tirata su pur non essendoci più l'obbligo. Strano, mi dico, prima non la portava mai. Poi il giorno dopo manda un messaggio a tutti noi vicini di posto per dirci che era risultato positivo al test. Per me non voleva saltare il derby».

 Storie di ordinaria incoscienza. «Perché se mi contagio io, sano e vaccinato, poco male, ma se poi senza sapere di essere positivo il virus lo trasmetto a una persona anziana o a un malato oncologico - dice ancora il professore - ecco che il guaio diventa serio». Qualcuno dovrebbe andare a spiegarlo ai furbetti del tampone fai da te.

Silvia Turin per corriere.it il 15 maggio 2022.

Prendere due (o più volte) il Covid è raro ma possibile: a livello statistico le reinfezioni ufficiali sono monitorate dall’Istituto Superiore di Sanità (Iss) che considera automaticamente «reinfezioni» i casi di persone tornate positive a 90 giorni dalla prima diagnosi. Secondo l’ultimo monitoraggio, pubblicato venerdì in Italia, la percentuale di reinfezioni sul totale dei casi segnalati risulta pari a 5,8%, in aumento rispetto alla settimana precedente (il cui valore era 5%).

Le varianti presenti in Italia

La formidabile contagiosità di Omicron è una delle variabili da cui dipende il rischio di reinfezioni (la fondamentale). Le altre riguardano: quale vaccino si sia fatto, quale booster, da quanto tempo, con quale variante ci si sia infettati la prima volta, come reagisce l’organismo. In particolare, ogni variante di preoccupazione segnalata finora ha aumentato la sua capacità intrinseca di contagiare e, quindi, di sfuggire a immunità precedenti.

Secondo l’ultima indagine italiana (riferita al 3 maggio) BA.2 rappresenta il 93,83% tra le varianti Omicron e sono state rilevate 12 sequenze riconducibili a BA.4 e 6 sequenze riconducibili a BA.5, pari allo 0,47% e 0,41% del totale delle sequenze Omicron, rispettivamente. L’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) ha affermato che l’infezione con Omicron BA.1 fornisce una forte protezione contro l’infezione da BA.2, tuttavia sono stati documentati casi di reinfezione recente anche tra BA.2 e BA.1. 

«Diciamo che questo virus ci dimostra la sua capacità evolutiva che è quella di incrementare la sua contagiosità — spiega Fabrizio Pregliasco, virologo della Statale di Milano —. La sua instabilità gli sta permettendo di evolvere in nuove varianti che facilitano la capacità di saper “scappare” sia dall’immunità conferita dalla malattia, sia da quella data dalla vaccinazione».

Questa capacità di SARS-CoV-2 di reinfettare è sempre aumentata, finora, con l’arrivo delle nuove varianti?

«Sì, perché c’è una differenza consistente espressa ogni volta (da Alfa a Delta a Omicron) nelle caratteristiche dell’antigene, in particolare della Spike: questo è un po’ l’elemento che ci preoccupa, è la stessa cosa che viviamo negli antigeni dell’influenza: ogni anno aggiorniamo il vaccino e una quota di persone che hanno subito l’infezione nel passato ritornano a essere suscettibili. C’è quindi la necessità di rinforzare le difese immunitarie con richiami vaccinali aggiornati».

La perdita di immunità che porta alla reinfezione dipende sia dal tempo che passa dall’ultimo contatto con il virus, sia dallo status vaccinale (o di guarito) di ciascuno?

«Certo, e la modifica dell’antigene del virus ci fa perdere la capacità di rispondere in modo adeguato». 

Mentre l’influenza si può prendere al peggio una volta all’anno, il Covid attualmente si può prendere anche ogni tre mesi, è vero?

«Sì, questa è la conseguenza del vantaggio evolutivo del virus di cui abbiamo parlato. In questa fase è legata anche alla grande quota di infetti che circolano: con l’influenza abbiamo raggiunto un equilibrio, la quota di suscettibili non è molto elevata».

Qual è l’identikit della persona che si deve aspettare una reinfezione, che caratteristiche può avere?

«Non c’è certezza: non sono solo i più fragili, è chi ha occasioni di esposizione più frequenti e più a rischio, ma non vedo altre caratteristiche intrinseche predittive di una probabilità maggiore di ammalarsi di nuovo». 

La probabilità personale, però, dipende anche da alcuni fattori esterni come la vaccinazione?

«Sicuramente chi non è vaccinato rischia di più, o chi ha fatto il vaccino da molto tempo, o chi non si è mai ammalato di Covid. Il soggetto più “resistente” è l’infettato-vaccinato, poi ci sono alcune caratteristiche genetiche personali ancora oggi non completamente conosciute (e questo lo vediamo per tante malattie, come l’epatite C e l’Hiv), legate alla capacità della risposta cosiddetta cellulare, che fanno la differenza individuale».

Anche reinfettandosi, il rischio di avere conseguenze serie è molto diminuito?

«Il vantaggio evolutivo del virus è quello di andare verso la maggior contagiosità e non verso la maggior letalità. È esagerato, però, dire che il virus si è “raffreddorizzato”: alcuni dati ci dicono che si e ridotto di 1/3 rispetto alla patogenicità precedente di varianti come Delta, ma il minor impatto sulla gravità della malattia è legato soprattutto alla diffusione della vaccinazione». 

Si sta parlando tanto di aggiornare il vaccino in vista dell’autunno, risolverebbe il problema della perdita di efficacia dei vaccini dopo qualche mese?

«No, purtroppo sarà come con l’influenza, cioè dovremmo considerare la necessità di richiami vaccinali periodici (speriamo su base annuale, anche in termini di praticità). Mi immagino una campagna vaccinale sostanzialmente sovrapponibile a quella dell’influenza e una convivenza col virus che ci dovrà portare ad avere un atteggiamento “ragionevole” nel valutare i comportamenti da prendere, con un’arma fondamentale in più che sono i farmaci antivirali». 

Qual è il consiglio vista la situazione?

«Alle persone a rischio consiglio l’utilizzo di mascherine FFP2 e ancora attenzione ai contatti; per i soggetti non a rischio di valutare la frequentazione con eventuali soggetti fragili per non essere diffusori della malattia. La risposta generica banale, ma importante, è quella di continuare ad avere un po’ di attenzione nelle situazioni di assembramento e soprattutto di responsabilità nella gestione della propria eventuale positività». 

Per la quarta dose?

«In questo momento la quarta dose è importante per i fragili, perché, anche se il vaccino non è aggiornatissimo, quello che ci interessa è attivare le cellule T della memoria, che, grazie a questa esposizione, rendono più facile l’innesco della risposta immunitaria nel prossimo futuro».

 Covid, i numeri impressionanti della pandemia: un italiano su sei ha contratto il virus. Fabio Calcagni su Il Riformista l'11 Febbraio 2022 

Dall’inizio della pandemia di Coronavirus, iniziata ormai due anni fa, un italiano su sei ha contratto il virus. Lo dicono i numeri fornito oggi dal Ministero della Salute: sono infatti 10.089.429 i guariti all’11 febbraio, mentre i contagiati sono 11.991.109 e gli attualmente positivi al Covid-19 sono 1.751.125, in calo di 62.149 nelle ultime 24 ore.

Nel bollettino odierno si registrano invece 67.152 nuovi casi di coronavirus a fronte di 663.786 tamponi effettuati, con un tasso di positività che si attesta al 10,1%, in calo di un punto in confronto al dato di giovedì 10 febbraio. 

I morti odierni sono stati 334, che portano il totale dei decessi dall’inizio della pandemia a 150.555. Guarite 129.293 persone. Calano terapie intensive (-57) e ricoveri ordinari (-530).

Sono invece 1.265 i pazienti ricoverati attualmente in terapia intensiva con 100 ingressi giornalieri. I ricoverati con sintomi nei reparti ordinari sono 16.824.

Quanto ai ‘colori’ delle Regioni, da lunedì 14 febbraio la Sicilia passa dall’arancione al giallo mentre il Molise da zona bianca diventa gialla. 

L’analisi di Brusaferro

Commentando i dati del monitoraggio settimanale, il presidente dell’Istituto superiore di sanità Silvio Brusaferro ha spiegato che nel Paese la curva “continua a rallentare e siamo in una fase di chiara decrescita della pandemia ormai da alcune settimane, in quasi tutte le Regioni”.

Frenata che, aggiunge Brusaferro, ”tutte le fasce d’età” anche se “i più giovani restano interessati da una maggiore circolazione del virus”. 

Ma è ancora troppo presto per esultare. Malgrado infatti la decrescita dell’incidenza, nella trasmissibilità e nel numero dei ricoveri, “rimane comunque un forte impatto sui servizi territoriali e assistenziali”, ha aggiunto il numero uno dell’ISS. Per questo “è necessario continuare con il rigoroso rispetto delle misure comportamentali individuali e collettive”, ha ribadito Brusaferro, raccomandando “il completamento dei cicli di vaccinazione e il mantenimento di una elevata risposta immunitaria attraverso la dose di richiamo”.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

Alcuni scienziati inglesi hanno infettato dei volontari con il coronavirus. Ecco cosa hanno scoperto. ANDREA CASADIO su Il Domani l'8 Febbraio 2022.

Dei 34 individui inoculati col virus, solo diciotto, cioè il 53 per cento, si è infettato, ma la malattia li ha colpiti molto più rapidamente di quanto si pensasse

Alcuni scienziati inglesi hanno scelto 36 volontari giovani e sani e a ciascuno di loro hanno deliberatamente inoculato una piccola quantità, seppur pericolosa, di SarS-CoV-2 per studiare come si sviluppa e si evolve il Covid.

Dei 34 individui inoculati col virus, solo diciotto, cioè il 53 per cento, si è infettato, mentre sedici, il restante 47 per cento, anche se ha ricevuto il virus non è stato infettato e non ha avuto sintomi. 

Gli scienziati stanno continuando le loro ricerche per capire come mai così tanti dei soggetti ai quali hanno inoculato il Sars-CoV-2 non si siano infettati. 

ANDREA CASADIO. È medico, giornalista e autore tv. Ex docente universitario ed ex ricercatore di neuroscienze alla Columbia University di New York, ha partecipato agli studi sulla memoria che hanno permesso a Eric Kandel, capo del laboratorio, di ottenere il premio Nobel per la Medicina nell'anno 2000. Ha collaborato come inviato e autore televisivo a varie trasmissioni (Turisti per caso, Sciuscià, Velisti per caso, Annozero, Servizio pubblico, Piazzapulita).

Giampiero Maggio per La Stampa l'8 febbraio 2022.

Basta l’esposizione a una sola gocciolina nasale (il cosiddetto droplet invisibile ad occhio nudo) per essere infettati dal Covid-19. È il risultato emerso da uno studio che ha preso in esame un gruppo di volontari ai quali è stato somministrato un infinitesimo quantitativo di virus attraverso il naso. 

Ma perché questo lavoro è così importante? Intanto perché, per la prima volta, è stato monitorato il ciclo completo – dall’infezione alla guarigione – di un paziente. E poi diventano interessanti i risultati di questo lavoro, perché sono in grado di dirci come ci si infetta, il momento in cui si è più contagiosi e come si sviluppa la malattia.

Che cosa è emerso? Lo studio ha anche rilevato che le persone in genere sviluppano i sintomi molto rapidamente - in media, entro due giorni dall'incontro con il virus - e sono più contagiose cinque giorni dopo l'infezione. Christopher Chiu, dell'Imperial College di Londra, il ricercatore a capo del pool di lavoro che ha effettuato lo studio, spiega che «questo lavoro è stato condotto utilizzando un ceppo del virus prima che emergessero le varianti Alpha, Delta e Omicron». Ma che può dare importanti risposte nel contrasto all’ultima mutazione che si sta diffondendo nel mondo.

Chiu ha poi ricostruito i vari passaggi della ricerca spiegando che non ci sono differenze tra giovani e anziani e sottolineando di aver riscontrato «alcune intuizioni cliniche molto interessanti». Una volta somministrato forzatamente il virus è stato scoperto che «la carica virale nei tamponi prelevati dal naso o dalla gola dei partecipanti era molto elevata». Da questo elemento si deduce l’importanza dei test salivari e antigenici, i cosiddetti test rapidi per il riscontro dell’infezione. «Questi livelli hanno raggiunto il picco in media a circa cinque giorni dall'inizio dell'infezione – spiegano i ricercatori -, ma livelli elevati di virus in grado di infettare sono stati rilevati nei test di laboratorio fino a nove giorni dopo l'inoculazione, arrivando addirittura ad un massimo di 12 giorni».

Solitamente il tempo indicato per le quarantene nelle linee guida dei vari Paesi.  I risultati di questo lavoro sono stati pubblicati sul server di pre-stampa di Springer Nature e descrivono nel dettaglio i risultati di 36 partecipanti sani e giovani che non sono stati vaccinati. Tutti e 36 i volontari hanno sviluppato sintomi ma non in forma grave. 

Il primo punto in cui l’infezione compare è la gola e il virus raggiunge il suo picco massimo mediamente entro cinque giorni. Dove si riscontra la più alta carica virale non è in gola, ma nel naso. E, per questo, spiegano i ricercatori nello studio, il tampone nel naso e nella gola permette di riscontare con una elevata probabilità la presenza dell’infezione già durante i primi giorni. Ancora Chiu. «Anche se nei primi due giorni i test antigenici potrebbero essere meno sensibili, restano fondamentali per riscontrare la presenza dell’infezione».

I livelli di picco del virus – hanno scoperto i ricercatori - erano significativamente più alti nel naso che nella gola. «Significa che il rischio di infezione dal naso è potenzialmente maggiore rispetto alla bocca». Motivo per cui è fondamentale, concludono nello studio, indossare nel modo corretto la mascherina. Il The Guardian riporta le dichiarazioni del professor Sir Jonathan Van-Tam, vicedirettore medico dell'Inghilterra, ha dichiarato: «Questo studio ci fornisce ulteriori chiavi di lettura sul comportamento del Covid-19 e sulla sua diffusione della nuova variante in modo da poter trovare la risposta giusta per sconfiggerlo».

Mbl, i segreti della molecola chiave dell'immunità innata contro il Covid (e non solo). Sandro Modeo su Il Corriere della Sera l'8 Febbraio 2022.

Una ricerca italiana ha messo al centro dell'attenzione una molecola, Mbl, capace di incidere sulla nostra risposta innata al coronavirus. E decisiva in molti sensi: una sua sotto-espressione rende i bambini più vulnerabili alla sindrome di Kawasaki e a infezioni virali e batteriche. E il suo ruolo è determinante anche negli adulti

Modello dell’interazione tra la proteina Spike della variante Omicron e MBL

Giustamente si è molto parlato, in questi giorni, dell’esito di una ricerca italiana (pubblicata su Nature Immunology e coordinata dall’Istituto Humanitas e dall’Ospedale San Raffaele di Milano) sull’incidenza di una molecola specifica, l’Mbl (Mannose-Binding Lectin= Lectina legante il mannosio) nella nostra risposta immunitaria innata verso SARS-CoV-2. In particolare, su come Mbl possa legarsi alla proteina spike del patogeno (quella impiegata per entrare nelle nostre cellule attraverso i recettori ACE2) e bloccarla, e questo «a prescindere dalle varianti». 

«Abbiamo scoperto che Mbl, un antenato degli anticorpi, riconosce il virus e ha attività antivirale», ha detto il professor Alberto Mantovani. «La domanda che ci poniamo è: perché in alcuni l'immunità innata funziona e in altri no? Non tutti si ammalano e non tutti si ammalano in forma grave. Ci sono fattori che lo determinano: l'età, lo stile di vita, fumare o non fumare, essere in sovrappeso, e poi c'è una componente genetica. Chi ha varianti sfavorevoli di Mbl è più a rischio di avere la malattia grave. L'immunità innata è fondamentale anche per il cancro». 

Le implicazioni sono numerose e a più livelli:

- nell’individuare le predisposizioni genetiche quanto a suscettibilità / gravità della malattia (diverse varianti del gene che esprime Mbl si traducono in diverse risposte, più o meno funzionali);

- nell’eleggere Mbl a «marcatore» della gravità stessa, così come altri marcatori sembrano promettenti su altri tratti diagnostico-prognostici (la proteina Ptx3 rispetto al long-Covid);

— nel prefigurare possibili terapie, dato che — ricordava ancora il professor Mantovani nell'articolo del Corriere — si sta procedendo «a ottimizzare Mbl per capire se sarà possibile trasformarla in farmaco», come già avviene, peraltro, con l’uso clinico ben tollerato in soggetti con completo deficit genetico della proteina. 

Può essere allora utile, forse, approfondire la conoscenza di Mbl e della famiglia proteica delle lectine su vari piani (non solo immunologico, ma anche biologico-evoluzionistico, genetico e storico-biomedico), anche per certi aspetti e per certe microstorie sorprendenti che vi si nascondono. 

Il saggio è diviso in 5 parti:

1. La scoperta della «famiglia» di cui Mbl fa parte

2. Come funzionano gli «antenati degli anticorpi» (e la risposta dei virus)

3. Il polimofismo di Mbl: le varianti della molecola e l’impatto sulle malattie

4. Il legame tra Mbl e sindrome di Kawasaki, nei bambini

5. Il legame tra Mbl e coronavirus negli adulti 

1. Dalle piante «tossiche» al sistema immunitario: la scoperta della famiglia di Mbl

In un primo momento, tra fine ‘800 e inizio ’900, le lectine vengono identificate soprattutto nelle piante, in particolare due emagglutinine altamente tossiche, a opera di due allievi dell’insigne farmacologo tedesco Rudolf Kobert: nel 1888 Peter Hermann Stillmark isola dal ricino comune la ricina; tre anni dopo, Heinrich Hellin isola dall’abro — della famiglia del fagiolo — l’abrina. E se proprio nelle piante il loro ruolo resta elusivo e controverso (negli stessi legumi e nei cereali le lectine costituirebbero una difesa chimica contro gli insetti, di cui interrompono la funzionalità del tratto digerente), nel tempo emergono invece con sempre maggior precisione le loro funzioni regolatrici negli organismi animali, come nei casi dell’adesione cellulare, della sintesi glicoproteica e dei livelli di proteine nel sangue. 

In ambito immunologico, si interessa alle due lectine tossiche — «in tempo reale» — uno dei Padri fondatori della disciplina, Paul Ehrlich; ma una delle svolte-chiave avverrà con un altro di quei Padri, il Nobel australiano Frank Macfarlane Burnet, quando individua nel 1946 (con l’allievo John McCrea) la concentrazione sierica di tre inibitori del virus influenzale (α,β,γ), il secondo dei quali, a posteriori, verrà a coincidere proprio con Mbl, la «lectina legante il mannosio». Burnet, per inciso, è uno degli studiosi che più hanno contribuito a comprendere la discriminazione che svolge il nostro sistema immunitario tra i tratti molecolari propri dell’organismo (self) e quelli estranei (not-self). Mentre bisognerà aspettare un’altra trentina danni per vedere l’Mbl finalmente isolato nei mammiferi, prima nei conigli (1978) e poi nell’uomo (’83). 

2. Come funzionano gli «antenati degli anticorpi» (e quali sono le risposte dei virus)

Questa successione cronologica nella messa a fuoco delle lectine e di Mbl sembra quasi «doppiare» quella delle lontananze del «tempo profondo» dell’evoluzione: in origine, le lectine non sono proteine «immunitarie» (abbiamo visto alcune delle loro altre funzioni), ma vi vengono convertite successivamente, in coerenza col dettato del bricolage selezionistico che adatta certe strutture a nuove funzioni secondo le interazioni e le pressioni ambientali. Quel passaggio è comunque molto remoto, se le lectine sono ora comprese a tutti gli effetti tra i cosiddetti PRR o meglio PPRR (Primitive Patterns Recognition Receptor), i «recettori dell’immunità innata», apparsi molto precocemente lungo la linea evolutiva, ben prima degli anticorpi, di cui costituiscono un antenato funzionale. Tali pattern sono adibiti al riconoscimento di altri pattern altrettanto arcaici, i cosiddetti PAMP (Pathogen-associated molecular pattern= «pattern molecolari associati ai patogeni»), tratti biochimici contenuti in proteine e acidi nucleici di varie specie di microbi. Tra gli «antenati degli anticorpi» più noti — e più rilevanti — troviamo alcune proteine delle cellule dendritiche o i TLR (toll-like receptor), sensori molecolari che riconoscono certi PAMP e attirano in loco proteine in grado di bloccare la replicazione del patogeno, a partire dagli interferoni. 

L’azione di Mbl (e in generale delle lectine) è del tutto simile. 

Se il patogeno invasore esprime tratti riconosciuti — carboidrati e in particolare zuccheri, in questo caso il mannosio, un monosaccaride — la proteina attiva il cosiddetto «sistema del complemento», ovvero un insieme di poche decine di altre proteine tese a formare aggregati che perforano la membrana cellulare del bersaglio microbico e lo uccidono per lisi («scioglimento»). 

Senza dimenticare due aspetti decisivi: a) il «complemento» contiene anche glicoproteine che promuovono la captazione dei microrganismi patogeni da parte delle cellule fagocitarie; b) tale dinamica si svolge al confine tra sistema immunitario innato e acquisito (o adattativo), dato che il «riconoscimento» dei PAMP innesca una cascata coinvolgente gli anticorpi e il processo infiammatorio. Questo riconoscimento molecolare lungo la «via lectinica» può avvenire con ogni tipo di patogeno rientrante nello «spettro» molecolare riconoscibile dall’Mbl, cioè, nella fattispecie, connotato da residui di mannosio: si tratti di batteri (come certi ceppi di salmonella, listeria o neisseria), di certi tipi di funghi o infine di virus, come HIV-1 o il virus respiratorio sinciziale. 

Il punto critico, però — o uno dei punti— consiste nella «contro-risposta» dei virus, secondo un’«arte dell’inganno» che elegge nel mimetismo una delle sue modalità predilette di elusione delle nostre difese. L’esempio — cardine, in questo caso, è un virus aggressivo come Ebola, su una cui proteina di membrana (GP1) si è prodotta nel tempo per cieco selezionismo (senza alcuna intenzionalità, è bene ricordarlo) una «treccina di zuccheri» che attira la lectina e ne utilizza l’assetto molecolare per dare avvio all’infezione. Non stupisce, quindi, che in questo caso l’ospite — cioè noi — abbia selezionato a sua volta una «contro-controrisposta», come in un contrappunto musicale: una variante genetica che sotto-esprima Mbl, per togliere al virus una possibile via d’ingresso alle cellule dell’organismo.

3. Le «varianti» della molecola Mbl — e l’incidenza sulle malattie

L’esempio di Ebola è idoneo per passare al tema del rapporto tra geni e Mbl e al relativo polimorfismo, ovvero alle varianti del «wild-type» (cioè la versione più comune, quella che esprime il fenotipo naturale, non mutato) selezionate secondo ambienti e contesti diversi. 

I geni di Mbl dovrebbero essere due: in realtà Mbl-1 è uno pseudo-gene, e solo Mbl-2 (isolato sul cromosoma 10) è in grado di esprimere la proteina-recettore. 

Rispetto alla versione più comune (A) di Mbl, sono diffuse tre varianti (B, C e D): decisive sono B (per lo più in popolazioni eurasiatiche e nelle Americhe) e C (prevalente nelle popolazioni sub-sahariane) , la B introdotta- secondo studi recenti- intorno ai 50.000 anni fa, e approdata in Americhe introno ai 20.000, al tempo dell’ultima glaciazione. 

La chiave consiste proprio nel polimorfismo. Abbiamo appena ricordato il mimetismo molecolare di Ebola: ma ci sono diversi altri virus (o patogeni in genere) in grado di utilizzare certe strutture del sistema immunitario innato — come i recettori C3 dei monociti o dei macrofagi — per entrare nell’ospite, convertendo un meccanismo di difesa in una possibile esposizione al rischio. 

Anche in questi casi, una riduzione dell’espressione genetica di Mbl — attraverso una variante della versione più comune — che si traduca in una minor attivazione del complemento (la «funzione» di Mbl), risulterebbe adattativa ovvero vantaggiosa. 

Diversi dati sembrerebbero confermarlo: per esempio quelli di certi Paesi sub-sahariani su pazienti di leishmaniosi viscerale (sindrome dovuta a un protozoo introdotto dalle punture di pappataci femmine) o quelli emersi da un piccolo studio su pazienti etiopi lebbrosi, gli uni e gli altri con livelli di Mbl molto più alti della norma. Mentre i dati sull’HIV sono al momento contradittori: se da un lato un deficit di Mbl sembra aumentare il rischio di contrarre il virus da 3 a 8 volte, dall’altro un allele che determini una sua sotto-espressione sembrerebbe proteggere dal sarcoma di Kaposi, associato all’AIDS. In generale, secondo diversi studi, ai Tropici certe varianti del wild-type di Mbl-2 (con sotto-espressione della proteina e una ridotta risposta del complemento, che coincide anche con una precisa modulazione della risposta immunitaria complessiva) implicherebbero in molti casi un vantaggio adattativo-funzionale, nel senso di prevenire situazioni immunopatogeniche. Al punto che qualcuno si è spinto ad avanzare analogie col caso celebre, a quelle latitudini, dell’anemia falciforme selezionata nelle popolazioni quale antidoto evolutivo alla malaria: come per Ebola una sotto-espressione genica di Mbl toglie al virus un possibile canale d’ingresso, la «cellula falciforme» impedisce a Plasmodium falciparum di utilizzare nei globuli rossi dei contagiati una proteina-ponte, l’actina, per trasportare una propria proteina, l’adesina, decisiva per l’«invasione». 

Ma il quadro è diverso in Asia e in Occidente, dove il case study per eccellenza è a livello pediatrico. 

4. Mbl e la sindrome di Kawasaki, nei bambini

Il 5 giugno 2020, nel pieno della pandemia da COVID-19, scompare a 95 anni Tomisaku Kawasaki, leggendario pediatra giapponese. Se ne va non per il virus, ma per morte naturale, un anno dopo la moglie Reiko, chiudendo una parabola cominciata con una passione adolescenziale per gli alberi da frutto (la pera in particolare) interrotta da un madre che lo voleva a ogni costo medico. 

A laurea acquisita, si dedica per una decina d’anni alle allergie da latte. 

Poi, nel ’61, la svolta accidentale: si imbatte in un bambino di 4 anni con una miriade di sintomi clinicamente indecifrabili, e l’anno dopo in un altro caso simile. Arrivato a 7 casi, propone alla Japanese Pediatric Association uno studio al riguardo, ma i revisori lo rifiutano, non riconoscendo «una nuova patologia» in quella che Kawasaki denomina MCLS («Mucocutaneous lymph node syndrome») e che entrerà poi nella pediatria proprio come «sindrome di Kawasaki» (SK), con la sua costellazione di sintomi: febbre alta, rash cutaneo, congiuntivite, infiammazioni delle mucose. 

Un quadro che a volte degenera — per fortuna in una minoranza di casi — nel coinvolgimento delle arterie cardiache, fino all’aneurisma coronarico. Quella resistenza verrà vinta solo con un paper di 44 pagine sulla Japanese Journal of Allergy del ’67, studio esemplare su 50 casi definito nel 2002 dall’eminente pediatra Jane C. Burns «un capolavoro della letteratura clinica, tra Sherlock Holmes e Charles Dickens per il suo senso del mistero e le sue descrizioni vivide». 

L’anno-chiave sarà il ’78, quello del riconoscimento ufficiale dell’MCLS; ma anche quello, guarda caso, in cui l’equipe di un altro Kawasaki (il suo quasi omonimo Toshishuke) isola dal fegato del coniglio l’Mbl, il cui ruolo nella sindrome risulterà, negli anni a seguire, determinante. Solo in Giappone — dal ’70 al 2007, con picchi di casi nel ’79, ’82 e ’86 — il KD ha interessato 200.000 bambini; ma la sindrome è ormai nota e curata in tutto il mondo. 

Il coinvolgimento dell’Mbl — come hanno confermato molti studi — riguarda in primo luogo proprio una sotto-stimolazione del «complemento»: in tutti i primi anni di vita, ma soprattutto nella «finestra» compresa tra i 6 mesi e i 2 anni — tra il decalage delle difese materne, in particolare delle gammaglobuline G, e una prima articolazione delle proprie- nel neonato e nel bambino l’Mbl è decisiva per organizzare una protezione di base. 

Una sua sotto-espressione dovuta al polimorfismo genico, quindi (con una modulazione disfunzionale del sistema immunitario) lo rende più vulnerabile agli agenti patogeni: oltre alla sindrome di Kawasaki, neonati e bambini piccoli sviluppano diverse infezioni virali e batteriche, specie respiratorie. 

In secondo luogo, sembra essere sempre più evidente la relazione tra quella sotto-espressione e le complicanze più severe della sindrome di Kawasaki quali la «rigidità» arteriosa e le lesioni coronariche. 

Di tutto questo, abbiamo avuto conferme proprio con COVID-19 e proprio in Italia: vedi i casi di (simil) Kawasaki nella bergamasca (una delle aree di maggiore emergenza pandemica nazionale) e il consistente studio a seguire, pubblicato su Lancet (Lucio Verdoni et al.). 

Ma il polimorfismo genico e la sotto-espressione di Mbl non riguarda solo i bambini. E qui torniamo circolarmente al punto di partenza. 

5. Mbl e i coronavirus, negli adulti

Un deficit di espressione di Mbl (e il suo impatto nell’immunomodulazione, cioè in una corretta risposta immunitaria complessiva, né carente né parossistica) è riscontrato in diverse patologie, anche gravi

- nella fibrosi cistica, in cui certi alleli di Mbl-2 determinano nei soggetti un’esposizione alla malattia tale da compromettere le funzioni polmonari e ridurre l’aspettativa di vita;

- nei casi di risposte infiammatorie sistemiche e/o croniche, che possono condurre a complicanze come lo shock settico e predisporre all’infarto miocardico;

- nelle infezioni batteriche da mycoplasma, in cui pazienti con deficit immunitari multipli (sia innato che acquisito) sviluppano ad esempio malattia artritica;

- nelle epatiti B e C, in disagi autoimmuni come l’SLE (il lupus eritematoso) o nella citotossicità dei tumori (versante tutto da approfondire). 

Quanto al rapporto tra coronavirus e Mbl , non solo è ben conosciuto nei felini (v. i contributi su FIP e l’incidenza delle lectine), ma si affaccia, per l’uomo, già SARS-CoV (o SARS-1). 

Fin dalla decifrazione del virus nel 2003, infatti, viene notata sulla sua superficie un’abbondanza di zuccheri tale da predisporlo fortemente all’interazione con Mbl. 

E studi successivi confermeranno il coinvolgimento della proteina nel progredire dell’infezione: prima, verrà notata una «sofferenza» del sistema immunitario innato nella fase iniziale della malattia (con gli anticorpi formati a una decina di giorni dall’infezione); quindi, analisi comparative evidenzieranno «enormi differenze» di livelli di Mbl tra contagiati da SARS e gruppi di controllo. In quel momento, però, si pensa che tali differenze possano incidere solo sulla «suscettibilità» e non sulla «severità» della patologia. 

Ora, invece, lo studio italiano include anche la possibilità di decifrarne- come si accennava — la severità/letalità. 

Con alcuni aspetti discriminanti da approfondire. 

Si è documentato ad esempio come un deficit di risposta «primaria» (sia del sistema immunitario innato che degli interferoni) determini una modulazione disfunzionale della risposta d’insieme, così da scatenare quella parossistica «tempesta di citochine» (in particolare una sovra-risposta di interleuchina 6, II6) come connotazione dell’evoluzione verso la forma severa della malattia. 

Quanto conta, in questo deficit di immunomodulazione, una predisposizione genetica a una «variante» di Mbl (una sotto-espressione di Mbl da parte di Mbl-2)? 

Rispondere a questa domanda vorrebbe dire avere un mezzo in più di contrasto non solo verso SARS-CoV-2, ma probabilmente verso altri coronavirus emergenti. 

E allargando lo spettro, sarà capitale comprendere sempre meglio la genetica e la biologia molecolare di Mbl, data la lunga lista di patologie connesse a una sua disfunzionalità, che siano di massa o «malattie rare». 

Possono sembrare (e in parte lo sono) dettagli specialistici: in fondo, parliamo solo di una proteina-recettore. Ma forse è giusto ricordarsi — soprattutto ora che l’orizzonte sembrerebbe davvero rischiararsi, lasciando posto a una rimozione in parte comprensibile dopo la paura e l’insofferenza — che è da questi dettagli nell’ombra che dipendono e dipenderanno sempre tante vite salvate; tante sofferenze, individuali e sociali, risparmiate.

FONTI

Libri

Giovanni Maga, Occhio ai virus, Zanichelli, 2012;

Michal G. Cordingley, Viruses. Agents of Evolutionary Infections, Harvard U.P., 2017. 

Studi e articoli

Lo studio italiano su Mbl: Matteo Stravalaci et al., Recogniton and inibition of SARS-CoV-2 by humoral innate immunity pattern recognition molecules, Nature Immunology, 31 gennaio 2022. 

Per un inquadramento generale delle lectine e Mbl (storia, biologia evoluzionistica, genetica e patologie correlate): R.M. Dommett et al., Mannose-binging lectin in innate immunity: past, present and future, Tissue Antigen, settembre 2006, 193-209. 

Su Tomisaku Kawasaki: Neil Genzingler, Dr. Tomisaku Kawasaki, Who Pinpointed a Mysterious Disease, Dies at 95, New York Times, 20 giugno 2020. 

Sulla sindrome di Kawasaki in Italia durante la pandemia di COVID-19: Lucio Verdoni et al., An outbreak of severe Kawasaki-like disease at the italian epicentre of the SARS-CoV-2 epidemic: an observational cohort study, The Lancet, 13 maggio 2020.

Covid e immunità innata, scoperto un nuovo meccanismo di resistenza alla malattia. Luigi Ripamonti su Il Corriere della Sera il 31 gennaio 2022.

Si tratta di un «antenato funzionale degli anticorpi», che contribuisce a spiegare perché alcune persone siano meno suscettibili agli effetti dell’infezione. 

Modello dell’interazione tra la proteina Spike della variante Omicron e MBL

Scoperto un nuovo meccanismo di resistenza del nostro organismo nei confronti del virus Sars-Cov2 che potrebbe portare alla messa a punto di nuovi farmaci e di nuovi marker per valutare la gravità della malattia. 

È il risultato di una ricerca internazionale, pubblicata su Nature Immunology e coordinata dall’Istituto Humanitas e dall’Ospedale San Raffaele di Milano, che ha coinvolto anche Fondazione Toscana Life Science con Rino Rappuoli, l’Istituto di Ricerca in Biomedicina di Bellinzona e la Queen Mary University di Londra. L’attenzione degli scienziati si è focalizzata in particolare sulla Mannose Binding Lectin (in sigla Mbl), uno dei cosiddetti «antenati funzionali degli anticorpi», proteine in grado di aggredire il virus con modalità simili a quelle degli anticorpi veri e propri, che però fanno parte dell’immunità innata. 

Immunità innata

L’immunità innata costituisce la prima linea di difesa nei confronti di virus, batteri e non solo. Ne fanno parte cellule del sistema immunitario che con diversi meccanismi aggrediscono gli agenti patogeni organizzando una risposta tempestiva nell’attesa che l’organismo si attrezzi per la difesa mirata (immunità adattiva), che si esprime attraverso gli anticorpi veri e propri. Esiste però anche una parte dell’immunità innata formata da molecole circolanti (per questo detta umorale) a cui appartiene, fra le altre, anche Mbl.

Legame con le varianti

«Abbiamo scoperto che Mbl si lega alla proteina Spike del virus e la blocca — spiega il professor Alberto Mantovani, direttore scientifico di Humanitas e docente di Humanitas University —. E abbiamo verificato che è in grado di farlo con tutte le varianti testate, compresa Omicron».«Ciò è reso possibile dal fatto che Mbl si aggancia a determinati “zuccheri” della proteina Spike, che non cambiano da variante a variante» precisa Elisa Vicenzi, capo dell’ Unità Patogenesi Virale e Biosicurezza dell’Irccs Ospedale San Raffaele, che aggiunge: «In vitro Mbl si è dimostrata poco meno potente degli anticorpi prodotti da pazienti guariti da Covid». «Con la professoressa Cecilia Garlanda , che ha partecipato al coordinamento dello studio, stiamo procedendo a ottimizzare Mbl per capire se sarà possibile trasformarla in un farmaco» riprende Mantovani. «La strada è lunga ma è importante cercare di avere altre armi a disposizione contro il virus. Fra l’altro Mbl è già stata infusa da altri ricercatori e clinici come terapia in soggetti con completo deficit genetico ed è stata ben tollerata».

Marcatori di gravità

Un altro utilizzo di Mbl potrebbe essere quello di marcatore del grado di severità di Covid-19. «Abbiamo riscontrato che varianti genetiche che producono differenti quantità di Mbl circolante sono associate a diversa gravità di malattia» chiarisce Mantovani. «E questo rappresenta un tassello in più nella comprensione di quali caratteri genetici influenzano la suscettibilità al virus». In qualità di marcatore potrebbe risultare utile anche la proteina Ptx3, anch’essa oggetto d’indagine nello stesso studio (finanziato in misura significativa da Dolce&Gabbana). «Ptx3 potrebbe essere un marcatore particolarmente utile perché viene prodotta e secreta da cellule dell’immunità innata proprio a livello bronchiale. E sembra uno dei migliori candidati a indicatore di gravità nel long-covid» sottolinea Mantovani.

Vaccini

Tornando a Mbl, una domanda che potrebbe sorgere è perché dovremmo continuare a vaccinarci se disponiamo già di una difesa naturale così efficace? «Prima di tutto perché nessun farmaco può competere per efficacia e sostenibilità individuale e sociale con un vaccino» puntualizza il professore. «In secondo luogo perché se è vero che la risposta immunitaria innata si sta rivelando sempre più importante, e potrebbe spiegare, anche attraverso queste osservazioni, perché molte persone riescono a “cavarsela” con un’infezione che non ha esiti gravi, rimane vero anche che c’è una grande variabilità in tale risposta e il rinforzo dato dagli anticorpi specifici è fondamentale perché garantisce a tutti una buona difesa. Non sappiamo ancora in anticipo chi sarà in grado di farcela da solo e chi no».

Prospettive

Come vede il futuro per quanto riguarda la pandemia? «Sono ottimista, perché se mi guardo indietro a due anni fa ricordo che avevamo un armadio vuoto sia in campo diagnostico sia preventivo sia terapeutico. Ora abbiamo 10 vaccini già disponibili, 40 in sperimentazione clinica e più ancora in sperimentazione preclinica. Abbiamo farmaci e anticorpi monoclonali. Penso che ci stiamo avviando di nuovo verso la normalità. Magari sarà una normalità un po’ diversa: forse non troveremo strano portare la mascherina come accadeva in oriente già prima di Covid ma comunque in una situazione diversa da quella degli ultimi due anni». 

(ANSA il 29 gennaio 2022) - Spingono a distruggere l'unica molecola capace di costruire una barriera contro l'infezione da SarsCoV2 e, in questo modo, lasciano la porta spalancata alle forme più gravi di Covid-19: sono i più pericolosi fra i geni che entrano in azione in chi contrae la forma più aggressiva della malattia e potrebbero essere la chiave per capire come mai, invece, altri individui restano asintomatici. 

La scoperta, pubblicata sulla rivista Nature, è il punto di arrivo della ricerca iniziata nel 2020 dal gruppo internazionale coordinato da Jean-Laurent Casanova, della Rockefeller University, in collaborazione con il consorzio Internazionale di genetica 'Covid Human Genetic Effort' e al quale l'Italia partecipa con il gruppo di Giuseppe Novelli, dell'Università di Roma Tor Vergata, e Istituto San Raffaele di Milano, Università di Brescia, Ospedale Bambino Gesù di Roma. 

"Stiamo studiando le caratteristiche di chi si ammala in modo grave e i dati indicano che la differenza, rispetto all'infezione, la fa l'ospite", ha detto Novelli all'ANSA. Nei geni legati alle forme gravi della malattia, alcuni dei quali sono stati descritti nei mesi scorsi dallo stesso gruppo di ricerca, alcuni hanno a che fare con la cosiddetta l'immunità innata, ossia con la capacità di ciascun individuo di difendersi dal virus.

La prima linea di questa difesa è la capacità di produrre l'interferone, la molecola che gioca un ruolo chiave contro la tempesta di citochine caratteristica delle forme gravi di Covid-19. La scoperta apre adesso almeno due strade importanti: da un lato test genetici permettono di individuare chi può sviluppare la forma grave della malattia, aprendo le porte a terapie personalizzate; dall'altro si possono studiare i segreti dell'immunità naturale.

Raffaele Alliegro per "il Messaggero" il 26 gennaio 2022.

Perché con la variante Omicron il numero dei casi di infezione è aumentato così rapidamente? Cosa rende questa mutazione del virus più contagiosa delle altre? Una risposta potrebbe venire da uno studio giapponese. I ricercatori della Kyoto Prefectural university of medicine hanno scoperto che Omicron sopravvive molto più a lungo sulla plastica e sulla pelle rispetto alle precedenti varianti del coronavirus. 

In particolare, il tempo di sopravvivenza di questa mutazione raggiunge le 21 ore sulla pelle e gli otto giorni sulla plastica, cioè circa il triplo rispetto al virus originario di Wuhan. «Lo studio ha mostrato che Omicron ha la più alta stabilità ambientale tra le varianti, ciò suggerisce che questa caratteristica possa essere uno dei fattori che hanno permesso alla variante Omicron di sostituire la variante Delta e di diffondersi con molta rapidità», scrivono i ricercatori.

La ricerca è stata pubblicata sulla piattaforma bioRxiv, che rende disponibile gli studi in attesa di revisione della comunità scientifica. Gli scienziati hanno misurato i tempi di sopravvivenza e persistenza su diverse superfici del virus Sars-CoV2, sia nella versione originaria sia nelle varianti che si sono succedute nel tempo. 

I TEST I test hanno mostrato che la variante Omicron riesce a sopravvivere 193,5 ore (circa 8 giorni) su una superficie di plastica, più di tre volte rispetto al ceppo originario (56 ore) e della variante Gamma (59,3 ore), notevolmente più di Delta (114 ore) e Beta (156,6 ore). Soltanto la variante Alfa, con 191,3 ore ha mostrato una resistenza analoga.

Omicron sopravvive, inoltre 21,1 ore sulla pelle, anche in questo caso molto più di quanto riuscisse a fare il virus di Wuhan (8,6 ore), la variante Gamma (11 ore) e Delta (16,8 ore). Simile invece la sopravvivenza di Alfa (19,6 ore) e Beta (19,1 ore). La variante Omicron ha mostrato inoltre una più alta capacità di resistere ai disinfettanti rispetto al ceppo di Wuhan, ma analoga a quella delle altre varianti e quindi non tale da richiedere pratiche di disinfezione aggiuntive rispetto a quelle consuete.

Un altro studio ha infine rilevato che Omicron è più trasmissibile rispetto alla Delta sebbene determini una carica virale simile e talvolta addirittura inferiore. Inoltre, a 5 giorni dal primo tampone, il 50% dei positivi potrebbe essere ancora contagioso. Lo ha indicato una ricerca della Harvard T. H. Chan School of Public Health di Boston sui tamponi molecolari eseguiti dall'Associazione nazionale di basket degli Stati Uniti, l'Nba. I ricercatori, coordinati da Yonatan Grad, hanno esaminato oltre 10.000 tamponi eseguiti su giocatori e dipendenti dell'Nba tra luglio 2021 e gennaio 2022. In totale sono emersi 97 casi di infezione da variante Omicron e 107 da Delta.

Il risultato sorprendente è stato che i contagiati da Delta hanno una carica virale che raggiunge vette più alte rispetto a quelle rilevate nei casi di Omicron: dunque l'elevata trasmissibilità della nuova variante non sarebbe legata a una maggiore carica virale, bensì alla capacità del virus di eludere le difese immunitarie. 

LA CONFERMA Una conferma arriverebbe anche da un secondo studio, del gruppo di Benjamin Meyer dell'Università di Ginevra: in questo caso i ricercatori non hanno quantificato solo la presenza di Rna virale nei tamponi di quasi 150 persone, ma anche il numero di particelle virali infettive, scoprendo che non ci sono sostanziali differenze di carica virale tra i vaccinati infettati da Delta e quelli colpiti da Omicron.

I risultati dei due studi potrebbero determinare delle conseguenze notevoli sulle politiche di salute pubblica, soprattutto sulle decisioni che riguardano la durata dell'isolamento dei positivi. Il gruppo di Meyer ha scoperto che la metà dei tamponi eseguiti con i vaccinati colpiti da Delta a cinque giorni dalla diagnosi conteneva ancora particelle virali infettive, mentre il gruppo di Grad ha osservato che a cinque giorni dalla diagnosi di infezione da Omicron circa la metà delle persone mantiene una carica virale abbastanza alta da poter risultare ancora contagioso.

Covid nei bambini, quali sono i sintomi? Il vaccino ha delle controindicazioni? Ruggiero Corcella su Il Corriere della Sera il 26 Gennaio 2022.

I sintomi da tenere d’occhio, le indicazioni dei pediatri riguardo i vaccini. Triplicati nell’ultima settimana i ricoveri in bambini tra i 5 e gli 11 anni

Il dramma del piccolo Lorenzo (il bambino di 10 anni morto il 25 gennaio per Covid, ndr) suona come un campanello d’allarme generale. Seppure generalmente nei bambini il Covid non si manifesti in forme severe, sono sempre di più i piccoli della sua età che hanno infatti bisogno di cure in ospedale (nell’ultima settimana nei bambini tra 5 e 11 anni sono state registrate circa 400 ospedalizzazioni sulle 834 complessive che hanno riguardato la popolazione 0-19 anni). La Società italiana di pediatria (Sip), come anche l’Associazione ospedali pediatrici italiani (Aopi) sono tornati a segnalarlo proprio in questi ultimi giorni. E la preoccupazione è alta, come sottolinea la professoressa Annamaria Staiano, presidente della Sip: «I ricoveri in bambini tra i 5 e gli 11 anni questa settimana sono triplicati rispetto alla settimana precedente. La crescita del tasso di incidenza sta rallentando in tutte le fasce di età tranne che per la loro» .

Esistono patologie per le quali è controindicata la vaccinazione?

«Anche di fronte a bambini fragili, con più patologie la vaccinazione è indicata. Tanto che anche nei bimbi con malattie neurologiche, immunodeficienze, problemi allergici oppure in corso di terapie immunosoppressive la vaccinazione è consigliabile. E di fronte a ogni dubbio bisogna discuterne con il proprio pediatra».

Quali sono i sintomi dell’infezione da Sars-Cov-2?

«Per quanto riguarda la variante Omicron, ormai prevalente, vengono coinvolte soprattutto le vie respiratorie alte, quindi a livello laringeo. I bambini si presentano soprattutto con naso che cola, laringite, mal di gola e febbricola. Talvolta invece anche questi sintomi sono seguiti da febbre e tosse importante».

E quali le complicanze?

«Il Covid può essere seguito da complicanze quali la Mis-C, la Sindrome infiammatoria multi sistemica che può arrivare a richiedere un ricovero in terapia intensiva perché possono verificarsi manifestazioni cliniche severe, quali miocardite o pericardite. Ma non dimentichiamo anche il Long Covid che si presenta pure in età pediatrica».

Ci sono bambini che sono più a rischio di sviluppare la malattia grave? E, nel caso, quali sono i sintomi da tenere in considerazione?

«Non è prevedibile l’evoluzione della malattia da un soggetto all’altro. Certamente possono considerarsi più a rischio i bambini che hanno già una patologia respiratoria, ad esempio l’asma grave. I sintomi che devono allarmare sono febbre alta persistente, difficoltà respiratorie, tosse insistente, affanno».

Quali sono gli esiti nei bambini che hanno bisogno di rianimazione?

«I decessi totali registrati dal report dell’Istituto superiore di sanità sono 38 nella fascia 0-19 anni (39 con il piccolo Lorenzo, ndr). Ci sono invece bambini che sono stati ricoverati in situazioni molto gravi in rianimazione ma poi si sono ripresi. Gli esiti a distanza non possono essere del tutto stabiliti. Però, fortunatamente, i piccoli ricoverati sono stati dimessi e quindi questo fa pensare che ci possa essere un ritorno a una completa normalità».

È possibile reinfettarsi?

«Certamente, anche nei bambini ci può essere una reinfezione da Sars-Cov-2 dopo una precedente (17.507 su 679.919 diagnosi tra 0-19 anni, secondo l’ultimo rapporto dell’Iss, ndr)».

Il vaccino è sicuro?

«I dati di farmacovigilanza che arrivano dagli Stati Uniti, dove oltre 9 milioni di bambini tra 5 e 11 anni hanno ricevuto una dose del vaccino, confermano che il vaccino è sicuro, oltre che efficace. Su 8,7 milioni di dosi somministrate nel periodo 3 novembre- 19 dicembre le segnalazioni di eventi sono state pari allo 0,05% e si è trattato nella quasi totalità di casi non seri. Le miocarditi sono state 11 di cui 7 non gravi (e risolte) e 4 in osservazione».

Riprendere il Covid dopo la guarigione: è possibile? E quante probabilità ci sono che accada? Laura Cuppini su Il Corriere della Sera il 22 Gennaio 2022.

Chi è guarito dal Covid rischia di riprenderlo? E quanto? In aumento la quota di chi si ammala dopo essere guarito, ma le cellule T restano attive contro la nuova variante e presumibilmente proteggono dalla malattia grave

Quante probabilità ha oggi un guarito da Covid di reinfettarsi?

Il rischio esiste e non è trascurabile. Secondo l’ultimo rapporto dell’Istituto superiore di sanità (Iss) le reinfezioni dal 24 agosto al 9 gennaio sono state il 2,7% dei casi (oltre 108 mila) e nell’ultima settimana sono salite al 3,2%, rispetto all’1% circa registrato da ottobre a inizio dicembre (Omicron è stata isolata l’11 novembre). I dati raccolti dall’Imperial College di Londra mostrano che, con la nuova variante, il contagio dopo una guarigione è 5 volte più frequente rispetto a quanto avviene con Delta. Dunque la protezione offerta da una precedente infezione si sarebbe ridotta, nei confronti di Omicron, al 19% (rispetto all’85% calcolato con altre varianti).

Chi rischia di più?

I non vaccinati e gli operatori sanitari: 21 mila i casi di reinfezione nei non immunizzati tra metà dicembre e metà gennaio, secondo il report dell’Iss, 2.800 casi tra i vaccinati con almeno una dose al momento della prima diagnosi e 65 mila tra coloro che hanno ricevuto il vaccino dopo il primo dei contagi. Nella categoria degli operatori sanitari le reinfezioni sono state oltre 4 mila in un mese, a fronte di 37 mila prime diagnosi (nel resto della popolazione l’Iss ha calcolato 72 mila reinfezioni a fronte di 2 milioni di prime diagnosi). Osservando le fasce di età, si sono riammalati più i 20-39enni (39% del totale delle reinfezioni), seguiti dai 40-59enni (34%). A livello geografico, il 74% dei secondi (o terzi) contagi è avvenuto nel Nord Italia. 

Quanto tempo può trascorrere tra la prima e la seconda infezione?

Il Ministero della Salute definisce «caso di reinfezione» la persona che contrae Sars-Cov-2 a distanza di almeno 90 giorni dalla malattia precedente, oppure a meno di 90 giorni ma con ceppo virale diverso, documentato da genotipizzazione.

Chi si ammala per la seconda o terza volta ha sintomi più blandi?

Sappiamo che Omicron è correlata a una parziale evasione immunitaria, per quanto riguarda l’infezione. Ciò significa che i guariti e vaccinati sono meno protetti dal contagio. «Abbiamo però dati molto solidi che mostrano come le cellule T, quelle della memoria immunologica, restino attive anche contro la nuova variante, evitando le forme gravi di malattia — spiega Mario Clerici, professore ordinario di Immunologia all’Università di Milano e direttore scientifico della Fondazione Don Gnocchi —. Questo spiega perché oggi, nonostante il numero elevatissimo di contagi, la quota di pazienti ricoverati, anche in terapia intensiva, non raggiunga livelli allarmanti (in Italia sono circa 20 mila gli ospedalizzati, a fronte di 2 milioni e 700 mila positivi, ndr)».

I guariti da Omicron potrebbero contagiarsi con la stessa variante?

È improbabile, perché durante un’infezione l’organismo produce una risposta immunitaria specificamente diretta contro il virus responsabile. Possiamo dunque presumere, fatta eccezione per i soggetti molto fragili o immunodepressi, che contagiarsi più volte con lo stesso ceppo sia molto raro. «Dobbiamo considerare che in questo momento convivono Delta e Omicron — sottolinea Clerici —. La prima può essere in discesa, percentualmente, ma non è sparita. Essere guariti da una delle due varianti potrebbe non proteggere dall’altra. Vaccinarsi è più importante che mai, perché ci salva da Covid grave».

I guariti dal Covid possono ricontagiarsi con la stessa variante? Cristina Marrone su Il Corriere della Sera il 13 gennaio 2022.

È verosimile, ma non certo, che chi risulta positivo al tampone in questo periodo abbia incontrato Omicron ma una nuova infezione, secondo gli esperti, è improbabile

Dagotraduzione dal Daily Mail il 12 gennaio 2022.

Il Covid può persistere e rimanere infettivo nelle docce e nei bagni turchi per almeno 20 minuti dopo che una persona infetta ne ha usufruito. A scoprire che il virus prospera negli ambienti umici sono stati i ricercatori dell’Università di Bristol. 

Finora, gli studi su quanto sia contagioso il coronavirus in vari contesti si basavano su un metodo impreciso: in fusti sigillati venivano irrorate particelle virali. Ma questo sistema non replica accuratamente le sfumature che si verificano quando una persona infetta tossisce, starnutisce o respira in un ambiente reale. 

Gli scienziati hanno sviluppato dunque un altro metodo più accurato per monitorare questo processo. Hanno utilizzato un nuovo apparato che fa levitare le particelle di virus tra due anelli elettrici per un periodo compreso tra cinque secondi e 20 minuti, regolando temperatura e umidità, per imitare meglio l'ambiente esterno al corpo.

Hanno così scoperto che quando le particelle del virus lasciano le condizioni umide dei polmoni e si disperdono nell’aria, si seccano rapidamente, riducendo la loro capacità di infettare le cellule umane. Ma la velocità con cui le particelle si asciugano dipende dall’umidità dell’aria circostante.

In un ambiente simile a quello di un ufficio, con un’umidità del 40%, il virus perde metà della sua infettività in 10 secondi al massimo. Se l’umidità è al 90%, come succede in un bagno turco o in una doccia, dopo cinque minuti metà delle cellule è ancora contagiosa. Dopo 20 minuti, è rimasto infetto il 10% del virus.

I ricercatori hanno anche affermato che la temperatura non ha fatto alcuna differenza sull’infettività virale, nonostante la teoria secondo cui il Covid ha più difficoltà a diffondersi in estate. 

Lo studio ha esaminato tre versioni del virus, tra cui il ceppo Wuhan e Alpha che ha scatenato l'ondata lo scorso inverno. È stato pubblicato su medRxiv e non è stato sottoposto a revisione paritaria, il che significa che altri scienziati devono ancora avere la possibilità di contestare i risultati.  

Totti e i suoi 25 giorni con il Covid: perché la malattia può essere grave anche negli sportivi. Cristina Marrone su Il Corriere della Sera l'11 Settembre 2022.

Dopo sforzi ad alta intensità calano per un breve periodo di tempo le difese immunitarie. Se l’attività fisica è svolta nel periodo di incubazione del virus si rischia un decorso più grave della patologia 

Francesco Totti, nell’intervista esclusiva di Aldo Cazzullo, è tornato a raccontare i suoi terribili 25 giorni con il Covid che lo hanno gravemente debilitato con febbre che non scendeva, polmonite bilaterale, saturazione dell’ossigeno bassa e le forze che se ne andavano. Era il novembre del 2020, all’epoca non erano ancora disponibili i vaccini. Egli stesso era convinto che se la sarebbe cavata con pochi giorni di stop grazie anche al suo fisico atletico. Invece la malattia è stata molto pesante. Totti non era più un calciatore della Roma, tuttavia è ancora uno sportivo e da anni gioca a padel ad alto livello.

Ma come è possibile che proprio gli sportivi, che hanno un fisico allenato e forte e sprizzano di salute possano ammalarsi in modo serie di Covid? Non dimentichiamoci che il primo paziente italiano di Codogno, Mattia, all’epoca 38enne, sopravvissuto per un soffio, aveva appena partecipato a una maratona, eppure andò incontro a difficoltà respiratorie molto importanti. Le motivazioni sono diverse e c’entra anche l’attività fisica troppo intensa.

Allenamento intenso e sistema immunitario

Atleti e sportivi vanno incontro a rischi peculiari. Dopo un esercizio fisico prolungato ad alta intensità è noto che le cellule del sistema immunitario siano temporaneamente «inibite» e nella fase successiva all’attività fisica intensa si verifica un calo delle difese immunitarie che prende il nome di «open window», finestra aperta: è questo il momento in cui si alza in modo significativo il rischio di infezioni. «Dopo uno sforzo fisico intenso, senza un recupero adeguato è frequente che si verifichi una situazione di deficit di anticorpi, che rende l’atleta più suscettibile a tutte le infezioni, compreso il coronavirus» commenta Gianfranco Beltrami, medico sportivo, vicepresidente nazionale della Federazione medico sportiva italiana. La cosiddetta «open window» può avere una durata molto variabile, a seconda delle condizioni dell’atleta e dell’attività svolta e oscillare dalle 3 alle 72 ore successive a un allenamento particolarmente intenso. Il meccanismo non riguarda solo il Covid, ma tutte le malattie.

In uno studio italiano specifico su Sars-CoV-2 era già emerso che quando si compie un esercizio fisico intenso e prolungato con elevatissimi flussi e volumi respiratori , proprio nei giorni di incubazione immediatamente precedenti all’esordio dei sintomi, viene facilitata la penetrazione diretta del virus nelle vie aeree inferiori e negli alveoli, riducendo fortemente l’impatto protettivo delle mucose delle vie aeree, coperte da anticorpi “neutralizzanti”. Per questo gli atleti, se colpiti dal virus in queste fasi, possono ammalarsi anche in modo serio. Tuttavia è importante ricordare che un’attività fisica costante e a medio carico rinforza il sistema immunitario, oltre ad avere infiniti altri benefici.

Durante l’attività fisica tra l’altro si inspira più profondamente (quindi si è più a rischio contagio in presenza di una persona infetta) e si espira altrettanto profondamente (e si rischia di emettere un’alta quantità di goccioline di virus se si è infetti).

Condizioni ambientali

Concorrono al rischio di infezione anche alcune condizioni ambientali. Oltre al contatto durante una partita o una gara, è facile che gli atleti parlino ad alta voce, abbiano discussioni a distanza ravvicinata, respirino vicini. Gli atleti inoltre condividono lo spogliatoio e l’assenza di ventilazione meccanica controllata in questi ambienti può aumentare il rischio di contagio.

L’era post vaccini

Naturalmente oggi con la diffusione dei vaccini le cose sono decisamente migliorate e i rischi di ammalarsi in modo grave di Covid, per chi è vaccinato, sono diminuiti in tutta la popolazione, atleti compresi. Sappiamo che l’attività fisica intensa tende, per un breve periodo di tempo, a far calare la funzione dei linfociti T (con il compito di distruggere le cellule infette) , stimolati proprio dai vaccini anti Covid. Tuttavia l’attività sportiva intensa rende meno efficaci anche le cellule presenti nella saliva, l’immunoglobina IgA che, pur rappresentando solo il 10-15% degli anticorpi presenti nel nostro organismo, sono fondamentali nella difesa delle infezioni alle alte vie respiratorie . Gli anticorpi IgA sono molto efficaci nel bloccare il virus attraverso le mucose, ma sono difficili da stimolare con i classici vaccini intramuscolari, come quelli che sono stati fatti finora, per questo un grande aiuto potrebbe arrivare dai vaccini a spray nasali che invece producono anticorpi IgA, con l’obiettivo di bloccare l’infezione sul nascere.

·        Long Covid.

Vera Martinella per corriere.it il 12 luglio 2022.

L’Organizzazione Mondiale di Sanità ha deciso di chiamarla ufficialmente «post Covid-19 condition»: è la condizione di persistenza di segni e sintomi che continuano (o si sviluppano) oltre le 12 settimane dal termine della fase acuta di malattia. Una sindrome di cui ancora si sa poco, perché serve tempo per raccogliere dati sufficienti a trarre delle conclusioni e perché a complicare il lavoro dei ricercatori ci sono due «ostacoli»: primo, gli organi interessati sono diversi e i sintomi sono molti, non facili da inquadrare con sicurezza; secondo, a varianti del virus differenti (come Delta, Omicron) potrebbero corrispondere altrettante conseguenze sul lungo periodo.

Ma che cos’è di preciso la sindrome Long Covid o Post Covid? Come si diagnostica? Come affrontare sintomi respiratori, cardiovascolari, neurologici o di altra natura conseguenti al coronavirus? Chi è a maggior rischio? Come curarsi? 

Nel volume «Post Covid. Che cosa dobbiamo sapere sulle conseguenze a lungo termine del virus per corpo e mente» (di Sergio Harari con Vera Martinella, edizioni Solferino) si può trovare un primo bilancio di ciò che la scienza ha appurato finora, una guida per le persone che continuano ad accusare disturbi dopo l’infezione, per aiutarle a capire e interpretare i sintomi. Con un’attenzione speciale anche al disagio psichico causato dalla pandemia e ai problemi di bambini e adolescenti.

I polmoni restano il bersaglio principale del virus

Affaticamento respiratorio e mancanza di fiato (dispnea), un senso di peso al torace o di costrizione, una tosse che non se ne va sono sintomi estremamente frequenti nei pazienti che soffrono di post Covid-19. Le difficoltà respiratorie possono essere conseguenti a polmoniti conclamate causate dal virus (come quelle che hanno portato ai ricoveri ospedalieri) o a polmoniti non riconosciute in pazienti che sono stati gestiti a domicilio, ma anche ad altri fattori.

 Fra questi l’asma post-infettivo che Sars-CoV-2 (come molti altri virus respiratori) può causare e che spesso riconosce come primo sintomo la tosse stizzosa e persistente. La valutazione della compromissione respiratoria prevede uno studio sia radiologico (radiografia del torace e, in casi selezionati, TAC ad alta risoluzione senza contrasto) sia della funzione respiratoria (con spirometria e altri test), a cui si aggiungono esami del sangue completi ed eventualmente una valutazione cardiologica. Bisogna rivolgersi a uno pneumologo che, in base al disturbo nel singolo paziente, decide la terapia più idonea. 

Un senso di stanchezza molto marcato è uno dei segnali più comuni

Stanchezza e debolezza muscolare sono stati i sintomi perduranti nel tempo documentati con maggiore frequenza fra le persone che hanno contratto il virus: se ne lamentano, in media, sei pazienti su dieci. E sono anche fra i disturbi più comuni dopo Covid-19. Chi lo prova descrive uno stato di debolezza innaturale e profondo, sia fisico che mentale, per il quale si fa fatica a compiere le normali attività quotidiane e diventa necessario autolimitarsi.

 Spesso, ma non si sempre, si accompagna a un affanno respiratorio o a dolori muscolo-scheletrici. In pratica mancano le energie e a questo frequentemente si associa la perdita di massa e forza muscolare. Nella maggior parte dei casi si tratta di problemi che perdurano dopo essersi già manifestati durante l’infezione acuta, raramente compaiono in una fase successiva. 

Non esistono, purtroppo, terapie specifiche per ridurre o alleviare questi disturbi, che non di rado durano diversi mesi. Alimentazione equilibrata, riabilitazione motoria e regolare attività fisica sono di grande aiuto. 

Molti dei guariti riferiscono affanno e «cardiopalmo»

Fin dalle prime fasi della pandemia è stato chiaro che le persone con precedenti malattie cardiache o fattori di rischio cardiovascolari presentano in media quadri clinici più complessi quando entrano in contatto con l’infezione da Sars-CoV-2 e questo vale anche per il Long Covid. I problemi più diffusi sono la dispnea (o mancanza di fiato, che può avere una componente cardiologica oltre che respiratoria) e il conseguente affanno, dolore al petto e cardiopalmo (percezione del ritmo cardiaco irregolare).

Se persistono oltre le due o tre settimane dopo la guarigione da Covid-19 è bene consultare un cardiologo che potrà richiedere eco ed elettrocardiogramma, esami del sangue e il test da sforzo cardiopolmonare, utile per valutare con precisione la performance del sistema cardio-polmonare. Il rischio è quello di sviluppare infiammazioni del muscolo cardiaco (miocarditi) o una progressiva dilatazione e disfunzione del cuore e andare dunque incontro a scompenso cardiaco, oltre che aritmie. Ogni caso va valutato in sede specialistica e le terapie vanno tagliate sui diversi quadri clinici. 

Gusto e olfatto tardano a ricomparire

Le alterazioni del gusto e dell’olfatto sono molto variabili nel loro manifestarsi e nella loro durata. Hanno accompagnato le prime manifestazioni di Covid, ma sono diventati meno frequenti con le successive varianti come Omicron. Si stima che nelle prime fasi della pandemia fino al 65-70% di chi contraeva Covid sviluppasse i disturbi dell’olfatto che si distinguono in: parosmia (alterata percezione), cacosmia (abnorme percezione di cattivi odori), fantosmia (percezioni di odori non presenti), iposmia (riduzione della percezione degli odori), anosmia (assenza completa dell’olfatto).

 Perdita o alterazioni nella percezione di sapori e odori possono persistere nel tempo con grande variabilità (anche per mesi, a volte un anno), è però difficile che compaiano ex novo dopo la guarigione dalla fase acuta. In molte persone si risolvono entro due settimane dall’esordio acuto o vanno incontro a un progressivo spontaneo miglioramento e in oltre il 90% dei casi regrediscono del tutto.

Eruzioni cutanee e perdita di capelli

I problemi cutanei nei pazienti Long Covid possono essere distinti in lesioni insorte durante la fase acuta della malattia che persistono nel tempo e condizioni che invece si manifestano successivamente. Durante la malattia iniziale possono verificarsi eruzioni cutanee simili a orticaria, morbillo o varicella. Molto spesso queste «lesioni» si associano a prurito e interessano tronco, addome, arti superiori, mani o piedi.

Compaiono più frequentemente in pazienti con forme moderate o gravi di Covid-19 e generalmente si risolvono in fretta (nel giro di una-quattro settimane). Sempre in fase acuta, soprattutto in persone giovani e con Covid lieve, possono comparire lesioni simili ai geloni da freddo che tendono a durare in media due settimane. 

 La caduta dei capelli si verifica invece settimane o mesi (in media 2 o 3) e, come i problemi cutanei, tende a risolversi da sola con il tempo. L’attesa può essere lunga, si può parlarne con il medico di famiglia o uno specialista dermatologo che, se lo ritiene necessario, può prescrivere una terapia.

I disturbi gastrointestinali non si limitano alla fase acuta

La capacità dei coronavirus di colpire il tratto gastroenterico e il fegato era già nota dalle precedenti epidemie da coronavirus, la Sars del 2003 e la Mers del 2012. I disturbi gastrici e intestinali, sia in fase acuta sia a distanza di tempo, sono meno frequenti di quelli respiratori, ma interessano una percentuale non indifferente delle persone (circa il 30% di chi contrae Covid). 

Oggi sappiamo da studi su ampie casistiche come il sintomo gastrointestinale più frequente nella fase acuta dell’infezione sia rappresentato dalla diarrea, ma molto diffusi sono anche nausea, vomito, dolore addominale e inappetenza. Il primo passo è parlarne con il proprio medico di famiglia, evitando di affidarsi a rimedi recuperati da fonti non attendibili. 

Nella maggior parte dei casi la storia clinica e pochi esami diagnostici saranno sufficienti per inquadrare il problema e risolverlo con opportuni accorgimenti dietetico-comportamentali. Se i disturbi non migliorano o su consiglio del proprio medico, in casi selezionati si potrà fare ricorso a una visita specialistica gastroenterologica. 

Difficoltà a concentrarsi e affaticamento mentale

Difficoltà di concentrazione, confusione, pensiero più lento del solito, dimenticanze, affaticamento mentale. Un insieme di sintomi viene usato per descrivere una delle manifestazioni più diffuse e debilitanti del Long Covid, battezzata con un termine non medico: in inglese brain fog, per lo più tradotto letteralmente come «nebbia mentale».

 È spesso riferito fra i tre sintomi Long Covid più debilitanti (insieme a dispnea e stanchezza cronica). Numerose indagini, poi, hanno evidenziato una moltitudine di complicanze psichiatriche dopo che i sintomi primari di Covid-19 acuto sono cessati: depressione e ansia, disturbo post-traumatico da stress, disturbi cognitivi, fatigue, disturbo ossessivo-compulsivo, disturbi del sonno.

Le ripercussioni «mentali» dell’infezione possono essere causate sia dalla risposta immunitaria al virus stesso, sia da fattori di stress psicologici come l’isolamento sociale, l’impatto psicologico di una nuova malattia grave e potenzialmente fatale, la preoccupazione di infettare gli altri e la stigmatizzazione. 

Una grande stanchezza, dolori muscolari e articolari

In quest’ambito i sintomi più diffusi post Covid sono il dolore muscolare e articolare (mialgie e artralgie) spesso uniti a grande stanchezza. I problemi possono persistere dopo la fase acuta (generalmente pochi giorni, ma per una quota di pazienti sembrano diventare cronici, di intensità più o meno severa), ma è improbabile che compaiano all’improvviso in seguito alla guarigione dall’infezione.

A rendere ancora più grave il danno a carico di muscoli è ossa è il frequente calo di peso che si accompagna a sarcopenia (ovvero la perdita di massa e forza muscolare), soprattutto nei pazienti reduci da lunghi ricoveri e da un prolungato allettamento. Il problema può riguardare tutti: bambini e anziani, soggetti magri così come sovrappeso e obesi, causando ulteriore debolezza e un impedimento a svolgere le normali attività quotidiane.

 Uno specialista (internista o fisiatra), dopo aver valutato il singolo caso, può consigliare la cura idonea, inclusi esercizi da eseguire in palestra o a casa o cicli riabilitativi da eseguire in regime ambulatoriale.

Vera Martinella per corriere.it il 26 giugno 2022.

Di Long Covid parleremo molto e a lungo perché più passa il tempo dall’inizio della pandemia di Sars-CoV-2 più scopriamo gli effetti inattesi a lungo termine del virus e il loro impatto sulle nostre vite. Un impatto che rischia di abbattersi come uno tsunami non solo sulla salute delle singole persone, ma sul benessere di tutta la collettività, fino a mettere a rischio la tenuta del nostro Servizio sanitario nazionale stesso.  

Quasi tutti Paesi occidentali hanno lanciato dei «progetti speciali» che mirano a raccogliere dati, archiviarli, analizzarli per capire come e dove curare e gestire i nuovi malati. Mentre le riviste scientifiche internazionali più prestigiose sono ricche di nuovi studi che si susseguono come parti di un gigantesco puzzle.

L’Organizzazione Mondiale di Sanità ha deciso di chiamarla ufficialmente «post Covid-19 condition»: è la condizione di persistenza di segni e sintomi che continuano (o si sviluppano) oltre le 12 settimane dal termine della fase acuta di malattia.  

Una sindrome di cui ancora si sa poco, perché serve tempo per raccogliere dati sufficienti a trarre delle conclusioni e perché a complicare il lavoro dei ricercatori ci sono due «ostacoli»: primo, gli organi interessati sono diversi e i sintomi sono molti, non facili da inquadrare con sicurezza; secondo, a varianti del virus differenti (come Delta, Omicron, ecc.) potrebbero corrispondere altrettante conseguenze sul lungo periodo. 

Che cos’è la sindrome Long Covid o Post Covid? Come si diagnostica? Come affrontare sintomi respiratori, cardiovascolari, neurologici o di altra natura conseguenti al Coronavirus? Chi è a maggior rischio? Come curarsi? 

 Il libro «Post COVID. Che cosa dobbiamo sapere sulle conseguenze a lungo termine del virus per corpo e mente» (di Sergio Harari con Vera Martinella, edizioni Solferino) offre un primo bilancio di ciò che la scienza ha appurato finora, una guida per le persone che continuano ad accusare disturbi dopo l’infezione, per aiutarle a capire e interpretare i sintomi. Con un’attenzione speciale anche al disagio psichico causato dalla pandemia e ai problemi di bambini e adolescenti.

Sono milioni le segnalazioni raccolte dai medici per problemi più o meno severi che perdurano a distanza di mesi dalla fine di Covid-19: dalla stanchezza cronica alla nebbia cerebrale, dai danni cardio-polmonari a quelli gastroenterici, passando anche per disturbi che riguardano reni, fegato, pelle e capelli.  

Non sempre i sintomi sono correlati al grado di severità della malattia da Covid sofferta in fase acuta e non sempre è chiaro il meccanismo con il quale si sviluppano. Quante persone ne soffrono? Moltissime, ma è impossibile per ora dare numeri certi. 

Alcune statistiche indicano la presenza di sindrome Long Covid in circa il 30 per cento di chi si è infettato, ma esistono stime molto superiori, fino al 50 per cento. Qualche informazione in più è disponibile sui soggetti più a rischio di sviluppare una condizione post Covid: chi ha un’età più avanzata, il sesso femminile, chi è obeso o sovrappeso, chi ha avuto un ricovero ospedaliero (specie se in terapia intensiva) dovuto a un’infezione da Sars-CoV-2 grave, chi soffre di altre malattie (come diabete, ipertensione arteriosa, asma, per esempio).

Le cause? Ancora in gran parte sconosciute, anche se il potente stato infiammatorio determinato dal virus sembra essere il principale indiziato e il comune denominatore di tanti disturbi diversi associati alla sindrome post Covid. La ricerca scientifica si sta concentrando, infatti, da una parte sui meccanismi alla base dello sviluppo delle diverse manifestazioni di malattia e dall’altro sulle possibili cure. 

Al momento, infatti, le terapie sono per lo più basate sull’esperienza che i vari specialisti costruiscono col passare del tempo e, per ora, puntano soprattutto ad alleviare i sintomi lamentati dai pazienti. 

Un ultimo grande capitolo quando si parla di post Covid è il suo impatto psicologico: sulle coppie, sulle famiglie, sul lavoro, sulle persone più «fragili» (come chi già era in cura per disturbi psichiatrici, gli anziani, le persone sole) e su bambini e adolescenti, che stanno pagando un prezzo molto alto anche a livello di benessere mentale. Lo dimostrano i numeri crescenti di disturbi d’ansia, dell’alimentazione e problemi del sonno. In Italia come nel resto del mondo.

Sergio Harari,Vera Martinella per il “Corriere della Sera” il 26 maggio 2022.

Un grande senso di stanchezza, fiato corto (dispnea), dolori alle ossa, ai muscoli e alle articolazioni, mal di testa, tosse, dolori toracici o senso di costrizione al petto, difficoltà di memoria e di concentrazione. Sono solo alcuni dei disturbi che restano in migliaia di pazienti dopo aver avuto Covid-19. 

Ma l'elenco dei sintomi che perdurano è lunghissimo, quanto quello delle domande aperte sulla sindrome Long Covid (l'Organizzazione Mondiale della Sanità ora ha deciso di chiamarla ufficialmente «post Covid-19 condition»), cioè lo stato di salute di chi accusa ancora problemi oltre le 12 settimane dal termine della fase acuta dell'infezione da Sars-CoV-2.

Anche questa è una malattia nuova e la scienza inizia a raccogliere le informazioni per rispondere. Una delle indagini più recenti, pubblicata pochi giorni fa sulla prestigiosa rivista The Lancet, ha preso in considerazione quasi 200 studi sul tema per un totale di oltre 120mila persone coinvolte: più della metà (ben il 57 per cento) aveva segni di Long Covid.

Non importa se si è stati sintomatici o asintomatici e spesso non dipende neppure dalla gravità dell'infezione, sebbene chi è stato ospedalizzato (soprattutto in terapia intensiva) ha maggiori probabilità di sequele indesiderate. Anche l'età non è necessariamente un discrimine, infatti giovani e persino bambini non sono esentati, sebbene gli anziani appaiano comunque più in pericolo.

Emergono però differenze fra i disturbi che colpiscono gli anziani piuttosto che i ragazzi e, pare ormai certo, pure fra le diverse varianti del virus: ad esempio, alterazioni persistenti dell'olfatto e del gusto sono più frequenti in chi si è ammalato durante la prima ondata.

Sebbene i dati di quest' ultima ricerca, coordinata da studiosi dell'Università Aldo Moro di Bari, siano di grande rilievo perché valutano numeri molto ampi di pazienti, non sono conclusivi. I quesiti che attendono risposta sono ancora molti, ma nel libro Post Covid . Che cosa dobbiamo sapere sulle conseguenze a lungo termine del virus per corpo e mente abbiamo raccolto tutto ciò che finora abbiamo appreso, nel tentativo di dare informazioni concrete utili a chi oggi ha bisogno e vuole saperne di più.

È il primo volume che fa un punto sulle conseguenze a lungo termine dell'infezione a livello fisico e psicologico, una guida per le persone che continuano ad accusare disturbi, per aiutarle a capire e interpretare i sintomi, a valutare quali esami fare, a chi rivolgersi per avere una diagnosi corretta e le terapie più idonee. Proviamo a spiegarne le cause, anche se su cosa scateni il Long Covid la ricerca ha ancora moltissimo da comprendere.

Nei vari capitoli ci occupiamo di tutti i problemi per ora noti: quelli che paiono più frequenti e che interessano l'apparato respiratorio, cardiovascolare e muscolo-scheletrico, ma anche gli altri di cui ancora non è ben definita la portata, ma che riguardano comunque milioni di individui al mondo. 

Se diarrea, nausea, disturbi dell'appetito, prurito cutaneo, eritemi, caduta dei capelli, problemi renali, diabete, squilibri endocrinologici sembrano interessare numeri inferiori di persone, la loro persistenza o comparsa (perché in effetti ci sono anche soggetti che vedono comparire ex novo i segni di post-Covid settimane o mesi dopo l'infezione, e non sempre sono problemi direttamente collegati a quelli manifestati nella fase acuta della malattia) non è di minore impatto nella vita di chi ne soffre. Le donne sembrano più a rischio di sintomi perduranti rispetto agli uomini, ma per tutti c'è una buona notizia: nella gran parte dei casi i problemi si attenuano, fino a scomparire, entro 6 mesi.

Ampio spazio, poi, è dedicato alla psiche, ai segni neurologici, ai disturbi del sonno e alla diffusissima «nebbia mentale», che si manifesta con problemi a mantenere l'attenzione, ricordare, concentrarsi. Senza dimenticare le complicanze psichiatriche: depressione e ansia, disturbo post-traumatico da stress, disturbi cognitivi, fatigue, disturbo ossessivo-compulsivo, che appaiono spesso peggiorati in chi già ne soffriva e molto più frequenti nel resto della popolazione. La pandemia ha avuto un effetto devastante sullo stato di salute mentale, le quarantene e il distanziamento sociale hanno avuto enormi ripercussioni negative.

Per tutti, dagli anziani ai bambini, passando per quegli adolescenti che sembrano pagare un prezzo altissimo con una crescita preoccupante dei casi di anoressia, bulimia, autolesionismo, disturbi dell'umore. Al post-Covid nei più piccoli è riservato un capitolo a sé, così come al ritorno all'attività sportiva, agonistica e non, che molti benefici può dare ai pazienti.

Da ansa.it il 22 aprile 2022.

Documentata l'infezione da SARS-CoV-2 più lunga in assoluto: durata 505 giorni, ha attanagliato un paziente immunodepresso, che poi non ce l'ha fatta nonostante le terapie. Presentato a Lisbona al congresso della Società Europea di Microbiologia Clinica e Malattie Infettive da esperti del King's College London and Guy's and St Thomas' NHS Foundation Trust, il caso clinico rinforza l'idea che le nuove varianti del covid si siano formate proprio in questi pazienti che non riescono a guarire.

E non si tratta di un caso isolato: lo studio presentato in Portogallo ha infatti seguito ben 9 di questi pazienti con Covid lunghissimo, tutti immunodepressi per malattie (Hiv, tumori, etc) o terapie in corso (con immunosoppressori). Condotto da Luke Blagdon Snell, lo studio ha documentato anche il primo caso di infezione occulta, ovvero di un paziente che, risultato negativo a vari test, si è poi ripositivizzato con una variante ormai non più circolante, a testimonianza del fatto che il virus era rimasto nascosto nell'organismo da lungo tempo.

Gli esperti hanno periodicamente sequenziato il virus nei nove pazienti e verificato proprio l'emergenza nel tempo di mutazioni presenti in varianti note come alfa, delta e omicron. Cinque dei nove pazienti sono sopravvissuti. Due di questi hanno vinto il virus da soli, due dopo aver ricevuto anticorpi monoclonali e antivirali, l'ultimo ha ancora l'infezione da più di un anno (412 giorni), nonostante la terapia con anticorpi.

Un Long Covid per ogni variante, lo studio italiano che lo dimostra. Giampiero Casoni l 26/03/2022 su Notizie.it.

Cosa è successo ai pazienti quando in Italia circolavano ceppo originario ed Alfa: un Long Covid per ogni variante, lo studio italiano analizza il tema. 

C’è un tipo di Long Covid per ogni variante, lo studio italiano che lo dimostra curato dall’Università di Firenze ed ospedale di Careggi verrà presentato ad aprile in Portogallo, a Lisbona, all’Eccmid, il Congresso europeo di microbiologia clinica e malattie infettive.

I risultati sono vasti e fra essi primeggia il dato per cui le vittime “preferite” del Long Covid sono le donne. 

Un Long Covid per ogni variante

E non è finita; chi ha il diabete di tipo 2 è meno a rischio di decorsi lunghi e severi di quella che ormai è considerata una sindrome a sé stante. Il team del professor Michele Spinicci è partito da un dato clinico: oltre la metà dei sopravvissuti al coronavirus sperimenta sequele nella fase post acuta di Covid.

E il Long Covid è ecumenico e “democratico” perché colpisce chiunque: anziani e giovani, sani e con malattie preesistenti. 

Cosa è emerso dallo studio su 428 pazienti

Lo studio di osservazione condotto tra giugno 2020 e giugno 2021 ha coinvolto 428 pazienti, di cui 254 (59%) uomini e 174 (41%) donne. In quel periodo circolavano ceppo originario e variante Alfa. Di essi 325 su 428,  il 76%, hanno riportato almeno un sintomo persistente.

Quali? Mancanza di respiro (37%) e affaticamento cronico (36%), poi problemi di sonno (16%), problemi visivi (13%) e nebbia cerebrale (13%). E chi aveva avuto il covid severo con somministrazione di farmaci immunosoppressori come tocilizumab, aveva 6 volte più probabilità di riportare sintomi di Long Covid. 

Viola Giannoli per “la Repubblica” l'11 aprile 2022.

C'è chi ha vuoti di memoria, chi fa fatica a lavorare, guidare e fare la spesa, chi si sente smarrito. Si chiama "nebbia cognitiva", uno dei sintomi del Long Covid. L'ultimo studio è stato condotto dal centro Aldo Ravelli dell'Università di Milano, in collaborazione con l'Asst Santi Paolo e Carlo e l'istituto Auxologico italiano, e pubblicato sull'European Journal of Neurology. La nebbia appare all'improvviso, spaventa, confonde, crea ansia e dopo un anno si dirada, ma non sparisce affatto. 

Professoressa Roberta Ferrucci, che s' intende con nebbia cognitiva?

«È un insieme di sintomi mentali che persistono dopo dodici settimane dalla guarigione dal Covid».

E in cosa consistono?

«Perdita di concentrazione, vuoti di memoria, confusione, fatica e stanchezza mentale, rallentamento». 

I pazienti come se ne accorgono?

«Si sentono confusi, smarriti, meno lucidi. Raccontano di avere vuoti di memoria, di dimenticarsi le cose». 

E quanto durano questi sintomi?

«Lo studio che ho coordinato è stato condotto su un gruppo di 76 pazienti sottoposti a diverse terapie con ossigeno in base alla gravità: il 63 per cento di loro ha manifestato un deficit cognitivo 5 mesi dopo le dimissioni; nel 50 per cento dei pazienti i disturbi di memoria e il rallentamento dello speed processing, la velocità di elaborazione, è ancora presente dopo 12 mesi. Ora dovremo capire se i sintomi persistono tra altri 6-12 mesi.

Al momento non sappiamo se siano tutti e del tutto reversibili. Con il tempo e la riabilitazione sembra esserci un recupero». 

Davvero c'è chi ha difficoltà a compiere azioni quotidiane come guidare, fare la spesa, lavorare?

«Sì. E nei pazienti più giovani ci sono implicazioni sociali e lavorative significative: le prestazioni rallentano e si fa molta fatica a riguadagnare livelli premorbosi.

Questo genera anche un forte aumento della fatica mentale, dello stress e dell'ansia».

La nebbia cognitiva chi colpisce?

«Il nostro studio è stato condotto su pazienti di ambo i sessi, tra i 22 e i 74 anni. Non ci sono caratteristiche specifiche per dire chi lo avrà. Le difficoltà respiratorie del Covid possono certamente influire sul rallentamento cognitivo ma non è affatto scritto che questo si presenti solo nei casi più gravi».

Lo studio è iniziato nel 2020, su pazienti contagiati dal ceppo di Wuhan. Le varianti, da Omicron a Xj, possono dare disturbi cognitivi?

«Esattamente. Ogni variante, abbiamo visto, ha sintomi specifici. Ma la nebbia cognitiva le accomuna tutte». 

I vaccini proteggono dalla nebbia?

«Sì, i sintomi del Long Covid e la nebbia mentale sono ridotti del 40% nei vaccinati».

Come avviene la diagnosi?

«Attraverso una valutazione neuropsicologica con test validati in italiano. Se i sintomi persistono dopo 12 settimane sicuramente bisogna rivolgersi a uno specialista». 

Se ne può uscire?

«Al momento non ci sono trattamenti o linee guida specifiche, ma ci sono ambulatori post Covid e laboratori neuropsicologici per la riabilitazione cognitiva».

E come funziona la riabilitazione?

«È diversa da paziente a paziente. In generale si basa su un training cognitivo di 10 sedute individuali da 50 minuti l'una, un giorno a settimana, in cui si fanno esercizi per migliorare l'attenzione e la memoria a breve termine. Ad esempio in un'immagine dove ci sono molti stimoli, alleniamo a cercarne uno specifico. Oppure facciamo vedere una sequenza di immagini e poi una seconda serie in cui ne aggiungiamo di nuove: i pazienti devono riconoscere le già viste e le inedite».

Malati inguaribili e Covid, il racconto di Laura. Che li assiste a casa. Laura Tartaglia La Repubblica il 22 Marzo 2022.  Un medico esperto di Cure palliative racconta le giornate dei gruppi di intervento domiciliare della Samot onlus a Palermo. Un team che lavora anche con i pazienti Covid positivi, che vivono difficoltà ancora maggiori, tra spazzatura non ritirata e medicina da comprare.

La mattina si alza dal letto a fatica. Le ossa le sente rotte. Inforca gli occhiali, ma è talmente già stanca dalla giornata di ieri che le capita spesso di lavarsi la faccia dimenticando di toglierseli. Il caffè lo prende doppio e se ne frega se le è venuta la gastrite, deve riprendere le forze velocemente. Comincia la giornata, e con la giornata le telefonate degli infermieri, degli Oss, dei fisioterapisti che lavorano con lei 7giorni su 7 e 24 ore su 24 e soprattutto riprendono le telefonate dei parenti dei pazienti con le ultime notizie della notte.

Laura Tartaglia Capita che veda dai 6 ai 7 malati al giorno distribuiti in tutta la provincia (ma proprio tutta, anche i paesini inerpicati su colli e montagne), che mangi schifezze per strada, che fumi come una turca, che la sera torni a casa carponi e con lo stomaco che grida aiuto.

Certe volte quando Laura è dal paziente gli carezza la fronte, gli pizzica la guancia, lo tiene per mano mentre parla con i parenti. Cerca di confortarli anche così... quanto vale un tocco certe volte, neanche la morfina riesce a fare.

Il Covid non è uguale per tutti, per gli inguaribili è ancora peggio

Perché fa questo lavoro a rischio di contagiarsi anche lei? Quando dalle coperte sorge un sorriso senza denti, una guancia che si prende tutta la sua mano, quando riceve i "grazie" mentre si richiudono le porte, Laura si ricarica, resiste alla fatica e ricomincia da un'altra parte.

Di tutto questo lavoro svolto a domicilio dei malati inguaribili che hanno il Covid, non si sa niente. Si parla di Ospedali, delle terapie intensive, del 118, dei medici curanti... nessuno parla dei team covid a casa dei pazienti inguaribili. A parte la gente che lavora con lei e la Samot (una struttura ) che fa del suo meglio, nessuno sa che lavoro si fa, quanta fatica ci vuole, ma soprattutto quanta lucidità ci vuole. Quanta morfina ha quel paziente, quanto ha di emoglobina o INR, quanto ha urinato, quanto ha di febbre o di saturazione... se il paziente ha mangiato, se è stato pulito, medicato, se ha ricevuto i presidi... Gente che lavora tutti i giorni, silenziosamente, e che solleva gli ospedali, le terapie intensive, i 118 e i medici curanti da un lavoro tremendo, fatto di difficoltà di ogni genere e a rischio della propria vita.

Comprare farmaci o prendere le ricette. Ma anche buttare la spazzatura

Secondo voi come fa una famiglia positiva a comprare i farmaci in farmacia? A prendere le ricette? A mangiare? A buttare l'immondizia? A procurarsi le bombole d'ossigeno? Sembra facile ma non lo è quando sei anziano, quando non sai usare un cellulare android, quando le tue badanti e persino i tuoi figli ti hanno abbandonato appena hanno saputo che eri positivo, quando abiti in culo al mondo e l'unica farmacia del paese non ha i farmaci che ti servono. Beh, c'è zia Laura che ci pensa. L'auto che la porta in giro è un'arsenale più che un mezzo di trasporto. I medicinali e i presidi che donano le famiglie dei pazienti che sono morti vengono ridistribuiti a chi è in difficoltà, a chi non può uscire, a chi non ha nessuno, o non ha i soldi contanti. Ci sarebbero tante storie da raccontare e qualche volta Laura le scriverà, me l'ha promesso!

* Laura Tartaglia è specializzata in Cure palliative e dal 2007 svolge a Palermo la sua attività di medico palliativista in assistenza domiciliare per conto della Samot onlus. Ha pubblicato il libro "Quando è buio e fa freddo" e il racconto "Che vi piaccia o no" entrambi con Qanat edizioni

Melania Rizzoli per “Libero quotidiano” l'8 marzo 2022.

Di notte, mentre dormiamo, il nostro cervello entra in modalità riposo ma una parte di esso resta sveglio e attivo, continua a monitorare l'ambiente che ci circonda proteggendo per ore l'induzione e la prosecuzione del nostro sonno, e rimane vigile e pronto proprio per ripristinare lo stato di veglia velocemente, ossia svegliarci qualora necessario, quando per esempio irrompono stimoli nocivi o disturbi sensoriali improvvisi.

Sarà capitato ad ognuno di noi di risvegliarsi nel cuore della notte e riprendere subito lo stato di coscienza per un rumore improvviso, un tonfo, un richiamo vocale o uno stimolo fisico, ma anche per un leggero sonoro, e questo perché l'encefalo mantiene, anche quando siamo nella fase di sonno profondo, uno stato di attenzione elevato, una allerta a protezione della nostra incolumità durante lo stato onirico e incosciente, quando ci abbandoniamo al torpore cerebrale che abbassa le palpebre e spegne lo sguardo e la vigilanza.

I DISTURBI

Per tali motivi addormentarsi con il televisore acceso non è salutare e a lungo andare può risultare addirittura pericoloso, poiché questa abitudine è in grado di sviluppare disturbi sensoriali che persistono anche durante lo stato di veglia quotidiano per il riposo incompleto e infastidito da rumori di sottofondo, incidendo sull'umore e sulla reattività delle nostre attività della giornata.

I ricercatori dell'Università di Salisburgo hanno pubblicato sul Journal of Neurosciences uno studio in cui dimostrano senza dubbio come il sonno disturbato faccia aumentare a dismisura i Complessi K, ovvero le onde cerebrali legate ai disturbi sensoriali durante il sonno, che si amplificano quando durante la notte si resta in presenza di un televisore sintonizzato, anche con volume abbassato, se non addirittura in modalità "mute", perché hanno sottolineato che anche la luce dello schermo, che varia alternando con flash luminosi e scintillanti le immagini trasmesse che si succedono, è in grado di alterare il riposo e provocare disarmonia cerebrale durante tutta la notte.

L'esposizione alla luce artificiale notturna infatti, è risultata responsabile di alterazione del metabolismo ormonale e di altri processi biologici che influiscono sulle condizioni di salute, fino ad incidere sul metabolismo lipidico che regola il sovrappeso, il quale risulta rallentato quando esposto a luce notturna, anche a quella piccola e flebile di sicurezza, rispetto a chi dorme nel buio totale.

UN'ABITUDINE

Moltissime persone, durante l'epidemia di Covid e durante i lunghi isolamenti e quarantene imposte dalla pandemia, come anche in queste settimane a causa della recente guerra tra Russa e Ucraina, si sono abituate ad addormentarsi con la Tv accesa, per non perdere le ultime notizie e magari cambiando canale per distrarsi dall'ansia provocata da troppi eventi avversi e ravvicinati che sono accaduti ed insistono nelle cronache quotidiane, oppure semplicemente per addormentarsi con il sottofondo del sonoro vocale cantilenante di molte trasmissioni, senza sapere che dimenticare di spegnere lo schermo e la luce non fa riposare bene e a dovere, tiene il cervello in stato di allerta continuo, poiché anche mentre si dorme esso è in grado di apprendere ed immagazzinare quello che sente e vede con il passare delle ore mentre dormiamo, scaricando poi nei sogni quello che ritiene inutile, di scarto o di troppo nel tentativo di mantenere in ordine l'orologio biologico, ormonale ed il normale ciclo sonno-veglia.

Dunque, quando arriva l'ora di andare a dormire, sempre meglio spegnere Tv, luci e smartphone, per non sollecitare di continuo durante il sonno il nostro organo più prezioso, per non sottoporre ad ulteriore stress il computer neurologico indispensabile alla vita che regola la nostra esistenza giorno e notte, il cui mancato riposo si farà sentire il giorno seguente con tutta la sua stanchezza e irritabilità, per cui ci si sente dire: "non hai dormito bene?", rendendoci agli occhi degli altri non solo ansiogeni e irascibili, ma anche antipatici e insopportabili, il tutto a causa di una Tv rimasta accesa che non abbiamo, almeno apparentemente, neppure vista, seguita o ascoltata.

Silvia Turin per il corriere.it l'8 marzo 2022.  

Il dipartimento di neuroscienze cliniche dell’Università di Oxford ha pubblicato lunedì su Nature uno studio che dimostra come il Covid possa avere un impatto fortemente deleterio sul cervello, misurabile in perdita di materia grigia e danni ai tessuti. 

Le caratteristiche dello studio

La ricerca ha coinvolto per la prima volta persone sottoposte a scansioni cerebrali sia prima di contrarre il Covid sia alcuni mesi dopo: sono stati 785 soggetti i cui dati sono stati raccolti dalla UK Biobank (un archivio di prove cliniche provenienti da mezzo milione di persone in Gran Bretagna).

Ciascuno dei partecipanti è stato sottoposto a due scansioni cerebrali a circa tre anni di distanza, oltre ad alcuni test cognitivi di base. Tra le due scansioni, 401 partecipanti sono risultati positivi al coronavirus, tutti infettati tra marzo 2020 e aprile 2021. Gli altri 384 partecipanti hanno formato il gruppo di controllo perché non erano stati infettati, ma avevano caratteristiche simili ai soggetti del primo gruppo per età, sesso, anamnesi e stato socioeconomico. 

Lo studio, che ha coinvolto persone di età compresa tra 51 e 81 anni, ha riscontrato la restrizione di volume e i danni ai tessuti principalmente nelle aree cerebrali legate all’olfatto, che però sono anche coinvolte in altre funzioni.

La seconda scansione cerebrale (per gli infetti) è avvenuta in media quattro mesi e mezzo dopo il Covid: costoro hanno perso più materia grigia (in diverse regioni del cervello) dei partecipanti non colpiti da Covid. 

In particolare, tra lo 0,2% e il 2% in più. Hanno anche perso più volume cerebrale in generale e hanno mostrato più danni ai tessuti in alcune aree. La malattia da Covid per loro era stata leggera. Nessuno è stato ricoverato in ospedale (tranne 15 individui per cui i danni al cervello sono sembrati anche maggiori).

Non sono stati riscontrati deficit funzionali

La causa dei cambiamenti cerebrali non è chiara. Gli autori hanno menzionato teorie tra cui l’infiammazione, la cui prova è stata trovata in altri studi, o la «privazione sensoriale» per la possibile perdita del senso dell’olfatto. In realtà questa è solo un’ipotesi, dato che una limitazione significativa allo studio è che i ricercatori non avevano informazioni sui sintomi da Covid nelle persone prese in esame, incluso se avessero perso o meno il senso dell’olfatto.

Al netto della marcata differenza fisica nel cervello tra infetti e non e nonostante i test cognitivi eseguiti, non è chiaro quali siano davvero le implicazioni dei cambiamenti nel volume di materia grigia e non sono state dimostrate da questo studio correlazioni causa-effetto con danni permanenti o disfunzioni di pensiero, memoria o altre funzioni cerebrali. 

I test cognitivi somministrati, infatti, non sono stati sufficientemente approfonditi per provare deficit significativi. I danni erano localizzati per lo più su neuroni olfattivi, altre regioni (ad esempio legate alla memoria) non hanno mostrato alcuna alterazione a livello funzionale. La principale valutazione cognitiva in cui i pazienti Covid hanno mostrato un deficit è stata un tipo di esercizio che fa connettere i punti e che coinvolge lettere e numeri alternati: i pazienti Covid hanno impiegato più tempo per completare l’attività, il che potrebbe suggerire punti deboli nella messa a fuoco, nella velocità di elaborazione e in altre abilità, ma - è bene ripeterlo - non è un test risolutivo per la valutazione.

Cosa non sappiamo

Le domande aperte sono ancora molte: la prima, come si è scritto, è se vi siano danni collegati alla riduzione di materia grigia, la seconda è se questo impatto deleterio possa essere parzialmente invertito o se questi effetti persisteranno a lungo termine. 

Ad esempio le differenze nelle scansioni del cervello tra persone infette e non infette aumentavano con l’età, possibile indicazione di una migliore capacità di recupero da parte dei giovani. 

Altri dati non investigati riguardano i ceppi virali e l’effetto della vaccinazione: l’influsso del Covid sugli organi potrebbe mutare a seconda della variante di coronavirus contratta, poiché Omicron ha, tra i sintomi, una perdita dell’olfatto molto inferiore, si potrebbe ipotizzare un minore impatto anche sul cervello. Infine, la maggior parte dei pazienti infetti ha contratto il Covid entro aprile 2021.

Collegando questo dato alla campagna vaccinale in Gran Bretagna è difficile pensare che fossero stati vaccinati, anche se non è dato saperlo, ma sarebbe interessante, perché in alcuni casi di Long Covid la vaccinazione ha attenuato i problemi, anche cognitivi, e ha avuto un ruolo nel bilanciare gli effetti a lungo termine della malattia da Covid. 

Cosa sappiamo del post Covid

Quel che è noto da tempo è che il Covid non è un’influenza, ma una malattia multiorgano e multisistemica che può danneggiare varie parti del corpo e può lasciare importanti strascichi. L’anno scorso, un sondaggio pubblicato dai Centers for Disease Control and Prevention Usa (CDC) ha rilevato che quasi due terzi degli americani risultati positivi hanno riportato almeno un sintomo a lungo termine più di quattro mesi dopo essere stati infettati: il 55,5% includeva «disfunzioni cognitive», come difficoltà di concentrazione o perdita di memoria.

Le complicazioni neurologiche sono state documentate durante e dopo la malattia da numerosissimi studi: ridotta concentrazione, mal di testa, disturbi sensoriali, depressione e persino psicosi possono persistere per mesi dopo l’infezione, come parte di una costellazione di sintomi chiamata Long Covid che può colpire anche i giovani con malattia iniziale lieve. 

I meccanismi fisiopatologici del Long Covid non sono ancora del tutto chiari, sebbene l’evidenza implichi principalmente una disfunzione immunitaria. Con milioni di persone colpite dal virus, le complicazioni del sistema nervoso pongono ulteriori sfide alla salute pubblica che si protrarranno per anni e che riguardano la riabilitazione e il recupero delle capacità funzionali.

Dagotraduzione dal New York Times il 27 Febbraio 2022.

Avevo 43 anni quando è iniziata la pandemia. Ora ne ho 60 anni. 

La cosa sembrerebbe sfidare le leggi della fisica e del buon senso, ma il tasso di invecchiamento non è così semplice come si pensava una volta. E il burnout da pandemia, sebbene non sia una condizione elencata nel dizionario medico di Mosby, è una cosa reale, un indebolimento dello spirito, se non del corpo. 

Un articolo pubblicato il mese scorso sulla rivista scientifica Nature ha suggerito che la pandemia ha accelerato il processo di invecchiamento, non solo per i milioni di persone che hanno contratto il virus, ma anche per coloro che sono stati colpiti dallo sconvolgimento e dall'isolamento della vita remota. Alcuni hanno notato pelle rugosa, capelli brizzolati, articolazioni scricchiolanti e una sensazione cronica di bla, descritta dallo psicologo Adam Grant come "languente".

Le molte persone che hanno avuto il Covid-19, dopo la guarigione si sono sentite «più vecchie», ha detto Alicia Arbaje, professore associato presso la Johns Hopkins University School of Medicine. Per altri, c'è stata l'impressione di essere gettati fuori rotta. 

«È il senso di disconnessione dal tuo scopo: “Perché sono qui?”», ha detto il dottor Arbaje, specializzato in medicina geriatrica. «Una volta che inizi a perdere il contatto con questo, si crea un senso di stress cronico, che può accelerare direttamente l'invecchiamento». 

Nel suo posto di lavoro, il Johns Hopkins Bayview Medical Center di Baltimora, la dottoressa Arbaje ha notato quello che ha definito uno "stress morale" tra i suoi colleghi e su sé stessa. Si manifesta con aumento di peso, occhiaie, caduta dei capelli, stanchezza profonda.

«È questa mancanza di luminosità», ha detto il dottor Arbaje. «La piena estensione della loro persona non si vede. Sono stanchi». 

In parte a causa del mio lavoro di scrittore, che può lasciarmi sedentario anche nei momenti migliori, ho passato quasi due anni seduto curvo alla mia scrivania. A volte accendo il portatile e lo porto sul divano. Anche se mi assillano i pensieri sulla necessità di allenarmi, scopro che non riesco a staccarmi dallo schermo. 

Il mio mondo si è rimpicciolito nei due anni in cui ho lavorato da casa. Mi ritrovo ad aspettare con impazienza la posta e "PBS NewsHour". Il mio maglione preferito, così orgoglioso e fresco nel 2019, è diventato floscio e sfocato. Ora lo chiamo il mio maglione di casa.

Non riuscivo a convincermi a unirmi alla mania del Peloton o al boom della corsa e la mia capacità aerobica è diminuita. Mentre trasportavo mio figlio su una collina, ero così senza fiato che ho pensato di andare in ospedale. 

Ho descritto la mia routine pandemica a Ken Dychtwald, uno psicologo e gerontologo, dicendo che mi aveva fatto sentire come un sessantenne. Il dottor Dychtwald, che ha 71 anni, non ha accolto con favore questa osservazione. 

Ci sono molte persone tra i 60, i 70 e gli 80 anni che conducono una vita attiva, mi ha detto, e non hanno permesso alla pandemia di smorzare il loro umore o impedirgli di fare esercizio.

Il Dr. Dychtwald fa parte di questo gruppo. Oltre a gestire la sua società di ricerca e consulenza, Age Wave, con sua moglie, Maddy, è andato a nuotare tutti i giorni durante la pandemia. Lui e sua moglie hanno anche adottato una dieta antinfiammatoria. 

«E pratico yoga ogni giorno», ha detto. 

Tuttavia, ha riconosciuto che la pandemia è stata dura per tutti.

 «Sono d'accordo con te sul fatto che siamo tutti invecchiati», ha detto il dottor Dychtwald. «Siamo tutti invecchiati durante il Covid in modi drammatici».

Gli ho chiesto se avesse qualche idea sul motivo per cui mi sentivo così stanco tutto il tempo e non riuscivo a fare esercizio. 

«Probabilmente è depressione», ha detto. «Lo associ all'invecchiamento. Questo passerà». La prospettiva che mi mancava, suggerì, potrebbe arrivare quando avrò effettivamente 60 anni. 

«Le persone anziane sono più inclini a provare gratitudine per ciò che hanno vissuto e per ciò che hanno», ha affermato il dottor Dychtwald. «L'intelligenza emotiva aumenta con l'età». 

L'altro giorno, con un po' di fatica, mi sono allacciato le scarpe da corsa e sono andato a fare jogging. Ma puoi davvero chiamarlo jogging quando percorri 10 isolati prima che il fuoco nei tuoi polmoni ti faccia alzare ansimando? Dopo due anni al computer accovacciato, muovermi in piedi era strano, innaturale e mi chiedevo se il mio declino fosse irreversibile.

Il dottor Arbaje, della Johns Hopkins, mi ha detto che non era così. 

«Finché riusciamo a riportare il corpo in allineamento, si tratta di lasciarlo fare ciò che sa fare», ha detto, «che è rigenerarsi e riprendersi». 

Ma aveva un avvertimento inquietante: «È difficile dire se il Covid abbia avuto un impatto permanente e se si sia davvero mangiato qualche anno. Non lo sapremo, forse per qualche decennio».

Il Long Covid. Elena Dusi per "la Repubblica" il 9 febbraio 2022.  

Le ondate passano, il Long Covid resta. Una persona su tre, fra quelle che sono state ricoverate, ha sintomi dopo un anno. Stanchezza o respiro corto, mal di pancia o aritmia, perdita dell'olfatto o depressione: il bilancio quotidiano degli infettati e dei guariti non tiene conto della scia di problemi che la pandemia lascia in eredità.

 «Abbiamo contato le prestazioni sanitarie erogate dalla Regione Lombardia a 50mila guariti tra marzo e dicembre 2020. Anche dopo il tampone negativo ci sono stati più accessi al pronto soccorso rispetto al periodo precedente alla malattia. Abbiamo visto anche un aumento di test diagnostici, di visite specialistiche e presso i medici di famiglia. I problemi più frequenti riguardavano polmoni, cuore e reni» spiega Pier Mannuccio Mannucci, ematologo dell'università di Milano, che ha studiato i dati (in via di pubblicazione) con l'Istituto Mario Negri. 

Il Covid, insomma, manterrà un impatto sulla sanità anche quando il virus avrà, si spera, ripiegato. Se ne stanno accorgendo un po' tutti i Paesi del mondo. Negli Stati Uniti il presidente Joe Biden ha chiesto il riconoscimento legale della malattia. Il Congresso ha stanziato un miliardo di dollari per capire le basi mediche di una sindrome che ha ancora contorni poco chiari. La Gran Bretagna ha varato 15 studi, finanziandoli con 20 milioni di sterline. 

Secondo l'università di Oxford, il 37% degli ex ricoverati ha almeno un sintomo di lungo periodo. Nelle persone colpite da forme lievi la sindrome è meno frequente, ma non sconosciuta. In Italia, con 11 milioni di contagi, a soffrire di Long Covid sarebbero 3-4 milioni di persone. La Finlandia si aspetta che diventi una delle principali malattie croniche del Paese. E la Società italiana di pediatria (Sip) ieri ha invitato i genitori a far visitare i bambini guariti sia 4 settimane che 3 mesi dopo la fase acuta. 

«La diffusione del Long Covid tra bambini e adolescenti non è determinata, varia dal 4% al 60% a seconda degli studi. Negli Usa sono stati diagnosticati 6 milioni di casi in età pediatrica» spiega la presidente della Sip Annamaria Staiano. Gli aspetti da studiare, per gli esperti, sono molti. I vaccini ad esempio riducono anche i sintomi del Long Covid? È plausibile, ma non c'è ancora una risposta. I problemi cognitivi e i disturbi della memoria dipendono - come suggerito da alcuni studi - dai microscopici coaguli di sangue che ostacolano la circolazione nel cervello? E il fatto che le donne siano più colpite dipende dalla natura autoimmune del disturbo? Si sa infatti che il genere femminile soffre di più di questi problemi.

 «La sensazione è che con i vaccini e con forme meno severe della malattia anche i sintomi di lungo periodo si siano attenuati» suggerisce Mattia Bellan, che insegna Medicina interna all'università del Piemonte Orientale e ha pubblicato con i colleghi uno studio su Scientific Reports. E speriamo che abbia davvero ragione, visto che quando è andato a cercare i pazienti dimessi dal suo ospedale a Novara dopo la prima ondata, Bellan ha trovato che ben il 5% era deceduto nei 4 mesi successivi, nonostante la diagnosi di guarigione. 

«Dopo un anno - prosegue il medico - abbiamo visto che il 50% degli ex ricoverati aveva una compromissione lieve o moderata della respirazione. Per un altro 10% la compromissione era grave, e non era migliorata nel tempo». Francesco Benedetti, psichiatra del San Raffaele di Milano, ha studiato gli strascichi della malattia sul cervello. «In un terzo degli ex ricoverati osserviamo una depressione vera e propria, accompagnata da difficoltà delle attività cognitive superiori ». 

Quindi, spiega il docente, «difficoltà nel pianificare le attività quotidiane, rallentamento, affaticamento, perdita delle capacità motorie fini, senso di estraneità dal proprio corpo, soprattutto dai 50 anni in su». La causa, secondo Benedetti, sta nella «potentissima infiammazione scatenata dall'infezione. Sappiamo da tempo che le infiammazioni causano un calo di serotonina nel cervello». La buona notizia è che «la depressione da Covid è curabile». 

Quella cattiva, secondo Benedetti, è che «non noto miglioramenti oggi rispetto alla prima ondata». Anche la perdita dell'olfatto, si sta rivelando un problema di lunga portata. «Tra le persone colpite, il 36% non ha recuperato dopo un anno. La perdita del gusto è ancora al 27%» spiega un team dell'università di Trieste in uno studio di novembre. 

«Le conseguenze su vita sociale e qualità dell'alimentazione possono essere gravi». Con il tempo, il sintomo sembra gradualmente recedere. Ma non chiamatele ancora guarite. Per le vittime del Long Covid, la pandemia non finirà con l'ultima ondata.

Cristina Marrone per corriere.it il 29 gennaio 2022.

Identificare in anticipo chi rischia di andare incontro a una malattia grave da Covid è sempre stata una sfida importante nella comunità scientifica per poter intervenire in modo tempestivo con l’eventuale somministrazione di anticorpi monoclonali. 

Ma capire in anticipo chi soffrirà di Long Covid , che nel linguaggio medico si chiama PASC (Post Acute Sequelae of Covid-19), è un ulteriore passo per aiutare quei pazienti che sviluppano sintomi debilitanti, che possono persistere per molti mesi, e che coinvolgono in media circa il 30% dei pazienti, e non per forza ospedalizzati. L’ultima ricerca dell’Ospedale Sant’Orsola di Bologna ha evidenziato che su 100 pazienti ricoverati, il 60% ha ancora sintomi a due mesi dalle dimissioni. La percentuale si riduce al 40% (ma resta comunque elevata) sei mesi dopo aver lasciato l’ospedale. 

I sintomi più frequenti del Long Covid sono fatica a respirare, debolezza e tosse, nebbia cerebrale, dolore toracico, tachicardia, disturbi dell’equilibrio, nausea o febbriciattola.

I due nuovi studi

Ora due nuovi studi indipendenti hanno identificato i fattori di rischio che predispongono al Long Covid. La prima ricerca è stata pubblicata su Cell da un team americano e ha individuato quattro diversi fattori di rischio: la presenza di autoanticorpi, il livello ematico di RNA virale all’inizio dell’infezione, la riattivazione del virus di Epstein-Barr, responsabile della mononucleosi e il diabete di tipo 2.

La seconda ricerca è invece stata pubblicata su Nature Communications da un team svizzero che ha collegato al Long Covid bassi livelli di alcuni anticorpi e la presenza di asma. Il gruppo di lavoro ha stilato anche un punteggio di rischio Long Covid in cui vanno inseriti i sintomi sofferti dal paziente per arrivare a un risultato basso, medio o alto. 

Sebbene non esista una cura efficace per il Long Covid entrambi i lavori hanno lo scopo di capire, ma solo una volta che si è verificata l’infezione, chi è più a rischio, in modo da aiutare i medici a indirizzare i pazienti verso trial clinici che studiano le terapie per il Long Covid e per organizzare con anticipo la riabilitazione. Un migliore controllo dell’infezione attraverso trattamenti anticorpali, antivirali e farmaci antinfiammatori, può contribuire a ridurre il rischio e anche i vaccini possono mitigare i rischi del Long Covid.

La ricerca americana: i quattro fattori di rischio

Nello studio americano i ricercatori hanno seguito oltre 200 pazienti per 2-3 mesi dalla diagnosi di Covid e hanno messo in evidenza un’associazione tra i quattro fattori di rischio individuati e la comparsa dei segni del Long-Covid, indipendentemente dalla gravità della malattia iniziale. 

Nello specifico sono state seguite 209 persone di età compresa tra i 18 e gli 89 anni risultate positive al Covid tra il 2020 e l’inizio del 2021, alcune delle quali sono state ricoverati in ospedale. I ricercatori hanno svolto analisi del sangue e dei tamponi nasali all’inizio dell’infezione e nei successivi 2-3 mesi.

Nel complesso è emerso che il 37% dei pazienti ha riportato tre o più sintomi di Long Covid a distanza di 2 o 3 mesi dall’infezione. Il 24% ha riportato uno o due sintomi e il 39% non ha riportato alcun sintomo. Fra i pazienti che riportavano tre o più sintomi, il 95% alla diagnosi del Covid presentava almeno uno dei quattro fattori di rischio identificati nello studio (la presenza di autoanticorpi, il livello ematico di RNA virale all’inizio dell’infezione, la riattivazione del virus di Epstein-Barr e il diabete di tipo 2). Il più frequente era la presenza di autoanticorpi, presente nei due terzi dei casi di Long Covid.

La ricerca svizzera: la «firma anticorpale»

I ricercatori dell’ospedale universitario di Zurigo hanno analizzato il sangue di pazienti affetti da Covid 19 e hanno scoperto che bassi livelli di alcuni anticorpi erano più comuni in coloro che avevano sviluppato il Long Covid rispetto ai pazienti che si sono ripresi rapidamente. La «firma anticorpale» ha permesso ai medici di capire se i pazienti avevano un rischio moderato, alto o molto alto di sviluppare malattie a lungo termine in base all’età, al tipo di sintomi sofferti e alla presenza o meno di asma.

Il team ha studiato 175 persone risultate positive al Covid e 40 volontari sani valutati come gruppo di controllo. Per vedere come i loro sintomi sono cambiati nel tempo i medici hanno seguito 134 pazienti Covid per un anno dopo l’infezione. 

Gli esami del sangue dei partecipanti hanno evidenziato come coloro che hanno sviluppato il Long Covid tendevano ad avere bassi livelli di anticorpi IgM e IgG3. Quando il Covid colpisce le IgM aumentano rapidamente, mentre gli anticorpi IgG aumentano nella seconda fase dell’infezione e forniscono una protezione a lungo termine. Fra coloro che erano leggermente malati, il 54% ha riportato sintomi per oltre quattro settimane, quota che sale all’82% fra chi si è ammalato gravemente.

Per stilare un punteggio di rischio Long Covid gli scienziati hanno combinato la firma dell’anticorpo con l’età del paziente (indipendentemente dal fatto che soffrisse o no di asma) e i dettagli dei sintomi. 

Per confermare che il punteggio fosse utile gli scienziati hanno eseguito il test su un altro gruppo di 395 pazienti Covid seguiti per sei mesi. Carlo Cervia, primo autore dello studio ha chiarito: «Il test non può prevedere il rischio di Long Covid prima dell’infezione perché sono necessari i dettagli dei sintomi per compilare il test, ma abbiamo visto che le persone che soffrono di asma con bassi livelli di IgM e IgG3 rischiavano maggiormente di andare incontro al Long Covid».

·        Da ricordare… 

Mirko Giangrande: “Il Festival delle Illazioni”

Come tutti ben sanno l’intera mia famiglia è stata vittima, chi in modo più grave chi in modo più lieve, del Covid - 19. Un nemico invisibile e infido che ha colpito in modo violento, repentino e simultaneo. Un fulmine a ciel sereno che si è abbattuto su gente sempre diligente e rispettosa di ogni regola: mascherina, distanziamento, tamponi, ecc. Tutto ciò, purtroppo, non è bastato ma alla fine, uniti come sempre, ne siamo usciti più forti di prima. Combattendo anche contro la “malasanità pugliese”, ma su tale argomento ormai tanto è stato detto e scritto, sebbene ancora qualcuno, accecato dalla partigianeria politica, esalta qualcosa che esiste solo nella propria mente e continua ad inondarci di belle parole su una situazione invece tragica e sotto gli occhi di tutti.

Ma cosa ci è rimasto di questa esperienza? Il letame. Esatto, tutta la “merda” che buona parte (ovviamente non tutta) del nostro paese ci ha tirato addosso. Non supportandoci ma trattandoci da “untori del paese”, che “il virus ce lo siamo meritato”, “che non dovremmo più farci vedere in giro per un bel po’”, “che ci siamo infettati partecipando a delle feste”. Ma la stronzata numero uno è che l’untore degli untori sono stato io, il principio della pandemia avetranese. Io avrei infettato i miei familiari e poi sarei scappato via. Ovviamente tralasciando il fatto che è dal primo ottobre che sto a Parma senza mai tornare e che nessuno dei miei familiari ha partecipato a nessuna festa. Tali illazioni non posso che partire dalle bocche di criminali e che non possono che far leva solo sui COGLIONI creduloni. Tutto ciò condito da un alto tasso di codardia, dato che chi mette in giro queste voci lo fa di nascosto, conscio che fa bene a non esporsi, rischiando tantissimo in termini legali...

Errori e censure: così è cambiata la narrazione mediatica del Covid. Federico Giuliani il 18 Dicembre 2022 su Inside Over.

Sono ormai passati quasi tre anni da quando il Sars-CoV-2 è arrivato tra noi. Ancora oggi sappiamo ben poco della (e sulla) pandemia di Covid-19 che ha sconvolto il mondo intero provocando l’emergenza sanitaria globale più grave degli ultimi decenni.  Dalla fine del 2019 ad oggi la narrazione sul virus è cambiata più e più volte, e non sempre seguendo fedelmente il reale svolgimento dei fatti. Pressioni politiche, propagande geopolitiche incrociate, censure mediatiche: tutto questo ha modificato i contorni di un racconto che, ancora adesso, stenta ad essere chiaro e lineare. Per provare a capire che cosa è successo, e accendere i riflettori sulle zone d’ombra più scure, abbiamo intervistato Fabrizio Gatti, direttore editoriale approfondimenti di Today.it, già autore del libro L’infinito errore. La storia segreta di una pandemia che si doveva evitare (Nave di Teseo, 2019).

Quasi tre anni dopo l’inizio di tutto possiamo tracciare un bilancio più preciso sulla gestione dell’emergenza sanitaria da parte dell’Italia. Come è cambiata la narrazione giornalistica tra i primi due anni della pandemia e l’ultimo anno?

“Durante i primi due anni anche la narrazione giornalistica, a mio parere, era frutto dell’emergenza e della preoccupazione comune, provocata dall’altissimo numero di vittime delle prime ondate di Covid 19. Nel 2020 non esistevano vaccini. Nel 2021 la campagna vaccinale era agli inizi. Oggi, grazie alla migliore protezione immunitaria di massa dovuta ai vaccini, alle persone che sono guarite e a varianti via via meno aggressive, il virus Sars-CoV-2 fa parte della nostra vita: da pandemico è diventato endemico. Ritengo però che si debba continuare a vigilare sulle nuove varianti e a proteggerci con i richiami del vaccino se pensiamo di essere vulnerabili per età, patologie o frequentazione di luoghi molto affollati”.

Come e in che modo il racconto sul Covid ha influenzato la gestione della pandemia?

Come credo di aver dimostrato nel mio libro L’infinito errore, per quanto riguarda l’Italia più che dall’incompetenza la gestione della pandemia all’inizio è stata viziata dalla sottomissione del governo alle pressioni tranquillizzanti del regime comunista cinese. La Cina sapeva dal 5 gennaio 2020 dell’alta probabilità di trasmissione da persona a persona e l’ha nascosto. Ma anche in Italia il 3 febbraio 2020 un comunicato dell’Istituto superiore di sanità ci metteva in guardia dalla capacità della nuova infezione di trasmettersi rispetto alla Sars, la prima grave epidemia di coronavirus che colpì la Cina dal 2002 al 2004. Eppure pochi giorni dopo l’incolpevole Michele Mirabella, in uno spot in tv commissionato dal ministero della Salute, disse agli italiani che non era affatto facile il contagio.

Nel suo libro L’infinito errore ha ricostruito scandali ed errori commessi dall’Italia: qual è, a suo avviso, l’errore più importante fatto da Roma nella fase più critica?

“Il primo errore, il più grave tutti, è l’aver creduto di sostituire con la dittatura cinese l’alleanza storica che ci lega agli Stati Uniti. Poi l’aver pensato che, da Xi Jinping all’ambasciatore cinese a Roma, fossero tutti nostri amici, democratici e trasparenti. Quindi, sulla base del memorandum di intesa sulla nuova Via della seta, l’aver raddoppiato il 13 gennaio 2020  i voli turistici con la Cina, cioè con un Paese in cui era in corso un’epidemia gravissima, provocata da un virus sconosciuto, con i medici che l’avevano denunciata sottoposti già a sanzioni e censure. Infine non aver preso provvedimenti sanitari efficaci per gli italiani, soprattutto lavoratori e studenti veneti e lombardi, che in quei giorni fuggivano dalla Cina. Anche per questo, al di fuori di Wuhan, lombardi e veneti sono stati i primi al mondo a essere colpiti”.

Le censure su alcune notizie relative alla pandemia hanno influenzato la gestione pandemica italiana? Se si, quali di queste notizie?

“La prima censura in Italia è stata ideologica. Poiché il governatore lombardo Attilio Fontana aveva giustamente messo i cittadini in allarme dopo i primi casi scoperti a Codogno e Lodi, la sinistra si era convinta che il virus fosse di destra. Così alcuni famosi esponenti del Pd hanno promosso la campagna Milano non si ferma, Bergamo corre e lo spritz sui Navigli. Purtroppo subito dopo anche la Lega si è accodata con l’appello del suo leader, dall’aeroporto di Fiumicino, per riaprire fabbriche, negozi, musei, gallerie, palestre, discoteche, bar, ristoranti, centri commerciali. Ho usato esattamente le sue parole. Era la sera del 27 febbraio 2020 e, con un’informazione competente e più prudente, migliaia di persone forse si sarebbero potute ancora salvare. Quanti, in quelle ore cruciali, si sono infatti fidati di questi appelli fuorvianti? La magistratura non sembra voler approfondire la questione. Speriamo lo faccia il Parlamento con una vera commissione d’inchiesta”. 

Adesso l’interesse sul Covid sta scemando. Negli ultimi giorni si sta tuttavia tornando a parlare di influenza. Crede che il tema Covid sia definitivamente archiviato?

“Purtroppo no, non ancora. Soprattutto nei Paesi, come la Cina, dove i vaccini non sono efficaci oppure non esistono del tutto. Ci sono poi le conseguenze indirette della pandemia: le patologie sul lungo periodo provocate dal virus, ma anche un diffuso disagio sociale nelle scuole, nei quartieri, nelle case. Quella sorta di clima da fine del mondo, che rende molti di noi psicologicamente più fragili, insofferenti e instabili”. 

Ancora oggi non conosciamo l’origine esatta del virus. Sono emerse nuove indiscrezioni e nuovi indizi, in mezzo ad accuse reciproche tra Cina e Stati Uniti. La pista più calda resta sempre quella che porta al laboratorio di Wuhan?

“Come spiego nella mia indagine, che ho fatto in diretta mentre il virus si stava ancora diffondendo e ho pubblicato nella primavera 2021, le parentele del virus umano con coronavirus dei pipistrelli che non vivono a Wuhan e sono stati isolati da militari cinesi, indirizzano i sospetti sulle gravi lacune nella biosicurezza del famoso Istituto di virologia della città. Ma senza un’inchiesta indipendente sul campo e la testimonianza sincera delle autorità cinesi, non sapremo mai quando e come il virus è accidentalmente passato dal pipistrello o dalle colture all’uomo. Anche perché il primo contagio asintomatico potrebbe risalire a molto tempo prima. Quella che è evidente è invece la responsabilità dell’autorità cinese e dell’Organizzazione mondiale della sanità nelle censure che hanno permesso a un’epidemia locale in Cina di diventare una pandemia mondiale. Nessuno però chiederà conto di questo a Xi Jinping, se non i giovani cinesi che stanno protestando. Dalla guerra in Ucraina a Taiwan, noi occidentali oggi abbiamo altre priorità”.

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Post Covid. Che cosa resterà di questa pandemia. Anna Prandoni su L’Inkiesta il 26 Novembre 2022.

Scopriamo un nuovo modo di uscire, che dipende innanzitutto dalle abitudini dettate dai due anni appena passati. Cambiano format, giorni, orari e modalità. E forse non ci è andata poi così male

Sì lo sappiamo, la pandemia non è del tutto finita, ma forse ne siamo quasi usciti. E con la riapertura dei ristoranti da più di un anno possiamo dire con certezza che le regole del gioco sono cambiate definitivamente. I prezzi si sono alzati, il personale non si trova, gli orari si sono ridotti, e anche le formule si sono modificate. Ma oggi, quali sono le regole del gioco?

Intanto, sono cambiate le giornate di frequentazione. Il giovedì è il nuovo venerdì, ma forse anche il mercoledì non è così male per uscire. Abbiamo sdoganato le serate infrasettimanali come possibili momenti di relax fuori dalle mura domestiche: sarà stata la lunga reclusione forzata, oppure il lavoro da remoto che ci permette una sveglia più umana in differenti giorni, sta di fatto che nei grandi centri ma anche in provincia i bar e i ristoranti non sono mai stati così affollati anche in settimana. Ma non basta. Parliamo anche di format diversificati per far fronte a Covid e alla crisi, che sono diventati la nuova normalità: la ristorazione è più semplice, l’apertura dei locali si è “accorciata”, e si prova a fare un po’ di economia di scala.

Mal pagati e poco considerati, camerieri e cuochi alla fine stanno disertando: il problema del lavoro che abbiamo più volte analizzato su queste pagine non è mai stato più pressante. Ma invece di cercare ossessivamente personale che non c’è, i ristoratori hanno semplicemente superato il problema cambiando format, e anche le cucine si sono dovute adeguare: ricette meno stravaganti, menu ridotti della metà, prodotti meno costosi (anche per colpa dell’inflazione e del caro prezzi) e stagionali, sia per risparmiare ma anche per rispetto verso il pianeta… Il risultato? Menu che sono in linea con la recessione.

E se per qualcuno il mercoledì è il nuovo sabato, per qualcun altro il sabato e la domenica diventano giorni di chiusura: e se fino a prima del Covid nessun ristorante si sarebbe mai sognato questo orario ridotto nei giorni di punta, oggi c’è sempre di più questa tendenza, perché il personale che ha il week end libero ha meno problemi a lavorare. Dove andranno a svagarsi nei giorni di chiusura, è un altro problema che prima o poi ci toccherà affrontare.

E poi? È finita la pacchia (notturna). Da New York a Parigi, le prenotazioni al ristorante sono sempre più anticipate e nessuno si scandalizza più quando si propone il turno delle 19, o delle 19.30. Cenare all’ora dei bimbi è la nuova frontiera dei gourmand e questa pratica ha indubbi vantaggi. Si digerisce meglio, si ha una serata davanti per andare a bersi un drink, o semplicemente per godersi una nanna ristoratrice precoce. Finito il tempo delle veglie notturne, è arrivato il momento della cena che sostituisce l’aperitivo. È un riflesso di quando i ristoranti chiudevano prima per il coprifuoco e abbiamo imparato a cenare presto? È la voglia di tornare a casa prima che sia troppo tardi? Sta di fatto che questa nuova moda si sta diffondendo sempre di più e ha cambiato il modo di gestire il ristorante.

Fuori, perché no? Il tabù tutto italiano di stare all’aperto anche quando le temperature scendono si è definitivamente dissolto. Complici le temperature sempre più alte, l’abitudine di stare più fuori che dentro ci ha conquistato. Ne giovano le vie cittadine, che sono più vivaci e dinamiche, un po’ meno il riposo notturno di chi abita sopra a un locale.

È cambiata anche la nostra predisposizione alla pazienza? Sentiamo sempre più dire che non se ne può più dei lunghi menu degustazione, e che ci piacerebbe mangiare pochi piatti, di sostanza e di dimensione adeguate, e stare a tavola il tempo giusto.

Che questa pandemia, in fondo, abbia anche fatto qualcosa di buono almeno nella nostra predisposizione verso la ristorazione?

PoliCovid22: il congresso sulla pandemia boicottato dalle istituzioni scientifiche. Raffaele De Luca su L'Indipendente  il 22 novembre 2022.

Favorire un confronto costruttivo su come è stata affrontata la crisi pandemica con l’obiettivo di trarre insegnamenti che siano utili a migliorare la gestione di eventuali nuove emergenze: è questo il senso del “POLI-COVID-22”, un congresso che in questi giorni si sta tenendo nella città di Torino al quale erano stati invitati anche alcuni membri dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS) e dell’ex Comitato Tecnico Scientifico (CTS). Secondo quanto comunicato dagli individui alle spalle del convegno, l’organizzazione dell’evento aveva infatti coinvolto fin da subito – integrandoli nel Comitato Scientifico – alcuni esponenti dell’ex CTS e dell’ISS, ma nonostante ciò a due settimane dallo svolgimento del congresso è stata improvvisamente comunicata dai relatori dell’ISS e da altri da loro indicati la rinuncia a partecipare alla conferenza, con la motivazione che la stessa avrebbe dato spazio a punti di vista diversi sulla pandemia e che una parte degli altri relatori confermati non sarebbe stata all’altezza dei fini prefissi. Una decisione, quella appena menzionata, che inevitabilmente ha generato rammarico negli organizzatori, non solo per la non concretizzazione di una cruciale occasione di confronto ma anche per la conseguente perdita della sede originaria: il Politecnico di Torino.

Vista la defezione in massa da parte dell’importante componente sopracitata, il 16 novembre il Rettore del Politecnico di Torino ha infatti deciso di revocare il patrocinio inizialmente concesso, lasciando agli organizzatori pochi giorni per trovare la nuova sede dell’evento, che sarebbe dovuto iniziare lunedì 21 novembre e terminare venerdì 25. Un’impresa alquanto ardua che però gli organizzatori sono riusciti a compiere, rifacendosi ad una sede privata sita sempre nella città di Torino e facendo svolgere ugualmente l’evento nelle date stabilite nonostante la rinuncia dei soggetti sopracitati e la non risposta da parte dell’Agenzia Italiana del Farmaco da cui – secondo quanto comunicato dagli organizzatori – non si è ricevuto alcun riscontro all’invito a partecipare al congresso. È dunque per tutti questi motivi che Martina Pastorelli, membro del Comitato Scientifico, ha parlato di «boicottaggio pienamente riuscito», sottolineando come il confronto sia stato «negato» ed «il dialogo, quello di cui il paese oggi ha un disperato bisogno, sottratto».

Eppure il convegno, il primo in ambito scientifico a tracciare un bilancio multisettoriale della pandemia, verte su argomenti di fondamentale importanza ed è ricco di ospiti autorevoli. Esso, infatti, non solo è stato suddiviso in cinque aree tematiche di lavoro e studio – biologia, medicina, diritto, bioetica, sociologia e comunicazione – ma vanta la presenza di diversi scienziati e studiosi di fama mondiale (tra cui i professori John Ioannidis, Peter Doshi, Tom Jefferson e Sunetra Gupta), che hanno accettato l’invito a parteciparvi. Del resto, per rendere l’idea, tra i tanti argomenti da trattare compare non solo quello delle conseguenze sociali delle misure adottate per contrastare il Covid, ma anche il fondamentale tema dell’efficacia e degli effetti avversi di breve e medio-lungo termine della vaccinazione nonché quello delle terapie domiciliari. Insomma, un programma ampio e variegato indispensabile per perseguire il fine riportato sul sito dell’evento, quello appunto di “favorire un’occasione di confronto costruttivo su come è stata affrontata questa crisi, a partire dalle misure messe in atto per contrastare la diffusione del virus e della loro ricaduta a livello sanitario, etico e sociale”, con l’obiettivo – come detto – di “trarre insegnamenti che siano utili a migliorare la gestione di nuove emergenze”.

Per perseguire tale scopo – come comunicato dagli organizzatori – i partecipanti daranno dunque vita ad una discussione aperta, franca, plurale e non preconcetta, come la scienza richiede. Un dibattito al quale, però, i membri istituzionali non parteciperanno, nonostante il fatto che si sarebbe trattato non solo di un’occasione unica per effettuare un confronto costruttivo sulla risposta all’emergenza sanitaria, ma anche per eventualmente smentire dati alla mano le opinioni critiche di tanti ricercatori sulla gestione pandemica. [di Raffaele De Luca]

Covid. Immunità di gregge o Lockdown e coprifuoco?

L'Immunità di gregge è l'infezione totale ed immediata, tale da scongiurare la reinfezione, ove sussistesse come nel Coronavirus. La pandemia si estinguerebbe naturalmente in breve tempo.

Il Confinamento-Quarantena (Lockdown) e Coprifuoco è l'infezione graduale che, ove si manifestasse la reinfezione, sarebbe duratura e mai totale. La pandemia, negli anni, si fermerebbe, inibendo il protrarsi dell'infezione, tramite la prevenzione con i vaccini periodici, a secondo la variante del virus, che attivano gli anticorpi nei soggetti più forti, o con le cure con gli antivirali (combattono le cause) ed antinfiammatori (leniscono gli effetti). La quarantena è preferita per la speculazione effettuata su prevenzione e cura.

Immunità di gregge. Sarebbe un sistema che ci permetterebbe di uscire dalla crisi in tempi brevi senza restrizione. Il Virus circola liberamente. Ci sarebbero asintomatici, paucisintomatici e sintomatici lievi e gravi, i quali, quest'ultimi, sarebbero ricoverati e curati con qualsiasi cura disponibile, anche quelle osteggiate, ma efficaci. Ma è No! No. Non perchè, per media prezzolati ed allarmisti, per politici incapaci e per pseudoesperti virologi di sinistra, morirebbe troppa gente, ma perchè la malconcia sanità italiana non potrebbe sopportare lo stress dei ricoveri. Ergo: i morti sarebbero tali per la malasanità e non per il virus.

Lockdown e coprifuoco: misure per salvare vite umane? No! Misure deleterie per l'economia, ma obbligate per nascondere il fallimento della Sanità. Foraggeria e tagli. Clientelismi e nepotismi per la cooptazione e favoritismi al Privato hanno ridotto il sistema sanitario a dover adottare l'unica scelta: confinare i cittadini e centellinare i ricoveri per Covid per mancanza di personale ed infrastrutture, impedendo la cura, inoltre, di altre patologie, il cui numero di morti conseguenti è taciuto. Infartuano i pazienti per non collassare gli ospedali. Taglia, taglia che qualcosa resterà!

Insomma: confinamento e crisi economica è il prezzo da pagare per salvare la faccia ed i finanziamenti a pioggia a soggetti fisici e giuridici tutelati a fini elettorali. Finanziamenti che, se veicolati sulla sanità, porterebbe questa ad affrontare qualsiasi emergenza.

Milano, le morti «collaterali» al Covid: 4 mila decessi in più nel 2020 a causa di cure ritardate e pochi medici.  Gianni Santucci su Il Corriere della Sera il 21 Novembre 2022.

Il dato del primo anno di pandemia (al netto delle vittime causate dal virus) rispetto a quelli precedenti. Un dossier di Ats fotografa il  contraccolpo dello stress a cui è stato sottoposto il sistema sanitario

Vennero definiti «effetti collaterali». Se ne aveva percezione. Non certezza. Oggi però, dopo due anni, e con lo studio di centinaia di migliaia di cartelle cliniche, è possibile affermare che nel 2020 quasi 4 mila persone in più (rispetto agli anni precedenti) sono morte non per il Covid-19, ma per «possibili ritardi nell’accesso alle cure, nella diagnosi e nei trattamenti» di altre malattie. Decessi che riguardano le province di Milano e Lodi (193 Comuni, 3,5 milioni di abitanti). 

Sistema sotto stress

Ospedali investiti da una massa abnorme di pazienti per la pandemia; visite e interventi chirurgici sospesi (se non quelli di massima urgenza); risorse spostate verso i reparti (ampliati) di malattie infettive; carenza di medici e personale a causa delle infezioni; medici di base malati o costretti alle visite «a distanza»; estrema ritrosia delle persone nel chiedere assistenza agli ospedali; difficoltà di spostamento. 

Malattie cardiache e neoplasie

Le (con)cause sono molteplici, e hanno avuto un effetto devastante soprattutto durante la prima ondata. La conseguenza è stata un «aumento generalizzato per la maggior parte delle cause di decesso». Non solo Covid-19 Quella appena pubblicata dai medici dell’unità di epidemiologia dell’Ats di Milano è la prima (e drammatica) stima degli «effetti diretti e indiretti» della pandemia. Un lavoro specialistico. Ma che ha un essenziale valore indiretto: un documento storico per conservare la memoria. Tra Milano e Lodi, nel 2020 i decessi sono stati 44.757, e cioè 11.780 in più rispetto alla media dei cinque anni precedenti. «La mortalità specifica per Covid-19 consente però soltanto una visione parziale dell’impatto dell’epidemia». Il quadro generale: «Le principali cause di decesso nel 2020 sono state le malattie dell’apparato cardiocircolatorio, seguite dalle neoplasie; le malattie infettive (compreso il Covid) rappresentano la terza causa. Negli anni precedenti, invece, le neoplasie rappresentavano la prima causa di decesso, seguite delle cause cardiocircolatorie, mentre il contributo delle malattie infettive era al 3 per cento».

Il calcolo di Ats

 I decessi per il Covid-19 tra Milano e Lodi, nel 2020 sono stati 8.155. Rispetto al totale delle morti in eccesso, dunque, ne restano 3.625 non determinate dal virus: da attribuire dunque agli effetti indiretti della pandemia. Le «altre» cause «Tutte le cause di decesso — spiegano gli epidemiologi — mostrano un aumento significativo nel 2020, ad eccezione delle malattie dell’apparato digerente, infarto e broncopneumopatia cronica ostruttiva». Malattie infettive (Covid escluso), neoplasie, malattie cerebrovascolari, ictus e incidenti da traffico mostrano «una diminuzione significativa». 

L'impatto sulla salute mentale

Gli aumenti maggiori sono stati invece osservati «per polmoniti (30%), malattie del sistema respiratorio (24%), malattie ipertensive (21%) ed endocrine (17%)». E poi le malattie del sistema nervoso: i decessi collegati al Parkinson sono stati il 15 per cento in più. Un tema, quello della salute mentale e degli impatti della pandemia sui pazienti psichiatrici, ampiamente indagato in decine di studi. A questi, l’Ats aggiunge un aspetto: «L’aumento, anche se non statisticamente significativo, della mortalità per suicidio è particolarmente suggestivo: l’età al decesso nel periodo di riferimento è di 56 anni, mentre nel 2020 era stata di poco superiore (59 anni)».

Le case di riposo

 Le «conseguenze indirette» sono state accentuate durante la prima ondata. Abitazioni e Rsa L’ultimo capitolo preso in considerazione è quello del luogo della morte. E se anche qui le tendenze erano emerse con chiara evidenza nel corso del 2020, oggi le statistiche permettono una comprensione più dettagliata del disastro umano e sociale degli anziani morti in solitudine in casa o nelle Rsa. I decessi in abitazione sono aumentati del 50 per cento, ovvero oltre 3 mila in più rispetto ai quasi 7.300 «statisticamente attesi». La mortalità nelle case di riposo nell’intero anno è cresciuta del 46 per cento, ma se si guarda solo ai mesi della prima ondata, si scopre che nelle Rsa sono deceduti 3.524 anziani, oltre il doppio a confronto dei 1.149 degli anni precedenti. 

La proposta dell'istituzione depositata da Fratelli d'Italia. Cos’è la Commissione d’inchiesta sul covid: l’indagine annunciata da Meloni sulla gestione dell’emergenza di Conte e Speranza. Antonio Lamorte su Il Riformista il 28 Ottobre 2022 

La Presidente del Consiglio Giorgia Meloni aveva annunciato la volontà di aprire una commissione sulla gestione dell’emergenza covid nel suo discorso di fiducia alla Camera dei deputati. “Lo si deve a chi ha perso la vita e a chi non si è risparmiato nelle corsie degli ospedali, mentre altri facevano affari milionari con la compravendita di mascherine e respiratori”, aveva detto la premier in aula. E dopo è arrivato anche il nuovo ministro della Salute Orazio Schillaci a ribadire l’intenzione di fare chiarezza “su quanto successo dal punto di vista amministrativo”.

La proposta di istituire la Commissione è stata già depositata dal deputato Galeazzo Bignami di Fratelli d’Italia. “Ho presentato la proposta di legge per istituire la Commissione d’Inchiesta Parlamentare sul Covid. Perché Fratelli d’Italia gli impegni li rispetta. Ed ora faremo chiarezza. Su tutto. Fino in fondo”, ha twittato il parlamentare. Proposte simili sono arrivate anche dalla Lega e da Italia Viva. L’anno scorso Bignami aveva già presentato una proposta di istituzione che però era rimasta lettera morta. La prima fase e più dura – e a onore del vero anche improvvisa – che ha trovato impreparati tutti gli Stati, non solo l’Italia – prima in Europa a fronteggiare l’esplosione dei casi – , è stata gestita in gran parte dal governo cosiddetto giallorosso guidato dal Presidente Giuseppe Conte con al ministero della Salute il ministro Roberto Speranza.

“Di libertà molto si è discusso in epoca di pandemia – ha detto in aula Meloni – Il Covid è entrato nelle nostre vite quasi tre anni fa, e ha portato alla morte di oltre 177.000 persone in Italia. Se siamo usciti al momento dall’emergenza è soprattutto merito del personale sanitario, della professionalità e dell’abnegazione con le quali ha salvato migliaia di vite umane. A loro, ancora una volta, va la nostra gratitudine. E con loro il mio ringraziamento va ai lavoratori dei servizi pubblici essenziali, che non si sono mai fermati, e alla straordinaria realtà del nostro Terzo Settore, rappresentante virtuoso di quei corpi intermedi che consideriamo vitali per la nostra società. Purtroppo non possiamo escludere una nuova ondata di covid o l’insorgere in futuro di una nuova pandemia. Ma possiamo imparare dal passato per farci trovare pronti”.

“L’Italia ha adottato le misure più restrittive dell’intero occidente – ha continuato la premier – , arrivando a limitare fortemente le libertà fondamentali di persone e attività economiche, ma nonostante questo è tra gli Stati che hanno registrato i peggiori dati in termini di mortalità e contagi. Qualcosa, decisamente, non ha funzionato e dunque voglio dire fin d’ora che non replicheremo in nessun caso quel modello. L’informazione corretta, la prevenzione e la responsabilizzazione sono più efficaci della coercizione, in tutti gli ambiti. E l’ascolto dei medici sul campo è più prezioso delle linee guida scritte da qualche burocrate, quando si ha a che fare con pazienti in carne ed ossa. E se si chiede responsabilità ai cittadini, i primi a dimostrarla devono essere coloro che la chiedono. Occorrerà fare chiarezza su quanto avvenuto durante la gestione della crisi pandemica. Lo si deve a chi ha perso la vita e a chi non si è risparmiato nelle corsie degli ospedali, mentre altri facevano affari milionari con la compravendita di mascherine e respiratori”.

Cos’è la Commissione di inchiesta sul covid

“Perché non c’è mai stata chiarezza sugli errori commessi nelle primissime fasi dell’emergenza Covid? Davvero si possono derubricare a sviste, ritardi e passi falsi col fatto che il Paese e, quindi, l’esecutivo si trovavano davanti a una situazione d’emergenza, difficilmente prevedibile e, quindi, difficilmente gestibile secondo protocolli?”, queste le domande sintetizzate dal quotidiano Il Giornale cui grossomodo la Commissione proverà a rispondere. E sempre il quotidiano della famiglia Berlusconi racchiude in sette punti gli obiettivi della Commissione che “non punta propriamente a fare indagini giudiziarie: è vero, per legge potrà procedere ‘nelle indagini e negli esami con gli stessi poteri e le stesse limitazioni dell’autorità giudiziaria’, ma l’obiettivo non è sbattere in galera chicchessia. Punterà piuttosto a stabilire se ci sono addebiti politici, scovare errori commessi, cercare di capire cosa – per usare le parole di Meloni – ‘non ha funzionato’”.

A partire da mancato piano pandemico nazionale redatto nel 2006 alla mancata attivazione del piano dopo la dichiarazione di “emergenza internazionale di sanità pubblica” proclamata dall’Oms il 30 gennaio 2020. E ancora: perché il Comitato Tecnico Scientifico non ha preso in considerazione l’attivazione del piano pandemico nazionale. Altri interrogativi dovrebbero riguardare il cosiddetto “piano segreto” per il contrasto al covid e la composizione della task-force cui il 22 gennaio 2020 il ministero della Salute aveva chiesto di coordinare le attività per fronteggiare l’emergenza. La Commissione dovrebbe occuparsi anche di chiarire se tutte le normative nazionali, europee e internazionali in materia di emergenze epidemiologiche sono state rispettate e quali sono stati i rapporti tra le autorità competenti dello Stato, l’Oms e altri soggetti terzi nella gestione della pandemia.

Il sostegno di Renzi

La Commissione dovrebbe essere una bicamerale di Camera e Senato, potrebbe durare al massimo 18 mesi. A sostenere l’iniziativa anche Matteo Renzi, ex premier e leader di Italia Viva, che ha negato la volontà di ottenere la presidenza della commissione. “È giusto fare chiarezza su ciò che accadeva mentre morivano decine di migliaia di nostri connazionali. O no?”, si è chiesto Renzi nella sua enews lanciando una stoccata a “tanti colleghi degli altri partiti”, “perché sono così preoccupati?”. E proprio oggi, nel giorno in cui il governo ha annunciato lo stop al bollettino quotidiano dell’emergenza covid, che diventerà settimanale, è arrivato l’appello del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella a non abbassare la guardia: “Dopo oltre due anni e mezzo di pandemia non possiamo ancora proclamare la vittoria finale sul Covid-19. Dobbiamo ancora far uso di responsabilità e precauzione”.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Covid, l’ex ministro Speranza ora è il bersaglio della destra: "Ho seguito la scienza, esco a testa alta”. Tommaso Ciriaco su La Repubblica il 28 Ottobre 2022. 

Dopo anni in cui l’Italia  è stata presa a modello per la gestione della pandemia, l’amarezza per l’accusa di aver limitato invano le libertà dei cittadini

Ha sacrificato tutto: sonno, sogni, il nero dei capelli. "Non dormivamo mai, sempre in allerta - confidò un giorno - giorno e notte". Si è prosciugato inseguendo il Covid. E adesso gli mettono addosso un bersaglio e iniziano a mirare, anche se lui ha deciso di non replicare e di non parlare ufficialmente. Non per rimproverargli errori, o sprechi, o ritardi, ma per sostenere che ha negato la scienza, sigillato inutilmente l'Italia, attentato alle libertà. Per inchiodare quella stagione a una commissione speciale, che la destra così sensibile ai No Vax vuole, pretende, impone. "Io ho sempre deciso ascoltando la scienza - ripete sempre, e continuerà sempre a ripetere Speranza - Andiamo a testa alta per tutto quello che abbiamo fatto". 

"Mezza Europa ha seguito le nostre strategie"

Dei ministri europei della Salute, soltanto due hanno resistito durante il tornado che ha travolto milioni di vite e segnato il mondo: Roberto Speranza e il ministro maltese. La Francia, nello stesso periodo, ne ha bruciati quattro, la Gran Bretagna tre, Germania e Spagna si sono fermate a due. E adesso che la barca sembra spuntare dalle onde, ringhia la rivincita delle destre. Sono gli stessi che non volevano il lockdown, poi sì, adesso invece mai più: "E invece - rivendica ogni volta che va in tv l'ormai ex ministro - mezza Europa ha seguito le nostre strategie". Sono gli stessi che invocavano i vaccini e poi ne contestavano l'obbligo per accedere al lavoro. Che si indignavano con più di qualche ragione per ritardi gravi - "dove sono le mascherine?" - e poi hanno deciso di trattarle come fossero museruole, dunque da cancellare anche negli ospedali e nelle Rsa, dove però continuano a salvare ancora oggi l'esistenza dei fragilissimi. "Abbiamo combattuto giorno e notte cercando di salvare vite - è sempre stato questo il ragionamento di Speranza, anche in campagna elettorale, certo non cambia oggi - mentre una certa destra sobillava le piazze dei No Vax contro il Green Pass".

"Non si può riscrivere la storia"

Parlando per la prima volta in Aula alla Camera, Giorgia Meloni ha citato tutto e tutti. Anche Steve Jobs, anche il fascismo (un argomento che certo non ama, o meglio: di cui non ama parlare). Ma dei vaccini proprio no, nessun accenno, neanche mezza sillaba. Non basta il fatto che quei composti abbiano riportato alla vita una società congelata, smorzato la paura: neanche l'ombra di quel miracolo scientifico. "Ma la storia non si può riscrivere - ha detto Speranza ai compagni della Camera che l'hanno abbracciato negli ultimi giorni - e certo noi quella storia vogliamo difenderla". 

Ascoltare la scienza è sempre stata la chiave di scelte difficili, difficilissime, a volte impossibili. Ma comunque da difendere perché vale il metodo, quando il resto è un salto nel buio: chi mai aveva dovuto affrontare in epoca contemporanea una pandemia mondiale tanto capillare, veloce, sconosciuta? E chi era stato costretto a sigillare piccoli Comuni, poi metropoli, Regioni, infine Paesi e continenti? Anche il Cts, il contestato Comitato tecnico scientifico, è allora un pezzo di quella storia che Speranza certo non rinnega, anzi "a testa alta" rivendica. 

Non intende comunque parlare. Entrare in polemica. Non subito, comunque. Non può alimentare una contrapposizione che ritiene perversa: ha senso opporre la scienza a posizioni antiscientifiche, legittimandole? Semmai vuole lavorare da deputato, guidare Articolo Uno, fare politica dopo due anni e mezzo sott'acqua. A dire il vero, non ha neanche voglia di rivedere la serie tv "This England", quella di Boris Johnson e dei suoi disastri nella prima fase del Covid. Parla anche dell'Italia, di come divenne il metro dell'epidemia, di come consigliò prudenza per non sacrificare troppe vite. "Adesso voglio solo una birra con un amico e una partita della Roma con mio figlio". 

Covid, ecco le sette domande a Speranza e Conte. Fdi, Lega e Italia Viva pronti a istituire una Commissione di inchiesta. Lo schema è già pronto: chiarire i lati oscuri del Conte II. Giuseppe De Lorenzo e Andrea Indini il 28 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Sette filoni di indagine. Sette risposte ad altrettante domande a cui fino ad oggi l'allora governo Conte II e in modo particolare l'ex ministro della Salute, Roberto Speranza, non hanno mai voluto dare risposta. Perché non c'è mai stata chiarezza sugli errori commessi nelle primissime fasi dell'emergenza Covid? Davvero si possono derubricare sviste, ritardi e passi falsi col fatto che il Paese e, quindi, l'esecutivo si trovavano davanti a una situazione d'emergenza, difficilmente prevedibile e, quindi, difficilmente gestibile secondo protocolli? Martedì, nel suo discorso alla Camera, il premier Giorgia Meloni ha assestato un deciso cambio di rotta affermando che il suo governo non solo replicherà il modello restrittivo attuato in passato, ma andrà anche a fondo per far luce sulle nebbie che si addensano sulla gestione della crisi pandemica. Da qui la volontà di istituire una commissione d'inchiesta parlamentare ad hoc.

Gli obiettivi che la commissione si prefigge sono essenzialmente sette e riguardano soprattutto i primi mesi. Al tempo a Palazzo Chigi sedeva Giuseppe Conte. Erano i giorni delle innumerevoli circolari del ministero della Salute che facevano confusione sull'uso o meno della mascherina, sul significato di "contatto stretto", sul divieto di eseguire le autopsie sui pazienti morti di Covid-19. Erano anche i giorni del caos sui voli provenienti dalla Cina, dai lockdown annunciati notte tempo in televisione, delle zone rosse mancate. Il lavoro della commissione non punta propriamente a fare indagini giudiziarie: è vero, per legge potrà procedere "nelle indagini e negli esami con gli stessi poteri e le stesse limitazioni dell'autorità giudiziaria", ma l'obiettivo non è sbattere in galera chicchessia. Punterà piuttosto a stabilire se ci sono addebiti politici, scovare errori commessi, cercare di capire cosa - per usare le parole di Meloni - "non ha funzionato". "È utile fare chiarezza su quanto successo dal punto divista amministrativo", ha spiegato ieri il neo ministro della Salute Orazio Schillaci.

Ecco i sette filoni su cui si muoverà la commissione:

- perché non è mai stato aggiornato il piano pandemico nazionale che era stato redatto nel 2006?

- perché il piano pandemico nazionale non è stato attivato dopo che il 30 gennaio 2020 l'Oms aveva dichiarato lo stato di "emergenza internazionale di sanità pubblica" a causa del coronavirus e nemmeno dopo che il 31 gennaio 2020 il Consiglio dei ministri aveva dichiarato lo stato di emergenza proprio a causa del "rischio sanitario connesso all'insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili"

- perché il Comitato tecnico-scientifico non ha mai preso in considerazione l'attivazione del piano pandemico nazionale?

- esisteva un piano sanitario nazionale per il contrasto del Covid? E, se c'era, perché non è mai stato pubblicato? (Il riferimento è al cosiddetto "piano segreto")

- come era composta e di cosa si occupava la task-force a cui il 22 gennaio 2020 il ministero della Salute aveva chiesto di coordinare qualsiasi iniziativa per contrastare il Covid?

- sono state rispettate tutte le normative nazionali, europee e internazionali in materia di emergenze epidemiologiche?

- quali sono stati (e di che natura) i rapporti tra le autorità competenti dello Stato italiano, l'Oms e tutti gli altri soggetti terzi a partire dal periodo pre-pandemico? Come si sono mossi per gestire l'emergenza?

La proposta per istituire la Commissione è già stata depositata da Galeazzo Bignami di Fratelli d'Italia. Proposte simili sono arrivate anche dalla Lega e da Italia Viva. L'idea della maggioranza è quella di trovare un accordo su un testo condiviso, senza "diktat" o preclusioni da parte di Fdi. Quello che questi 7 quesiti si portano dietro, infatti, sono tutte le ombre su cui ancora occorre far luce: il rapporto di Francesco Zambon misteriosamente sparito, i verbali della task force tenuti per troppo tempo in un cassetto, il piano segreto, le scelte sull'invio delle mascherine in Cina. E ancora i respiratori cinesi, le Ffp2 farlocche, i militari russi a Bergamo. E ovviamente - come specificato da Meloni in Aula - un faro verrà posto anche su chi faceva "affari milionari con la compravendita di mascherine e respiratori". Senza sconti politici.

Sentenza del Tribunale di Frosinone: illegittimi stato di emergenza e DPCM Covid. Iris Paganessi su L'Indipendente il 14 ottobre 2022.

Il Tribunale di Frosinone ha stabilito che “L’istituzione del Dpcm durante la pandemia di Covid è da ritenersi illegittima”. La sentenza 842 del 2022, firmata dal giudice Luigi Petraccone, potrebbe entrare nella storia della giurisdizione italiana.

La vicenda ha inizio il 4 aprile 2020, in pieno lockdown (il primo), quando un giovane frusinate venne fermato dalla polizia stradale mentre si trovava alla guida della sua auto. Il Dpcm allora in vigore prevedeva il divieto di allontanamento dal Comune di residenza e l’automobilista, non adducendo giustificati motivi agli agenti, venne sanzionato con una multa di 400 euro. Così l’uomo, assistito dall’avvocato Giuseppe Cosimato, presentò ricorso al giudice di pace che il 15 luglio 2020 lo accolse. Tale sentenza, però, venne impugnata dalla Prefettura di Frosinone, la quale richiamò il rispetto del Dpcm in vigore. La vicenda sembra avere un lieto fine solo due anni dopo. In data 6 ottobre 2022, infatti, il Tribunale di Frosinone ha respinto il ricorso, dichiarando illegittimo il Dpcm e mettendo la parola fine al giudizio di secondo grado e al travaglio del giovane frusinate.

Il passaggio chiave di tutto questo, come riportato dal Messaggero, sarebbe “l’inviolabilità di un diritto inviolabile quale la circolazione – per l’appunto – provvedimenti restrittivi di questo tipo sono da ritenersi anti costituzionali anche se emanati a difesa di un altrettanto diritto inviolabile quale quello della difesa della salute pubblica. Disposizioni così limitanti per la libertà possono essere emanate solo davanti ad eventi di calamità naturale per definiti periodi di tempo mentre, come si legge dal disposto del Tribunale, situazioni di rischio sanitario non sono inclusi in questa previsione. A questo punto non vi è alcun presupposto legislativo su cui fondare la deliberazione del Consiglio dei Ministri.”

Altro passaggio chiave della sentenza, sempre riportato dal Messaggero, sarebbe poi quello in cui si afferma “che la delibera del Consiglio dei Ministri del 31 gennaio 2020 è da ritenersi illegittima per essere stata emessa in assenza dei presupposti legislativi, in quanto non è rinvenibile alcuna fonte avente forza di legge che attribuisca al Consiglio dei Ministri il potere di dichiarare lo stato di emergenza per rischio sanitario”. Sarebbero quindi ritenuti illegittimi anche tutti i seguenti Dpcm.

Non è la prima volta che un Tribunale mette in dubbio la legittimità di molti dei provvedimenti presi dal Governo durante la pandemia, ma negli ultimi mesi sono state diverse le sentenze che sono andate in questa direzione.

Tra la gioia dell’avvocato Cosimato e del proprio cliente, si apre ora un nuovo scenario per i tanti cittadini che nel periodo buio del lockdown sono stati penalizzati da queste misure. Per non parlare delle attività costrette a chiudere.

Tuttavia non va dimenticato, che la sentenza del Tribunale di Frosinone rappresenta un caso specifico e in quanto tale non fa giurisprudenza; non si può escludere, quindi, che altri Tribunali agiscano con valutazioni differenti. Di certo però, si tratta di una sentenza rilevante che mette in dubbio la legittimità dei provvedimenti presi dai Governi Conte e Draghi nella gestione della pandemia. [di Iris Paganessi]

Covid, parla la Corte. Redazione L'Identità il 26 Ottobre 2022 di Francesco Carraro

Con ordinanza di rimessione incidentale nr. 118-22 del 12 settembre (pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 19 di Ottobre) la Corte di Giustizia Amministrativa della Regione Sicilia ha ritenuto non manifestamente infondata l’eccezione di legittimità costituzionale delle norme (introdotte nel corso del 2021) concernenti l’introduzione dell’obbligo vaccinale anti-Covid-19. Tali norme sono “sospettate” di illegittimità rispetto ad alcuni articoli fondamentali della Costituzione. Non dovremo attendere molto per conoscere l’esito di questa partita. Infatti, il provvedimento della corte siciliana è solo l’ultimo di una serie. Tutte le analoghe “impugnazioni” saranno discusse, e successivamente decise, il prossimo 30 novembre davanti al Giudice delle Leggi. Comunque vada, si tratterà di una pronuncia storica, se non addirittura epocale. Non foss’altro che per l’enorme carico di pregresse tensioni, di tesissimi dibattiti, di accuse reciproche tra opposte fazioni da cui la medesima sarà stata preceduta. La violazione dell’obbligo vaccinale comporta, come noto e tra l’altro, la sospensione dell’esercizio della professione e del relativo salario. Una misura di gravità inusitata, tale da incidere su un diritto cruciale (il lavoro, appunto) non solo “riconosciuto” dall’articolo 4 della suprema Carta, ma addirittura consacrato, nell’articolo 1, come valore “fondante” della stessa Repubblica Italiana. E tuttavia, la severità del rimedio era “giustificata” – dai promotori, e dai sostenitori, della medesima – con la “preminenza” sul piano logico, oltre che giuridico, del diritto (parimenti inalienabile) alla salute. Si muoveva, cioè, dal presupposto che, in base all’articolo 32 della Costituzione, fosse lecito coartare la volontà dei singoli consociati di fronte al dovere di proteggere i cittadini dal rischio del contagio e delle sue conseguenze potenzialmente letali. Ed è vero che la norma testè citata ammette tale extrema ratio: “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”. Dunque, e per converso, ne discende che, tramite una legge ad hoc è possibile introdurre un obbligo vaccinale (non a caso, già previsto per determinate patologie e per talune categorie di soggetti, soprattutto minori). Ora – se vogliamo provare a immaginare come potrebbe regolarsi la Consulta nel prossimo appuntamento di fine novembre – dobbiamo necessariamente fare i conti con la seconda parte dell’articolo 32 laddove sta scritto: “La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. Ecco il punto: può dirsi, oppure no, che – nel caso del vaccino anti-covid-19 – vi sia stato il mancato rispetto di tali limiti? Una bussola per orientarci, e trovare la “rotta” che probabilmente sarà seguita dai giudici costituzionali, può essere rinvenuta nei precedenti, in materia, della stessa Corte. Sono principalmente tre: le pronunce nr. 307 del 1990, 258 del 1994 e 5 del 2018. Ebbene, secondo l’insegnamento ivi consolidato dai giudici della Consulta, la legge impositiva di un trattamento sanitario è compatibile con l’art. 32 della Costituzione solo a tre condizioni: a) se il trattamento sia diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri; b) se sia prevista comunque la corresponsione di una equa indennità, nell’ipotesi di danno ulteriore alla salute del soggetto sottoposto al trattamento obbligatorio, ivi compresa la malattia contratta per contagio causato da vaccinazione profilattica; c) se vi sia “la previsione che esso (vaccino, n.d.r.) non incida negativamente sullo stato di salute di colui che vi è assoggettato, salvo che per quelle sole conseguenze, che, per la loro temporaneità e scarsa entità, appaiano normali di ogni intervento sanitario e, pertanto, tollerabili”. I dubbi, nel caso di specie, attengono soprattutto ai punti a) e b) succitati. Perlomeno laddove si consideri, da un lato, la ormai acclarata inidoneità del vaccino anti-Covid-19 a proteggere dal contagio. Dall’altro lato, e soprattutto, non si dimentichi la gravità degli effetti collaterali (financo mortali) certificata dal dodicesimo rapporto Aifa del giugno scorso: 137.899 reazioni avverse, delle quali il 18,1% gravi con 29 casi di decesso correlabile con il vaccino. Ad ogni buon conto, le “carte”, ora, sono tutte sul tavolo. Alla Corte Costituzionale l’ardua sentenza.

Virginia Piccolillo per corriere.it il 27 ottobre 2022.

La commissione d’inchiesta sul Covid? «Beh, qualcosa da capire c’è. Soprattutto sulla fase di approvvigionamento durante la pandemia: mascherine e altro». Il primo caffè alla buvette del Senato il neoministro della Salute, Orazio Schillaci, lo prende nel giorno in cui impazzano le polemiche sul passaggio che Giorgia Meloni ha dedicato alla gestione del Covid (la «più restrittiva» e che ha «avuto i dati peggiori in termini di mortalità e contagi», accusa la premier) e sull’auspicio di una commissione d’inchiesta che indaghi su quella gestione in cui c’era chi «non si risparmiava in corsia» e «chi faceva affari milionari». Parole definite da Enrico Letta «da brividi».

Inevitabile la domanda a Schillaci su un parere. Da tecnico, ancor prima che da ministro. Visto che lui, ex preside della facoltà di Medicina ed ex rettore di Tor Vergata, indicato da FdI, è un medico: «Nucleare, come Ferruccio Fazio», specifica lui stesso, alludendo al ministro della Salute nel governo Berlusconi IV. E il parere è favorevole. Il neoministro non scende nel merito della replica, venuta dall’opposizione, che ai dati di quel disastro ha contribuito soprattutto la performance della Lombardia, guidata dal centrodestra. «Chi lo ha detto? Il discorso è più complesso», lascia cadere. 

Evitando di finire impantanato subito nelle polemiche politiche. Del resto difficilmente può essere sospettato di simpatie no vax, avendo fatto parte nel periodo della pandemia del Comitato scientifico dell’Istituto superiore di sanità e lavorando a fianco di Silvio Brusaferro. A nominarlo era stato lo stesso ministro della Salute, Roberto Speranza.

Quindi poco ha a che vedere lui con l’appello pronunciato ieri in Aula dall’ex titolare della Salute, Beatrice Lorenzin: «Cessi il conflitto tra politica e scienza». Al quale, per altro, Meloni ha replicato: «Sono d’accordo. Ma la scienza non è religione. Non c’erano evidenze scientifiche alla base dei vostri provvedimenti». Quello che intende fare Schillaci — lo dice chiaramente — è «occuparsi dei problemi concreti della Sanità». E i primi provvedimenti ai quali intende dedicarsi sono quelli, anticipa, destinati «a combattere le lunghe liste di attesa, a occuparsi dei malati oncologici e di tutto ciò che in questo momento contribuisce a rendere il sistema ingiusto». «In tutti gli indicatori internazionali attualmente appare chiaro che l’aspettativa di vita di chi ha un reddito più alto è più lunga di chi ce l’ha più basso. Cioè chi ha meno mezzi muore prima di chi può permettersi cure private. E questo è inaccettabile», fa notare il ministro-medico.

Cinquantasei anni, romano, revisore per oltre 50 riviste scientifiche internazionali, dal 2017 è presidente dell’Associazione italiana di medicina nucleare e Imaging molecolare. Da chi lo conosce è descritto come discreto, puntuale, preciso e infaticabile. Laureato nel ‘90 alla Sapienza, è primario del Policlinico di Tor Vergata oltre a essere professore ordinario e, dal 2008, direttore della scuola di specializzazione in medicina nucleare. Durante il suo mandato come rettore ha deciso di puntare «sulla qualità e l’internazionalizzazione della ricerca, anche industriale».

Poi, al momento della nomina a ministro si è dimesso. E ieri, in una lettera di saluto al suo staff, ha scritto che l’incarico di ministro «rappresenta un alto onore e può consentirmi di mettere a frutto nell’interesse di tutti i cittadini italiani l’esperienza maturata come medico, come docente e come responsabile di un ateneo importante come il nostro». «Naturalmente — ha aggiunto — la nuova responsabilità al servizio della Repubblica non mi permette di proseguire nell’impegno di rettore, ma vi assicuro che continuerò a seguire con l’attenzione e la passione di sempre la vita dell’ateneo per dare il mio sincero contributo ogni volta che mi verrà richiesto».

Chi teme la verità sulla gestione del Covid. Mascherine, zona rossa e piano pandemico: nel mirino Conte e Speranza. Felice Manti il 26 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Ci sono a ieri 178.753 morti di Covid. Nonostante misure dolorose e restrittive ma necessarie come lockdown, green pass e vaccinazione obbligatoria. Sono quasi tremila per milione, numeri da capogiro, da Paese di Terzo Mondo o quasi. La commissione d'inchiesta sulla gestione della pandemia e lo scandalo sulle mascherine annunciata dalla premier Giorgia Meloni («lo si deve a chi ha perso la vita mentre altri facevano affari milionari sulle mascherine», ha detto a Montecitorio) non renderà giustizia ai morti, né lo faranno le inchieste della magistratura di Bergamo sulla mancata zona rossa o quelle di Roma, Forlì e Gorizia sui dispositivi di protezione con cui siamo andati in giro, convinti di essere protetti. Ma sarà il primo momento di verità dopo un mare di bugie e omissioni da parte di chi ha governato (male) questo Paese durante la pandemia, dopo le troppo altalenanti dichiarazioni di sedicenti virologi e le spregiudicate ricostruzioni complottiste sparate sui social per raggranellare vuoti consensi.

No, troppe cose non tornano nella narrazione che una classe politica, oggi confinata in ordine sparso all'opposizione, ci ha raccontato. Fa male sentir dire «non sono stati fatti errori gravi», come fa Agostino Miozzo, coordinatore del primo Cts, perché è come elemosinare una sorta di alibi preventivo, una illusoria manleva al grido «non potevamo saperlo». Siamo nell'era del Rischio, come dicono gli esperti di Kelony, dove tutto si può prevedere. La balla della tragica fatalità non regge più. Soprattutto davanti a una sfilza di questioni irrisolte, che hanno una firma e un'impronta digitale appiccicata sopra.

Ne citiamo alcune, che Il Giornale ha sollevato da tempo, sperando che siano d'aiuto a chi presiederà la commissione, che sia Fdi, Italia viva o chiunque altro si è battuto per la verità. Perché il ministero della Salute, il Cts e l'Oms hanno tramato (lo dicono le carte in mano ai pm di Bergamo) per occultare il report indipendente che denunciava la mancata applicazione del piano pandemico? Perché la zona tra Alzano e Nembro non è stata chiusa subito? Esiste un nesso causa-effetto tra la mancata chiusura e 2mila-4mila morti evitabili, come dice il parere del neo deputato Pd Andrea Crisanti consegnato ai pm? Sulla base di quali informazioni il ministro della Salute Roberto Speranza nel suo libro Perché guariremo (sparito dalla circolazione) dice che a novembre già circolavano notizie del Covid, tanto da essere sorpreso che il ministro della Salute cinese a quel tempo non fosse preoccupato? Perché la terapia domiciliare è stata inchiodata alla «tachipirina e vigile attesa», ricetta rivelatasi scientificamente financo dannosa ma pervicacemente difesa davanti a Tar e Consiglio di Stato dallo stesso Speranza, di cui Enrico Letta è «orgoglioso»? Perché alcune delle mascherine comprate dal commissario Domenico Arcuri si sono rivelati farlocche o contraffatte? E perché qualcuno le ha fatte sdoganare nonostante già da aprile 2020 alcuni funzionari delle Dogane avessero avvisato i vertici che fosse inservibili e pericolose, sebbene avessero le validazioni di Inail e Istituto superiore di Sanità? Perché alcune interpretazioni delle norme attraverso atti amministrativi discutibili hanno garantito la conformità di questi prodotti, vietando persino di fare segnalazioni alle Procure? Perché il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, che aveva la delega sui nostri 007, ha ritenuto di potenziare la dotazione in forze dei servizi segreti alle Dogane? E a cosa è servita, se poi le mascherine farlocche sono passate indenni, persino quelle prese dalla Protezione civile nel Lazio governato dall'ex segretario Pd Nicola Zingaretti? O dei respiratori fallati, comprati dalla Fondazione cinese di Massimo D'Alema? Davvero non sono stati fatti «errori gravi»?

Alberto Rota, basso del coro della Scala: «Io malato di Covid prima del paziente uno, fu infortunio sul lavoro». Giampiero Rossi su Il Corriere della Sera il 15 settembre 2022.

Non era influenza, era Covid. Un contagio avvenuto giorni prima che a Codogno venisse individuato il «paziente uno». Così, a distanza di un paio d’anni da quei giorni di malattia, per il cantante della Scala è arrivato il riconoscimento dell’infortunio sul lavoro e un’integrazione delle buste paga arretrate.

Alberto Rota, 54 anni, basso nel coro della Scala, ritorna a quei giorni di incertezze e polmoni sofferenti usando toni tutt’altro che drammatici per descrivere il suo stupore postumo: «Era il 18 febbraio 2020, ero impegnato con “Il Trovatore” di Verdi quando ho cominciato a sentire la gola che bruciava e altri sintomi influenzali —racconta —. Mi aspettavo di stare meglio nel giro di un paio di giorni, ma in realtà le mie condizioni non miglioravano». In quel momento, ricorda l’artista con la sua voce profonda, le notizie su quel nuovo «coronavirus» arrivavano soprattutto dalla Cina, ma quando si rivolge alla guardia medica in provincia di Bergamo, dove vive, trova la sala d’attesa piena di gente: «Siccome l’allarme c’era, ho pensato che se tra quelle persone ce ne fosse stata una con il virus me lo sarei preso anch’io, così non mi fermai». Ma nonostante il riposo e i medicinali tipici del caso, la situazione peggiora: «Il medico mi ha prescritto una radiografia ai polmoni, ricordo che in ospedale non si erano ancora organizzati con i protocolli anti-Covid e tra noi pazienti in attesa della lastra ci siamo confrontati e abbiamo scoperto che tutti avevamo perso gusto e olfatto».

La situazione, però, peggiora e il 26 febbraio, pochi giorni dopo la scoperta dei primi casi ufficiali a Codogno, arriva il verdetto del tampone: positivo al Covid. «Stavo malissimo, avevo una polmonite bilaterale e i medici mi hanno raccomandato di non fare alcuno sforzo. Soltanto in aprile ho provato a fare qualche vocalizzo e in luglio ho di nuovo trovato tracce di sangue nel fazzoletto».

Sul fronte lavorativo, l’assenza del cantante è inizialmente legittimata da un certificato di malattia per «sindrome da raffreddamento», ma da marzo la Scala — come tante altre istituzioni e aziende — ha fatto ricorso al Fis, cioè l’equivalente della cassa integrazione per il settore dello spettacolo, che comporta una decurtazione della busta paga base attorno al 20 per cento. Ma in quei mesi la situazione è globalmente difficile e Alberto Rota ha la priorità di curarsi e di resistere alla malattia: «Ripensando a quello che stava accadendo attorno a me, negli stessi ospedali che ho frequentato io, ho capito di essere stato molto fortunato. Ed è stato davvero bellissimo tornare a cantare, quando finalmente ho potuto farlo».

Soltanto dopo, Rota, che è anche delegato sindacale della Slc Cgil, affronta la questione del trattamento aziendale della sua malattia. Decide di rivolgersi al patronato Inca Cgil, dove Laura Chiappani riesce a ottenere il riconoscimento dell’infortunio sul lavoro. Che comporta il pagamento del 100 per cento del salario. «C’è stata una buona collaborazione con l’Inail per ricostruire l’intera vicenda — spiega la responsabile dell’area Tutela danno alla salute del patronato della Camera del lavoro — sono state necessarie anche ispezioni e così è stato possibile il riconoscimento di quei tre mesi e mezzo di infortunio sul lavoro “in itinere”, perché l’ipotesi è che il contagio sia avvenuta in treno o sui mezzi pubblici che Rota utilizzava come pendolare per andare tutti giorni alla Scala. In quelle settimane il virus stava già circolando».

Mattia, il paziente 1: “Partecipo all’Ironman, sarà la mia rinascita dopo l’incubo Covid”. Luigi Gaetani su La Repubblica il 7 Settembre 2022.  

L'intervista al primo italiano a cui è stato diagnosticato il virus che compete nella gara più difficile del triathlon.

"Da tutta questa esperienza, dalla malattia, ho imparato a godermi molto di più quello che ho. È questo il messaggio che mi sento di dare alle persone: vivete la vita giorno per giorno, dedicatevi alle vostre passioni - che siano la famiglia, lo sport o il lavoro - non rimandate a domani quello che potete fare oggi". 

Il paradosso italiano. Covid, l’accusa dell’esperto ex Oms: “In Italia troppi morti, l’Iss indaghi”. Il tweet di Burioni sul Paxlovid e la risposta di Roberto Bertollini: “Serve uno studio”. Redazione su Nicolaporro.it il 19 Agosto 2022.

Forse qualcuno di voi ricorderà il Leitmotiv di questa lunga storia del Covid in Italia. Il Belpaese sin da subito s’è auto-eletto “modello europeo” nella lotta alla pandemia. Falso o vero che fosse, un dato via via ha finito con minare questa convinzione. Questo: la colonna dei decessi “per”, “con” o “di” Covid saliva troppo in fretta rispetto alla narrazione. Dunque, che fare? Ammettere che la cura Speranza stava fallendo? Indagare le cause? Cospargersi il capo di cenere? Macché. Serviva un’altra chiave di lettura. E così s’è iniziato a dire che “in Italia ci sono più morti perché siamo una popolazione più anziana”. Tutto nella norma, insomma: siamo stati belli e bravi, solo sfigati. Eppure oggi il castello di carte comincia a traballare: Roberto Bertollini, esperto di sanità pubblica, già rappresentante dell’Oms all’Ue e ora consulente del ministro della Salute del Qatar, ritiene infatti che da noi la mortalità sia “troppo alta”. Qualcosa non torna. Li abbiamo contati male? Abbiamo sbagliato approccio? Dovevamo “aprire” invece di “chiudere”? Evitare “paracetamolo e vigile attesa”? Puntare sulle cure e non solo sui vaccini? Boh. Mistero. Forse, dice Bertollini è arrivato il momento di “indagare” a fondo le cause del paradosso nostrano.

Tutto nasce da un tweet di Roberto Burioni sulle rare prescrizioni dell’antivirale Paxlovid, quello che sta usando pure il boss della Pfizer Albert Bourla, pure lui positivo nonostante le 4 dosi. Il virologo s’interrogava sul fatto che ieri siano morte altre 147 persone per Covid, facendo notare di come alcuni amici farmacisti gli raccontino di “abbondanti prescrizioni di azitromicina (un antibiotico inutile per la cura di Covid e dannoso in generale) e rarissime prescrizioni di Paxlovid”. L’aneddotica serve a poco. Dunque Burioni chiede “alle autorità” come “stanno veramente le cose”. Subito sotto, l’intervento dell’esperto ex Oms: “La mortalità da Covid in Italia è troppo alta – sentenzia Bertollini – È fondamentale che l’Istituto superiore di sanità metta in cantiere uno studio nazionale che ne identifichi le cause, anche a confronto con altri paesi dal profilo demografico simile”.

Ministro Speranza, ci farà sapere? Perché qui occorre vederci chiaro. Non possiamo fidarci mica del viropiddino Andrea Crisanti, iil  quale è convinto che i 140mila morti italiani (che poi sono 174mila) siano un buon risultato rispetto ai presunti 300mila decessi che avremmo avuto in caso di governo di centrodestra. Né possiamo farci guidare dell’altro candidato con la sinistra, Pier Luigi Lopalco, sicuro che “la destra non ha dato risposte vincenti alla pandemia” (per forza, al governo c’era la sinistra). Avremmo bisogno di uno “studio nazionale”, serio, così capiamo cosa è andato storto. Va bene?

Sul Covid la sinistra scorda le sue colpe. Mistificata la realtà sulla pandemia: a Nembro responsabilità giallorossa. Fi e governatori leghisti sempre rigorosi. Cgil e grillini (alleati del Pd) in piazza. Francesco Maria Del Vigo il 19 Agosto 2022 su Il Giornale.

L'ultima arma di questa sgangherata ma agguerrita campagna elettorale contro il centrodestra è il reato di strage ipotetica. Andrea Crisanti, virologo star e ora candidato del Partito Democratico come capolista nella circoscrizione Europa, ha sparato una boiata pazzesca. Sesquipedale. Una roba da terrorismo psicologico, ma che, soprattutto, apre un nuovo fronte nelle fake news da elezioni agostane. E forse solo un colpo di sole potrebbe spiegare la sbandata. «Salvini invece di criticare la mia candidatura con il Pd dovrebbe pensare a tutti gli errori di valutazione che ha commesso, sia in politica estera che sulla sanità pubblica. Se fossimo stati nelle sue mani ora ci sarebbero 300mila vittime di Covid al posto di 140mila», ha sentenziato due giorni fa in preda al delirio da prestazione elettorale.

Ora, a prescindere dal fatto che i morti di Coronavirus ieri erano più di 175mila e non 140mila - cosa volete che siano 30mila vittime per uno in campagna elettorale, i defunti non votano mica (almeno in teoria) -, a prescindere dal fatto che Lega e Forza Italia hanno fatto parte di un governo che ha messo in atto una delle politiche vacciniste più incisive d'Europa se non del mondo (giustamente, e da queste colonne lo abbiamo sempre scritto), ecco adesso che ci siamo stufati di prescindere, possiamo dire che è una dichiarazione che fa schifo?

Definire sciacallaggio la sortita di Crisanti è financo limitante. Non è neppure un fallo di reazione, è un fallo da frustrazione. Perché non si basa su dati di fatto, ma sui pregiudizi di un candidato che si spaccia per divulgatore scientifico e invece è solo uno spacciatore di propaganda mediocre. Certo esiste una parte della destra estrema - minima e residuale - che ha osteggiato i vaccini e che a dirla tutta Meloni e Salvini non hanno condannato. Ma non si può dimenticare l'atteggiamento iniziale del Pd e, soprattutto, la natura fortemente No Vax dei Cinque Stelle loro amati alleati. E non si può negare che a marzo del 2020 i primi governatori a lanciare l'allarme sulla portata della pandemia - tra gli sberleffi generali - furono proprio quelli di centrodestra. E Crisanti, che ha lavorato per Luca Zaia (uno dei più attivi nel contrasto al Covid) al famoso modello di Vo' Euganeo, dovrebbe saperlo bene. A meno che non soffra di amnesie o - più probabilmente - sia in malafede. La sciagurata campagna #milanononsiferma - siamo alla fine di febbraio 2020 - era sponsorizzata da Beppe Sala, non da Matteo Salvini. Il 27 dello stesso mese Nicola Zingaretti twittava: «Ci vediamo questa sera a Milano! Ho aderito alla mobilitazione lanciata dal PdMilano #MilanoNonSiFerma» e, ahinoi, sappiamo tutti che è stato un focolaio più che un happy hour.

Proprio negli stessi giorni, il governatore Attilio Fontana, dopo un contatto diretto con un positivo, si presentava in video con la mascherina. Cioè quell'oggetto che, purtroppo, per almeno due anni sarebbe stato di utilizzo quotidiano. Fu travolto da insulti e sfottó, tutti del Pd, quello che ora candida Crisanti. A rileggerli si prova imbarazzo per loro. L'ex segretario del Pd Maurizio Martina non ha il minimo dubbio nella condanna: «Le istituzioni devono dare un segno di equilibrio e compostezza». Matteo Orfini rincara la dose: «La mascherina in diretta Facebook non serve a nulla». E persino Carlo Calenda (che allora non era già più del Pd) si accoda: «Il governatore è un completo irresponsabile». Il sempre lucido Toninelli segue a ruota: «Sono immagini che non aiutano perché spaventano ed espongono l'Italia al rischio di un isolamento economico che non ha alcuna giustificazione». Sappiamo tutti cosa è successo. Per non parlare della lotta senza quartiere che il governatore Fedriga - tra le minacce di morte - ha riservato ai portuali No Pass di Trieste. Già, i No Pass: forse dalle parti del Pd dimenticano che fra i più aspri nemici della tessera verde c'erano i sindacati, Cobas in testa e Cgil a rincorrere. Non esattamente due sigle nostalgiche del Duce.

Questi sono i dati di fatto. La storia non si fa con i se e neppure la propaganda elettorale. Specialmente se di mezzo c'è un'ecatombe e lucrare sulle vittime di una pandemia è il sintomo di una confusione politica e intellettuale per la quale non esiste alcun vaccino. Non bastavano le accuse di fascismo con 77 anni di ritardo sulla morte dello stesso, i deliri sugli avvisi di sfratto (inesistenti) a Mattarella, le ricerche morbose di particolari insignificanti sull'adolescenza di Giorgia Meloni e gli attacchi sguaiati a Matteo Salvini. La trivella della propaganda dem scava sempre più in basso, fino al delirio della strage ipotetica, dell'incubo delle vittime che avrebbe potuto fare l'inesistente centrodestra No Vax. È l'anno zero della campagna elettorale. Ma probabilmente andremo anche sotto zero.

Burocrazia sovietica. La pandemia ai tempi della Russia stalinista. Ludmila Ulitskaya su L'Inkiesta il 22 Luglio 2022.

“Era solo la peste” (La Nave di Teseo) è un tableau suggestivo, ma basato su fatti veri, con cui Ludmila Ulitskaya mostra la reazione durissima messa in campo dal regime per contrastare la diffusione del virus, che per i cittadini era molto simile all’attività di repressione dei nemici interni

“Aleksandr Matveevicˇ, apra! Cosa si è chiuso lì dentro a fare!” È Nina, tornata dalla pausa sigaretta.

“Nina Ivanovna! Abbiamo un’emergenza. Ho isolato questo locale, verosimilmente adesso sarà annunciata una quarantena.”

“Cosa? Cos’è successo? Aleksandr Matveevicˇ, chiedo scusa, mi ero allontanata un momento.”

“Nina Ivanovna, ora non ha importanza. Forse è stato anche meglio. Per favore, prenda la chiave dal portiere e chiuda da fuori la porta d’ingresso all’accettazione…”

“Aleksandr Matveevicˇ! Apra!” urla Nina Ivanovna.

La donna continua a bussare alla porta, ma Sorin non proferisce una parola di più. Copre Majer che geme e tossisce, prosegue la visita.

“Come si è fatto l’escoriazione?”

“Rasoio… Il barbiere… Perfettamente affilato…” Sorin si siede e telefona.

“Larisa Grigor’evna! Ho bisogno urgente di parlare con Lev Aleksandrovicˇ, per favore mi passi l’interno… Allora mi dia il numero di casa. È una comunicazione della massima importanza. Non lo disturberei altrimenti. Sì, sì, responsabilità mia. Ho da scrivere sì.”

Scrive il numero che gli viene dettato, mette giù la cornetta e di nuovo è al telefono:

“Per cortesia, mi passi Lev Aleksandrovicˇ. Sono il dottor Sorin, medico di turno del reparto accettazione. La prego, me lo chiami, è una questione urgente, di estrema importanza. No, riguarda decisioni che non posso prendere da solo… Senta, è il primario dell’ospedale, devo consultarmi con lui! Sì, esatto! Insisto!”

Sorin aspetta al telefono.

“Lev Aleksandrovicˇ! Sono Sorin, perdoni il disturbo. All’accettazione hanno portato un paziente, c’è un sospetto di peste. Da quanto posso giudicare, il malato ha una forma polmonare. Pestis! Certo, bisogna chiamare un infettivologo. Assolutamente! Purtroppo non ho alcun dubbio. Il quadro clinico è classico. E c’è un’altra circostanza importante: il paziente è un collaboratore dell’Istituto di ricerca sulla peste. Evidentemente è così. È in isolamento. Il reparto è sotto sigillo. L’infermiera? Per fortuna si era allontanata proprio nel momento in cui hanno portato il paziente. Ci sono solo io. Io e il paziente.”

Sorin parla con precisione, ha iniziato ad agire con un autocontrollo per lui inconsueto. Di un’austerità quasi militaresca.

“Bisogna urgentemente prendere le misure necessarie. Quarantena, subito… Temo che a me lo scafandro anticontagio non serva più, Lev Aleksandrovicˇ! Non sono uno studente. Sono un medico. Bene. Credo che il Commissariato del popolo alla salute qui non possa far fronte alla situazione. Serve un altro dicastero… Grazie.”

Sorin mette giù il telefono. Si avvicina a Majer, lo sistema meglio. Prende dell’acqua, lo fa bere un po’. Gli mette un impacco sulla fronte. Poi prende la cartella clinica e inizia a scrivere: “Anamnesi…”

Sorin si alza, si china su Rudol’f Ivanovicˇ, quello apre gli occhi:

“Indossi la maschera… È pericoloso… Un ceppo altamente virulento… La maschera… Il barbiere, il barbiere… Questo è un particolare… importante… Il barbiere dell’hotel.”

“Cosa? Cosa dice?” Sorin è disorientato: sono parole deliranti o consapevoli?

“Bisogna metterlo in isolamento. Katkin o Kotov, il cognome… c’entravano i gatti…”

Sorin si avvicina di più:

“Non capisco: cosa sta dicendo?”

“Il barbiere dell’hotel… Un contatto stretto… Quarantena urgente…”

Sorin annuisce:

“Sì, certo. Anche il barbiere… Lo comunicherò, non si preoccupi, Rudol’f Ivanovicˇ.”

Majer si agita, cerca l’aria con la bocca. Sulle labbra ha una schiuma rossastra. Il sudore gli cola dalla fronte Sorin gli asciuga il viso…

E di nuovo è al telefono:

“Lev Aleksandrovicˇ! Chiedo scusa, è ancora Sorin. Il paziente fa notare che ieri è entrato in contatto anche con il barbiere dell’hotel Moskva. Va trovato e messo in isolamento. Prioritario. Il paziente non ricorda con esattezza il cognome, dice Katkin o Kotov… Grazie. Se non si prendono misure urgenti c’è il rischio di epidemia. Il barbiere, ripeto, va trovato e messo in isolamento. Subito. Intanto lo si può portare da noi. Temporaneamente. Ma in generale i potenziali contagiati andranno condotti all’ospedale di Sokolinaja Gora. È quello specializzato in malattie infettive, il principale, è dominio loro…” 

Fontana e la mail sulla zona rossa. Il trappolone Covid ordito dalla sinistra ha già fatto flop. Chiara Campo su Il Giornale il 3 Dicembre 2022

Lo sfidante Majorino (Pd) accusa: chiese misure blande per la Lombardia. Ma a decidere era Conte e tra i consumeri c'era il dem Crisanti.

Milano. Una «mail segreta» spedita alle 19.59 del 28 febbraio 2020 dal governatore Attilio Fontana alla Protezione civile e alla presidenza del Consiglio «per evitare la zona rossa in Lombardia». La notizia pubblicata on line dal quotidiano «Domani» ieri mattina viene fatta rimbalzare - in primis - dallo sfidante del centrosinistra Pierfrancesco Majorino, l'eurodeputato Pd che apre oggi a Milano la campagna per le Regionali (lasciando ancora aperto un portone ai 5 Stelle).

La mail è stata acquisita dalla Procura di Bergamo che sta indagando sulla strage Covid nella bergamasca e viene citata nella consulenza tecnica commissionata a tre esperti, tra cui il microbiologo Andrea Crisanti. La parte incriminata sarebbe quella in cui si legge che «Regione Lombardia ha richiesto il sostanziale mantenimento per la settimana dal 2 all'8 marzo delle misure di contenimento della diffusione del Coronavirus già adottate con il decreto del 23 febbraio 2020 per i Comuni del basso lodigiano e con l'ordinanza per il resto del territorio». Secondo la ricostruzione, lo studio allegato alla mail («Piano di Regione per il contenimento della diffusione del virus») dimostrerebbe che il presidente «sapeva» che la situazione era fuori controllo, viene citato il passaggio in cui afferma che «dalle prime evidenze ogni paziente con Covid trasmette il virus ad altre due persone RO=2» ma che le misure già adottate «alla luce dei dati di oggi sono valide».

La situazione per Majorino e soci è palese: «Fontana chiedeva di mantenere misure blande nonostante la situazione fosse già oltre la soglia critica, non ci sono dubbi. Ha colpevolmente giocato con la vita dei lombardi». Ma il governatore leghista blocca la macchina del fango. Intanto prende «atto delle dimenticanze contenute nel servizio, dove «non si scrive quel dettaglio, e cioè che la diffusione del virus era sotto controllo clinicamente e gli ospedali non erano ancora sotto pressione. Se ci si dimentica di una piccola parola fondamentale poi si può dare un'interpretazione...». E tocca ancora a lui svelare il trappolone, il tentativo di sbianchettare le responsabilità di Giuseppe Conte, allora premier del governo Pd-M5S, a cui spettava firmare l'istituzione della zona rossa. «Suona un po' strano - sottolinea - che il consulente della Procura a cui si fa riferimento sia stato guarda caso gratificato con un seggio al Senato dallo stesso partito di Majorino, ma saranno casualità che non è mio compito commentare». Parla di Andrea Crisanti, eletto nella lista Pd.

Già nei primi giorni della pandemia la Lombardia aveva chiesto a Conte di poter istituire autonomamente zone rosse e gialle. La risposta in videoconferenza, si apprende da fonti regionali, fu che «si potevano prendere misure solo parziali e provvisorie, senza blocco delle attività produttive» fino al successivo Dpcm. Una prima lettera, rimasta «senza risposta» e contenente la richiesta di maggiore autonomia decisionale era partita il 23 febbraio. Fontana aveva poi scritto la mail del 28 febbraio a Conte, al ministro della Salute Roberto Speranza e a ministri Patuanelli e Lamorgese, chiedendo quantomeno «il mantenimento, delle misure già adottate per il basso lodigiano» dato che non si registravano remissioni «anche considerando solo i casi sintomatici». Ancora il 2 marzo 2020 Conte sosteneva che la zona rossa «va usata con parsimonia» perché «ha un costo sociale, politico ed economico molto elevato». Il sindaco Beppe Sala ieri non ha commentato le bordate del suo candidato: «Non ho letto l'articolo».

Federica Venni per repubblica.it il 2 dicembre 2022.

Il Covid irrompe nella campagna elettorale per le elezioni regionali in Lombardia. A far scoppiare il caso è una e-mail del 28 febbraio 2020, pubblicata sulla versione online del quotidiano Domani, in cui la Regione avrebbe chiesto alla Protezione civile, alla Segreteria della presidenza del Consiglio, del ministero dello Sviluppo economico e dell'Interno di lasciare la Bergamasca, una delle zone più colpite dalla pandemia, in zona gialla, anziché portarla in zona rossa come era avvenuto per Codogno. Siamo all'inizio dell'emergenza sanitaria e la richiesta sarebbe partita alle 16.59 dalla casella di posta elettronica del presidente Attilio Fontana con questo oggetto: "Urgente - proposte misure contenimento della diffusione del Coronavirus ordinanza integrazione medie e grandi strutture di vendita".

Covid e Zona rossa nella Bergamasca, che cosa dice la mail del 2020 di Fontana

La mail fa parte degli atti dell'inchiesta della Procura di Bergamo sulla gestione della pandemia in quei territori durante la prima ondata. Inchiesta per la quale si attende la chiusura delle indagini. In allegato, scrive il Domani, c'è un documento che avrebbe suscitato la perplessità dei consulenti dei magistrati bergamaschi dal titolo "Piano di Regione Lombardia per il contenimento della diffusione del coronavirus". Il primo capitolo si intitola "Cosa abbiamo capito" e contiene, tra le altre, due affermazioni: "Il virus clinicamente non dà problemi o comunque è facilmente risolvibile" e "Dalle prime evidenze ogni paziente con Coronavirus trasmette il virus ad altre due persone R0=2".

La mail sulla Zona rossa, Fontana: "Il virus allora era sotto controllo"

In una nota il governatore Attilio Fontana risponde così: "Prendiamo atto delle dimenticanze che sono contenute nel servizio, dove non si scrive un dettaglio e cioè che la diffusione del virus era sotto controllo clinicamente e gli ospedali non erano ancora sotto pressione". E aggiunge, facendo riferimento alla "buona fede di tanti giornalisti": "È chiaro che se ci si dimentica di una piccola parola fondamentale poi si può dare un'interpretazione...".

La mail su Covid e Zona rossa diventa un caso, Majorino: "Con quale coraggio Fontana corre?"

L'opposizione parte subito all'attacco, con il candidato del centrosinistra Pierfrancesco Majorino che dice di non avere dubbi: "Fontana ha colpevolmente giocato con la vita dei lombardi e si è dimostrato palesemente inadeguato nella gestione dell'emergenza, arrivando a minimizzare una situazione che era già fuori controllo. Con quale coraggio Fontana si presenta oggi per chiedere di nuovo la fiducia dei lombardi?", si chiede Majorino. E ancora: "Fontana davanti a tutto questo è in grado di affrontare questa campagna elettorale con una responsabilità simile sulle spalle?".

Il governatore uscente non ci sta e replica all'eurodeputato del Pd, puntando il dito sull'inizio di una "campagna diffamatoria": "Pensavo sulla base delle affermazioni da lui fatte che si sarebbe trattato di una campagna elettorale sui contenuti. Se si fonda invece sulla diffamazione ne prendiamo atto". Fontana poi, riferendosi alla pubblicazione della lettera, parla di "un'uscita esclusivamente in funzione della campagna elettorale". Perché "ci si dimentica - conclude - che proprio in quei giorni c'erano due sindaci importantissimi e un segretario politico di un partito importantissimo, che fa riferimento a Majorino, che dicevano che si doveva andare a cena e a prendere gli aperitivi". Per il governatore è una "dimenticanza" anche il fatto che "il redattore di questa relazione alla Procura è diventato senatore del Pd. Sono casualità che non è compito mio dover commentare".

La polemica politica per la Zona rossa, tutte le reazioni

A far quadrato intorno al governatore è la Lega, con il coordinatore regionale lombardo Fabrizio Cecchetti che attacca Majorino: "La sua miseria politica si commenta da sola, arriva a speculare sui morti della pandemia per la sua becera campagna elettorale". E aggiunge: "Non bisognerebbe nemmeno rispondere a simili bassezze ma già che ci siamo ricordiamo a Majorino che solo il Governo ha il potere di istituire una zona rossa, avendo il controllo delle forze dell'ordine necessarie a sigillarne i confini territoriali, potere che la Regione non ha. E al governo c'erano Conte e i Cinque Stelle con il suo Pd.

Non solo, in quei primi giorni di marzo 2020 la giunta milanese di Giuseppe Sala, giunta di cui lo stesso Majorino era stato uno storico assessore fino a qualche mese prima, invitava ad aperitivi e assembramenti. Forse Majorino prima di speculare sui morti dovrebbe assumere qualche integratore per la memoria".

Nel continuo botta e risposta arrivano dichiarazioni da parte di tutta l'opposizione regionale. Per il cogliere del Pd Pietro Bussolati "ora la verità viene fuori, Fontana mise la mascherina sugli occhi perché non voleva vedere quello che stava accadendo ad Alzano e Nembro, non voleva decidere di fare l'unica cosa giusta, chiudere tutto come a Codogno. La responsabilità di Fontana è grave - spiega Bussolati - perché aveva tutti i dati che confermavano che la situazione era catastrofica e pericolosissima. Con quella non scelta, con quella richiesta al governo di temporeggiare sulla zona rossa, con la riapertura del pronto soccorso di Alzano e con la delibera sul trasferimento dei malati Covid nelle RSA non ha protetto le persone fragili, non ha protetto il personale sanitario e ha permesso al virus di dilagare. Noi questo non lo possiamo dimenticare."

Per il Movimento 5 Stelle, con il capogruppo Nicola Di Marco, "Fontana sapeva, ma, nonostante ciò, non ha voluto mettere in sicurezza la Lombardia. Il 26 febbraio indossava goffamente una mascherina su Facebook - dice il consigliere - e solo due giorni dopo chiedeva di non adottare le misure che avrebbero salvato la vita a migliaia di lombardi". Secondo Di Marco le richieste che Fontana avrebbe inviato al governo, "nella migliore delle ipotesi, confermano quanto Fontana e la sua giunta non avessero neanche lontanamente capito il pericolo e la gravità di quanto stesse accadendo. L'inadeguatezza del centrodestra ha condannato la Lombardia, per questo hanno affossato la commissione d'inchiesta regionale".

Il libro dell'ex assessore al welfare della Lombardia. Giulio Gallera racconta la sua guerra contro il covid e la gogna. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 10 Luglio 2022 

Il suo turno di guardia è durato un anno esatto, ed è stato l’anno in cui la bomba atomica è scoppiata in Lombardia, e lui e gli altri, amministratori ma soprattutto medici e personale sanitario, hanno dovuto affrontarla a mani nude. Giulio Gallera è colui che ha tenuto sulle spalle il fardello dell’epidemia da coronavirus a partire dal primo caso a Codogno, prima e seconda ondata fino alla prima boccata d’ossigeno con l’arrivo dei vaccini. Un anno da batticuore costante, che racconta oggi, con la sobrietà del liberale che non scende nel campo delle sguaiataggini, in un libro dal titolo forte: Diario di una guerra non convenzionale (Guerini associati, 18 euro), in cui il termine “guerra” evoca non solo quella contro il virus, ma anche tutto il contorno di gogna mediatica.

Nei giorni in cui l’epidemia da sanitaria era diventata giudiziaria. Basterebbe ricordare la volgarità con cui Travaglio apostrofava l’assessore al welfare storpiandone il cognome, perché bastava togliere una elle per evocare le manette. Nel solito tripudio dei tagliagole del Fatto quotidiano. C’è molto del modo di fare politica e del ben amministrare di un assessore e antico militante di Forza Italia in questo libro. Ma, dietro all’avvocato Gallera, ecco ogni tanto spuntare Giulio, la persona, non soltanto perché ha una bella famiglia che ringrazia nella dedica del libro, senza dimenticare tutti i collaboratori e il personale di ogni ospedale, pubblico e privato. Ma anche perché, nel suo ruolo di padre, è costretto a svegliare il figlio liceale di notte per dirgli che proprio lui sarà quello che lo costringerà a disfare la valigia e riporre gli sci già pronti per la settimana bianca della scuola. E sarà ancora lui, con i suoi provvedimenti, a uccidere in culla la festa del diciottesimo compleanno della figlia. Piccole grandi cose che hanno riguardato tante famiglie. Ma in una sola non si è potuto mandare al diavolo colui che obbligava alle restrizioni, quelle spesso poco comprensibili per ragazzi e ragazze.

Tutto comincia la sera del 20-2-2020, quasi uno sciagurato presagio del calendario, con tutti quei due. L’assessore è a una cena ad Abbiategrasso e nel giro di minuti o di quel che ci vuole ad arrivare a Milano, si ritrova catapultato nella task force della Regione Lombardia il cui comando non abbandonerà più –non ci saranno più famiglia né pranzi né riposo- per un anno. Quando sarà costretto a lasciare il posto di comando proprio perché stremato e fatto a pezzi, proprio per aver concesso a tanti con il camice bianco ancor più stremati di lui, un paio di giorni di riposo. Le jene invece non riposano mai, dai loro divani. Sono jene della politica – troppo ghiotto sarebbe per la sinistra il boccone della Regione Lombardia – ma ancora più voraci sono le penne, che finiscono poi per aiutare la Procura della repubblica, quella disastrata di Milano, ad aprire fascicoli a raffica. Poco importa il fatto che, uno dopo l’altro, questi fascicoli finiranno con il chiudersi con archiviazioni richieste dagli stessi pubblici ministeri. I danni mediatici, si sa, sono come il famoso dentifricio che è impossibile far rientrare nel tubetto.

L’ex assessore Gallera, oggi Presidente della commissione bilancio della Regione Lombardia, ha scritto questo libro per rimettere i puntini sulle i. Per informare, soprattutto. Non basta il fatto che, con l’ultima assoluzione di Attilio Fontana sulla paradossale vicenda dei camici, tanti “scandali” siano evaporati sul piano giudiziario. Lui, da bravo avvocato puntiglioso, e anche con la sua reputazione di liberale inattaccabile, non dimentica neanche i numeri. La Lombardia è stata attaccata dal virus in modo violento, in una percentuale altissima rispetto alle altre regioni italiane. Nella prima ondata, quella iniziata il 20 febbraio del 2020, in Italia sono state contagiate 1.500.000 persone: il 50% era appunto in Lombardia. Che è la regione più popolosa, con circa dieci milioni di abitanti, ma anche quella più produttiva e attiva, anche negli spostamenti internazionali. Se dunque esaminiamo il famoso dato dell’ “eccesso di mortalità”, cioè il rapporto tra i decessi del 2020 e quelli del quinquennio precedente, il dato è del 111,8% in Lombardia, contro il 31,7% sul piano nazionale.

La gran parte dei morti sono lì, perché lì c’è la gran parte dei contagi. Ma se poi andiamo a vedere gli studi resi noti dall’Istituto superiore della sanità, che ha esaminato, al termine della prima ondata, il tasso di letalità di ogni regione in rapporto ai livelli di contagiosità, ecco che il risultato si capovolge. E la Lombardia sarà, insieme al Veneto, quella che ha saputo curare meglio i suoi malati. Così, il rapporto tra contagiati e deceduti sarà del 2,26% in tutta Italia, e del 3,42% in Emilia Romagna, del 3,21% in Liguria e del 3,37% in Toscana, ma del 2,28% in Lombardia e del 2,23% nel Veneto. Pure, lo scrive quasi con rabbia nella prefazione il direttore di Libero, Alessandro Sallusti, “in quel primo anno di pandemia contro la Lombardia e i suoi comandanti è stata montata una delle più grandi, violente e vigliacche campagne di denigrazione di cui la stampa e l’informazione italiana si siano mai rese responsabili”. “Scientemente”, aggiunge, e “sulla pelle di migliaia di morti e di decine di migliaia di malati e di milioni di cittadini impauriti”.

Sarebbero tante le cose da dire, da aggiungere, e tante le abbiamo già dette e scritte. E smentite, come la notizia che siano state mandate persone non ancora guarite a infettare quelle sane nelle Case di riposo. Non è così, e se ne sono resi conto anche i membri della commissione presieduta dall’ex pm Gherardo Colombo e la stessa magistratura. Ma lasciamo che, a chi ha continuato a parlare di “Disastro Lombardia”, sia lo stesso Giulio Gallera a rispondere: “Il rapporto tra contagiati e deceduti evidenzia, anzi, come la Regione Lombardia sia stata in grado di salvare un numero di vite molto più alto rispetto alle altre, che pure hanno avuto un numero di contagiati più bassi. Altro che disastro”. I meriti vanno soprattutto a quei medici, a quegli infermieri che prima erano eroi e un momento dopo avevano già i corpi pieni di frecce come san Sebastiano. Erano i veleni della cattiveria e della maldicenza che non risparmiavano nessuno. Ma la regione ha retto, con i suoi duecento ospedali pubblici e privati, i diciannove Irccs e le 650 case di riposo, i 130.000 operatori sanitari qualificati e gli straordinari uomini e donne del terzo settore. E anche un assessore ingiustamente sacrificato, anche dagli alleati di governo. Le jene sono state costrette a riporre gli artigli. Ma nessuno ha chiesto scusa. Ben vengano allora i puntini sulle “i” di questo libro.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Le tenniste di Finale Ligure, il bimbo di Ancona, l’infermiera simbolo di Cremona: i volti simbolo del Covid, due anni dopo. Margherita De Bac su Il Corriere della Sera il 6 Giugno 2022.

Le giovani tenniste di Finale Ligure, il bimbo di Ancona, l’infermiera simbolo di Cremona e il chitarrista sui tetti di Roma: ecco come è cambiata la loro vita.

Le storie

Appare tutto così lontano, ora che abbiamo riconquistato almeno una parte delle nostre libere abitudini. Si guarda indietro, a quello che abbiamo passato, e monta quasi un senso di stupore: «Ma davvero siamo passati attraverso tutto questo? — viene da domandarsi —. I morti, le bare, il confinamento a casa, l’incertezza sul futuro». La «certificazione» di quanto è avvenuto, oltre ai ricordi individuali, sono le foto e i video di oltre due anni di pandemia. Il Corriere della Sera ne ha scelte 4 fra tante, pensando che siano le più significative per dipingere situazioni e stati d’animo. Cinque «personaggi» che, attraverso otto immagini, raccontano molto più delle parole. Siamo andati a vedere se e come è cambiata la loro vita, se stanno bene, cosa hanno ricevuto (o è stato tolto loro) dalla notorietà arrivata grazie (o per colpa) di intraprendenza, coraggio, spirito di iniziativa e del caso.

I nuovi contagi stanno progressivamente calando. Passeremo finalmente un’estate «normale» prima di un autunno in cui il virus potrebbe tornare, anche se in modo meno imperioso visto che avremo vaccini aggiornati. Speriamo di non dover aggiungere al nostro album altre pagine.

Carola e Vittoria, dal tennis sui tetti a Federer

Sono diventate una delle principali attrazioni di Finale Ligure. I turisti si affacciano al club dove sono tesserate e chiedono di poter vedere «le due ragazzine che hanno giocato sui tetti». Carola Pessina e Vittoria Oliveri — che oggi hanno 13 e 15 anni — sono diventate famose per il video dove palleggiavano dai tetti dei rispettivi palazzi, durante il lockdown totale del 2020. Il loro maestro Dionisio Poggi ebbe l’idea di postarlo e la loro partita aerea fini sul sito dell’Atp, l’associazione dei tennisti professionisti, battendo il record di visualizzazioni, oltre cinque milioni. Una popolarità mondiale. Roger Federer andò a trovarle a Finale Ligure per giocare anche lui sui tetti, la Barilla (suo sponsor) offrì alle tenniste una settimana all’Academy di Nadal, a Manacor, in Spagna. Fa da portavoce alla fantasiosa coppia Carola: «Nulla è cambiato per noi. Siamo amiche e compagne di squadra. Per scherzo ogni tanto mi chiamano Roger. Un mese fa a Loano, al torneo Nextgen, un ragazzo mi si è avvicinato e mi ha chiesto l’autografo. Il tennis? È tutto, è la vita, tira fuori il meglio di me, di noi».

Matteo e le coccole dell’infermiera. Ora ha una sorellina

Compie due anni ad agosto Matteo, il bimbo che — ricoverato in isolamento dopo un intervento al Salesi di Ancona — fu teneramente accudito dall’infermiera Katia Sandroni, accoccolata attorno a lui, con camice e scafandro. Lo scatto è del marzo 2021. Matteo prese il Covid dai genitori, ne uscì fuori con un problema all’intestino. Fu necessario operarlo. Oggi sta bene, ha grandi occhi neri «che ubriacano» e una sorellina più piccola. È tempo di autoanalisi per Roberta Ferrante, la mamma: «Per mesi non ho voluto incontrare Katia né ringraziarla. E sa perché? Ero gelosa che avesse accarezzato mio figlio al posto mio. L’ho capito solo dopo». Si sono viste, commosse e piangenti ambedue, a maggio dello scorso anno. Roberta racconta le sue emozioni di mamma separata dal suo amore nel libro che viene presentato il 9 giugno a Falconara. Si intitola Io sono qui, editore Ventura (di Senigallia), a significare che a tutto si può sopravvivere. E Katia? Ha saputo di essere incinta subito dopo la foto con Matteo. La sua piccola Elisa è stata appena battezzata.

Elena, sfinita sulla scrivania: «Sono l’orgoglio di mio nipote»

Cinguettii in sottofondo, voce rilassata, sembra stesa sul lettino. «Sì, è vero, mi sto godendo una nuova tranquillità, sono a bordo piscina. Per mesi sono rimasta zitta, aspettando di tornare nell’ombra. Lei è la prima giornalista con cui torno a parlare», rompe il silenzio Elena Pagliarini, 45 anni, l’infermiera del Maggiore di Cremona, protagonista della foto «rubata» il 9 marzo 2020 dall’amica Francesca Mangiatordi, medico nel suo stesso ospedale. Eccola accasciata sulla scrivania, durante il turno al pronto soccorso. Oggi la sua vita è tornata quella di sempre nonostante la medaglia di Cavaliere dell’Ordine al merito della Repubblica consegnata dal presidente Mattarella. «Non amo apparire, preferisco tenermi in disparte. Mi sono vista costretta a tirare fuori un carattere che non pensavo di avere». Abita a Cremona, legge libri, è circondata da una famiglia unita, orgogliosa di averla come parente. Soprattutto il più grandicello dei tre nipoti, Pietro, 10 anni: «A scuola gli hanno chiesto con ammirazione: “Ma era proprio tua zia che dormiva sulla scrivania? Forte!”».

Jacopo e le note dal balcone: «Oggi suono anche allo stadio»

Il 14 marzo del 2020 Jacopo Mastrangelo è a casa del padre commercialista, ambedue appassionati di musica. Il lockdown è agli esordi e c’è ancora fiducia. La gente si affaccia dai balconi per darsi forza. Lui all’orario convenuto esce fuori e si mette a suonare alcuni brani con la chitarra elettrica. Lo farà per altre sere, cambiando repertorio. Nelle orecchie del pubblico affacciato resta impressa «C’era una volta in America», una sorta di colonna sonora della pandemia. «La mia esibizione mi ha dato la spinta per farmi avanti. Mi ha dato la consapevolezza di quello che sapevo fare. Da allora sono migliorato, non solo come artista». La musica era un hobby, oggi è qualcosa di più: «Sono soprattutto studente di Economia alla Sapienza. Il futuro? Chissà. Da autodidatta non mi lamento». Jacopo ha 21 anni, si allena (corsa, canottaggio) e non si è montato la testa: «Sono solo uno che ha suonato dal balcone, ci sono ragazzi più giovani e più bravi». Intanto continua ad esibirsi nei pre-partita della Lazio, all’Olimpico: «Sono biancazzurro, ma non solo», si giustifica forse per ingraziarsi l’altra metà dei tifosi.

Giulio Gallera, il suo libro sul Covid presentato nella casa di riposo dove morirono 32 anziani in 23 giorni. Simone Bianco su Il Corriere della Sera il 4 Giugno 2022.

L’ex assessore regionale alla Sanità alla Rsa Anni Sereni il prossimo 13 giugno per parlare del volume «Diario di una guerra non convenzionale». Sulla mancata zona rossa in Val Seriana scrive: «Ho fatto tutto ciò che era nelle mie competenze»

Il 7 aprile 2020 la casa di riposo di Treviglio comunicava questo bilancio: 32 morti in 23 giorni. Lunedì 13 giugno 2022, in quella stessa Rsa Anni Sereni, l’ex assessore al Welfare della Lombardia, Giulio Gallera, presenterà il suo libro «Diario di una guerra non convenzionale. La nostra lotta contro il virus». A meno che Gallera non usi il plurale maiestatis, quel «nostra» dovrebbe stare a indicare la Regione. Cioè la Regione che a fine febbraio 2020, quando il virus infuriava sulla provincia con dati non equivocabili per chi operava nella sanità, impose alle Rsa di tenere aperti i centri per le attività diurne, con ospiti esterni che andavano e venivano, non certo una misura saggia in termini di contenimento del contagio. Il direttore amministrativo della stessa Rsa, Domenico Nappa, in quelle drammatiche ore spiegava: «Già all’inizio del contagio avevamo limitato al massimo le visite e per questo, come altre case di riposo, siamo stati richiamati dall’Ats».

È un piccolo pezzo della storia. Sufficiente però a dire che adesso, solo due anni dopo, non c’è un luogo più sbagliato di quella casa di riposo per andare a raccontare come andarono «davvero» le cose

Ogni personaggio della vicenda Covid in Lombardia — tanto più in Bergamasca — ha il suo di «davvero» che, guarda caso, tende ad assolverlo da responsabilità. Nel suo libro Gallera afferma «di aver fatto tutto ciò che era nelle mie competenze» riguardo alla zona rossa mai istituita in Val Seriana. Eppure lui stesso in seguito ammise che la Regione avrebbe potuto bypassare l’immobilismo (vistoso e colpevole) del governo Conte e decidere per la zona rossa di Nembro e Alzano. Non serve ora infierire su un uomo politico che ha pagato con le dimissioni — di fatto è il solo — le inefficienze del sistema lombardo (e una dose incredibile di sue proprie gaffes), mentre ad esempio Attilio Fontana, passata la tempesta, sarà ricandidato alla guida della Regione per il centrodestra. Certo è che, più passa il tempo, e più rispetto alla tragedia del Covid a Bergamo le strade restano solo due: o la politica apre il cassetto dei documenti utili a scoprire pezzi mancanti di verità, senza farsi sconti, oppure è molto meglio un rispettoso silenzio.

Covid, la provincia di Lecce raggiunge i mille morti: «Dietro quei freddi numeri tanta sofferenza». Parla il direttore dell’unità operativa di Epidemiologia e Statistica. Monica Carbotta su La Gazzetta del Mezzogiorno il 15 Aprile 2022.

Dottore Quarta, lei è il direttore dell’Unità Operativa di Epidemiologia e Statistica della Asl, in questi due anni di pandemia il suo lavoro ha informato i cittadini e fatto luce agli addetti ai lavori sulle strategie da seguire per arginare l’emergenza. È possibile fare un bilancio? Le statistiche possono far scoprire tante verità, tante possibili soluzioni nascoste. Qui a Lecce cosa raccontano i numeri della pandemia?

Il 13 marzo 2020 abbiamo incominciato a monitorare la pandemia da COVID 19 in provincia di Lecce con l’intento di descrivere, con indicatori e mappe comprensibili a tutti, la diffusione della malattia nel nostro territorio. Nelle prime fasi della pandemia i casi erano veramente pochi rispetto al resto d’Italia ed in particolare al Nord, ma abbiamo deciso comunque, sin da subito, di mettere a disposizione di media, Istituzioni e cittadini uno “strumento Open” con cui l’Azienda ha deciso di condividere dati significativi all’insegna della trasparenza.

La statistica è stata utile?

Sì, la statistica è stata utile sempre (ce lo dicono i tanti cittadini che ogni venerdì attendono il report), ma lo è stata di più nei momenti di picco, o di quelli che ritenevamo picco, perché ci ha portato a lanciare moniti ai cittadini perché adottassero comportamenti virtuosi, o a intensificare l’invito alla vaccinazione o per esempio a rivedere la dislocazione dei posti letto in base al tasso di ospedalizzazione. Quello che non abbiamo mai dimenticato è il fattore umano, ovvero che dietro a quei numeri c’erano e ci sono vite, volti, sofferenza, persone in carne ed ossa.

Quando è esplosa la pandemia, questa provincia è stata graziata da clementi bilanci al contrario di tante altre parti d’Italia dove il virus non ha dato tregua. Cosa sta succedendo ora?

La bassa circolazione del virus nel Salento nelle prime fasi della pandemia e nelle precedenti ondate (la provincia di Lecce è stata tra le ultime in Italia) ha favorito il recente incremento dei casi, in considerazione del fatto che la diffusione di Omicron 2 interessa anche i soggetti vaccinati e, pertanto, allo stato attuale il contagio riguarda i soggetti indenni in precedenza. Questa condizione è tuttavia favorevole perché la rilevante incidenza degli ultimi mesi incontra elevate coperture vaccinali con relative scarse conseguenze in termini di forme gravi, ospedalizzazione e decessi.

Quali ipotesi possono spiegare l’attuale veloce crescita dei casi?

Le ipotesi che possono spiegare questa veloce crescita dei casi di infezione da parte della variante Omicron 2 sono da ricondurre in primo luogo ad una maggiore diffusione del virus nella fascia di età tra i 3 e 25 anni. Negli under 5 gioca difatti un ruolo fondamentale l’assenza di vaccinazione. Un altro fattore che favorisce la diffusione è sicuramente l’abbassamento nella soglia di attenzione, uso della mascherina, rispetto del distanziamento, igiene delle mani, buone pratiche che non dovrebbero assolutamente essere abbandonate.

Le persone ricoverate in questo ultimo periodo in Terapia Intensiva avevano o hanno patologie pregresse?

I recenti ricoveri in terapia intensiva hanno riguardato soprattutto persone anziane con patologie pregresse come ipertensione, diabete, broncopneumopatie, immunocompromessione.

Le positività registrate comprendono sempre anche tamponi di controllo o sono solo nuovi casi?

Le positività registrate comprendono solo i nuovi casi, ci sono però persone guarite dalla malattia che dopo diversi mesi si sono nuovamente infettate e che pertanto vengono considerate come nuovi casi di infezione.

Si è molto parlato del morire di Covid o con Covid, a suo avviso i dati di mortalità sono sovrastimati o sottostimati? Mi spiego meglio. Sono a conoscenza di autopsie effettuate su persone il cui decesso è stato attribuito ad altra causa alle quali sono state riscontrate le tipiche lesioni polmonari da Covid; di contro si parla molto di decessi di persone già gravemente compromesse che sarebbero risultate anche positive.

Nel riportare i decessi COVID-19 sul Sistema di Sorveglianza, l’ISS suggerisce di seguire le indicazioni di ECDC e OMS per identificare i decessi associati a COVID-19. I criteri per definire un decesso per COVID-19 comprendono: decesso occorso in un paziente definibile come caso confermato microbiologicamente (tampone molecolare) di COVID-19; presenza di un quadro clinico e strumentale suggestivo di COVID-19; assenza di una chiara causa di morte diversa dal COVID-19; assenza di periodo di recupero clinico completo tra la malattia e il decesso.

Quindi?

Quindi la positività al Sars-Cov-2 non è sufficiente per considerare il decesso come dovuto al COVID-19, ma è necessaria la presenza di tutte le condizioni sopra menzionate, inclusa l’assenza di chiara altra causa di morte.

Qual è stato il giorno più difficile e quello più incoraggiante in oltre 2 anni di pandemia?

Il giorno più difficile è stato quello in cui i posti letto dedicati al Covid erano quasi tutti pieni con pazienti provenienti anche da fuori provincia, quello più incoraggiante il 27 dicembre 2020, primo giorno di vaccinazione anti Covid, in cui abbiamo incominciato a intravedere un po’ di luce e speranza.

La vita prima della pandemia. Parliamo ormai al passato: «Andavamo», «Era bello», «Dicevamo»... Ma ricucire il tempo e la memoria serve. Lisa Ginzburg su La Gazzetta del Mezzogiorno il 09 Aprile 2022.

Sento diverse persone intorno a me usare il tempo imperfetto per parlare della vita per come era prima della pandemia. «Andavamo», «facevamo», «ti ricordi come era bello quando…». Davvero il tempo si è così spezzato in due? Davvero c’è un prima e un dopo, e tra quel prima e dopo galleggiamo, nostalgici, smarriti?

Per tutti, o quasi tutti, l’esperienza del lockdown ha significato una cesura, una frattura del corso del tempo della vita. Cesura archiviata dal pensiero: zona della nostra memoria congelata, dove, come succede per i ricordi traumatici, ci soffermiamo di malavoglia con il pensiero, di rado e in maniera confusa.

Conosco pochissimi che abbiano memoria positiva dei mesi di isolamento; per tutti gli altri, la maggior parte di noi, viene piuttosto spontaneo rimuovere quel lungo momento di sospensione, di silenzio, di deserto.

Anziché usare l’imperfetto, e così volerci distanziare ancora di più da quei ricordi (sia individuali che collettivi) che restano comunque parte delle nostre vite, può essere benefico ancorarci al tempo, al suo fluire.

Tante cose per causa della pandemia sono cambiate e stanno cambiando; ma non c’è spezzatura, o quantomeno, bisogna impegnarsi perché il meno possibile si creino cesure nella nostra mente, nel nostro tempo. Come fosse una ferita i cui lembi vadano ricuciti, sforzarsi di ricomporla, quella spezzatura.

Evitare un congelamento del pensiero che conforma il trauma e ci fa stare male, che fa pensare a un «tempo di prima» così facendoci vivere in uno stato di malinconia sospesa. Torniamo allora quei ricordi: per quanto difficili, descriverli ci può aiutare. Scriveteli, scrivetemi le vostre immagini più forti e difficili del lockdown. Sarà importante costruire insieme un mosaico di memorie per ricucire la spezzatura del tempo.

I lutti per i morti e le ferite dei vivi. Felice Manti il 31 Marzo 2022 su Il Giornale.

C'è un deserto da attraversare, per chi in questi due anni ha perso qualcosa o qualcuno. Un sentimento o un amico, un abbraccio o un padre, una consuetudine, financo un profumo.

C'è un deserto da attraversare, per chi in questi due anni ha perso qualcosa o qualcuno. Un sentimento o un amico, un abbraccio o un padre, una consuetudine, financo un profumo. No, non è andata bene, non siamo usciti da questo tunnel migliori di prima, anzi. Ci sono bambini che non sanno vivere senza mascherina, altri che hanno paura di scambiarsi le matite, altri ancora che giocano a «ce l'hai» col Covid. C'è una nuova normalità che per qualcuno è rassicurante, per altri è una prigione. Ci sono lutti impossibili da elaborare, perché la rabbia per certe raffazzonate scelte politiche non degrada. Anzi, ribolle di fronte alle bugie su ciò che si doveva fare e nessuno ha fatto, agli inaccettabili alibi mascherati di fatalismo, alle colpe di chi ha svuotato gli ospedali per paura di doverli riempire troppo. Ci sono emozioni che non riescono più a riemergere dalla poltiglia di viscere in cui le abbiamo ricacciate, quasi vergognandocene. Ci sono montagne di occasioni perdute e sprecate, ci sono volti cari, appannati dal dolore e smangiati dal tempo, che vorremmo mettere a fuoco ma il tormento ce lo impedisce. Ci sono ritualità preziose a cui ci vergogniamo di rinunciare ma che abbiamo barattato, per comodità, sull'altare della prudenza. Ci sono lacrime che non sanno più uscire e altre che vorrebbero rientrare, per provare a lenire le ferite che non riusciamo a guarire, che guardiamo ogni giorno in una foto, che annusiamo in stanze abitate di tristezza, che cerchiamo in bar e negozi chiusi con dentro i nostri ricordi. Proviamo angosce che puzzano di Novecento, le nostre vite smeralde non luccicano più come prima, c'è poca luce. E non basta la taumaturgica illusione di una medicina salvifica, che ci immunizzi da questo struggimento che ci tiene svegli, che scacci i fantasmi e accenda la speranza di poter tornare indietro e permetterci ancora il lusso di divertirci d'incoscienza, di scherzare su una tragedia che ci ha segnati più di una guerra che pure appare incombente anche se lontana, ma che almeno ha delle vestigia nemiche, che riconosci perché sporche di sangue innocente. Non odiare, dimenticare, perdonare è l'unico vaccino possibile. Ma è impossibile senza una giustizia che inchiodi i colpevoli e zittisca gli ultimi macabri nientologi che ormai non incantano più.

Tutta la verità dietro i camion dell'Esercito e le bare di Bergamo: serviva una risposta forte. Il Tempo il 20 marzo 2022.

Chi decise di schierare l’Esercito per portare via i corpi dei morti Covid da Bergamo? Nel corso di questi due anni di pandemia sono sorte molte teorie del complotto sull’iconico scatto dei camion delle forze armate che in fila abbandonano la città lombarda, messa in crisi dalla circolazione del virus. “Organizzammo di sera il primo trasferimento il 18 marzo perché volevamo fare meno clamore possibile ma era difficile nascondere il passaggio in pieno centro di 10 camion dell'Esercito con le auto dei carabinieri avanti e dietro”. A parlare è Giuseppe Regina, tenente colonnello del Comando Provinciale dei carabinieri di Bergamo, che aveva il compito di pianificare il trasporto delle persone morte per Covid sui mezzi militari.

Due anni dopo, Regina è al suo posto nell'ufficio da cui ha coordinato le operazioni di sicurezza nella giornata della commemorazione delle vittime del Covid che ha portato il presidente della Camera Roberto Fico in città: "Ero qui - racconta all'AGI - quando quella fotografia venne pubblicata. La vidi ma non ebbi il tempo di pensare che avrebbe segnato un passaggio storico. In quei giorni avevamo altro a cui pensare. Benché lavorasse a pieno regime il formo crematorio di Bergamo poteva smaltire meno di 30 salme in 24 ore quando in quei giorni morivano anche duecento persone al giorno. Visto che gli ospedali erano pieni, carabinieri, Prefettura, il Comune di Bergamo e poi gli altri limitrofi decisero di creare tre hub, il primo nella Chiesa del cimitero cittadino, dove far confluire i corpi per evitare ulteriori problemi sanitari. All'inizio arrivavano persone morte in ospedale, poi anche nelle abitazioni. Per smaltire i corpi - e qui Regina manifesta il suo pudore per l'espressione troppo burocratica - decidemmo di rivolgersi ad altre città fuori dalla Lombardia che era tutta messa male. In una delle tante riunioni si pose il problema del numero dei carri perché le pompe funebri avevano un personale ridotto a causa del personale malato di Covid e non erano in grado di offrire il servizio. L'Esercito mise a disposizione i camion e facemmo il primo trasferimento di 65 salme verso Modena e Bologna. Dovevamo dare una risposta forte ai familiari delle persone decedute”.

“Spesso a bordo di quei camion - prosegue Regina - c’erano persone che conoscevamo, amici e anche ex colleghi. Per tutti avevamo lo stesso sentimento di affetto e pietà, li abbiamo accompagnati come se fossero familiari. Il nostro spirito era quello di salutarli per chi non lo poteva fare”. Nei mesi successivi c'è stato chi ha sostenuto che quei camion e quelle bare fossero un fotomontaggio. Regina misura le parole: "C'è chi dice che la terra è piatta ma ormai sappiamo che non è così”. In quel marzo di lutto profondo nella caserma del Comando Provinciale dei carabinieri di Bergamo si verificò quello che Regina definisce “un miracolo”: Nessuno dei carabinieri si ammalò di Covid.

Adriana Logroscino per il "Corriere della Sera" il 19 marzo 2022.

Sono passati due anni dalla data «incisa nella memoria degli italiani», secondo le parole del presidente della Repubblica Sergio Mattarella: quel 18 marzo del 2020 in cui la minaccia del Covid prese la forma del corteo di bare portate via da Bergamo a bordo di mezzi militari. 

«Organizzammo di sera il primo trasferimento per fare meno clamore possibile ma era difficile nascondere il passaggio in città di 10 camion dell'esercito con le auto dei carabinieri avanti e dietro», ricorda Giuseppe Regina, uno degli ufficiali che aveva il compito di pianificare il trasporto delle persone morte per Covid, sui mezzi militari. Dall'anno scorso il 18 marzo è la giornata nazionale in memoria delle vittime del Covid: 157.607 in due anni. 

«Quell'immagine - ha detto ieri Mattarella - racchiudeva il dramma dell'intera pandemia. Alla memoria delle vittime ci inchiniamo. Nel dolore dei loro familiari si riconosce l'intera comunità nazionale». «Una reazione tenace» Il virus continua ancora a infettare e a uccidere. I numeri però sono incomparabili rispetto a un anno fa, non per contagi ma per conseguenze gravi della malattia.

Ecco perché l'emergenza è prossima alla conclusione. «Lo smarrimento dinanzi a una minaccia così insidiosa - ha ricordato Mattarella - ha lasciato in breve tempo spazio a una reazione tenace, fatta di coraggiose scelte collettive e di avveduti comportamenti individuali. La Repubblica è fortemente impegnata a garantire i ritmi di una rinnovata vita della nostra comunità, senza dimenticare la lezione di quanto è avvenuto». 

Le ferite e le famiglie La pandemia ha inevitabilmente lasciato ferite profonde a Bergamo, che pagò un prezzo tra i più alti, nella prima ondata. «Qui è stata cancellata una generazione, le radici di tutti noi», ha detto il presidente della Camera Roberto Fico ieri in visita nella città lombarda, dove ha svelato la scultura «Indistinti Confini», realizzata dell'artista Giuseppe Penone e incontrato alcuni esponenti dell'associazione familiari delle vittime.

«Qui è stata cancellata una generazione», ha detto Fico. Il ricordo da parte dei leader delle istituzioni e dei partiti, è stato corale. «Ogni italiano che ha perso la vita è una ferita che ci portiamo dentro», ha detto la presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati. Esprime «vicinanza personale e del governo» il presidente del Consiglio, Mario Draghi. Rivolge «un pensiero a chi vive il tormento quotidiano di riempire il vuoto lasciato da chi è stato sopraffatto dal virus» Giuseppe Conte, che era presidente del Consiglio in quei giorni. Ricorda «l'Italia che non si è mai arresa contro questo nemico invisibile» la presidente di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni.

I numeri e la prudenza Un nemico non ancora sconfitto. Anche i dati di ieri danno conto di un contagio in crescita: 76.250 nuovi casi, tasso di positività che sale ancora (dal 15,1 al 15,5%) e altri 165 morti. E il consueto monitoraggio settimanale lo conferma con tutti gli indicatori: l'incidenza è risalita a 725 casi per centomila abitanti, e l'Rt è di nuovo vicino alla soglia di allerta di 1 (0,94). Il maggior numero di positivi non ha ancora effetti evidenti sui ricoveri. Il tasso medio di occupazione dei posti letto in area medica è stabile (12,9%), anche se supera la soglia del 15% in 9 regioni.

In terapia intensiva, invece, nell'ultima settimana è sceso ancora (al 4,8%). E tuttavia, avvertono gli esperti Silvio Brusaferro e Giovanni Rezza, le proiezioni fanno presumere che l'Rt salirà ancora. Nelle prossime settimane potrebbero aumentare anche i ricoverati. Intanto però, per effetto di questi dati, tutta Italia con l'eccezione della sola Sardegna, torna in zona bianca: da lunedì tocca a Lazio, Calabria e Marche.

Bergamo e i morti di Covid: “Così organizzammo quei camion per trasportare le salme”. La Stampa il 18 Marzo 2022.

Covid: Mattarella, ci inchiniamo alla memoria delle vittime: «Organizzammo di sera il primo trasferimento il 18 marzo perché volevamo fare meno clamore possibile ma era difficile nascondere il passaggio in pieno centro di 10 camion dell'Esercito con le auto dei carabinieri avanti e dietro». Giuseppe Regina, tenente colonnello del Comando Provinciale dei carabinieri di Bergamo, aveva il compito di pianificare il trasporto delle persone morte per Covid sui mezzi militari. Nonostante l'accortezza di farlo quando ormai il cielo era scuro, fu quello il momento lampante che segnò un prima e un dopo nella storia della pandemia, rilanciato in tutto il mondo sui social da una fotografia un po’ sfocata ma di enorme impatto emotivo, opera di un giovane steward di Ryan Air. Due anni dopo, Regina è al suo posto nell'ufficio da cui ha coordinato le operazioni di sicurezza nella giornata della commemorazione delle vittime del Covid che ha portato il presidente della Camera Roberto Fico in città. «Ero qui - racconta - quando quella fotografia venne pubblicata. La vidi ma non ebbi il tempo di pensare che avrebbe segnato un passaggio storico. In quei giorni avevamo altro a cui pensare». Spiega come nacque l'idea dei camion: «Benché lavorasse a pieno regime, il formo crematorio di Bergamo poteva smaltire meno di 30 salme in 24 ore quando in quei giorni morivano anche duecento persone al giorno. Visto che gli ospedali erano pieni, carabinieri, Prefettura, il Comune di Bergamo e poi gli altri limitrofi decisero di creare tre hub, il primo nella Chiesa del cimitero cittadino, dove far confluire i corpi per evitare ulteriori problemi sanitari. All'inizio arrivavano persone morte in ospedale, poi anche nelle abitazioni. Per smaltire i corpi decidemmo di rivolgerci ad altre città fuori dalla Lombardia che era tutta messa male. In una delle tante riunioni si pose il problema del numero dei carri perché le pompe funebri avevano un personale ridotto a causa dei molti malati di Covid e non erano in grado di offrire il servizio. L'Esercito mise a disposizione i camion e facemmo il primo trasferimento di 65 salme verso Modena e Bologna. Dovevamo dare una risposta forte ai familiari delle persone decedute». I parenti non sapevano in che città i loro cari sarebbero stati portati ma c'è un fatto che si ripeté molte volte e che, dice Regina, «mi emozionò molto». «Succedeva che chiamavano non per sapere dove avremmo portato i loro cari, ma a che ora sarebbe partito il loro viaggio e da dove perché in quel momento avrebbero potuto rivolgere un pensiero o fare una preghiera guardando verso quel luogo». «Onestamente quelle telefonate mi hanno segnato» ripete il carabiniere. Le urne con le ceneri sarebbero state poi consegnate alle famiglie proprio da chi aveva portato i corpi altrove. «A volte ai sindaci dei paesi, altre direttamente alle famiglie. Spesso a bordo di quei camion c'erano persone che conoscevamo, amici e anche ex colleghi. Per tutti avevamo lo stesso sentimento di affetto e pietà, li abbiamo accompagnati come se fossero familiari. Il nostro spirito era quello di salutarli per chi non lo poteva fare». Nei mesi successivi c'é stato chi ha sostenuto che quei camion e quelle bare fossero un fotomontaggio. Regina misura le parole: «C'é chi dice che la terra è piatta ma ormai sappiamo che non é cosi». In quel marzo di lutto profondo nella caserma del Comando Provinciale dei carabinieri di Bergamo si verificò quello che Regina definisce «un miracolo». Nessuno dei carabinieri si ammalò di Covid.

Giornata per le vittime del Covid: da Bergamo a Siracusa gli appuntamenti per non dimenticare. Redazione Tgcom24 il 18 marzo 2022.

Ci sarà anche il presidente della Camera Roberto Fico a Bergamo il 18 marzo per ricordare le persone decedute a causa del Covid nella seconda Giornata nazionale in memoria delle vittime dell'epidemia di coronavirus. Alle 10:30 Fico parteciperà alla deposizione della corona di fiori alla lapide alla memoria al Comitero Monumentale e alle 11 nella cattedrale di Sant'Alessandro alla prima esecuzione assoluta del brano "Lumen Christi" che il compositore Torsten Rasch ha dedicato a Bergamo. Alle 12, poi, nel Bosco della memoria al parco della Trucca cerimonia di commemorazione. Eventi istituzionali, religiosi e artistici in tutta Italia: la Giornata è stata istituita nel 2021, un anno dopo la lunga marcia dei mezzi dell'esercito che lasciavano Bergamo con le bare delle vittime di Covid. 

Gli altri eventi a Bergamo e in Lombardia - Gli appuntamenti della giornata bergamasca includono anche la mostra fotografica "Primavera" di Lorenzo Zalaschi, con immagini scattate durante il lockdown, la celebrazione della messa nella chiesa del cimitero alle 15:30, la presentazione del libro "La memoria e il domani" di Fabiana Tinaglia all'Accademia Carrara, e, infine, alle 20:45 nella sala civica cooperati Città Alta la presentazione del libro "Il più crudele dei mesi" del giornalista e scrittore Gigi Riva.

A Brescia, al Cimitero Vantiniano, alle 11, commemorazione con il sindaco Emilio Del Bono, il vescovo Pierantonio Tremolada e i rappresentanti di tutte le professioni sanitarie. A seguire concerto dell'Orchestra Bazzini Consort (Auditorium corso Magenta 44, alle 20.45).

In Piemonte - A Venaria (Torino), davanti alla Rsa "Piccola Reggia".alle 14.30, cerimonia dello svelamento della targa "in ricordo ed in memoria delle vittime del Covid19, del coraggio delle loro famiglie straziate dalla pandemia".

In Emilia-Romagna - A Bologna, nella sede della Regione Emilia-Romagna, inaugurazione della mostra fotografica "Il respiro trattenuto 2.0. Quasi fuori dal tunnel", curata da Gabriele Fiolo.

A Bolzano - Alle 9, in Duomo, Santa Messa celebrata dal vescovo Ivo Muser. Il Consiglio della Provincia autonoma di Bolzano proporrà, alla sera, un momento dedicato al ricordo attraverso l'accensione di candele, mentre al Palazzo provinciale 1, saranno esposte le bandiere a mezz'asta. All'ospedale San Maurizio, alle 11, inaugurazione del giardino delle magnolie dedicato alle vittime del Covid e agli operatori sanitari. 

In Toscana - Nel Salone dei Cinquecento, a Palazzo Vecchio di Firenze, alle 10, la seconda Giornata nazionale in memoria delle vittime sanitarie del Covid vedranno l'intervento - tra gli altri - del presidente della Regione Eugenio Giani e del sindaco Dario Nardella con i dg delle aziende ospedaliere universitarie con i direttori Alberto Zanobini per il Meyer e Rocco Damone per Careggi. Sempre a Firenze al Cinema Stensen, alle 21, proiezione in anteprima di "Io resto", docu-film di Michele Aiello interamente girato all'interno di un ospedale italiano durante la prima ondata della pandemia da Covid-19.

A Lucca, nella Sala degli Specchi di Palazzo Orsetti, alle 12, presentazione della performance artistica "LuccaAbbracciaLucca" che coinvolgerà oltre 500 persone. Tra i presenti il consigliere Daniele Bianucci, il direttore Zona Distretto Piana Lucca Azienda USL Toscana Nord Ovest Luigi Rossi, lo psichiatra Enrico Marchi. 

In Liguria - Regione Liguria isserà la bandiera a mezz'asta.  "Ricordare chi non ce l'ha fatta è doveroso e fondamentale, perché è stata una tragedia senza precedenti. In Liguria sono morte più di 5mila persone: padri, madri, figli, familiari, amici cari. Oggi ci stiamo avviando a superare la fase di emergenza, ma gli ultimi due anni rimarranno per sempre scolpiti nella nostra memoria". Così il presidente della Regione e assessore alla Sanità Giovanni Toti.

Ad Ancona - Nella sede del Comune alle 17:30 cerimonia di scopertura della targa in marmo dedicata all'impegno dei ricercatori, dei medici, di tutto il personale sanitario e dei volontari in occasione della Giornata nazionale in memoria delle vittime dell'epidemia da Covid-19, alla presenza del sindaco Valeria Mancinelli.

In Calabria - Il presidente del Consiglio regionale della Calabria Filippo Mancuso ha disposto l'esposizione a mezz'asta a Palazzo Campanella, a Reggio Calabria, sede della massima assemblea elettiva calabrese, delle bandiere italiana ed europea. "E' importante - afferma Mancuso in una dichiarazione - una giornata nazionale al comune ricordo delle innumerevoli persone falciate dalla tragedia pandemica, sapendo però che, assieme al dovere civico della memoria, abbiamo tutti anche la responsabilità di non abbassare la guardia, perché contro il virus si continua a combattere". 

A Siracusa - La Consulta comunale giovanile di Siracusa ha donato una statua commemorativa realizzata dagli alunni della classe quarta sezione Beni Culturali dell'Istituto Gagini, guidati dal professore Giacomo Lo Verso, al reparto Covid dell'ospedale Umberto I per celebrare l'impegno, ancora attivo, di tutti gli operatori sanitari che si battono in prima linea, in occasione della Giornata nazionale in memoria delle vittime dell'epidemia da coronavirus. La consegna alla presenza del direttore generale dell'Asp di Siracusa Salvatore Lucio Ficarra, del presidente della Consulta Nicolò Saetta, di una delegazione di studenti e insegnanti e di una rappresentanza della sezione di Siracusa dell'Associazione Mogli Medici Italiani che ha collaborato all'iniziativa.

Daniela Minerva per “la Repubblica - Salute” l'1 marzo 2022.

«Certo, ‘sti cinesi... Figurati se da noi si può mettere in lockdown un’intera città di milioni di abitanti!». Questo dicevamo il 23 gennaio del 2020 seguendo le notizie in arrivo da Wuhan. Tempo un mese o poco più, e tutta l’Italia finiva in lockdown (il 9 marzo del 2020): strade deserte, tutti in casa a inventarsi una nuova vita reclusa, polizia nelle strade a controllare se tu avessi davvero il diritto di fare quel tragitto casa- lavoro che facevi da anni senza pensarci.

Fosse stata l’unica delle previsioni sbagliate. Non possiamo fare finta di dimenticarci (certo chi scrive non può) la relativa tranquillità con la quale commentavamo l’epidemia nelle prime settimane. Era, ci sembrava, una storia cinese, come lo era stata la Sars anni prima. Ne avremmo sentito solo l’eco. Garrulo ottimismo? Fino a un certo punto. Piuttosto, ingenua fiducia nell’Oms che minimizzava, tranquillizzava. E sbagliava più o meno tutto.

Non e un tentativo di addossare all’Oms un errore di valutazione, abbiamo sbagliato. Ma in quei giorni di caos totale non siamo stati gli unici. Dalla chiusura dei voli da e per la Cina, mentre frotte di cinesi arrivavano via Francoforte, Zurigo o Londra, alla zona rossa lombarda ritardata chissà perchè, agli anziani stivati nelle Rsa senza cautele, sono stati mesi di caos ed errori. Si sarebbe potuto fare diversamente? Chissà.

Certo, nessuno si aspettava quel che e accaduto. Poi abbiamo scoperto che un piano pandemico c’era pure, in qualche cassetto, buttato li e mai implementato. Abbiamo ritrovato valanghe di dichiarazioni di professori preoccupati che da anni spiegavano che “la grande influenza” sarebbe tornata e che sarebbero stati guai, guardati dalla politica come Cassandre, inopinatamente intente a paragonare il nostro mondo, cosi avanzato, ben nutrito e medicalizzato, con l’Europa del primo dopoguerra.

No, il nostro modo di vivere non si sarebbe fatto vin- cere da un virus: era l'illusione collettiva prima della grande paura, alimentata dai morti e dal brancolare nel buio della comunità medica che non aveva, per forza di cose, una risposta a quella malattia sconosciuta. Come poi e andata a finire lo stiamo vedendo tutti. E adesso, a due anni da quei giorni spaventosi, dobbiamo chiederci perchè. 

Sapendo che i perchè sono migliaia, che non li esauriremo certo in poche pagine. E allora, permetteteci di proporvi qualche idea di perchè, quelli sui quali abbiamo pochi dubbi. Convinti come siamo che molti altri ce ne sono, e se ne aggiungeranno, per spiegare un cataclisma di questa portata, la vittoria di un virus che ha scompaginato tutte le nostre vite, che lascerà segni indelebili sulla società, sulle relazioni e sulle persone. Siamo oggi qui tutti a sperare che diventi endemico, che non vuol dire innocuo vista la malaria in Africa. 

Ma: poteva essere fermato? Forse no. Anche se l’Oms avesse dato l’allarme prima, anche se i negazionisti di tutto il mondo si fossero ravveduti, anche se il Ssn fosse stato perfetto... Covid-19 forse era il nostro destino. 

E ora non possiamo che sperare di riuscire a governare meglio, di avere imparato a rispettare la natura, ad apprezzare la nostra caducità e la nostra intrinseca debolezza. Il battito d’ali d’una farfalla dall’altra parte del mondo ci può soffocare. Guardiamo ai nostri limiti con maggiore benevolenza e mandiamo in soffitta la pretesa incongrua di una umanità sbruffona che va baldanzosa alla ricerca dell’immortalità. Cosi, almeno, questa tragedia sarà servita a rimetterci in carreggiata. 

Ma, torniamo alle colpe. Ha detto, in un’intervista al nostro giornale, il grande storico Adriano Prosperi che «le epidemie, come la guerra, cancellano la verità». Eppure, 60 milioni di italiani oggi cercano la verità: chi ha ucciso i loro cari morti col Covid? Chi ha rubato due anni della nostra vita? Chi ha impoverito milioni di famiglie? Cosa e realmente successo?

Perche? E ancora: si sarebbe potuto evitare? Ma una verità semplice e chiara non c’è. Ce ne sono pero tante che sono nascoste e “uccise” dal rumore di fondo delle opposte fazioni, ma anche dal loro stesso intrecciarsi e nascondersi a vicenda. I fatti, oggi, sono sopraffatti dalle opinioni, dalle narrazioni, dai punti di vista. E allora, a noi che siamo cronisti, non resta che metterli in fila affinchè ciascuno si formi la sua verità. 

Vogliamo dare la colpa a un virus maledetto, anzi un coronavirus, scappato dal cuore di tenebra dell’evoluzione del vivente? No. La natura fa il suo corso, e noi umani ci siamo presi la briga di contrastarlo cos’altro e la medicina? Ma contrastare il nostro caduco destino non significa diventare immortali.

Significa, per esempio, mettere a punto vaccini e farmaci che alimentano la resistenza al maledetto microrganismo, che salvano milioni di vite. E questo, di certo, e stato fatto. Chi di noi apprezza, ora, che solo un anno fa nessun adulto sano e di certo nessun adolescente era ancora vaccinato? Un anno per trovare un vaccino, un anno per vaccinare la stragrande maggioranza degli italiani: chiamatelo miracolo se volete, noi lo chiamiamo scienza. Ma vincere le malattie, e le infezioni che ne sono il tramite, beh quello e un altro paio di maniche.

Allora dobbiamo dare la colpa all’Oms che – che Dio ci perdoni se sembra che la pensiamo come Donald Trump (e lo abbiamo scritto già mesi fa sul nostro sito) – brucia miliardi e dimostra ogni pie sospinto la sua incapacità di difenderci. La stessa Oms, pero, nel suo elenco dei pericoli per l’umanità nel terzo millennio aveva già, in tempi non sospetti, messo al primo posto “una pandemia”. 

Poi, e vero: ha promesso piani per contrastarla e non li ha fatti; ha minimizzato per mesi confondendo tutti.

Andate a riguardare la timeline, che l’Oms stessa pubblica sul suo sito. Vista oggi e agghiacciante: un balletto di salamelecchi e tweet inconcludenti che sembrano avere la sola missione di compiacere i cinesi e ignorare le loro bugie. E andate a rileggervi la determina con cui, il 29 gennaio 2020, avvisa che i non sintomatici non devono indossare le mascherine. Per molto meno una dirigenza si dovrebbe dimettere. Per molte migliaia di morti in meno un funzionario della pubblica sanita dovrebbe cambiare mestiere.

E il 7 gennaio quando arriva la notizia che a Wuhan c’è una polmonite sconosciuta causata da un virus Sars. Tra tweet e commissioni, e il 22 gennaio quando i funzionari Oms vanno a Wuhan, ma affermano che non ne sanno abbastanza per dire la loro sulla epidemia, mentre i cinesi stessi contano ufficialmente già 78.824 casi. E bisogna aspettare il 30 gennaio prima che l’Oms dica: e emergenza. Poi ancora dichiarazioni, commissioni. E, forse, omertà: in Cina e un’ecatombe, ma Ginevra minimizza. Cosi The Donald dice: l’Oms e al servizio dei cinesi. Brutale, come sempre. Piu elegantemente 116 paesi a metà maggio chiedono di capire cosa diavolo sia successo. E Francia e Germania annunciano un progetto di riforma, spazzato via proprio dal flagello che l’Oms non ha neanche provato a fermare. Forse e ora di riprenderlo in mano. E in fretta. Perchè oggi l’Oms che fa? Niente, sempre.

Mentre arrivano varianti dai paesi poveri non vaccinati, e speriamo che non ne arrivino altre, dobbiamo constatare il flop di Covax, voluta dall’Onu nell’aprile del 2020, sotto il controllo dell’Oms e della Coalizione Gavi, per fare in modo che tutti i paesi del mondo avessero un accesso equo ai vacci- ni, e i poveri li ricevessero gratis.

A squadernare la verità sull’ennesima debolezza delle Nazioni Unite e stata mesi fa un’inchiesta del Bureau of Investigative Journalism (di cui abbiamo dato notizia già sul nostro sito) rilanciata da Nature, in cui si leggeva: «I primi 18 mesi non sono andati come si sperava. Mentre i paesi ricchi partono con la terza dose, il 98% pelle persone che vivono nei paesi a basso reddito non sono state vaccinate. Covax, che un esperto ha definito come “ingenuamente ambiziosa”, ha con- tribuito solo al 5% di tutti i vaccini somministrati globalmente». Coi ricchi che andavano per i fatti loro in ordine sparso accaparrando dosi, mentre l’apparato burocratico di Covax manca di relazionarsi coi paesi... E, nel complesso, ancora tutti quei pasticci che da decenni rendono l’Oms inefficace.

Ma già prima delle varianti, comunque, Sars-CoV 2 colpiva duro. Spettava ai servizi sanitari regionali difenderci. Alcuni lo hanno fatto meglio, altri han- no fallito crudelmente. E, certo, per la gravita de- gli eventi in Lombardia (con le ovvie ripercussioni nel paese) molte colpe ha il Ssr lombardo, chi lo ha disegnato (la giunta Formigoni), chi lo ha riformato, e per quanto possa sembrare impossibile, peggiorato (la giunta Maroni) e chi l’ha gestito per mesi e mesi (la ineffabile coppia Gallera-Fontana).

La rabbia montava giorno dopo giorno nel vedere cosa accadeva nella ricca Lombardia dei “centri di eccellenza”. Ma in tutto il paese il virus ha mietuto vittime: perche? Anche in questo caso i perche sono tanti. Ma la ragione principe sta nel fatto che per anni si sono tagliate risorse al Ssn, e che per anni si e detto che gli ospedali non potevano piu essere il cuore di un sistema sanitario di un paese che invecchia. Arrivato Covid, mentre gli ospedali soffocavano, sul territorio, accanto ai malati, era il nulla. 

E questo ha ucciso tanto quanto il virus: colpa di chi ha chiacchierato per vent’anni di “case della salute” e “medicina del territorio”, tagliando pero risorse al servizio e favorendone la privatizzazione. Tutta colpa dei Ssr? No, perchè il governo centra- le (in conformità con la Costituzione riformata) si e preso grandi responsabilità: ha sbagliato? Franca- mente, visto oggi, e quello che ha sbagliato meno, ma ha la responsabilità politica di aver tentennato, di aver ascoltato (e forse ancora troppo ascoltare) industriali, commercianti, e tutti coloro che hanno in mente il sistema produttivo. Che va, certo, difeso, ma non a discapito di un’ecatombe come quella lombarda, dei troppi morti in tutto il paese. 

Col senno di poi, pensiamo che il ministro Roberto Speranza e la Cts abbiano fatto scelte oculate e giuste, che diversamente non avrebbero potuto fare. Ma anche che nel primo anno di pandemia avrebbero dovuto tenere le briglie a molti imprenditori, dagli industriali che hanno sempre tenuto aperte le fabbriche anche nei momenti più bui fino ai gestori delle discoteche: che senso ha avuto con la variante Delta scorrazzante per il Paese tenere aperte le discoteche l’estate scorsa? Lo abbiamo pagato con mesi e mesi di nuova emergenza.

Ma la vera colpa del governo e stata quella di non aver preso in mano la gestione della pandemia, come peraltro la Costituzione gli avrebbe permesso, nonostante le competenze delle regioni in materia di sanita. Mesi di ritardo sulla campagna vaccinale: ma ve li ricordate i centri a forma di fiore progettati dall’allora commissario Arcuri (ridicoli solo come i banchi a rotelle di cui vorremmo perdere memoria) mentre le regioni non riuscivano a partire con le vaccinazioni e le fiale arrivavano ovunque tranne che in Italia? Troppe esitazioni sull’obbligo vaccinale che doveva essere imposto. Un caos esagerato sulla scuola, con regole da settimana enigmistica a far impazzire le famiglie. Quanti italiani si sono esasperati al punto da mandare al diavolo ogni cautela?

Gli italiani. Mansueti e chiusi in casa per mesi, poi in fila a farsi vaccinare come soldatini. Bravissimi. Tutti, tranne qualche milione di sconsiderati. La piaga dei no-vax resta. A significare che nel paese cova una rabbia cieca contro la medicina e i farmaci, per quello che sono intrinsecamente, ma anche per quello che rappresentano come longa manus delle istituzioni. Un no al vaccino che nasconde un no a ogni autorità, e un vaffa alla scienza. Non va bene. E una faccenda che va sistemata, con l’educazione e l’informazione. Magari anche con meno gente che parla a vanvera in Tv.

Colpe, colpe, colpe. Verità parziali, fatti che si in- castrano gli uni negli altri. Le colpe di vent’anni di governi che hanno devastato il Ssn, tagliando fondi e togliendo medici e letti ai malati. Quelle di chi, alla vigilia del lockdown, ha preso di assalto i treni andando a seminare il virus nel Paese. E ancora al- tri. Cosa ha ucciso il nostro amato parente? Tutto questo.

E se uno solo di questi soggetti – dall’Oms a Speranza al no-vax, alla signora della porta accanto – avesse agito diversamente, papa (o mamma o la zia) sarebbero vivi? Sarebbe tutto finito da mesi? Potremmo riprenderci le nostre vite? Bah, chissà. Forse si. Ma anche forse no. Perchè se c’è una cosa che questi due anni disperati ci hanno insegnato e che la certezza in medicina, ma anche in sanita (che ne e la declinazione sociale) non esiste. Esiste pero la probabilità, che scrive le regole di quello che c’è da fare e di quello che si deve evitare. Da qui bisogna ripartire per ricominciare a vivere, e perchè tutto questo non accada mai più.

Vaccino, Giorgio Palù: "Le verità apodittiche dette per orientare la gente hanno fatto del male". Pietro Senaldi su Libero Quotidiano l'1 marzo 2022.

Che con la pandemia si esaurisca anche il tempo dei tanti esperti a uso mediatico, tutti neovirologi, non riconosciuti tali dalla comunità scientifica. È la previsione del numero uno dei virologi italiani, Giorgio Palù, uno dei davvero «doc» che si vedono in televisione, anche se lui centellina le apparizioni «perché più voci parlano, maggiore è il disorientamento della cittadinanza, che poi incolpa i medici da talk-show di creare confusione». Il cruccio del presidente dell'Agenzia Italiana del Farmaco (Aifa), già preside della Facoltà di Medicina e Chirurgia dell'Università di Padova, è che «una disciplina di così alto profilo scientifico, più di altre tributaria di premi Nobel, sia banalizzata e poco compresa per il suo alto impatto biomedico-sanitario. I virus sono i microbi più diffusi nella biosfera, ce ne sono a trilioni nel nostro intestino e in vari habitat del pianeta, anche tra i più remoti, ma di questi conosciamo ancora troppo poco».

Negli Stati Uniti parla solo Anthony Fauci, il consulente della Casa Bianca, in Germania Christian Drosten, il primo che isolò il virus della Sars in Europa, in Gran Bretagna il professor Patrick Wallace, portavoce del governo per l'epidemia, mentre da noi chiunque ha un camice ha la laurea ad honorem televisivo in virologia, che poi si estende ai più svariati campi della vita. Il «voglio spiegarvi il fascino della virologia» di Palù ha preso forma in due libri. Il primo, "Virosfera", scritto perla Nave di Teseo con il collega professore Massimo Clementi (altro virologo vero), è uscito l'anno scorso e si preoccupava di illustrare cosa fosse il mestiere. Il secondo, scritto come unico autore, uscirà il prossimo aprile e tratta prevalentemente dell'origine del virus, delle conquiste della virologia al tempo del Covid-19 e della lezione che l'epidemia ci ha consegnato per il futuro. Ed è una lettura fondamentale, non solo perché mette chiarezza nel mare delle imprecisioni e grossolanerie dette negli ultimi due anni, ma soprattutto in quanto, spiega Palù, «avremo altre pandemie, visto che stiamo alterando il pianeta e i suoi ecosistemi e violando nicchie ambientali dove gli animali selvatici vivevano in isolamento». Già, perché le epidemie ci arrivano dal mondo animale (zoonosi): l'Aids dallo scimpanzé, l'influenza suina del 2009 da anatre e maiali, Ebola, Hendra, Nipah, Sars, Mers e Covid-19 dal pipistrello. «Ci salva» spiega Palù «il fatto che il salto dall'animale all'uomo è rarissimo, ma capita...». 

Quali lezioni ci ha dato l'epidemia, professore?

«La prima per il nostro Paese è la necessità di investire in ricerca di base e in ricerca e sviluppo industriale per approntare nuovi farmaci e vaccini come stanno facendo i nostri partner Europei. La seconda è l'importanza di riorganizzare l'assistenza territoriale. Bisogna ricominciare a curare in casa, soprattutto patologie ad alta trasmissività. Il Covid è stata anche un'epidemia nosocomiale, con positivi ricoverati che infettavano altri ospedalizzati e personale sanitario, con un contagio che dall'ospedale si trasferiva alla comunità».

È stato puntato il dito sulla carenza di medici...

«Sicuramente questa carenza c'è in alcune specializzazioni (pediatria, anestesia e rianimazione, radiologia, chirurgie...), ma l'Italia, con i suoi 42mila medici generici, uno ogni 1.400 abitanti, ha un rapporto medico/assistito identico a quello della Germania e solo di poco inferiore a quello della Francia. Come previsto anche dal PNRR, è necessaria una riorganizzazione delle funzioni dei medici generici e delle strutture della medicina territoriale oltre a una digitalizzazione della medicina in genere: fascicolo sanitario, analisi di big data relativi a parametri clinici ed epidemiologi, indicatori di consumo...».

Cosa dovremmo fare?

«Per prevenire la prossima, inevitabile, pandemia, bisogna investire in virologia evoluzionistica, quella che analizza come i virus animali si interfacciano all'uomo e all'ambiente e indaga su quali hanno potenziale pre-pandemico, possono cioè fare il salto di specie e infettarci. È meno improbabile di quanto si pensi, se si considerano le 3500 specie murine e di chirotteri presenti sul pianeta (tutti mammiferi) che hanno un genoma alquanto simile al nostro e che albergano milioni di virus ancora sconosciuti».

I no vax sono figli della cattiva informazione sul Covid?

«Studiosi di scienze cognitive attribuiscono il rifiuto vaccinale a una dissonanza cognitiva, un'incapacità ancestrale di valutare dove, tra malattia e prevenzione della medesima, stia il vero rischio. Molte distorsioni della verità, causa di pregiudizi (pregiudizi di conferma, di omissione...) hanno origine da una cattiva informazione, oggi incontrollabile in quanto viaggia nell'etere, che ha conseguentemente dato dignità anche alle cosiddette fake news. Non hanno fatto bene le verità apodittiche dette solo per tranquillizzare o per orientare la popolazione. Se si fosse ben spiegato, specie sui vaccini, che la scienza mette sempre in discussione i propri risultati e non arriva mai a principi assoluti, la gente non si sarebbe messa a cercare risposte su internet. Una ulteriore lezione della pandemia è sicuramente quella di affidare la comunicazione a fonti istituzionali e a giornalisti realmente esperti di biomedicina e sanità pubblica, che possono anche educare a interpretare il significato dell'enorme quantità di dati immessi in rete, una vera infodemia».

Parliamo dell'oggi professore: riapriamo tutto o meglio aspettare?

«Il contagio è in discesa da quattro settimane in tutti i Paesi della Ue e l'indice di trasmissione è sceso a 0,75. Le prospettive a breve termine sono buone, anche perché si va verso la bella stagione, che è nemica del virus. Nel Nord Europa hanno già tolto tutte le restrizioni, per non parlare della Gran Bretagna...».

E noi perché non riapriamo?

«Le terapie intensive sono occupate all'8,4% e i reparti generici al 18,5: dal punto di vista medico siamo sotto la soglia di rischio. L'età media dei contagiati è di 37 anni, ma quella dei ricoverati per virus è di 74 - 71 per le terapie intensive-, mentre quella dei decessi è di 83: di fatto muoiono quasi solo i soggetti più gracili e con più patologie concomitanti, per lo più non vaccinati, visto che in terapia intensiva la metà dei pazienti non è immunizzata, su una copertura della popolazione dell'86%. Quindi dal punto di vista sanitario si potrebbe gradualmente riaprire, ma la decisione che spetta alla responsabilità della politica».

Decisione politica allora: la sinistra è cresciuta nei consensi grazie all'epidemia e più essa dura, più ci guadagna?

«Questo lo dice lei, io non mi occupo di politica. Certo nel nostro emisfero è possibile attendersi una regressione del virus fino a ottobre, perché la variante Omicron si è diffusa molto rapidamente e spesso in modo asintomatico, e questo, associato alla profilassi di massa e al fattore clima favorevole, ci proteggerà per un po', perché sommiamo immunità artificiale da vaccino a immunità naturale da malattia».

E a ottobre, come andrà?

«Non è serio fare previsioni. È probabile che l'emergenza pandemica si esaurisca, visto che tutte le pandemie storicamente hanno una durata limitata nel tempo, ma non si può escludere che si perpetui con l'emergere di nuovi mutanti virali. Quello che sembra lo scenario più verisimile è che la pandemia diventi un'infezione endemica, come un'influenza stagionale, pericolosa soprattutto per anziani e malati».

Ci toccherà la quarta dose?

«La terza dose è stata fondamentale, perché ha dato una protezione del 90% dalla malattia grave e del 40-60% dall'infezione. Però la quarta dose oggi, se concepita per la popolazione generale appare poco utile come dimostra la recente esperienza sul campo di Israele».

Eppure da domani inizieremo a somministrarla...

«Ma solamente agli immuno-depressi...».

Quindi per gli altri non ha senso?

«Dal punto di vista immunologico ha poco senso nella popolazione generale, perché la quarta dose aumenta solo di poco la risposta anticorpale: le dosi troppo ravvicinate, d'altro canto, non attivano la memoria cellulare che combatte il virus e possono creare tolleranza ed anergia. Per gli immuno-depressi il discorso è diverso perché questi soggetti sono incapaci di una forte immunoreattività e quindi la somministrazione ripetuta può aumentare la risposta effettrice in senso lato e garantire la protezione. Bisogna però precisare che immunizzarsi con un vaccino come l'attuale disegnato sull'antigene S (la proteina di superficie) del prototipo di Whuan, un virus che circolava due anni e mezzo fa ma non circola più ora, ha poco senso biologico. La quarta dose dovrebbe essere aggiornata alle varianti in circolazione e includere determinanti antigenici altamente conservati».

Niente quarta dose allora?

«Mi pare saggio attendere; si valuterà il prossimo autunno; la quarta dose di vaccino andrebbe comunque somministrata con una versione aggiornata sulle varianti in circolazione, multivalente, o con una formulazione disegnata contro le proteine interne del virus, per esempio la nucleoproteina N. Se la pandemia si esaurirà questo potrebbe essere un vaccino stagionale come quello anti-influenzale».

Due anni di Covid: chi ne ha colpa? Daniela Minerva su La Repubblica il 21 febbraio 2022.   

Gli errori dell'Oms. Quelli delle regioni e del governo. Ma anche le nostre. E i pasticci no-vax. Mettiamo in fila i fatti per capire cosa abbiamo sbagliato. 

Certo, ‘sti cinesi... Figurati se da noi si può mettere in lockdown un’intera città di milioni di abitanti!». Questo dicevamo il 23 gennaio del 2020 seguendo le notizie in arrivo da Wuhan. Tempo un mese o poco più, e tutta l’Italia finiva in lockdown (il 9 marzo del 2020): strade deserte, tutti in casa a inventarsi una nuova vita reclusa, polizia nelle strade a controllare se tu avessi davvero il diritto di fare quel tragitto casa-lavoro che facevi da anni senza pensarci.

Covid, gli errori che i due anni di pandemia ci hanno insegnato a non ripetere. ANDREA CASADIO su Il Domani il 22 febbraio 2022

Il 21 febbraio 2020 in Italia scoprivamo il primo malato di Covid-19: era l’inizio dell’incubo. In questi due anni abbiamo commesso molti errori, e sarebbe meglio non ripeterli mai più.

L’Italia è stato uno fra i paesi peggiori al mondo nell’affrontare la pandemia. Lo spiega bene la storia di Mattia Maestri, il primo positivo al coronavirus nel nostro paese. 

Quando si affronta una pandemia bisogna agire in anticipo e non in ritardo come abbiamo fatto all’inizio della pandemia. E bisogna fare maggiori investimenti nella sanità, nella tecnologia e nella ricerca. Altrimenti l’unica soluzione resta il lockdown. 

ANDREA CASADIO. È medico, giornalista e autore tv. Ex docente universitario ed ex ricercatore di neuroscienze alla Columbia University di New York, ha partecipato agli studi sulla memoria che hanno permesso a Eric Kandel, capo del laboratorio, di ottenere il premio Nobel per la Medicina nell'anno 2000. Ha collaborato come inviato e autore televisivo a varie trasmissioni (Turisti per caso, Sciuscià, Velisti per caso, Annozero, Servizio pubblico, Piazzapulita).

Il conto del Covid. Quanto ci sono costati due anni di pandemia. di Carlo Bonini (coordinamento editoriale) ,  Michele Bocci e Luca Pagni. Coordinamento multimediale di Laura Pertici. La Repubblica il 20 Febbraio 2022.  

Il Covid ci ha feriti nel profondo. Ha seminato lutti, ha scavato nelle emozioni, nelle abitudini, nei nostri equilibri personali e familiari. Ma il Covid ci ha anche piegati economicamente. Con la chiusura forzata delle attività nel periodo del lockdown, con l'inevitabile esplosione delle voci di spesa dei conti pubblici. Prima fra tutte, quella sanitaria. Tra vaccini, acquisti di materiali e servizi, assunzioni di personale da parte del commissario straordinario per l'emergenza e delle Regioni, si arriva a quasi 24 miliardi di euro.

Estratto dell'articolo di Massimo Ammaniti per “la Repubblica” il 19 febbraio 2022.

Nel terzo capitolo del libro Alice nel paese delle meraviglie compare un curioso uccellone, Dodo, che organizza una corsa elettorale a cui partecipano vari personaggi della favola che devono correre lungo un percorso, partendo ognuno da punti diversi e in momenti diversi. 

Alla fine della corsa Dodo emette il suo verdetto: "Tutti hanno vinto e meritano un premio". Durante la pandemia si è verificato un analogo verdetto, speculare ed opposto a quello di Dodo: tutti indipendentemente dall'età e dall'identità di genere sono risultati perdenti in questi due anni di pandemia, nei quali la vita di ogni persona si è fortemente impoverita.

Un amico ottantenne mi ha posto recentemente una domanda che mi ha fatto pensare: durante la pandemia hanno perso di più i vecchi oppure i giovani. 

È difficile fare un bilancio di questo genere, anche perché ogni persona vive le perdite secondo il proprio carattere, la propria sensibilità e le proprie risorse personali. E poi l'età gioca sicuramente un'influenza importante, ad esempio quando si è vecchi e non si hanno molti anni davanti oppure quando si è adolescenti con tutta la vita ancora da percorrere.

Chi è più avanti negli anni, come mi anche ha detto il mio amico, è stato costretto a rinunciare a due anni della sua vita, nei quali come avveniva in passato avrebbe potuto incontrare gli amici, andare a cena fuori, al cinema o al teatro, viaggiare facendo nuove esperienze scoprendo nuovi Paesi e città. 

Per i vecchi la clausura è stata ed è particolarmente pesante perché sono costretti a proteggersi dal momento che corrono rischi maggiori se si contagiano, come hanno confermato i dati dell'Istituto Superiore di Sanità.

Non solo tanti contagi, anche ricoveri con esiti spesso drammatici che hanno suscitato in loro paura ed un senso di vulnerabilità. I bollettini quotidiani così drammatici come anche le immagini televisive hanno rinfocolato questo senso di precarietà, anche perché il contagio è venuto spesso a lambire i confini personali e familiari.

E poi il venire meno di molte abitudini stimolanti e di occasioni di vita interessanti ha favorito un ripiegamento su di sé ed una passività, certamente negativa dal momento che i vecchi hanno bisogno di vivere in modo attivo. 

Si devono muovere, camminare per mantenere un corpo ancora funzionante e devono anche continuare ad interessarsi a quello che succede intorno a loro nel mondo, leggendo, ascoltando musica e guardando la televisione. 

Due anni di Covid: storia di un incubo tra numeri pazzi e decreti a pioggia. Andrea Cuomo il 20 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Il 20 febbraio 2020 a Codogno fu scoperto il "paziente uno" d'Italia (e d'Europa): lockdown, riaperture, mascherine, tamponi, colori, coprifuoco. E una vita mai più come prima. 

Era il 20 febbraio del 2020, il 20.02.2020. Due anni fa. Quella sera all'ospedale di Codogno, nel lodigiano, si scoprì grazie all'intuizione di un'anestesista che Mattia Maestri, aveva il Covid (ma allora si diceva il Coronavirus): il paziente uno non solo in Italia, ma in Europa. L'inizio di un incubo inizialmente solo italiano, poi globale. Riviviamo questi due anni lasciandoci guidare dai numeri.

Il primo bollettino, datato 24 febbraio 2020, un lunedì, reca i seguenti dati: 221 positivi, 26 in terapia intensiva, 7 morti. Il primo dpcm del governo Conte, datato 23 febbraio, istituisce le «zone rosse» in dieci comuni del lodigiano e a Vo' Euganeo (Padova). Ma i numeri crescono rapidamente: il 1° marzo Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto e le province di Pesaro-Urbino e di Savona diventano zone rosse. Pochi giorni dopo, il 4 marzo, chiudono le scuole in tutta Italia. Nella notte tra sabato 7 e domenica 8 marzo la situazione precipita: si sparge la voce che la Lombardia e 14 province del Centro-Nord stanno per chiudere, si verifica un cinematografica fuga di mezzanotte con l'assalto ai treni diretti a Sud. Il 9 marzo tutta l'Italia diventa zona rossa e l'11 gli italiani scoprono il significato della parola lockdown: quel giorno, un mercoledì, si contano 10.590 positivi, 1.028 in terapia intensiva e già 827 persone ci hanno lasciato le penne.

Il 18 marzo una colonna di mezzi militari carichi di bare improvvisa una lenta processione per le strade di Bergamo. Qualcuno li fotografa e quegli scatti fanno il giro del mondo. Quel giorno si contano 2.648 nuovi positivi, i contagiati sono 28.710, i ricoverati 14.363 e i morti quotidiani sono 475. I numeri continueranno a crescere fino al picco tra fine marzo e inizio aprile: il 21 marzo 6.557 nuovi positivi, il 3 aprile 4.068 persone in terapia intensiva, il 27 marzo 969 morti.

Poi la curva scende, l'incubo sembra finito, la liberazione avviene a tappe tra la fine di aprile e l'estate. Il 16 maggio riaprono i negozi e si può circolare senza autocertificazione: quel giorno 875 casi, 10.400 ricoveri, 153 morti. Arriva l'estate, c'è voglia di libertà, il Covid sembra un ricordo: tra il 13 maggio e il 21 agosto i casi sono sempre sotto quota mille, gli ospedali si svuotano (il 29 luglio appena in 38 in terapia intensiva), il 29 agosto un solo morto.

L'autunno 2020 i casi tornano a salire: 1.071 il 22 agosto, 1.907 il 18 settembre, 2.844 il 3 ottobre. Nella seconda decade di ottobre in dieci giorni i casi quadruplicano, altri dieci e raddoppiano, il 13 novembre si toccano i 40.902. Nel frattempo gli ospedali si sono riempiti di nuovo: il 23 novembre ci sono 34.697 pazienti Covid ricoverati e 3.810 in terapia intensiva. Muoiono centinaia di persone al giorno, il 3 dicembre sono 993. Richiudono molte attività, la mascherina diventa obbligatoria, gli italiani riscoprono il coprifuoco e tremano al pensiero che la loro regione cambi colore. La curva dei contagi flette ai primi di dicembre, ma la tregua dura poco: a febbraio 2021 i casi tornano a salire. Il picco sono i 26.824 casi del 12 marzo, negli ospedali ci sono quasi 30mila ricoverati, i morti sono centinaia al giorno. Ma nel frattempo è arrivato il vaccino, la Pasqua in zona rossa è l'ultimo grande sacrificio. I numeri scendono, normalità. È una primavera di ottimismo, l'8 maggio per l'ultima volta si superano i 10mila casi, il 19 giugno per l'ultima volta i mille. La quarta ondata è contrassegnata dalla variante Omicron: tanti casi (220.532 l'11 gennaio 2022), tantissimi tamponi (oltre un milione di tamponi al giorno) ma non si superano mai i 20.037 ricoveri in area non critica e 1.691 in di fine gennaio. Quindi tre settimane di calo continuo. I due anni di Covid scavallano con sollievo. Ma la guerra non è finita. Andrea Cuomo

Dalle bugie sul virus alle reticenze sul siero. Chi ha gestito (male) l'emergenza ora risponda. Redazione il 20 Febbraio 2022 su Il Giornale.

La Fondazione Hume inchioda politici e tecnici. Con 10 domande scomode.

La pandemia di Covid sta allentando la presa nel nostro Paese ma sono ancora molte le domande che non hanno trovato una risposta e che non possono essere lasciate in sospeso in modo che gli errori commessi non vengano ripetuti. Attraverso la Fondazione Hume è Luca Ricolfi a metterle sul tavolo del governo e di tutte le istituzioni, tecniche e politiche, che hanno gestito la crisi. I temi spaziano dal piano antipandemico alla sorveglianza nelle scuole, dalla sicurezza degli ambienti chiusi alla tempistica della terza dose. A due anni esatti dall'esplosione dell'epidemia (Codogno, 20 febbraio 2020), dopo oltre 150 mila morti, «è giunto il momento che chi ha gestito l'epidemia risponda alle tante domande che finora non hanno trovato una risposta», scrive Ricolfi, elencando i dieci quesiti ritenuti urgenti.

1. Perché, all'inizio della pandemia, è stato dichiarato che l'Italia era «prontissima» ad affrontare il virus, nonostante il piano antipandemico del 2006 non fosse stato attuato, e tanto meno aggiornato?

2. Perché, dopo aver preso in considerazione la chiusura immediata (primi giorni di marzo) della zona di Nembro e Alzano, si è rinunciato a metterla in atto?

3. Perché è stata completamente ignorata la lettera aperta degli scienziati italiani che, fin dal 29 marzo del 2020, avevano suggerito di sostituire ai lockdown prolungati il protocollo dei paesi orientali, basato su test di massa, tracciamento elettronico e quarantene vere (non in famiglia)?

4. Perché, almeno dopo il primo anno, non è stato creato un sistema di sorveglianza epidemiologica e allerta precoce nelle scuole?

5. Perché nel Comitato-tecnico-scientifico sono stati esclusi ingegneri e studiosi di qualità dell'aria?

6. Perché, nonostante le evidenze scientifiche disponibili fin dall'estate del 2020, è stata prima negata e poi trascurata la trasmissione aerea del virus?

7. Perché, anche dopo il riconoscimento della trasmissione aerea del virus da parte dell'Organizzazione Mondiale della Sanità (luglio 2020), il problema della messa in sicurezza degli ambienti chiusi non è mai stato affrontato in termini ingegneristici, ovvero garantendo, anche mediante la ventilazione meccanica controllata, la qualità dell'aria respirata?

8. Perché gli interventi di messa in sicurezza da agenti patogeni respiratori negli ambienti chiusi non sono rientrati nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza?

9. Perché fino all'ultima parte del 2021 è stata negata la trasmissione del virus da parte dei vaccinati, salvo poi erroneamente considerarla trascurabile rispetto a quella dei non vaccinati?

10. Perché la somministrazione della terza dose del vaccino è iniziata solo a ottobre 2021 quando almeno da giugno, sempre dell'anno scorso, grazie ai dati proveniente da Israele, si conosceva la ridotta protezione temporale dei vaccini rispetto al rischio di contagio?

Covid, i turisti cinesi di Wuhan: «Ora stiamo bene. Lo dobbiamo all’Italia e allo Spallanzani». Clarida Salvatori su Il Corriere della Sera il 29 Gennaio 2022.

Oggi, due anni fa, la scoperta della positività dei coniugi di Wuhan, Xianming Liu e Yamin Hu. Furono i primi casi a Roma, in Italia e in Europa. D’Amato: «Allora pensavamo che il problema fosse solo in Cina ma era già qui tra noi». 

«Oggi stiamo bene. E lo dobbiamo allo Spallanzani e all’Italia, a cui siamo profondamente grati». È questo il messaggio che Xianming Liu e Yamin Hu, i coniugi cinesi, primi due casi di Covid in Italia e in Europa, hanno affidato all’Istituto nazionale per le malattie infettive di Roma. Che oggi alle 12 ricorderà quei primi concitati momenti di fronte a un virus sconosciuto e farà il punto sull’attuale situazione, a distanza di due anni.

«Pochi ricordano che il mezzo di soccorso che giunse all’Hotel Palatino era in biocontenimento — ha detto l’assessore alla Sanità della Regione Lazio, Alessio D’Amato — e che dopo 48 ore il virus era già stato isolato. Allora pensavamo che il problema fosse solo in Cina ma era già qui tra noi». Quella dei turisti di Wuhan fu una degenza lunga, fino al 19 marzo, poi il trasferimento al San Filippo Neri per un altro mese di riabilitazione.

Intanto veniva realizzato il primo contact tracing della storia della pandemia. «Venne rintracciata la tutta la comitiva con cui viaggiavano — ancora D’Amato —: c’erano anche diversi bambini. A ripensarci oggi, una grande emozione». Che non possono dimenticare neanche all’Hotel Palatino di via Cavour a Roma, i primi a trovarsi di fronte all’emergenza quando la donna avvisò la reception che il marito stava male. «Fu un dipendente che scoprì che venivano proprio da Wuhan e diede l’allarme al 118, che infatti venne preparato con tutti i dispositivi di sicurezza — ripensa a quella notte in cui cambiò tutto, il direttore dell’hotel, Enzo Ciannelli —. Non abbiamo avuto tempo di aver paura tanto eravamo presi da questioni organizzative: sigillare la stanza, sanificare l’albergo, mettere in quarantena chi era stato a contatto con i due turisti. E riuscimmo a evitare che si formasse un cluster. Ora quella notte sembra così lontana, quasi cancellata dal lockdown e da due anni di nuove procedure». Da allora poca la clientela cinese. «Ma da parte loro c’è stata grande vicinanza — conclude Ciannelli —: prenotavano le stanze non per venire ma per solidarietà con noi».

“Il più crudele dei mesi”, romanzo corale di una comunità ferita. Wlodek Goldkorn su La Repubblica l'11 febbraio 2022.  

Il libro di Gigi Riva sulla catastrofe pandemica di Nembro tesse una trama che narra il mondo e parla di ognuno di noi. Senza perifrasi. “Il più crudele dei mesi. Storia di 188 vite”, è uno dei più bei libri italiani, pubblicati negli ultimi anni. La sua origine sono gli articoli che Gigi Riva scriveva nei primi mesi della pandemia su questo settimanale. Erano reportage da Nembro, cittadina della bergamasca, dove l’autore è nato, cresciuto e di cui non ha mai smesso di essere parte - sebbene abiti altrove – un po’ per fedeltà alle origini, un po’ per il legame con la famiglia (ci torneremo).

Ritorno a Nembro, dove due anni fa cominciò la pandemia.

Gigi Riva, le storie delle 188 vittime di Nembro: Delia e il plaid rosso della madre, il cortile stravolto di José. Maddalena Berbenni su Il Corriere della Sera il 17 febbraio 2022.

I volti, gli aneddoti, le fini tragiche ma anche la forza di rimettersi in piedi. L’inviato racconta il suo Comune nei periodi più bui, ma non solo: «Era come un pugile incassatore che avanzava a guardia bassa aspettando che finisse la gragnuola di colpi»

Il 23 giugno 2020:la cerimonia con 188 rintocchi per ricordare le vittime di Nembro

«Il Trovesi. Il Bergamelli. Ma anche il Cancelli, il don Matteo, il Salvatore, la José, la Lina, il Flavio, il Carlo, la Carla, la Marina, tanti altri. Nembro era come un pugile incassatore che avanzava a guardia bassa aspettando il momento che finisse la gragnuola di colpi, facendo affidamento sulla capacità di resistenza degli addominali, dei pettorali, della testa, soprattutto della testa. Un Mohammed Ali davanti a George Foreman, un Rocky Balboa che con gli occhi tumefatti, il sangue che corre sul viso, ripete all’avversario “Non mi hai messo giù, non mi hai buttato al tappeto”».

E così, ferita e barcollante, ma con testa e cuore rivolti al futuro, Nembro s’è trascinata al 24 marzo 2020, quando è apparsa «una fiammella», la curva aveva smesso di crescere. Il più crudele dei mesi, ormai due anni fa, è il titolo del libro di Gigi Riva, editorialista dell’Espresso e firma del Corriere Bergamo, che nel paese delle 188 vittime è cresciuto e ancora custodisce gli affetti familiari e le amicizie di quand’era ragazzo. Non è un dettaglio, perché solo dall’appartenenza a un luogo e dal legame con i suoi abitanti poteva uscire un racconto così, e solo un cronista poteva tesserlo in prima persona senza mettere se stesso al centro.

Sembra un romanzo, con personaggi come Delia Morotti e Laura Lazzaroni che accompagnano la storia dal principio alla fine. Ma non lo è, e Delia e Laura sono solo figlie e nipoti sbattute al centro della bufera, accanto ai loro cari nel reparto di Medicina il 23 febbraio, la domenica dei primi casi Covid certificati. Sono lì, ancora in piedi, con storie di una tragicità a cui forse allora, nel massacro quotidiano, ci si era persino abituati, mentre adesso, a distanza, appare sconfinata.

Delia Morotti assisteva i genitori. Il padre Giovanni, detto Angelì, è riuscito a vederlo un’ultima volta il 29 febbraio. Poi, lui l’ha chiamata per chiederle quando sarebbe tornata ma era impossibile. «Allora ti saluto, sto morendo, ti raccomando la mamma», e col telefono tra le mani se n’è andato. Ha perso anche la madre Rina il 16 marzo, con il dispiacere di averla fatta ricoverare contro la sua volontà, pensando di salvarla. «Passato invano il weekend a cercare altre informazioni, il lunedì mattina Delia tornò alla carica: “Mi dispiace, sua madre se n’è appena andata”. Indicò un punto vago in fondo a una stanza dove c’erano diversi corpi ammassati. “La cerco”, disse la dottoressa dell’Est. “Non la cerchi, è quella con la coperta rossa”. L’aveva riconosciuta da quel plaid che le aveva dato per coprirsi».

Sembra una scena alla Schindler’s list. E ce ne sono tante altre, ma per quanto la tragedia appaia nelle sue reali dimensioni, da lontano, è come addolcita dal lavoro biografico che, di pagina in pagina, Riva fa su ogni persona del paese, con dati, ma anche colori, ricordi. Laura Lazzaroni quel delirante 23 febbraio s’è vista consegnare le chiavi della camera mortuaria dell’ospedale, perché se la sbrigasse da sola con lo zio appena deceduto. Ha poi perso il papà e una zia, i tre fratelli Lazzaroni.

La mamma di Rudi Rizzi non l’hanno intubata: «Era anziana e malata, mi hanno detto deve morire». «Se c’era una figura che incuteva timore, in noi ragazzini spericolati sui motorini malcerti spinti oltre il limite, era quella del vigile urbano. (…) Francesco Giovanelli era un cristo di uomo possente, massiccio, un “omasal”. (…) Quando il 13 marzo, alla soglia dei novant’anni, lo avevano trovato lungo disteso in bagno, non riuscii a coniugare la scena con la persona che avevo conosciuto». Il figlio Fabrizio, il 10, aveva rinunciato a vedere insieme Atalanta-Valencia. L’aveva soccorso lui: «Stava ancora ultimando il rapporto con i carabinieri quando in un batter d’occhio i volontari della Croce Rossa chiusero ermeticamente il cadavere in un sacco: “Mi sono adirato, lo volevo almeno salutare».

Ci sono i sogni del figlio dell’ostetrica Ivana Valoti, l’ultimo giorno in Comune dell’impiegata modello Cristina Marcassoli, la filosofia lasciata da chi è ricordato come l’anima della biblioteca, quel Tullio Carrara che al massimo imprecava con un «perdinci»: «I soldi servono a vivere dignitosamente, il resto, al vansa tot». Il Sandro Barcella, il Giulio Bonomi, l’Elio Beretta, il Marino Signori, il «Roccia» Antonio Ardenghi. Le storie di chi se ne è andato corrono parallele alla Storia.

Riva racconta del panino trangugiato dal direttore medico di Alzano Giuseppe Marzulli prima di ordinare la chiusura del Pronto soccorso, della zona rossa mai decisa, del mea culpa di Giorgio Gori per quel post che esortava a non fermarsi, della riunione al Centro congressi con i 243 sindaci e il solo Silvano Donadoni di Ambivere, medico, con la mascherina indossata. La forza d’animo di Claudio Cancelli. Le storie di chi se ne è andato corrono parallele anche a chi ha resistito.

Appunto, il Trovesi, il Bergamelli, la Marina, la José, e qui s’intreccia la parte più personale dell’autore. Marina, ricercatrice al Mario Negri, è amica di lunga data di Riva con il marito Daniele Filisetti, ex terzino atalantino dei tempi di Maradona e Platini, scampato anche lui alla polmonite. José, l’anziana madre scomparsa di recente, era stata costretta a tre mesi di «domiciliari», sola, con il virus che stravolgeva il suo cortile. Quando il vicino Fabrizio Persico è stato dimesso, per una volta, è stata lei a telefonare a Gigi: «Gua-ri-to».

Merito anche della giovane dottoressa Clara Bettini, al suo primo incarico per sostituire uno dei medici titolari, contagiato. «Circola qualcosa che non mi piace», confidava ai suoi assistiti Massimo Pandini già a Santa Lucia, e lo paragonava a Olanda-Uruguay dei Mondiali del 1974: «I sudamericani si vedevano sbucare dappertutto giocatori in divisa arancione, così i polmoni sembrano invasi». Ma no, non è stata una guerra.

Gigi Riva, che ha raccontato l’assedio di Sarajevo, ne è convinto. A Nembro, dopo il più crudele dei mesi, ci è tornato a maggio. Il libro si chiude con il suo pellegrinaggio tra casa, biblioteca, municipio, teatro. E con la grandinata del giugno successivo: «I volontari della pandemia si trasformarono nei volontari del maltempo. Si armarono di picconi e pale, ci vollero le escavatrici. Si accesero i fari per completare l’opera di sgombero durante la notte. A lavoro finito, spuntò l’alba».

Il 23 febbraio, i primi due pazienti. Poi il flagello: il Covid-19 fa più vittime dell’ultima guerra. 188 vite perdute raccontate nel libro di un grande cronista tornato nel suo paese​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​. Gigi Riva su La Repubblica l'11 febbraio 2022.

Dopo, quando il flagello è passato, restano appesi alla memoria dettagli insignificanti rispetto all’enormità dell’evento. Per me sono due fotografie che mi mandò su WhatsApp mio cognato Flavio. Nella prima, scattata alle ore 17.17 di domenica 23 febbraio 2020, era raffigurata una folla straripante all’Esselunga di Nembro. Nella seconda, scattata nello stesso luogo l’indomani alle 9.03, c’era il solo pacco da mezzo chilo di rigatoni Barilla rimasto.

Il virologo Clementi: «I troppi morti? Sbagliamo a contarli». Vito Salinaro su Avvenire.it il 5 febbraio 2022.  

«Tra tutti i parametri rilevati quello dei decessi sarà l’ultimo a scendere. Ciononostante i morti per Covid in Italia mi sembrano troppi. Li stiamo calcolando male. Non di rado una persona che entra in un ospedale per un problema ortopedico e che poi perde la vita a causa di complicazioni, viene inserita nell’elenco dei decessi per Covid semplicemente perché, all’ingresso, era risultata positiva al tampone. Francamente questo non ha senso». Massimo Clementi, direttore dei laboratori di Microbiologia e virologia dell’Ospedale San Raffaele di Milano e titolare della cattedra delle stesse discipline all’Università Vita-Salute San Raffaele (ateneo di cui è prorettore), concorda «pienamente» con alcuni suoi colleghi, l’ultimo dei quali è stato il direttore sanitario dell’Ospedale Spallanzani di Roma, Francesco Vaia, sulla necessità di «analizzare meglio» le cause dei decessi per Covid (solo ieri altri 433). «Dovremmo approfondire. Non può essere la positività al tampone a determinare la causa di decesso di un paziente trattato per altre patologie».

Professore, a che punto è la notte?

È già spuntata l’alba. Da un po’ avevamo il sentore che la Delta stesse perdendo colpi perché “tramortita” dalla terza dose dei vaccini, che offrono un’immunità molto solida. Poi ecco questa novità, Omicron, venuta fuori da Botswana e Sudafrica, aree dove ci sono pochi vaccinati e tante persone con infezioni da Hiv e con tubercolosi.

Che cosa significa?

Che il virus muta per sopravvivere e non sempre per arrecare danni gravi.

Mi scusi, e cosa c’entra l’Hiv con i vaccini anti-Covid?

C’è un parallelismo scientifico straordinario. Quando arrivarono farmaci efficaci contro l’Aids, il virus che lo provoca, cioè l’Hiv, poteva diventare in alcune condizioni resistente alle terapie. Ma in cambio della resistenza doveva rinunciare a qualcosa. Oggi accade la stessa cosa. Il Sars-CoV-2 è altamente diffusivo, resterà con noi, ma avverte la potente pressione dei vaccini. E allora, per sopravvivere, diciamo così, rinuncia a qualcosa.

A cosa?

Ha rinunciato alla capacità di infettare le basse vie aeree. Diciamo che se la prende con quelle alte ma non infetta bronchi, bronchioli e alveoli, dove cioè provocherebbe danni maggiori. Insomma, questo virus sta diventando quello che ci aspettavamo dovesse diventare, cioè un virus che, per banalizzare, patologicamente arreca un raffreddore o poco più.

E se arrivassero altre varianti più pericolose?

Non possiamo escluderlo. Questo andrà valutato nel tempo. Ma la direzione che l’evoluzione del virus ha preso è quella di un’attenuazione del potenziale patogeno. Rimarrà con noi, probabilmente sarà stagionale.

Saremo dunque chiamati a fare un richiamo vaccinale annuale?

Potrebbe non essere necessario se la patologia sarà quella appena descritta. Ritengo più probabile che si arriverà a fare un richiamo per le categorie più fragili della popolazione.

Insomma, i successori di Omicron non dovrebbero riservarci brutte sorprese…

È difficile che accada con questo tipo di virus. Perché ha già preso una traiettoria. Come le dicevo, è sempre possibile che possa presentarsi una variante pericolosa. Ma, anche se ciò accadesse, non è detto che la variante avrebbe vita lunga. Ha visto in quanto tempo Omicron ha soppiantato Delta? Abbiamo però il dovere di non starcene con le mani in mano. Dobbiamo sequenziare e tenere in allerta i laboratori. Quello che non possiamo escludere, invece, è che prendano a circolare altri virus, anche al di fuori della “famiglia” dei coronavirus.

Ci sta per dare qualche… cattiva notizia?

C’è un virus dell’influenza aviaria, chiamato H5, che sta preoccupando molto la comunità scientifica. Finora è solo zoonotico, cioè l’infezione si trasmette dall’animale all’uomo, quindi non tra esseri umani. Ma ha una buona capacità di permanere nel nostro organismo. Ecco la necessità di una rete di monitoraggio mondiale che garantisca una reazione rapida globale in caso di bisogno.

I farmaci antivirali orali cambieranno la storia della pandemia?

Sì ma a due condizioni. Che non li si consideri né come un’alternativa ai vaccini né come delle compresse da assumere in autoprescrizione. Vanno assegnati sotto controllo medico.

Perché ci è sfuggita l’immunità di gregge pur avendo un numero così alto di vaccinati?

Perché la protezione dei vaccini è limitata, qui non siamo di fronte al morbillo. Parlerei più di una fase endemica. Se volessimo arrivare all’immunità dovremmo vaccinarci tutti gli inverni. Ma non so se servirà, come affermavo prima. Anche perché molti soggetti hanno raggiunto l’immunità con l’infezione, pur se lieve o asintomatica.

I guariti sono al sicuro quanto i vaccinati? O di più?

Guariti e vaccinati hanno un’immunità diversa. Mentre il vaccino ci protegge dalla proteina Spike, che il virus utilizza per entrare nelle cellule, l’infezione naturale espone alla nostra risposta immunitaria tutte le proteine del virus. Non solo. Nei guariti l’infezione ha indotto una particolare classe di anticorpi, le "IgA Secretorie", presenti nella mucosa, che rappresentano la prima barriera nei confronti del virus. Non a caso è in sviluppo un vaccino spray nasale per attivare questi anticorpi. Ma si lavora anche ad un immunizzante che protegga dalle principali infezioni respiratorie dell’uomo, dai virus influenzali e da diversi coronavirus. Le nuove piattaforme a Rna ci consentono di sviluppare queste nuove armi.

Stadi, concerti, cinema, teatri e discoteche. Si può rinunciare alle maggiori restrizioni?

Molti Stati europei, anche con una situazione epidemiologica pesante, come la Danimarca, hanno aperto tutto. Noi siamo sempre stati molto prudenti. Ma chi ha la tripla dose o è guarito oggi può tornare a frequentare serenamente questi posti, senza limitazioni.

Non ci sono mai stati tanti minori depressi o con danni psicologici come oggi. Abbiamo sottovalutato le conseguenze di chiusure e Dad per i più piccoli?

Mio padre era giovane quando scoppiò la Seconda guerra mondiale. Mi disse: “Mi mancano alcuni anni della giovinezza perché in quel periodo eravamo come sospesi”. Ora, noi non eravamo in guerra ma per bambini e ragazzi c’è stata una sospensione di tutte quelle attività sociali, anche le più frivole, per le quali un giovane vive. Sì, abbiamo sottovalutato il problema, e di molto.

La pandemia ci lascia anche conseguenze positive?

Dobbiamo evitare quanto già accaduto con le epidemie di Sars e Mers, quando, passato il pericolo, dimenticammo tutto. E così, nel 2019, eravamo disarmati. Al contrario, abbiamo il dovere di continuare a ricercare, a sviluppare farmaci e vaccini per essere pronti. E a studiare con attenzione l’interazione uomo-animale-ambiente. È lì che nascono le sorprese per noi. Quando arrivano le pandemie è già troppo tardi.

·        Protocolli sbagliati.

Antonio Giangrande: Coronavirus. Covid-19. SARS-CoV-2. Lo conosco. Li conosco. Testimonianza dall’inferno della malattia.

Intervista al dr Antonio Giangrande, sociologo storico, autore di “Coglionavirus”, libro in 10 parti che analizza gli aspetti clinici e sociologici del Virus; la reazione degli Stati e le conseguenze sulla popolazione.

Dr Antonio Giangrande, lei stesso è stato vittima del virus, essendo stato ricoverato in gravi condizioni in ospedale. Esprima, preliminarmente, la sua considerazione da vero esperto del virus.

«I nostri professoroni, dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, al Consiglio Superiore di Sanità, fino ai componenti dei vari comitati consultivi, saranno titolati, sì, ma sono assolutamente ignoranti sul tema, essendo il Covid-19 un virus assolutamente sconosciuto. A dimostrazione di ciò ci sono i pareri e le direttive espressi nel tempo, spesso in contraddizione tra loro. Si va da “non è epidemia” dell’Organizzazione Mondiale di Sanità, al “le mascherine non servono” del Consiglio Superiore di Sanità. Per non dire delle contrapposizioni tra gli scienziati. Nonostante ciò, i pseudo esperti hanno imposto regole che si sono dimostrati essere protocolli della morte.

Il Contagio avviene per aerosol con insinuazione in ogni orifizio. O si è tutti bardati o ristretti in casa, o si è tutti a rischio di infezione: altro che mascherina e distanziamento di un metro.

La gente non è morta, o ha sofferto per il Covid-19, ma per la malasanità e per i protocolli sbagliati.

I posti letto negli ospedali sono mancanti perchè il ricovero non è tempestivo e con ciò si allungano i tempi di degenza. E le degenze non sono ristrette, usufruendo della terapia domiciliare o dell'assistenza domiciliare Usca per i casi più gravi non ospedalizzabili.

I nostri governanti, poi, da incompetenti in materia, hanno delegato ai sanitari, spesso amici, per pararsi il culo, la gestione della pandemia. Dico amici che stranamente gli esperti non allarmisti, si trovano tutti dalla parte dell'opposizione politica. La Gestione maldestra della pandemia ha comportato gravi conseguenze economiche, sociali e psicologiche. Scrivere "Coglionavirus" ha comportato la mia rovina economica. Amazon, piattaforma internazionale su cui quel libro ed altri 200 testi tematici, erano distribuiti, stampati e venduti, ha cancellato il mio account e fatto cessare i miei proventi. Un giorno, forse, qualcuno dovrà rendere conto a Dio ed alla giustizia penale e civile per il male fatto alla popolazione».

Parli di come è stato infettato.

«Per il mio lavoro e per il mio carattere ho sempre fatto vita riservata, così come mia moglie. Le uniche uscite erano il fare sport da singolo ed isolato ed il fare la spesa, con rispetto delle regole imposte: mascherine e distanziamento e rapportarsi il meno possibile con i genitori anziani. Eppure, questo mio comportamento esemplare, in ossequio alle regole sbagliate, si è dimostrato letale.

L’8 novembre 2020 mio fratello fa visita ai genitori: il giorno dopo ha la febbre.

Il 9 novembre 2020 vado a far visita ai miei genitori ultraottantenni: mascherina e distanziamento. Presente un terzo fratello. Ho notato che avevano il riscaldamento alto.

Il 10 novembre 2020, cioè giorno dopo il malessere dei miei genitori si trasforma in febbre lieve. Per questo motivo tutti i figli, tre maschi ed una donna, con altri familiari ristretti, gli fanno visita con mascherina e distanziamento.

I miei due fratelli dopo pochi giorni hanno evidenziato i primi sintomi, mia sorella asintomatica. Immediatamente, si è coinvolto il medico curante che ha provveduto al tampone per tutti. Alla fine risultano tutti infettati, compresi le loro famiglie. 15 componenti di 4 nuclei familiari. Ai primi sintomi, correttamente, tutti abbiamo adottato il confinamento domiciliare e nessuno ha infettato alcuno. Fortunatamente i genitori anziani sono stati pauci sintomatici, così come gli altri componenti della famiglia. Un fratello ricoverato in modo lieve. Solo io ho subito le conseguenze gravissime, rasentando la morte.

Si è scoperto che mio padre è stato infettato frequentando, con mascherina e distanziamento, un luogo pubblico. Egli pensava che la lieve febbre fosse dovuta al vaccino antinfluenzale.

Questo sta ha dimostrare due cose:

1. Che la mascherina ed il distanziamento non bastano, ma bisogna essere bardati con occhiali e visiera per non essere infettati. Il virus si insinua in ogni orifizio. Il virus è 100 volte più piccolo del batterio e quindi galleggia nell’aria e con essa si muove. Posso prenderlo dopo molti metri e dopo molti minuti;

2. Che spesso sono gli anziani ad infettare i giovani e non viceversa. Perché sono quelli che spesso non rispettano le regole;

3. Molti sono infetti asintomatici e non lo sanno. Ed infettano in buona fede;

4. Molti sono infetti pauci sintomatici o conviventi asintomatici o pauci sintomatici di infetti conclamati. Sanno di essere infetti, ma continuano la loro vita e da criminali infettano gli altri.

5. Ma cosa più importante che ho potuto constatare in seguito, dopo il mio ricovero, è che ci si infetta principalmente in strutture protette. Il degente C.mo C.lò è stato infettato in una RSA, quella di Villa Argento di Manduria e poi trasferito al Giannuzzi di Manduria. Il Degente V.to T.liente di Martina Franca, ricoverato al Santissima Annunziata di Taranto per altre patologie, è stato refertato negativo all’arrivo nel nosocomio e poi infettato in quel reparto. Successivamente trasferito al Giannuzzi di Manduria».

Parli dell’evoluzione della malattia.

«Dal famoso 9 novembre 2020 ho avvertito subito sintomi di malessere e febbre, ma ho continuato a fare i miei 22 chilometri di corsa e bicicletta. Fino a che la febbre a 39 e mezzo, senza sintomi specifici, me lo ha impedito. Pensavo fosse un periodico raffreddore, dovuto alla sudorazione e le temperature anomale, curabile con la tachipirina e gli antibiotici.

Il 15 novembre 2020 chiamo il medico curante chiedendogli un antibiotico più potente, con l’ausilio della penicillina, il cortisone e la protezione. Mi prescrive tutto, meno la tachipirina che è a pagamento. Antibiotico Azitromicina da 500, cortisone Deltacortene da 25, Penicillina, protezione, Eparina e sciroppo per la tosse. Per il proseguo della malattia ha voluto essere informata ed ella stessa si informava. Ha prontamente contattato l’ASL.

Il 20 novembre 2020 il tampone effettuato risulta positivo.

Il 22 novembre 2020 alle 10.30 per il persistere della febbre e per i sintomi di asfissia chiamo il 118. Con l’ossigenazione del sangue a 82, si decide il ricovero immediato».

Parli del suo ricovero e dell’impatto con il sistema sanitario.

«Per questa malattia la tempestività è essenziale. Prima si interviene, prima si impedisce l’aggravamento, prima si guarisce e nessuno muore. Prima si interviene e meno giorni sono di degenza e più posti letto sono a disposizione. Così come più posti letto si ottengono con una degenza limitata sostenuta da assistenza domiciliare Usca. Invece il sistema sanitario, per non ingolfare gli ospedali impedisce il ricovero ai pazienti sintomatici fino a farli diventare critici ed a lunga degenza, o con conseguenze mortali.

Ergo: il protocollo sbagliato porta la morte dei pazienti e la paralisi delle strutture sanitarie.

La saturazione ottimale del sangue deve essere pari a 100 o quasi. Ogni alterazione comporta un intervento immediato. A mio fratello è stato impedito un primo ricovero, dal medico del 118, con la saturazione a 92, chiaro sintomo di sofferenza. Tanto che c’è stato l’inevitabile peggioramento ed il ricovero, con degenza di settimane.

Alle 12 del 22 novembre 2020 inizia la mia odissea.

Dante Inferno, Canto III

"...Dinanzi a me non fuor cose create

se non etterne, e io etterno duro.

Lasciate ogni speranza, voi ch'intrate"...

Ed ecco verso noi venir per nave

un vecchio, bianco per antico pelo,

gridando: "Guai a voi, anime prave! ..."

Così sen vanno su per l'onda bruna,

e avanti che sien di là discese,

anche di qua nuova schiera s'auna..."

11 ore in attesa di ricovero Covid: la precisazione del Marianna Giannuzzi. Non ha tardato ad arrivare la replica da parte della direzione medica del presidio ospedaliero “Marianna Giannuzzi” sul caso dell’uomo di Avetrana rimasto ad aspettare in ambulanza per circa 11 ore prima di essere ricoverato. Francesca Dinoi su La Voce di Manduria venerdì 27 novembre 2020. Non ha tardato ad arrivare la replica da parte della direzione medica del presidio ospedaliero “Marianna Giannuzzi” sul caso dell’uomo di Avetrana rimasto ad aspettare in ambulanza per circa 11 ore prima di essere ricoverato. A narrare l’esperienza, era stato il figlio del paziente, l’avvocato Mirko Giangrande in un’intervista rilasciata al Nuovo Quotidiano di Taranto, in cui lamentava, appunto, la lunga attesa a cui erano stati sottoposti a causa di un affollamento di ambulanze nel piazzale dell’ospedale. La direzione medica, in base alle notizie pervenute dal responsabile del Pronto Soccorso, racconta che all’arrivo del signor Giangrande in ospedale, l’assistito era stato visitato, eseguito il tampone naso-faringeo per verificare l’eventuale positività al Covid-19 e somministrata la terapia adeguata. In seguito, all’esito della positività del tampone, veniva fatto accomodare nell’area attrezzata all’osservazione breve fino a 48/72 ore e alle ore14:00 del giorno successivo, ricoverato nel reparto Medicina Covid, occupando il primo posto letto disponibile. «Al signor Giangrande non sono mai mancate le cure di cui ha avuto necessità in una giornata tuttavia congestionata per l’arrivo contestuale di numerose ambulanze del 118.», chiarisce la responsabile, riconoscendo l’imprevisto. Della stessa opinione anche la direzione Asl di Taranto che rivolge le proprie scuse al signor Giangrande ed al figlio, ribadendo che al paziente era sempre stata assicurata la massima sicurezza grazie all’esemplare competenza di tutti gli operatori sanitari presenti. Francesca Dinoi

Parla il figlio dell'uomo rimasto 11 ore in ambulanza prima del ricovero al Giannuzzi. L’avvocato Mirko Giangrande racconta in un’intervista al Nuovo Quotidiano di Taranto il calvario del padre ricoverato al Giannuzzi dopo un’attesa di 11 ore in ambulanza. La Redazione de La Voce di Manduria martedì 24 novembre 2020. Un calvario di 11 ore. Tanto è durata l’attesa in ambulanza di un uomo di Avetrana domenica scorsa. A raccontare l’incredibile vicenda al Nuovo Quotidiano di Taranto è il figlio del povero malcapitato, Mirko Giangrande. I particolari che l’avvocato riferisce hanno dell’incredibile. Il paziente, positivo già da diversi giorni, è stato prelevato dalla sua abitazione dopo aver effettuato una cura anti-Covid domiciliare. Giunto nel piazzale dell’ospedale Giannuzzi, dopo le prime ore, l’uomo - provato dall’attesa ed in evidente stato di agitazione - ha allertato il 112 ed il 113 addirittura dall’interno dell’ambulanza. Le comunicazioni con la famiglia avvenivano tramite whatsapp, visto l’affaticamento respiratorio e la difficoltà nell’effettuare chiamate vocali. Intorno alle 16.30, gli è stato effettuato un prelievo di sangue, ma il povero malcapitato – già da più di 4 ore all’interno dell’ambulanza – non dava segni di miglioramento e la febbre continuava ad aumentare. Il racconto del figlio del pover’uomo si fa sempre più inquietante: «Io vivo fuori, mi sono sentito impotente oltre che angosciato. In più – aggiunge l’avvocato – la cura intrapresa a casa si era interrotta durante le ore in ambulanza. Aveva solo l’ossigeno a sua disposizione e la febbre continuava a salire. Non sapevo cosa fare così, ormai stravolto, ho contattato il consigliere regionale Renato Perrini che si è adoperato a denunciare all’Asl di Taranto quanto stava accadendo» riferisce Giangrande. Stando a ciò che ha raccontato lo stesso avvocato durante l’intervista, sarebbero state ben cinque le ambulanze in coda per ore, così come riferitogli dal padre. L’avvocato non ci sta e promette di andare a fondo sulla vicenda: «Mi preme evidenziare che questo è accaduto ad un uomo di 57 anni in grado di comunicare con l’esterno e di mantenere lucidità. Ma se fosse capitato ad un uomo anziano? Non si può correre il rischio di morire in attesa di essere ricoverati. Questi inconvenienti potevano essere comprensibili a marzo, ma non a novembre perché, come cittadini, ci saremmo aspettati una maggiore organizzazione» aggiunge Giangrande, che poi conclude: «Tenere bloccate le ambulanze per così tante ore è inconcepibile. E se dovessero servire per un’emergenza? Non ho parole».

Verso mezzanotte, dopo la previsione di spostarmi all’Ospedale di Castellaneta, a 100 km di distanza, e la mia forte opposizione (ho preso la valigetta e stavo per scendere dall’ambulanza per recarmi al pronto soccorso), mi introducono in Pronto Soccorso. Qui mi rifanno il tampone e la radiografia. Fino alle 4 nel corridoio, poi in una stanzetta. Il ricovero effettivo in reparto avviene il giorno, 23 novembre 2020, dopo alle 14.00».

Parli della sua degenza in ospedale.

«Traumatica e psicologicamente devastante. Dante Inferno, Canto III

"...Dinanzi a me non fuor cose create

se non etterne, e io etterno duro.

Lasciate ogni speranza, voi ch'intrate"...

Ed ecco verso noi venir per nave

un vecchio, bianco per antico pelo,

gridando: "Guai a voi, anime prave! ..."

Così sen vanno su per l'onda bruna,

e avanti che sien di là discese,

anche di qua nuova schiera s'auna..."

Il Reparto. I Reparti Covid si suddividono in: reparto ordinario Covid; reparto Medicina Covid (reparto semi intensivo con gestione diversa del paziente); reparto di terapia intensiva (Rianimazione con assistenza più pregnante per i casi più gravi), reparti post Covid per la rieducazione polmonare. Sono stato ricoverato al Reparto Ortopedia Covid dell’ospedale Giannuzzi di Manduria. Quindi curato anche da ortopedici. Mi portano in una stanza a tre letti. C’è uno di Avetrana che non vuole esser nominato ed il mio amico Damiano Messina, noto per la sua ditta di trasporti, che mi ha autorizzato a citarlo. E’ critico e con criticità, cioè grave e con comorbidità o comorbilità, ossia patologie pregresse. In precedenza i suoi polmoni erano stati colpiti da una malattia simile al Covid 19 dovuta ad un virus trasmesso dai pipistrelli e debitamente curata. Era proveniente dal Moscati di Taranto, di cui racconta tutto il male possibile. E’ stato tra i primi degenti del reparto Ortopedia Covid di Manduria, con altri provenienti dal Moscati di Taranto. Arrivato sabato 14 novembre sera, ha trovato il solito balletto dell’inaugurazione. Però non c’era ancora acqua per lavarsi, né per bere. Così come mancava l’elemento essenziale: l’ossigeno. Elemento essenziale e continuativo. Poi sono sempre state insufficienti le bombolette dell’ossigeno per i degenti sufficienti che dovevano andare al bagno non accompagnati. Avevo il letto numero 2. In quella stanza c’era il letto n. 3. Postazione speciale con ossigenazione fino a 20 litri. Adeguata per necessità dopo un caso di emergenza proveniente dalle altre stanze. Alla dimissione dei miei amici mi hanno spostato nella stanza assieme a mio fratello, ricoverato al pronto soccorso il giorno prima di me, ma saliti simultaneamente in reparto. Poi sono stato spostato in un’altra stanza. Avevo il letto n. 7. Entrambe le stanze avevano un comune denominatore. Le emergenze delle seconda andavano a finire nella prima. E guarda caso solo la stanza numero 2 ha avuto emergenze, risultate, poi, mortali. La stanza è una prigione. Rispetto a noi i reclusi ostativi o del 41 bis del carcere sono in vacanza. Quando non sei costretto a letto, sei comunque costretto a letto. Non puoi aprire le finestre, né aprire la porta di entrata/uscita. Così per settimane. La stanza aveva due telecamere, affinchè i medici avessero la situazione sempre sotto controllo. In questo modo loro sanno tutto quanto succede nelle camere, anche delle emergenze. Non puoi ricevere i parenti, ne la biancheria di ricambio, quindi stesse mutande, stessa maglietta, stesso pigiama per settimane. Se non hai rasoi o strumenti della manicure diventi un licantropo.

La pulizia delle stanze. La pulizia era buona e per due volte al dì.

Il Vitto. Il vitto era decente, ma spesso freddo. Le buste ermeticamente chiuse con l’elenco del contenuto, come previsto dal capitolato d’appalto, erano sempre aperte a rischio di contaminazione e con l’acqua mancante. L’acqua era riservata al buon cuore dei sanitari, su richiesta. La distribuzione del vitto avviene:

Ore 8.00 colazione. Latte macchiato o te, quasi sempre freddo. Biscotti o fette biscottate con marmellata.

Ore 12. Pranzo. Primo, secondo, pane e frutta. Posate. Acqua mancante.

Ore 15.30. Cena. Idem come pranzo.

I pazienti. Paziente inteso come sostantivo si intende una persona affetta da malattia affidata ad un medico. Paziente inteso come aggettivo si intende una persona disposta alla moderazione, alla tolleranza ed alla rassegnata sopportazione. In questo caso verso il Covid e nei confronti dei sanitari.

Per i sanitari la morte di un paziente è sempre certificata come conseguenza di patologie pregresse: falso!

Nel reparto normale ortopedia Covid di Manduria venivano ricoverati pazienti critici, ma anche critici e con criticità, cioè gravi e con comorbidità o comorbilità, ossia patologie pregresse, che sicuramente avevano bisogno di altro reparto:

con assistenza specialistica semi intensiva ed intensiva, con interventi invasivi e non invasivi, che un normale reparto non garantisce;

strumenti specifici come per esempio il casco respiratorio per ventilazione polmonare o l’intubazione e non la semplice mascherina polmonare, o l’occhialino polmonare di un normale reparto.

La ossigenoterapia può essere sostenuta da 0 a oltre venti litri di ossigeno. Dipende dagli strumenti di erogazione. E in quel reparto non c’erano. Come non c’erano medici specialistici per ogni patologia riscontrata. Differenze di interventi che possono causare la morte.

Il mio amico Damiano Messina mi parla della sua esperienza traumatica. Ha assistito alla morte di P.tro D.ghia di Monteiasi, 64 anni. Damiano è stato ricoverato sabato 14 novembre, P.tro è portato nella sua stanza 2-3 giorni dopo. Il degente critico e con criticità non è stato ricoverato in un reparto adeguato alle sue patologie: ne prima né dopo l’emergenza. Il pomeriggio del 16 o 17 novembre è stato spostato di urgenza dal posto n. 9 della stanza di ricovero e posto al n. 3 della stanza di Damiano. Il posto è stato adeguato successivamente come postazione speciale. Tutto il pomeriggio P.tro ha sofferto agonizzante con sintomi di asfissia. Sostenuto con il solo ausilio del casco respiratorio con ossigenazione a 20. Spesso i compagni di stanza chiamavano con il pulsante di emergenza, perché il paziente lasciato solo per molto tempo si spostava e si toglieva il casco, perchè non dava il ristoro richiesto. L’intervento dei sanitari non era immediato. L’agonia si è protratta, senza soluzione di continuità, senza che vi sia stato alcun cambio di intervento terapeutico, fino al primo mattino del giorno dopo. La morte è intervenuta per inerzia. Spesso la presenza fisica dell'assistenza dei sanitari non era garantita. Loro hanno visto tutto con le telecamere e non sono intervenuti. Morte di un essere umano senza il sostegno dei familiari. E’ seguita pulizia della salma e composizione della stessa in un sacco di plastica. Un uomo diventato una cosa trasferita in obitorio.

La mia seconda stanza era la camera della morte. Durante la mia decenza, tutti i morti erano ivi ricoverati. C.mo C.lò, infettato alla RSA Villa Argento di Manduria, del letto n.9 ha preso il posto di P.tro D.ghia di Monteiasi. Il degente critico e con criticità non è stato ricoverato in un reparto adeguato alle sue patologie: ne prima né dopo l’emergenza. Ho convissuto con lui per due giorni dal 3 al 4 dicembre 2020. Era un continuo chiamare seguito da non immediata risposta. Per due giorni i parametri erano intorno agli 85-90 per l’ossigenazione e un ritmo cardiaco intorno ai 135 battiti, mai al di sotto dei 125, senza soluzione di continuità. La mascherina con il sacchetto gliela hanno messa quando la saturazione era ad 88, in sostituzione di quella con la proboscide. L’ultima chiamata di allarme da parte nostra (mia e di mio fratello riuniti nella stanza) per l’evidente sofferenza del paziente è avvenuta il 4 dicembre 2020. L’intervento non è stato pronto ed immediato. Loro hanno visto tutto con le telecamere e non sono intervenuti. Saturazione a 85 e 135 battiti e strumentazione impazzita. Il ritardo degli interventi mi ha costretto a filmare gli eventi a fini di giustizia ed informazione. Quando con le telecamere hanno visto che filmavo con il telefonino la situazione, con i parametri anomali e gli allarmi sonori della strumentazione, sono intervenuti a spostare il paziente nella postazione speciale. Subito dopo è intervenuto un energumeno di infermiere, che con fare minaccioso mi ha intimato, su ordine del medico, di cancellare il video dal cellulare. C.mo C.lò successivamente è morto, a 56 anni, ma tutti (dagli Oss, fino agli infermieri ed i medici) omertosamente hanno tenuto nascosto la notizia. Nella postazione n. 8 della mia seconda stanza un degente non autosufficiente è andato al bagno senza bomboletta di ossigeno, mancante, così come senza accompagnamento dei preposti a farlo. Loro hanno visto tutto con le telecamere e non sono intervenuti. Il paziente uscendo dal bagno ha avuto una mancanza d'aria ed è caduto. Si è schiantato al suolo ed è morto.

Omertà o meno, peccato per loro che mi sono trovato sempre nel posto giusto al momento giusto. O sbagliato secondo i punti di vista.

L’assistenza sanitaria. E’ previsto il Bonus Covid per medici e operatori sanitari. Va da 600 euro a oltre mille euro. L’1 dicembre 2020 c’è stata un’infornata di nuove assunzioni e trasferimenti al reparto Ortopedia Covid di Manduria.

Seconda ondata Covid in Puglia, indagine della Procura sulla gestione da parte della Regione. Fascicolo senza indagati né reati: tra gli accertamenti quello sulle assunzioni del personale sanitario. La Repubblica di Bari il 28 novembre 2020. La Procura di Bari ha aperto un fascicolo conoscitivo, cioè un modello 45, senza indagati né ipotesi di reato, sulla gestione della seconda ondata di contagi Covid in Puglia da parte della Regione. Sugli accertamenti in corso gli inquirenti mantengono il massimo riserbo. Il fascicolo è coordinato dal procuratore facente funzione Roberto Rossi. A quanto si apprende, tra gli aspetti su cui si sta concentrando l'attività investigativa ci sono verifiche sull'assunzione del personale sanitario.

Gli operatori sanitari, spesso, denunciano che a loro non viene fatto il tampone di controllo.

Gli operatori della sanità sono considerati degli eroi a torto dall’opinione pubblica, sotto influenza dei media, così come le forze dell’ordine ed i magistrati. I medici, gli infermieri e gli Oss, alcuni sono gentili, altri meno. Alcuni sono capaci, altri meno. Gli infermieri, spesso, passano da un paziente ad un altro per le operazioni di routine (prelievi del sangue, inserimento flebo, ecc.) senza disinfettarsi le mani. Tutti sono corporativi ed omertosi. Ai richiami di allarme non c’è pronto intervento, salvo eccezioni dovuti al buon cuore dell’operatore. Ma quello che turba ed inquieta è il loro distacco ed indifferenza di fronte alla sofferenza ed alla morte. Un giudice che manda in cella un innocente, spesso dovuto ad un suo errore, è indifferente e distaccato. Ma un operatore sanitario, se ha una coscienza, non può avere lo stesso distacco di fronte alla morte, specie se è stata causata per sua colpa o per colpa di un protocollo criminale.

Comunque delle mie affermazioni sugli operatori sanitari vi è ampia cronaca di stampa di conforto.

"Tra dieci minuti muori": così il medico al paziente Covid in fin di vita. Maltrattamenti e furti ai defunti nell'inferno dell'ospedale di Taranto. Gino Martina il 4 dicembre 2020 su La Repubblica-Bari. Sono almeno sette gli episodi che riguardano pazienti ricoverati al Moscati morti dopo giorni. Sarebbero venute a mancare assistenza e condizioni di ricovero umanamente adeguate: indaga la procura e anche l'Asl con un'inchiesta interna. Il sindaco convoca i vertici dell'azienda per un chiarimento. Uno dei racconti più scioccanti è quello di Angela Cortese. Il padre, Francesco, positivo al Covid, la notte tra l'1 e il 2 novembre aveva fatto il suo ingresso all'ospedale Moscati di Taranto. Dal suo ricovero al giorno seguente, l'uomo, 78enne, è rimasto in contatto con la famiglia attraverso il telefonino. Ma ciò che ha comunicato in quelle ore ha allarmato tutti: "Venitemi a prendere, qui muoio". Il 3 mattina, la donna, avvocato, parla con un medico che si trova nell'Auditorium dove il padre era stato sistemato. "Suo padre non collabora, non vuole mettersi la maschera Cpap, fra dieci minuti morirà, preparatevi!". La donna racconta di urla, di una sorta d'aggressione al telefono. "Ci sentiamo piombare addosso d'improvviso queste parole terribili - spiega -, quel medico sembrava una bestia inferocita, contro di noi e mio padre. Ho avuto solo la forza di chiedere della saturazione e per tutta risposta ho ricevuto altre urla: non c'è saturazione, vedrete che fra poco muore!". Cortese domanda se il padre fosse lucido, se stesse lì vicino. "Sì è qui, è qui, mi sta ascoltando, fra poco morirà!". La donna assiste in questo modo alla sua fine. "Neanche i veterinari con i cani si comportano in questa maniera", aggiunge, sottolineando come "Non gli è stata somministrata nessuna terapia, solo ossigeno, solo la Cpap". Affermazioni, quelle di Cortese, che dovranno trovare riscontro nella cartella clinica richiesta all'ospedale e nelle indagini che la procura ha avviato per diversi altri casi di morti nel presidio sanitario a Nord del rione Paolo VI.

Le inchieste. I procedimenti sono più d'uno, fanno seguito alle denunce dei parenti, ma sono volti anche a verificare la corretta osservanza delle misure precauzionali sanitarie da parte della dirigenza ospedaliera. Il sospetto è che l'organizzazione, le attrezzature e il numero del personale tra ottobre e novembre non fossero adeguati ad affrontare la seconda ondata della pandemia, lasciando spazio all'improvvisazione, a Operatori socio sanitari utilizzati come infermieri e personale sotto stress, portando a gravi mancanze. Al di là del lavoro della magistratura, sono almeno sette gli episodi che riguardano degenti del Moscati morti dopo giorni nei quali sarebbero venute a mancare assistenza e condizioni di ricovero adeguati, oltre che telefoni e oggetti di valore, come fedi e collane, non restituiti ai parenti. Su questi ultimi episodi l'Asl ha diffuso una nota nella quale smentisce che ci possano essere stai dei furti, ma fa emergere anche una scarsa comunicazione tra l'organizzazione del presidio e gli stessi operatori. "Nelle singole unità operative coinvolte nei percorsi assistenziali di presa in carico - scrive l'Asl - sono custoditi e repertoriati numerosi piccoli oggetti di valore ed altri effetti personali. Intanto il sindaco di Taranto, Rinaldo Melucci, ha deciso di convocare i vertici Asl: "Se confermati, i fatti sono di una gravità inaudita".

Maltrattamenti e furti in ospedale a Taranto, il sindaco convoca i vertici Asl: "Fatti di una gravità inaudita". La Repubblica-Bari il 04 Dicembre 2020.

Gli oggetti smarriti. Si segnala, ad esempio, che nella cassaforte allocata nel punto di Primo intervento del 118 del presidio ospedaliero San Giuseppe Moscati, sono custoditi oggetti preziosi, mentre altri effetti personali quali valigie, telefoni e relativi carica batteria, sono conservati in aree dedicate del reparto". Nella stessa nota sono stati pubblicati i contatti e il link dell'ufficio di Medicina legale dell'azienda sanitaria attraverso il quale poter cercare le cose appartenenti ai propri cari. Ma alcuni parenti vanno avanti con la denuncia ai carabinieri, come il caso della famiglia Rotelli, sicura che il telefono del padre sia stato rubato e manomesso. Come affermano anche altri parenti di altri degenti, che parlano di video girati all'interno cancellati dai telefoni dei propri cari. "Mia madre - spiega Tina Abanese, di Massafra - è stata ricoverata in quei giorni per una crisi respiratoria. È stata maltrattata da alcuni addetti che le rispondevano in malo modo. Non è stata cambiata per ore. È rimasta anche senza cibo e dopo due giorni dalla sua morte ci siamo accorti che nella borsa mancavano la fede e un altro anello, che indossava al momento dell'ingresso in ospedale".

Il ricovero nel container. Donato Ricci, imprenditore di Martina Franca, ha perso invece il padre, ex ispettore di polizia. Ha raccolto i primi di novembre il suo grido d'aiuto. "Chiamate la polizia, portatemi via da qui", diceva. L'uomo, in salute prima di aver contratto il Covid, ha anche girato dei video nel container dov'era ricoverato con la biancheria abbandonata per terra in un angolo. Ricci ha raccolto in un gruppo Whats'app i contatti di altri parenti di chi non c'è più dopo esser passato in quei giorni nell'ospedale, durante i quali era anche difficile poter contattare i propri cari o avere notizie dal personale, per mancanza di un numero telefonico apposito (è stato attivato nelle ultime settimane). C'è chi racconta di bagni sporchi, inaccessibili, camere mortuarie con cadaveri sistemati alla peggio, addetti delle onoranze funebri che li prelevano senza alcuna protezione. "Abbiamo denunciato la sparizione di anelli, della fede nuziale e d alcune collane di mio padre - raccontano Mariangela e Pierangela Giaquinto, figlie di Leonardo, paziente Covid ricoverato il 30 ottobre e scomparso il 21 novembre - ci hanno detto che avrebbero richiamato se e nel caso avessero ritrovato qualcosa ma non abbiamo avuto alcune segnalazione. Mio padre è stato intubato e indotto due volte al coma farmacologico. La seconda, però, non ce l'ha fatta". A muoversi ora è anche il Tribunale del malato, che chiede formalmente un intervento della Regione: dall'assessore alla Sanità Pierluigi Lopalco al governatore Michele Emiliano. "La situazione è allarmante - spiega la coordinatrice Adalgisa Stanzione - non solo perché ci sono casi di morti, ma perché c'è stata una sottovalutazione delle autorità competenti. Se non si aveva personale sufficiente per assistere i pazienti bisognava agire prima, non arrivare fino ai primi di novembre, quando c'erano al Moscati 95 persone ricoverate per Covid. Gli Oss hanno dovuto sopperire al lavoro degli infermieri. Ci stiamo muovendo con le nostre strutture legali per fare chiarezza. La situazione è migliorata con l'attivazione dei posti alla clinica Santa Rita e all'ospedale Militare, ma senza personale i posti letto servono a poco. Il diritto alla salute - prosegue Stanzione - va rispettato a partire dalla qualità della prestazione che non può essere soffocata dalla pseudo carenza di infermieri e medici. E poi la gente va trattata con umanità, va ascoltata, e non attaccata come incompetente e sprovveduta, da personale sotto stress. La pandemia - conclude - non può essere affrontata senza mezzi, è come combattere una guerra senza fucili".

In ospedale la morte sospetta di un 68enne. I familiari: «Abbandonato su una sedia». C'è l'inchiesta. Francesco Casula su il Quotidiano di Puglia-Taranto Martedì 8 Dicembre 2020. La procura della Repubblica di Taranto ha disposto l'autopsia sul corpo di un uomo deceduto all'ospedale Moscati per Covid19, ma per cause ancora ignote alla famiglia dell'uomo. È stato il sostituto procuratore Remo Epifani ad aprire un fascicolo contro ignoti e a disporre l'esame autoptico: l'incarico al medico legale sarà affidato domani mattina nel Palazzo di giustizia e subito dopo il consulente eseguire gli accertamenti richiesti dal magistrati per stabilire la reale causa del decesso. Non ci sono, al momento, nomi iscritti nel registro degli indagati, ma il pubblico ministero Epifani ha ipotizzato il reato di «responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario». È stata la denuncia depositata dai familiari, alcuni dei quali si sono rivolti all'avvocato Gaetano Vitale, a spingere la procura a effettuare una serie di approfondimenti. Nella denuncia, infatti, i parenti della vittima hanno raccontato che l'uomo, dopo aver trascorso una degenza burrascosa dovuta al peggioramento delle sue condizioni, sembrava aver ormai superato la fase critica e secondo gli aggiornamenti che il medico di famiglia forniva ai congiunti, sembravano prossime le dimissioni dall'ospedale. Una mattina, però, quelle speranze insieme al resto del mondo sono crollate. I familiari hanno infatti ricevuto la telefonata da un medico del nosocomio tarantino che annunciava la morte dell'uomo. Nessuna spiegazione sulle cause, nessuna comunicazione ufficiale che informasse la famiglia di cambiamenti improvvisi del quadro clinico. Non solo. Secondo le informazioni raccolte da alcuni parenti, l'uomo di 68 anni con problemi di diabete, sarebbe stato ritrovato già cadavere nelle prime ore del 18 novembre, non nel suo letto, ma addirittura seduto su una sedia accanto al suo letto. Un dettaglio che secondo i denuncianti è la dimostrazione dello stato di abbandono al quale sarebbero stati costretti i pazienti nei reparti dell'ospedale ionico. E oltre all'elevato numero di pazienti rispetto a quello del personale sanitario, denunciato anche dai sindacati nelle scorse settimane, i familiari avrebbero anche fatto notare come in quella stessa notte in cui sarebbe avvenuta la morte del 68enne, sarebbero stati registrati anche altri 13 decessi. Per i familiari, quindi, la causa della morte potrebbe non essere stato il virus contratto dall'uomo una decina di giorni prima, ma lo stato di abbandono oppure le negligenze di chi avrebbe dovuto garantire assistenza. E dalle parole dei familiari, inoltre, sarebbero emerse anche accuse circostanziate rispetto alle modalità di sistemazione dei pazienti a cui il personale medico e paramedico è costretto a fare ricorso per affrontare l'emergenza in corso. Sulla vicenda il pm Epifani ha affidato anche una delega di indagini agli investigatori della Squadra mobile di Taranto che hanno acquisito la cartella clinica della vittima. La salma, in attesa dell'autopsia è stata trasferita nelle celle frigorifere di Bari. Gli elementi raccolti dai poliziotti e dal medico legale che sarà nominato come consulente della procura per effettuare l'autopsia, serviranno per ricostruire l'intero quadro della vicenda e poter valutare in modo chiaro e approfondito le eventuali responsabilità del personale che aveva in cura il 68enne.

Covid, preziosi scomparsi e disumanità, inchiesta sull'ospedale: «Vogliamo la verità». Le testimonianze dei familiari delle vittime: «Quando ci dissero, “faccia poche tragedie”». u il Quotidiano di Puglia-Taranto Sabato 5 Dicembre 2020. «Amore, mi stanno portando in rianimazione, forse m'intubano». È l'ultimo messaggio che Ubaldo, 62 anni, è riuscito a mandare alla moglie prima di morire. Un tenero cuoricino rosso per chiudere la frase. Questo, assieme a tanti altri strazianti messaggi audio e video, farà parte delle denunce, undici sinora quelle previste, che presenteranno i componenti del gruppo «Per i nostri parenti», mogli, figlie e figli di altrettanti pazienti deceduti per Covid nei reparti soppressi dell'ospedale San Giuseppe Moscati di Taranto. Parenti che chiedono giustizia, spinti da cause diverse: la scomparsa di oggetti di valore indossati dai propri cari, ma anche presunti comportamenti dei sanitari al limite del disumano come anche dubbi sul trattamento e sulle terapie praticate sui pazienti. Anelli, fedi nuziali, orologi e telefoni cellulari che appartenevano a pazienti morti per Covid, nell'ospedale Moscati di Taranto, non sono mai più stati consegnati ai parenti che sospettano possano essere stati rubati. La magistratura ha aperto una inchiesta, mentre l'Asl di Taranto ha avviato una indagine interna. Ad alcuni cellulari restituiti - secondo la denuncia dei parenti - sarebbe stata cancellata la memoria che conteneva importanti ricordi. E forse anche qualcosa di strano che accadeva nell'ospedale e che era stata filmata e quindi - secondo i familiari delle vittime - doveva essere cancellata. Tra gli episodi riferiti, quello di un paziente 78enne la cui figlia ha ricevuto la telefonata di una dottoressa che, urlando, si lamentava perché l'anziano non sopportava la maschera per l'ossigeno. Davanti al paziente, che era vigile, la dottoressa avrebbe detto «se non la tiene muore, fra dieci minuti muore». Pochi minuti dopo la stessa dottoressa avrebbe chiamato la figlia del paziente dicendo «gliel'avevo detto che moriva, ed è morto». Nel suo racconto, la figlia di Ubaldo, quello del tenero e drammatico ultimo messaggio con il cuoricino rosso alla moglie, parla di «sgarbatezza e disumanità» nel descrivere le comunicazioni tra la famiglia e il personale dove è stato ricoverato suo padre. La sua storia è simile alle altre del gruppo. «Nostro padre aveva 62 anni, era pensionato Ilva e soffriva solo di pressione che controllava bene con una compressa al giorno». Poi l'incontro con il coronavirus. Otto giorni di cura a casa, il peggioramento dei sintomi e il ricovero al Moscati. «Gli hanno fatto il tampone risultato poi positivo e nell'attesa del referto è stato messo in un ufficio adibito a stanza di degenza dove è rimasto due giorni su una brandina con la borsa degli indumenti sulle gambe». Finalmente viene sottoposto ad esame Tac che rivela una grave polmonite da Covid. Viene così spostato nel prefabbricato della rianimazione modulare e da allora inizia l'odissea della famiglia che non avrebbe avuto notizie per mancanza di interlocutori. Nel bunker schermato il telefonino non sempre aveva la linea. Il seguito del racconto è ricco di telefonate senza risposta o di mezze risposte o di risposte cariche d'astio di chi dall'altra parte del telefono avrebbe dovuto tranquillizzare e informare sulle condizioni di salute del malato. E' ancora a figlia a parlare. «Infine il messaggio di papà alla mamma e poco dopo la telefonata di una dottoressa che c'informa che dovevano intubarlo. La nostra reazione si può immaginare racconta la figlia - io stessa ho richiamato subito dopo per avere più informazioni e la risposta che mi hanno dato non la scorderò mai: "Signora, poche tragedie per favore perché non posso perdere tempo con lei"». Ubaldo non ce l'ha fatta, è morto il 7 novembre scorso nella rianimazione del Moscati. Le cause del decesso, oltre ai comportamenti dei sanitari, saranno i quesiti che i familiari metteranno nella denuncia che presenteranno appena entreranno in possesso della cartella cinica. Intanto su questo e sui presunti casi di furto di oggetti di valore dai cadaveri Covid, il sindaco di Taranto, Rinaldo Melucci, ha convocato il direttore generale Asl, Stefano Rossi. «Si tratta di vicende - commenta il primo cittadino - se confermate, che oltre ad essere di una gravità inaudita, vanificherebbero gli sforzi che l'intera comunità sta compiendo e che, in particolare, stanno compiendo le istituzioni di ogni genere per garantire i diritti fondamentali dei cittadini in questo particolare periodo. Nessuna emergenza, infatti conclude il sindaco - può giustificare abusi, superficialità o deroghe al corretto esercizio di qualsiasi genere di servizio essenziale, a maggior ragione dei servizi di natura sanitaria».

Gli strumenti della cura. Il saturimetro è uno strumento per la misurazione dell’ossigeno del sangue e del battito cardiaco. In ospedale, questo strumento non è ad acchiappapanni, ma è adesivo al dito. Le unghie, il sudore, l'acqua ne minano l'affidabilità, ma sui parametri falsati, spesso si poggiano le terapie.

La Cura. Per i sanitari la morte di un paziente è sempre certificata come conseguenza di patologie pregresse: falso!

L’iter giornaliero è questo:

5.30 prelievi di sangue, a volte l’Emogas arterioso. Per sottoporsi a emogasanalisi arteriosa non è richiesto il digiuno, né la sospensione di eventuali terapie in corso. L'esame può essere moderatamente doloroso. E’ estremamente doloroso se fatto da mani incapaci. Spesso analisi dell’urine. Tre volte al giorno misurazione della febbre e misurazione della pressione.

8.30 distribuzione della protezione e del cortisone ed eventuale flebo.

16.30 somministrazione tramite flebo di antibiotici, farmaci sperimentali, liquido di lavaggio.

Si crede che rivolgendosi alle strutture sanitarie ci si possa curare dal covid. Non è così. Spesso si muore. Io posso raccontare la mia esperienza in virtù del fatto di essere Antonio Giangrande. Esperto del Virus, fortemente caparbio ed estremamente rompiballe. Io sono a detta di tutti un miracolato. Ma il miracolo l’ho anche voluto io. Dal primo momento, la degenza in ospedale è stata caratterizzata dall’essere positivo sia dal Covid, sia nello spirito. Il mio principio, data la mia esperienza, le mie traversie e le mie sofferenze, è: me ne fotto della morte. Ed è stato lo spirito giusto. Ho mantenuto il morale alto ai miei compagni ed intrattenuto ottimi rapporti con gli operatori sanitari (meglio tenerseli buoi a scanso di ritorsioni).

La mia cura prima del ricovero era: protezione, antibiotico, cortisone, eparina.

La mia cura in degenza era: protezione, antibiotico, cortisone, eparina. Uguale!

In aggiunta c’era solo l’ossigenoterapia.

Loro curano la polmonite bilaterale interstiziale. La polmonite da Covid-19 è altra cosa. Perché è diversa la causa. Se non combatti la causa, l’infiammazione si aggrava, porta al collasso dei polmoni, in particolare uno, e mina la funzionalità degli altri organi: da ciò consegue la morte.

Negli ospedali si attende. Si aspetta l’evoluzione della malattia. Si aspetta il miracolo. Non c'è evoluzione positiva della malattia se non si effettua la cura adeguata. Le cure ci sono ma non le applicano per protocollo.

L’ossigenoterapia a me applicata era pari a 10 litri, con inalazione tramite mascherina con la bustina.

Tra i medicinali e l’ossigeno, la terapia nel complesso si è dimostrata inadeguata, tanto da causare l’aggravarsi della mia situazione. Hanno portato il livello della mia ossigenazione a 15, il massimo per quel reparto di ortopedia con inalazione tramite mascherina con busta. Sempre lucido e con il morale alto ho imposto la mia volontà e la mia competenza. Farmi somministrare, tramite flebo, il “remdesivir”, adottato contro l’Ebola. Farmaco osteggiato dall’elite sanitaria mondiale e nazionale. Molti medici hanno fatto la raccolta di firme per l’adozione di questo farmaco farmaco.

La battaglia sul Remdesivir, il farmaco anti Covid che divide i due lati dell'Oceano. Elena Dusi su La Repubblica il 5 dicembre 2020. Per l'Oms non va usato: benefici inferiori ai rischi. Ma per il prestigioso New England Journal of Medicine a sbagliare è stata l'organizzazione mondiale per la sanità con sperimentazione su dati disomogenei. In ballo, oltre alla salute, c'è una fortuna: ogni ciclo di cura costa 2.400 dollari. C’è un farmaco che funziona in America ma non nel resto del mondo. E’ il controverso remdesivir, antivirale messo a punto per Ebola ma “riposizionato” in regime d’emergenza contro il coronavirus, usato anche per trattare il presidente americano Donald Trump. L’Organizzazione mondiale della sanità a fine novembre ha pubblicato i risultati di uno studio da lei coordinato: i benefici del farmaco non superano i rischi. «L’antivirale remdesivir non è consigliato per pazienti ospedalizzati per Covid-19, a prescindere dalla gravità della malattia, perché al momento non ci sono prove che migliori la sopravvivenza o la necessità di supporto di ossigeno». Anche i risultati dei trial precedenti non erano stati brillanti, ma lasciavano intravedere un qualche beneficio, come la riduzione dei giorni passati in ospedale (cinque in meno, in media, rispetto al placebo, secondo uno studio americano). La pubblicazione targata Oms, avvenuta sul British Medical Journal, ha spinto anche la nostra Aifa (Agenzia italiana per il farmaco) a riunire un tavolo per riscrivere le indicazioni di questo antivirale, che frutta alla casa produttrice americana Gilead 2.400 dollari per ogni ciclo (5 giorni di trattamento), somministrato via flebo esclusivamente in ospedale. L’articolo del British (che mette insieme i risultati di quattro studi diversi per un totale di 7mila pazienti) ha fatto cadere le azioni dell’azienda farmaceutica, nel giorno della pubblicazione, dell’8%. Da Boston, sede del prestigioso New England Journal of Medicine, è subito arrivata la replica: a sbagliare è l’Oms, scrive la rivista in un editoriale. La sperimentazione dell’Organizzazione di Ginevra, battezzata Solidarity, è stata condotta in 30 paesi, dalla Svizzera alla Germania, dall’Iran al Kenya. Secondo il New England non avrebbe raccolto dati omogenei. “Gli standard di cura in queste nazioni sono variabili, così come la condizione dei pazienti che vengono ricoverati in ospedale”. Il remdesivir – ribadisce l’altra sponda dell’Atlantico – deve continuare a essere somministrato. Di questa opinione era, fino alla scorsa estate, anche l’Europa. Trovatasi a corto di scorte (a luglio la Casa Bianca si è accaparrata tutte le dosi prodotte da lì a settembre), la Commissione ha intavolato in tutta fretta una trattativa con Gilead per una fornitura di 500mila dosi al prezzo di 1,2 miliardi di euro. La casa farmaceutica, secondo un’indiscrezione del Financial Times, conosceva già i risultati scettici dello studio Oms, ma non li avrebbe comunicati agli europei. “L’Italia – prosegue il quotidiano inglese – ha pagato 51 milioni per un ordine di remdesivir quando i casi stavano salendo e le scorte si stavano assottigliando”. Mi hanno fatto firmare la liberatoria con assunzione di responsabilità, previa nota informativa, per l’assunzione di un farmaco, non adottato a Manduria e nella maggior parte degli ospedali italiani. E poi, in previsione di morte certa, perché non tentare con cure che possono essere anche dannose o inefficaci?

Sull’efficacia del farmaco io sono un testimone, vivente, ospedalizzato ed attendibile. Dopo due giorni di cure, sì inefficaci, che mi hanno fatto rasentare la morte con il quadro clinico compromesso ed aggravante, con 15 litri di ossigeno e saturazione insufficiente, dopo tre giorni di infusioni con una dose al dì del farmaco, la mia situazione clinica è immediatamente migliorata. Da 15 litri di ossigeno sono passato a 4, con ossigenazione a 92, e tutti gli altri valori sono immediatamente migliorati.

Tanto da che il tampone effettuato il giorno 3 dicembre 2020 è risultato negativo.

Sul costo del farmaco io sono dubbioso. Se si è curata l’Africa infetta da Ebola, non penso non si possa salvare la popolazione dei paesi più ricchi. E poi con tanti soldi buttati al vento tra sprechi, regalie e sostegni economici a pioggia, non penso che si possa far morire la gente per spilorceria».

Tra il ricovero e la dimissione son passati solo 16 giorni, dal 22 novembre dell'attesa del ricovero, avvenuto il 23, fino al 7 dicembre 2020, data delle dimissioni.

«La mia dimissione. Purtroppo la mia dimissione come il mio ricovero è stato traumatico. Dal 3 dicembre 2020 al 7 dicembre 2020 sono stato costretto a stare da negativo in un reparto Covid. Le linee guida raccomandano il distanziamento tra coniugi, positivi e negativi, e poi le autorità permettono la promisquità negli ospedali Covid. Non è provato scientificamente il periodo di immunità, specie in presenza di carica virale forte, però in reparto per ben due volte hanno introdotto nella mia stanza pazienti di prima positività. La seconda volta, il 5 dicembre 2020 notte, addirittura, V.to T.liente di Martina Franca, poverino, egli stesso infettato in ospedale. Ho consigliato, per impedire la promisquità, l’appaiamento in stanze separate: vecchi degenti, con vecchi degenti, a minima trasmissione del virus; nuovi ricoverati con nuovi ricoverati ad alta carica virale. Risposta: problemi organizzativi. Ergo: troppo lavoro per gli addetti. Ho detto che la mia degenza non era necessaria perché potevo essere curato a casa o tramite Usca. Giusto per liberare il letto per nuove emergenze. Insomma sono stato costretto alla dimissione volontaria, da me imposta ed anticipata da giorni. L’uscita è stata procrastinata fino alle 19.30 della sera del 7 dicembre. E non voglio pensare che sia stata una sorta di ritorsione.

Positivi e negativi insieme al Giannuzzi, è normale? Lavoceassociazioneculturaleasud.it l'8 Dicembre 2020. Finalmente negativo. Antonio Giangrande, il “famoso” paziente dell’attesa di undici ore in ambulanza prima di essere ricoverato all’ospedale Giannuzzi di Manduria , è finalmente negativo. Tutto bene quel che finisce bene, direte voi. Invece no. Dopo 15 giorni di ricovero , la degenza procedeva secondo quanto auspicato, fino all’esito negativo del tampone. A questo punto ci si sarebbe aspettato uno spostamento di reparto per evitare che un negativo restasse in stanza con positivi. Ma niente. E risposta negativa è arrivata neanche alla richiesta del Giangrande di essere spostato almeno in un reparto dove i negativi non fossero “recenti ” e con altissima carica virale. Come noto, anche i negativizzati, specie chi ha avuto insufficienze respiratorie, devono rispettare le solite prescrizioni. La presenza di anticorpi neutralizzanti non d à certezza scientifica di “immunità” e, come già successo, i guariti possono essere reinfettati. Da non dimenticare la possibilità di imbattersi in un tipo di virus mutato contro cui gli anticorpi acquisiti nulla possono fare. A questo punto, data la possibilità di curare i postumi della malattia con cure ordinarie e con assistenza domiciliare, il Giangrande è stato costretto alla dimissione volontaria, per evitare di passare altri giorni da negativo in un reparto di positivi , anche nuovi, con i relativi rischi per la propria salute . Con l’assurdo che, in fase di dimissione, è stato raccomandato di non tornare a casa da coniugi o parenti positivi».

Come conclude questa intervista.

«I positivi conclamati posti alla pubblica gogna, non sono untori. Essi divenuti negativi, quindi immuni ed in un certo senso vaccinati, proprio loro devono stare attenti agli altri, che possono reinfettarli. E poi di questi tempi un contagio da Covid non si nega a nessuno, specie alla cattiva gente».

(ANSA il 29 Dicembre 2022) - "Quando si prende in considerazione la reintroduzione e l'implementazione delle misure di screening per il Covid-19 su chi viaggia, in questo momento i paesi della Regione Europea dell'Oms dovrebbero attingere alle lezioni del passato. Ciò include la necessità di non discriminare alcuna particolare popolazione o gruppo, ma di trattare tutti con rispetto". A scriverlo su Twitter, in merito a misure come la reintroduzione di tamponi per passeggeri in arrivo dalla Cina, è Hans Kluge, direttore regionale dell'Organizzazione mondiale della sanità (Oms) per l'Europa. 

Ritorno al passato. Lo scontro tra l’Italia e l’agenzia Ue delle malattie sui tamponi per i voli provenienti dalla Cina. Linkiesta su L’Inkiesta il 30 Dicembre 2022

L’Ecdc ha risposto che i test introdotti dall’Italia sono «non giustificati». Ma per Giuseppe Remuzzi «è corretto testare per Covid i passeggeri provenienti dalla Cina con l’obiettivo di sequenziare le varianti». L’Europa prende tempo, mentre i Paesi si muovono in ordine sparso

Nella conferenza stampa di fine anno, Giorgia Meloni ha chiesto una decisione europea comune sull’uso dei tamponi per i passeggeri in arrivo dalla Cina. Risposta dell’agenzia europea di sorveglianza delle malattie infettive (Ecdc): i test introdotti dall’Italia sono «non giustificati», perché il boom cinese di nuovi casi di Covid «non dovrebbe avere alcun impatto sull’Europa». Le varianti di Covid-19 sequenziate in Cina «circolano già nell’Unione» e, inoltre, i cittadini dei 27 Paesi membri hanno un alto tasso di vaccinazione e immunizzazione.

La Commissione europea ha convocato ieri in emergenza il Comitato per la sicurezza sanitaria per valutare «una decisione coordinata»: in questa sede i 27 hanno concordato di mantenere una «sorveglianza attiva» e di proseguire i contatti per vagliare iniziative unitarie. Ma per ora non è stato disposto nulla. I portavoce dell’Oms invitano a «non discriminare alcuna popolazione o gruppo, ma trattare tutti con rispetto».

Per oggi è convocata a Roma l’Unità di crisi per rafforzare il monitoraggio sui rischi. E ieri è arrivata la decisione di prolungare fino al 30 aprile l’obbligo delle mascherine negli ospedali e nelle Rsa.

«Siamo in una fase delicata, ma non allarmiamoci prima del tempo», dice al Corriere Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri e ordinario per chiara fama di Nefrologia all’Università degli Studi di Milano. «È corretto testare per Covid i passeggeri provenienti dalla Cina con l’obiettivo di sequenziare le varianti (sono sufficienti alcune centinaia di sequenziamenti), per avere un’idea precisa di cosa sta arrivando dal Paese asiatico».

Anche il presidente francese Emmanuel Macron, comunque, ha chiesto ieri mattina al suo governo di «prendere misure adeguate». E l’esecutivo di Parigi ha messo in allerta compagnie aeree e aeroporti perché preparino un sistema di controllo, in vista di possibili decisioni Ue.

Oltre che in Italia, lo screening all’arrivo è attivo già in vari Paesi. Chiedono il tampone India, Giappone, Taiwan e da ieri gli Stati Uniti. Il governo del Regno Unito ha fatto sapere che per ora «non ci sono piani per reintrodurre test o requisiti aggiuntivi». L’ultima a introdurre nuove regole è stata la Corea del Sud, imponendo restrizioni sui visti, requisiti di test e limitando i voli. Intanto il ministero degli Esteri cinese, ieri, ha definito l’introduzione dei tamponi in alcuni Paesi come misure «prese in modo manipolato e male informato».

Sallusti e il Covid: caro Speranza, la minaccia è sempre comunista. Alessandro Sallusti su Libero Quotidiano il 29 dicembre 2022

La tragedia nucleare di Chernobyl, aprile 1986, fu fatta passare per una tragedia del progresso quando in realtà fu assai più semplicemente una tragedia del comunismo, cioè di un regime e di un paese, l'Unione Sovietica, inadeguati a gestire in sicurezza e nel rispetto degli uomini una tecnologia rischiosa. Sono passati quarant'anni e la cosa si ripete con il Covid, tragedia innescata e sfuggita di mano non per colpa di un virus ma di un paese comunista, la Cina, che sarà anche il più grande e potente al mondo ma che purtroppo comunista resta.

C'è poco da fare, se manca la libertà manca il presupposto indispensabile per uno sviluppo civile e sicuro della società e in queste ore ne abbiamo l'ennesima prova. Il Covid, ormai domato in tutto il mondo occidentale, è ripartito alla grande là dove era nato, in Cina appunto, e ora c'è il rischio concreto che torni a infettare il mondo - un cinese su due sbarcato il 26 dicembre in Italia è risultato positivo - vanificando tre annidi sacrifici e rinunce. Perché il Covid ha ripreso forza oggi in Cina? Primo perché sono comunisti, cioè inadeguati a prescindere, secondo perché essendo comunisti non sono riusciti a mettere a punto un loro vaccino efficace a debellare la pandemia. Sì, hanno miliardi di uomini, stramiliardi di denari, milioni di carri armati e missili supersonici ma se si tratta di inventare una pillola per non morire non sanno da che parte girarsi, cosa del resto che li accomuna ai loro alleati comunisti russi.

Diciamolo chiaramente: il vecchio Occidente con i suoi difetti e le sue ipocrisie, con le sue multinazionali eticamente così così, a confronto è un gigante di capacità e umanità e solo uno stupido ignorante può pensarla diversamente. Già perché noi ci siamo salvati, speravamo per sempre, perché siamo stati capaci di inventare in pochi mesi un rimedio efficace, il vaccino, che avrà anche i suoi problemi e controindicazioni ma che certamente ha evitato che una tragedia diventasse una ecatombe. Adesso salta fuori quello sciacallo di Speranza, ex ministro della Salute, a dire che quello che sta succedendo è colpa del governo Meloni, che sul Covid, come noto, non ha toccato palla essendosi insediato a questione risolta. Egregio signor Speranza, il problema non è la Meloni ma il comunismo, cioè il problema è lei che ancora crede in quella ideologia di morte e arretratezza scientifica. Fin dall'inizio di questa vicenda la sinistra italiana ha commesso un mare di errori, almeno abbia il buon gusto di tacere che a cavare le castagne dal fuoco anche stavolta toccherà all'Occidente liberale e capitalista.  

Speranza fa lo sciacallo: frase indicibile sulla Meloni e il Covid. Claudia Osmetti su Libero Quotidiano il 30 dicembre 2022

Milano. Aeroporto internazionale di Malpensa. È fine dicembre ma sembra il febbraio del 2020. Quel febbraio tragico, infame, in cui non sapevamo cosa aspettarci e che ci ha fatto scoprire il coronavirus. Santo Stefano, tre giorni fa. Atterrano due aerei, provengono dalla Cina. A bordo ci sono, complessivamente, 212 passeggeri. Circa la metà di loro è positiva al tampone del Sars-cov2. Pechino ha appena riaperto le frontiere, ha ripreso a rilasciare passaporti e visti, ha dismesso la rigida politica dello "zero-Covid" dopo il fallimento che si legge nei fatti. Mica nelle dichiarazioni ufficiali. Però noi siamo qui, dall'altra parte del mondo. Da noi la pandemia sta lentamente scivolando verso la convivenza col virus. È il momento in cui alzare le barriere, quelle di protezione, perché sì, è vero: ci siamo vaccinati e abbiamo fatto bene. Ma no, non possiamo permetterci di ripiombare nel marasma di tre anni fa, nei lockdown e nelle quarantene di massa. Il pericolo, lo ripetono gli esperti, è che nel Dragone si possa essere sviluppata una variante nuova, non necessariamente più aggressiva, ma non coperta da quell'immunizzazione che, a fatica, ci siamo guadagnati. E allora ricomincerebbe tutto, «come da un rendez-vous». Regione Lombardia ci pensa. L'Ats (l'Azienda di tutela della salute) dell'Insubria ci pensa. Lo fanno subito, prima ancora che si muova il governo centrale, prima ancora che altri scali le (vedi quello romano di Fiumicino o quello napoletano di Capodichino).

I NUMERI

Ci sono le feste, ci sono gli spostamenti, ci sono le vacanze. Ai 212 viaggiatori che arrivano dalla Cina viene chiesto di sottoporsi a un tampone.

Non è obbligatorio, però lo fanno tutti: 97 hanno il Covid. Novantasette su 212 sono praticamente la metà: il 38% di quelli che scendono dal primo volo, il 52% di quelli imbarcati sul secondo. «Numeri che devono fare riflettere», commenta l'assessore al Welfare lombardo Guido Bertolaso. Tornano i tamponi in aeroporto, tornano i casi positivi dalla Cina, torna pure l'ex ministro della Sanità, Roberto Speranza, Articolo Uno, che se la prende con l'esecutivo Meloni: «La strategia di Fratelli d'Italia di far finta che il Covid non esiste più e che dei vaccini si può fare a meno mi pare fallita, la realtà è più forte della comunicazione», sbotta fuori da Montecitorio. Ma che c'entra? Qui, semmai, è il contrario. La Lombardia, Roma, si è mossa all'istante. E infatti a Speranza risponde il presidente dei senatori di Fdi, Lucio Malan: «Parla lui che ha imposto le limitazioni più dannose e aveva il tasso di mortalità tra i più alti del mondo».

ASINTOMATICI

Bertolaso, da Milano, rassicura: «Tutti i passeggeri non presentano sintomi particolari, non mostrano visibilmente sintomi della malattia». D'accordo che sono stati messi in isolamento, che sono stati tracciati, che «la situazione è sotto controllo e l'incidenza dei casi, in Regione, è di 203 su 100mila abitanti e in sette giorni, cioè meno della media nazionale». Però il vero responso arriverà solo oggi, nelle prossime ore. «Abbiamo attivato la procedura del sequenziamento», continua Bertolaso. Vuol dire che i laboratori lombardi hanno lavorato tutta la notte, questa notte, chini su quelle provette prelevate al gate di sbarco, per capire. Per individuare quale sia, effettivamente, lavariante che circola adesso in Cina. Ché se è Omicron, o della famiglia di Omicron, potrebbe passare senza grossi problemi. Altrimenti saranno dolori. È difficile stimare quanti siano, sul serio, i contagi giornalieri nel Paese asiatico (l'epidemiologo Pierluigi Lopalco ipotizza che entro la fine del mese si potrebbero contare 250 milioni di casi); figurarsi avere notizie dettagliate e report aggiornati. Potrebbe trattarsi di Xbb.1.5, nome in codice: Gryphon, una sottovariante di Omicron, c'è quasi da augurarselo, che ha fatto schizzare su i contagi del 140% anche a New York, nell'ultimo mese. Ma al momento si tratta di supposizioni. Il verdetto, ufficiale, uscirà oggi e dal tavolo lombardo: bollato e certificato dai nostri ricercatori. Esattamente come in quel 2020 quando tutto, in Occidente, è iniziato a Codogno. Nei giorni di Natale (l'ultimo bollettino disponibile è di sabato 23 dicembre) si contavano, in Italia, 436.435 casi di coronavirus, 137mila in più rispetto ai sette dì precedenti, con una media in incremento di quasi 20mila al giorno. Meno, comunque, della settimana prima. Ci sono stati anche 798 decessi, 9.065 ospedalizzati e 312 pazienti finiti in terapia intensiva: il tasso di positività era al 13,4%. La mappatura dei viaggiatori in arrivo dalla Cina serve a scongiurare la ricaduta: «È la prima volta e l'Italia è il primo Paese al mondo che prende questa decisione in questa fase dell'epidemia», conclude Bertolaso (e qualcuno lo dica a Speranza). 

Speranza senza pudore attacca la Meloni sul Covid. L'ex ministro della Salute, alla notizia di un aumento dei contagi e della situazione in Cina, non ha perso occasione per attaccare il premier. Francesco Giubilei il 29 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Dopo una gestione della pandemia segnata da una serie di decisioni politiche che si sono rivelate errate, dopo l’introduzione di misure che non hanno avuto uguali in Occidente con le limitazioni alle libertà individuali e la pubblicazione con l’immediata messa al macero del libro Perché guariremo, ci si aspetterebbe da Roberto Speranza quanto meno un po’ di pudore nelle dichiarazioni.

Invece l’ex ministro della Salute, alla notizia di un aumento dei contagi e della situazione in Cina, non ha perso occasione per attaccare il premier: “la strategia della Meloni di far finta che il Covid non esiste più e che tutto sommato dei vaccini si può fare a meno mi pare fallita. Come sempre la realtà è più forte della comunicazione".

La pervicacia con cui Speranza continua a invocare misure restrittive evocando un clima che per fortuna non c’è più, è un qualcosa su cui bisognerebbe riflettere interrogandosi se i criteri adottati per determinate scelte fossero di carattere sanitario oppure politico.

Peraltro la sua dichiarazione si scontra con la decisione del governo Meloni e del ministro della Salute Orazio Schillaci di introdurre l'obbligo di tamponi negli aeroporti per controllare i viaggiatori in arrivo dalla Cina vista l’esplosione di contagi nel paese asiatico.

La stessa Cina verso cui, quando a inizio pandemia fu proposto di adottare misure di contenimento, ci fu un diniego per evitare discriminazioni salvo poi elogiare il “modello cinese” basato su privazioni delle libertà e su un controllo totale dei cittadini.

Peraltro, la scelta di introdurre il tampone per chi arriva dalla Cina, è stata segnalata anche alle istituzioni dell’Ue chiedendo di assumere iniziative simili "su tutto il territorio europeo" e, secondo il ministro Schillaci, “si rende indispensabile per garantire la sorveglianza e l’individuazione di eventuali varianti del virus al fine di tutelare la popolazione italiana”.

Se l’auspicio di Speranza è invece un ritorno all’obbligo delle mascherine, al green pass come strumento per viaggiare o accedere nei locali, i lockdown, le chiusure anticipate e tutte le misure che abbiamo vissuto, troverà una decisa contrarietà da parte del governo. Non applicare simili restrizioni non significa dire che il “virus non esiste più”, quanto constatare come oggi il covid non sia più quello di due anni fa e quindi esige politiche diverse.

Niente negazionismi ma niente lockdown. No, una nuova pandemia non possiamo permettercela. Né dal punto di vista economico, né da quello della tenuta sociale e - ultimo, ma non per importanza - da quello della nostra salute psicologica. Francesco Maria Del Vigo il 29 Dicembre 2022 su Il Giornale.

No, una nuova pandemia non possiamo permettercela. Né dal punto di vista economico, né da quello della tenuta sociale e - ultimo, ma non per importanza - da quello della nostra salute psicologica. Mai più un lockdown. Non si può ricominciare tutto daccapo, come in un eterno giorno della marmotta o in una puntata di Russian Doll. Non si possono replicare - esattamente nello stesso modo - gli errori commessi all'inizio del 2020. La prima volta eravamo spiazzati, presi alla sprovvista da un virus sconosciuto e da un incubo - quello della pandemia - che non aveva mai sfiorato la nostra epoca. E i governi hanno reagito prima in ritardo e poi in affanno, inseguendo il Covid con misure emergenziali che hanno limitato le nostre libertà individuali - lo ricordava l'ex premier Mario Draghi pochi giorni fa in un'intervista - per fermare una valanga invisibile che ha ammazzato centinaia di persone ogni giorno. Ma la seconda volta, se ci comportassimo come due anni fa, saremmo degli sciagurati e dei cretini. Ora che il virus - qualunque variante abbia deciso di indossare - torna ad arrivare dalla Cina, dobbiamo interrompere la proiezione della pellicola che abbiamo già visto.

Se a Pechino piace questo film dell'orrore possono guardarselo all'infinito. Ma ci lascino in pace. E il problema è tutto qui. Il regime cinese non ha mai detto la verità sulla natura del virus, ha omesso i numeri reali delle vittime, ha portato avanti una politica inutile di lockdown totalitari senza una sacrosanta campagna di vaccinazione, ha deportato i malati senza curarli, se ne è fregato di quello che diceva la scienza. Il risultato è sotto gli occhi di tutti. E ora il conto non può ricadere su di noi, già plurivaccinati (il 67% dei cittadini ha ricevuto tre dosi) e infettati almeno una volta (quasi 25 milioni). In Italia il Coronavirus è diventato poco più e, in taluni casi, persino meno di un'influenza. Non si può tornare indietro. Il governo fa bene, quindi, a tamponare tutti coloro i quali atterranno in Italia dalla Cina e deve mettere in atto - senza panico, ma con determinazione - una strategia di prevenzione ancora più capillare per sventare il pericolo dei contagi. L'esecutivo fa bene pure a non chinare il capo davanti alle sirene antiscientifiche e No Vax, perché la storia recente ci ha insegnato che, spesso, quelle sirene anticipano quelle delle ambulanze. E ne abbiamo sentite già troppe.

Ma la storia recente ci ha anche insegnato che l'Italia, a differenza di Pechino, è una democrazia, non una dittatura e non deve cedere mai più all'allarmismo ideologico di una sinistra che si balocca con chiusure e divieti e che trasforma subito un virus in campagna elettorale. Gli errori nell'affrontare le pandemie vengono misurati dagli elettori: vedi la scellerata gestione Speranza-Conte del 2020. Errare è umano, perseverare è diabolico.

Ciucci “È ora di dire la verità sulle terapie chiamate impropriamente vaccino”. Rita Cavallaro su L’Identità il 13 Dicembre 2022

“La gestione della pandemia è stata fallimentare, già dalle prime fasi, quando si parlava di vigile attesa. Non esiste la vigile attesa per una malattia virale. È un ossimoro. Poi le cure precoci che sono mancate sono state l’altro grosso fallimento dell’Oms. Gli errori nelle restrizioni, il green pass. Noi siamo stati il Paese con il maggior numero di restrizioni e abbiamo avuto la più alta mortalità rispetto agli altri. È stata più una violazione dei diritti delle persone piuttosto che un beneficio nei confronti della malattia”. È la linea critica di Agostino Ciucci, no vax convinto e unico tra i medici del pronto soccorso Vito Fazzi di Lecce a essere stato sospeso dal servizio per non aver ceduto alla vaccinazione.

Dottor Ciucci, perché è contrario al vaccino?

Chiamare vaccino una terapia che non è un vaccino già la dice lunga. Le parole hanno un grosso peso. E quando si è parlato di vaccino e non di terapia genica si è voluto dire inculcare in chi ha sempre fatto questo lavoro l’idea che stavamo somministrando una terapia tranquilla. Il vaccino ci protegge, ci ha aiutato a debellare alcune malattie, quindi usare quella parola è stata una grossa furbata.

E come dovevano chiamarlo?

Terapia sperimentale. Il vaccino doveva proteggerci dalla malattia ed evitare il contagio, invece non è così.

Un termine forte, non pensa che in molti avrebbero avuto timore di iniettarsi il siero?

Appunto per quello l’hanno chiamato vaccino. Noi abbiamo introdotto nell’organismo di molte persone, bambini compresi, un materiale genetico estraneo che avrebbe dovuto essere subito distrutto, non ci sarebbe stata possibilità di trasformarlo da Rna a Dna e integrarlo nel nostro genoma. Invece non è così, perché all’interno del nostro Dna sono state trovate delle sequenze di materiale genetico di vecchi coronavirus atavici.

Cioè lei dice che il vaccino ha modificato il dna di chi ha fatto la dose?

Potrebbe.

E sarebbe un bene o un male ?

Quando il materiale genetico viene trascritto c’è la possibilità che parte di questo materiale possa creare delle modifiche nel nostro Dna positive rispetto a una situazione negativa. Ma in questo caso abbiamo soltanto una parte del coronavirus, quindi si potrebbe verificare la produzione della proteina spike in modo indefinito, una proteina tossica.

E cosa comporterebbe ciò?

L’insorgere di tumori e alterazioni del sistema immunitario .

Ci sono studi che lo dimostrano?

No, perché il vaccino doveva arrivare in modo rapido sul mercato.

E se questo vaccino dovesse far insorgere i tumori, quanto tempo ci vorrebbe?

Un arco di 10 anni.

Che errore il Covid zero. Martina Melli su L’Identità il 13 Dicembre 2022.

Dalla primissima diffusione del Covid-19 fino all’avvento dei vaccini – tra lockdown, zone a colori e autodichiarazioni – tutti i Paesi, in varie forme, hanno messo in atto regole ad hoc e limitazioni. In particolare, per aumentare i tassi di vaccinazione, quasi tutto il mondo ha fatto ricorso a politiche obbliganti. Un report scritto da un team di ricercatori e scienziati guidati dal professore Kevin Bardosh, Phd presso l’Università di Edimburgo, dal titolo “Le conseguenze indesiderate della politica sui vaccini Covid-19: perché direttive, certificazioni e restrizioni potrebbero causare più male che bene” – pubblicato per la prima volta il 26 maggio di quest’anno dalla BMJ Global Health, rivista satellite del British Medical Journal – elenca e spiega le conseguenze dannose di queste politiche. Nella ricerca vengono delineate una serie di ipotesi secondo le quali le norme governative relative ai vaccini anti-Covid sembrerebbero, a vari livelli, sia controproducenti che dannose per la salute pubblica. Il report prende spunto da vari campi: la psicologia comportamentale, la politica e il diritto, la socioeconomia e il principio stesso di integrità di scienza e medicina. Per quanto riguarda la psicologia comportamentale, gli scienziati hanno osservato con attenzione le conseguenze delle coercizioni vaccinali nei modi di pensare e di agire dei cittadini. In particolare, diversi approfondimenti sul tema hanno dimostrato come queste politiche obbligatorie abbiano fatto scaturire sfiducia nelle autorità, rabbia, diffidenza, stigma e senso di minaccia alla propria libertà. Due esperimenti in Germania e negli Stati Uniti hanno evidenziato come, se il Governo dovesse richiedere una nuova ondata di vaccinazioni Covid, si rafforzerebbe il pensiero e l’attivismo no-vax; calerebbe la propensione nei confronti di altre misure sanitarie e diminuirebbe l’accettazione di future vaccinazioni preventive e volontarie come quelle influenzali o per le malattie esantematiche. Un altro elemento interessante riscontrato nell’ambito della psicologia comportamentale è la cosiddetta “dissonanza cognitiva”. Molto spesso gli annunci istituzionali e la copertura mediatica hanno eccessivamente semplificato o stentato a comunicare le differenziazioni tra un soggetto e l’altro. L’obbligo alla vaccinazione spinge le persone, come è comprensibile, a cercare più informazioni e a pretendere chiarezza. Chi ha poca fiducia nel vaccino, prende una nozione contraddittoria come una conferma delle proprie preoccupazioni e dei propri sospetti. Inoltre, il discorso pubblico ha normalizzato un certo stigma contro le persone non vaccinate, spesso intessuto nel tono e nel taglio di articoli e servizi Tv. I leader politici hanno incolpato apertamente i non vaccinati del protrarsi della pandemia, della fatica ospedaliera, dell’emergere di nuove varianti e della necessità di mascherine, chiusure scolastiche e altre misure restrittive. Se poi si parla degli effetti politici e legali dei vaccini, dei certificati e di tutte le restrizioni, si arriva in braccio a considerazioni molto gravi sulle libertà civili e sulla polarizzazione partitica. Dai viaggi, al lavoro, all’accesso alle strutture, alla vita sociale, l’impatto di queste limitazioni è stato immenso. Primo tra tutti il diritto al lavoro. Pensiamo ai test negativi settimanali (o addirittura ogni tre giorni) che erano l’unico compromesso al posto dello stato di vaccinazione completo. Una condizione che ha posto ulteriori oneri (anche finanziari) sui non vaccinati che hanno rischiato anche danni reputazionali. Le politiche sui vaccini hanno generato un intenso dibattito, proteste di piazza e il diffondersi di nuovi movimenti politici. Ovviamente hanno influenzato le elezioni. Ad esempio, i partiti di destra e quelli populisti in Germania, Canada e Austria si sono espressi con forza contro la segregazione medica.

Poi c’è la questione socioeconomica. I gruppi storicamente emarginati, i più poveri e le minoranze etniche, tendono ad avere meno fiducia nei programmi di vaccinazione. Questo apre alla possibilità che le politiche sui vaccini possano alimentare disuguaglianze già esistenti. Non solo. È assai probabile che le certificazioni verdi siano state concepite e messe in atto in modo discriminatorio. Basti pensare a gruppi svantaggiati quali gli immigrati, i senzatetto, le persone anziane isolate, le persone con malattie mentali e specifiche comunità religiose.

Le minoranze che sono state storicamente oggetto di sorveglianza, segregazione, e razzismo strutturale hanno sicuramente più resistenza nei confronti delle norme mediche, e hanno maggiore difficoltà ad accedere al vaccino, tra diffidenza e barriere burocratiche.

Infine, il report si interroga sull’etica e sull’integrità di queste pratiche coercitive a livello medico e scientifico. Molte politiche sui vaccini, chiaramente, limitano la scelta e il normale funzionamento del consenso informato. Ciò ha spesso messo i medici in una posizione difficile, offuscando i confini tra vaccinazione volontaria e involontaria. È chiaro che molti dei vaccinati lo hanno fatto a causa del rischio di perdere il lavoro, i mezzi di sussistenza o l’accesso a eventi sociali e viaggi.

Posto il fatto che il vaccino ha ridotto il tasso di mortalità e di serietà del virus, e posto che questo studio è stato partorito in Uk (una nazione che, nei confronti del Covid, ha avuto un approccio molto più “liberale” rispetto ad altri Paesi, europei e non ) il report del team di Bardosh punta a mettere in discussione l’efficacia della politica di vaccinazione coercitiva come unica risposta ad una pandemia. 

Curare la Covid: meglio l'indometacina o il paracetamolo? Sorprendenti i risultati di uno studio su pazienti ospedalizzati per Covid: l'antinfiammatorio risolve i sintomi più velocemente rispetto all'antipiretico e riduce il rischio di desaturazione. Gioia Locati l’8 Novembre 2022 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Quale antinfiammatorio?

 Lo studio

 Il calo di prescrizioni di paracetamolo

Già dopo i primi mesi di esordio del virus Sars-Cov-2 diversi medici avevano evidenziato l’importanza di trattate i sintomi della Covid con anti infiammatori non steroidei (FANS). Poiché la malattia si manifesta con una fase virale (nei primi 3 giorni) e una infiammatoria successiva, che porta l'organismo a produrre citochine, molecole pro infiammatorie. Si è osservato che sono proprio queste ultime, quando in eccesso, a provocare sofferenza ai vari organi vitali oltre alla desaturazione polmonare. Da qui la raccomandazione di utilizzare i FANS al posto del semplice anti febbrile (paracetamolo) che porta con sè lo spiacevole effetto di ridurre le scorte organiche di glutatione, il prezioso antiossidante prodotto dal fegato che andrebbe, invece, potenziato durante ogni forma influenzale.

Quale antinfiammatorio?

Antinfiammatori, dunque. Quale è il più indicato contro il Covid? Durante i primi mesi di Covid i FANS venivano proposti indifferentemente, dall’acido acetilsalicilico all’ibuprofene. Di recente è stato pubblicato uno studio che ha osservato l’andamento della Covid in pazienti ospedalizzati: un gruppo è stato trattato con indometacina e l’altro con paracetamolo. L’indometacina è un antinfiammatorio approvato nel 1965.

Lo studio

Sono stati coinvolti 210 pazienti, ricoverati con positività al Sars-Cov-2 e con sintomi della Covid. Sono stati tutti trattati con più farmaci, citati nello studio, in aggiunta ai quali a 103 è stata data indometacina, a 107 paracetamolo.

Nel gruppo indometacina nessuno ha sviluppato desaturazione. D'altra parte, 20 dei 107 pazienti nel braccio paracetamolo hanno sviluppato desaturazione.

I pazienti che hanno ricevuto indometacina hanno anche sperimentato un sollievo sintomatico più rapido rispetto a quelli trattati con paracetamolo, con la maggior parte dei sintomi che sono scomparsi nella metà del tempo. Inoltre, 56 su 107 nel gruppo paracetamolo avevano febbre al settimo giorno, mentre nessun paziente nel gruppo indometacina aveva la febbre. Nessuno dei due gruppi ha riportato alcun evento avverso.

Il 40,3% dei pazienti trattati con indometacina è diventato negativo al virus al settimo giorno rispetto al 28,3% nel gruppo con paracetamolo.

L'obiettivo principale dello studio era comprendere l'efficacia dell'indometacina nel prevenire la desaturazione rispetto al paracetamolo. L'obiettivo secondario era valutare il sollievo sintomatico nei pazienti con indometacina rispetto ai pazienti con paracetamolo.

Il calo di prescrizioni di paracetamolo

C’è da precisare però che alcune Società scientifiche - oltre all’Aifa e all’OMS, raccomandano sempre di usare paracetamolo ai primi sintomi di Covid.

Un’indagine condotta da Società Italiana di Medicina Generale e delle Cure Primarie (SIMG), in collaborazione con il Dipartimento di Biotecnologie Biomediche e Medicina Traslazionale di Milano, ha valutato quanto il paracetamolo sia stato prescritto durante la Covid rispetto agli anni precedenti in cui imperversavano altre sindromi respiratorie.

Gli autori sono ricorsi a un database Health Search, che ha selezionato 747 medici di base, per un totale di quasi 1,2 milioni di pazienti, distribuiti in modo omogeneo sul territorio nazionale. Complessivamente, sono stati identificati 46.522 possibili casi di COVID-19 nel 2020 e 32.797 pazienti con sindromi respiratorie nel 2019.

I risultati hanno mostrato un calo di prescrizioni di paracetamolo per la cura dei sintomi da COVID-19 rispetto a quelle raccomandate in epoca pre-pandemica per il trattamento di altre sindromi respiratorie simili (33,4 ogni 1000 e 78,3 ogni 1000, rispettivamente).

Italia, il ministro della Salute annuncia la fine di tutte le restrizioni Covid. Valeria Casolaro su L'Indipendente il 6 Dicembre 2022

Il nuovo ministro della Salute Orazio Schillaci ha annunciato la prossima attuazione di una politica sanitaria di contrasto al Covid priva di obblighi vaccinali, seppur prudente, in linea con quanto promesso dalla premier Giorgia Meloni nel corso della campagna elettorale. Il ministro ha sottolineato come la situazione negli ospedali sia tornata «sotto controllo» e che al momento «vi sono temi sanitari più importanti e impellenti del virus», tra i quali il «rallentamento o addirittura la sospensione delle altre attività sanitarie» dovuta alla gestione dell’emergenza Covid fino ad ora, che ha compromesso «le iniziative di prevenzione, soprattutto in ambito oncologico». Pur ribadendo di non aver «mai messo in dubbio l’utilità dei vaccini» né dell’«obbligo di mascherina negli ospedali», Schillaci sostiene di voler puntare a un «nuovo approccio» che permetta di «responsabilizzare i cittadini, non di obbligarli».

Per quanto riguarda i vaccini, ha dichiarato il ministro nel corso di un’intervista al quotidiano Libero, «l’indicazione è nota: quarta dose per i fragili e vivamente consigliato il vaccino per l’influenza, che quest’anno può essere perfino più rischiosa. La speranza è che l’autunno prossimo si possa fare una sola iniezione, che copra sia Covid che influenza». Per quanto riguarda il reintegro dei medici no-vax, Schillaci commenta che «in tutto il resto del mondo erano già rientrati» e la loro prolungata assenza dal luogo di lavoro stava creando un «problema di organico» all’interno delle strutture. Sulla sentenza della Corte Costituzionale di qualche giorno fa relativa all’obbligo vaccinale introdotto dal governo Draghi Schillaci non si sbilancia, limitandosi a considerare che ormai «l’obbligo era terminato per quasi tutte le categorie nello scorso mese di giugno» e che l’attuale governo si è limitato ad anticiparne al 1° novembre la scadenza, prevista al 31, per il personale sanitario. [di Valeria Casolaro]

Indietro tutta sul Covid. Verso l’addio alle mascherine negli ospedali e multe cancellate per i No Vax. L'Inkiesta il 28 Ottobre 2022.

L’obbligo della Ffp2 nelle strutture sanitarie decade dal 1 novembre e il nuovo ministro della Salute Orazio Schillaci non ha ancora deciso se e come prorogarlo. Si valuta poi una norma nel decreto aiuti per evitare le sanzioni a chi tra gli over 50 non ha completato il ciclo vaccinale. Intanto la variante Cerberus fa paura

Cancellazione delle multe ai No vax, rinunciando all’incasso di 1 milione e 800mila euro per le sanzioni comminate a chi ha aggirato l’obbligo vaccinale. E poi ancora stop alle mascherine negli ospedali e nelle residenze per gli anziani. Il governo Meloni – scrive Repubblica – è pronto a smantellare le poche regole anti Covid rimaste ancora in vigore.

«Oggi la malattia è completamente diversa da quella che era una volta e quindi stiamo vedendo di fare in modo che ci possa essere il ritorno a una maggiore liberalizzazione», ha detto ieri  il neo ministro alla Salute Orazio Schillaci, durante le celebrazioni dei 40 anni dell’ateneo dove era rettore fino a pochi giorni fa, cioè Tor Vergata a Roma.

Schillaci sarebbe intanto pronto ad abolire l’obbligo di mascherina per chi entra nelle strutture sanitarie, cioè ospedali, ambulatori e residenze per anziani. Il primo novembre scade l’ordinanza che ha introdotto la misura, prorogata di un mese dal suo predecessore Roberto Speranza. Schillaci non dovrebbe rinnovarla. Anche se, ha spiegato: «Adesso vediamo, stiamo lavorando e riflettendo, sempre nel rispetto dei pazienti».

Non è una posizione comodissima, quella di Schillaci. Nel mondo della sanità in tanti vedono positivamente l’uso delle mascherine nei luoghi dove si trovano le persone più fragili, anche se non ci fosse il Covid. Quindi non è escluso che nei pochi giorni che mancano alla scadenza il ministro decida magari di mantenere le Ffp2 in certi reparti, dove ci sono le persone più a rischio.

Il punto è che la sua maggioranza vuole subito segnare la discontinuità rispetto alla gestione precedente e in molti non vedrebbero bene una nuova ordinanza proprio all’avvio del mandato del governo. Che Lega e Fratelli d’Italia puntino a mettere in discussione tutta la gestione del Covid (che comunque il partito di Salvini ha contribuito a organizzare in Lombardia e pure al governo) è dimostrato dalla richiesta dell’inchiesta parlamentare.

«È utile fare chiarezza su quanto successo dal punto di vista amministrativo, come detto dal presidente del Consiglio. Tutte le forze politiche sono d’accordo», ha detto Schillaci. Anche Pd e il Terzo polo in effetti hanno comunicato di essere pronti a partecipare alla commissione.

Ma ci sono anche altre misure nel cassetto del ministro. Ieri, sia la Lega che Fratelli d’Italia, con il ministro per i rapporti con il Parlamento Luca Ciriani, sono andati all’attacco delle multe per gli over 50 che non hanno concluso il primo ciclo vaccinale entro il 15 giugno. Saranno intanto sospese o addirittura cancellate, probabilmente con una norma nel decreto aiuti. Per ora stanno arrivando gli avvisi per permettere alle persone di chiarire la loro posizione e non le multe vere e proprie. Circa 1,3 milioni di atti sono già stati notificati e altri 600mila stanno partendo. Da fine novembre si sarebbe dovuto iniziare a spedire le sanzioni da 100 euro a 1,9 milioni di italiani. Ma molto probabilmente non verranno spedite.

L’obbligo di vaccinazione per il personale sanitario scade il 31 dicembre e di certo non verrà prorogato. Ma ci sarebbero voci nella maggioranza che chiedono di bloccare da subito l’obbligo.

C’è poi la questione delle mascherine nel lavoro privato. Un protocollo della parti sociali, in scadenza a fine mese, prevede che debbano indossarle i colleghi che non possono rispettare la distanza di sicurezza. Il 4 novembre ci sarà un incontro tra rappresentanti dei datori e dei lavoratori nel quale si potrebbe abolire la misura.

Intanto, la variante Cerberus del Covid-19 fa paura. La Germania ha vissuto un’ondata inaspettatamente alta a partire da settembre, con un picco di 136mila casi a metà ottobre. E l’aumento dei contagi è stato accompagnato da una crescita dei decessi importante: mercoledì erano 196. Il sospetto, avanzato tra gli altri dall’Institute for Health metrics and Evaluation dell’Università di Washington, è che il Paese abbia vissuto in anticipo l’ondata di BQ.1 (soprannominata dai social media Cerberus), che secondo l’European Centre for Disease Control diventerà predominante in Europa tra fine novembre e inizio dicembre. La variante ha infatti una buona abilità nell’evadere i nostri anticorpi e potrebbe portare a una nuova crescita dei contagi in tutto il continente.

Fine emergenza mai. Covid virus “satanico”: trattiamo i positivi da indemoniati. Non ci libereremo più dalla fobia da Covid: il caso della 20km di sci.  Claudio Romiti su Nicolaporro.it il 6 Dicembre 2022,

La sensazione che soprattutto in Italia non ci liberemo più della fobia da Covid viene costantemente rinforzata da ciò che passa attraverso la comunicazione di massa, in particolare quella televisiva. Domenica scorsa, assistendo alla partenza della spettacolare 20 km di sci di fondo, in quel di Lillehammer, Norvegia, ho appreso del forfait del grande favorito, il beniamino locale Johannes Klaebo.

Nel dare la notizia, l’ottimo Claudio Bragagna, uno dei migliori telecronisti sportivi della Rai, ha spiegato che il campione norvegese, a causa del riacutizzarsi di un fastidioso mal di gola, ha prudentemente deciso di non gareggiare. Tuttavia, ha aggiunto Bragagna, “tutto questo non ha niente a che fare con il contagio – intendendo il Covid – ma solo con i sintomi di un banale raffreddore o di una iniziale influenza, dal momento che Kleabo è risultato negativo al tampone”.

Quindi, par di capire da questo bizzarro ragionamento, se ti becchi il Covid in modo asintomatico o paucisintomatico, così come allo stesso Klaebo e a molti dei suoi compagni di squadra è capitato più volte in questi anni, è un grosso guaio, mentre se vieni interessato da malesseri con sintomi simili, ma risulti negativo al tampone, allora puoi decidere autonomamente se scendere in pista o meno, secondo una lunga consuetudine sportiva che, prima dell’arrivo del coronavirus, ha spesso consentito a molti campioni febbricitanti di gareggiare, a volte con grandi risultati, in condizioni non certo ottimali.

Ma da quando abbiamo incontrato il Sars- Cov-2 le cose hanno assunto un aspetto sempre più sinistro, ai limiti del satanico. Non conta infatti la relativa gravità del malessere che un soggetto, in questo caso uno sportivo di alto livello, manifesta, bensì ciò che appare dirimente è se sia stato o meno contagiato, se sia negativo o positivo al tampone molecolare, quello più attendibile, per il rilevamento della presenza del temutissimo coronavirus.

Da qui ne consegue che, non essendo rilevanti i sintomi ma solo la presenza anche solo di tracce del Sars-Cov-2, stiamo trattando i positivi al tampone come una sorta di soggetti posseduti dal demonio. Pertanto, visto che neppure i cinesi, pur adottando ogni forma di coercizione di massa, sono riusciti a bloccare la circolazione di un virus endemico e sempre meno aggressivo, a chi considera ancora tanto grave il rischio di prendersi il contagio, non resta che rivolgersi ad un esorcista, ma uno veramente bravo. 

I Maneskin no ma Jova sì: quando anche il contagio è ideologico. Francesca Galici l'11 Luglio 2022 su Il Giornale.

Per l'aumento dei contagi è stato chiesto di fermare il concerto dei Maneskin ma non quelli di Jovanotti: anche il Covid, in Italia, è selettivo

Che i contagi in Italia siano in aumento è un dato di fatto. Che lo siano a causa di eventi selettivi no, non lo è. Nei giorni scorsi si è sollevata la polemica per il concerto dei Maneskin a Roma, un evento straordinario che ha portato 70mila persone al Circo Massimo, ma non per i concerti del Jova beach party. Sembra che nel nostro Paese il virus sia più o meno contagioso a seconda dell'evento o, meglio, che sia più o meno contagioso a seconda di chi lo organizza.

Sì, perché le immagini che arrivano dalle spiagge dei concerti di Jovanotti non sono molto diverse rispetto a quelle del Circo Massimo, che a loro volta non sono state diverse rispetto a quelle del concerto Love-Mi di Fedez o dei concerti di Vasco Rossi o di tutti gli altri che, nelle ultime settimane, si sono esibiti negli stadi e nelle arene davanti a migliaia di persone. Quindi, perché per i Maneskin i medici hanno raccomandato di fermare il concerto?

"Cancellare il concerto? Senza senso". Bassetti sta coi Maneskin

Qualcuno potrebbe obiettare che il Love-Mi di Fedez e quelli di Vasco si sono svolti nei giorni precedenti all'esplosione dei contagi e che ora si cerchi di mettere un freno. Vero. Ma sabato 9 luglio, mentre i Maneskin si preparavano nei camerini a Roma, a Marina di Ravenna era già in corso il concerto di Jovanotti. E se ne terrà un altro mercoledì 13 ad Aosta e un altro ancora domenica ad Albenga e così via. Ma, chissà perché, le decine di migliaia di partecipanti degli eventi di Jovanotti non contagiano quanto quelle dei Maneskin.

Alzare l'asticella della precauzione per evitare nuove pressioni sugli ospedali ha senso ma non può, e non deve, essere una questione ideologica. E poi, sembra che l'Italia e i suoi soloni dell'ideologia cadano sempre nello stesso errore, se di errore vogliamo parlare. A essere investiti dal ruolo di "cattivi" in ogni nuova ondata di contagi sono comunque sempre i giovani e, ad analizzare la polemica sul concerto dei Maneskin, non si fa eccezione nemmeno stavolta. Jova è un eroe musicale per la generazione dei 40enni, è quello figo che dice sempre le cose giuste nel modo giusto, l'idolo dei buonisti che una volta erano ragazzi. L'età media del pubblico dei Maneskin è 20 anni e, come accade da ormai due anni, è contro di loro che si punta il dito. Dopo due anni di stop, dopo due anni di musica "spenta", c'è ancora chi ha da ridire. Non cambieremo mai.

L’Immunità di Gregge: esperto che vai, opinione in disaccordo che trovi.

É possibile l’immunità di gregge? Parlano gli esperti. Veronica Ortolano il 12/07/2022 su Notizie.it.

Alcuni esperti rispondono alla domanda se sia possibile o meno raggiungere l'immunità di gregge.

I contagi da Covid continuano ad aumentare e la paura che la pandemia non sia ormai solo un brutto sogno come si credeva porta tutti a chiedersi: è possibile raggiungere l’immunità di gregge?

É possibile l’immunità di gregge?

Per chi non lo sapesse, con immunità di gregge s’intende quel fenomeno per cui, una volta raggiunto un livello di copertura vaccinale, considerato sufficiente all’interno della popolazione, si possono considerare al sicuro anche le persone non vaccinate. 

Tenendo in considerazione anche la questione che il virus stia continuamente ancora variando, alcuni esperti provano a dare una risposta al quesito.

Bassetti: “L’immunità di gregge non si raggiungerà mai”

Il primo tra questi è Matteo Bassetti, direttore della Clinica di Malattie infettive del Policlinico San Martino di Genova:

“L’immunità di gregge non si raggiungerà mai perché il virus di Covid continua a mutare. Noi l’abbiamo imparata a conoscere con un virus che era sempre lo stesso e con un vaccino che era in grado di ridurre significativamente i contagi e la malattia grave, per esempio quello del morbillo. Però non possiamo usare per Sars-CoV-2 l’espressione immunità di gregge perché è un virus respiratorio che continua a cambiare, mentre l’R0 del morbillo è sempre stato di 18. Mentre con Sars-CoV-2 era prima 2, poi 20 e magari domani sarà 30. Dobbiamo ragionare sull’immunità per le forme gravi di malattia Covid e questa l’abbiamo già raggiunta”.

Aggiunge poi:

“Tra chi è vaccinato con tripla dose, più i guariti dal Covid una o due volte, ogni volta mettiamo un paletto in più e una difesa in più contro l’autostrada iniziale con cui il virus entrava nei polmoni. Oggi il virus ci entra meno e siamo di fronte ad una immunità contro le forme gravi di malattia Covid, direi 98-99% della popolazione”.

Gismondo e l’immunità di gregge: “Impossibile prevederlo ora”

Altro studioso a voler dire la sua sulla possibilità o meno di raggiungere questo obiettivo è Maria Rita Gismondo, direttrice del Laboratorio di microbiologia clinica, virologia e diagnostica delle bioemergenze dell’ospedale Sacco di Milano:

“Non è possibile prevederlo adesso, dipenderà dalle mutazioni future del virus. E comunque l’immunità naturale sarà sempre superiore a quella conferita da vaccini vecchi. Questo virus è tutto ancora da scoprire nelle evoluzioni che avrà, premette l’esperta. Tuttavia, possiamo sempre guardare a quella che è stata la storia delle pandemie, che sono finite solo quando il virus si è diffuso, si è creata un’immunità e la maggior parte della popolazione si è trovata protetta”.

Stando alle parole della microbiologa, forse una speranza c’è:

“Io credo che in questa fase in cui Sars-CoV-2 si sta diffondendo così significativamente, possiamo aspettarci che la popolazione rimanga immune e che la pandemia possa finire. Ripeto, è un pensiero di esperto che si fonda su quelle che sono le conoscenze e su quella che è la storia delle pandemie. Se poi questo virus si comporterà diversamente, certamente non lo posso prevedere”.

L’immunità ad onde di Pregliasco

Cosa ne pensa, invece, il virologo Fabrizio Pregliasco, docente di Igiene dell’università Statale di Milano e direttore sanitario dell’Irccs Galeazzi?

“Non un’immunità di gregge intesa come azzeramento della possibilità di contagiarsi, bensì un’immunità intesa come periodica riduzione della quota di popolazione suscettibile all’infezione. Considerate le caratteristiche di mutevolezza e imprevedibilità di Sars-CoV-2, un’immunità a onde è l’unica possibile contro Covid-19”.

Insomma, possiamo agire regolando la lunghezza delle ‘onde buone‘, ossia quelle che abbracciano la fetta più consistente di popolazione protetta grazie alla vaccinazione.

“Per descrivere la forma di immunità alla quale mi riferisco prendo in considerazione l’andamento epidemico fatto di onde di salita e di discesa a cui stiamo assistendo, onde come quelle create da un sasso buttato in uno stagno. Periodi come questo, con “Omicron 5 super contagiosa, una grossa quota di popolazione suscettibile all’infezione e i ‘rubinetti’ dei movimenti e dei contatti sociali molto aperti. E periodi successivi in cui per 4-6 mesi dall’infezione o dalla vaccinazione una quota maggiore di soggetti rimarrà immune”.

Inoltre:

“Ancora nuove varianti nei cui confronti sarà maggiore la quota di persone suscettibili, che ancora una volta si ridurrà con vaccinazioni e/o infezione naturale. Sarà un po’ come con l’influenza, che non colpisce ogni anno le stesse persone, ma quelle non immuni perché non sono vaccinate o perché non la fanno da un pò”. 

L’invito è comunque sempre lo stesso:

“Bisogna stare sempre in guardia, perché se apri l’acqua calda di botto è più facile scottarsi e ti ritrovi con una quantità di soggetti contemporaneamente malati difficile da gestire”.

La Vecchia: “Che delusione quest’immunità di gregge”

A dire la sua, infine, è l’epidemiologo Carlo La Vecchia, docente all’università Statale di Milano:

“Il progetto dell’immunità di gregge per sconfiggere Covid-19 si è rivelato una grande delusione. Quando all’inizio siamo andati a fare il vaccino, tutti noi abbiamo sperato che l’avremmo raggiunta, arrivando prima a un 80% di copertura, poi al 90-95%. Come per il morbillo, abbiamo sperato che la malattia sparisse. Invece non è stato così, il target è stato corretto al rialzo, mentre si passava di variante in variante, ma per un nulla di fatto. E il ‘dramma’ per l’immunità di gregge, quello che ha smantellato i piani iniziali, è stato la variante Omicron”.

Immunità di gregge, ancora non ci siamo.  Aureliano Stingi su La Repubblica il 7 febbraio 2022.  

Se ne parla da due anni ma non è ancora stata raggiunta. È possibile farlo? E cosa si intende esattamente con questo termine? Facciamo chiarezza

A due anni dall'inizio della pandemia la tanto ambita ed agognata immunità di gregge (herd immunity) non è stata ancora raggiunta. Cosa si intende esattamente con immunità di gregge? Perché è difficile da raggiungere? Potremo mai raggiungerla?

L'incendio nella foresta

Per comprendere il concetto di immunità di gregge possiamo usare un parallelismo: immaginate che l'infezione virale sia un incendio che divampa in una foresta. Se la foresta viene regolarmente pulita e il materiale infiammabile rimosso allora il fuoco avrà vita breve. Al contrario, se la foresta è piena di materiale infiammabile il fuoco può espandersi velocemente e con facilità. Possiamo immaginare che il virus si comporti in maniera simile al fuoco, espandendosi dove trova terreno fertile, cioè materiale da bruciare. In questo parallelismo il terreno fertile ricco di combustibile è rappresentato dai soggetti non immunizzati, suscettibili dal punto di vista immunitario. Diversamente, in un contesto abitato soltanto da soggetti immunizzati (guariti o vaccinati), il virus non potrà circolare liberamente perché non troverà materiale da bruciare, cioè soggetti suscettibili all'infezione.

Cosa non ha funzionato?

Prendiamo un esempio noto a tutti: l'Italia. In Italia ormai la maggior parte della popolazione è vaccinata con 3 dosi di vaccino e moltissimi italiani hanno contratto il virus in passato e ne sono guariti. Nonostante queste percentuali altissime di protezione la variante Omicron ha infettato milioni di persone nelle scorse settimane e continuerà a farlo (sempre con minore intensità) nelle prossime. Possiamo quindi dedurre che non abbiamo raggiunto l'immunità di gregge. Come mai?

Principalmente, per due motivi: varianti immuno-evasive e decadenza degli anticorpi (waning anticorpale). Abbiamo imparato che il Sars-CoV2, essendo un virus a RNA, muta moltissimo e che queste mutazioni casuali possono fornire dei vantaggi al virus. Ad esempio, la variante Omicron è caratterizzata dal più alto numero (fino ad ora) di mutazioni sulla proteina Spike. La Spike è quella proteina che il virus utilizza per entrare nelle nostre cellule ed iniziare l'infezione che poi da luogo alla Covid19.

Numerose mutazioni sulla proteina Spike possono "distrarre e confondere" i nostri anticorpi neutralizzanti, deputati appunto alla neutralizzazione del virus. Immaginiamo il virus come un invasore e immaginiamo che il nostro esercito, il sistema immunitario, si sia addestrato osservando un identikit fornito dal vaccino. Ora immaginate che lo stesso invasore si mimetizzi e usi dei travestimenti, questo renderà il nostro esercito meno reattivo e pronto all'attacco. Le varianti di Sars-CoV2 riescono in questo modo ad evadere parzialmente la risposta immunitaria, rendendo difficile raggiungere l'immunità di gregge. 

Il secondo elemento che ci ha impedito di raggiungere l'immunità di gregge riguarda i nostri anticorpi. Il vaccino e l'infezione da Sars-CoV2 alzano moltissimo il livello di anticorpi neutralizzanti nel nostro sangue rendendoci immuni da una seconda infezione (almeno per qualche settimana).

Purtroppo con il passare delle settimane il livello di anticorpi neutralizzanti decresce (waning anticorpale), rendendoci sempre più suscettibili alla reinfezione. Fortunatamente il nostro sistema immunitario non è costituito solo da anticorpi neutralizzanti infatti, anche a distanza di mesi dalla vaccinazione, continuiamo ad essere protetti da malattia grave e morte grazie ad altri elementi del sistema immunitario, come le cellule B memoria e i linfociti T.

Quindi non raggiungeremo mai l'immunità di gregge?

Abbiamo capito che il raggiungimento dell'immunità di gregge non è questione di tempo o di numero di vaccinati o guariti ma è una questione più complessa. I coronavirus sono noti per la loro abilità di reinfezione e per l'alto tasso di mutazioni quindi per combatterli abbiamo bisogno di strumenti diversi.

I vaccini attuali usati fino ad oggi sono stati eccellenti nel proteggerci da malattia grave, ospedalizzazione e morte ma per ottenere l'immunità di gregge abbiamo bisogno di vaccini diversi.

Affinché si possa raggiungere l'immunità di gregge i nuovi vaccini devono avere almeno due caratteristiche: devono essere in grado di offrire protezione nei confronti di tutte le varianti (presenti e future); e

devono fornire l'immunità sterilizzante, cioè proteggere dall'infezione e, di conseguenza, impedire la trasmissione del virus.

Attualmente sono in studio entrambi i tipi di vaccini citati: il vaccino pan-coronavirus e il vaccino spray. Non dimentichiamoci che l'immunità di gregge a livello globale sarà raggiunta soltanto quando in tutto il mondo sarà raggiunto lo stesso livello di vaccinazione. Diversamente, esisteranno sempre aree nelle quali il virus circolerà indisturbato creando varianti.

1) L'immunità di gregge si ottiene quando si raggiunge un numero sufficientemente alto di soggetti vaccinati o guariti, che impedisce la circolazione di un patogeno

2) Attualmente con Sars-CoV2 non abbiamo ancora raggiunto l'immunità di gregge

3) Varianti immuno-evasive e waning anticorpale impediscono il raggiungimento dell'immunità di gregge

4) I vaccini pan-coronavirus e i vaccini spray potrebbero permetterci di raggiungere l'immunità di gregge a patto che siano distribuiti ovunque

Covid, Rezza: “Immunità di gregge? Sogno infranto, avremo endemia a basso impatto”. Pubblicato da RIFday  il 17 giugno 2022

Il sogno dell’immunità di gregge per il Sars CoV 2, a lungo vagheggiato, va considerato perduto. A dirlo, intervenendo al World Health Summit Regional Meeting, forum mondiale sulla salute ospitato in questi giorni dall’università Sapienza di Roma e promossa dalla rete M8 Alliance of Academic Health Centers, è Gianni Rezza, direttore generale Prevenzione del ministero della Salute (nella foto).

Per l’alto dirigente del ministero si va piuttosto  “verso uno stato di endemia in cui ci aspettiamo che ci saranno delle ondate ricorrenti, ma di portata e intensità limitata e a basso impatto clinico”, cioè con basso rischio di casi gravi, “perché grazie ai vaccini siamo protetti dalla malattia grave”. EQuesto, per Rezza, lo scenario che con ogni probabilità ci attende: un mondo in cui Sars CoV 2 è un virus endemico e in cui sarà necessario “un uso selettivo delle mascherine”, limitato per esempio a certi contesti.

Anche ora, ha affermato Rezza,  è possibile che ci sia “una nuova ondata”, complici le ultime sottovarianti Omicron (BA.5 in particolare), ma con le caratteristiche citate, cioè un’intensità più limitata, e basso impatto clinico.

Covid, Locatelli: “Grave errore far circolare il virus”. Chiara Nava il 10/07/2022 su Notizie.it.

Franco Locatelli, presidente del Consiglio Superiore di Sanità, ha spiegato che è un grave errore far circolare il virus. 

Il presidente del Consiglio Superiore di Sanità, Franco Locatelli, ha spiegato che è un grave errore la decisione di far circolare il virus e che non si dovrebbe neanche ipotizzare in una situazione epidemiologica come quella di questo momento. 

Franco Locatelli, presidente del Consiglio Superiore di Sanità, in un’intervista al Corriere della Sera, ha spiegato che in una situazione epidemiologica come questa non si dovrebbe neppure ipotizzare di poter lasciare libero il virus. “Studi autorevoli dimostrano che anche gli asintomatici contribuiscono alla sua diffusione” ha dichiarato, spiegando che bisogna indossare le mascherine quando è raccomandato e indicato negli spazi chiusi, come sui mezzi di trasporto, e anche all’aperto quando si creano degli assembramenti.

“La circolazione virale è aumentata, l’occupazione dei letti nelle aree mediche e, in minor misura, nelle rianimazioni è cresciuta. Le agenzie europee Ema e Ecdc, inserendosi nel solco tracciato dall’Italia (che già offriva il secondo richiamo a ultra 80enni e a 60-79enni con patologie concomitanti) si sono orientate a indicarla ai 60enni, anche sani, e a tutti i fragili in ogni età” ha aggiunto l’esperto. 

Covid, Locatelli: “Abbiamo numeri in crescita”

Secondo Locatelli è meglio non aspettare i nuovi vaccini aggiornati. “La risposta immunitaria generata dai vaccini oggi disponibili protegge largamente da malattia grave o pericolosa per la vita. Non ritardiamo una copertura aspettando i nuovi vaccini bivalenti, contenenti anche il ceppo virale oggi circolante oltre a quello originario. Sarebbe un grande errore” ha spiegato. Per quanto riguarda i ricoveri in ospedale, Locatelli ha spiegato che “abbiamo numeri in crescita“. Ha aggiunto che in molti ospedali sono state attivate o saranno presto attivate le unità di crisi per essere pronti a incrementare i posti letto nei reparti Covid. 

Omicron, la nefasta profezia di Fabrizio Pregliasco: “Immunità di gregge utopia”. E in tv litiga con Giuseppe Cruciani. Libero Quotidiano l'08 luglio 2022

Continua a salire il numero dei contagi da Omicron 5 e così sarà ancora almeno per due settimane, poi una tregua, un calo e di nuovo un’ondata. La previsione è del virologo Fabrizio Pregliasco, che ha parlato del Covid come di un problema “tutt’altro che archiviato. Ci sarà questa ondata ma anche altre. La speranza è che non arrivano varianti molto cattive, e quindi che le prossime saranno come le onde provocate da un sasso lanciato nello stagno, con la tendenza a ridursi”. Di questo passo, non si potrà parlare mai di immunità di gregge con l’arrivo di sempre nuove varianti: “No. Questo virus che si modifica e che è così instabile ci frega andrà avanti a fasi alterne. Il nostro sistema immunitario riconosce l’identikit del cattivo, ma se il cattivo si camuffa, lo riconosciamo con minore efficacia. La stessa cosa che avviene per il virus”. 

Il virologo è stato inoltre ospite della puntata del 7 luglio di Zona Bianca, il talk show di Rete4 condotto da Giuseppe Brindisi, nella quale ha avuto un aspro confronto con il giornalista Giuseppe Cruciani. Il tema del contendere è stata la proposta di Pregliasco di rinviare il concerto dei Maneskin a Roma a causa dell’ampia diffusione del virus in questi giorni. “Volevi fermare il concerto dei Maneskin in questi giorni. Volevi fermare e rinviare il concerto dei Maneskin” l’accusa di Cruciani, che coglie di sorpresa il medico: "È una polemica inutile, una polemica inutile". 

“"Hai detto che era meglio rinviarlo”, non molla il conduttore de La Zanzara. "Io dico che sarebbe stato meglio...". Ma Cruciani è un fiume in piena e non gli dà tregua: "Ma c'è un concerto degli Iron Maiden a Bologna, con 60mila persone". "Ma lo facciano, lo facciano... Siamo arrivati a una normalità, però è un rischio", cerca di giustificarsi Pregliasco. Cruciani perde definitivamente le staffe: "Ma rischio di cosa? Ci avete fatto una testa così che all'aperto si poteva fare. Non è stato mai provato che i concerti portino le infezioni, non c'è nessuna prova". "È un fatto generalizzato…", prova a concludere il virologo.

"Vaccini completamente neutralizzati": Andrea Crisanti, la sua drammatica teoria sul siero. Andrea Cappelli su Libero Quotidiano il 10 luglio 2022

Di fronte all'impennata estiva dei contagi Covid tanto vale che i giovani si infettino, sviluppando una malattia lieve e contribuendo all'immunità di gregge. A esprimere questo concetto è stato Andrea Crisanti, ospite della trasmissione L'aria che tira (La7), dove gli è stato chiesto di commentare l'appello dei medici di famiglia che per ragioni sanitarie nei gironi scorsi hanno chiesto il rinvio del concerto della band rock Maneskin, previsto per domani al Circo Massimo di Roma.

BASTA CLAUSURA

L'opinione del virologo - da inquadrare ovviamente in questo contesto - obbedisce a una logica stringente: «Innanzitutto penso ci sia una fatica sociale a accettare misure come quelle che abbiamo utilizzato fino adesso. Con questo virus, che ha un indice di trasmissione tra 12 e 15, non c'è nessuna norma che sia in grado di contenerlo a livello di popolazione". Partendo da queste premesse, se oggi60.000 giovani si scateneranno sotto il palco dei Maneskin, con buona probabilità una parte di essi «si infetterà, sviluppando una malattia molto lieve che contribuirà all'immunità».

Al di là di ogni ipocrisia, va detto che ogni giorno in Italia vengono organizzati concerti e attività sociali, dove il rischio contagio non è inferiore a quello a cui ci si esporrebbe andando ad ascoltare la band romana: «Il fatto che il virus circoli non è necessariamente negativo perché supplisce al fatto che le persone non si sono vaccinate. La vera sfida sarebbe quella di proteggere i fragili con misure concertate e coerenti, cosa che non facciamo».

Insomma, anziché limitare la libertà dei giovani, le istituzioni dovrebbero preoccuparsi di garantire adeguate misure a protezione dei più anziani e delle persone affette da patologie serie, ovvero alle categorie sanità. In molti altri Paesi quest' obbligo è decaduto». Quanto all'utilizzo della mascherina, al di là dei casi in cui ci si trova a contatto con persone fragili e anziani sopra gli 80 anni, per la dottoressa dell'ospedale Sacco di Milano «finisce per risultare addirittura controproducente». Consentire al virus di circolare in forma blanda, infatti, potrebbe portare al raggiungimento di «quell'immunità naturale che tanto auspichiamo e che ci preserva meglio delle vaccinazioni».

D'altro canto, Gismondo si è detta sicura del fatto che oggi le persone rifiuterebbero un nuovo lockdown, che resta quindi un provvedimento «impossibile da proporre e attuare».

IN VISTA GUAI PEGGIORI

più esposte ai pericoli di un eventuale contagio Covid. A condividere tale approccio è Maria Rita Gismondo, per la quale «l'isolamento dei positivi sta creando problemi anche in La pensa in maniera diversa Massimo Galli, per il quale i fragili dovrebbero fare la quarta dose di vaccino «al più presto», a partire dagli over 60 e 70. L'ex primario dell'ospedale Sacco, inoltre, punta il dito contro chi - 150.000 non denunciala propria positività al Covid, «allargando sempre più il numero delle infezioni. Se non teniamo conto del problema rischiamo di trovar- 120.000 ci in guai peggiori, bloccando totalmente le attività. Vediamo quanto sta accadendo negli ospedali, dove molto persona- - 90.000 le si è ammalato e questo crea disagi e una situazione incresciosa».

Controcorrente, Matteo Bassetti imbarazza Speranza: "L'unica cosa che sa fare", cosa non torna sul Covid. Libero Quotidiano il 09 luglio 2022

Matteo Bassetti è intervenuto a Controcorrente, su Rete4, per fare il punto della situazione sul Covid, con la nuova ondata che sta travolgendo l’Italia, anche se senza fare i danni del recente passato. Il noto infettivologo si è occupato innanzitutto di quello che è diventato il caso del giorno: il concerto dei Maneskin, che ha sollevato perplessità di sedicenti esperti per la presenza di circa 70mila spettatori al Circo Massimo.

“Non credo che a quel concerto vada la nonna ottantenne - ha esordito Bassetti - fondamentalmente oggi i ragazzi non devono andare ai Covid party, ma se sono vaccinati e si contagiano dov’è il problema? Questo virus più circola e più crea immunità naturale. C’è un lavoro che sarà pubblicato a brevissimo che dimostra come l’immunità generata dalla malattia naturale copra nei confronti della malattia grave nel 98% dei casi e per 14 mesi”. 

Inoltre Bassetti ha criticato il ministro Roberto Speranza e le misure sull’isolamento: “Tutta Europa è andata nella direzione di fare come con le altre malattie infettive: quando stai male stai a casa, quando i sintomi non ce li hai più puoi andare a lavoro ma indossando la mascherina. Non puoi dire che metti tutti in isolamento per un certo numero di giorni, quello che dopo due giorni sta bene perché dovrebbe restarci? Finiamola di avere la tamponite acuta e cerchiamo di convivere con il virus: pare che il ministro sappia solo ascoltare chi i filosofi della salute, chi i malati non li ha mai visti…”.

Alessandra Ziniti per “la Repubblica” l'11 luglio 2022.

In Italia l'isolamento per i positivi resta obbligatorio. Se si prende il Covid in viaggio, anche se a pochi chilometri da casa, si resta bloccati almeno per 7 giorni. 

 Dunque, se un tampone rivela la positività ci si deve fermare, nella casa di vacanza o nell'hotel in cui ci si trova, a proprie spese, fino a tampone negativo, anche da asintomatici. I Covid hotel ormai sono dismessi quasi ovunque. 

Vietato in teoria anche salire su un'auto da soli e tornare a casa. Familiari o amici con cui si viaggia, invece, se vaccinati, possono muoversi indossando la Ffp2.

Da Madrid alle Canarie, da Barcellona alle Baleari, svicolare da positivi è certamente a portata di mano. Per salire su aerei, treni, navi o bus non serve più nè Green Pass nè test e ai positivi è solo raccomandato di evitare al massimo le interazioni sociali e usare la mascherina. 

Dunque, anche da positivi, se ci si sente in condizione di viaggiare, ci si può muovere e tornare a casa. Qualsiasi pronto soccorso o presidio medico pubblico è anche a disposizione dei turisti che ne avessero bisogno.

Nel Regno Unito ormai da tempo non esiste più alcuna limitazione se non quella del buon senso. I positivi possono circolare liberamente. Dunque nessun problema per chi, in Inghilterra per vacanza, dovesse contagiarsi. 

Si può rimanere in casa o in hotel fino a quando si ritiene, andare in giro appena ci si sente meglio, e prendere l'aereo quando è previsto. Le autorità sanitarie raccomandano soltanto di rimanere a casa e di evitare contatti stretti con persone fragili per 5 giorni e portare la mascherina.

È uno dei pochi Paesi europei in cui per entrare serve ancora il Green Pass se si è vaccinati con ciclo completo o un test negativo se non si è vaccinati. Ma per chi vuole andare in vacanza in Francia meglio dotarsi di assicurazione. Se ci si ammala, è obbligatorio l'isolamento per 7 giorni che diventano 5 senza sintomi e con un test negativo) e la sistemazione, in casa o hotel, è a carico del turista. Non sono previste strutture pubbliche per ospitarli, solo gli ospedali in caso di necessità. Impossibile rimettersi in viaggio se non ci si è negativizzati.

Isolamento obbligatorio almeno per cinque giorni, a partire da quello successivo alla diagnosi, per chi si scopre positivo in Grecia. Il turista dovrà sbrigarsela da solo, provvedendo a trovare una struttura dove osservare la quarantena. 

Vietato rientrare in Italia, per amici o familiari a contatto obbligatoria la mascherina per 10 giorni. L'ambasciata suggerisce di compilare sempre il modulo Passenger locator form necessario per ottenere il certificato di tampone negativo e poter ripartire.

Vacanze o viaggio d'affari, senza vaccino negli Stati Uniti non si entra, tranne che per i minorenni. Gli Usa hanno tolto l'obbligo di test negativo 48 ore prima dell'arrivo ma oltre all'Esta (il visto di ingresso) serve il certificato di vaccinazione. Ed è assolutamente consigliato partire con un'assicurazione in tasca. Se ci si ammala, cinque giorni di isolamento (e dunque di sistemazione a proprie spese) sono obbligatori e l'assistenza sanitaria è a pagamento. Non si potrà tornare in Italia senza essere prima guariti.

Il virus delle bugie e i veri numeri sui ricoveri gravi. Nicola Porro l'11 Luglio 2022 su Il Giornale.

È incredibile quanto l'abitudine sia un potente isolante. Ci siamo abituati al Covid come peste del secolo e non vogliamo rinunciare alla paura che esso incute.  

È incredibile quanto l'abitudine sia un potente isolante. Ci siamo abituati al Covid come peste del secolo e non vogliamo rinunciare alla paura che esso incute. C'è chi pensa che ci sia anche lo zampino interessato di alcuni politici, che hanno fatto i conti con una società spaventata e dunque controllata. D'altra parte quando hai inserito una dose di veleno nel corpaccione molle delle nostre società, impaurite appunto, è difficile trovare un immediato antidoto. E così oggi i responsabili massimi dell'informazione pandemica ci mettono ancora paura. «Non dobbiamo far circolare il virus» dicono Locatelli e Brusaferro. Dobbiamo prevedere controlli e restrizioni. Nuove dosi di vaccino, minori contatti interpersonali, pochi concerti e pochi scherzi, il nemico ti guarda. Poi ti accorgi che gli stessi che ti mettono paura hanno commesso un errore. Hanno commissionato una ricerca ad Antonino Giarratano, che presiede la società scientifica di anestesisti, rianimatori e terapisti del dolore. «Questa indagine ha rivelato Giarratano ieri al Corriere della Sera, nascosto in un boxino a fondo pagina - ci restituisce un dato qualitativo: chi sono i pazienti delle rianimazioni? Sono in rianimazione a causa del Covid o sono solo incidentalmente risultati positivi? Se nelle prime tre ondate oltre il 90% dei positivi era in terapia intensiva per polmonite grave oggi il 70-80% dei degenti è ricoverato per altre serie patologie ed è solo positivo al test». Avete capito cosa sostiene? Che quando i giornali vi dicono allarme terapie intensive, scrivono di fatto una falsità. Le terapie intensive sono popolate, purtroppo, da pazienti: ma non per colpa del Covid. Una gran parte saranno pure positivi al Covid, ma non è per quella ragione che sono in terapia intensiva. Si ha come l'impressione che non si voglia mollare la stagione dell'emergenza sanitaria, che le star del sistema vogliano continuare a parlare e dettare legge e comportamenti, e che la politica possa usare la pandemia come pannicello freddo per calmare i prossimi bollori.

La verità è che ad ottobre ci attende una vera emergenza: quella energetica. La Germania già sta tagliando le forniture. Noi come i tedeschi siamo a rischio di vedere non solo i riscaldamenti, ma gran parte della nostra industria manifatturiera in terapia intensiva alla canna del gas. E questi giocano con la paura del contagio ai concerti dei Maneskin. Roba da pazzi.

Covid, Hoara Borselli: “La liturgia del terrore non va in vacanza”. Hoara Borselli, Giornalista, su Il Riformista il 30 Giugno 2022 

Siamo ripiombati nella solita narrazione liturgica del terrore sul Covid.

È innegabile che ci sia un’ondata di contagi dalla variante Omicron 5, si contano circa un milione di positivi. Ma la domanda che mi pongo è la seguente: quando si può iniziare veramente ad affrontare questo virus come una malattia endemica ed abbandonare definitivamente quel clima di emergenza perenne che vuole renderci tutti dei pazienti a vita? È giusto o no fomentare un clima di allerta ed instillare negli italiani la convinzione che questo virus sarà per noi una costante minaccia?

A leggere i titoli di oggi che campeggiano sulle prime pagine dei principali quotidiani nazionali sembra che si voglia persistere nel dire che nulla è cambiato. Ci sono stati i vaccini, c’è ormai un atteggiamento consapevole rispetto alle precauzioni individuali, ma tutto questo non basta per dire che forse qualcosa è cambiato.

Che l’approccio deve essere diverso ce lo dice il Primario del reparto di malattie infettive dell’Ospedale San Martino di Genova, Bassetti. Dobbiamo mentalizzarci a trattare come endemia quella che fino a ieri era una pandemia.

Questa mattina ero presente con lui in un dibattito durante la trasmissione Morning News e ha ribadito senza alcuna esitazione che continuare a trasmettere bollettini giornalieri con numeri e percentuali è deleterio.

Lo è per le persone che si sentono divise in due fazioni, i buoni che non si riescono a staccare dalle mascherine e che si sentono quindi ancora in pericolo e i cattivi che invece stanno affrontando anche questa ondata con la consapevolezza di viverla senza allarmismi e che hanno abbandonato il feticcio sul volto.

Ha tuonato a gran voce che i numeri non indicano nulla perché le terapie intensive sono occupate per l’80% da fragili che hanno altre patologie e si sono poi scoperti “anche” positivi al Covid. Detta così è un po’ diversa la narrazione non trovate? Essere contagiati non vuol dire essere malati.

Leggendo però la grande stampa è palese che non c’è alcun interesse a far si che si vogliano tranquillizzare gli italiani. Vi riporto qualche titolo di oggi.

“Messaggero”: Tornano le mascherine al chiuso? L’assessore alla sanità del Lazio: “Chiederò l’obbligo al governo”.

“La Stampa”: Crisanti: «La nuova ondata? Sarà come una vaccinazione di massa. Basta tamponi fai-da-te, serve un’indagine sui positivi» E ancora sul “Messaggero”: virologi si dividono mentre riesplodono i contagi

Capite che tutto questo non fa altro che da cassa di risonanza alla paura. Sembra essere tornati indietro di mesi. Sembra che i vaccini non siano mai esistiti. È anche su questo che il Professore Bassetti ha lanciato un allarme.

“Questa campagna di terrore mediatico sarà deleteria per la prossima campagna vaccinale. Lancia un messaggio pericolosissimo. Sta dicendo agli italiani che nonostante i vaccini le terapie intensive di riempiono. È chiaro che tutto ciò porterà le persone a non fidarsi più quando verranno chiamate a sottoporsi all’inoculazione autunnale”.

Non so quale interesse possa esserci dietro la necessità di dover reiterare nel tenere gli italiani incatenati nella morsa della paura, qualunque esso sia, rischia di creare danni enormi.

A livello psicologico e alla nostra economia, con un turismo che rischia di bloccarsi se continuiamo ad offrire al mondo, l’immagine dell’Italia come di un Paese perennemente in stato di emergenza.

Buon senso. Finalmente stiamo reagendo alle nuove ondate di Covid come una società adulta. Gilberto Corbellini e Alberto Mingardi su L'Inkiesta il 5 Luglio 2022.

La variante dominante è diversa da quella con cui ci siamo confrontati la prima volta nel febbraio 2020, meno letale e più gestibile. Con test autosomministrati e autosorveglianza, i cittadini stanno mostrando il giusto equilibrio tra la tutela della salute e la vita quotidiana. Con buona pace dei virologi da talk show

Aumentano i casi di Covid-19 e mai come questa volta i numeri sono sottostimati. Chi risulta positivo deve isolarsi per sette (se vaccinato) o dieci giorni (se non ha completato il ciclo vaccinale). Indipendentemente dal loro stato di salute, le persone rispondono agli incentivi e, in questo caso, il disincentivo è chiarissimo: se fai un test in farmacia o in una struttura ambulatoriale od ospedaliera, e risulti positivo, ti consegni all’isolamento prima e alla burocrazia poi. Comprensibilmente, prevale la scelta di farsi un’autodiagnosi e poi gestire in autonomia la propria condizione, proteggendo i propri contatti, incluse le situazioni, frequenti, in cui la quasi mancanza di sintomi non limita la capacità di svolgere qualche attività in un contesto sociale.

Come già in passato, la diffusione di test di autodiagnosi (uguali in tutto e per tutto a quelli somministrati in farmacia) fa scattare il riflesso condizionato degli esperti. È stato chiesto di vietarne la vendita, con argomenti che sono un insulto all’intelligenza delle persone e denunciano un’inclinazione verso il totalitarismo sanitario.

Ciononostante questa ondata di Covid-19 (quale sia, abbiamo perso il conto, e avrebbe forse più senso usare, al posto delle onde, la metafora di un incendio che persiste sottotraccia e si riaccende con ricorrenze non regolari) è per ora caratterizzata da bassa mortalità e gli ospedali rimangono sotto controllo. Se si confrontano i numeri di nuovi casi e decessi nei giorni e settimane da gennaio a oggi, si vede che non c’è una relazione diretta e costante tra il numero di casi e i decessi, e considerando che il numero di positivi oggi è largamente sottostimato, questo significa che la mortalità è cambiata perché il virus e i suoi ospiti sono biologicamente diversi rispetto a sei mesi fa e ancor di più rispetto a un anno e mezzo o più fa.

Il catastrofismo è una merce che si vende bene e il mantra che circola è che coi numeri saliranno anche le ospedalizzazioni e i ricoveri in terapia intensiva. Può darsi, ma la domanda è di quanto e per quanto. Non troppo diversamente, non c’è un esperto televisivamente riconosciuto come tale che non preveda che con l’autunno ci sarà un’altra ripresa dell’incendio da Covid-19. Può darsi, ma dipende dalle condizioni in cui ci troveremo.

Si tratta di ragionamenti di senso comune, quasi tautologici, ma solo apparentemente veri. Il virus in circolazione, la variante dominante, è diversa da quella con cui ci siamo confrontati la prima volta nel febbraio 2020, e anche da quelle che hanno spazzato l’Italia dal novembre 2020 all’aprile 2021 e nell’inverno scorso. Il virus evolve naturalmente e quindi sono prevedibili nuove varianti. Simmetricamente, diverse sono le caratteristiche della popolazione che incontra: che ha una memoria immunitaria abbastanza diffusa anche se fluttuante sul piano individuale, in quanto è vaccinata in modo completo per oltre l’80% e con almeno una dose per l’85%. Una parte si è anche vaccinata una o più volte contraendo naturalmente l’infezione. In quanto popolazioni biologiche umane, abbiamo stabilito col virus e la malattia nelle sue diverse forme delle interazioni storiche che cambiano lo scenario fenomenologico che ci dobbiamo aspettare.

Tant’è che, a non andare per il sottile, le stesse sfumature del catastrofismo sono diverse oggi che in passato: mentre il catastrofista continua ad auspicare restrizioni crescenti, oggi lo fa in nome della protezione dei fragili e non più della speranza di eradicare il virus. Al momento non esiste una strategia sanitaria per portare gli anziani ai vaccini né per portare i vaccini agli anziani. La calura estiva, la stanchezza psicologica e il crollo della fiducia in larga parte della popolazione anziana verso la sanità pubblica rendono difficile, in assenza di figure come il generale Figliuolo, il successo della raccomandazione. Peraltro, dato che è in arrivo un nuovo vaccino che si sta dimostrando efficace, negli studi in corso, contro le varianti Omicron in molti probabilmente preferiranno aspettare.

La lezione di questi giorni a noi pare questa: le epidemie, in particolare quelle dove la trasmissione avviene per via aerea o per contatto, si debbono affrontare facendo conto anche e soprattutto sulla responsabilità individuale. Possono essere usate e sono state usate per ridurre il perimetro della libertà individuale: ma questo è un riflesso ideologico, non una prescrizione di sanità pubblica.

È importante che i test per autodiagnosi siano venduti in grande quantità: vuol dire che sono le persone che, alla comparsa di qualche sintomo o in corrispondenza del contatto con una persona risultata positiva, scelgono di testarsi. E sono presumibilmente le stesse persone che, se positive, prendono quelle misure di cautela necessarie per tutelare i loro cari. Vorremmo fosse chiaro: questo era l’obiettivo, miseramente fallito, dei complicatissimi piani basati su sistemi di test & tracing che sono stati immaginati dall’inizio della pandemia in avanti. Oggi ci pensano le persone, da sole. Lo fanno sulla base della loro sintomatologia e non del loro status vaccinale: sono, cioè, più efficienti ed etiche del Green Pass!

Agli occhi dell’esperto, ovviamente questo è il peggiore dei mondi possibili. È anarchia, egli dice, una salute pubblica lasciata al buon senso degli individui. In realtà, molto semplicemente, a due anni dalla sua comparsa Sars-Cov-2 è diventato un virus come tutti gli altri, col quale ci comportiamo esattamente come con tutti gli altri. C’è chi per l’influenza passa una settimana a letto e chi prende due pastiglie e va al lavoro. I comportamenti sono diversi perché diversi siamo noi: la nostra condizione fisica, la nostra sensibilità o immunità a questo o a quel patogeno, i nostri valori, etc.

Test autosomministrati e autosorveglianza: non è che forse siamo tornati alla normalità? Non è uno scenario da scongiurare. Soprattutto perché adesso non abbiamo solo i vaccini, ma anche un farmaco, Paxlovid, approvato dalle autorità di regolazione, che se preso con i primi sintomi evita gli scenari peggiori. Purtroppo, la burocrazia di Aifa impedisce che il farmaco sia prescritto e usato in modi efficaci ed efficienti, ragion per cui pur avendone acquistate 600mila dosi, ne è stato usato solo il 3%. Un ulteriore esempio che i problemi non nascono dai comportamenti delle persone, ma dall’ossessione burocratica del controllo esercitato su misure e scelte che possono funzionare solo trovando spontaneamente una loro regolazione.

Il ritorno sui giornali di virologi ed epidemiologi prelude a una campagna d’autunno per la quarta dose. Che auspichiamo diversa dalle precedenti: per una questione infrastrutturale e soprattutto perché sarà difficile convincere di nuovo tutta la popolazione a sottoporsi al vaccino. Purtroppo, e malgrado il vaccino abbia salvato vite e rimesso in moto la convivenza civile, lo scetticismo verso i vaccini è aumentato. E a questo dobbiamo ringraziare il disgraziato presenzialismo, la litigiosità e il narcisismo patologico degli esperti che sono andati in scena sui media. Adesso abbiamo un farmaco, l’abitudine dei singoli a verificare, autonomamente, il proprio stato di salute, una memoria immunitaria a medio termine. I vaccini dovrebbero far parte di una strategia di cauto contrasto, non diventare l’occasione per una nuova crociata. Dalla quale purtroppo di nuovo non uscirebbe bene una scienza trasformata in caricatura liberticida, dai suoi stessi pretesi difensori.

Giuseppe Lo Stracco, il sindaco morto al San Raffaele: inchiesta sull'equipe di Zangrillo. Libero Quotidiano il 04 dicembre 2022

"Omicidio colposo". La Procura di Milano ha aperto una inchiesta sulla morte di Giuseppe Lo Stracco, sindaco di Bugnara (Comune in provincia dell'Aquila, in Abruzzo) deceduto sabato mattina all'ospedale San Raffaele di Milano. Lo Stracco, 63 anni, era ricoverato dal mese di settembre a seguito di un intervento chirurgico: le sue condizioni, delicate, si sono poi aggravate drammaticamente a causa probabilmente di una infezione contratta in sala operatoria. 

Lo Stracco era affetto da un problema congenito all'aorta. Era stato proprio il primo cittadino a insistere fortemente affinché a operarlo fosse l'equipe del professor Alberto Zangrillo, primario dell'unità operativa di Anestesia e rianimazione generale, Cardio-toraco-vascolare e dell'Area unica di terapia intensiva cardiologica e cardiochirurgica, referente direzionale aree cliniche dell'Irccs ospedale San Raffaele di Milano. "Una settimana, massimo dieci giorni e sono di nuovo a casa", aveva detto ai collaboratori prima di partire per Milano. 

L'intervento, ha spiegato l'equipe stessa, era riuscito. Ma dopo qualche giorno il quadro clinico si è aggravato fino al decesso. Un dramma su cui proverà far luce la magistratura, che segue due piste: infezione da batterio scatenata durante l'intervento chirurgico oppure cattiva pratica sanitaria.

Covid, Zangrillo su Twitter: "Lavativi seriali gli asintomatici che non lavorano per settimane". E scoppia la polemica. Federica Angeli su La Repubblica l'8 Luglio 2022.

L'accusa del docente del San Raffaele e medico personale di Berlusconi. Il dibattito acceso sui social ruota attorno alle due tesi: immunità di gregge o ancora quarantena per i positivi?

"Accade che lavativi seriali, positivi al test Covid-19, non lavorino per settimane, sebbene asintomatici. Così si distrugge il Paese". A sollevare la questione, intervenendo sul tema dei positivi asintomatici in questi giorni di impennata dei contagi Covid, è Alberto Zangrillo, prorettore dell'università Vita-Salute San Raffaele di Milano e direttore del Dipartimento di anestesia e terapia intensiva dell'Irccs ospedale San Raffaele. "Così si distrugge il Paese", scrive in un tweet.

"Ma il virus non era clinicamente morto?"

Un fiume di polemiche sono seguite in risposta al suo tweet che ha però conquistato oltre 3000 cuori e 785 rtw. "Beh strano. Non avevi detto - 2 anni fa - che il virus era clinicamente morto? Saranno lavativi per altri motivi sicuramente", scrive caustica Chrissie. Tantissimi i riferimenti al suo legame con Silvio Berlusconi e ai certificati medici firmati nel corso di alcune udienze del processo. "Ha ragione - scrive Ares, ma come lui in tanti - Pensa che c'era uno addirittura che fingeva di essere malato con la complicità di un medico connivente per non andare a processo. La rovina dell'Italia".

Immunità di gregge o prudenza?

Il botta e risposta che da ieri si sono concentrati attorno al tweet non sono altro che lo specchio di un dibattito che già in un recente passato aveva spaccato l'opinione di medici, esperti, epidemiologi e infettivologi - e quella di politici che cavalcano l'argomento - sulla immunità di gregge e dunque sulla necessità di interrompere quarantene anche per i positivi e chi invece tiene fermo il punto sull'importanza di continuare ad isolarsi, anche se asintomatici per preservare i più fragili.

Chi frena e chi propende per il no all'isolamento

"Credo che siamo molto vicini a questo traguardo. D'altronde l'obiettivo è quello della convivenza con il virus e se parliamo di convivenza non possiamo che rimuovere anche l'isolamento per i positivi", aveva detto meno di un mese fa il sottosegretario alla Salute Andrea Costa. Per Massimo Galli, già direttore del reparto malattie infettive dell'ospedale Sacco di Milano, "dai numeri della pandemia che vediamo in questi giorni, non possiamo escludere che il virus stia portando a una nuova ondata".

Galli: "Molti al lavoro anche se positivi, ci vuole responsabilità"

"Oggi i casi di Covid sono molti più di quelli ufficiali perché una larga fascia di persone non denuncia la propria positività, o non ne è consapevole perché ha sintomi lievi o inesistenti. E troppo spesso le persone che si sono infettate vanno a lavorare magari sollecitati, in alcuni contesti, anche dai datori di lavoro a non denunciare il proprio stato. Questo allarga sempre di più il numero di infezioni e si rischia la paralisi delle attività, che possono ritrovarsi con tutto il personale malato". Galli sottolinea l'importanza, soprattutto in questa fase pandemica con una variante così diffusiva, di "rendere noto il proprio stato di contagiato, tutelando gli altri e anche le attività lavorative stesse. Se non teniamo conto del problema rischiamo di trovarci in guai peggiori, bloccando totalmente le attività. Vediamo, ad esempio, quanto sta accadendo negli ospedali dove molto personale si è ammalato e questo crea disagi e una situazione particolarmente incresciosa".

Zangrillo: "Gli asintomatici? Dei lavativi seriali". Bufera per il tweet (ma l'Italia rischia lo stop). Enza Cusmai il 9 Luglio 2022 su Il Giornale.

Il medico contro l'eccesso di precauzione. Burioni: "Problema centrale".

Il tweet è di quelli che colpiscono nel segno. «Accade che lavativi seriali, positivi al test Covid-19, non lavorino per settimane, sebbene asintomatici. Così si distrugge il Paese». La frase, sintetica, lapidaria, è scritta da Alberto Zangrillo, prorettore dell'Università Vita Salute San Raffaele di Milano, direttore del Dipartimento di anestesia e terapia intensiva dell'Irccs ospedale San Raffaele nonché medico personale di Silvio Berlusconi e rimbalza dopo l'allarme della Fondazione Gimbe che prevede un lockdown di fatto visto l'alto numero degli infetti in circolazione.

E questo scenario induce a serie riflessioni. Ha ancora senso restare chiusi per 7 o 10 giorni prima di poter tornare al lavoro anche se non hai uno straccio di sintomo? Ha ancora senso fare milioni di tamponi per stanare anche gli asintomatici quando nel resto d'Europa non c'è la corsa all'untore a tutti costi? È vero che esistono i soliti fannulloni che ne approfittano pure della pandemia per incrociare le braccia, ma non sono forse le regole generali che vanno modificate?

La prima risposta, la più qualificata, arriva dal virologo Roberto Burioni: «Alberto pone un problema estremamente importante che dovrebbe essere scientificamente all'ordine del giorno e non lo è». La sua analisi è realistica: «Partiamo da un presupposto: di questo virus, a meno di vaccini miracolosi al momento non in vista, non ci libereremo mai. Potevamo sperarlo nella primavera del 2021, quando non conoscevamo ancora la capacità di questo virus di generare nuove varianti e potevamo sperare in un'immunità di gregge che potesse far fare a questo virus la fine del morbillo. Ora sappiamo che non è così: con il Covid al 99,9% dovremo convivere per l'eternità, come con l'influenza. Diventa dunque importante chiarire un punto fondamentale: per quanti giorni una persona che si è ammalata deve essere isolata? Ci sono recenti ricerche che approfondiscono questi aspetti, ma è necessario impegnarsi in maniera intensa nel chiarire i dettagli dell'infettività dei positivi perché questi dati sono a questo punto importantissimi. Ovviamente non possiamo lasciare in circolazione persone contagiose; allo stesso tempo non possiamo permetterci come società di privarci del lavoro di troppe persone per un eccesso di precauzione. Dopo i vaccini e gli antivirali è giunto il momento di capire come unire le esigenze di sicurezza sanitaria con quelle economiche, sociali e culturali del Paese. Come bilanciarle è compito della politica: ma i dati sui quali decidere deve fornirli la scienza».

Anche la gente comune si schiera con Zangrillo. Vuole l'allentamento della quarantena. Sembra ormai una cosa ovvia. «Il sistema del primo Covid va aggiustato, abbiamo medicine e vaccino, il virus è meno pericoloso, la politica deve cambiare le regole», scrivono. Oppure: «È il sistema sanitario che non ti permette di andare al lavoro: io ho fatto 20 giorni di positività, sebbene non avessi sintomi dal quarto giorno, ma non potevo uscire», conferma un follower. «Prof, se non ci fosse l'obbligo di aspettare la negativizzazione, ma dopo 3 giorni dalla scomparsa dei sintomi si tornasse alla vita normale, senza fare ulteriori tamponi, i lavativi seriali non avrebbero vita facile». E ancora: «Prima di dare la colpa ai singoli, chiediamoci chi ha reso legittimi tali comportamenti. Il paese viene distrutto da chi fa le norme, non da chi le applica. Se non si chiude definitivamente l'emergenza e tutto il circo mediatico che ci ruota attorno, non ne usciamo».

Trivaccinati, ammalati e contenti. Max Del Papa su Nicolaporro.it il 9 Maggio 2022.

Se non è vera è ben raccontata. Medico di prontosoccorso, vaccinatrice (o vaccinatora?), tridose (o trifase, come i contatori?), dopo una settimana dall’ultima siringa rantola in consulenza specialistica con polmonite interstiziale, compromessa. Le chiedono: come ti stai curando?. Risponde: niente, niente, vigile attesa, deve fare il suo corso (da Twitter). Eh, quando si dice la rimozione forzata, la forza dell’ideologia, della fede nel ministro Speranza di ispirazione sovietico-cinese. In attesa di capire se sia vera o ben raccontata, ci penserà qualche cane da tartufo per brevità chiamato debunker, possiamo senz’altro attribuire il crisma della verità alla condizione di Selvaggia Lucarelli, visto che ipse dixit: anche lei tre dosi, positiva, ma sollevata: se non avevo fatto tre vaccini stavo messa peggio. Poi dà la colpa ai non vaccinati: confusa e felice, proprio, mai uno straccio d’autocritica.

Ma su questa trascurabile leonessa da tastiera non vale la pena di sprecare righe, magari ci torniamo un attimo sul finale, quello che conta è l’ostinazione di regime: non cedono, e il mondo ragionante ebbene che si fotta. Quarta dose, paraculescamente chiamata doppio booster, come il doppio brodo. Serve? No, se con tre ci si casca, figurarsi con quattro cinque sei. Ma è precisamente l’incantesimo dell’ideologia: se la realtà non torna, la schiacciamo, la tritiamo a bastonate ancora più micidiali di ideologia, alla fine la realtà si arrenderà. È così che si arriva a fare i dieci, i quaranta milioni di morti tra balzi in avanti, piani quinquennali, sterminii di mugiki. È il controfattuale alla vaccinara, l’evidenza è contro di me ma io sono contro l’evidenza e marcio risolutamente sul sentier dell’avvenire rovinoso.

Niente, non cedono, sentite qui il Pregliasco, uno che paventava, o aspettava, i millanta morti al giorno e ancora canta balla e smarrona in tivù: “La crescita delle reinfezioni può sembrare marginale in questa fase, ma prova che la pandemia non è finita e che dopo l’estate potrebbe tornare preoccupante”. Eddai, questa è speranza, minuscolo. Hanno scoperto l’immortalità del business e non mollano, se tutto si riduce a un raffreddore, come è, restano privi di risorse, ma di brutto. E rilanciano: “La quarta dose in questo quadro diventa fondamentale per gli anziani e in prospettiva per tutti”. In prospettiva sapete dove dovete andare?

Sarebbe da ricordare la credibilità di cui gode questa gente a dimensione scientifica internazionale, ma stendiamo un camice pietoso; le tre dosi non hanno funzionato, il boss di Pfitzer, Bourla, un nome una garanzia, è arrivato a dire che finora non sapevano bene neanche loro cosa ci avevano ficcato dentro e con quali conseguenze, “ma con le dosi successive andrà meglio”. Arrivarci. Intanto sgorgano notizie leggermente agghiaccianti quanto a effetti collaterali e qui non c’è bisogno del debunker da tartufi, è tutta roba ufficiale, depositata all’Ema, l’agenzia europea del farmaco. E ci sono i numeri, ci sono i settecento e passa casi di atleti dalla carriera finita perché hanno il cuore stroncato, ci sono i morti sospetti, e usiamo eufemismo e vigile attesa, ci sono i centoquarantamila trapassi italiani che probabilmente si potevano evitare o almeno tamponare, c’è lo sfascio progressivo di una sanità sul territorio abbandonata a se stessa per le assurde strategie governative riferite al Covid, ci sono le voci dissenzienti, al solito sputtanate e silenziate, c’è un miliardo di cose che non tornano. Ma che fa? Gli italiani sono assuefatti, la propaganda non gli serve più. Entro nei supermercati, nei negozi e regolarmente sono l’unico senza e mi guardano come un criminale e hanno ragione loro, è la forza del numero.

Aveva ragione anche il regime che sapeva cosa faceva, l’esperimento sociale, o meglio asociale, è pienamente riuscito: tu schiacciali come merde e loro non reagiranno. Liberissimi di continuare a portarla a vita, la maschera, anche “sotto il sole che spacca in quattro” come diceva l’allenatore di basket Dan Peterson. Cosa che oltretutto fa a pugni con la scienza che non la ritiene più necessaria. Perché lo fanno? Non lo sanno neanche loro. Perché non si sa mai. Perché tanto male non fa (non è vero). Perché è meglio. In cosa credono gli italiani? Nella superstizione e nel governo che maledicono ma che cercano di mungere mentre ne vengono munti, sono fideisti che vanno in chiesa ma tengono la cabala sul comodino e Dio lo pregano per fare i soldi o per far morire chi odiano, come aveva capito benissimo Paolo Villaggio. Il ballo in maschera non finisce e non finirà, questo popolo feroce nelle cose minime, imbelle in quelle importanti non ama la libertà e la detesta in chi se la permette.

Tutti plurivaccinati, supermascherati e tutti positivi: bene così anzi occorre insistere, se una cosa non serve la si fa con maggiore vigore, “non si sa mai”. A forza di non sapere mai, nessuno sa più cosa sta facendo. Cosa saranno le spiagge, tra un paio di mesi? Per due anni ho scritto contro questo regime che costringeva i miei connazionali: non avevo capito niente, i miei connazionali erano, sono felicissimi di farsi umiliare, sono quelli che fanno la spia, che si vantano di essere ortodossi oltre il limite della scemenza. Il regime c’è, ma se lo tengono stretto e se si lamentano è solo per un riflesso condizionato, per dire qualcosa.

Dicono: ma è presto, poi col tempo tutti si riabitueranno a fare senza. Davvero? Presto dopo ventisei mesi? Lo hanno chiamato ritorno alla normalità ma non c’è ritorno e non c’è normalità, c’è solo l’ordinarietà del manicomio. In giro con pezzuole tossiche che dovrebbero respingere il raffreddore e invece lo fanno venire, scatenano riniti, allergie, asme, complicazioni. Uscendo imbufalito dal supermercato mi veniva un altro pensiero: dove sarebbero tutti questi nomask se, decaduto l’obbligo, non se ne trova uno? Mentivano, alla prova dei fatti si sono rivelati dei cialtroni. Novax, nomask, ma di facciata: alla fine fanno quello che gli viene comandato anche quando nessuno glielo comanda. A proposito della Lucarelli, trivaccinata, confusa e felice: il fatto che una di caratura tanto modesta faccia tendenza la dice lunga non tanto su di lei, quanto sul Paese che la rende ricca e sovraesposta. Max Del Papa, 9 maggio 2022

Il libro bomba che ha sconvolto i Senatori italiani. Il Professor Mariano Bizzarri mette a fuoco il “Covid 19. Un’epidemia da decodificare”. Carlo Franza il 7 maggio 2022 su Il Giornale.

Scrive questo libro il Professor Mariano Bizzarri tra i più illustri e importanti ricercatori italiani in oncologia e professore Ordinario all’Università Statale La Sapienza di Roma, contrario al Green Pass. Per l’esperto, il certificato verde “non ha alcun fondamento scientifico. In teoria, il Green Pass dovrebbe essere un documento che attesta la non infettività della persona, ottenuta tramite vaccino o certificata dall’esecuzione di un tampone. Però il tampone ci dà informazioni limitate. Inoltre, oggi sappiamo che anche il vaccinato può tornare a infettarsi ed essere fonte di infezione. Dunque a che serve il Green Pass?”, si è chiesto Bizzarri in un’intervista a La Verità. E veniamo al libro in questione, titolo “Covid-19. Un’epidemia da decodificare. Tra realtà e disinformazione”, uscito nella collana Medico/Saggi dell’Editore Byoblu in questi giorni del 2022.  Un libro bomba, l’ho letto in due giorni. Al convegno della Commissione Dupre, che si è svolto sabato scorso a Roma, era presenta anche Mariano Bizzarri. Nel corso dell’intervista il professore ha rilasciato un commento sul libro appena uscito per le Edizioni Byoblu che si avvale della prefazione di Massimo Cacciari. Dice Bizzarri: “Nel mio libro non esprimo opinioni, mi limito a ricostruire un insieme di scientifici pubblicati, verificati, riconfermati che, in qualche modo, vanno a mettere in discussione molti dei capisaldi di quella che è stata la narrativa mainstream”. Ma il Professor Mariano Bizzarri è stato chiamato dal Senatore Paragone nell’Aula del Senato anche a parlare ed esporre con documenti   e dati scientifici alla mano sulla questione COVID 19. Lezione sorprendente, perché   Mariano Bizzarri, professore di Patologia clinica alla Sapienza di Roma, coordinatore del System biology group laboratory, a sentirlo parlare e per quanto ha detto ha lasciato basiti tutti i Senatori, specie quando ha significato di essere in linea con quanto disse l’illustre scienziato Luc Montagnier, a suo tempo da taluni definito pazzo.

“L’emergenza nata con l’epidemia da Covid-19 sembra poter giustificare ogni arbitrio, pretendendo di basarsi sul possesso di verità scientifiche incontrovertibili. Ma chi crede di possedere la verità è nemico del dubbio, del dialogo, della discussione. Esperti e autorità stanno finalmente riconoscendo che qualcosa non torna nel bilancio di morti e positivi su cui hanno costruito una narrativa funzionale alla instaurazione di un regime di emergenza continuata. Ma dietro tutto questo – partendo da come è nato il virus tra le nebbie di Wuhan fino a come ci si è attrezzati per affrontarlo – crescono dubbi e preoccupazioni. Nel frattempo, mentre l’epidemia procede per suo conto sfornando varianti meno aggressive, stanno emergendo dati nuovi che suscitano inquietudine circa gli effetti avversi da vaccino, in special modo se riferiti alle fasce più giovani della popolazione, quelle che – per definizione – meno hanno da temere dall’infezione da Covid-19. Qualcuno dovrà risponderne. Dovrà decodificarne ogni aspetto. Ci attende un vero e proprio tsunami di disperate razionalizzazioni, faticose negazioni, spudorati tentativi di modificare le responsabilità e altre forme di inverosimili tentativi di difesa dell’indifendibile. Ma alla fine, la verità salterà fuori” (M. Cacciari). Il professor Mariano Bizzarri è un illustrissimo scienziato, in attività tutti i giorni dell’anno, autore di studi facilmente rintracciabili e diversi leggibili in rete, persona seria e di fama mondiale che ha chiamato, non a caso, Massimo Cacciari a scrivere, per questo suo libro, un saggio sulla pandemia.

E’ da riflettere su queste parole di Massimo Cacciari: “… a fronte di dati incontrovertibili, sempre più suffragati da miriadi di ricercatori (la letteratura scientifica internazionale cui il libro si fonda è ultra esauriente) le politiche seguite hanno insistito sull’unico fronte delle chiusure, degli obblighi urbi et orbi, della vaccinazione di massa (la domanda varrebbe anche se l’efficacia del vaccino fosse assoluta?). Ci si trova quasi di fronte a un riflesso condizionato. …  il fenomeno della paura … che implica il fuggire di fronte al pericolo, non di affrontarlo… la fuga che abbiamo sperimentato, il precipitarsi cioè, per la via di fuga: blocchi e inflazione caotica, irrazionale di norme, a prescindere da ogni altra valutazione di ordine giuridico, sociale, culturale (valutazioni sempre inascoltate o avvertite con assoluto fastidio). La via “autoritaria” è in questo caso l’espressione di una profonda crisi del “sovrano”, non di una sua precisa volontà, tantomeno di una strategia politica.” Da ciò Cacciari arrivare a sostenere che questa crisi del “sovrano”  per un verso  rassicura, in quanto   deresponsabilizzante, facendo subentrare al comando, il “meccanismo”, “dall’altro indica un pericolo ancora maggiore per lo Stato di diritto, così come finora lo si è inteso (frainteso)” ( parole di  Cacciari). Conclude il filosofo: “Se è il “meccanismo” a comandare, che potere possono avere le tradizionali forme di organizzazione politica, sempre strettamente connesse a logiche identitarie? Parlo dell’evoluzione “naturale” dei sistemi politici verso forme in cui la procedura tecnico-amministrativa fagocita in sé la rappresentanza politica, fino all’identificarsi delle due dimensioni.” E l’attento filosofo veneziano arriva alla conclusione, che porta dritto allo storico ottocentesco Jacob Burckhardt studioso dei processi politici e sociali, sostenendo che la negazione della complessità è l’essenza della tirannia, come in tal senso ha pure significato il novello Nobel Giorgio Parisi, all’Accademia dei Lincei. Già “il meccanismo”, a ciò si sono affidati i governi della pandemia, perché affidarsi al “meccanismo” è stato un negare la complessità del problema e della situazione, dall’inizio fino alla fine.  A leggere il libro del Professor Mariano Bizzarri con risultati scientifici in esso indicati ed enucleati, si noterà che il succo del libro e l’intervento di Cacciari costituiscono la condanna della Ragione, e per il “meccanismo” di cui si è detto con politici e ministri che sproloquiavano sul Covid 19 a tutte le ore del giorno, si sono viste figure del mondo scientifico attivo addirittura essere indicate e infilate nel partito della deriva antiscientifica dei dubbiosi. Roba da Medioevo. Carlo Franza

Lo schiaffo dell’Oms a Speranza: la Svezia senza lockdown ha gestito la pandemia meglio dell’Italia. Valter Delle Donne sabato 7 Maggio 2022 su Il Secolo d'Italia.

Avvertite il ministro Speranza, Andrea Scanzi, il professor Galli e i teorici delle chiusure draconiane. La Svezia ha registrato uno dei più bassi tassi di mortalità per pandemia in Europa, nonostante il suo rifiuto di imporre lockdown, green pass e controlli polizieschi sui cittadini. I numeri arrivano da una fonte al di sopra di ogni sospetto: l’Organizzazione Mondiale della Sanità. 

Dei 194 paesi esaminati dall’agenzia sanitaria dell’Onu, il tasso di morte per pandemia della Svezia è al centounesimo posto con 56 decessi per 100.000. Un dato nettamente al di sotto della media di 90. Pone anche la Svezia al di sotto della maggior parte delle altre grandi nazioni europee che hanno chiuso più volte, come l’Italia (133 morti ogni centomila persone), la Germania (116), la Spagna (111), la Gran Bretagna (109), il Portogallo (100), i Paesi Bassi (85), il Belgio (77) e la Francia (63).

Come ricorderanno i lettori, la scelta aveva attirato l’ira di molti “esperti”: nel 2020 le autorità sanitarie svedesi avevano scelto di non imporre i lockdown, affidandosi invece al buon senso dei propri cittadini. Non era stata imposta neanche la mascherina obbligatoria. Erano rimaste aperti anche scuole, bar e ristoranti. Ovviamente a nessuno è venuto in mente di imporre green pass o altri sistemi poliezieschi. Come aveva testimoniato al Secolo.it un’italiana residente a Stoccolma, anche i media nazionali avevano scelto un approccio mediatico più sobrio, meno terroristico nella diffusione dei contagi.

Quando Scanzi sulla Svezia senza lockdown diceva: “Moriranno come mosche…”

Qualche altro esempio? La stessa Greta Thunberg, la ragazzina svedese più famosa del mondo, andava in giro per centri commerciali e negozi senza indossare alcuna mascherina. Eppure, c’erano giornalisti italiani come Andrea Scanzi che riportavano notizie catastrofiche tipo: “Gli svedesi stanno morendo come mosche”. Alcuni media dipingevano Anders Tegnell, il responsabile della gestione della pandemia in Svezia, come una specie di scienziato pazzo. Eppure il 9 marzo scorso, nel silenzio dei media italiani, è stato chiamato dall’Oms a Ginevra.

Tegnell, il responsabile svedese della gestione della pandemia promosso dall’Oms a Ginevra

Tegnell, che ha 65 anni, coordinerà il lavoro dell’OMS con l’Unicef e l’organizzazione di vaccini Gavi, per mettere a disposizione dei preparati anti-Covid ai Paesi che non sono stati in grado di acquistarne. Niente male per uno “scienziato pazzo”.

Leggendo i dati di oggi, i paragoni con l’Italia balzano agli occhi: la Svezia non si è mai fermata completamente. Ha consigliato alle persone sopra i 70 anni e ai gruppi a rischio di evitare i contatti sociali. Ha inoltre raccomandato a chi poteva di lavorare da casa, di lavarsi le mani regolarmente. Di attuare un distanziamento fisico di due metri e di evitare viaggi non indispensabili. Scuole e asili sono rimasti sempre aperti, così come i negozi e molte aziende, compresi ristoranti e bar. Oggi arrivano i dati ufficiali dell’Oms, che devono far riflettere. Qualcuno avverta il ministro Speranza e i suoi consiglieri.

Svezia catastrofica sul Covid? “Italia peggio con i lockdown di Speranza”, accusa il virologo Silvestri. Lucio Meo mercoledì 13 Aprile 2022 su Il Secolo d'Italia.

“La strategia della Svezia contro il Covid è stata un “fallimento”. Ad affermarlo uno studio scientifico realizzato a due anni dai primi contagi e pubblicato sulla rivista ‘Humanities & Social Sciences Communications‘ tramite Nature.com. Secondo il rapporto – realizzato da un team di scienziati, giornalisti e medici – la Svezia era ben attrezzata per evitare che la pandemia di Covid-19 diventasse grave. Durante il 2020, tuttavia, il Paese ha registrato tassi di mortalità per virus Sars-CoV-2 dieci volte più elevati rispetto alla vicina Norvegia. Non solo: sarebbe stato accertato che a molte persone anziane è stata somministrata morfina al posto dell’ossigeno, che i bambini sono stati usati per diffondere il virus e che la popolazione svedese è stata tenuta all’oscuro anche delle norme anti contagio più basilari.

La Svezia e i presunti errori dei suoi politici

“Sosteniamo che una metodologia scientifica non sia stata seguita dalle principali autorità in carica – e dai politici responsabili – con narrazioni alternative considerate valide, con conseguenti decisioni politiche arbitrarie”, si legge nello studio, che tra i motivi del fallimento evidenzia il fatto che “nel 2014, l’Agenzia di sanità pubblica è stata fusa con l’Istituto per il controllo delle malattie infettive e la prima decisione rilevante assunta dal nuovo capo, Johan Carlson, è stata quella di licenziare e trasferire i sei professori dell’autorità al Karolinska Institutet, svuotando di fatto l’Agenzia delle necessarie capacità ed esperienza” per affrontare un’emergenza sanitaria come quella del Covid.

“La strategia pandemica svedese sembrava mirata a raggiungere un’immunità di gregge naturale e a evitare una chiusura della società. L’Agenzia per la salute pubblica ha etichettato i consigli degli scienziati nazionali e delle autorità internazionali come posizioni estreme, con il risultato che i media e gli organi politici hanno accettato la loro politica”.

Quindi le accuse più pesanti: “Il popolo svedese è stato tenuto all’oscuro di fatti di basilari come la possibilità di trasmissione aerea di SARS-CoV-2, che gli individui asintomatici possono essere contagiosi e che le mascherine proteggono sia chi le indossa che gli altri”. Inoltre “a molte persone anziane è stata somministrata morfina invece dell’ossigeno nonostante le scorte disponibili, ponendo fine alla loro vita”.

“Se la Svezia vuole fare meglio nelle future pandemie – si legge nell’abstract della pubblicazione – il metodo scientifico deve essere ristabilito, anche all’interno dell’Agenzia di sanità pubblica. Probabilmente farebbe una grande differenza se venisse ricreato un Istituto separato e indipendente per il controllo delle malattie infettive. Raccomandiamo che la Svezia avvii un processo autocritico sulla sua cultura politica e sulla mancanza di responsabilità dei decisori per evitare futuri fallimenti, come è accaduto con la pandemia di COVID-19″

Ma Silvestri smaschera lo studio: “Italia molto peggio e con più lockdown

“L’articolo non lo dice: in Svezia 1.809 morti per 1 milione di abitanti, senza mai un lockdown, contro i 2.670 dell’Italia dei super-lockdown, delle scuole chiuse per mesi, dei coprifuoco e delle mascherine all’aperto”. Lo sottolinea Guido Silvestri, virologo dell’Emory University e presiedente del board internazionale di esperti dell’Inmi Spallanzani di Roma, commentando su Facebook lo studio di ‘Nature’ che ha esaminato, bocciandolo, il modello svedese di lotta al Covid.

“Giratela come vi pare, ma con questi numeri sarà dura anche per i più incalliti chiusuristi far passare la narrazione (di comodo) – rimarca – per cui in Svezia c’è stata una catastrofe mentre l’Italia l’ha scampata grazie alla ‘prudenza speranziana'”. 

Svezia senza lockdown con meno morti di noi e l’economia salva. Ma i media che contano dicono il contrario. Valter Delle Donne venerdì 13 Novembre 2020 su Il Secolo d'Italia.

La foto che state vedendo in copertina ritrae una via del centro di Stoccolma. Gente che fa lo shopping, gli addobbi del Natale già allestiti. È datata martedì 10 novembre 2020. Tenetelo presente mentre leggerete questo articolo. Ecco come si vive in Svezia senza lockdown. Nonostante la pandemia.

La Svezia, come ormai tutti sanno, è l’unica nazione europea a non aver mai effettuato il lockdown. Ha raccomandato agli over 70 di restare in casa (e loro lo hanno fatto). E ha dato le raccomandazioni sull’igiene e il distanziamento, che tutti ormai sappiamo a memoria.

In questo modo, ha evitato il crollo dell’economia che ha riguardato tutti gli altri Paesi. Il Pil è calato solo del 8,6%. Rispetto all’Italia una media da champagne. Non a caso il Ceo della prima banca svedese ha parlato di una situazione incoraggiante. Una media migliore di tutta l’Eurozona. Per non parlare della nostra economia: nel secondo trimestre l’Istat ha infatti certificato un drammatico -12, 4%.

In questi giorni, però, sui media italiani si stanno infittendo le notizie apocalittiche relativamente alla Svezia. Tenetevi forte: sono quasi tutte fake news.

In Svezia fanno morire gli anziani? Una bufala sparata anche da Burioni

La principale, sparata persino dal virologo Roberto Burioni, circola da sette mesi. La Svezia lascerebbe morire gli anziani malati di Covid. Lo riportava l’altro giorno persino la newsletter della Federazione dei medici. In realtà, un quotidiano svedese, ad aprile ha scritto di una circolare interna relativa a un singolo ospedale (uno solo) il Karolinska di Stoccolma. I pazienti con un’età “biologica” superiore agli ottant’anni verrebbero dopo rispetto ad altri pazienti. Il documento si riferiva al caso estremo di “posti esauriti” in terapia intensiva. Eventualità che non si è mai verificata finora, in Svezia, in nessun ospedale. Il documento, sintetizzato brutalmente, suggeriva di privilegiare chi avesse superiori aspettative di vita. Insomma, chi scegliere in caso di opzione estrema, tra più malati da soccorrere? Tra un bambino e un ottuagenario chi salvare? Tra una ragazza incinta e una novantenne con patologie chi salvereste? Un criterio che adottano tutti i medici. In tutti gli ospedali del pianeta. Ma nonostante questo, in Svezia, si è accesa una polemica feroce. 

Il quotidiano svedese ha pubblicato la notizia il 9 aprile 2020, il 12 aprile è arrivata la smentita ufficiale dell’ospedale Karolinska di Stoccolma. Inoltre, per essere chiari, il 18 aprile, le autorità ispettive del ministero della Salute svedese hanno avviato una indagine per verificare se la circolare fosse autentica. Insomma, è stata una “bufala” bella e buona. Tuttavia, sette mesi dopo, quella bufala viene data come verità accertata. Molti media hanno fatto un triste copia e incolla. Chiaramente la notizia per noi italiani era troppo ghiotta: “Visto la Svezia? Non fa il lockdown e poi fa morire gli anziani di Covid”.

Chi è Tegnell, omologo di Brusaferro in Svezia, contrario al lockdown

Ma nella narrazione nostrana la Svezia si riporta solo ad intermittenza. Ad esempio, quando l’epidemiologo svedese Andres Tegnell (stimatissimo a livello internazionale anche dall’americano Anthony Fauci) cita l’Italia come modello negativo, tutti tacciono. Nessuno fa più il copia e incolla. Lo avete saputo dai nostri tg? No, erano troppo impegnati con le dirette di Conte e gli appelli terroristici del ministro Speranza. Eppure, il parallelo implicito e impietoso degli scienziati svedesi (che si presume abbiano studiato come i nostri scienziati) è stato questo. Se l’Italia, che ha imposto un lockdown assoluto, sta peggio di noi, allora lasciateci provare una strategia diversa.

Chi sta peggio tra Italia e Svezia?

Avete letto bene. L’Italia, purtroppo, sta peggio della Svezia. Questo non lo scrive il Secolo, ma uno studio della prestigiosa rivista Nature. Anche questo report del 14 ottobre scorso, stranamente, in Italia non è stato ripreso da nessuno. Andate a leggere: a livello dell’Italia, come tasso di mortalità, solo Belgio, Spagna e Scozia. La Svezia, invece, nonostante il mancato lockdown è solo in seconda fascia. 

Meglio l’ospedale di Stoccolma o il Cardarelli di Napoli?

Eppure, la narrazione dominante è questa, ribadita da Andrea Scanzi, il giornalista italiano più influente sui Social. “In Svezia muoiono come mosche”. Se l’ha detto lui, come osate voi scienziati svedesi contraddirlo? Un ultimo dato. L’ospedale Karolinska che “fa morire i vecchi”, secondo Newsweek è al decimo posto nella classifica dei migliori ospedali del mondo. Tenete presente che, in questa classifica, per trovare un nostro ospedale bisogna scendere al 47mo posto (Niguarda di Milano). Non so Burioni o Scanzi, ma se fossi un anziano malato, preferirei farmi curare lì che al Cardarelli di Napoli.

Covid, le 2 balle che ci rifilano sfruttando Shanghai. L’ipocrisia dei chiusuristi di casa nostra di fronte agli orrori della dittatura comunista cinese. Max Del Papa su Nicolaporro.it il 21 Aprile 2022.

Shangai, oltre che un massacro, è un lavacro: nel Gange della virtù pelosa s’immergono le coscienze lebbrose di chi non conosce vergogna. Cosa stia succedendo nella metropoli cinese, polo avanzato di tecnologia e glamour, ventisei milioni, praticamente la metà dell’Italia tutta, è noto (anche se i media di regime cercano di ovattare): la dittatura cinese si è scatenata, l’obiettivo del Covid zero viene applicato alla lettera fino a coincidere con la popolazione zero: se li fai fuori tutti, il virus sparisce. Così ragionano le tirannie, e non c’è globalizzazione, non c’è modernizzazione che tenga: alla prima occasione, la voglia di tabula rasa torna fuori, tra il balzo culturale di Mao e il Covid zero di Xi non c’è soluzione di continuità. Neanche da noi c’è soluzione di continuità nell’ipocrisia e nella stupidità.

Covid, gli orrori del regime comunista

Inorridiscono, ma per pura posa, davanti ai macelli di Shangai, ai bambini sequestrata, alla gente presa e fatta sparire, o impacchettata, o imprigionata nelle case o nei laogai, alla strage di animali domestici, alla carestia di ritorno, alla polizia che spara e picchia, alla follia di una ideologia inestirpabile e inetta; ostentano brividi umanitari e dicono, i paraculi sbiancati, che così non si fa, che il Covid zero è un obiettivo feroce e irraggiungibile, che loro mai, per carità, mai si sono sognati di inseguirlo. E invece non hanno fatto altro. Ministri allucinati, consigliori di Seta, viroclown, scienziati della mutua, puttane di regime, propagandisti a tariffa, succhiatori d’involtini riconvertiti: eccoli tutti lì, a sposare il delirio italiano di ispirazione pechinese, anche noi, anche noi, avete visto la Cina, così si fa, così si procede.

Immunità di gregge, un fallimento

“La libertà non è più un dogma”, dicevano. “Prima la salute pubblica”, scandivano. “Un altro lockdown totale, di qualche settimana, sul modello cinese, e tutto sparisce”: questo lo diceva Ricciardi, lo diceva la cosca del Cts, lo ripetevano gli influencer del vaccino. Basta una ricerca lampo su Google. Il 60 percento di vaccinati? Meglio il 70, col 70 avremo l’immunità totale. No, meglio l’80, così avremo l’immunità di massa. No, arriviamo a 90, così raggiungiamo il Covid zero. Sono tutti lì, le loro ricette miserabili, le loro profezie portasfiga, i loro auspici di nuove stragi restano, aleggiano. E a 90 ci siamo arrivati, nel senso dei gradi, ma non è bastato e non è servito: “Ci vuole il 100%” e poi ricominciare con la quarta, la quinta dose, con la dose annuale, con la dose a vita. Effetti collaterali? Efficacia ridotta? Oh, quante storie, volete i condizionatori o il contagio zero?

Scienziati da operetta

Sono tutti lì e ancora continuano, basta scorrere un giornale, sintonizzarsi su un canale. Non vogliono tornare nei ranghi questi scienziati da operetta, che fuori dai confini davvero nessuno sospetta, e che prima di due anni fa neanche qui sapevamo esistessero: adesso sono drogati duri di vanità e se passa l’ondata benefica della pandemia mediatica, restano completamente privi di sovvenzioni. Invece vogliono fare i ministri, i parlamentari, i capiparanza dei partiti, gli influencer da prima serata. E il Covid zero deve essere perennemente inseguito, dietro garanzia che non si acchiapperà mai.

L’altra cialtronata dura, invereconda, sta nel minimizzare gli effetti devastanti qui da noi: ah, avete visto cosa è davvero il regime sanitario, provate un po’ a stare a Shangai. Come a dire: qui nessuno ha toccato niente, qui il governo ha salvaguardato la salute e la libertà di tutti per quanto possibile. Allora perché si scavalcavano, come scarafaggi immondi, nel predicare che la libertà non era più necessaria? A Shangai una dittatura comunista usa i cani robot, rinchiosi e spietati, deporta e distrugge – e lo stesso i cittadini insorgono, si ribellano, perché non ne possono più, non hanno più niente da perdere e lo sanno; e dunque? Per quale logica dovremmo concludere che qui tutto ha funzionato e sta funzionando nel più legittimo dei modi? È forse il bilancino quantitativo quello che si usa per testare la democrazia?

Economia a pezzi

Davvero non rilevano due anni di coprifuoco a intermittenza, l’ossessione mediatica, il terrorismo sanitario, le feste deserte, le estati uccise, i Natali deportati, l’alienazione, la divisione nel segno dell’odio, la depressione che ha portato milioni al tabagismo e alla bottiglia, la violenza di ritorno dei giovani, l’insanità condivisa nelle scuole, un green pass che è stato la miseria del mondo, il più pervasivo, il più carogna, il più prolungato sotto gli occhi di una opinione pubblica internazionale che non ci crede? Non contano le seicentomila attività chiuse, il degrado dei centri storici, la resa dei borghi e dei villaggi, la scomparsa di intere filiere produttive? Come nel distretto calzaturiero Fermano, tremila microaziende, ventimila addetti, che significa altrettante famiglie, all’incirca ottantamila persone che bene o male di manifattura vivono, uno su due considerato che il Fermano conta centocinquantamila abitanti.

E adesso le sanzioni rischiano di distruggerlo, dopo sei anni dal terremoto e due di pandemia, perché il mercato russo-ucraino, che fattura 100 milioni l’anno, era il più redditizio, un polmone per una economia monosettoriale in crisi endemica.

Accanimento continuo

Ma Draghi non se ne cura, lui punta alla presidenza della Nato, così scappa dai disastri fatti in casa. Intanto già infuria la propaganda per una quarta dose che gli italiani non vogliono e per questo si ritrovano demonizzati dai telegiornali come nella migliore tradizione delle dittature orientali; le mascherine “forse” restano e il green pass “forse” viene sospeso ma mantenuto, “così se succede ancora siamo pronti” sibila il nostro presidente del Consiglio per dire: non vedo l’ora che arrivi un’altra pandemia per rifare tutto da capo, però questa volta duro sul serio.

Molti fingono di provare orrore per Shangai, ma, sotto sotto, godono oscenamente e vorrebbero lo stesso anche qui. Per questo dicono che in Italia il regime sanitario non c’è. Perché non gli pare mai abbastanza, perché la libertà li offende come sempre offende i malati di un virus chiamato ideologia. Shangai è un massacro, un lavacro, un simulacro. Max Del Papa, 21 aprile 2022

La follia della dittatura cinese. Shanghai, il “modello cinese” delle prigioni quarantena. Vigilanza capillare e lockdown senza cibo per 26 milioni di abitanti. Matteo Milanesi su Nicolaporro.it il 15 Aprile 2022.

Mentre George Orwell scriveva la sua celebre opera “1984”, non avrebbe potuto pensare che, settant’anni più tardi, quella realtà fosse così vicina alla sua fantascienza. I caratteri totalitari, che il grande scrittore britannico descriveva, raccontava e criticava con la sua penna distopica, paiono più che mai attuali nella Shanghai cinese del 2022. La macchina del Grande Fratello di Xi Jinping è costituita da cani-robot, droni, case sigillate con lucchetti, bimbi strappati dalle proprie famiglie perché positivi, magari anche asintomatici. L’intera struttura organizzativa permette la capillare vigilanza di 26 milioni di abitanti rinchiusi, segregati, privati della loro vita sociale.

Shanghai peggio di Wuhan

I contagiati non possono rimanere in quarantena nelle loro case. Per ordini del governo centrale, devono essere trasferiti in strutture apposite, presumibilmente adibite alla circoscrizione del contagio. Il blocco del settore logistico sta causando notevoli difficoltà nel ricercare acqua e cibo nei supermercati online; i medicinali scarseggiano; in alcune zone della città, sono iniziate le prime rivolte. Shanghai 2022 rappresenta uno spettro ancora più inquietante di Wuhan 2020. Non solo perché, a distanza di più di due anni, stiamo ancora raccontando nuovi casi di quarantene, restrizioni e smanie da “Covid zero”; ma, soprattutto, perché le nuove misure adottate dal regime di Xi manifestano più che mai i tratti di un confinamento. Se cerchiamo sul dizionario il vero significato della parola “confinamento”, non denotiamo una semplice – seppur sempre preoccupante – “limitazione”. Piuttosto, si parla di relegazione, segregazione, reclusione. Insomma, si tratta di una formula con una carica emotiva ben più intensa, nonché ben più liberticida e autoritaria.

“Condizioni igieniche pessime”

Ecco, le misure che la Cina comunista sta applicando, calzano a pennello. Gran parte dei media nazionali italiani hanno riportato il racconto di Alessandro Pavanello, produttore musicale di 31 anni, chiuso da alcuni giorni in un centro espositivo a Shanghai, dopo essere risultato positivo al Covid. Egli parla di “condizioni igieniche pessime”, dove “non ci sono docce, ciascuno ha un catino per lavarsi, tutti tossiscono e sputano in un grande secchio”. Un lettore qualsiasi potrebbe presumere che queste scene avvengano nelle trincee o nelle zone assediate dell’Ucraina. E invece no: è la vita di uno dei più grandi fulcri economici mondiali, di un Paese che molti politici, osservatori ed analisti elogiavano sotto l’eloquente formula “modello cinese”.

In nome della vita, si è limitata la vita. In nome della libertà, si sta limitando la libertà. Propter vitam vivendi perdere causas ricordava il grande poeta romano Giovenale. Per salvare la vita, gli esseri umani perdono le cause che rendono quella vita degna di essere vissuta. Lo scrittore Marcello Veneziani, inoltre, evidenziava come l’esperienza che abbiamo vissuto con il Covid, e che i cinesi stanno tutt’ora vivendo alle estreme forme, non dovrebbe neanche essere definita “vita”; piuttosto, la parola adatta sarebbe “biologia”: la disciplina che si occupa delle semplici regole che disciplinano l’esistenza dei viventi, senza alcun rischio calcolato.

Dittatura comunista

Le misure restrittive apocalittiche vengono attuate in una città in cui i positivi sono poco più di 26 mila, di cui circa 25 mila asintomatici. I morti registrati ieri sono solo 7. La possibilità di convivere con un virus che, grazie ai vaccini ed alle continue mutazioni, diventa sempre meno letale, pare essere l’opinione proibita in Cina, nonché la più politicamente scorretta in Occidente, almeno fino a poche settimane fa. Nel frattempo, la polizia governativa cinese intima i cittadini a “combattere la pandemia con un cuore solo”. Per tutti coloro che dovessero violare le disposizioni, le autorità garantiscono un trattamento “in conformità alla legge da parte degli organi di pubblica sicurezza. Se costituisce reato, saranno indagati a norma di legge”, si legge in una nota.

A Shanghai, la Cina ha presentato il vero lato di una dittatura comunista. Il volto dell’unanimismo, del totalitarismo, della disperazione; troppe volte mascherato da un’economia vibrante, in continuo sviluppo, e da una classe dirigente occidentale che strizza l’occhio ad un sistema intrinsecamente comunista. Il Dragone ha posto le basi affinché le misure anti-Covid diventino un nuovo credito sociale, odierne forme di controllo decisamente più repressive ed invasive della sfera personale. Chissà se qualcuno avrà ancora il coraggio di plaudire a quel modello… Matteo Milanesi, 15 aprile 2022

Dagospia il 13 aprile 2022. Da “Un giorno da Pecora - Radio1”. 

La pandemia? “Con 150 morti al giorno è impensabile che sia finita, ci siamo solo abituati a numeri più alti pensiamo che sia finita. Ma immaginate un mondo pre pandemia, in cui vi si dicesse che in Italia muoiono 150 persone al giorno per un virus: saremmo spaventati e faremmo attenzione ad indossare la mascherina e ad avere tutte le attenzioni del caso”. 

Lo dice a Rai Radio1, ospite di Un Giorno da Pecora, l'immunologa Antonella Viola, che oggi è intervenuta alla trasmissione condotta da Giorgio Lauro e Francesca Fagnani.

Dagospia il 13 aprile 2022. Da “Un giorno da Pecora - Radio1”. 

Io candidata sindaco a Padova? “No, e vi spiego perché. Sono sotto scorta, non posso guidare. Quando vado in centro i carabinieri parcheggiano al Comune, per cui i giornalisti mi hanno visto uscire spesso da lì. E da qui è nata questa voce”.

Lo dice a Rai Radio1, ospite di Un Giorno da Pecora, l'immunologa Antonella Viola, che oggi è intervenuta alla trasmissione condotta da Giorgio Lauro e Francesca Fagnani. Qualcuno le ha offerto un ruolo politico? “No, e non lo farei. A me potrebbe piacere lavorare nell'ambito della ricerca e della salute, certo non fare il primo cittadino di una città”. Come consulente del governo, ad esempio? “Si - ha detto Viola a Rai Radio1 - quello potrebbe essere interessante”.

Margherita De Bac per il “Corriere della Sera” l'11 aprile 2022.

Tanti i trucchi che il virus della pandemia escogita per contagiare. Ma davanti alla mascherina Ffp2, se indossata bene e pulita, ha le armi spuntate. Ecco perché ne rivendica con forza l'utilità Antonella Viola, immunologa, direttore scientifico dell'Istituto di ricerca pediatrica Città della Speranza a Padova. 

Un errore pensare di farne a meno?

«Nessuno dovrebbe metterla da parte e quando dico nessuno mi riferisco anche a chi ha avuto la malattia pochi mesi fa e ritiene di poterla togliere sentendosi immune.

Niente di più sbagliato.

Al chiuso bisogna proteggersi, la Ffp2 è efficace anche contro Omicron. Vediamo comparire varianti sempre più contagiose e anche i vaccinati rischiano di infettarsi. La circolazione è sostenuta ed è dimostrato pure dalla comparsa dei ceppi ricombinanti che hanno origine nelle persone contagiate da due virus differenti». 

Quindi serve continuare a indossarla?

«Credo che in questa fase ci si senta troppo tranquilli. Vale la pena fare un piccolo sacrificio, coprendo naso e bocca quando si entra in luoghi chiusi. Ammalarsi di Covid, anche per i vaccinati con tre dosi, non è una esperienza indolore. Se ne può uscire con conseguenze spiacevoli.

Una lenta ripresa, stanchezza, fatica a riprendere gusto e olfatto, effetti su cuore, sistema nervoso e metabolismo. Oltretutto c'è la possibilità di reinfettarsi con Omicron dopo aver contratto la variante che l'ha preceduta, Delta». 

Il tasso di reinfezioni in Italia è del 4,1% e sta crescendo, secondo l'Istituto superiore di Sanità. Almeno quattro persone su 100 sperimentano Omicron dopo essere state contagiate da altri ceppi. La seconda infezione equivale a un richiamo vaccinale?

«Non lo sappiamo con certezza. L'ipotesi prevalente è che l'infezione naturale funzioni come un booster. Aspettiamo di raccogliere più dati. È un fenomeno nuovo, i vaccini comunque funzionano bene: proteggono dalla malattia grave nel 91% dei casi e dal contagio nel 66%.

Il restante 34% può riprendere il Covid perché Omicron possiede la capacità di evadere il controllo del sistema immunitario. Uno studio di ricercatori del Qatar pubblicato sul New England Journal ha evidenziato che chi si è ammalato è protetto per il 90% da Delta e appena per il 56% da Omicron, che fa la differenza».

Sono da poco comparse delle ricombinazioni, frutto della mescolanza di frammenti di geni di due sotto-varianti di Omicron (BA.1 e BA.2). È preoccupante?

«Non vedo grossi pericoli. In pochi mesi Omicron ha preso il sopravvento. Ora è diverso. I primi virus ricombinanti sono stati sequenziati a gennaio e i casi non sono aumentati. Non dovrebbe trattarsi di un pericolo emergente».

È fresco di stampa il suo libro, «Il sesso è (quasi) tutto», edito da Feltrinelli. Un capitolo è dedicato alla differenza di genere. Cosa ci ha insegnato il Covid-19?

«Anche in questa occasione non si è prestata sufficiente attenzione alla questione di genere, non solo nel curare l'infezione ma soprattutto nella gestione della vaccinazione. Appena il 4% degli studi clinici ha previsto un piano per analizzare il sesso come variabile della risposta a nuovi approcci terapeutici». 

L’ex Cts ammette: «Chiusure inutili, ma con costi sociali certi». Meloni: «Chi ripaga gli italiani?». Agnese Russo sabato 2 Aprile 2022 su Il Secolo d'Italia.

«Le misure di contenimento non hanno avuto efficacia scientifica, ma costi sociali certi». All’indomani dello scioglimento del Cts, è stato l’epidemiologo Donato Greco, uno degli esperti che ne hanno fatto parte, ad ammettere quello che in molti hanno ripetuto più e più volte, finendo additati come irresponsabili o opportunisti. «Le chiusure, a cominciare dalle scuole fino alle restrizioni delle attività commerciali, non è riuscita a contrastare la diffusione del virus come poi si è visto», ha poi aggiunto l’esperto, che ha fatto parte del Cts per un anno.

Le chiusure «suggerite» dal Cts: «Efficacia debole e costi sociali certi»

«La più grande difficoltà del Cts è stata dover suggerire misure di contenimento e mitigazione la cui efficacia scientifica era debole mentre i costi sociali ed economici erano certi», ha chiarito Greco, intervistato a Un giorno da pecora, dove ha ammesso che «anche l’isolamento più duro del marzo 2020 non ha sortito nessun effetto sul contenimento dell’epidemia». Affermazioni la cui gravità non è passata inosservata. «Ascoltate le gravissime ammissioni di un ex membro del Cts, ormai sciolto. Errori sulle chiusure, sulle restrizioni, sulla comunicazione: chi ripagherà ora i cittadini e le attività per tutto ciò?!», ha scritto su Facebook, Giorgia Meloni, rilanciando il video della trasmissione e sottolineando che «deve vederlo tutta Italia».

L’errore più grande del Comitato

Per Greco, poi, «l’errore più grande del Cts è stato non aver prodotto comunicazione. Si è dato spazio a una serie di virologi autonominati che l’hanno gestita. È vero, abbiamo tenuto una conferenza stampa ogni settimana, ma senza impatto mediatico perché tutti gli spazi erano occupati». «Noi – ha aggiunto – abbiamo rispettato un vincolo di riservatezza, mentre le virostar hanno avuto accesso ai media in modo intenso pur non conoscendo le informazioni di chi era in prima linea e non avendo esperienza specifica».

Le “pagelle” di Greco alle virostar

Greco quindi, sollecitato da Geppi Cucciari e Giorgio Lauro, li ha elencati uno per uno, offrendo la propria opinione su ciascuno: «Roberto Burioni è stato molto utile e ha dato un contributo scientifico utile»; «Pregliasco ha competenze specifiche»; «Crisanti è un polemico, bravissimo con le zanzare, è un personaggio discusso nel mondo accademico»; «Zangrillo, un rianimatore»; «Antonella Viola è immunologa e biologa, brava nella comunicazione sociale». Mentre «chi discuteva sempre le decisioni del governo era esasperante», ha detto Greco, rispondendo a una domanda su Matteo Bassetti. Eppure oggi, anche alla luce delle sue ammissioni, appare ancora più chiaro che forse qualche motivo per mettere in discussione quelle decisioni c’era eccome.

Lockdown, l'ex membro del Cts Donato Greco confessa: "Senza basi scientifiche". Giorgia Meloni attacca: "Chi ripaga tutto". Il Tempo il 02 aprile 2022.

“La difficoltà è stata dover suggerire misure di contenimento la cui dimostrazione scientifica di efficacia era debole, mentre invece i costi sociali erano certi”. La clamorosa ammissione è quella di Donato Greco, ex membro del Comitato tecnico scientifico, ormai solo sciolto ma che, negli ultimi due anni, aveva fatto da padrone sulle scelte di governo per contrastare la pandemia di Covid-19. Dichiarazioni quelle rilasciate dall'esperto in radio a "Un Giorno da Pecora" che hanno fatto esplodere la leader di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni: "Ascoltate le gravissime ammissioni di un ex membro del CTS. Chi ripagherà i cittadini e le attività per tutto ciò?!" denuncia la Meloni sui social.

Lo scienziato di fronte alla domanda sulle difficoltà incontrate nel lungo periodo scandito da decreti, obblighi e divieti, in collegamento con Rai Radio 1, ha risposto: "Certamente la difficoltà spesso è stata quella di dover applicare misure la cui dimostrazione scientifica di efficacia era debole, mentre invece i costi sociali ed economici erano certi. Un esempio? Qualunque chiusura, a partire dalle scuole e fino alle limitazioni al commercio: sono misure di mitigazione che hanno un effetto sul contenimento dell'epidemia ma che certamente non riescono a contrastare la diffusione del virus. Come poi si è visto, di fatto anche l'isolamento più crudo del marzo 2020 non ha sortito alcun effetto di contenimento dell'epidemia". 

Vittorio Sgarbi: "Il Cts confessa, lockdown inutile. Tutto chiaro...", il piano per controllare gli italiani. Libero Quotidiano il 02 aprile 2022.

Le parole dell'ex membro del Cts Donato Greco su Covid e lockdown hanno sollevato un polverone nelle ultime ore. L'esperto, intervistato a Un giorno da pecora su Rai Radio 1, ha spiegato che spesso "la difficoltà è stata quella di dover applicare misure la cui dimostrazione scientifica di efficacia era debole, mentre invece i costi sociali ed economici erano certi". E non solo. A far infuriare è stato anche un altro passaggio del suo discorso: "Qualunque chiusura è una misura di mitigazione che ha un effetto sul contenimento dell'epidemia ma che certamente non riesce a contrastare la diffusione del virus. Come poi si è visto, di fatto anche l'isolamento più crudo del marzo 2020 non ha sortito alcun effetto di contenimento dell'epidemia".

A commentare queste parole è stato, tra gli altri, Vittorio Sgarbi. Il critico d'arte su Twitter ha scritto: "Tutto chiaro. Avevano capito che diffondere paura significava anche controllare la gente. E restare in carica. Ve le ricordate le dirette di Conte ogni sera?". Chiaro riferimento ai momenti in cui l'ex premier spiegava agli italiani le misure di contrasto al Covid prese di volta in volta.  

Particolarmente colpita da queste parole anche la leader di Fratelli d'Italia Giorgia Meloni, che ha commentato: "Ascoltate le gravissime ammissioni di un ex membro del Cts. Chi ripagherà i cittadini e le attività per tutto ciò?!". Nell'estratto video pubblicato da lei sui social, Greco dice anche che uno dei principali errori del Cts è stato "quello di non aver prodotto molta comunicazione, anzi non aver prodotto affatto comunicazione, lasciando spazio a una serie di virologi autonominati che hanno gestito la comunicazione".

Il vero fallimento contro Omicron. Matteo Bassetti accusa: mascherine ffp2 non proteggono. Il Tempo il 25 marzo 2022.

Neanche le mascherine ffp2 possono salvarci da Omicron2. Ne è convinto Matteo Bassetti, direttore della clinica di Malattie infettive del Policlinico San Martino di Genova, che in un’intervista a Leggo certifica l’inutilità dei dispositivi di protezione dal Covid: “Le mascherine ffp2 sono un fallimento contro omicron. È un errore fuorviante credere che ci proteggano da omicron, se fosse vero non saremmo arrivati a 100mila contagi al giorno. L’aspetto importante è - sottolinea comunque il virologo - quel segno meno davanti al numero di terapie intensive. Per il resto, arriviamo a circa 100mila positivi? È un dato che abbiamo già registrato ma che non deve spaventarci”.

Altro responsabile dell’aumento dei contagi secondo il medico ligure è il rallentamento che si è visto con le iniezioni di vaccino, ormai un lontano ricordo per molti. E Bassetti ha una spiegazione per il drastico calo delle inoculazioni: “Con lo scoppio della guerra non si è più vaccinato nessuno. Quindi il virus c’è, non è tutto finito. Questo nuovo argomento che, mediaticamente parlando, si è preso la scena ha di fatto posto l’accento su altro. Non voglio comunque minimizzare il fenomeno Omicron, ma dobbiamo abituarci a questo andamento alto-basso ci dobbiamo abituare. Se oggi siamo qui è perché il 90% è vaccinato. E comunque - conclude Bassetti - la forte contagiosità può essere anche un fatto positivo. Tanta gente si sta facendo gli anticorpi, il vaccino e l’immunizzazione naturale competono a raggiungere la difesa dalle forme gravi”.

Margherita De Bac per il "Corriere della Sera" il 23 febbraio 2022.

Agostino Miozzo, ha letto le parole del suo collega Giuseppe Remuzzi, che in un'intervista al «Corriere» si auto-colpevolizza assieme alla comunità scientifica? Quali errori avete commesso durante la pandemia?

«La gestione di qualsiasi emergenza è zeppa di errori. Pensiamo al contesto in cui ci siamo mossi: abbiamo dovuto prendere decisioni drammatiche, praticamente al buio. Senza informazioni, senza elementi di certezza, senza una guida da parte degli organismi internazionali».

Stenta a contenere l'alterazione della voce l'ex coordinatore del Comitato tecnico-scientifico, nominato il 5 febbraio del 2020, poco prima che a Codogno si scoprisse il «paziente Uno» e quindi che il Covid era già presente nel Nord Italia. 

«Ci siamo riuniti per la prima volta il 7 febbraio, da allora fino al 12 marzo del 2021 siamo stati convocati altre 164 volte. Questo il clima in cui si lavorava nella sede della Protezione civile. Poi il governo Draghi ha rinominato un nuovo Cts fino al 4 febbraio 2022. In tutto 62 riunioni, la metà di noi».

Perché questo confronto?

«Voglio solo dire quanto in quella fase le scelte del governo dipendevano da valutazioni scientifiche mentre dopo sembra aver prevalso una logica più politica». 

Avete tardato a comprendere l'entità del pericolo?

«Nei primi giorni del 2020 le uniche informazioni arrivavano dalla Cina. Fino a metà febbraio negli Stati Uniti e in Europa si sapeva dell'esistenza di una malattia grave nella regione di Wuhan. Il 20 dello stesso mese, nel mondo occidentale, i casi erano 924 e 585 riguardavano il focolaio della Diamond Princess, la nave bloccata al largo di Yokohama. Ricordo che solo l'11 marzo l'Oms ha annunciato ufficialmente l'avvio della pandemia».

Possibile mancasse la percezione dell'imminente catastrofe?

«Nessun organismo extra nazionale, a cominciare dall'Ue, ha condiviso comunicazioni di allarme fornendo istruzioni di comportamento. Malgrado ciò, l'Italia è stato il primo Paese a chiudere gli scali ai voli dalla Cina nel tentativo di rallentare la possibile diffusione del virus, purtroppo nessun altro governo europeo ci ha seguiti. Tutti hanno sottovalutato». 

Voi per primi?

«Con il senno di poi si è capito che chiudere gli aeroporti era stato inutile perché il virus era comunque sbarcato. Criticare a fuochi spenti le nostre scelte è facile. In quella fase non c'erano certezze neppure sui tempi di incubazione dell'infezione, si oscillava tra due e 14 giorni». 

Se tornasse indietro?

«La partita fra Atalanta e Valencia del 19 febbraio ha agito da incubatore del virus, molti spettatori venivano dalla zona dove si stava diffondendo. Remuzzi ha ammesso che era tra loro. Io aggiungo che non ha colpe per essere andato allo stadio, non c'erano elementi per evitarlo».

E stata dura blindare l'Italia?

«Durissima. Nessuno ha fatto pressioni dirette su di noi ma ricordo quante riflessioni di natura politica ed economica ci venivano riportate. 

Tanti rumors. Nessuno sapeva quali sarebbero state le conseguenze del lockdown. Esitavamo, cercavamo un equilibrio. Alla fine ha vinto il virus: i casi galoppavano e bisognava fermarlo». 

Avete tardato a chiudere?

«Certo se avessimo anticipato al 20 febbraio la diffusione sarebbe stata diversa. Mancavano i presupposti per deciderlo. Perché avremmo dovuto dare queste indicazioni? 

A me tutti questi che adesso criticano quanto è stato fatto sembrano patetici. Bravissimi, da fuori. Come quando gioca la Nazionale di calcio e tutti credono di avere la formazione vincente».

Quali ricordi bruciano?  

«Vietare l'ingresso dei parenti nelle Rsa, immaginare gli anziani lasciati soli, impedire i funerali. Rispondevo al cellulare per ascoltare la gente piangere. Sindaci, colonnelli dei carabinieri, medici, direttori di ospedale. Cercavamo soluzioni senza averne perché mancavano mascherine, ossigeno, tutto. E gli avventurieri del commercio imperversavano». 

Il governo maschera i suoi flop: si può girare a volto scoperto, i dispositivi di protezione non servivano. Hoara Borselli su Il Tempo il 12 febbraio 2022

Quando realtà ed illusione si fondono in un unicum paradossale, il giornale del virus, quello che della liturgia del terrore ha fatto la sua cifra più significativa, ci regala un titolo a tutta pagina: “Virus, così l’Italia riapre”. Per il blasonato quotidiano di via Solferino, è arrivato il momento di dare agli italiani una bella notizia, di quelle che dovrebbe farci saltare dalle sedie dopo due anni di nefaste previsioni declinate in ogni rigo e in ogni pagina.

Finalmente un respiro di libertà dopo lunghissimi mesi dominati da parole come sacrifici, chiusure, obblighi e restrizioni. Poi però leggiamo l’articolo e ci accorgiamo che quel sorriso stampato in faccia alla visione del titolo, si smorza frase dopo frase con la presa di coscienza che siamo cascati nel più classico tranello dello specchietto per le allodole, ovvero attratti da una narrazione lusinghiera, rivelatasi sostanzialmente ingannevole.

Bastano le prime cinque righe per capire cosa abbia suscitato cotanto entusiasmo da farne l’apertura del giornale e cosa invece a noi quell’entusiasmo lo abbia smorzato. Ecco cosa scrive: “I passi verso la normalità. Da oggi non c’è più l’obbligo di indossare la mascherina all’aperto.”

Evviva, l’apertura dell’Italia passa da questo segnale potentissimo che sicuramente darà una sferzata alla nostra economia incancrenita e ci farà sentire più liberi. Ci toglieremo la museruola che era obbligatoria fino a ieri anche per portare il cane al parco nonostante tra noi e l’altro soggetto ci fossero tre ettari di campo.

Speranza ci ha concesso di poter dialogare all’aria aperta con la bocca e non più solo con gli occhi. Considerata la totale inefficacia di questo presidio sanitario negli spazi esterni, verrebbe da dire che più che un segno di riapertura è un segnale di presa di coscienza.

Ma veramente questo può essere considerato un passo importante di libertà al punto da essere applaudito dalla maggior parte degli italiani e della stampa, associandolo alla percezione di un ritorno alla normalità e non cogliendone invece il paradosso? Questo grido di gioia non ci consegna altro che la misura dissonante di quanto ormai avessimo ribaltato nelle nostri menti la reale misura delle cose.

Pensiamo solo a ciò che accadrà dal 15 Febbraio. Gli over 50 non vaccinati non potranno tornare a lavorare.

Questo è un unicum che si registra solo in Grecia ed in Austria,a differenza di tutti quei paesi che stanno trattando ormai il Covid come una malattia endemica dissociandosi giorno dopo giorno da quella narrazione chiusurista che da noi la sta facendo ancora da padrone.

Chi oggi inneggia a questa concessione del bavaglio da mettersi sul volto solo nei luoghi al chiuso, dimentica che fra tre giorni 315 mila contadini, come riferisce Confagricoltura, si troveranno a non poter più stare nei campi e non perché non vaccinati, ma perché i vaccini che si sono fatti inoculare nei loro Paesi non sono riconosciuti dall’Italia e quindi vengono inseriti in quel bacino di reietti no Vax cui sarà impedito di svolgere il loro lavoro.

Da non dimenticare tutti coloro, e sono centinaia di migliaia, che per motivi indipendenti dalla loro volontà non hanno la patente di libertà e saranno relegati a non poter portare il pane in tavola perché non si aprirà il tornello dell’Azienda dove fino ad oggi hanno avuto accesso. Eh già, oggi che si parla di numeri in costante e progressiva discesa in termini di contagi e ricoveri, noi invece di ampliare le maglie di libertà le teniamo strette e limitanti, concedendo delle false illusioni che risultano essere concessioni fin troppo generose.

Esemplificativo il tweet di Claudio Velardi, giornalista, saggista, fondatore ed editore del quotidiano Il Riformista che cinguetta “Continuerò a tenere la mascherina nelle occasioni che mi sembrerà utile.

L’abbiamo scoperta perché ci è stata (giustamente)imposta,ma la strisciolina di stoffa protegge la  salute di ognuno al di là del Covid.

Perché dunque non usarla anche in futuro liberamente?” Ecco l’esempio di come si sia potuto stravolgere il concetto di libertà nella mente delle persone, affezionati ormai a quella normalità emergenziale da aver paura a riavvicinarsi a quella reale. 

Covid, Speranza fa sparire la "vigile attesa". Giuseppe De Lorenzo il 12 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Nelle nuove linee guida sulla cura domiciliare scompaiono le parole "vigile attesa". Ma la strategia di fondo rimane. Scontro tra Comitato cure domiciliari e Consiglio di Stato.

Sorpresa: le nuove linee guida, o “mere raccomandazioni” per dirla a mo’ di Consiglio di Stato, dicono addio alla “vigile attesa”. Le due parole più contestate della “strategia” di Speranza nella cura domiciliare del Covid non compaiono più nella versione aggiornata dal ministero della Salute e inviata da viale Lungotevere Ripa 1 a tutti i medici italiani.

Il documento, allegato ad una circolare firmata dal direttore Giovanni Rezza e da Andrea Urbani (quello del “piano segreto” anti-Covid), tra le altre cose dà atto della nuova disponibilità nella lotta al coronavirus dei farmaci recentemente sdoganati dal Consiglio superiore di Sanità. “Attualmente - si legge nel documento - le terapie, sia con anticorpi monoclonali, che con antivirali, sono indicate per soggetti con Covid-19 lieve-moderato di recente insorgenza, non ospedalizzati e non in ossigenoterapia, che presentino fattori di rischio per lo sviluppo di forme gravi di malattia”. Buone notizie, ovviamente. Ed è comprensibile sia questa la novità che più di tutte ha catturato l’attenzione dei media. A leggere attentamente le “linee guida”, però, la vera notizia sarebbe un’altra. Pagina 10, principi di gestione della terapia farmacologica: nelle “raccomandazioni di gestione clinica” del paziente si suggerisce di monitorare i parametri vitali, misurare la saturazione, usare pracetamolo e antifiammatori. Ma non si cita più la “vigile attesa”. Due parole che, anche a fare una ricerca nell’intero documento, non vengono mai utilizzate a differenza della precedente del 26 aprile 2021.

Non che cambi moltissimo, nella sostanza. L’idrossiclorochina resta sconsigliata. Così come gli antibiotici e le benzodiazipine. Inoltre si preferiscono trattamenti sintomatici con paracetamolo o Fans. E resta invariato anche l’invito ad un “costante e accurato monitoraggio” del malato. Insomma: la vigile attesa resta, ma non la chiamano più così.

È possibile che a suggerire al ministero di sbianchettarle due le paroline siano state le molteplici polemiche sorte in questi due anni. Nei mesi scorsi il Comitato cure domiciliari aveva presentato ricorso al Tar e i giudici aveva dato ragione ai ricorrenti annullando la circolare. Decisione prima sospesa dal presidente Franco Frattini e poi ribaltata da una sentenza del Consiglio di Stato. Secondo le toghe amministrative, infatti, le linee guida emanate dal ministero altro non sarebbero che “mere raccomandazioni”. Non “prescrizioni cogenti”, dunque, ma “indicazioni orientative” che i medici di medicina generale devono considerare solo come “parametri di riferimento”. Il singolo dottore, si legge nella sentenza, “è libero di prescrivere i farmaci che ritenga più appropriati” al paziente, fatta salva la propria responsabilità e ovviamente basandosi su “evidenze scientifiche acquisite”. “La prescrizione di farmaci non previsti o, addirittura, non raccomandati dalle Linee guida non può dunque fondarsi su un’opinione personale del medico - conclude la sentenza - priva di basi scientifiche e di evidenze cliniche, o su suggestioni e improvvisazioni del momento, alimentati da disinformazione o, addirittura, da un atteggiamento di sospetto nei confronti delle cure 'ufficiali' in quelle che sono state definite le contemporanee societés de la défiance, le società della sfiducia nella scienza”.

Una lettura dei fatti duramente contestata dai ricorrenti. “Il Consiglio di Stato ha dato una lettura drammaticamente politica delle linee guida che offende i parenti delle vittime e serve solo a salvare la poltrona del ministro Speranza”, dice al Giornale.it l’avvocato Eric Grimaldi. La contestazione è questa: se il ministero scrive di non usare certi farmaci, e di prescriverne altri, o il medico s’adegua oppure rischia responsabilità penali e provvedimenti disciplinari. “Perché in due anni non sono stati effettuati gli studi randomizzati sui farmaci utilizzati dai territori come più volte sollecitato e richiesto? - insiste Grimaldi - Dove sarebbe la libertà prescrittiva dei medici se la stessa viene poi circoscritta a determinati farmaci, impedendo di scegliere, in scienza e coscienza, la terapia più adatta al paziente Covid?”.

A far insospettire il Comitato ci sono anche le particolari tempistiche. La decisione del Consiglio di Stato è stata pubblicata il 9 febbraio. La nuova versione delle linee guida il giorno successivo. E per Grimaldi alcune delle modifiche striderebbero con la sentenza. Primo appunto: per i giudici amministrativi la “vigile attesa” non poteva essere “concepita come un rassegnato immobilismo”. Perché allora, si chiede l'avvocato, “queste parole sono sparite dalla nuova circolare?”. Secondo punto. “Il Consiglio di Stato sosteneva che la prescrizione di non fare sull’eparina non fosse tale, eppure la nuova circolare sostituisce la dicitura "non usare eparina" con un più generico "non utilizzare routinariamente l’eparina, eliminando peraltro la limitazione ai soli allettati”. La domanda è: “Perché questo cambio di rotta se Consiglio di Stato riteneva non vincolanti le prescrizioni delle linee guida?”. Il Comitato promette esposti in procura. Non resta che attendere nuovi sviluppi. In vigile attesa.

Giuseppe De Lorenzo. Sono nato a Perugia il 12 gennaio 1992. Stavo per intraprendere la carriera militare, poi ho scelto di raccontare quello che succede in Italia e nel mondo. Rifuggo l'ipocrisia di chi sostiene di possedere la verità assoluta: riporto la realtà che osservo con i miei occhi. Collaboro con ilGiornale.it dal 2015. Nel 2017 ho pubblicato Arcipelago Ong (La Vela), un'inchiesta sulle navi umanitarie che operano nel Mediterraneo. Poi nel 2020 insieme ad Andrea Indini ho dato alle stampe Il libro nero del coronavirus (Historica Edizioni). Sono cattolico e capo scout per passione educativa. Mi emoziono ancora per le partite della Lazio. Amo leggere, collezionare Topolino, giocare a basket e coltivare la terra.

La vigile attesa. Report Rai PUNTATA DEL 31/01/2022 di Manuele Bonaccorsi e Lorenzo Vendemiale  

Report spiegherà quali sono le cure che fin qui sono state impiegate per trattare i malati di Covid, e con quali risultati.

L’emergenza sembra passata ma di Covid si continua a morire: in Italia ci sono stati oltre 4 mila decessi solo nelle ultime due settimane. I vaccini hanno salvato migliaia di vite ed evitato che il bilancio fosse peggiore, ma bisogna perfezionare anche le terapie. Report spiegherà quali sono le cure che fin qui sono state impiegate per trattare i malati di Covid, e con quali risultati: a partire dal famoso protocollo sulla “vigile attesa” stabilito dal Ministero della Salute, sospeso da una sentenza del Tar ma poi riconfermato dal Consiglio di Stato. Mentre a Milano, all'Istituto Mario Negri, da tempo viene sperimentata una possibile alternativa di cure precoci basate sugli antinfiammatori. Per il futuro, invece, le speranze sono riposte sui nuovi antivirali prodotti da Merck e Pfizer, che a breve arriveranno anche in Italia: ma come si usano, quanto sono efficaci, e che impatto saranno in grado di avere davvero nella lotta al Coronavirus?

“LA VIGILE ATTESA”

di Manuele Bonaccorsi e Lorenzo Vendemiale

immagini Carlos Dias – Fabio Martinelli

montaggio Maurizio Alfonso – Marcelo Lippi

grafica Michele Ventrone 

SABRINA BELTRAMINI – DIRETTRICE FARMACIA OSPEDALE SAN MARTINO - GENOVA

Questo è il magazzino dei farmaci dell'ospedale Policlinico San Martino. Qui abbiamo i farmaci monoclonali questo è il frigorifero in cui noi abbiamo i farmaci; in questo caso, il Casirivimab. 

MANUELE BONACCORSI

Con l'arrivo della variante Omicron pare che molti monoclonali non funzionino più.  

SABRINA BELTRAMINI – DIRETTRICE FARMACIA OSPEDALE SAN MARTINO - GENOVA

Esatto pare che questi anticorpi monoclonali abbiano un'indicazione soprattutto sulla Delta. E quindi probabilmente nel tempo se Delta verrà soppiantata da Omicron questo farmaco non verrà poi più utilizzato. 

MANUELE BONACCORSI

Il Casirinivab che funziona su Delta quante ne avete?  

SABRINA BELTRAMINI – DIRETTRICE FARMACIA OSPEDALE SAN MARTINO - GENOVA

Abbiamo all'incirca un 150 trattamenti.         

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO

Il rischio è che vadano sprecati, nonostante siano costati oltre mille euro a trattamento. L’unico monoclonale che funziona con Omicron è invece il Sotrovimab. Oggi è quasi introvabile. 

SABRINA BELTRAMINI – DIRETTRICE FARMACIA OSPEDALE SAN MARTINO - GENOVA

Ce ne sono rimasti una… 7- 8 trattamenti. E quindi verrà utilizzato secondo dei criteri restrittivi. 

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO

Coi monoclonali dall’inizio della pandemia sono state trattate appena 40mila persone. Ma la colpa non è solo delle varianti, il problema è la difficoltà di utilizzo. Sono flebo da somministrare in ambiente ospedaliero, prima che la malattia raggiunga una fase avanzata. Adesso avremo a disposizione anche gli antivirali in pillole. Il primo, il Molnupiravir di Merck, è già arrivato nei nostri ospedali. 

MANUELE BONACCORSI

Quante ne sono arrivate?  

SABRINA BELTRAMINI – DIRETTRICE FARMACIA OSPEDALE SAN MARTINO - GENOVA

Sono arrivati circa mille trattamenti per tutta la Liguria. Deve essere somministrato entro 5 giorni dalla comparsa dei sintomi.  

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO

A volte cinque giorni passano solo per avere il risultato del tampone e una diagnosi di Covid. E poi la semplice ricetta del medico di base non basta. Così c’è il rischio di replicare il film già visto con i monoclonali. 

FILIPPO DRAGO – PROFESSORE FARMACOLOGIA UNIVERSITÀ DI CATANIA

La identificazione del paziente eleggibile al trattamento è nelle mani del medico di medicina generale, il quale indirizza il paziente all'ospedale presso il reparto di malattie infettive. 

MANUELE BONACCORSI

Quindi poi deve essere il reparto ospedaliero…? 

FILIPPO DRAGO – PROFESSORE FARMACOLOGIA UNIVERSITÀ DI CATANIA

A confermare la diagnosi e quindi poi a prescrivere il farmaco che viene erogato dalla farmacia dell'ospedale. Ora io devo dire che Aifa poteva probabilmente fare un po’ di più dando ai medici di medicina generale la responsabilità della prescrizione di questo farmaco.  

MANUELE BONACCORSI

La differenza dagli anticorpi monoclonali che vanno fatti in day hospital, in un ospedale, qui invece abbiamo una terapia domiciliare che però investe di nuovo gli ospedali?   

FILIPPO DRAGO – PROFESSORE FARMACOLOGIA UNIVERSITÀ DI CATANIA

Esattamente. 

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO

Il Molnupiravir è efficace solo al 30%. Per questo le speranze maggiori sono rivolte a Paxlovid, l’antivirale di Pfizer, che promette di ridurre i ricoveri dell’89%. Eric Topol, uno dei massimi esperti mondiali di covid, ha detto che “questo farmaco potrebbe cambiare tutto”. Arriverà presto in Europa, ma alcuni trial sono ancora in corso a Rio de Janeiro, in Brasile.  

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO

Non sono certo l’alternativa ai vaccini che hanno salvato tante vite, ma insomma la nuova frontiera del contrasto al virus viene dagli antivirali. Buonasera. Ora c’è tanta aspettativa per la nuova pillola anti-covid, il Paxlovid della Pfizer. Promette di avere un’efficacia dell’89 per cento contro i ricoveri. L’Italia ha acquistato 600mila trattamenti entro il 2022. Però ha un particolare: che deve essere somministrato entro i 5 giorni dalla comparsa del sintomo. In realtà, le nostre istituzioni hanno monitorato che in alcune regioni bisogna aspettare addirittura tra i 6 agli 8 giorni per avere il risultato della positività del tampone. L’esperienza, insomma, ci dice invece che il sistema sanitario dovrebbe accelerare le procedure per il riconoscimento della malattia e anche per favorire la somministrazione di questi farmaci. Abbiamo trovato nei frigoriferi addirittura dei preziosi anticorpi monoclonali, che costano tantissimo, che abbiamo visto con l’insorgere della variante Omicron non fanno più effetto. Ne abbiamo buttato, rischiamo di buttarne, alcuni preziosi per i malati più fragili. Ora cosa succederà invece con gli antivirali? Quanto costa poi effettivamente produrli? Il nostro Manuele Bonaccorsi e Lorenzo Vendemiale.   

LUIS AUGUSTO RUSSO – DIRETTORE ISTITUTO DI RICERCA CLINICA IBPCLIN-RIO DE JANEIRO

Siamo nella farmacia del nostro centro di ricerche cliniche, a Rio De Janeiro. Questo è il farmaco che somministriamo, è il Paxlovid, il nuovo antivirale di Pfizer. È un inibitore della proteasi. In pratica impedisce la replicazione del virus. E questo riduce la malattia, e forse anche la capacità di trasmettere il virus. Sul Paxlovid è già stato pubblicato uno studio, da cui emerge una protezione dell’89% contro la malattia grave. Noi stiamo facendo un nuovo trial, lo stiamo testando sia su persone vaccinate che non. 

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO

Paxlovid viene prodotto anche in Italia, in questo stabilimento ad Ascoli. Per il momento, è approvato solo per i pazienti fragili. Pfizer, però, lo sta testando anche sui positivi a rischio basso e addirittura sui contatti stretti, per una funzione preventiva.

Solo che almeno all’inizio non sarà disponibile per tutti. La produzione di Pfizer nel 2022 sarà di 120 milioni di trattamenti. Gli Stati Uniti ne hanno già comprati 20 milioni, l’Italia appena 600 mila. Ma nei prossimi giorni arriverà solo una prima tranche di 11.500 dosi. Per avere la pillola bisognerà sgomitare con la concorrenza di mezzo mondo e pagare caro. 

FABIO PAVESI - GIORNALISTA FINANZIARIO 

Pensiamo che viene venduto negli Stati Uniti a 530 dollari. C'è un accordo con l'Unione Europea per vendere a 350, diamo un prezzo medio di 400. Ebbene su 80 milioni di dosi che verranno distribuite sul mercato, stimiamo 32 miliardi di ricavi aggiuntivi. 

MANUELE BONACCORSI

Si può stimare anche quanti saranno gli utili? 

FABIO PAVESI - GIORNALISTA FINANZIARIO 

Nei prossimi due anni circa 10-12 miliardi di profitti netti su un investimento di solo un miliardo. 

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO

I reali costi di produzione degli antivirali non sono mai stati rivelati. Qualcuno però ha provato a calcolarli: Melissa Barber, una ricercatrice di Harvard, da anni ha sviluppato un algoritmo in grado di farlo. 

MELISSA BARBER – RICERCATRICE HARVARD UNIVERSITY

La formula prende in considerazione il prezzo delle materie prime, la forza lavoro, le spese di produzione, tutte le variabili che determinano il costo effettivo per l’azienda.  

LORENZO VENDEMIALE

Adesso lo ha applicato al Molnupiravir. E che cosa ha scoperto? 

MELISSA BARBER – RICERCATRICE HARVARD UNIVERSITY

Che il costo di produzione è di circa 20 dollari a trattamento, forse meno. 

LORENZO VENDEMIALE

20 dollari tutto incluso? 

MELISSA BARBER – RICERCATRICE HARVARD UNIVERSITY

Tutto compreso, sì. Anche un margine del 10% di profitto per l’azienda. 

LORENZO VENDEMIALE

Gli Stati Uniti lo hanno appena comprato per circa 700 dollari a trattamento. 

MELISSA BARBER – RICERCATRICE HARVARD UNIVERSITY

Funziona così, se hai il monopolio, puoi decidere il prezzo che vuoi.  

LORENZO VENDEMIALE

E per quanto riguarda il Paxlovid, è in grado di dirci qualcosa? 

MELISSA BARBER – RICERCATRICE HARVARD UNIVERSITY

I dati ancora non sono disponibili, ma posso garantirvi che costerà più o meno lo stesso.  

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO

Monoclonali e antivirali sono cari e destinati ai pazienti fragili. Per tutti gli altri oggi le prime indicazioni per le cure domiciliari sono paracetamolo e antinfiammatori per trattare i sintomi lievi. È il cosiddetto protocollo della vigile attesa, stabilito dal ministero della Salute. Di recente è stato sospeso dal Tar del Lazio secondo cui limitava l’autonomia dei medici, è stato poi ripristinato dal Consiglio di Stato, in attesa del giudizio definitivo.  

LORENZO VENDEMIALE

Lei cosa pensa di questo protocollo?  

SILVESTRO SCOTTI – SEGRETARIO GENERALE FEDERAZIONE MEDICI DI MEDICINA GENERALE

Credo la parola infelice di quella frase sia attesa perché fa pensare che ci sia qualcuno che aspetta. 

LORENZO VENDEMIALE

E non è così. 

SILVESTRO SCOTTI – SEGRETARIO GENERALE FEDERAZIONE MEDICI DI MEDICINA GENERALE

Non è così. 

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO

A Bergamo, invece, il professor Fredy Suter ha messo a punto un possibile trattamento precoce basato sugli antinfiammatori. 

FREDY SUTER – PRIMARIO EMERITO OSPEDALE PAPA GIOVANNI XXIII DI BERGAMO

Abbiamo verificato che questi antinfiammatori non solo possono attenuare la sintomatologia della fase iniziale virali ma possono ridurre - questo è un aspetto estremamente importante - le ospedalizzazioni e probabilmente anche i casi di morte. È essenziale che i farmaci siano somministrati dai primi sintomi. 

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO

Il suo protocollo in questi mesi è stato applicato anche da diversi medici di base sul territorio. 

MANUELE BONACCORSI

Come è andata? 

KATIA VAZZANA - MEDICO DI FAMIGLIA 

Bene, assolutamente bene. Rispondono e guariscono. Ospedalizzazione quasi nulle su 1.600 mutuati. Le faccio un esempio. Io il primo paziente Covid che ho trattato, gravissimo, fu mio padre nella prima ondata. Diabetico, cardiopatico, iperteso, quasi allettato. L'abbiamo trattato con antinfiammatori. Mio padre si salvò. Da lì pensai se sono riuscita a tirar fuori mio padre in queste condizioni si può fare con qualsiasi altro paziente. 

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO 

La sperimentazione è stata curata dall’Istituto Mario Negri, diretta dal professor Giuseppe Remuzzi. Lo studio, pubblicato a giugno 2021, mostra risultati molto promettenti: su 90 pazienti trattati con le cure precoci, solo 2 ricoveri. Nel gruppo di chi precedentemente aveva seguito il protocollo standard, erano stati 13. Adesso è in arrivo una seconda pubblicazione che conferma lo stesso trend. 

FREDY SUTER – PRIMARIO EMERITO OSPEDALE PAPA GIOVANNI XXIII DI BERGAMO

Se si vuole sinceramente resto a bocca aperta anch'io. Perché i nostri risultati sono stati assolutamente superiori a quello che pensavamo. 

MANUELE BONACCORSI

Quello che voi dite è essenzialmente diamo subito gli antinfiammatori invece che la tachipirina. Perché in questo momento i protocolli dicono tachipirina o antinfiammatori. 

FREDY SUTER – PRIMARIO EMERITO OSPEDALE PAPA GIOVANNI XXIII DI BERGAMO

Con la tachipirina non si cura l'infiammazione. I farmaci antinfiammatori di cui abbiamo parlato invece vanno alla radice del problema, riducono la probabilità di andare in una infiammazione grave. Oggi ci sono delle segnalazioni recenti che dicono che la tachipirina tende ad abbassare il glutatione che è un antiossidante protettivo.  

MANUELE BONACCORSI

Ma se il risultato di questo vostro metodo di cura è così importante perché non è stato generalizzato?  

FREDY SUTER – PRIMARIO EMERITO OSPEDALE PAPA GIOVANNI XXIII DI BERGAMO

Gli enti regolatori tipo Aifa possono dare delle indicazioni solo sulla base di studi scientifici estremamente rigorosi. Il nostro studio ha dei limiti, cercheremo di farne uno il più possibile corretto da tutti i punti di vista. 

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO 

La risposta del dott. Suter è diplomatica, ma prima di lasciare il suo studio, scopriamo che forse non è stato fatto tutto il possibile per verificare questi trattamenti.  

FREDY SUTER – PRIMARIO EMERITO OSPEDALE PAPA GIOVANNI XXIII DI BERGAMO

Noi possiamo dire che non abbiamo potuto fare lo studio perché non si poteva fare uno studio controllato che andasse contro le norme del Ministero? No, ho capito, ma io cerco di stare estremamente attento su questo. Non preoccuparti. 

MANUELE BONACCORSI

Poi alla fin fine loro le hanno espressamente chiesto di non infilare la tachipirina nel gruppo di controllo per non creare problemi? 

FREDY SUTER – PRIMARIO EMERITO OSPEDALE PAPA GIOVANNI XXIII DI BERGAMO

Loro non accettavano… 

MANUELE BONACCORSI

La vostra idea era fare tachipirina contro antinfiammatorio insieme. Però le hanno consigliato, evitiamo di fare la tachipirina perché andiamo in scontro diretto. 

FREDY SUTER – PRIMARIO EMERITO OSPEDALE PAPA GIOVANNI XXIII DI BERGAMO

Mi sembra che fosse un po’ così. Purtroppo, chi fa le regole, chi dirige, chi parla, chi va ai congressi, non è spesso la gente che vede i malati. Personalmente penso solo con questa norma… hai capito… io credo che avremmo risparmiato migliaia di morti. 

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO

Allora quello che abbiamo percepito dalla telefonata del prof. Suter è che i loro studi hanno ricevuto un blocco dalle istituzioni. Nel momento in cui c’era da mettere a paragone, a confronto il loro protocollo basato sull’utilizzo degli antinfiammatori alla comparsa dei primi sintomi del Covid con quello ministeriale. Ora, insomma, noi non facciamo il tifo per nessuno, non abbiamo le competenze. Però insomma, una domanda all’Aifa avremmo avuto il piacere di farla. Aifa che è la grande assente di questa sera. Gli avremmo voluto chiedere, ma scusate, quali approfondimenti avete fatto sugli studi, sulla sperimentazione effettuata all’interno dell’Istituto Mario Negri? Non da alchimisti qualsiasi, insomma, la domanda è semplice, ma anche molto seria.  

Covid-19, appalti lumaca e posti letto fantasma: il bluff delle terapie intensive. Le Regioni hanno comunicato di avere pronti quasi 10 mila posti, il doppio rispetto a prima della pandemia. In realtà sono poco più di 6.500 e quelli aperti per l’emergenza in questi due anni appena 1.500. Così gli ospedali sono andati di nuovo in tilt. Antonio Fraschilla su L'Espresso il 21 gennaio 2022.

A leggere i numeri messi nero su bianco sulle carte, tutto è perfettamente in ordine. L’Italia sembra aver imparato la lezione e dopo essersi fatta trovare impreparata con un sistema sanitario malconcio quando è esplosa la pandemia all’inizio del 2020, adesso ha alzato un grande muro difensivo per evitare che il sistema sanitario vada in tilt. Un muro fatto da quasi 10 mila posti letto di terapia intensiva, che possono reggere l’urto delle varie ondate del virus evitando di congelare tutti gli altri reparti e rinviare interventi chirurgici.

David Carretta per ilfoglio.it il 28 gennaio 2022.

In Danimarca il numero di positivi ha superato tutti i record. Malgrado il fatto che il paese sia stato il primo in Europa a essere colpito da Omicron, con quasi un quinto della popolazione infettata negli ultimi due mesi, il picco non sembra essere ancora stato raggiunto. 

La Danimarca è in testa alla classifica dell’Ue per incidenza: 6.836 casi al giorno ogni milione di abitanti contro i 2.865 dell’Italia. Eppure il governo di Mette Frederiksen ieri ha annunciato la fine di gran parte delle restrizioni dal primo febbraio.

La decisione è stata adottata su indicazione degli esperti, che ritengono che la Danimarca sia entrata in “una nuova situazione epidemica”, nella quale l’aumento delle infezioni e l’elevata circolazione del virus non si traducono “in ricoveri in ospedale come in precedenza”. In effetti, a fronte di un milione di contagi dalla fine novembre, i ricoveri sono rimasti stabili e i posti occupati in terapia intensiva sono calati.

La Danimarca ha preso un’altra decisione importante: il Covid-19 non sarà più considerato come una malattia che minaccia la società. Il declassamento significa che il governo non avrà più poteri emergenziali. Benvenuti nella nuova normalità epidemica dell’Unione europea: la pandemia di coronavirus viene sempre più trattata come una endemia. 

L’Irlanda sembra essere l’unico paese dell’Ue ad aver superato il picco dell’ondata Omicron. Venerdì il governo di Dublino ha deciso di togliere tutte le restrizioni con entrata in vigore la mattina successiva. 

Nel resto dell’Ue i contagi continuano a salire. Ma le curve che contano sono quelle che impattano sul sistema sanitario. I lockdown e le restrizioni hanno come obiettivo di proteggere gli ospedali. Nei paesi con alti tassi di vaccinazione e terze dosi, i dati su ricoveri e terapie intensive sono ben al di sotto di quelli registrati nella prima e seconda ondata del 2020.

Secondo uno studio del Centro per il controllo e la prevenzione delle malattie americano, Omicron è meno severa di Delta grazie ai tassi di vaccinazione elevati, ai booster e alle infezioni precedenti che garantiscono un minimo di immunità. In questo contesto, molti governi europei stanno passando alla strategia della convivenza con il virus. 

Il vaccino resta il pilastro centrale. I green pass rimangono nell’arsenale dei paesi che lo hanno introdotto. Alcuni paesi hanno introdotto forme varie di obblighi vaccinali. Ma quasi ovunque vengono ridotti i tempi di isolamento per contagiati e di quarantena per i casi contatto (in particolare se sono vaccinati). Anche l’Ue ha rinunciato alla prudenza estrema: una nuova Raccomandazione prevede che le persone vaccinate siano libere di viaggiare con il Certificato Covid senza obblighi di test e quarantene a prescindere dal colore del paese di provenienza. 

Martedì i Paesi Bassi sono usciti dal mini-lockdown, che era stato introdotto in dicembre per fronteggiare la variante e guadagnare tempo per i richiami. I numeri dei contagi non sono mai stati così alti come oggi: in media oltre 52 mila al giorno.

Ma nel frattempo il 56,6 per cento degli adulti ha ricevuto il booster. Gli ingressi in terapia intensiva sono crollati dell’80 per cento da dicembre. Il 14 gennaio, il governo olandese aveva già riaperto i negozi non essenziali, ora anche bar e ristoranti. “Stiamo prendendo un rischio”, ha ammesso il premier, Mark Rutte: “Stiamo facendo un grande passo per sbloccare i Paesi Bassi nel momento in cui il numero di infezioni stanno sfondando il tetto”. Ma il rischio è calcolato.

Ieri il governo in Austria ha annunciato la fine del lockdown per le persone non vaccinate che era in vigore da novembre. I casi hanno superato quota 30 mila, ma “siamo giunti alla conclusione che il lockdown per le persone non vaccinate in Austria sia giustificabile solo in caso di minaccia di imminente sovraccarico della capacità delle terapie intensive”, ha detto il ministro della Sanità, Wolfgang Mückstein.

La Francia ha sfondato quota 500 mila positivi in un giorno, i ricoveri aumentano, ma le terapie intensive sono stabili. La scorsa settimana, il primo ministro, Jean Castex, ha annunciato la fine dell’obbligo di mascherine all’aperto e dei limiti per stadi, teatri e cinema (dal 2 febbraio) e il via libera a discoteche e caffè al banco (dal 16 febbraio).  

In Finlandia, la premier Sanna Marin vuole anticipare la riapertura degli eventi culturali e sportivi e allungare gli orari per i ristoranti. Il Belgio è appena dietro alla Danimarca per incidenza dei contagi, ma il governo ha prolungato l’orario dei ristoranti e riaperto stadi e teatri. Da oggi le classi nelle scuole non chiuderanno più. 

Covid, l’allarme dei medici internisti: “Ricoveri vicini a quelli della prima ondata”. Debora Faravelli il 22/01/2022 su Notizie.it.

I medici internisti hanno lanciato l'allarme sul fatto che i ricoveri legati al Covid si stanno avvicinando ai numeri toccati nella prima ondata. 

La Federazione internisti ospedalieri (Fadoi) ha evidenziato come i numeri dei ricoveri per Covid stiano sfiorando quota 20 mila, una cifra non così distante da quella toccata durante “lo tsunami della prima ondata nella primavera 2020” (25 mila): anche se molti soggetti positivi non vengono ospedalizzati a causa del virus, per gli ospedali la pressione rimane alta e l’impatto devastante.

Medici internisti sui ricoveri

La Fadoi ha fornito i dati dopo aver portato avanti un sondaggio in Lombardia, Piemonte, Toscana, Calabria, Puglia, Friuli Venezia Giulia, Liguria, Veneto, Emilia Romagna, Lazio, Marche, Abruzzo, Molise e Campania, regioni in cui risiede più del 70% della popolazione italiana. Il Presidente Dario Manfellotto ha spiegato che, nonostante le persone ricoverate con il Covid e non a causa dello stesso sono circa il 20% dei positivi, 4 mila su 20 mila.

Pur asintomatiche, esse devono comunque essere isolate per evitare di contagiare gli altri positivi. Il che causa difficoltà perché “se in una stanza ci sono più letti finiamo per non poterli utilizzare per altri pazienti non infetti“. Inevitabilmente diminuiscono quindi i posti letto disponibili, smentendo così il racconto di una quarta ondata non poi così difficile da gestire negli ospedali d’Italia.

Medici internisti sui ricoveri: “Variante Omicron non trascurabile”

La rilevazione ha poi evidenziato che le persone ospedalizzate per il virus nella maggior parte delle strutture (57%) non risultano vaccinate in oltre il 60% dei casi, hanno tra i 41 e i 60 anni nel 43% dei casi e tra i 61 e gli 80 nel 36% dei reparti.

Hanno poi un quadro clinico di media gravità nel 79% dei casi e di gravità severa nel 7%. “A dimostrazione che, se la virulenza di Omicron è inferiore rispetto alle precedenti varianti, la sua pericolosità è comunque tutt’altro che trascurabile“, ha sottolineato Manfellotto.

Federico Fumagalli per corriere.it il 17 gennaio 2022.

Al professor Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto Mario Negri, si è soliti rivolgere grandi domande. Lui stesso se ne fa tante, nel suo ultimo libro «Le impronte del signor Neanderthal. Come la scienza ricostruisce il passato e disegna il futuro» (Solferino). Non a tutte è possibile rispondere. Ma è impossibile non provarci. 

Come è cominciata la vita? Come si è evoluta per arrivare fino a noi? Come e perché è stata ricreata in laboratorio? La scienza è il migliore interlocutore a cui chiedere. E Remuzzi è un «campione di ricerca scientifica». La definizione è di Telmo Pievani, filosofo della scienza, altro nome forte dell’incontro organizzato dall’Associazione generale Mutuo Soccorso.

Pievani, scelto come voce guida al libro, presenta «Neanderthal» come «un testo ricchissimo e particolare, che nasce da materiali e spunti pubblicati dal professor Remuzzi sul Corriere della Sera, arricchiti e integrati. 

La storia dell’umanità è una storia di migrazioni. Una di queste è arrivata in Europa e ha dato origine all’uomo di Neanderthal, che dà il titolo al libro di Remuzzi. Si parte dalle origini della vita e poi, a cerchi concentrici, gli argomenti si allargano. Fino ad arrivare al futuro. Naturalmente, aleggia anche la pandemia».

La genetica

Ed è inevitabile che a questo punto si parli tanto di Covid-19, proprio in relazione a quell’impronta genetica che arriva da molto lontano. «Abbiamo una eredità genetica da Neanderthal — dice Remuzzi —. In percentuale è bassa, attorno all’1-3%. Ma questo poco, può influenzare molto».

Come per esempio il fatto di esporci «al rischio di manifestazioni gravi di Covid-19». L’ultimo saggio di Remuzzi, vendutissimo in edicola e in libreria, prende spunto da un lavoro pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica «Nature»: «Alcuni colleghi, davvero stratosferici, hanno cercato di capire cosa fosse associato a una forma più grave di malattia da Covid — continua Remuzzi —. Abbiamo visto subito come diverse persone che avevano caratteristiche identiche per età e per ambiente, colpite dal virus, morissero, mentre altre manifestassero solo sintomi lievi, o addirittura nessuno. Si è dunque pensato che la genetica avesse importanza». 

La risposta immune dei pipistrelli

Così, sulla base del racconto di «Nature» l’Istituto Mario Negri ha scelto di analizzare il Dna di centinaia di abitanti di Nembro, Albino e Alzano: «I risultati preliminari hanno dato risultati molto interessanti. Da qui nasce il mio libro. Chi di noi avrebbe immaginato che dei lontanissimi “nonno” e “nonna”, unendosi, avrebbero comportato la nostra possibilità di finire in terapia intensiva a causa del Covid?». 

Sollecitato da Pievani, Remuzzi commenta alcune fondamentali tappe legate a questi due anni di pandemia: «Non è il virus a uccidere — specifica —. Ma il nostro sistema immunitario che, in presenza di SARS-Cov2, eccede nella sua risposta. I pipistrelli hanno imparato a incontrare il Covid senza avere una risposta immune eccessiva. Dobbiamo riuscire a capire il perché dei due tipi diversi di reazioni».

Lo studio cinese ignorato

Con un lucido sguardo indietro, il professore prosegue andando alle radici stesse di questa pandemia: «A gennaio 2020, la rivista “Lancet” aveva pubblicato una ricerca cinese. Quel lavoro riportava tutto ciò che era necessario sapere riguardo il Covid. Ma tutto il mondo occidentale lo ha ignorato. E i primi responsabili siamo noi medici e ricercatori. Abbiamo sottovalutato questi allarmi».

«La contagiosità non è uno svantaggio»

Il presente è rappresentato dai vaccini: «Dimostrano come la scienza può migliorare le nostre condizioni di vita». E per il futuro, Remuzzi ammonisce: «L’uomo non sta al centro dell’universo, come si è sempre considerato per tanti secoli. Ha lo stesso valore dei pipistrelli, delle api, dei pesci. Se continuiamo a non rendercene conto, io sono pessimista. Abbiamo ancora tempo, ma non molto. Quanto potremo vivere su questo pianeta, senza distruggerlo?».

Sulle caratteristiche della variante Omicron, molto contagiosa (e apparentemente capace di scatenare una sintomatologia meno grave) Remuzzi dice: «Non è detto che la forte contagiosità sia uno svantaggio. Penso che la pandemia possa concludersi così. Ma se diamo al virus l’opportunità di continuare a mutare in altri Paesi, sarebbe come fare il gioco dell’oca. È necessario fare arrivare presto il vaccino ovunque nel mondo».

Covid, contagi: i dati reali? Nella prima metà di gennaio tra 8 e 16 milioni, in Italia. Milena Gabanelli e Simona Ravizza su Il Corriere della Sera il 18 Gennaio 2022.  

Nella prima metà di gennaio 2022, dall’1 al 15, sono state osservate 2.381.081 infezioni. Durante la prima ondata febbraio-maggio 2020 si trovava un infetto su 10, nell’estate 2020 2,5 su 10, da ottobre 2020 la stima è più incerta: tra il 2-4 su 10. Allora venivano eseguiti meno di 200 mila tamponi giornalieri, mentre adesso si arriva in media a superare 1,2 milioni di tamponi al giorno.

Quanti infettati ci sono davvero oggi

Vuol dire che i nuovi infettati vengono trovati tutti? No. Il recente studio Hospitalisation risk for Omicron cases in England del 22 dicembre 2021 dell’Imperial College di Londra (Report 50) sottolinea come in Uk si vede solo 1 caso su 3. Il 15 gennaio 2022, con 1.413.468 tamponi, i contagiati riportati sono 81.713, e il tasso di positività al 5,8%. In Italia il tasso di positività, ossia il numero di persone che risulta positivo al tampone, non è mai stato così alto come in questo periodo: fatte 100 le persone tamponate, ne sono risultate positive fino a oltre 15, mentre in passato difficilmente si sono superate le 5-6. Più il tasso di positività è alto più sono gli infetti che rischiano di non essere trovati, nonostante l’elevatissimo numero di tamponi (legato anche al fatto che molti non vaccinati devono farsi tamponare per andare al lavoro). Il motivo è che il sistema di tracciamento è fuori controllo, e la gran parte delle infezioni asintomatiche ancora una volta non viene rilevata. È verosimile, dunque, che oggi venga registrata solo una frazione compresa tra il 15% e il 30% delle infezioni totali. 

Cosa vuol dire

Tradotto in numeri: potrebbero esserci tra 8 e 16 milioni di italiani che si sono contagiati e non sono stati testati positivi tra fine dicembre e la prima metà di gennaio. Dentro ci sono anche coloro che si sono ricontagiati, stimati ora attorno al 3,3%. Questo dato porta a due considerazioni. La prima: se il 90% della popolazione sopra gli 11 anni, ovvero oltre 48,5 milioni di individui, ha ricevuto almeno una dose, mentre i non vaccinati sono meno di 6 milioni, è innegabile che la circolazione del virus è sostenuta in larga parte da persone vaccinate. A dimostrarlo sono i dati scientifici sulle coperture dal rischio contagio fornite dai vaccini. 

Nel bollettino dell’Istituto superiore di Sanità del 12 gennaio, che prende in considerazione i contagi dell’ultimo mese, c’è scritto: «L’efficacia del vaccino (riduzione del rischio rispetto ai non vaccinati) nel prevenire la diagnosi di infezione Sars-CoV-2 oltre i 120 giorni dal completamento del ciclo vaccinale è pari al 34%, sale al 57% tra i 91 e 120 giorni, arriva al 71% per chi ha completato il ciclo vaccinale da meno di 90 giorni, mentre nei soggetti vaccinati con dose aggiuntiva/booster è al 68,8%». Quindi solo la terza dose booster, oppure la vaccinazione eseguita da meno di tre-quattro mesi, protegge in percentuali rilevanti anche dal contagio. Facciamo i conti per vedere quanti sono gli individui che rientrano in queste due categorie: i vaccinati con il boostersono oltre 11 milioni, altrettanti i vaccinati da più di 120 giorni, si aggiungono i 24,6 milioni di vaccinati con due dosi da meno di 120 giorni, e gli oltre 1,6 milioni con una dose. Guardando gli infettati nell’ultimo mese, risulta evidente che la copertura dal contagio va a scemare dopo tre-quattro mesi: su 100 mila vaccinati con ciclo completo da più di 120 giorni si sono contagiati in 4.036, e su 100 mila non vaccinati in 5.801. Mantenendo lo stesso parametro per chi si è vaccinato con ciclo completo da meno di 120 giorni o con la terza dose, vediamo che i numeri si dimezzano: sono risultati contagiati nel primo caso in 2.714, e in 2.770 nel secondo. Invece a ottobre, per dire, nelle persone completamente vaccinate la copertura dal contagio era genericamente del 77%. 

Seconda considerazione: utilizzare questi numeri per sostenere tesi no-vax è un errore gravissimo, perché la protezione contro il ricovero in ospedale nei reparti ordinari e in Rianimazione, è molto alta. Ed è sempre stato questo lo scopo dei vaccini, la cui efficacia (riduzione del rischio rispetto ai non vaccinati) è al 98% nei soggetti vaccinati con dose aggiuntiva/booster, 95% nei vaccinati con ciclo completo da meno di 90 giorni, 93% nei vaccinati con ciclo completo da 91 e 120 giorni e 89% nei vaccinati che hanno completato il ciclo vaccinale da oltre 120 giorni. Lo dimostrano ancora una volta i dati oggettivi: un ricovero ordinario su due nell’ultimo mese riguarda una persona non vaccinata, e due su tre di quelle in Rianimazione, anche se percentualmente i non vaccinati rappresentano solo il 10% della popolazione. 

Le misure varate dal governo

Resta il fatto che le misure varate dal governo, che ha introdotto limitazioni quasi esclusivamente per i non vaccinati, rischiano di non avere un impatto rilevante nel breve periodo sulla circolazione di Omicron. Gli effetti dell’aumento delle prime dosi che stiamo registrando, a fronte dell’obbligo vaccinale per gli over 50 in vigore dall’8 gennaio e il super green pass obbligatorio dal 15 febbraio anche per andare al lavoro, si avranno verosimilmente non prima di 3-4 settimane (questo è per lo meno il tempo di sviluppo dell’immunità da vaccino). Ne consegue che i vaccinati non devono intendere la loro protezione personale come una luce verde per fare ciò che si vuole (anche se ne avremmo tanta voglia): tavolate numerose al ristorante al chiuso, feste affollate in casa, assembramenti senza mascherine perché tanto si è fra amici. Oltre al vaccino, a proteggerci è sempre la consapevolezza e il buon senso. 

I segnali che ci devono fare riflettere

Ancora una volta i dati analizzati in sequenza ci possono aiutare a capire il motivo per cui occorre tenere alzata la guardia. Prendiamo tre bollettini quotidiani: quello del primo dicembre, del 31 e del 15 gennaio. Il periodo è caratterizzato dalla comparsa della variante Omicron che il 6 dicembre 2021 ha una prevalenza dello 0,32%, intorno a metà dicembre del 21%, e agli inizi di gennaio è all’81%. I casi ricoverati in area medica sono inizialmente 5.249 che salgono a 11.150 e poi a 18.370 il 15 gennaio. I ricoverati in Terapia intensiva passano da 686, a 1.260 e a 1.677. Mentre i decessi salgono da 103 a 155, fino ai 308. L’incremento quotidiano di ricoveri in area medica nella prima metà di gennaio è in media del 4,3% contro il 3,6% del mese di dicembre: Omicron, dunque, sta causando un aumento dei ricoveri sia in percentuale che in numero assoluto. L’incremento giornaliero di ricoveri in Terapia intensiva è invece in decrescita e si attesta attorno a una media del 2,2% giornaliero; pertanto, l’impatto sull’occupazione dei posti letto in rianimazione causato da Omicron non appare ingestibile. Mentre i decessi a gennaio crescono in media quotidianamente del 6,6% contro l’1,6% precedente: considerato il ritardo medio tra infezione e decesso, l’aumento è probabilmente da attribuire principalmente alla variante Delta. 

Proiezioni a 15 giorni

Che cosa può succedere, allora, nei prossimi 15 giorni? Dal primo dicembre a oggi, l’Rt da ricoveri in area medica è rimasto costantemente sopra 1 (tra 1,1 e 1,3), che significa un numero di ricoveri in crescita tra il 10 e il 30% a settimana. Se la curva epidemiologica resta invariata, ciò si può tradurre nelle prossime due settimane in un’occupazione di posti letto in area medica tra i 20 e i 31 mila, con un evidente e drammatico sovraccarico del sistema ospedaliero, già oggi in affanno, con il conseguente spostamento in avanti di visite e ricoveri programmati per altre patologie. 

Ovviamente non è detto che andrà così: l’altissimo numero di infezioni recenti e non rilevate potrebbe avere già innescato l’innalzamento di un muro di immunità contro una ulteriore diffusione di Omicron, e di conseguenza rallentarne la corsa. Alcuni segnali sembrerebbero andare in questa direzione. Il condizionale però è d’obbligo, perché questo virus ci ha insegnato a essere prudenti. Anche se troppo spesso ce ne dimentichiamo, finendo con l’assuefarci ai 2-300 morti al giorno.

Da liberoquotidiano.it il 17 gennaio 2022.

Da giorni Serena Bortone va in onda durante Oggi è un altro giorno indossando una mascherina. Un dettaglio non passato inosservato a Matteo Bassetti che, in collegamento con Rai 1, ha rimproverato la conduttrice. "Lei non ha avuto un contatto diretto. Questa persona aveva la mascherina e addirittura la visiera. Allora io dovrei vivere con la mascherina perché tutti i giorni incontro un positivo. La gente non ne può più di queste regole, non le comprende. Cerchiamo di uscire dalla burocratizzazione del Covid. Misure che oggi sono anacronistiche", ha tuonato il direttore della Clinica di Malattie infettive del San Martino di Genova.

La Bortone, infatti, gli aveva confidato di indossare il dispositivo di protezione individuale perché era stata a contatto con una persona poi risultata positiva. "Io sono un soldato dell'azienda - ha replicato a sua volta la conduttrice per poi precisare -, mi dicono che la definizione di 'contatto stretto' non è chiara". 

"Con la mascherina viene meno la definizione di contatto. Io non l'ho mai interpretata in questo modo", ha concluso Bassetti creando in studio qualche momento di tensione. D'altronde da giorni Bassetti va mettendo in guardia sull'eccessivo allarmismo, creando non poco clamore. E questo è un caso.

La mascherina all’aperto serve? E quale è meglio usare? Laura Cuppini su Il Corriere della Sera il 16 gennaio 2022. 

Le mascherine, insieme al vaccino, sono la più importante difesa contro il coronavirus. In una fase di crescita dei contagi è fondamentale usarla sempre. Vantaggi e limiti delle FFp2.

Il Tribunale amministrativo di Parigi ha sospeso l’ordinanza che impone l’uso della mascherina all’aperto e in Gran Bretagna verrà rivisto l’intero piano anti Covid. In Italia la mascherina è obbligatoria anche per strada. Quando si potrà allentare la misura?

Sappiamo che il rischio di contagio all’aperto è basso, ma solo se viene rispettata la distanza interpersonale. In caso di assembramento le probabilità di trasmissione aumentano, in presenza di positivi. «La mascherina è, insieme al vaccino, lo strumento principale che abbiamo per difenderci dal virus — afferma Carlo Federico Perno, direttore dell’Unità di Microbiologia all’Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma —, è fondamentale continuare a usarla correttamente. La domanda che possiamo farci è: se sto camminando da solo o con dei familiari, è utile tenere bocca e naso coperti? Dal punto di vista medico la risposta è no. Se anche incrociassi per strada un infetto, senza fermarsi a parlare, le particelle virali emesse si diluirebbero nello spazio rapidamente. È l’opposto di quanto avviene in un luogo chiuso, dove ogni espirazione del soggetto con Sars-CoV-2 corrisponde a un’aumentata presenza del virus nell’aria e a un elevato rischio di contagio per tutte le altre persone». 

La variante Omicron ha raggiunto una diffusione dell’80% ed è molto più contagiosa di Delta. In questa fase è raccomandato l’uso della FFp2?

La mascherina chirurgica protegge bene «in uscita», ovvero il nostro prossimo, mentre la FFp2 costituisce un’ottima difesa anche «in entrata», cioè per chi la indossa. «In un momento di contagi elevati la FFp2 rappresenta una tutela maggiore — sottolinea Paolo Bonanni, professore ordinario di Igiene all’Università di Firenze —, ma se tutti indossano correttamente la chirurgica non ci sono grossi rischi. Dopo il superamento del picco, atteso nelle prossime settimane, riterrei ragionevole togliere l’obbligo di mascherina all’aperto, tranne che nelle situazioni di affollamento». 

Le FFp2 sono obbligatorie sui trasporti pubblici, nei cinema e teatri, negli stadi. Quanto rischia, a livello di salute, chi non rispetta la norma?

Uno studio internazionale (cui ha partecipato l’Università di Padova) ha misurato i modelli di rischio, con e senza mascherine. Le goccioline di saliva emesse da una persona infetta che sta parlando, affermano gli autori, possono viaggiare per poco più di un metro, mentre se il soggetto starnutisce arrivano fino a 7 metri. Non esiste una distanza di sicurezza «universale»: influiscono le condizioni ambientali, la carica virale e il tipo di evento respiratorio. Per esempio un colpo di tosse provoca un’elevata probabilità di contagio entro i 2 metri (per chi non indossa la mascherina), che diventano 3 se il livello di umidità è alto. Al contrario, con la chirurgica e ancor più con la FFp2, le possibilità di infezione diventano trascurabili già a brevi distanze (un metro circa). «L’unico limite della FFp2 è quello di ridurre la quantità di ossigeno inspirata — conclude Perno —. Se questo risulta un problema, piuttosto che spostarla o toglierla spesso per respirare, è meglio indossare una chirurgica facendola aderire bene al viso». 

IL TAR FERMA LA CIRCOLARE DI SPERANZA. Covid, la vicenda giudiziaria tra Tar e ministero sulle terapie domiciliari. VITALBA AZZOLLINI su Il Domani il 25 gennaio 2022.

La circolare del ministero della Salute sulla “Gestione domiciliare dei pazienti con infezione da Sars-CoV-2” è stata annullata dal Tar del Lazio perché vieterebbe l’utilizzo di terapie ritenute idonee ed efficaci dai medici.

Il Consiglio di stato ha sospeso l’esecutività della sentenza del Tar, poiché le linee guida del ministero contengono solo “raccomandazioni”, e non “prescrizioni”, quindi non c’è «alcun vincolo» per il medico, che può «scegliere in scienza e coscienza la terapia migliore».

La punibilità del medico va esclusa qualora la morte o la lesione del paziente si sia verificata «a causa di imperizia», ove siano state rispettate le linee guida, se adeguate al caso concreto. Questo è un elemento da tenere presente per valutare l’atteggiamento del medico rispetto a esse.

VITALBA AZZOLLINI. Giurista, lavora presso un'Autorità indipendente. È autrice di articoli e paper in materia giuridica, nonché di contributi a libri per IBL. A titolo personale.

La battaglia delle terapie. Grazia Longo su La Stampa il 17 gennaio 2022. 

Il Tar del Lazio ha annullato la circolare del ministero della salute, aggiornata al 26 aprile 2021, che delineava la cura domiciliare del coronavirus. Tradotto in altri termini significa che ha accolto il ricorso del Comitato Cura Domiciliare Covid-19 che riteneva inadeguata «la vigilante attesa e l’uso esclusivo del paracetamolo escludendo altre cure nei primi giorni dell’insorgere della malattia». Per la sentenza del Tar è infatti «onere imprescindibile di ogni sanitario di agire secondo scienza e coscienza, assumendosi la responsabilità circa l'esito della terapia prescritta quale conseguenza della professionalità e del titolo specialistico acquisito». Una sentenza che fa discutere, perché non mancano le critiche da parte di chi ritiene che si tratti di un provvedimento di fatto già superato. A partire dall’assessore regionale del Lazio alla Sanità Alessio D’Amato: «Con l’ampia diffusione del vaccino il pronunciamento del Tar ha un effetto nullo: con la maggior parte della gente immunizzata il contagio provoca conseguenze assai meno gravi rispetto al passato. La maggior parte dei malati sono addirittura asintomatici e quindi non richiedono pesanti cure farmaceutiche. E inoltre, con la diffusione delle cure monoclonali e antivirali il discorso della vigilante attesa era comunque già venuto meno». Di sentenza scavalcata dalla nuova fase del Covid parla anche Filippo Anelli, presidente della Federazione nazionale degli Ordini dei medici. «Il responso del Tar non cambia di fatto nulla - osserva-. Innanzitutto perché il protocollo del ministero della Salute è ampiamente superato in quanto all’epoca in cui venne emanato si sostenevano la vigilante attesa e l’uso del paracetamolo perché non c’erano cure specifiche come quelle attuali dei monoclonali e degli antivirali». Anelli sostiene, inoltre, che «la sentenza non stabilisce che i medici possono prescrivere tutto ciò che vogliono, ma devono attenersi alle condizioni individuali del paziente per capire ciò di cui ha bisogno. Per capirci, è considerata inopportuna la somministrazione dell’idrossiclorochina e dell’azitromicina, ritenuti ininfluenti per la cura del Covid ma che invece sono andati a ruba, e spesso si stenta a trovarli per darli a chi soffre di altre patologie». Secondo il dottor Anelli «contro il Covid non esistono cure specifiche, dipende dai sintomi del paziente, e in fondo anche con il vecchio protocollo, prima della sentenza del Tar, il medico era tenuto a intervenire in base ai limiti prescrittivi e deontologici». Anche per Silvestro Scotti, segretario nazionale della Federazione dei medici di medicina generale (Fimmg in sigla) la sentenza del Tar «non aggiunge nulla di nuovo. Il ricorso sarebbe anche potuto non essere presentato perché i medici agiscono sempre assumendosi le responsabilità e in modo specifico in base ai sintomi del paziente. Non esiste una cura standard al Covid, ma terapie individuali. Infine non va dimenticato che la circolare del ministero della Salute era basata su delle raccomandazioni e non su linee guida che devono passare attraverso l’autorizzazione dell’Istituto Superiore della Sanità». Su quest’ultimo aspetto insiste anche il vicesegretario nazionale Fimmg, Pier Luigi Bartoletti: «A parte che quelle del protocollo ministeriale non erano linee guida, ma solo delle indicazioni, non credo proprio che alcun medico si sia attenute ad esse. Perché la personalizzazione delle cure è il principio fondamentale dell’approccio medico. Va ribadito che contro il Covid non c’è un rimedio universale. Senza tralasciare, poi, il fatto che in questi due anni il contagio da coronavirus si è modificato due-tre volte, come probabilmente avverrà in futuro e quindi non si possono stabilire terapie assolute. Attualmente, inoltre, difficilmente possono curarsi a casa coloro che non sono vaccinati perché i loro sintomi richiedono per la maggior parte dei casi assistenza in ospedale. Come succede anche ai malati più fragili che necessitano di monoclonali e antivirali».

Quarta Repubblica, "avete ripetuto tachipirina e vigile attesa e oggi..." Capezzone a valanga davanti a Sileri. Il Tempo il 17 gennaio 2022.

I nodi vengono al pettine nella gestione della pandemia da parte del governo. Troppi errori e un accanimento non sostenuto dai numeri nei confronti di alcune categorie, a livello sanitario ed economico. Lunedì 17 gennaio nel corso di Quarta Repubblica, il programma condotto da Nicola Porro su rete4, Daniele Capezzone punta il dito contro la gestione del Covid davanti al sottosegretario alla Salute Pierpaolo Sileri. 

Il giornalista della Verità va all'assalto all'arma bianca: "È troppo comodo dire adesso che hanno sbagliato ma quegli errori sono figli di una pazzia politica e mediatica costruita per due anni in cui nessuno di noi è più un essere umano! La responsabilità è di chi ha creato questo clima infame!", attacca Capezzone. Gli errori vengono da lontano. "Questo è un Paese dove non è stato applicato un piano pandemico, avete detto per un anno tachipirina e vigile attesa e oggi non c'è uno che si prende una responsabilità?" è la domanda retorica del giornalista che incalza: "Si sono gonfiati i casi e i morti, quanti screening sono saltati? Andate a casa!".

Sulle cose da fare, Capezzone lancia alcune proposte da attuare il prima possibile. "Bisogna intervenire subito sulle quarantene, abolire il sistema a colori e la storia del green pass" dice il giornalista da sempre contrario all'uso del certificato verde come strumento sanitario. Altro tasto dolente e controverso è quello della scuola: "Si abolisca la didattica a distanza", tuona Capezzone. 

L'Italia va alla rovescia e perseguita i medici che curano il Covid. L'assurdo caso del dottor Torre. Gianluigi Paragone su Il Tempo il 20 gennaio 2022.

Gerardo Torre è un medico. Ma non è un medico che parla in tv e spiega saltellando da uno studio a un altro come si gestisce l'emergenza. No, «il dottore Torre» - come lo chiamano i suoi pazienti nel salernitano - è proprio uno di quei medici di una volta, quelli di base, di famiglia, del territorio. Uno di quei medici che non prescrive le ricette se prima non ha chiaro cosa tu abbia, e per averlo chiaro in testa ti fa parlare. Gerardo Torre, dunque, è un medico che fa il medico. E ha curato in questo tempo di Covid qualcosa come 3700 persone. Compiendo un atto rivoluzionario: andando nelle case dei pazienti e non usando quel protocollo «Tachipirina e Vigile attesa» oggi messo in discussione. Tremila e settecento pazienti curati: c'è qualche medico di quelli che va in televisione che può vantare all'attivo così tante visite con esiti favorevoli, per di più non rispettando il protocollo della Burocrazia? Non credo. Anzi, martedì sera la trasmissione di Mario Giordano "Fuori dal Coro" ha denunciato come al Galeazzi di Milano, sotto la direzione del professor Pregliasco, gli interventi programmati vengano procrastinati se non sei vaccinato. Dove ciò sia scritto non è dato sapere, ma evidentemente una circolare interna avrebbe dato questa indicazione. «Gli interventi urgenti li facciamo», si è giustificato Pregliasco mettendo una toppa peggiore del buco. Il dottore Torre, queste distinzioni non le fa. Per lui i malati sono malati e vanno curati pure se sono al di fuori della propria territorialità: i medici di una volta sono fatti così.

Fatto sta che tanta intraprendenza ha dato fastidio, così venerdì 28 gennaio l'Ordine dei medici di Salerno gli farà uno di quei processini che piacciono tanto ai "club professionali" (absit iniuria verbis). Però alle persone di buon senso le iniziative apparentemente senza senso non piacciono e così per quella sera i cittadini hanno organizzato una manifestazione a sostegno del loro medico. Difendere le persone competenti dovrebbe essere un principio assai caro a chi si presenta come il governo tecnico, il governo dei migliori, il governo dei bravi. Gerardo Torre dovrà difendersi davanti all'Ordine perché è stato capace di guarire la gente ammalata di Covid, mentre Speranza e tutto il carrozzone tecnico scientifico non viene minimante scalfito nonostante i disastri siano sotto gli occhi di tutti.

La pessima figura sui numeri rimediata dal ministro è ormai un cult: il 10 gennaio in conferenza stampa si presentava con la cifra dei booster (8.102.818) smentita dal report dell'Istituto Superiore della Sanità di quattro giorni dopo (5.697.985). Sono uno dei tanti svarioni commessi e suggellati dal Ministero, dalla immunizzazione dei vaccini ai dati dei ricoverati Covid in ospedale e nelle terapie intensive, dal verdetto critico del Tar del Lazio a proposito della Tachipirina con Vigile attesa alle famose contraddizioni del piano pandemico aggiornato con tanto di inchiesta in corso a Bergamo. Insomma, i numeri e la sicumera su cui avevano costruito la loro narrazione sta crollando: non sono più credibili. Eppure nonostante queste palesi contraddizioni - in alcuni casi addirittura bugie - il governo che dovrebbe far ripartire l'economia sta bloccando l'Italia e gli italiani, sta negando diritti e libertà come il diritto al lavoro, il diritto alla salute e il diritto ad avere giusti processi. Assurdo, ma vanno avanti.

Zona Bianca, violento scontro tra Borgonovo e Pregliasco: “insulti e minacce per colpa vostra”, “non curate i no-vax”. Il Tempo il 19 gennaio 2022.

I pazienti no-vax non vengono curati all'IRCCS Istituto Ortopedico Galeazzi di Milano. È l’accusa rivolta da La Verità alla struttura lombarda e nel corso della puntata del 19 gennaio di Zona Bianca, programma di Rete4 condotto da Giuseppe Brindisi, vengono messi a confronto il giornalista della testata in questione, Francesco Borgonovo, e Fabrizio Pregliasco, direttore sanitario del Galeazzi. Il noto virologo smentisce subito la ricostruzione del giornale e spiega come stanno le cose: “Non è vero, abbiamo addirittura destinato 100 posti letto e un intero piano dell’ospedale per far fronte a questa situazione di persone che arrivano positive. Abbiamo riorganizzato l’ospedale e siamo tornati ad una situazione che speravamo di non dover più riattivare in termini operativi. Tutte le operazioni urgenti e non procrastinabili vengono attuate, sono interventi che impegnano moltissimo le equipe mediche. Abbiamo anche noi una quota di persone malate, c’è una riduzione della capacità operativa. Abbiamo dato poi - la conferma su una parte delle accuse, sottolineando la non urgenza dei casi - delle indicazioni rispetto a delle situazioni non urgenti e procrastinabili come metodologia di spostamento e non di rifiuto per attendere tempi migliori, speriamo nel breve, per far sì che queste persone passino del tempo in ospedale con meno rischi visto che non sono vaccinati”.

Lo scontro si accende e Pregliasco accusa direttamente Borgonovo: “Questa cosa mi ha fatto investire di insulti e minacce, è quello che volete”. La replica non si fa attendere: “Non vogliamo proprio niente, vorrei che lei facesse il suo lavoro molto bene come lo sa fare e che curasse le persone che hanno il diritto ad essere curate”, il virologo sbotta: “Noi lo stiamo facendo, abbiamo pazienti Covid no-vax che curiamo”, “Nessuno vi dice che non state curando pazienti Covid” la precisazione del giornalista. Le due posizioni sembrano inconciliabili e durante la trasmissione Pregliasco fa capire un esempio di quanto sia un momento di poca tranquillità per lui: il virologo riceve una chiamata da un numero anonimo durante la puntata di Zona Bianca. “Ricevo in continuazione chiamate da numeri sconosciuti che poi mi insultano” chiude sorridendo Pregliasco, che fa notare come l’anonimo abbia attaccato la chiamata prima di poter rispondere. 

Paolo Russo per “la Stampa” l'11 marzo 2022.  

Oramai ci ha fatto l'abitudine a veder passare sotto casa una volante della polizia o una pattuglia dei carabinieri. Ma Fabrizio Pregliasco, una delle «virostar» più note della tv, questa volta si è spaventato sul serio quando all'Università Statale di Milano, dove insegna, si è visto recapitare una busta con proiettile e minacce di morte per lui e la sua famiglia. «Oramai faccio attenzione quando sono per strada. Mi guardo in giro».

La paura insomma c'è.

«Ma rifarei tutto», assicura e rassicura, prevedendo un calo dei contagi con la bella stagione. 

Professore, cosa c'era scritto nella lettera?

«Mi accusano di uccidere i bambini a causa del vaccino anti-Covid, secondo loro neurotossico. E poi minacciano di sparare nella pancia a me, ai miei figli e ai miei familiari».

Cos' ha provato quando l'ha ricevuta?

«In verità è arrivata al laboratorio di virologia quando io non c'ero. L'ha presa uno dei miei collaboratori che si è insospettito quando ha visto che aveva una forma strana. Temeva contenesse una fiala contaminata. Certo, sono cose che alla fine un po' ti turbano».

L'avevano già minacciata?

«Guarda caso proprio la sera prima ero stato due ore alla Digos per aggiornare una vecchia denuncia. Ultimamente è stato un crescendo di minacce e insulti sui social. Su un canale Telegram No Vax hanno anche avuto la bella idea di mettere il mio numero di telefono, dove adesso ricevo chiamate minacciose giorno e notte. Qualcuno l'ha fatta pure in chiaro». 

Scusi, la chiamano per dirle cosa?

«Per insultare o dirmi che sanno dove abito io e dove i miei cari, che verranno a ucciderci. Devo dire che la situazione è peggiorata quando è stato introdotto il Super Green Pass e le altre restrizioni per i non vaccinati. È stato un momento di rottura che ha finito per esacerbare gli animi». 

Sta dicendo che i No Vax non andavano discriminati?

«No, no. Quelle misure andavano prese perché quelli che rivendicano la libertà di scelta ignorano o fingono di ignorare che così ledono quella di chi non risponde adeguatamente ai vaccini perché molto in là con gli anni o con un sistema immunitario compromesso. Persone che rischiano tanto». 

C'è qualcos' altro che ha contribuito ad esacerbare gli animi?

«Qualche responsabilità ce l'hanno anche i cattivi maestri, che senza conoscenze scientifiche sono andati in tv a inculcare dubbi e paure sui vaccini solo per mettersi in mostra. Ma c'è anche un'invidia sociale diffusa. Uno recentemente mi ha detto: "adesso che non c'è più il virus vieni farmi da dog sitter". Non sa quante volte sento dire "chissà quanto ci ha guadagnato andando in tv"».

Ci ha guadagnato?

«Ma quando mai. Insegno medicina preventiva e quindi anche educazione alla salute. Fa parte del mio lavoro. E poi, guardi, una certa notorietà mediatica l'avevo anche prima del Covid perché sono trent' anni che mi occupo di virus respiratori». 

Sua moglie e i suoi figli cosa le dicono?

«Chi te lo fare? Ma io rispondo che ne vale la pena». 

Lei tempo fa è pure andato a una manifestazione No Vax per cercare di ragionare con loro...

«Sì, ma è stato come sbattere contro un muro. Hanno rifiutato di parlarmi, dicendo che tanto ero colluso mentre loro attingevano alle fonti di informazione scientifica libera. Chissà poi quali sono». 

Dica la verità, ma il jingle «vaccinatevi» con Crisanti e Bassetti lo rifarebbe?

«Perché no. Era un tentativo di umanizzare il messaggio con le nostre stecche». 

Torniamo alle cose serie. Di questa alzata di testa del virus dobbiamo preoccuparci?

«I dati epidemiologici sono positivi, anche se una ripresa dei contagi in questi ultimi giorni c'è stata. Ma credo dipenda sia dal meteo ancora rigido, che favorisce la trasmissione dei virus respiratori, sia dal liberi tutti che ha accompagnato la discesa dei casi e dell'Rt. Se non altro Omicron ci sta facendo il servizio di alzare il numero delle persone immunizzate. Con l'arrivo delle temperature miti prevedo un'estate serena». 

E in autunno?

«Nuove ondate ne avremo, perché con il passare del tempo cala la protezione da vaccino e malattia. Ma grazie alla immunizzazione diffusa saranno onde meno alte». 

Intanto si parla di togliere il Super Green Pass dal 1° aprile, almeno all'aperto...

«La situazione ci consente di chiudere la fase di emergenza. Ma le riaperture devono essere progressive. Quindi va bene togliere il Green Pass all'aperto, ma per ora teniamolo al chiuso insieme alle mascherine. Altrimenti rischiamo di fare come in Gran Bretagna dove dopo aver aperto i rubinetti di colpo i contagi sono raddoppiati a quota 60 mila. Fino ad ora la via italiana della gradualità si è rivelata vincente. Non vedo perché dovremmo abbandonarla».

Fabrizio Pregliasco: «Minacciato dai no vax, in strada mi guardo le spalle. Mi telefonano anche di notte». Sara Bettoni su Il Corriere della Sera il 9 Marzo 2022.

Spedita al virologo una lettera di minacce con proiettile: «Dicono che spareranno nelle gambe e nella pancia a me, ai miei figli e familiari». La Procura di Milano ha aperto un’inchiesta. «Ho raccolto cento pagine di insulti, troppa enfasi mediatica ai cattivi maestri». 

Una volante della polizia o una pattuglia dei carabinieri periodicamente passa sotto casa di Fabrizio Pregliasco, vicino all’università Statale (dove insegna) e all’istituto ortopedico Galeazzi (di cui è direttore sanitario). «Io faccio attenzione quando sono per strada. Mi guardo in giro» dice il virologo. Spesso interviene in tv, in radio e sui giornali a proposito della pandemia. È un forte sostenitore dei vaccini anti-Covid e per questo è finito nel mirino dei no vax. Giovedì scorso l’episodio più grave. «Ho ricevuto una lettera di minacce con proiettile. In realtà non ho visto io la busta».

Come le è arrivata?

«È stata spedita al laboratorio della sezione di virologia alla Statale. Io ero a lezione». 

Segni sospetti?

«Era strana, un mio collaboratore l’ha aperta con i guanti, immaginando un rischio biologico. È stata un’accortezza utile: ho chiamato la Digos ed è arrivata anche la scientifica per fare i rilievi». 

Cosa le hanno scritto?

«Mi accusano di uccidere i bambini a causa del vaccino anti Covid, che definiscono “neurotossico”». 

E poi la minacciano.

«Dicono che spareranno nelle gambe e nella pancia a me, ai miei figli e familiari». 

Parole pesanti. Non sono le prime che le indirizzano.

«Giusto la sera prima avevo aggiornato la denuncia per gli insulti ricevuti via social. Ho un plico di cento pagine di commenti». 

Succede che le telefonino?

«Anche di notte. Le chiamate sono sollecitate da alcuni canali Telegram che propugnano teorie no vax. A volte chi sta dall’altro lato della cornetta rimane in silenzio. In altri casi mi rivolgono insulti, anche registrati. E c’è chi neppure si preoccupa di nascondere il numero di telefono». 

Dopo la lettera con proiettile la Procura ha aperto un’inchiesta. Da quando è vittima di questi attacchi?

«Dall’introduzione del green pass. Anche altri colleghi sono stati colpiti, come Bassetti: ci siamo sentiti per concordare un’azione comune». 

Qualcuno l’ha mai minacciata di persona?

«Finora no. Sono stato a un presidio di no vax a Milano. A parte qualcuno che brandiva un crocifisso di cartone, non c’era tutta questa acrimonia». 

Ha parlato con i no vax?

«In quell’occasione mi sono confrontato con qualche manifestante: al massimo mi hanno risposto che racconto balle, mentre loro hanno accesso alle vere fonti di informazione. Che poi vorrei sapere quali sono». 

Come sta reagendo la sua famiglia?

«I miei figli, che hanno 27 e 30 anni, sono un po’ attoniti. A volte mi chiedono: “Chi te lo fa fare?”. Un messaggio protettivo nei miei confronti». 

E lei ha paura?

«Devo dire che non mi sento tanto tranquillo. C’è stato un crescendo di rabbia». 

Si è dato una spiegazione?

«Invidia sociale. Si insiste sull’idea di virologi-star. Gli odiatori di professione ripetono: “Cosa fate ora? Non guadagnate più perché non andate in televisione”. Mi sembra un rigurgito per indigestione di informazioni. Ma alla base credo ci sia un altro motivo». 

Quale?

«Si è data eccessiva enfasi mediatica a “cattivi maestri”, a commentatori e a una piccola minoranza di colleghi che hanno usato metodi di confronto politico. Così il normale dibattito tra esperti di scienza è stato esasperato». 

Si è sentito isolato?

«No, anzi. Dopo le minacce ho ricevuto il sostegno del mio rettore, del presidente degli Ordini dei medici, del ministro Speranza. E capita di ricevere segnalazioni positive dalle persone che incontro. Un conforto». 

Ispezione nell'ospedale di Pregliasco: ecco cosa sta succedendo. Francesca Galici il 22 Gennaio 2022 su Il Giornale.

La Regione Lombardia ha inviato i suoi ispettori all'ospedale Galeazzi di Milano per far luce sulla polemica che ha coinvolto Fabrizio Pregliasco.

È esplosa la polemica attorno all'ospedale Galeazzi di Milano, che avrebbe rinviato gli interventi dei soggetti non vaccinati e, quindi, sprovvisti di super Green pass. L'accusa per l'ospedale ortopedico è di effettuare discriminazioni tra i pazienti. A intervenire sulla questione è stata la direzione generale al Welfare di Regione Lombardia, che ha inviato all'istituto ospedaliero una richiesta di "chiarimenti" in merito ai criteri adottati per la rimodulazione degli interventi non urgenti dei pazienti non vaccinati.

Dall'assessorato al Welfare spiegano che la richiesta, con relativo invio degli ispettori, serve per "ottenere informazioni" sui protocolli seguiti dall'ospedale. La disposizione sarebbe arrivata dal direttore sanitario della struttura, il professor Fabrizio Pregliasco, che ha confermato i fatti ma con alcune precisazioni. "Nessuna discriminazione e anzi una grande attenzione perché tutto si possa fare al meglio. Abbiamo considerato nella categoria dei fragili persone con problematiche cliniche personali o rischio infettivo. E anche l'aspetto del non essere vaccinato è un elemento che espone a un rischio infettivo che non possiamo escludere", ha spiegato Pregliasco.

Il direttore sanitario ha poi aggiunto: "Solo l'alluce valgo è quello che abbiamo un pò posticipato tutto il resto lo stiamo facendo, tanto è vero che siamo pieni, saturi nei posti Covid. Abbiamo solo trovato una criteriologia per poter diluire nel tempo una serie di interventi che, anche se fatti con un ritardo, non creano problemi alla persona e gli riducono i rischi".

Al momento dalla direzione generale Welfare non hanno elementi a sufficienza per rilasciare dichiarazioni e si riservano di acquisire maggiori elementi nei prossimi giorni per avere un quadro più completo. Intanto su Fabrizio Pregliasco si è già abbattuta la scure dei no vax, che hanno approfittato di questa situazione per nuove minacce di morte nei suoi confronti. Da Telegram arrivano gli stessi messaggi che, ormai da tempo, circolano sull'app di messaggistica preferita dai no vax. Il numero di telefono di Fabrizio Pregliasco viene preso di mira dalle frange più estreme, che indirizzano al professore messaggi violenti e minatori contro la sua persona.

Interpellato sulla vicenda, il professore Matteo Bassetti si è detto contrario alla politica adottara dall'ospedale milanese: "Io sono sempre stato duro nello spingere le persone a vaccinarsi ma non possiamo dire che se non sei vaccinato non ti curo. Non è corretto Gli ospedali devono avere dei percorsi per chi non è vaccinato, ma che deve poter fare un intervento programmato in sicurezza".

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

Interventi rinviati, l'indagine sul Galeazzi. Fragili e No Vax discriminati? Solo protetti. Francesca Angeli il 23 Gennaio 2022 su Il Giornale.

La decisione di Pregliasco mira a difendere chi non ha la terza dose oppure è a rischio. E il posticipo riguarda solo operazioni non urgenti.

La Lombardia apre un'indagine sul Galeazzi. Nel mirino degli ispettori in particolare non tanto la scelta di rinviare gli interventi non urgenti, già raccomandata dalla stessa Regione, ma in particolare la decisione di coinvolgere soprattutto i fragili e i non vaccinati. La vicepresidente della Regione e assessore al Welfare, Letizia Moratti, ha avviato l'ispezione interna all'Istituto Ortopedico di Milano per «raccogliere informazioni e chiarimenti». L'ospedale in tempi stretti dovrà anche produrre una relazione.

Avviare un'ispezione in una struttura pubblica è pienamente legittimo e anzi segnala l'attenzione dell'amministrazione, ma è pure è necessario analizzare la difficoltà con la quale stanno operando oramai da più di due anni tutti gli operatori sanitari. La sanità pubblica non ha risorse inesauribili e si è trovata a fronteggiare l'emergenza Covid con le armi spuntate da anni di tagli. La necessità di rispondere all'emergenza ha assorbito quasi tutte le energie del comparto. E così dall'inizio della pandemia una dopo l'altra si sono spente le luci dedicate alle altre patologie per lasciare accese soltanto quelle utili alla cura del Covid. Interi reparti chiusi per mancanza di personale. Attività ambulatoriale e day hospital praticamente azzerati. Indagini preventive rimandate prima di settimane, poi di mesi poi di anni. Questa è la realtà del servizio sanitario nazionale da quando è esplosa la pandemia. Dopo due anni di montagne russe molte strutture sanitarie stanno cercando un compromesso sostenibile che da un lato risponda alla domanda dell'emergenza Covid e dall'altro non trascuri tutti gli altri aspetti attinenti alla salute pubblica. In primo piano la mancata protezione dal virus dei non vaccinati.

In queste settimane il rischio più frequente che si corre andando in ospedale, ad esempio perché ci si è rotti una gamba cadendo dal motorino, è ancora quello di esporsi a un contagio da Covid. Chi non è vaccinato non può prendere un caffè al bancone ma in caso di bisogno di cure, se da un lato ha pienamente diritto a essere ricoverato, dall'altro alza il rischio di contagio per sé e per gli altri ricoverati. E così quattro giorni fa il direttore sanitario del Galeazzi, Fabrizio Pregliasco, ha preso la decisione di rinviare gli interventi non urgenti per soggetti fragili e non vaccinati. «Abbiamo considerato nella categoria dei fragili persone con problematiche cliniche personali o rischio infettivo e anche l'aspetto del non essere vaccinato visto che è un elemento che espone a un rischio infettivo che non possiamo escludere», aveva spiegato il professore. Dunque nessuna volontà di discriminazione nei confronti dei No Vax, ma semmai maggiore tutela visto che sono più esposti al rischio di contagio. Oltretutto il professor Pregliasco ha chiarito che gli interventi rinviati sono quelli che non rivestono alcun carattere di urgenza: «Abbiamo posticipato l'alluce valgo, tutto il resto lo stiamo facendo, tanto è vero che siamo pieni, saturi nei posti Covid». Insomma non si rifiuta il ricovero di un paziente acuto, sarebbe illegale. La scelta di Pregliasco appare dettata dal buon senso, ma in questo contesto stravolto dalla pandemia ha scatenato polemiche e attacchi da parte di chi non vuole vaccinarsi. Una shitstorm su Telegram che ha preoccupato il professore.

Alla fine il risultato è che venerdì pomeriggio Matteo Corradin, direttore dell'Unità organizzativa polo ospedaliero di Regione e Frida Fagandini, direttore sanitario di Ats Milano, sono andati al Galeazzi per raccogliere tutti gli elementi relativi alla circolare emanata da Pregliasco sul rinvio degli interventi. La Regione aveva dato indicazione alle strutture sanitarie di rimodulare gli interventi programmati non urgenti per dare priorità ai casi Covid e alle emergenze. Nessuna precisazione su una eventuale distinzione per i pazienti fragili e per i non vaccinati. Potrebbe essere questo il motivo, il sospetto di una discriminazione, ad aver innescato l'indagine. Francesca Angeli

Alessandro Meluzzi, orrore contro Fabrizio Pregalisco: "Psicopatico puro, non è un medico. E quell'idiota di un giornalista..." Libero Quotidiano il 20 gennaio 2022.

Alessandro Meluzzi ha da sempre posizioni molto critiche nei confronti dei vaccini anti-Covid e delle restrizioni - come il Green pass - messe in atto per contenere la pandemia. Posizioni che vanno chiaramente nella direzione del complottismo. E ora, sul suo profilo Twitter, ha pubblicato il post di Andrea Mazzalai che massacra il virologo Fabrizio Pregliasco. "Questo non è un medico, questa è una persona egocentrica, uno psicopatico puro", si legge, "con il suo comportamento finale ormai a un passo dalla violenza, rabbia e quell’idiota di giornalista lo difende". Quindi si vede il video in cui Pregliasco discute con Francesco Borgonovo durante una delle ultime puntate di Zona Bianca su Rete 4.

Ma non solo. Alessandro Meluzzi infatti deve avercela parecchio contro il povero professor Pregliasco visto che dopo questo tweet ne pubblica un altro di tale Lvda che con foto del virologo che ride scrive: "Il vero volto dell’arroganza di un potere che qualsiasi crimine commetta si fa le leggi per salvare se stesso". 

Già, perché secondo Meluzzi, qualcuno o qualcosa, i "potenti", ci starebbero negando la verità, che sarebbe quella riconosciuta dalle minoranze, dai no-vax insomma. Secondo lo psichiatra c'è in atto una sorta di tentativo di controllo globale che la stampa, che dovrebbe andare "in direzione ostinata e contraria", non vuole denunciare.

Roy De Vita contro Fabrizio Pregliasco: "Ma che medico è". Il caso dei ricoveri vietati ai no vax. Il Tempo il 23 gennaio 2022.

"Il dottor Pregliasco con le sciocchezze che ha detto dall’inizio della pandemia ci ha autorizzati ad avere dubbi sulla sua competenza di virologo; su quella di medico li fugati tutti". Il prof. Roy De Vita in un video fa a pezzi il direttore sanitario dell'Istituto Galeazzi, finito nel mirino della Regione Lombardia e contro il quale è stata avviata un'ispezione. La richiesta è arrivata dopo le polemiche esplose relativamente a una disposizione firmata da Pregliasco che chiederebbe il rinvio degli interventi per i pazienti che non sono vaccinati. Roy de Vita, fra i più conosciuti chirurghi plastici italiani e Primario della Divisione di Chirurgia Plastica dell'Istituto dei Tumori di Roma Regina Elena, denuncia la gravità delle accuse contro il medico: "Basta un tampone, è un tampone che va chiesto ai pazienti".  

Da video.corriere.it l'11 aprile 2022.

«La cravatta? Oggi non la porto e c’è un motivo: la cravatta raccoglie germi ed è vettore di possibili infezioni, in luoghi come gli ospedali in questo periodo non andrebbe usata. E poi la cravatta appartiene ad uno stile vecchio, ormai superato». Questa la considerazione di Fabrizio Pregliasco, virologo dell’Università Statale di Milano, oggi alla trasmissione di Rai Radio1 Un Giorno da Pecora, condotta da Giorgio Lauro e Francesca Fagnani.

Stasera Italia, Massimo Galli boccia gli inglesi che allentano le misure anti-Covid: non una gran trovata. Federica Pascale su Il Tempo il 19 gennaio 2022.

Il professor Massimo Galli torna sugli schermi di Rete 4, ospite di Barbara Palombelli a Stasera Italia. Durante la puntata di mercoledì 19 gennaio, l’infettivologo si è espresso sulla situazione epidemiologica del Regno Unito: “Stanno allentando per aver avuto ancora più di 95.000 casi soltanto ieri, e ne avevano più di 200.000 pochi giorni fa. La flessione l’hanno vista, certo, ma dipende molto da come fanno i tamponi”. Ad ogni modo, il professore rimane scettico: “Non mi sembra una gran trovata, ma piuttosto un’altra delle uscite a cui ci ha abituato il governo britannico. È evidente che dobbiamo trovare il sistema per rendere il più possibile flessibile nella sicurezza il sistema di controllo delle infezioni, ma le infezioni ci sono”.

La Palombelli chiede a Galli, recentemente risultato positivo al Covid, di commentare la polemica montata sulle cure ricevute. Infatti, l’infettivologo è stato curato con gli anticorpi monoclonali, a differenza di molti suoi coetanei ai quali viene diagnosticato il Covid con ritardo, o che non ricevono le cure adeguate nel nome di “tachipirina e vigile attesa”. Dopo aver spiegato la logistica del contagio, avvenuto ad una festa di Capodanno in compagnia di coetanei trivaccinati, Galli spiega: “Omicron gira. Io forse ero il più stagionato in termini di tempo dalla terza dose, ma comunque avevo ancora tempi molto buoni. Ero certo di avere anticorpi ed ero negativo al tampone di due giorni prima. Questa variante gira e gira molto, e ci costringe ad essere prudenti”. 

Il grande errore sui ricoveri per Covid. Ospedali in tilt? I numeri che dicono un'altra verità. Il Tempo il 19 gennaio 2022.

Quasi un paziente su 3 positivi a Covid-19 sono ricoverati in ospedale per altre patologie. È quanto emerge dall’ultimo report degli ospedali sentinella della Federazione italiana aziende sanitari e ospedaliere (Fiaso), in cui sono stati analizzate le degenze distinguendo tra i pazienti ricoverati per Covid, e dunque affetti da una sintomatologia polmonare e delle vie respiratorie, e i pazienti positivi al coronavirus ma asintomatici, ricoverati in ospedale per altre patologie. Questo rapporto riguarda solo gli adulti.

Complessivamente, in 19 degli ospedali sentinella Fiaso sono ricoverati nelle aree Covid 1.949 pazienti: il 67,2% ha sviluppato la malattia da Covid e ha una patologia polmonare e delle vie respiratorie, mentre il 32,8% dei pazienti è positivo, ma si trova in ospedale per curare altre patologie e nella maggior parte dei casi ha scoperto di essere positivo a Sars-CoV-2 solo al momento del ricovero che prevede il tampone. Più di due terzi di questo ultimo gruppo di soggetti ricoverati ’con Covid’ era vaccinato - sottolineano dalla Fiaso - e per questo è stato protetto dallo sviluppo della malattia, tanto che in ospedale ci è finito per differenti patologie.

Il dato che emerge conferma lo studio Fiaso a cui avevano aderito 6 grandi aziende ospedaliere e che aveva anticipato come un terzo dei ricoveri fosse composto da asintomatici al Covid, ma con altre patologie. Diversa, tuttavia, la situazione delle rianimazioni - precisa la Federazione - dove il peso dei pazienti asintomatici al Covid e affetti da altre malattie è del tutto residuale. In terapia intensiva solo il 10% dei pazienti positivi al coronavirus pandemico è ricoverato per altre patologie: in particolare, di questi pazienti senza sintomi Covid ma positivi al virus il 36% è finito in rianimazione per un ictus, un infarto o un’emorragia cerebrale; il 27% ci è arrivato per uno scompenso internistico; il 18% a seguito di un trauma o un incidente, e il 13,6% è in un letto di rianimazione per un intervento chirurgico indifferibile a cui ha dovuto sottoporsi ugualmente nonostante la positività. 

Ha mostrato dati falsi, la Maglie contro i numeri di Speranza. Federica Pascale su Il Tempo il 15 gennaio 2022.

“Il ritorno in piazza di tante persone è la dimostrazione che l’obbligo vaccinale non serve, è inutile. Oltre che irrispettoso di qualunque forma di democrazia e libertà, pone problemi di compatibilità con la Costituzione”. Lo afferma Maria Giovanna Maglie, ospite in collegamento della puntata di sabato 15 gennaio di Controcorrente, il talk di approfondimento politico condotto da Veronica Gentili su Rete 4. “Il racconto sta cambiando. A cominciare dalla conferenza stampa di Draghi, quando Speranza ha mostrato dati falsi, come ha spiegato benissimo sul Tempo il direttore Franco Bechis”, sottolinea la Maglie. “Oggi non c’è nessun virologo che non introduca elementi di dubbio, perché evidentemente non vogliono finire a fare il capro espiatorio”.

La giornalista, anche alla luce di una tendenza a livello mondiale, suggerisce un “ripensamento generale”. Occorre fare un’analisi lucida di quel che si è fatto e correggere gli errori. “Se si finisce in terapia intensiva, vaccinati o non vaccinati, sarà sempre tardi perché prima qualsiasi medico generico ha l’obbligo di dirti di non prendere niente se non una ridicola tachipirina e stare in vigile attesa. Che sia ancora questo il protocollo è ridicolo. Non aver abbinato la terapia domiciliare, per evitare che molti casi diventassero gravi, e aver saturato gli ospedali sono errori”. A questo proposito, il Tar del Lazio ha accolto il ricorso presentato dal Comitato Cura Domiciliare Covid-19 contro le linee guida ministeriali del 26 aprile 2021, per il trattamento domiciliare dei malati Covid, e dunque bocciato il cosiddetto protocollo Speranza. Altro grande tema che andrebbe ripensato, vaccino e numero di dosi: “Siamo pronti alla terza, quarta o quinta dose ma fior di virologi dicono che questo metodo non può essere seguito, e nel contempo il governo, anche di fronte a questa constatazione, si è ben guardato dal cercare altri metodi”.

Covid, stop vigile attesa e paracetamolo. Il Tar sospende circolare Ministero. Grazia Maria Coletti su Il Tempo il 15 gennaio 2022.

Cure domiciliari e Covid, "stop a paracetamolo e vigile attesa", i medici possono curare il virus a casa: Il Tar del Lazio sospende la circolare del Ministero della Salute che parla di "vigilante attesa" per i pazienti positivi al Coronavirus che stanno a casa. A fare ricorso era stato il Comitato Cura Domiciliare Covid 19 e ora il Tar del Lazio ha ufficialmente annullato la parte della circolare del Ministero che parla di "vigilante attesa". Questa, in particolare, aveva suscitato molte critiche, da chi reclamava invece cure domiciliari tempestive per evitare il peggioramento della malattia. "Questo pronunciamento è una vittoria dei tanti medici di Medicina Generale" dicono ora  i medici di famiglia, che dal primo lockdown si sono impegnati anima e corpo a curare i loro pazienti, e con successo, con quello che avevano a disposizione, e che avevano capito che funzionava. Ma vediamo nel dettaglio cosa dice il Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio.

Il Tar del Lazio, Sezione Terza Quater, ha accolto il ricorso presentato contro il ministero della Salute per l’annullamento, previa sospensiva, della circolare del ministero della Salute "recante Gestione domiciliare dei pazienti con infezione da Sars-Cov-2 aggiornata al 26 aprile 2021, nella parte in cui, nei primi giorni di malattia da Sars-Cov-2, prevede unicamente una " vigilante attesa" e somministrazione di fans e paracetamolo e nella parte in cui pone indicazioni di non utilizzo di tutti i farmaci generalmente utilizzati dai medici di medicina generale per i pazienti affetti da covid".

"È onore imprescindibile di ogni sanitario agire secondo scienza e coscienza, assumendosi la responsabilità circa l’esito della terapia prescritta quale conseguenza della professionalità e del titolo specialistico acquisito" puntualizzano i giudici accogliendo il ricorso firmato dall’avvocato Erich Grimaldi. "Finalmente un punto fermo nella battaglia che portiamo avanti da due anni, è la fine della vigile attesa - commenta il legale che è anche presidente del Comitato Cura Domiciliare Covid-19 -. Siamo riusciti a dimostrare che le linee guida ministeriali erano di fatto uno strumento per vincolare i medici alle eventuali responsabilità che derivano dalla scelta terapeutica. Il governo ha di fatto privato i cittadini delle cure domiciliari precoci paralizzando la sanità territoriale e portando al collasso il sistema ospedaliero".

Le censurate linee guida, come peraltro ammesso dalla stessa resistente, costituiscono mere esimenti in caso di eventi sfavorevoli - osserva il Tar - In disparte la validità giuridica di tali prescrizioni, è onere imprescindibile di ogni sanitario di agire secondo scienza e coscienza, assumendosi la responsabilità circa l’esito della terapia prescritta quale conseguenza della professionalità e del titolo specialistico acquisito.

La prescrizione dell’Aifa, come mutuata dal ministero della Salute, contrasta, pertanto, con la richiesta professionalità del medico e con la sua deontologia professione, imponendo, anzi impedendo l’utilizzo di terapie da questi ultimi eventualmente ritenute idonee ed efficaci al contrasto con la malattia Covid 19 come avviene per ogni attività terapeutica".

Secondo il Tar del Lazio il "contenuto della nota ministeriale, imponendo ai medici puntuali e vincolanti scelte terapeutiche, si pone in contrasto con l’attività professionale così come demandata al medico nei termini indicata dalla scienza e dalla deontologia professionale. Per tali ragioni il ricorso deve essere accolto".

·        Io Denuncio…

Covid, 1 deceduto su 6 ha contratto infezioni batteriche in ospedale. Salvatore Toscano su L'Indipendente il 21 Dicembre 2022

Un alto tasso di persone che hanno contratto il Covid potrebbe essere deceduto a causa dell’ospedalizzazione, o quantomeno come concausa. In questi casi, il decorso della malattia sarebbe stato influenzato dalla contrazione di infezioni batteriche ad alto tasso di antibiotico resistenza nelle strutture ospedaliere. È quanto rivelato dal programma televisivo Report, che dichiara di aver ricevuto dall’Istituto Superiore della Sanità uno studio che dimostra come il 19% dei pazienti Covid ricoverati avesse anche infezioni batteriche e come, su un campione di 157 pazienti deceduti tra il 2020 e il 2021, l’87,9% avesse contratto le infezioni in ospedale, con batteri che raggiungevano punte di resistenza agli antibiotici del 95,5%, rendendo di fatto le infezioni incurabili. «Molti di questi pazienti sono morti per la sepsi, non per il Covid» ha dichiarato al programma Claudio d’Amario, direttore generale della Prevenzione al Ministero della Salute tra il 2018 e il 2020, specificando come a cadere vittime di questi germi «che purtroppo girano negli ospedali» fossero anche i pazienti intubati. Durante la degenza, il 70,7% del campione era stato ricoverato in terapia intensiva, il reparto con la maggior percentuale di infezioni batteriche rilevate (ad esempio l’88,7% di LRTI).

«Se andassimo a fare una revisione, il 40% dei decessi non avrebbe nulla a che vedere con il Covid» ha aggiunto d’Amario, facendo riferimento a un “problema metodologico”. Anche il direttore generale dell’AIFA, Nicola Magrini, ha ammesso come «l’antibiotico-resistenza sia stato un fattore che ha contribuito alla difficoltà del trattamento e di cura». Magrini fa poi un passo indietro affermando che l’infezione secondaria sia stata «un elemento aggiuntivo in un paziente comunque molto critico. Qualcuno di questi certamente è morto avendo acquisito quest’infezione o con anche quest’infezione». Un’affermazione al ribasso, considerando i dati disponibili e la discrezionalità nella definizione di soggetto “molto critico”. Partendo dall’età risulta che la media tra i 157 pazienti deceduti fosse di 71 anni, 9 in meno rispetto a quella dei pazienti deceduti e positivi al Covid in Italia, secondo i dati raccolti dall’Istituto Superiore di Sanità dall’inizio della sorveglianza fino a gennaio 2022. Del campione totale, 32 pazienti (20,4%) avevano malattie respiratorie regresse, 42 (26,8%) soffrivano di diabete, 19 (12,1%) di neoplasia e 26 (16,6%) di collasso renale. Resterebbero così 38 soggetti privi di patologie concomitanti, il 25% del totale. Un dato non trascurabile, che potrebbe anche essere maggiore dal momento in cui le informazioni disponibili non permettono di affermare se uno di questi pazienti avesse più patologie regresse. Va ricordato, infatti, che ben il 67,8% dei soggetti deceduti e positivi al Covid tra l’inizio della pandemia e gennaio 2022 presentava tre o più patologie concomitanti.

Lo studio redatto dai membri dell’ISS riapre il dibattito sulla gestione del coronavirus da parte delle autorità italiane, mettendo in discussione i numeri su cui queste ultime hanno basato le loro strategie di contrasto alla pandemia nonché i livelli di sicurezza sanitaria delle strutture. «I pazienti Covid erano ricoverati a lungo, e se in quell’ospedale c’è già un grosso problema con l’antibiotico-resistenza, come accade in Italia, la degenza si prolunga e si associa a un alto tasso di complicazioni e quindi di mortalità», ha dichiarato Christoph Lübbert, esperto di malattie infettive e medicina tropicale all’Università di Lipsia. [di Salvatore Toscano]

Covid, l'inchiesta che fa tremare i giallorossi. Le spade di Damocle della commissione voluta da Fdi e i pm di Bergamo. Felice Manti il 3 Settembre 2022 su Il Giornale.

Il Covid e la disastrosa gestione della pandemia del duo Giuseppe Conte-Roberto Speranza entrano in campagna elettorale. Merito di Giorgia Meloni e della sua richiesta di una commissione d'inchiesta sulla mancata applicazione del piano pandemico, decisa a tavolino da governo, ministro della Salute e Cts. Le critiche di Fratelli d'Italia che Speranza ridicolizza come «idee No Vax» nascondono il terrore che vengano cristallizzate le responsabilità dell'esecutivo Ms5-Pd (su tutte l'aver anteposto il parere dei tecnici, tanto da candidarli, al primato della politica come alibi alla propria insipienza) in attesa che presto o tardi la Procura di Bergamo metta ordine tra mail, sms e whatsapp vorticosamente scambiati nei giorni dello scoppio della pandemia tra Conte, Speranza e dirigenti della Sanità e dei ministeri e ricostruisca la filiera di sciatteria, incapacità e azzardi che ha portato a quasi 180mila morti - tremila per milione di abitanti, la cifra peggiore di tutto l'Occidente stando ai dati statistici di Worldometer - nonostante una delle più severe normativa anti Covid, dal lockdown al discusso obbligo vaccinale per lavorare. Misure sul filo delle libertà personali e della legittimità costituzionale ma necessarie proprio per l'approccio disastroso dell'esecutivo giallorosso alla pandemia.

Speranza non ha ancora mai spiegato la miopia sulla terapia domiciliare tutta tachipirina e vigile attesa, demolita dai due scienziati italiani che hanno studiato come il paracetamolo potesse «esacerbare» il Covid, ipotesi circolata sin da maggio 2020 e di cui Il Giornale ha scritto per primo già il 2 febbraio scorso, ormai recepita da buona parte della comunità scientifica internazionale eppure difesa strenuamente davanti a Tar e Consiglio di Stato.

È del fallimento conclamato di alcune di queste misure che qualcuno dovrà rispondere nelle urne. Esiste un partito dichiaratamente No Pass e No Vax, Italexit di Gianluigi Paragone, che i sondaggisti accreditano di un abbondante 3% anche grazie alla presenza in lista di uno dei legali delle vittime della Bergamasca, Consuelo Locati, che da sempre si batte per la commissione. Ma la platea dei delusi dalle cure anti Covid è sterminata, dai pasdaran anti vaccino ai «forzati» della terza dose che non li ha risparmiati dal contagio. Ci sono milioni di italiani che hanno creduto allo Stato come è doveroso ma ora pretendono risposte, tanto che alcuni potrebbero tornare a votare dopo anni di astensionismo. Ad essere ambiguo su questi temi non è la Meloni ma il ministero che Speranza guida da ormai tre anni. Ecco perché serve una commissione parlamentare stile David Rossi, che affianchi il lavoro dei magistrati senza sovrapporsi. A meno che a scrivere la storia sia solo la Procura di Bergamo, anche grazie al report curato da Andrea Crisanti, in lista col Pd perché «di sinistra dai tempi di Enrico Berlinguer», un tecnico di cui si è servito Speranza che vuole essere «legittimato dai voti», un potenziale Cavallo di Troia dei pm dentro le mura del Pd. Chissà se a Enrico Letta qualche Laocoonte ha detto: temo i tecnici e i regali che portano...

La strage Covid nella Rsa di Soleto «Hanno abbandonato gli anziani». Lecce, nelle intercettazioni del dg Asl l’emergenza che causò 38 morti. La direttrice (indagata). «Il contagio partì dalla madre di una paziente». Nel marzo 2020 la clinica venne colpita dal virus. Un infermiere: «Ai pazienti non davano più nemmeno acqua». Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 23 Luglio 2022

«La colpa è solo loro guarda... è solo loro, questo quando gli operatori sono marci... sono marci». Marzo 2020, i giorni più neri dell’emergenza covid. La direttrice della Rsa «La Fontanella», Federica Cantore, tentava di chiamare al telefono il direttore generale della Asl di Lecce, Rodolfo Rollo, lamentandosi di essere stata abbandonata dai dipendenti. Quella di Soleto è una delle prime strutture in cui la pandemia ha fatto strage: 38 persone morte e un’inchiesta della Procura di Lecce che sta cercando di individuare eventuali responsabilità. Il racconto di quei giorni convulsi è finito in una informativa della Finanza nel fascicolo che vede indagato Rollo e che l’8 luglio ha portato all’arresto di 5 persone tra cui l’ex assessore regionale Salvatore Ruggeri: l’inchiesta del pm Alessandro Prontera, battezzata «Re Artù», che sta scandagliando il mondo della sanità salentina.

«Da tre giorni questi non fanno pulizie, e non lavano, non lavano le robe, cosa che non va bene», riferisce al dg il capo dell’Ufficio d’igiene della Asl, Alberto Fedele. Rollo si da da fare, da subito: dispone l’intervento del personale Asl, offre consigli. «Se hanno la febbre e sono positivi vuol dire che hanno dei sintomi - dice Rollo alla Cantore - quelli là chiami il 118 e li porti in ospedale, e così svuoti il carico. Nel frattempo prendi i numeri di telefono e inizia a chiamare degli Oss o degli infermieri»...

Danni da vaccino, risarcimento per un 16enne: "Nesso causale tra la dose e la trombocitemia". Il Tempo il 17 luglio 2022.

Una sentenza destinata a far discutere quella che riguarda un ragazzo di 16 anni, nato di Rieti e residente a Pisa. Il giovane infatti riceverà un risarcimento per danni da vaccino anti-Covid a un anno dalla somministrazione. a cui il ragazzo si era sottoposto un anno fa esatto. A dare notizia della vicenda è Adnkronos che riporta le considerazioni di Codacons, l'associazione con cui la famiglia del ragazzo aveva deciso di intraprendere la causa.

"Riceverà un risarcimento per i danni da vaccinazione anti-Covid, dopo il definitivo accertamento della correlazione tra la somministrazione del vaccino e i gravi danni alla salute riportati dallo stesso", fa saper l'associazione spiegando che Il Dipartimento militare di medicina legale di La Spezia, attraverso una relazione tecnica ha riconosciuto il nesso causale tra la dose e la trombocitemia autoimmune riportata dal ragazzo a distanza di poche settimane dalla somministrazione  del vaccino anti-Covid Moderna.

Per il Dipartimento la grave patologia è "una reazione avversa grave potenzialmente innescata dalla procedura stessa anche se come fattore concausale in soggetto fino ad allora perfettamente sano" e pertanto "il danno è ascrivibile alla ottava categoria della tabella A allegata al Dpr 30 dicembre 1981 n 834" per 'Menomazione permanente dell’integrità psicofisica'.

Il ragazzo era uno storpino e in buona salute. Un mese dopo il vaccino "si manifestavano i primi sintomi, con puntini rossi su braccia e gambe del ragazzo. A settembre la sintomatologia peggiorava, con un ematoma esteso sul braccio destro e sul collo, ’bolle' di sangue sul palato, sulla lingua e nelle guance interne. A questo punto il ragazzo si recava al pronto Soccorso di Pisa, dove veniva immediatamente ricoverato sulla base di un valore piastrinico nel sangue pari a 1000/mm3 (su un valore minimo di 150mila)".

Fino al giorno 18 ottobre, riferisce il Codacons, il giovane sportivo è rimasto ricoverato presso il reparto di Oncoematologia pediatrica dell’Aoup ’Santa Chiarà di Pisa. Dopo aver svolto gli accertamenti del caso, gli è stata diagnosticata una piastrinopenia autoimmune e i medici del reparto hanno segnalato all’Aifa il numero del lotto del vaccino effettuato, sospettando una correlazione tra la vaccinazione e l’insorgenza della patologia. La situazione del ragazzo purtroppo non migliora e, nonostante le cure prestate, i valori sanitari rimangono fuori norma: così, a dicembre 2021 la famiglia si rivolge così al Reparto di Oncoematologia dell’Ospedale Pediatrico ’Gaslini' di Genova, dove vengono effettuate una serie di analisi immunologiche e genetiche che confermano la diagnosi di ’Itp persistente'. Le analisi mediche e la perizia del Dipartimento militare di medicina legale non solo hanno confermato quanto evidenziato dal consulente di parte del Codacons, il professor Carlo Rumi dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ma danno il via libera in modo formale al risarcimento in favore del ragazzo -che sarà quantificato in separata sede- per danni da vaccinazione, sulla base delle disposizioni della legge 210/92.

Bimbo morto di Covid a 8 anni, i genitori: «In ospedale non è stato curato come doveva». Aldo Simoni su Il Corriere della Sera il 16 Luglio 2022. 

La famiglia del piccolo Alessandro rigetta la versione della Asl: «Non è vero che era in condizioni disperate, abbiamo chiesto il trasferimento a Roma perché l’ospedale non era attrezzato». Ricoverato in pediatria ha avuto una crisi respiratoria ed è morto.

«Non è vero che in ospedale è stato fatto il possibile per il nostro Alessandro. Non è vero che nostro figlio è arrivato al Pronto soccorso in condizioni disperate. Anzi, era ben vigile e presente. La febbre era bassa». I genitori del piccolo Alessandro, 8 anni di Alatri, morto per una crisi respiratoria dovuta al Covid, non ci stanno e criticano severamente la ricostruzione dell’accaduto diramata dalla Asl di Frosinone. «Nostro figlio, che ha terminato da poco la quinta elementare, giovedì sera si è sentito male. Venerdì mattina ha avuto dei conati di vomito e difficoltà respiratorie. Apparentemente, niente di grave. Per sicurezza siamo andati comunque in ospedale». Il piccolo Alessandro non aveva mai avuto problemi di salute e giovedì si era sottoposto al tampone, in farmacia, dove era risultato positivo al Covid. Non si era vaccinato perché il pediatra aveva riscontrato una intolleranza ad un farmaco; pertanto, in via del tutto precauzionale, non si era prenotato per la dose anti Covid.

Alle 12,34 di venerdì, dunque, il bambino viene refertato al Pronto Soccorso dell’ospedale di Frosinone e qui è sottoposto, subito, al tampone. L’esito conferma: positivo. Fatta l’accettazione, il bimbo viene ricoverato in Pediatria. «Qui – ricordano i genitori - ha iniziato a respirare con affanno. Diceva di essere stanco, ma era lucido e presente. Le sue condizioni di salute peggioravano ed abbiamo iniziato ad invitare medico ed infermieri a trasferirlo a Roma in un ospedale più attrezzato. Ma il tempo passava e malgrado le nostre insistenze e le urla, il personale medico prendeva tempo. Sì, le solite scuse: “stiamo facendo” , “non vi preoccupate”, “ecco, ora chiamiamo”. Abbiamo chiesto l’intervento di una eliambulanza o, almeno, di una ambulanza con la rianimazione per trasferirlo a Roma. All’ospedale pediatrico di Palidoro c’era un posto. Intanto Alessandro cominciava ad avere le labbra viola e difficoltà a respirare».

Il bambino, con il poco fiato che aveva, continuava a dire, con un filo di voce «aiutatemi, aiutatemi». Poi, alle 16, ha smesso di respirare. I genitori hanno chiamato la polizia che ha subito inviato una pattuglia. In serata, entrambi i genitori sono stati sentiti dal dirigente della Squadra Mobile, Flavio Genovesi, che ha raccolto la loro denuncia. Il caso è ora nelle mani del pubblico ministero Samuel Amari. «Nel reparto di Pediatria – osservano gli avvocati della famiglia, Christian Alviani e Alessandro Petricca – il trattamento sanitario non è certo stato dei più tempestivi. Anzi, non abbiamo difficoltà a parlare di vera e propria negligenza».

La notizia ha generato grande commozione ad Alatri, dove il papà (operaio) e la mamma (casalinga) sono molto conosciuti. Il bambino era molto legato alle attività della parrocchia di Mole Bisleti e, in particolare, al parroco don Luca Fanfarillo. Ed è stato proprio il sacerdote a volerlo ricordare con un post scrivendo «corri tra gli angeli». Ora tutti vogliono fare piena luce su quanto accaduto. E la prima risposta ai mille interrogativi arriverà martedì mattina, quando, sul corpicino di Alessandro, sarà eseguita l’autopsia all’ospedale Gemelli di Roma (in quanto affetto da Covid). Subito dopo la salma sarà restituita ai genitori e alla sorellina di 15 anni, per i funerali. Nel frattempo la Procura ha nominato un medico legale e disposto il sequestro della cartella clinica.

Dal canto suo la Asl fa sapere che: «Il bambino è giunto in Pronto soccorso dove è stato sottoposto a triage con l’attribuzione di un codice verde e l’esecuzione di un tampone, risultato positivo. È stato inviato immediatamente in pediatria in continuità di pronto soccorso, secondo le procedure aziendali, visitato dal pediatra che ha rilevato un rapido peggioramento delle condizioni cliniche e ha provveduto a chiamare gli anestesisti. Nel frattempo, era stato anche allertato il 118 per il trasferimento di competenza. Il rapido peggioramento delle condizioni cliniche non ha consentito il trasferimento in quanto il paziente non era stabilizzato e quindi non era trasportabile. Il decesso è intervenuto in breve tempo nonostante l’equipe medica intervenuta abbia effettuato le necessarie manovre di rianimazione. La stessa equipe medica, dopo aver constatato il decesso, ha chiesto il riscontro autoptico diagnostico per determinare le cause della rapida morte del bambino. La Asl si è resa disponibile fin da subito a fornire alla magistratura ogni elemento per accertare le reali cause del tragico evento».

Dopo due anni niente indennizzi per i medici di base morti per Covid. STEFANO IANNACCONE su Il Domani il 09 luglio 2022

Le famiglie aspettano dal marzo 2020 il decreto attuativo del dipartimento della Famiglia di Elena Bonetti. Il ministro della Salute, Roberto Speranza, ha riferito che sono appena iniziati i confronti tecnici. L’associazione dei parenti delle vittime denunciano il grande ritardo

Dall’approvazione del Cura Italia sono trascorsi 2 anni e 4 mesi e il decreto attuativo non è ancora stato emanato. I familiari sono in attesa di quello che è un indennizzo minimo di fronte alla perdita di un genitore o di un coniuge. 

Come un’ulteriore beffa si tratta dell’unica disposizione attutiva di quel provvedimento che manca di quel decreto: gli altri 29 previsti decreti hanno completato da tempo l’iter.

Le dimenticanze non riguardano solo il personale deceduto. Gli infermieri aspettano di ricevere una specifica indennità introdotta nel 2020. 

STEFANO IANNACCONE. Giornalista professionista, è nato ad Avellino, nel 1981. Oggi vive a Roma, collaborando con varie testate nazionali tra cui Huffington Post, La Notizia, Panorama e Tpi. Si occupa principalmente di politica e attualità. Ha scritto cinque libri, l'ultimo è il romanzo Piovono Bombe.

Covid, i familiari dei medici morti insorgono contro Roberto Speranza: “Ci ha dimenticati”. Il Tempo il 06 settembre 2022

Sono stati chiamati gli eroi della pandemia ma oggi ai familiari dei medici morti mentre salvano delle vite non è stato riconosciuto dallo Stato un indennizzo economico. "Sono 375 i medici morti per Covid durante la pandemia, di questi la metà sono medici di famiglia e pediatri di libera scelta le cui famiglie ad oggi ancora non hanno ricevuto nessun ristoro. Eppure il ministro della Salute Roberto Speranza si era impegnato per un fondo da 15 milioni di euro rassicurando, anche durante un Question time a luglio, che era ferma intenzione del Governo procedere in tempi rapidi. Purtroppo non è stato così e le mogli, i mariti e i figli di quegli eroi sono stati dimenticati". La denuncia all'Adnkronos Salute è di Gennaro Avano, presidente dell'associazione 'Medici a mani nude', che raccoglie una quarantina di famiglie di medici di medicina generale e pediatri di libera scelta deceduti dopo aver contratto il Covid.

"Al momento gli unici fondi che sono stati erogati sono quelli dell'Enpam, ma solo per chi ancora non aveva maturato la pensione, e la Fondazione Diego Della Valle che aveva avviato una raccolta fondi - ricorda Avano -. Ora il tempo della legislatura sta scadendo e non abbiamo neanche i decreti attuativi della legge 34 del 27 aprile 2022 che prevedeva anche un incremento del fondo, non sono stati emanati". Secondo l'associazione, i tempi per dare il via libera definitivo al fondo con i decreti potrebbero esserci alla ripresa dei lavori del Parlamento e con la possibilità di un intervento nel Dl Aiuti bis. Ma il tempo stringe.

Se così non dovesse essere, "rivolgo un appello a chi guiderà il prossimo Governo: non ci abbandonate", rimarca Avano. "Per noi resta importante aprire anche una strada per i figli dei medici morti mentre svolgevano il loro lavoro, ad esempio pensando a posti riservati per questi ragazzi nelle graduatorie dei concorsi pubblici. Sarebbe un piccolo segnale che - chiosa Avano - lo Stato non ci ha abbandonato”.

Pio Albergo Trivulzio, per gli anziani morti di Covid ci riprova il gip: bocciata l’archiviazione dell’inchiesta. Fabio Calcagni su Il Riformista il 30 Giugno 2022 

Altri sei mesi per indagare ancora ed effettuare “una più articolata perizia” sulle morti degli anziani al Pio Albergo Trivulzio durante la prima ondata di Covid nel 2020. È quanto deciso dal gip di Milano Alessandra Cecchelli, che non ha accolto la richiesta di archiviazione dell’inchiesta sulla storica Rsa milanese, la ‘baggina’.

Negli scorsi mesi i pm della procura, al termine della loro indagine, avevano chiesto l’archiviazione del dg Giuseppe Calicchio, indagato per omicidio e epidemia colposi e violazione delle regole sulla sicurezza nei luoghi di lavoro, e della struttura.

Nella richiesta di archiviazione la Procura, pur sottolineando che al Trivulzio c’era stata una “sottovalutazione iniziale del rischio” dei contagi Covid e una “carenza oggettiva” di interventi “per evitare il diffondersi dell’epidemia”, con la direzione della struttura sanitari che si oppose “nei primi giorni di marzo” del 2020 “all’utilizzo di mascherine”, rimarcava anche che in quel periodo i criteri di “tracciamento e contenimento” del virus, che era sconosciuto, non erano stati ancora nemmeno “adeguatamente introdotti, sviluppati e articolati dalle disposizioni delle autorità sanitarie nazionali e regionali” e c’era “una drammatica insufficienza” di “Dpi e tamponi”.

Dunque, secondo l’aggiunto Siciliano e i pm Clerici e De Tommasi, mancavano le prove di un “nesso causale” fra le condotte dei dirigenti della struttura e le morti.

Di tutt’altro avvio il gip Cecchelli: per il giudice i fatti emersi dalle indagini evidenzierebbero “negligenze della dirigenza del Pat segnalate dallo stesso personale sanitario, pur allo stato delle conoscenze disponibili nei mesi in cui si è verificata” la diffusione del Covid all’interno del Pio Albergo Trivulzio, dove “per ammissione” degli stessi consulenti della Procura “si è verificato il decesso di un numero evidentemente spropositato di ospiti”.

Eloquente il commento di Vinicio Nardo avvocato del direttore generale del Trivulzio Giuseppe Calicchio: “Prendiamo atto della decisione assunta dal Gip di disporre un supplemento di indagini per sei mesi. Penso che tale indicazione consentirà di escludere qualsiasi zona d’ombra su una vicenda che ha avuto, come è noto, un enorme risalto mediatico ed è stata al centro di lunghe polemiche anche di tipo politico”. “Confermo la piena disponibilità e la volontà di fugare ogni equivoco – spiega ancora l’avvocato – certo che sarà riconosciuta la correttezza del dottor Calicchio e del Pio Albergo Trivulzio”.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

COSA C’È NE “IL MOSTRO”. Il nuovo libro di Matteo Renzi: «Perché la politica non vuole indagare sulle ruberie Covid?» Il Domani il 14 maggio 2022

Matteo Renzi ha scritto un nuovo libro, per Piemme, intitolato Il mostro – Inchieste, scandali e dossier: come provano a distruggerti l’immagine. È incentrato sulle sue vicende giudiziarie, con pesanti critiche ai magistrati che le hanno condotte. Ne pubblichiamo qui un estratto in cui rilancia alcune delle questioni sollevate dalle inchieste di Domani. 

Matteo Renzi ha scritto un nuovo libro, per Piemme, intitolato Il mostro – Inchieste, scandali e dossier: come provano a distruggerti l’immagine. È incentrato sulle sue vicende giudiziarie, con pesanti critiche ai magistrati che le hanno condotte. Ne pubblichiamo qui un estratto. 

Abbiamo assistito al pagamento di centinaia di milioni di euro in provvigioni per le mascherine, con personaggi improvvisati diventati tutto d’un colpo molto ricchi nel momento di maggiore dolore della comunità nazionale. Abbiamo assistito ad acquisti di materiale non utile come i banchi a rotelle di Azzolina e Arcuri o i ventilatori cinesi malfunzionanti, ma garantiti da Massimo D’Alema.

Abbiamo appurato come strani incontri si tenessero nello studio che era stato del presidente del Consiglio Conte, con l’avvocato amico e collaboratore dell’avvocato Conte, nel palazzo del mentore del professor Conte, dove alcuni legali pretendevano una percentuale sull’eventuale acquisto di mascherine operato dal commissario straordinario nominato da Giuseppe Conte, incontri ai quali ha partecipato un alto dirigente dei Servizi segreti che allora erano sotto la diretta responsabilità di chi? Ma di Conte naturalmente.

E nei primi mesi del 2021, quando i media annunciano l’avvio di un’indagine e Figliuolo prende il posto di Arcuri, l’avvocato amico di Conte – mi riferisco all’avvocato Luca Di Donna – viene ripreso e fotograficamente immortalato, ma non fermato, dagli inquirenti mentre è alle prese con un febbrile lavoro di viaggi avanti e indietro verso i cassonetti della nettezza urbana. Stava forse distruggendo prove? Magari erano solo le pulizie di primavera. 

Ma, al di là di questi particolari, perché i Cinque Stelle non hanno mai voluto accettare la proposta di una commissione di inchiesta sugli acquisti Covid che noi abbiamo lanciato in tutte le sedi e che evidentemente qualcuno non ha interesse a realizzare? Eppure noi l’abbiamo chiesta ovunque, non solo negli atti parlamentari, ma anche nelle trasmissioni televisive.

LA MISSIONE RUSSA

Ancora ad aprile 2022, partecipando a Porta a Porta ho rilanciato questa esigenza di un focus parlamentare sulla vicenda Covid. Si fanno commissioni di inchiesta su fatti anche minimi, non certo di primaria importanza: perché negare la commissione di inchiesta proprio su questo?

Del resto potrebbe essere una ghiotta occasione anche per capire meglio la strana storia dell’accordo tra Conte e Putin che ha portato, nei primi mesi del 2020, una missione dell’esercito russo in Italia. La missione si chiamava “Dalla Russia con amore” e avrebbe dovuto rappresentare un aiuto russo nella gestione della pandemia, ma con molti profili di stranezza. C’erano più militari che dottori e i costi erano a carico dell’Italia; taluni accordi, come quello con l’ospedale Spallanzani di Roma, hanno lasciato diversi interrogativi, alcuni dei quali inquietanti come dimostrano le inchieste di alcuni media.

E mentre sono seduto nello studio di Bruno Vespa vengo sorpreso da una frase secca di Stefano Feltri, direttore di Domani.

Io rilancio sulla necessità di una commissione di inchiesta sul Covid, sugli acquisti di Arcuri e i militari russi di Conte, e il giornalista risponde: «Hanno tutti qualcosa da nascondere, ognuno di quelli che hanno mangiato sul Covid ha un referente politico».

Rispondo piccato: «Eh no, non siamo tutti uguali, noi siamo gli unici a chiedere di sapere che cosa è successo».

Purtroppo Feltri sembra aver ragione perché, con l’eccezione di Italia Viva, pare proprio che questa commissione di inchiesta non la voglia nessuno.

Ecco perché possiamo prendere lezioni da tutti, ma non dai Cinque Stelle. Urlavano «Onestà» e chiedevano trasparenza.

Adesso sussurrano giustificazioni prive di logica e insabbiano ogni richiesta di fare chiarezza sulle stranezze legate agli approvvigionamenti Covid. Perché? Che cos’hanno da temere? Chi ha preso quelle provvigioni? Perché alti dirigenti dell’intelligence partecipavano a riunioni negli studi privati di alcuni avvocati (e chissà quali avvocati...)? 

Vorrei invitarvi a fare un piccolo calcolo. Per la vicenda Open – considerato il più grande scandalo della storia repubblicana da certi politici appoggiati da media compiacenti – si parla di tre milioni di euro, denaro privato regolarmente bonificato a fondazioni riconosciute dalla legge che hanno inserito questi soldi in bilancio. E il presunto reato – molto presunto perché, come abbiamo visto all’inizio del libro e come vedremo alla fine del processo, non sta in piedi – sarebbe quello di una rendicontazione fatta con il modulo della fondazione anziché con il modulo del partito.

Per la vicenda Covid stiamo parlando di appalti di miliardi di euro pubblici (non tre milioni privati trasparenti) che sarebbero andati non si sa bene a chi, non si sa bene per cosa, non si sa bene sulla base di quale procedura decisionale. Eppure i media hanno dedicato a Open, secondo studi di agenzie indipendenti, ventisette volte lo spazio che hanno dedicato alle mascherine e al Covid. Non vi viene da gridare la rabbia e l’indignazione o semplicemente da domandarvi: che cosa c’è sotto?

Covid, segreto militare sulla mancata zona rossa. Il consiglio di Stato blinda i documenti su Alzano e Nembro. Il Tempo il 18 aprile 2022.

Sulla mancata zona rossa per Covid ad Alzano e Nembro il Consiglio di Stato fa calare la scure del segreto militare. Martedì 12 aprile il tribunale amministrativo ha deciso che lo Stato non deve rivelare perché  400 militari  sono stati inviati all'ingresso della Valseriana tra il 5 e l’8 marzo 2020 senza istituire la zona rossa, come avvenne invece a Codogno e in altri comuni del Lodigiano, richiamandoli alla base.  A riportare stralci del documento a firma dei magistrati Luigi Maruotti e Giovanni Pescatore sono il sito di Gianluigi Paragone e Bergamo News. Alla base della decisione il fatto che  “sono stati impiegati gli stessi contingenti di Forze armate addetti all’operazione ‘Strade Sicure’, il cui utilizzo è stato disposto in attuazione delle direttive generali di pianificazione annuale, in relazione alle quali sussiste un’esigenza di riservatezza volta a secretare le linee della programmazione strategica di impiego delle risorse umane e strumentali”. A chiedere quei documenti era stata l'agenzia Agi.

L’avvocato Consuelo Locati, a difesa dei parenti delle vittime del Covid, è infuriata: “L’autorità giudiziaria avrebbe dovuto spiegare perché l’operazione di contenimento del virus sia correlata con ‘Strade Sicure contro la criminalità organizzata’, a noi rimane incomprensibile”. 

E Bergamo s'interroga ancora sul piano pandemico. Redazione il 19 Marzo 2022 su Il Giornale.

La frase sibillina di un dirigente del ministero della Salute: "Sul nuovo testo mai consultati".

«Sui fondi per il nuovo piano pandemico non siamo stati consultati come ministero della Sanità». Mentre Bergamo commemora i suoi morti, rivede le immagini delle bare sui camion e punta il dito contro la politica che non ha ancora chiarito del tutto colpe e responsabilità (la commissione d'inchiesta è impaludata in Parlamento dai veti incrociati di Pd, M5s e Lega) i riflettori si spostano sui fondi che il governo di Mario Draghi ha deciso di destinare alla stesura del piano pandemico, la cui mancata applicazione piena è stata probabilmente - se ne sta occupando la Procura di Bergamo guidata da Antonio Chiappani - la concausa per il propagarsi della pandemia dalla zona rossa di Nembro e Alzano in Italia e in Europa. Se ne è discusso ieri sera a Osio Sotto durante la cerimonia organizzata dai familiari delle vittime della Bergamasca, nel corso della quale sono stati premiati tra gli altri tre giornalisti del Giornale (Giuseppe De Lorenzo, Felice Manti e Stefano Zurlo) «che si sono distinti per l'impegno nella ricerca documentale e nella divulgazione di quanto avvenuto in Italia nei mesi bui della pandemia» ed è stato presentato il libro Quel che resta di una vita, scritto dai familiari delle vittime del Covid che aderiscono all'associazione #Sereniesempreuniti.

Nel corso dell'incontro, al quale erano presenti tra gli altri l'ex ricercatore dell'Oms Francesco Zambon e alcuni parlamentari come Galeazzo Bignami (Fdi), Gianluigi Paragone e l'ex grillino Gregorio De Falco, è emerso infatti che il governo ha stanziato 860 milioni per lo stoccaggio di dispositivi di protezione, 200 milioni per i primi interventi per la realizzazione del piano pandemico 2021-2023 e 350 milioni per l'implementazione dei piani pandemici regionali e provinciali. Con quali criteri? «Come ministero della Sanità non siamo stati consultati», si è lasciato sfuggire un alto dirigente del ministero. Non è un caso se «l'Unità per il completamento della campagna vaccinale e per l'adozione di altre misure di contrasto alla pandemia» voluta da Draghi dipenda dalla Difesa. «È la prova che il governo ha deciso di esautorare il ministro Roberto Speranza dalla gestione della pandemia», si lascia scappare uno dei presenti. Un segnale chiaro anche per i pm che indagano sulla pandemia.

"Sul Covid errori che minarono lo Stato. Ecco cosa fa Speranza..." Giuseppe De Lorenzo il 23 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Due anni dopo il focolaio di Alzano Lombardo, i familiari delle vittime chiedono verità. Nel mirino Speranza e Conte. Lingard: "La mala gestione non sarà reato, ma va riconosciuta la responsabilità politica".

“Gli errori del governo hanno compromesso la sicurezza dello Stato e dell’Unione Europea”. Due anni dopo il focolaio all’ospedale di Alzano, siamo ancora qui. A discutere di colpe, di responsabilità, di verità. La procura di Bergamo lavora sulla perizia di Andrea Crisanti, secondo cui ci fu nesso eziologico tra la strage del 2020, la tardiva zona rossa e la mancata applicazione del piano pandemico. Si vedrà se e quando la procura procederà. Ma al netto di eventuali avvisi di garanzia, che forse arriveranno e chissà se toccheranno i vertici politici dello Stato, secondo Robert Lingard -consulente familiari vittime del covid - ci sono ancora molti lati oscuri da chiarire su quella drammatica stagione.

Lingard, che effetto fa pensare che dopo due anni siamo ancora qui a discutere di chi siano le colpe?

“Questa domanda merita una non risposta. Come quella che le istituzioni hanno dato ai cittadini in questi due anni: una ‘non risposta’ sulle responsabilità. L’unica cosa emersa è il tentativo protratto e amplificato di riscrivere la storia, de-responsabilizzando le autorità, sulla base di quella che io chiamo la ‘dottrina della fatalità’”.

Che cosa intende per “dottrina della fatalità”?

“A livello istituzionale, in particolare il ministro Speranza, si vuol far passare l’idea che quanto successo sia stato uno tsunami, un evento imprevisto. E invece a livello documentale emerge tutt’altro”.

Cosa?

“Che le persone che hanno omesso di realizzare quanto spettava loro, come aggiornare il piano pandemico o prendere determinate decisioni, hanno di fatto compromesso la sicurezza dello Stato”.

Addirittura.

“Il piano pandemico del 2006 diceva chiaramente che le pandemie rappresentano una minaccia per la sicurezza dello Stato. E anche il ministero dell’Interno ha negato la visione dei suoi atti sulla mancata zona rossa in Val Seriana facendo leva su questioni di sicurezza nazionale”.

Quindi?

“La pandemia ha avuto effetti non solo sulla vita di chi non c’è più, ma anche sull’economia di chi è sopravvissuto. Pensate agli effetti delle misure draconiane assunte contro il virus, come il lockdown. Oppure alle imprese che hanno dovuto chiudere o indebitarsi. E alle famiglie, che sono rimaste senza un lavoro. Gli errori delle istituzioni hanno compromesso l’intero sistema Paese”.

Nell’ultimo libro, Pandemonio, Walter Ricciardi sostiene che l’epidemia era prevista dal 1995. Come mai allora non eravamo pronti?

“Dovrebbe dircelo Ricciardi, visto che è stato presidente dell’Istituto Superiore di Sanità e, insieme al ministero, avrebbe dovuto collaborare all’aggiornamento del piano pandemico”.

Sono due anni che combattete per ottenere la verità: quanto manca per raggiungerla?

“Tanto e poco. Dipende. Sul piano penale ci siamo vicini, su quello civile la strada è lunga, su quello istituzionale è lunghissima”.

Perché?
“Basti pensare al sabotaggio fatto sulla mai istituita commissione di inchiesta. Non si vuole indagare su quanto successo. E questo coincide con un disegno politico ben preciso di alcune compagini politiche”.

Quale?

“Quello di far coincidere le responsabilità penali con quelle politiche. Ma non è così”

Perché?

“Qualcuno pensa che se la magistratura di Bergamo non dovesse inviare avvisi di garanzia ad esponenti politici, ma si limitasse a procedere nei confronti dei burocrati dei ministeri, allora si potrebbe assolvere la politica dalla strage. Ma non è così”.

Mi faccia un esempio.

“Poniamo che la procura non riesca a far coincidere la mancata chiusura della Val Seriana con il reato di epidemia colposa. Magari il reato non verrà contestato perché presuppone che intenzionalmente il soggetto diffonda il virus nella comunità. Questo però non significa che i politici non debbano essere biasimati per non aver assunto determinate decisioni. La mala gestio non è reato, ma è una grave responsabilità politica”.

A chi si riferisce?

“Noi abbiamo citato in giudizio sul piano civile la presidenza del Consiglio dei ministri, regione Lombardia e il ministero della Salute. Oltre duemila pagine di documenti testimoniano che la politica non ha fatto quello che le spettava”.

E quali sarebbero le colpe di Conte e Speranza?

“Io mi occupo di comunicazione. Ricordo le immagini diffuse dai media dagli aeroporti nei primi giorni di caos: si vedevano infermieri vestiti come marziani e passeggeri che attendevano di farsi misurare la temperatura. Sembrava una grande mossa del ministero per bloccare il virus, invece l’Oms dopo la Sars l’aveva definita una misura inefficace in queste circostanze. Servivano tamponi sin da subito, come hanno fatto Australia, Nuova Zelanda e Corea del Sud, e quarantene di 14 giorni all’arrivo. Il costrutto mediatico e comunicativo di quelle ore serviva solo a far vedere che ci si stava muovendo, col tentativo però di nascondere una totale impreparazione”.

Il governo è stato trasparente in questi due anni?

“No. Come è possibile che in uno stato democratico come l’Italia scompaiano dei documenti, come il dossier di Zambon? E perché bisogna fare ricorsi su ricorsi per ottenere dei documenti, come il piano segreto, che sarebbero dovuti essere pubblici? Solo grazie alle nostre battaglie, e agli sforzi del deputato Galeazzo Bignami, abbiamo avuto accesso ai verbali della task force e al piano segreto. Questo è inconcepibile”

Miozzo in un'intervista ha ammesso che sono stati fatti degli errori. Lo stesso ha detto Remuzzi, rammaricandosi di non aver capito subito l’entità del pericolo. Speranza insiste nel dire che non aveva un manuale di istruzioni. Alla fine non è colpa di nessuno?

“Basta andare a rileggersi l’informativa del ministro della Salute del 30 gennaio del 2020, due giorni dopo rispetto a quando Ippolito nella task force suggerisce di far riferimento al piano pandemico. Speranza fa affermazioni allucinanti e dettagliate sulla malattia: aveva bene in mente i pericoli cui stavamo andando incontro. Non può dire che a febbraio 2020 non sapeva cosa fare, perché il manuale di istruzioni c’era: si chiamava piano pandemico. Solo che abbiamo deciso di non attivarlo e non si capisce bene perché. Chissà, magari a spiegarcelo sarà proprio la procura di Bergamo".

Giuseppe De Lorenzo. Sono nato a Perugia il 12 gennaio 1992. Stavo per intraprendere la carriera militare, poi ho scelto di raccontare quello che succede in Italia e nel mondo. Rifuggo l'ipocrisia di chi sostiene di possedere la verità assoluta: riporto la realtà che osservo con i miei occhi. Collaboro con ilGiornale.it dal 2015. Nel 2017 ho pubblicato Arcipelago Ong (La Vela), un'inchiesta sulle navi umanitarie che operano nel Mediterraneo. Poi nel 2020 insieme ad Andrea Indini ho dato alle stampe Il libro nero del coronavirus (Historica Edizioni). Sono cattolico e capo scout per passione educativa. Mi emoziono ancora per le partite della Lazio. Amo leggere, collezionare Topolino, giocare a basket e coltivare la terra.

"Pandemia prevista dal '95". La rivelazione di Ricciardi (che smentisce Speranza). Giuseppe De Lorenzo il 16 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Il consigliere del ministro della Salute nel suo libro: "Questa pandemia era uno degli eventi più prevedibili della storia". Perché non eravamo pronti? 

Quante volte avrete sentito dire che il coronavirus è stato un evento non prevedibile cui nessuno era preparato? Tante. È stato il ritornello del governo Conte II, quello che ebbe la sfortuna - va detto - di incontrare sul suo cammino l’avvento di Sars-CoV-2. Agostino Miozzo, per esempio, lo definì un “cigno nero” o “l’emergenza perfetta”. Giuseppe Conte non esitò a parlare di uno “tsunami senza precedenti”, inteso come un treno che ti investe senza che tu possa accorgertene. E l'Avvocatura dello Stato lo spacciò come un "evento del tutto inusuale" che colse di sorpresa tutto il mondo. Oggi, però, a due anni di distanza dal paziente zero di Codogno, Walter Ricciardi ammette ciò che i familiari delle vittime di Bergamo sostengono da tempo: ovvero che no, le pandemie non sono eventi imprevedibili. “La nostra comunità scientifica - ha detto a l’Aria che tira - lo aveva previsto dal 1995”. Di più. Nel suo libro di recente pubblicazione, dal titolo Pandemonio, lo scienziato aggiunge che “questa pandemia era uno degli eventi più prevedibili della storia”. Lo sapevamo, insomma. E avremmo dovuto prepararci a dovere.

Per Ricciardi i motivi delle ricorrenti epidemie vanno cercati nella “promiscuità tra animali e uomini”, nella “rapidità degli spostamenti” e nella “mancanza di prevenzione”. Ma non è questo il nocciolo della questione. Perché quando detto e scritto dal professore mette indirettamente nel mirino l’allora governo Conte e il suo ministro Roberto Speranza, di cui peraltro Ricciardi è fidato consulente.

Torniamo al 6 agosto del 2020. Quel giorno, quando il virus sembrava aver allentato la sua presa dopo la prima ondata, il leader di Leu si presenta di fronte ai senatori riuniti a Palazzo Madama per rivendicare che “nessuno di noi, ad alcun livello, aveva un manuale di istruzioni” contro il Covid. Un concetto ribadito in più occasioni, compresa la recente intervista da Lucia Annunziata su Rai3: in occasione del primo lockdown, ha detto, “nessun altro paese, a parte la Cina, aveva un’esperienza in tal senso”. In realtà, è la tesi di molti, un vademecum lo avremmo avuto eccome se solo qualcuno si fosse degnato di tirarlo fuori dal cassetto: si chiamava Piano pandemico anti influenzale. Un atto un po’ datato e non aggiornato, come documentato nel Libro nero del coronavirus, ma comunque operativo. Il 5 gennaio l’Oms inviò un alert ai Paesi suggerendo di attivare, ma l’Italia lo scartò (ad eccezione di alcune parti “utili e funzionali”) preferendo scriverne uno nuovo di zecca.

Speranza ha ripetuto più volte che il vecchio piano pandemico non era abbastanza per affrontare un virus sconosciuto, lettura però contestata da più parti: da Ranieri Guerra ("era valido"), dalla procura di Bergamo ("andava attuato") e da Andrea Crisanti ("sono emerse criticità nella sua applicazione"). Anche Giuseppe Ippolito, componente del primo Cts, alla riunione della task force del 29 gennaio suggerì ai presenti di “riferirsi alle metodologie del piano pandemico di cui è dotata l’Italia e di adeguarle alle linee guida appena rese pubbliche dall’Oms”. Il virus quel giorno non era ancora arrivato a Codogno. Sicuri non valesse la pena applicare il “manuale” di cui disponevamo, sebbene vecchiotto?

Sull’argomento la linea del ministro della Salute non è mai cambiata. Ad aprile del 2021 Speranza ha ribadito, sempre in Senato, che “di fronte a questo virus totalmente nuovo” il piano del 2006 “non era sufficiente”. Eppure un documento ufficiale dell’Oms datato 2018 spiegava chiaramente che la reazione ad un virus sconosciuto è composta da elementi che “dovrebbero riflettersi in piani nazionali completi di preparazione alla pandemia che siano stati testati attraverso esercitazioni regolari”. Se, come dice Ricciardi, questa pandemia era “prevedibile”, addirittura dal 1995, le domande sono due: perché nessuno aggiornò il piano pandemico? E perché non attivarlo subito come suggerito da più parti?

Giuseppe De Lorenzo

Sono nato a Perugia il 12 gennaio 1992. Stavo per intraprendere la carriera militare, poi ho scelto di raccontare quello che succede in Italia e nel mondo. Rifuggo l'ipocrisia di chi sostiene di possedere la verità assoluta: riporto la realtà che osservo con i miei occhi. Collaboro con ilGiornale.it dal 2015. Nel 2017 ho pubblicato Arcipelago Ong (La Vela), un'inchiesta sulle navi umanitarie che operano nel Mediterraneo. Poi nel 2020 insieme ad Andrea Indini ho dato alle stampe Il libro nero del coronavirus (Historica Edizioni). Sono cattolico e capo scout per passione educativa. Mi emoziono ancora per le partite della Lazio. Amo leggere, collezionare Topolino, giocare a basket e coltivare la terra.

Fuori dal Coro, Mario Giordano sulle reazioni avverse al vaccino: "Balle dall'Aifa e numeri fantasma".  Libero Quotidiano il 26 gennaio 2022.

A Fuori dal Coro, il programma in onda su Rete 4, si parla delle reazioni avverse al vaccino. Nella puntata di martedì 26 gennaio lo sfogo arriva dal conduttore, Mario Giordano. "Si sono raccontate molte balle, si sono nascosti i numeri sugli effetti avversi dei vaccini". Per il giornalista "è scandaloso che l'Aifa non abbia ancora aggiornato i dati, che sono fermi a settembre". Ma non è tutto, perché poi Giordano lancia un servizio definendolo "materia interessante".  

È la storia di Michela che a 25 anni le è stata diagnosticata una pericardite post vaccino dopo la prima dose contro il Covid: "Ho avuto paura di morire, quella ragazza che ha fatto il vaccino io non l'ho più incontrata, sia fisicamente che psicologicamente". Ciò che più indigna la giovane è "la totale assenza da parte delle istituzioni". Una denuncia che vede Giordano dalla parte di Michela.

La ragazza infatti non è l'unica a raccontare simili episodi. Nella scorsa puntata, sempre in studio da Giordano, era stata Alessia a testimoniare. Subito dopo la prima dose l'insegnante di Messina ha avuto una trombosi e ha cominciato a soffrire di polinevrite, un'infiammazione estesa ai nervi. Ha speso più di 5mila euro tra esami e visite mediche. Ora si è rivolta al comitato "Ascoltami" per chiedere un risarcimento.

Da huffingtonpost.it il 21 gennaio 2022.

"La popolazione della Lombardia fu sconvolta dagli eventi e dall'inconsistenza della risposta da parte della sanità pubblica e delle autorità di governo, oltre che da un piano pandemico obsoleto e non attuato". 

È quanto riportato in articolo pubblicato dalla rivista scientifica inglese 'The Lancet' dal titolo Riconoscere gli errori del Covid nella sanità pubblica in risposta al Covid-19 e scritto da Chiara Alfieri, Marc Rgrot, Alice Desclaux e Kelley Sams.

"I cittadini lombardi vennero messi di fronte all'orrore: ai propri affetti morti in casa senza cure e soli in ospedale - proseguono gli autori - alla scarsità di ossigeno e bombole e alla confusione nell'identificare i corpi cremati".

L’articolo prosegue, spingendosi anche a fare un’ipotetica analisi politica di quanto accadde: "La decisione di non creare la zona rossa ad Alzano e Nembro da parte del Governo e della Regione Lombardia quando il Covid-19 fu diagnosticato ad alcune persone alla fine di febbraio 2020 viene vista come direttamente responsabile della diffusione dell'infezione in altre città attraverso la provincia di Bergamo (in modo particolare la Val Seriana) e poi in tutta Europa".

L’articolo elogia poi l’attività portata avanti dall'associazione 'Sereni e sempre Uniti' che raggruppa i familiari delle vittime del Covid, soprattutto quelle della prima ondata. "L'evidenza dimostra che il ruolo di associazioni come quella dei familiari italiani delle vittime del Covid è cruciale per le istituzioni al fine di identificare e correggere gli errori nella risposta della sanità pubblica, necessaria per supportare le comunità a prepararsi a future minacce infettive, come raccomandato dalla Community Preparedness Unit dell'OMS".

L’analisi della rivista continua affermando che, di fronte a quella che l'Istituto Nazionale di Statistica definì "terza guerra mondiale", "la società civile di Bergamo si organizzò in un movimento per avere giustizia, verità, risarcimento, dignità e per offrire un supporto emotivo in risposta al dolore, alla confusione e alla rabbia delle famiglie".

Come riporta l’Agi, l'avvocato dei familiari delle vittime Consuelo Locati dichiara: "Quello di The Lancet è uno straordinario riconoscimento istituzionale che corona un lavoro certosino di ricerca documentale fatto negli ultimi due anni, ma è soprattutto un riconoscimento per quei cittadini che hanno deciso di portare in giudizio le istituzioni per fare in modo che si assumano le responsabilità di quanto avrebbero dovuto fare e non hanno fatto a scapito della vita di migliaia di persone che oggi potrebbero essere ancora tra noi".

La Procura e la mancata "zona rossa". "Nesso eziologico con le morti da Covid". Giuseppe De Lorenzo il 17 Febbraio 2022 su Il Giornale.

I pm di Bergamo stanno vagliando la perizia predisposta da Crisanti: a breve potrebbero partire gli avvisi di garanzia.

«Il nesso eziologico c'è». È questa la notizia, secca, che trapela da fonti vicine alla procura di Bergamo che sta indagando sul focolaio di Covid che ha martoriato la Val Seriana. Lo scorso 14 gennaio Andrea Crisanti ha depositato la perizia di 90 pagine e 10mila allegati che ricostruisce le prime fasi della pandemia. I magistrati gli avevano posto cinque quesiti per capire se le decisioni assunte, e le azioni intraprese, avessero favorito o meno il diffondersi del morbo. Sul documento vi è massimo riserbo, nulla o quasi è ancora emerso, tranne quello che oggi appare un dettaglio di fondamentale importanza: ci sarebbe eccome «il nesso eziologico» tra contagi, zona rossa, mancato aggiornamento e mancata applicazione del piano pandemico.

Per mesi Crisanti ha lavorato ad un documento di non facile stesura. «È un unicum in Italia e in Europa», aveva raccontato. In primis il microbiologo doveva valutare le condotte dell'ospedale di Alzano, cercando di stabilire se avessero favorito il contagio tra operatori e pazienti, contribuendo così ad allargare il focolaio in Val Seriana. Poi doveva stabilire se, «sulla base delle conoscenze disponibili», fosse doveroso istituire o meno la zona rossa e quale impatto avrebbe avuto nel frenare la diffusione del morbo. Infine, aveva il compito di capire se fosse «esigibile l'applicazione del piano pandemico nazionale», con tutti i risvolti politici ed epidemiologici del caso. «Ho ricostruito passo a passo quanto accaduto e come queste vicende si sono intersecate con i piani pandemici esistenti», aveva spiegato Crisanti. Sul contenuto della perizia non sono trapelati dettagli. Il microbiologo si era limitato a riferire di aver rinvenuto generiche «criticità» sia nell'applicazione del piano pandemico sia sulla zona rossa. Era stata l'Ansa a rivelare che nell'elaborato sarebbe contenuta l'ipotesi di un range tra le 2mila e le 4mila vittime che si sarebbero potute evitare serrando tempestivamente i confini della Bergamasca. Ciò che invece ancora non era emerso è se per Crisanti vi fosse correlazione tra quanto fatto (o non fatto) e la strage da coronavirus. La risposta starebbe proprio in quelle quattro parole: «Il nesso eziologico c'è».

Non è chiaro, tuttavia, se e quando la procura spiccherà eventuali avvisi di garanzia. Gli occhi sono puntati sul ministero della Salute: Roberto Speranza e i vertici del dicastero sono già stati sentiti dai pm. Alcune fonti ipotizzano la chiusura delle indagini già a fine aprile, altre a giugno. Solo allora sapremo se il lavoro di Crisanti avrà ripercussioni penali, oppure no. Di sicuro dovrebbe aiutare a ricostruire la storia di quanto successo a Bergamo. E forse potrebbe pesare sul procedimento civile incardinato al Tribunale di Roma in cui i familiari delle vittime della Bergamasca chiedono allo Stato il riconoscimento del danno subìto per la morte dei loro cari. «Quanto emerso sarebbe una ulteriore conferma della fondatezza della causa civile - dice al Giornale l'avvocato Consuelo Locati, coordinatrice del team legale - e darebbe finalmente soddisfazioni ai diritti di 600 familiari che hanno avuto il coraggio di portare le istituzioni davanti ad un giudice». 

Giuseppe De Lorenzo. Sono nato a Perugia il 12 gennaio 1992. Stavo per intraprendere la carriera militare, poi ho scelto di raccontare quello che succede in Italia e nel mondo. Rifuggo l'ipocrisia di chi sostiene di possedere la verità assoluta: riporto la realtà che osservo con i miei occhi. Collaboro con ilGiornale.it dal 2015. Nel 2017 ho pubblicato Arcipelago Ong (La Vela), un'inchiesta sulle navi umanitarie che operano nel Mediterraneo. Poi nel 2020 insieme ad Andrea Indini ho dato alle stampe Il libro nero del coronavirus (Historica Edizioni). Sono cattolico e capo scout per passione educativa. Mi emoziono ancora per le partite della Lazio. Amo leggere, collezionare Topolino, giocare a basket e coltivare la terra.

Mancate zone rosse, The Lancet accusa le autorità lombarde e il governo. SARA SPIMPOLO su Il Domani il 22 Gennaio 2022.

La rivista dà ragione alle inchieste di Domani sull’impreparazione delle autorità regionali e nazionali all’inizio della pandemia, dalla mancata attuazione di una tempestiva zona rossa alle richieste di giustizia dei familiari delle persone morte. «Abbiamo fatto tutto quello che dovevamo fare», replica Giulio Gallera

«Lancet ha fatto un articolo degno del più estremista giornale politico, e non di una rivisita scientifica». È dura la replica di Giulio Gallera, consigliere regionale lombardo ed ex assessore al Welfare della regione Lombardia, all’articolo pubblicato il 22 gennaio dalla rivista scientifica inglese The Lancet, intitolato "Riconoscere gli errori del Covid nella sanità pubblica in risposta al Covid-19", a firma di Chiara Alfieri, Marc Egrot, Alice Desclaux e Kelley Sams.     

L’ARTICOLO DI THE LANCET

Interrogandosi sull’andamento della prima ondata di Covid in Lombardia, gli autori hanno criticato la decisione del governo e della regione di non creare una zona rossa ad Alzano e Nembro, quando ci furono i primi casi diagnosticati di Covid-19, alla fine di febbraio 2020, e di non attuare un piano pandemico a livello nazionale.

«La decisione viene vista come direttamente responsabile della diffusione dell'infezione in altre città attraverso la provincia di Bergamo (in modo particolare la Val Seriana) e poi in tutta Europa», attacca The Lancet.  

«La popolazione della Lombardia fu sconvolta dagli eventi e dall'inconsistenza della risposta da parte della sanità pubblica e delle autorità di governo, oltre che da un piano pandemico obsoleto e non attuato».

«Noi abbiamo fatto tutto quello che dovevamo fare in quel contesto – ha risposto Gallera – per chiedere la zona rossa quando i dati sono emersi».

«Lancet si è totalmente squalificata per quello che ha fatto – ha continuato – perché ha espresso giudizi solo di carattere politico e non scientifico. La loro evidenza è col senno del poi, ed è facile oggi dare giudizi».

LE INCHIESTE SU BERGAMO

L’articolo di The Lancet conferma le inchieste di Domani sulle mancanze e gli errori della Lombardia e del governo nazionale nella prima ondata di coronavirus, dalla mancata attuazione del piano pandemico nazionale alla decisione di non istituire una zona rossa in maniera più tempestiva.

Sulla strage di Bergamo in quelle prime fasi del Covid, la procura ha aperto un’inchiesta, la cui fase istruttoria dovrebbe chiudersi entro gennaio, indagando sei persone per epidemia colposa e falso.

Partendo dal focolaio di coronavirus nell’ospedale di Alzano Lombardo, l’inchiesta è arrivata a coinvolgere l’intero sistema di gestione della pandemia, e a includere anche il ruolo che ebbe il ministro della Salute, Roberto Speranza, in particolare per quanto il report dell’Oms sulla gestione italiana della prima ondata Covid. Report di cui Speranza sarebbe stato a conoscenza. 

LA PERIZIA DI CRISANTI

La scorsa settimana Andrea Crisanti, microbiologo dell’Università di Padova, ha depositato in procura la consulenza tecnica che gli era stata richiesta dai Pm, che secondo le indiscrezioni conterrebbe la stima delle vittime che si sarebbero potute evitare con l’attuazione di una zona rossa tempestiva: tra le duemila e le quattromila.

«Quando ci fu il primo caso – ha dichiarato Crisanti – all'ospedale di Alzano c'erano già circa cento persone infette. Questo ci dà un’idea del livello che la pandemia aveva raggiunto all’epoca». Crisanti ha anche dichiarato che molti dei pazienti presenti nell’ospedale non vennero testati, generando l’impossibilità di ipotetiche diagnosi che avrebbero fatto luce sulla gravità della situazione.

La procura si avvarrà anche di questa consulenza per capire se governo e regione avessero i dati per decidere di chiudere la zona già a febbraio 2020, e se la veloce propagazione dei contagi si sarebbe allora potuta evitare, o quanto meno rallentare.

Da due anni i familiari delle vittime Covid in Val Seriana denunciano la mala gestione della pandemia, e ora esprimono soddisfazione per il riconoscimento che proviene dalla rivista scientifica. «Quello di The Lancet – ha dichiarato l'avvocato dei familiari delle vittime, Consuelo Locati, – è uno straordinario riconoscimento istituzionale che corona un lavoro certosino di ricerca documentale fatto negli ultimi due anni, ma è soprattutto un riconoscimento per quei cittadini che hanno deciso di portare in giudizio le istituzioni per fare in modo che si assumano le responsabilità di quanto avrebbero dovuto fare e non hanno fatto, a scapito della vita di migliaia di persone che oggi potrebbero essere ancora tra noi».  

LA RISPOSTA ALL’ORRORE

Nell’articolo, The Lancet ricorda anche come «i cittadini lombardi vennero messi di fronte all'orrore, ai propri affetti morti in casa senza cure e soli in ospedale, alla scarsità di ossigeno e bombole e alla confusione nell'identificare i corpi cremati».

A questo orrore, proseguono le autrici dell’articolo, «la società civile di Bergamo» ha risposto organizzandosi «in un movimento per avere giustizia, verità, risarcimento, dignità, e per offrire un supporto emotivo in risposta al dolore, alla confusione e alla rabbia delle famiglie». 

SARA SPIMPOLO.  24 anni, aquilana, ha una laurea in Scienze della comunicazione a Bologna, un tesserino da pubblicista in Abruzzo e ora un percorso di praticantato in corso a Urbino. 

Covid, fioccano denunce e querele per Draghi e per Figliuolo. Rec News il  19 Gennaio 2022 .

Il generale accusato di omicidio colposo, crimini contro l’Umanità, abuso di autorità, violenza privata, procurato allarme e diffusione di notizie false. Premier e governo denunciati a Messina, a Biella e nel Varesotto per sequestro di persona e per la discriminazione dei non vaccinati. La querela di ALI – Avvocati Liberi per i “delitti commessi contro la personalità dello Stato”.

Fioccano denunce e querele per il presidente del Consiglio Mario Draghi e per il commissario all’Emergenza sanitaria Francesco Paolo Figliuolo. Provengono da tutta Italia e sembra si moltiplichino a ogni passo (falso), a ogni acuirsi delle restrizioni e a ogni protrarsi di provvedimenti anticostituzionali. Una bella gatta da pelare per i due, tanto che all’ex “generalissimo” prontamente è stato tolto il comando della Logistica dell’Esercito in salsa emergenziale. Il potentino che voleva “vaccinare chiunque passa“, tuttavia, continua a conservare l’incarico istituzionale all’interno del Comando Operativo di Vertice Interforze, senza rossore alcuno per il ministero della Difesa. Passando a Draghi, secondo gli osservatori mainstream dopo l’uscita di scena di Berlusconi (che avevamo anticipato) e che non abbiamo mai considerato come opzione), si prospetterebbe la corsa al Colle, ma anche qui potrebbe trattarsi del solito bluff per spianare la strada al vero candidato che metterebbe tutti d’accordo. Insomma, messa da parte la politica, a restare sul tavolo sono le migliaia di pagine presentate all’attenzione delle Procure di tutta Italia, che comunque potrebbero avere ovvie ripercussioni anche sulle scelte di partiti che non intendono rimanere imbrigliati in affari giudiziari.

Il generale accusato di omicidio colposo, crimini contro l’Umanità, abuso di autorità, violenza privata, procurato allarme e diffusione di notizie false

Per quanto riguarda Figliuolo, sono pesantissime le accuse formulate dall’ingegnere Giuseppe Reda, il ricercatore dell’Unical che ha denunciato l’operato del militare alla Procura della Repubblica di Reggio Emilia. Sotto la lente degli inquirenti finirà il papello di riferimenti alle misure controverse che secondo Reda ha reso colpevole Figliuolo dei reati di abuso di autorità, violenza privata, diffusione di notizie false atte a turbare l’ordine pubblico, procurato allarme, omicidio colposo, crimini contro l’umanità, violazione della Costituzione Italiana agli art. 2, 32, 54, 76, 78. Di più: Figliuolo ha ammesso candidamente di essere stato al servizio della sperimentazione umana in Italia dei preparati cosiddetti anticovid: “Mai nella storia dell’uomo – sono le dichiarazioni gravi fatte dal militare in Piemonte alla presenza di Alberto Cirio – si è iniettato in pochissimo tempo decine di milioni di dosi di vaccini, senza saperne esattamente l’esito. Se non quello sperimentale che ha portato all’approvazione da parte della comunità scientifica”.

 In fila per denunciare Draghi

A Biella, addirittura, pur di denunciare Mario Draghi e il suo operato ci si mette in fila. Nel mirino, la gestione della pandemia alla Conte, con un Dpcm dietro l’altro con il fine di introdurre una sorta di obbligo vaccinale di fatto e di estorcere la vaccinazione anche in chi – in realtà – non avrebbe voluto sottoporvisi. Una condotta che per i denuncianti avrebbe comportato la violazione dell’articolo 610 del codice penale, che recita che “chiunque, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa è punito con la reclusione fino a quattro anni”. E non è vero, come riporta La Stampa, che si tratta di istanze senza futuro, perché “dal 20 non si potrà più agire in giudizio per la propria tutela personale, in quanto per potervi accedere bisognerà esibire l’infame tessera verde”: perfino il decreto del 7 gennaio – nei fatti – specifica che denuncianti, testimoni e accusati sono esentati dalla presentazione del Green Pass. A Messina, Draghi e il governo sono stati denunciati per sequestro di persona e violenza privata, per aver impedito ai siciliani – perfino a chi doveva spostarsi per necessità chirurgiche – di raggiungere la Penisola in forza dei blocchi imposti all’imbarco dei traghetti tramite l’introduzione del Green Pass. A Varese, ancora, pioggia di denunce per le discriminazioni compiute dall’esecutivo e dal premier ai danni di chi non si è voluto o potuto vaccinare, ma la lista sembra essere più lunga e alimentarsi di ora in ora.

La querela di ALI contro Draghi, Conte Speranza per i delitti commessi contro la personalità dello Stato, tra cui eversione dell’ordine democratico, cospirazione, attentato contro la Costituzione e gli organi costituzionali.

C’è poi – per ultima ma non da ultima – l’azione promossa dal team di legali che si sono uniti sotto la sigla ALI – Avvocati Liberi )– che ha querelato il presidente del Consiglio Mario Draghi, il suo predecessore Giuseppe Conte e il ministro della Salute Roberto Speranza per diversi e gravi delitti “contro la personalità dello Stato”. Gli avvocati hanno presentato una querela di oltre 30 pagine, in cui si fa riferimento al reato di associazione con finalità di eversione dell’ordine democratico (articolo 270 bis c.p.), cospirazione politica mediante accordo (Art. 304 c.p.), Attentato contro la Costituzione dello Stato (Art. 283 c.p.), Attentato e atti violenti contro gli organi costituzionali e contro le Assemblee Regionali (Art. 289 c.p.), Attentato per finalità terroristiche o di eversione (Art. 280 c.p.), pubblica estorsione.

Pensare che c’è chi vorrebbe che Draghi rimanesse al suo posto o transitasse al Quirinale.  

"I ritardi sulla zona rossa causarono migliaia di morti". Redazione il 15 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Consegnato ai pm il documento di 100 pagine sui fatti di Alzano e Nembro: "Criticità su tempi e modi".

«Quando fu scoperto il paziente Uno positivo al Covid a Codogno, nel febbraio 2020, nell'ospedale di Alzano c'erano già un centinaio di contagiati dal virus». È lo scenario descritto dal microbiologo dell'Università di Padova, Andrea Crisanti, ai giornalisti che lo aspettavano davanti alla Procura di Bergamo, che sta indagando sulla gestione del Covid nella provincia più martoriata dall'epidemia, dove ieri ha consegnato la sua maxi-consulenza che dovrà aiutare i magistrati a chiarire come è stata gestita l'emergenza a livello locale, regionale e nazionale, in relazione alla mancata zona rossa e all'applicazione del piano pandemico nazionale. Un fatto, quello della presenza di circa cento positivi ad Alzano prima della scoperta ufficiale della prima infezione, scoperto paragonando le cartelle cliniche e le analisi successive per rilevare il coronavirus, che consente di retrodatare l'epidemia rispetto al 21 febbraio del 2020.

Dal colloquio con il procuratore Antonio Chiappani, riguardo l'elaborato di una novantina di pagine con circa 10mila pagine di allegati, sono emerse diverse criticità, ora al vaglio dei magistrati. «Non è detto che una criticità sia per forza penalmente rilevante», ha osservato Crisanti. In particolare la perizia ha rilevato che la chiusura tempestiva dell'area per limitare le infezioni avrebbe salvato molte vite. Un range ipotizzato tra le 2mila e le 4mila vittime evitabili.

Per lo scienziato chiamato dalla Procura che indaga sui fatti accaduti due anni fa ad Alzano e Nembro, molte delle scelte fatte in quel periodo furono «prese in buona fede sulla scorta delle conoscenze che si avevano». Ma sarà compito dei pm stabilire se è stato effettivamente così. Quel che è certo è che per Crisanti è stato «umanamente impegnativo avere a che fare con storie personali dolorose». «Ho passato un anno e mezzo a leggere di persone morte, del disastro accaduto qui. Mi sono tenuto alla lettera all'indicazione del procuratore che ha detto il nostro compito è restituire a vittime e parenti la storia di quello che è accaduto"», ha spiegato il professore ai giornalisti. Il modello usato è quello a cui si ricorre nel caso di grandi calamità e catastrofi: in sostanza mira a stabilire quante persone potevano essere salvate se in Val Seriana fosse stata applicata la zona rossa una settimana, dieci giorni prima, come fu deciso per Codogno, Casalpusterlengo e Vò Euganeo.

A Crisanti i familiari delle vittime hanno voluto donare un mazzo di fiori bianco rosso e verde come ringraziamento per il lavoro che ha svolto. «Riteniamo il deposito una svolta importantissima che potrà fornire le risposte alle tante domande dei familiari delle vittime e dei cittadini italiani in generale», ha commentato l'avvocato Consuelo Locati, legale dei parenti delle vittime. 

"Avrebbero potuto salvare vite": Crisanti inchioda Conte e Speranza. Francesca Galici il 14 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Andrea Crisanti ha depositato presso la procura di Bergamo la relazione che ricostruisce i primi mesi di pandemia in Italia a partire dalla Lombardia.

Andrea Crisanti ha depositato presso la procura di Bergamo la sua super perizia che ricostruisce i primi mesi della pandemia. Dalla sua analisi emergono dettagli molto particolari su quanto accaduto in Italia, soprattutto in val Seriana, a febbraio 2020. Questa è la zona che nelle prime fasi della pandemia è stata sferzata con maggiore violenza dall'ondata pandemica. Il microbiologo dell'università di Padova ha spiegato: "Mi è stato chiesto di fare una simulazione su quale sarebbe stato l'impatto della zona rossa sulla trasmissione e sulla mortalità. Questo è stato fatto. Ma non darò nessun dettaglio. Sono emerse delle criticità, la procura le valuterà", ha dichiarato Cristanti all'Adnkronos.

Il professore si è reso ancora disponibile per un incontro con il procuratore di Bergamo per la prossima settimana, nel caso in cui gli investigatori dovessero avere bisogno di ulteriori chiarimenti sulla sua relazione. Come riferisce l'Ansa, la tempestiva applicazione della zona rossa nel bergamasco avrebbe potuto salvare delle vite, anche se ancora Crisanti non rivela quante, sia perché si tratta di un elemento sensibile oggetto di indagine sia perché, come lui stesso ha spiegato, è "un dato che va contestualizzato".

Tuttavia, stando a quanto riporta l'Ansa, si parla di un "range tra le 2mila e 4mila vittime che si sarebbero potute evitare se fosse stata applicata tempestivamente la zona rossa". Ovviamente, sono dati frutto di una stima basata sul metodo relativo alla ipotetica progressione del virus da Stefano Merler, consulente del Comitato tecnico scientifico. A quanto si apprende, nel documento vi sarebbe un'articolata ipotesi delle vittime evitabili, giorno per giorno, da quando si è avuta conferma dei primi casi di diffusione del coronavirus nel nostro Paese.

La relazione di Andrea Crisanti inchioda alle proprie responsabilità Giuseppe Conte, allora presidente del Consiglio, e Roberto Speranza, ministro della Salute. Il dicastero guidato da Speranza è sotto accusa per come sono state gestite le primissime fasi dell'epidemia in Italia, artefice di decisioni, ed esitazioni, che hanno inevitabilmente inciso sulla progressione del contagio. Impossibile dimenticare, tra le altre cose, i militari schierati ad Alzano, pronti a bloccare la zona rossa, poi inspiegabilmente ritirati.

L'elaborato del professore comprende circa 90 pagine ma almeno 10mila pagine di allegati ed è stato discusso con il procuratore. Durante il colloquio sono emerse criticità "nell'applicazione del piano pandemico nazionale anticovid" ma anche "criticità a proposito dell'istituzione e tempestività della zona rossa". Ora tutto questo dovrà essere vagliato dagli inquirenti per attribuire eventuali responsabilità.

Non sembrano essere così rilevanti, invece, le criticità sulla chiusura e riapertura del pronto soccorso dell'ospedale di Alzano lombardo dopo la scoperta di due casi il 23 febbraio. Infatti, pare che il virus già circolasse tra pazienti e operatori. Accertamenti condotti da un consulente hanno evidenziato che prima del 20 febbraio c'erano già almeno 100 casi di coronavirus. Un datoconfermato dallo stesso Crisanti: "Questo lo posso dire perché è già stato detto dalla Procura: quando si verificò il primo caso all'ospedale di Alzano c'arano già circa cento contagiati".

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

Processo morti per Covid, decisiva la super perizia di Crisanti: "Ho depositato diecimila pagine". Il Tempo il 14 gennaio 2022.

Andrea Crisanti. Sarà il virologo conosciutissimo in tv a fare da ago della bilancia nel processo di Bergamo sui primi morti di Covid all'inizio del 2020. "Sicuramente penso che molte scelte siano state fatte sulla base delle conoscenze e in buona fede ma sarà compito del procuratore stabilirlo", ha detto Crisanti, direttore del Dipartimento di medicina molecolare dell’università di Padova. fuori dal Tribunale di Bergamo, replicando a chi gli chiedeva se nella sua super perizia ha riscontrato una discrasia tra scienza e politica. "Sono circa 90 pagine di perizia, diecimila pagine di allegati" ha sottolineato Crisanti, che questa mattina, 14 gennaio, si è recato in Procura per consegnare il suo lavoro che ricostruisce i primi mesi della pandemia di Covid.

Una perizia che "è un unicum, in Italia ed Europa" ha spiegato il professore e che si spera possa chiarire la storia dell’ospedale di Alzano Lombardo e la gestione dei primi casi rilevati. "Impegnativo? Dal punto di vista umano, lo è stato sicuramente - ha detto ancora  Crisanti -. Ho passato un anno e mezzo a leggere di persone morte, del disastro accaduto qui". Nella perizia, "mi sono tenuto alla lettera all’indicazione del procuratore che ha detto "il nostro compito è restituire a vittime e parenti la storia di quello che è accaduto". Il suo, ha osservato, "è stato un tentativo per ricostruire passo dopo passo cosa è accaduto all’ospedale di Alzano, nella Bergamasca e come queste vicende si sono intersecate con i piani pandemici che ci sono. Ci sono degli aspetti verticali legati all’ospedale, alla Val Seriana e alla zona rossa e aspetti orizzontali legati alle misure che sono state prese".

"Le parole del procuratore sono una massima rassicurazione - ha evidenziato Crisanti -. Mi ha detto ’vogliamo ricostruire la storia di quanto successo perché lo dobbiamo alle vittime e agli italiani'. Quando il procuratore lo consentirà -ha poi concluso il virologo - la consulenza sarà uno studio scientifico". "Siamo molto fiduciosi che la perizia del professor Crisanti, che consta di 10mila pagine di allegati, fornisca alla magistratura penale gli strumenti per procedere all’individuazione delle responsabilità rispetto alle criticità che il professore ha individuato in merito alla tempistica dell’istituzione di una zona rossa e la criticità relativa all’applicazione del piano pandemico", ha detto LaPresse Consuelo Locati, avvocato che assiste l’associazione dei  parenti delle vittime Covid deceduti nella prima ondata in Val Seriana, nella bergamasca. "Ricordo - prosegue Locati - che l’unico piano pandemico che c’era a gennaio-febbraio 2020 risaliva al 2006: credo che questi siano già elementi importantissimi per arrivare a stabilire se ci siano delle responsabilità penali".

·        I Tamponati…

Bocciati dalla scienza i test rapidi per il Covid-19 approvati dai vertici della sanità del Veneto. La rivista Nature approva e pubblica lo studio del professore Andrea Crisanti che demolisce gli esami antigenici: falsi risultati nel 30 per cento dei casi. La scelta della Regione fu tra le cause del record di mortalità nella seconda ondata dell’epidemia. Isolato e attaccato dalla Lega di Luca Zaia, il docente ora è candidato del Pd. Paolo Biondani e Andrea Tornago su L'Espresso il 21 Settembre 2022.

Quello studio «non è un vero studio». Anzi, «non esiste nessuno studio scientifico». E comunque «è meglio dire che non c’è». È la posizione ribadita per mesi dai vertici sanitari della Regione Veneto, per confutare la credibilità della ricerca, coordinata dal professor Andrea Crisanti, che nell’ottobre 2020 aveva segnalato e denunciato la scarsa affidabilità (in gergo tecnico, bassa sensibilità) dei cosiddetti test rapidi per il Covid. Quella prima verifica dei dati, realizzata dal docente dell’università di Padova, già direttore della sezione malattie infettive dell’autorevole Imperial College di Londra, evidenziava il grave problema dei falsi negativi: soggetti che venivano dichiarati immuni dal virus, in base ai risultati di quell’esame veloce di tipo antigenico, ma che in realtà erano infetti e quindi in grado di diffondere il contagio. Crisanti ha lanciato l’allarme sui test rapidi all’inizio della seconda ondata dell’epidemia, che in Veneto ha avuto conseguenze catastrofiche. Ma si è scontrato con i vertici dell’apparato sanitario regionale. Il direttore generale della sanità veneta, Luciano Flor, e il dg dell’Istituto zooprofilattico delle Venezie, Antonia Ricci, hanno attaccato il suo lavoro parlando testualmente di «scartoffie»: «due paginette» che a loro dire sarebbero state «piene di grossolane inesattezze». Pochi giorni fa, però, lo studio di Crisanti è stato approvato e accettato dagli esperti di Nature, la rivista scientifica più prestigiosa del mondo, che ne ha autorizzato la pubblicazione.

Nella prima ondata dell’epidemia, tra febbraio e giugno del 2020, Crisanti aveva avuto un ruolo di primo piano nella gestione dell’emergenza in Veneto, organizzando quella massiccia campagna di tamponi molecolari (i test più precisi e affidabili) che ha avuto l’effetto di ridurre il livello dei contagi e i tassi di mortalità, soprattutto nell’area di Padova.

Quel «modello veneto» di buona gestione del problema, rispetto al tragico disastro di altre regioni come la Lombardia, è stato rivendicato pubblicamente dai responsabili politici della sanità e ha favorito la trionfale rielezione del governatore leghista Luca Zaia. In autunno, però, dopo lo scontro sui test rapidi, Andrea Crisanti si è visto isolare e attaccare dai massimi dirigenti della sanità veneta e dallo stesso Zaia. Quindi il docente universitario, che è direttore dell’unità di microbiologia e virologia dell’ospedale di Padova, ha accettato di candidarsi al Senato, nella circoscrizione Europa, per il Partito Democratico, alle elezioni politiche del prossimo 25 settembre. La pubblicazione del suo studio in una rivista del livello di Nature è una notizia di indubbio interesse pubblico, perché riguarda l’efficacia delle politiche sanitarie contro l’emergenza Covid. L’Espresso ha deciso di pubblicare questo articolo solo oggi per non interferire sulla campagna elettorale: i cittadini italiani che vivono all’estero, infatti, votano in anticipo, per corrispondenza, e hanno quindi già espresso le loro preferenze anche nella circoscrizione dove è candidato lo scienziato di Padova. 

Le prime indiscrezioni sullo studio di Crisanti che segnalava la scarsa sensibilità dei test rapidi erano state pubblicate da Repubblica il 28 ottobre 2020: già in quell’articolo si leggeva come i nuovi test antigenici, sperimentati in Veneto e poi diffusi anche in altre regioni, con l’obiettivo dichiarato di sostituire i test molecolari, non riconoscessero «tre positivi su dieci». Quando esce quella notizia, il professore viene contestato dai vertici regionali. Perfino gli altri due primari di Padova, che avevano collaborato con Crisanti a quel lavoro di verifica (definito in gergo medico «approfondimento diagnostico»), sono costretti a prendere le distanze dal collega, dichiarando di non essere stati coinvolti e informati sugli esiti della ricerca.

A quel punto L’Espresso ricostruisce l’intera vicenda dei test rapidi: la nostra inchiesta giornalistica rivela tra l’altro, grazie a testimonianze e documenti inediti, come i due primari che si erano dissociati dallo studio di Crisanti hanno poi spiegato riservatamente (parlando con altri medici loro colleghi di Padova) di aver subito forti pressioni politiche, provenienti dai vertici della Regione Veneto, per spingerli ad attaccare il lavoro del professore.

A quel punto i due primari, insieme al direttore generale della sanità veneta, vengono spinti a replicare al nostro articolo, in una conferenza stampa, sostenendo di non aver mai parlato di pressioni politiche e negando di aver ricevuto richieste o inviti ad attaccare Crisanti. A ristabilire la verità dei fatti è la trasmissione televisiva Report, che nella puntata «Il giallo Veneto» pubblica l’audio di uno dei due primari. Nella registrazione si sente, in particolare, il responsabile del pronto soccorso dell’ospedale di Padova, Vito Cianci, che dichiara testualmente ad almeno un altro medico, riferendosi proprio alla sua presa di distanze dallo studio sui test rapidi: «Siamo stati presi per il collo! Con tutte le relative possibili minacce sottostanti che possono provenire in maniera indiretta o velata».

I giornalisti d’inchiesta di Report mandano in onda sui Rai3 anche la parte fuori onda di una loro intervista a Luciano Flor, dove è lo stesso direttore generale della sanità veneta a rivelare le motivazioni della posizione delle autorità sanitarie regionali: la potenza economica e legale della multinazionale Abbott, che ha prodotto quei primi test rapidi. «Detto inter nos - confida Flor a mezza voce al giornalista di Report, Danilo Procaccianti - la ditta ci fa causa e ci chiede i danni… Quindi meglio dire: lo studio non c’è. Perché credi che mi sia affrettato a dire che lo studio non c’è?».

Nella conferenza stampa contro l’Espresso, anche la primaria di Malattie Infettive, Anna Maria Cattelan, aveva preso le distanze dal lavoro di Crisanti, dichiarando: «Abbiamo fatto delle valutazioni di confronto tra i due tipi di tamponi, ma mai un vero studio scientifico». Oggi entrambi i primari, Cianci e Cattelan, firmano come autori, insieme a Crisanti, lo studio accettato da Nature, che fin dal titolo denuncia il «fallimento» dei test rapidi e le disastrose conseguenze della scelta di abbandonare i tamponi molecolari. Il titolo integrale, in inglese, è il seguente: «Impact of antigen test target failure and testing strategies on the transmission of Sars-CoV-2 variants».

La vicenda aveva avuto anche un risvolto giudiziario: il professor Crisanti era stato denunciato da Azienda Zero, l’ente di governo della sanità del Veneto, per le sue dichiarazioni critiche nei confronti delle scelte regionali sui test rapidi. Come raccontato sempre dall’Espresso, però, la Procura di Padova ha verificato la correttezza delle parole di Crisanti, archiviando la denuncia, e ha chiesto invece alla Corte dei Conti di valutare una possibile richiesta di risarcimento delle spese legali sostenute dalla Regione Veneto per quell’esposto rivelatosi totalmente infondato.

Nei mesi drammatici della seconda ondata, dopo aver ignorato i dubbi documentati dalla ricerca ora approvata da Nature, la Regione Veneto ha esautorato il professor Crisanti e ha affidato la gestione dei controlli sul Covid al dottor Roberto Rigoli, primario di microbiologia dell’ospedale di Treviso e grande sponsor dei test rapidi, di cui assicurava personalmente la sensibilità e l’affidabilità. La Procura di Padova, però, oggi accusa il dottor Rigoli di falso ideologico e turbata libertà di scelta del contraente: secondo i magistrati, l’esperto scelto da Zaia avrebbe «attestato falsamente di aver effettuato l’indagine scientifica» e di aver «provato il kit della Abbott su alcuni soggetti». La Regione Veneto, insomma, dopo aver ignorato il vero studio dei primari e professori di Padova sui test rapidi, avrebbe accreditato quello falso di Treviso.  

Il dottor Rigoli respinge ogni accusa e va considerato innocente fino alle sentenze finali dei giudici. Ma gli scienziati di Nature hanno già dato il loro verdetto: i test rapidi della Regione Veneto vanno bocciati.

Vi ricordate i tamponi rapidi del Veneto? Il super esperto è a giudizio per false attestazioni sui test. Antonio Fraschilla e Andrea Tornago su L'Espresso il 21 Luglio 2022. 

La procura di Padova ha concluso le indagini e chiesto il giudizio per Roberto Rigoli, che aveva sostituito Andrea Crisanti nella gestione dell’emergenza Covid nella Regione. L’inchiesta dell’Espresso nel fascicolo dei magistrati

Tutti si ricordano le conferenze stampa del governatore del Veneto Luca Zaia che in piena pandemia provava in diretta streaming miracolosi tamponi rapidi in grado di sostituire i test molecolari. Ora si scopre, secondo quanto scritto dalla procura di Padova in in documento che L’Espresso rivela in esclusiva, che chi doveva certificare la validità di quei tamponi in realtà non lo avrebbe mai fatto: dando però ugualmente il via libera all’acquisto di quasi 500 mila test per un valore di oltre due milioni di euro.

L’Espresso in un’ampia inchiesta aveva sollevato molti dubbi sulle scelte fatte dalla sanità veneta su alcuni test cosiddetti di “terza generazione” (non si tratta degli stessi test che riguardano il rinvio a giudizio, anche se il lavoro giornalistico è comunque nel fascicolo di una seconda indagine della procura ancora non chiusa).

La procura di Padova ha chiesto il giudizio per Roberto Rigoli, il primario dell’ospedale di Treviso che nel 2020 ha sostituito Andrea Crisanti come riferimento per la gestione della diagnostica anti-Covid, e Patrizia Simionato, all’epoca direttrice generale di Azienda Zero che si è occupata degli acquisti. Le accuse per gli ex vertici dell’ente di governance della sanità regionale e per il guru dei test rapidi di Zaia sono pesanti: falso ideologico e turbata libertà di scelta del contraente.

Rigoli inoltre è accusato, in concorso con un altro primario, anche di depistaggio delle indagini, per aver fornito alla polizia giudiziaria «falsa documentazione afferente l’esito dell’utilizzo dei campioni di prova dei prodotti test tamponi antigenici forniti dalla Abbott sui pazienti entrati in pronto soccorso a Treviso dall’agosto del 2020». Il medico, dopo aver prodotto e consegnato agli investigatori «un elenco riepilogativo dell’analisi dal quale emergevano i parametri di sensibilità al 100 per cento dei campioni prova forniti dalla Abbott, determinava il primario del pronto soccorso a fornire informazioni conformi circa l’utilizzo dei test rapidi Abbott».

Le indagini sono state chiuse nel maggio scorso, ma la notizia emerge solo oggi. Secondo quanto scrivono i magistrati nella richiesta di rinvio a giudizio, il bando di acquisto dei test prevedeva fra i requisiti una sensibilità dell’80 per cento, invece «avendo avuto Rigoli la richiesta di confermare l’idoneità tecnico scientifica del campioni del prodotto offerto dalla ditta Abbott Rapid Diagnostic srl relativamente ai test rapidi comunicava alla Simionato attestava falsamente di aver effettuato l’indagine scientifica asserendo falsamente di aver “provato il kit Abbott su alcuni soggetti”, inoltre chiedeva di procedere immediatamente all’acquisto di 200 mila test. E nella piena consapevolezza della Simionato circa il fatto che Rigoli non avesse ottemperato ad adempiere quanto prevedeva l’avviso di ricerca di mercato» comunque si procedeva a deliberare l’affidamento di test rapidi alla Abbott per 900 mila euro. Un secondo affidamento sarà poi di 1,2 milioni.

Liberi di girare con i tamponi fai-da-te, sono 1,5 milioni i fantasmi del Covid. Michele Bocci su La Repubblica il 21 Luglio 2022.  

La metà non sa di avere il virus, l’altra evita i test ufficiali e si cura da sola. Quali sono i rischi per sé e per gli altri Dalla moltiplicazione dei contagi alle terapie inappropriate e al mancato aggiornamento del passaporto sanitario.

Sanno, o sospettano fortemente, di essere positivi ma non vanno a fare il tampone in farmacia, dal medico oppure alla Asl. In questo modo evitano l’obbligo di quarantena ma, se non sono attenti, rischiano di essere contagiosi, si precludono la possibilità di affrontare eventuali cure rapide con gli antivirali e rischiano di restare senza Green Pass, se questo documento, che per ora serve solo nelle strutture sanitarie, verrà di nuovo richiesto per svolgere alcune attività.

Monica Serra per “La Stampa” il 17 luglio 2022.

Sempre più spesso, anche in presenza di tutti i sintomi compatibili con il Covid 19, il tampone risulta negativo. Salvo positivizzarsi solo dopo qualche giorno, quando magari i sintomi si sono affievoliti o sono, addirittura, scomparsi. Il fenomeno è ancora in fase di studio, ma appare oramai abbastanza diffuso. 

Secondo la rubrica «Dottore, ma è vero che?» della Federazione nazionale degli Ordini dei medici (Fnomceo), che ha dedicato una puntata alla questione, «è difficile stimare il numero dei casi di questo tipo e quali persone siano più a rischio». Soprattutto perché si riduce sempre di più il numero di chi si sottopone ai test ufficiali che vengono tracciati dalle autorità sanitarie. 

Aumenta invece quello di chi privilegia i tamponi fai da te, effettuati tra le mura domestiche, sfuggendo così ai calcoli ufficiali. Che, nel bollettino quotidiano del ministero della Salute, hanno di poco superato quota 20 milioni di contagi in Italia dal febbraio del 2020, l'inizio della pandemia, mentre i decessi totali salgono a 169.846.

Intanto i nuovi casi giornalieri restano sotto i 100 mila: nelle ultime ventiquattro ore sono stati 89.830 contro i 96.384 del giorno precedente mentre sono stabili i tamponi (398.338) e in calo le vittime (111 rispetto alle 134 precedenti). 

Certo, il boom dei falsi negativi e lo scarto temporale tra il momento in cui compaiono i sintomi e quello in cui si risulta positivi al tampone, rischia di incrinare il sistema di contenimento dei contagi. Anche per questo, il fenomeno ha attirato l'attenzione della comunità scientifica, che ha iniziato a ipotizzare le cause. 

Spiega Fabrizio Pregliasco, virologo dell'Università Statale e direttore sanitario dell'Ospedale Galeazzi di Milano: «Il più delle volte questa situazione si verifica in soggetti che hanno avuto una precedente infezione, o vaccinati, in cui la risposta immunitaria è molto rapida e anticipa la presenza più importante del virus».

La comparsa dei primi sintomi, quindi, sarebbe la conseguenza dell'attivazione del sistema immunitario che combatte l'infezione. C'è da dire - sottolinea Pregliasco - che «la carica virale della variante Omicron 5 con cui stiamo facendo i conti è inferiore e il test, soprattutto se antigenico e a maggior ragione se eseguito in casa e non da un professionista, potrebbe per questo non riuscire a rilevare perlomeno nelle fasi iniziali la sintomatologia».

Almeno finché la carica virale non risulti sufficiente rispetto alla sensibilità del test, anche se il ritardo nella positività del tampone si verifica spesso pure nei soggetti che incontrano per la prima volta il virus. Che cosa bisogna fare in questi casi? «Ripetere il tampone ogni ventiquattro ore per più giorni e restare in quarantena almeno fino alla scomparsa dei sintomi». Che con questa variante sono diventati più blandi e spesso possono anche essere confusi con quelli di una influenza. 

«Di certo in futuro bisognerà rivedere le regole della quarantena, ma al momento dobbiamo stringere i denti e superare la nottata: i dati epidemiologici attuali non sono significativi, stimiamo che i casi reali siano almeno il doppio o il triplo - chiarisce Pregliasco -. Questo accade perché in tanti non vengono tracciati da test ufficiali o preferiscono non sottoporsi proprio al tampone». 

Vero è che con Omicron 5, che rappresenta il settantacinque per cento dei casi attuali in Italia, il virus si è «affievolito». Conclude il professor Pregliasco che, seguendo l'andamento attuale, dovremmo immaginare le future varianti «come le onde di un sasso in uno stagno, che tendono via via a ridursi».

Estratto dell'articolo di Michele Bocci per “la Repubblica” il 3 maggio 2022.

[...] I dati ufficiali, concordano gli esperti, non rendono conto della reale diffusione di Omicron, la variante super contagiosa che continua a provocare oltre 50mila casi al giorno. Da quando è arrivata, ha già contagiato circa 11 milioni di italiani. Prima, cioè fino al dicembre dell'anno scorso, in tutto erano risultate positive 5 milioni di persone. In meno di cinque mesi Omicron è stata responsabile di oltre il doppio di casi rispetto ai 22 mesi precedenti, cosa che conferma la sua grande capacità di trasmissione.

Ma i numeri ufficiali, appunto, non dicono tutto. Secondo Carlo La Vecchia, epidemiologo dell'Università di Milano, se si tiene conto degli asintomatici o di chi comunque ha avuto problemi blandi ai quali non ha badato o non ha voluto badare, bisogna stimare che il numero reale dei positivi sia 2-2,5 volte in più rispetto a quello ufficiale. Significa che fino a 25 milioni di italiani, il 40%, avrebbe già preso Omicron.

«Alla fine arriveremo al 65%, cioè a circa 40 milioni di contagiati», dice La Vecchia: «Non tutti gli italiani la prenderanno perché comunque i vaccini, e anche la precedente infezione con un'altra forma del virus, un po' di copertura la danno». Gli attualmente positivi sono invece 1,2 milioni, quindi fino a 3 milioni di persone potrebbero essere contagiate dal coronavirus in questo momento. «Molti non vanno dal medico - dice l'epidemiologo - magari hanno visto che la malattia non ha provocato problemi ai loro parenti e così si fanno i tamponi a casa».

È d'accordo con questa lettura Anna Lampugnani, medico di famiglia di Bari e segretario regionale del sindacato Fismu. «Tanti pazienti si fanno a casa il tampone e non denunciano il risultato. Noi spieghiamo che con il fai da te ci possono essere falsi e li invitiamo comunque a fare il test ufficiale. Ma ci sono anche tanti che non ci contattano nemmeno. Magari ci rendiamo conto che sono stati contagiati perché ci chiedono un antibiotico, che non va bene contro il coronavirus, perché da qualche parte hanno visto che serve. Diciamo che un tempo, con le altre varianti, l'eccesso era chiudersi in casa tre settimane. Adesso si esagera e si vuole uscire dopo due giorni». [...]

Laura Cuppini per il corriere.it il 15 aprile 2022.

Un test che rileva la presenza di Sars-CoV-2 semplicemente attraverso il respiro. InspectIR Covid-19, simile a un etilometro, è stato autorizzato in emergenza dalla Food and drug administration americana (Fda): è sensibile ad alcuni composti chimici associati all’infezione. Può essere eseguito, oltre che in ospedali e strutture sanitarie, anche in luoghi diversi (per esempio aeroporti) grazie a un dispositivo mobile grande quanto un bagaglio a mano (grazie a uno spettrometro di massa in miniatura). 

L’esame deve essere però eseguito da un soggetto qualificato e sotto la supervisione di un operatore sanitario. Il risultato arriva in meno di tre minuti e una singola macchina può analizzare circa 160 campioni al giorno.

Sensibilità elevata

La validità di InspectIR Covid-19 è stata dimostrata in uno studio che ha coinvolto 2.400 persone, con e senza sintomi di infezione. Risultato: il test ha raggiunto il 91% di sensibilità (percentuale di campioni positivi a Sars-CoV-2 che il test ha identificato correttamente) e il 99% di specificità (percentuale di campioni negativi identificati correttamente). 

Anche il valore predittivo negativo è elevato (99,6%): significa che le persone che risultano negative al test lo sono davvero nella maggior parte dei casi, anche nelle aree di bassa prevalenza della malattia. Dati di efficacia simili sono emersi da uno studio clinico incentrato sulla variante Omicron. 

La tecnica

InspectIR Covid-19 sfrutta la tecnica della gascromatografia-spettrometria di massa (GC-MS) per rilevare cinque composti organici volatili (volatile organic compounds, VOCs) associati all’infezione da Sars-CoV-2 nel respiro, che fanno parte delle famiglie di particolari sostanze, i chetoni e gli aldeidi. Quando il dispositivo «vede» questi marcatori dà un risultato positivo presunto, che deve essere poi confermato con un test molecolare. D’altro canto, spiega la Fda, anche i risultati negativi devono essere considerati nel contesto dei contatti recenti del paziente e della presenza di sintomi riconducibili a Covid, in quanto non escludono al 100% l’infezione.

I precedenti

L’idea di identificare i positivi a Sars-CoV-2 attraverso il respiro (evitando quindi i tamponi oro-naso-faringei e i salivari, questi ultimi con un’affidabilità inferiore) non è nuova. A ottobre l’Istituto di chimica biomolecolare del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Icb) ha presentato in uno studio un dispositivo in grado di analizzare campioni di condensato dell’aria espirata. 

Anche in questo caso la capacità diagnostica era risultata buona, con una sensibilità del 92%, specificità del 99% e attesa per il referto di 6 minuti. Secondo gli esperti del Cnr questa tecnica (Inflammacheck) offre diversi vantaggi, dal basso rischio di diffusione virale o contaminazione ambientale, alla formazione minima del personale. 

Analizzare il fiato

Da anni la comunità scientifica si interroga sulla possibilità di riconoscere la presenza di determinate malattie con un semplice esame del respiro: disturbi del fegato e renali, asma, diabete, tubercolosi, infezioni gastrointestinali, fino ai tumori. I test sull’alito sono indolori, danno risultati in tempi rapidissimi e sono meno costosi degli esami del sangue. 

Alla base c’è un grande studio di catalogazione delle molecole presenti nell’aria espirata, con l’obiettivo di determinare quali concentrazioni sono normali e quali indicano invece problemi di salute. Oltre a ossigeno, azoto e anidride carbonica, il nostro fiato contiene composti organici volatili e composti non volatili, ovvero gocce microscopiche di anticorpi, peptidi, proteine e Dna che possono dare informazioni aggiuntive. Il fiato però è influenzato da una serie di fattori confondenti (cibo, farmaci, pulizia dei denti), che possono interferire con l’analisi.

Camilla Mozzetti per "il Messaggero" il 4 febbraio 2022.

Avrebbero dovuto dare un esito certo, sulla positività o negatività al Covid, e invece erano fallati. Tamponi irregolari ma comunque utilizzati nelle farmacie e fatti pagare agli utenti che sono poi tornati a casa con risultati totalmente errati e, aspetto peggiore, sono anche andati in giro magari da positivi asintomatici credendosi negativi.

LA SORPRESA Il Nas dei carabinieri negli ultimi giorni ha sequestrato centinaia di test rapidi usati nelle farmacie e dai controlli è venuta fuori la sorpresa: quei tamponi non erano a norma e dunque non in grado di poter dare risultati veritieri. Pare ne siano stati trovati addirittura 400 per un valore, in termini economici, che supera i 6.500 euro. E le verifiche sono soltanto all'inizio. Perché il faro dei militari si è appena acceso e punta su tante altre distorsioni denunciate o segnalate anche all'Ordine dei Medici che vanno totalmente a discapito della salute pubblica.

La scoperta dei tamponi irregolari, comunque, è il caso al momento più eclatante se si considera la mole giornaliera di test rapidi che vengono eseguiti nella Regione. Soltanto ieri ne sono stati contati 77.402 e se ci fossero altre partite fallate? Quanti positivi asintomatici potrebbero circolare indisturbati credendosi negativi? C'è poi un altro aspetto sempre legato ai test su cui sono in corso i controlli dei militari che riguarda l'esecuzione dei tamponi.

L'ESECUZIONE Teoricamente a prelevare il campione dalla gola o dal naso di un cittadino dovrebbe essere un farmacista o un medico o anche un infermiere, insomma personale istruito correttamente sulle procedure da seguire, ma da una serie di segnalazioni recapitate al Nas sembra che a volte i soggetti impegnati nella raccolta non siano in alcun modo qualificati. 

Banalmente, potrebbe essere usata gente non titolata al fine di garantire comunque un flusso costante di analisi e - di conseguenza - di guadagni. Anche perché, ed è la semplice matematica a dirlo, una farmacia che svolge in media un centinaio di tamponi al giorno incassa settimanalmente circa 9 mila euro solo grazie ai test.

Una catena pericolosa quella che unisce i tamponi fallati al presunto personale non qualificato che potrebbe far esplodere una vera problematica. Già i tamponi cosiddetti fai-da-te, acquistabili liberamente dai cittadini tanto nelle farmacie quanto addirittura nelle tabaccherie, hanno fatto scattare l'allarme dei medici di famiglia che ne hanno denunciato la scarsa affidabilità. «Un tampone su due di quelli fai-da-te dà un esito sbagliato - ricorda Alberto Chiriatti, vice segretario regionale della Fimmg, la Federazione italiana medici di medicina generale - perché eseguito in modo errato».

LE ALTRE FALLE La lista delle verifiche che in queste ore sono in capo al Nas è molto nutrita: si va da quelle sulle esenzioni al vaccino richieste da alcuni medici specialisti per pazienti no vax al caso dei positivi che in un attimo diventano negativi tramite un sistema di alterazione dei test sempre nelle farmacie. Il caso, rimbalzato alle cronache, è questo: un no vax dà la propria tessera sanitaria ad un amico positivo che va a fare il tampone con il suo nome permettendo poi al termine della finta guarigione l'ottenimento del Green pass.

Proprio a tal riguardo la Federfarma ha invitato i propri iscritti a verificare - prima di ogni test - il documento d'identità dell'utente anche se non tutte le farmacie sembrano aver recepito l'invito. Solo al Tiburtino, tanto per citare un caso, una grande farmacia di Casal Bruciato esegue i tamponi richiedendo solo la tessera sanitaria senza alcun tipo di verifica sul documento d'identità. 

Lo strano maoismo sanitario del dottor Ricciardi. Il consulente del ministro di Speranza propone tamponi a tappeto su tutta la popolazione italiana per uscire dalla pandemia in 8 giorni. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 23 gennaio 2022.

«Dobbiamo individuare e isolare gli infetti come ha fatto la Cina». Il maoismo sanitario del dottor Walter Ricciardi non è una cena di gala ma neanche una lunga marcia: «In otto giorni -garantisce il consulente del ministro Speranza- saremmo fuori dall’emergenza». Otto giorni per battere il Covid! Sembra una prospettiva allettante, e Ricciardi ci indica persino la strada: «Bisognerebbe fare i tamponi alla stragrande maggioranza degli italiani. È un’operazione che tutti dicono sia impossibile ma i cinesi per un caso testano 10 milioni di persone. Noi con 200 mila potremmo ben testare 60 milioni di italiani».

Insomma tamponi ovunque, casa per casa, a tappeto sul territorio per scovare gli untori e non si sa in che modo isolarli dal resto della comunità. Strano che nessuno ci abbia mai pensato prima: in due anni abbiamo effettuato decine di milioni di test quando ne bastavano appena 200mila. Tralasciamo le capriole che il dottore ci ha regalato dall’inizio dell’emergenza sanitaria quando il Covid19 era inizialmente una «semplice influenza», le mascherine strumenti «inutili» al pari degli amati tamponi, il disastro dell’applicazione Immuni da lui concepita o le critiche ricevute dall’Oms: il coronavirus ha sorpreso tutti noi, governi e scienziati, virologi e accademici con titoli ben più prestigiosi di quelli di Riccardi in questi due anni si sono esposti a brutte figure con uscite contraddittorie e previsioni improvvide.

Ma nel caso del medico napoletano siamo di fronte a una conversione: dal semi-negazionismo dell’inverno 2020 alla linea della grande fermezza degli ultimi mesi e l’idea del «green pass universale» . In testa il modello della Repubblica popolare cinese del “contagio zero”, una chimera sanitaria che però ha oliato la macchina della repressione: esercito e polizia a pattugliare le strade, arresto per chi viola le regole del lockdown, deportazione dei contagiati in apposite strutture di osservazione prefabbricate e naturalmente bavaglio all’informazione. Un modello liberticida ma anche poco efficace come dimostra il nuovo preoccupante picco di contagi nel Paese a pochi giorni dall’inizio delle Olimpiadi invernali di Pechino.

Camilla Mozzetti per "il Messaggero" il 25 gennaio 2022.

La loro comparsa l'hanno fatta durante le festività natalizie, quando riuscire a fare un tampone in farmacia, dal medico di famiglia o nei laboratori di analisi significava dover affrontare lunghe file e diverse ore d'attesa tanto era elevata la richiesta da parte dei cittadini. Così le farmacie stesse hanno iniziato a vendere i tamponi fai-da-te. Nulla di irregolare ma tutto autorizzato dal ministero della Salute a tal punto che oggi i test sono acquistabili anche in tabaccheria in media a 6,90 euro.

Ma c'è un problema che denunciano sia i medici di famiglia che i farmacisti: questi strumenti pensati per sgonfiare la pressione sulla richiesta di analisi stanno mandando in cortocircuito il sistema di verifica e accertamento dei positivi. Il motivo? In due casi su tre l'esito di un tampone fatto a casa è sbagliato soprattutto se dà risultato negativo. E non deriva dal tampone in sé, che come dispositivo è analogo a quello usato dai medici e dai farmacisti, ma da come viene effettuato il prelievo dal cittadino.

GLI ESITI «Ci sono stati mutuati - spiega Alberto Chiriatti, vice segretario regionale della Fimmg Lazio, la Federazione italiana medici di medicina generale - che a fronte di una sintomatologia riconducibile al Covid, febbre o raffreddore, o anche senza soffrire di nulla e dunque a mero scopo di controllo, hanno svolto il tampone a casa da soli risultando negativi quando invece erano positivi». E questo perché l'analisi non era stata eseguita nel modo corretto.

«Il problema sul positivo non esiste - aggiunge Ombretta Papa, medico di famiglia che copre un'ampia area di Roma, da Corso Francia a Torre Angela - il guaio subentra su chi risulta negativo a casa ma in realtà ha contratto il virus». Poche sono le persone che in maniera scrupolosa decidono di farsi comunque un nuovo tampone o in farmacia o dal medico. «La maggior parte degli utenti - prosegue Chiriatti - quando vede che non è positivo lascia stare ma questo crea enormi problemi, a partire dal mancato isolamento». In sostanza si hanno dei positivi sconosciuti, magari asintomatici, che circolano indisturbati.

«L'altro problema - conclude il vice segretario regionale della Fimmg Lazio - riguarda la procedura che segue: se un cittadino che si fa da solo il test a casa risulta positivo, deve comunque eseguire un nuovo tampone o dal medico o in farmacia o nei laboratori di analisi o ancora nei drive-in perché deve essere inserito nel sistema del conteggio e del tracciamento dal momento che il tampone fai-da-te ha semplicemente una validità diagnostica».

Anche dalla Federfarma arrivano le critiche: «Il tampone fai-da-te lo abbiamo sempre sconsigliato fin dall'inizio - spiega Alfredo Procaccini, vicepresidente dell'Associazione dei farmacisti - perché pur essendo valido come strumento, l'operatore ovvero il cittadino, non riesce ad eseguirlo nel 90% dei casi come invece fa un infermiere, un sanitario, un medico, un farmacista e poi per quanto sia bravo ad eseguire il test, salta il tracciamento».

L'auto-test, è stato spiegato, irrompe sulla scena in un momento in cui la richiesta di tamponi era arrivata ai massimi. «Se proprio si vuole fare - conclude Procaccini - è necessario seguire scrupolosamente le indicazioni». Ovvero entrare con il tampone fino in fondo al setto nasale, tenendo il tampone parallelo al pavimento e la testa lievemente inclinata all'indietro, girare il tampone in ogni narice almeno 5-6 volte, inserirlo poi nel reagente e in seguito sullo stick di lettura rispettando i tempi di attesa. Tutta la procedura infine dovrebbe essere eseguita con le mani pulite o indossando dei guanti in lattice.

CI POSSIAMO FIDARE PIÙ CHE A SUFFICIENZA. Il test rapido antigenico per il Covid-19 serve a contenere la pandemia. CHIARA SABELLI su Il Domani il 20 gennaio 2022.

Dal 19 gennaio i cittadini dell’Emilia Romagna possono utilizzare un test antigenico autosomministrato sia per certificare l’infezione e iniziare l’isolamento domiciliare sia per terminarlo dopo sette giorni se ottengono un risultato negativo.

Per capire l’attendibilità dei test è necessario ragionare in termini probabilistici e sfruttare il teorema di Bayes, che mette in relazione la probabilità di essere infetti o non infetti una volta ricevuto il risultato del test con la sensibilità del test, la sua specificità e anche la probabilità di essere infetti prima di sottoporsi al test.

I test antigenici rapidi sono particolarmente adatti come strumento di controllo del contagio, soprattutto nella popolazione degli asintomatici che giocano un ruolo importante nella trasmissione dell’infezione. Rispetto ai test molecolari, gli antigenici hanno l’enorme vantaggio di restituire i risultati in tempo praticamente reale permettendo il pronto isolamento dei contagiosi.

CHIARA SABELLI. Giornalista scientifica freelance. Fisica di formazione, in finanza dopo il PhD.

Farmacie in tilt, i tamponi sono un'odissea. Marta Bravi il 15 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Sempre più punti rifiutano i test. Federfarma: troppe richieste e poco personale.

Milano. Porte in faccia, cartelli, una raffica di «no» e chilometri macinati a piedi, spingendo passeggini e trascinando bambini per mano. Isolato dopo isolato per intraprendere l'esasperante caccia al tesoro alla ricerca di un test. Ora fare un tampone in farmacia sta diventando sempre più complicato. A fronte dell'isteria da screening che ha travolto tutta Italia durante le vacanze natalizie, con la richiesta di test in preparazione delle cene di Natale e delle feste di Capodanno, che avevano reso merce dorata i test fai da te, impossibili da trovare sul mercato, o i tamponi da prenotare «sotto casa» adesso il problema è che anche le farmacie, stanno smettendo di erogare il servizio. Da un lato, infatti, la richiesta sta aumentando a fronte delle nuove regole che permettono di chiudere la quarantena o dichiararsi guariti anche con un semplice antigenico, dall'altro l'ondata di Omicron che sta mettendo a tappeto gli italiani compresi i farmacisti.

E così diventa sempre più difficile riuscire a trovare un presidio disponibile a effettuarli. Per riuscire a sottoporsi a un test, ormai è necessario allargare il giro a più di un isolato. Il personale è malato o in quarantena, come sta succedendo a tutte le attività produttive, le scuole, i dipendenti, le corsie ospedaliere. Per far fronte alla richiesta che era arrivata anche a un milione di test in un giorno in tutta Italia, con picchi in alcune regioni, Lombardia in testa con 3,5 milioni di antigenici, il 21,5% di tutti i tamponi somministrati in Italia nel mese di dicembre, i presidi sanitari si sono trovati ad allungare l'orario di apertura, allestire uno spazio separato e soprattutto assumere medici, infermieri ad hoc dedicati solo al servizio, che si sovrappone anche all'attività vaccinale, per non lasciare sguarnito il bancone. Tenendo conto anche dei numeri: in Lombardia su 3mila farmacie sparse sul territorio, poco più della metà, 1700, offrono lo screening.

Ma ora, con il tasso di malattia e positività registrato, non basta nemmeno questo ulteriore sforzo per reggere all'impatto della domanda. E i cittadini si trovano nella disperata situazione di non poter concludere la propria quarantena o dichiararsi guariti per l'impossibilità di sottoporsi a un test. E se sotto le vacanza di Natale il problema riguardava soprattutto gli adulti, oltre ai non vaccinati che dovevano andare a lavoro, ora tocca molto da vicino i bambini: c'è chi si è trovato a fare code di ore agli hub regionali e ai drive through arrivando a risse tra le persone in attesa tanto che in alcuni casi, Milano, Roma e Napoli, sono dovuti intervenire le forze dell'ordine per gestire i flussi di traffico e la tensione. Con la riaperture delle scuole e delle attività extrascolastiche, si è moltiplicata la richiesta anche tra i bambini, decimati da quarantene e casi di positività accertate e da accertare.

Il fenomeno investe ovviamente tutta la catena dai produttori ai fornitori fino al banco: la filiera è stata decimata, rallentando la produzione, le consegne e l'offerta del servizio. Marta Bravi

(ANSA il 12 gennaio 2022) - La maggioranza è stata battuta nella commissione Affari costituzionali del Senato su un emendamento al decreto Covid, proposto dal M5s, che chiedeva di consentire alle parafarmacie di fare test molecolari e antigenici rapidi anti covid. Contro la modifica, che ha avuto 13 voti contrari e 11 favorevoli, si è schierato tutto il centrodestra. L'emendamento presentato da Gianluca Castaldi, primo firmatario, aveva avuto il parere positivo del governo e del relatore del provvedimento, Nazario Pagano di Forza Italia. Il decreto, ora in discussione in Aula, prevede tra l'altro il green pass rafforzato.

Da today.it l'11 gennaio 2022.

I numeri ufficiali dicono che oggi in Italia ci sono 2.004.597 di persone positive al Covid, 60.618 in più del giorno prima. Al passo di 100mila nuovi casi, il numero - anche al netto delle guarigioni - è destinato ad aumentare considerevolmente. 

Il tracciamento dei casi è in grande crisi, in molte regioni proprio saltato. Basti pensare che ci sono decine di migliaia di cittadini, se non centinaia di migliaia a sentire alcuni esperti, che hanno il tampone negativo ma si trovano ancora in isolamento.

A 21 giorni dalla prima positività si esce automaticamente dall’isolamento, senza bisogno di fare il tampone, quindi tutti coloro che hanno ricevuto la diagnosi prima del 20 dicembre non entrano nel numero degli attualmente positivi. 

Qual è dunque il numero reale degli attualmente positivi? "Non è possibile che praticamente nessuno dei 2 milioni di italiani che è risultato infetto dopo il 20 dicembre non sia stato ancora liberato - dice a Repubblica l’epidemiologo Pier Luigi Lopalco -. È evidente che è saltato il tracciamento. Può darsi che molti siano già fuori di casa ma il sistema non li abbia ancora eliminati dal conto dei positivi".

Quel numero, 2 milioni, comprende persone che non hanno ancora ricevuto dall'azienda sanitaria locale il certificato che interrompe la quarantena oppure non hanno avuto il rinnovo del Green Pass da parte del ministero alla Salute. Di fatto sono bloccati in casa, non possono andare a scuola o lavoro.

Come fare per avere dunque un numero credibile dei positivi al virus? Prendere in considerazione solo i contagiati negli ultimi dieci giorni, suggerisce Lopalco. facendo così, il numero dei contagiati scende a poco meno di un milione e mezzo (mezzo milione dunque in meno dei numeri ufficiali).

C'è un grosso punto di domanda, però. Con una variante contagiosa e dilagante come Omicron, molti scienziati ritengono che i positivi scoperti sono molti meno di quelli reali: sono tanti i casi asintomatici, sono tante le persone che non fanno alcun test se hanno sintomi paragonabili a quelli di un raffreddore. 

In quest'ottica Carlo La Vecchia, dell’Università di Milano, ipotizza che il numero reale degli infetti sarebbe triplo rispetto a quello attuale, cioè tra i 4,5 e i 6 milioni di italiani: "Al risultato arrivo dimezzando la positività ai tamponi, comunque siamo sempre lì, gli italiani contagiati potrebbero essere un decimo del totale. Una delle ragioni della sottostima dei numeri è nei problemi del tracciamento. Se non si vanno a cercare i contatti, si trovano infatti meno nuovi positivi. Anche i paucisintomatici, che magari hanno solo due giorni di raffreddore, in questi momenti difficili non fanno il test".

Non è un problema così grave il fatto di non conoscere il reale numero dei positivi a oggi, 11 gennaio 2022. Il focus resta sugli ospedali, sul trend dei ricoveri e sulla pressione che i malati Covid esercitano sulle strutture sanitarie.

Monica Serra per "la Stampa" il 7 gennaio 2022. Tra festività natalizie, viaggi e cenoni in famiglia, con tutti i timori legati alla diffusione della variante Omicron, il business dei tamponi nelle ultime settimane si è moltiplicato con un giro d'affari che, in Italia, muove decine di milioni di euro al giorno. Tra file chilometriche e prenotazioni online, le richieste si sono raddoppiate, arrivando a un milione e 200 mila tamponi al giorno. Il 20 per cento sono test molecolari, l'80 per cento antigenici rapidi.

Di questi ultimi, circa 800 mila - calcola Federfarma - vengono eseguiti dalle oltre 14 mila 500 farmacie che si sono messe a disposizione sul territorio. Numeri enormi, se si pensa che prima dell'ultima ondata i tamponi eseguiti in Italia erano tra i 500 mila e i 700 mila ogni 24 ore.  

A protestare sono soprattutto le associazioni dei consumatori, come Codacons che, a fine dicembre, ha presentato un esposto a centoquattro procure italiane per chiedere di far luce su chi «specula» sull'emergenza ritenendo che il «rincaro» delle farmacie sul prezzo d'acquisto di ogni singolo tampone sia del «328 per cento». 

Il costo calmierato concordato in un protocollo d'intesa col governo è di 15 euro a test antigenico per tutti, 8 euro solo per i ragazzi tra i 12 e i 18 anni (non ancora compiuti), mentre è gratuito per i fragili che, per via delle proprie patologie, non possono vaccinarsi. 

«È vero che le farmacie acquistano i tamponi a 3, 5 o 4 euro - spiega Marco Cossolo, presidente di Federfarma - ma per eseguirlo sostengono altre spese che sono facilmente quantificabili. C'è il lavoro del farmacista: circa 50 centesimi al minuto. Se si considera che per ogni tampone ci vogliono 15 minuti, sono 7, 50 euro. C'è il prezzo dei Dpi (camice usa e getta, mascherina e guanti): 1, 50 euro. E siamo già a 13 euro. Per non parlare del costo degli spazi, della loro sanificazione e della attività amministrativa che c'è dietro. Quel che resta in tasca a un farmacista sono due euro. Anche perché - si infervora Cossolo - il prezzo di 15 euro non lo abbiamo fatto noi ma è stato deciso dal presidente del consiglio, Mario Draghi, che è il più grande economista europeo».

Diversi sono i costi dei tamponi antigenici fai da te che alla vigilia di Natale erano quasi introvabili in molte città italiane, come a Milano. «Il prezzo al pubblico varia dai 7, 90 ai 9, 90 euro mentre le farmacie li acquistano a 6 euro più il 5 per cento di iva, che non è applicata invece agli antigenici che vengono effettuati in sede», conclude Cossolo. E, di certo, non è a causa delle farmacie che i tamponi in Italia non vengano eseguiti gratuitamente come invece accade in altri Paesi del Nord Europa, per esempio la Germania. 

Anzi, sottolinea Andrea Mandelli, presidente della Federazione Ordini farmacisti italiani, «questa attività, che di sicuro non rappresenta il core business delle farmacie, è un'incombenza che si aggiunge a tutte le altre che ordinariamente vengono svolte e che in queste settimane in parte sono state abbandonate. Ci siamo messi a disposizione per fare i vaccini anti covid, quelli anti influenzali, i tamponi Durante l'emergenza abbiamo dimostrato che la nostra professione è quella più flessibile e più vicina al cittadino».  

Il margine di guadagno di due euro a tampone non può essere considerato basso, visti anche i numeri dei test antigenici effettuati in Italia in questi giorni. Ma c'è da dire che varia a seconda del territorio e della città.  

E, in ogni caso, spiega Venanzio Gizzi, presidente Assofarm - farmacie comunali, «anche le farmacie sono delle aziende che devono garantire il loro equilibrio economico. In Italia abbiamo una sanità che viaggia a ventuno velocità, tante quante sono le nostre regioni. Prima del protocollo d'intesa per i test antigenici rapidi siglato ad agosto con il governo, ogni hub e ogni struttura applicava prezzi diversi. In alcuni casi molto alti. Ma nei 15 euro complessivi pagati ora dal cittadino ci sono anche i costi degli spazi e del personale: sono tutti investimenti sostenuti dalle farmacie. Siamo un presidio territoriale importante. Se non ci fossimo stati noi, che cosa sarebbe accaduto in questo periodo con i tamponi? Chi se ne sarebbe fatto carico?» . 

Ad ammettere che le spese ci sono è il presidente del Movimento difesa del cittadino, Antonio Longo. «Di sicuro con una richiesta così alta c'è chi sta speculando - sostiene - ma il problema qui è alla fonte. Perché c'è una questione relativa all'approvvigionamento soprattutto dei reagenti con cui i tamponi vengono processati, che sono prodotti principalmente all'estero. Il governo dovrebbe garantirli a un costo più basso, calmierato, per permettere alle farmacie di contenere il prezzo dei tamponi. Anche perché i tempi di attesa per effettuare i test stanno aumentando. E se da una parte è vero che le feste e i cenoni stanno per terminare, dall'altra bisogna pensare che tra qualche giorno si torna al lavoro, a scuola, soprattutto. Il problema è attuale e riguarda i prossimi sessanta giorni. E nessuno, almeno per il momento, sembra sollevarli.

Maria Latella per “il Messaggero” l'8 gennaio 2022. Duecentocinquanta dollari per un tampone rapido. Succede a San Francisco ma anche altrove, almeno in California il costo si aggira almeno sui 130 dollari. Se si vuole un risultato in un'ora e non un una settimana. Poi può anche succedere che il risultato nemmeno arrivi. Nè in un'ora nè mai. Cronaca di un'esperienza diretta, ma prima di raccontarvela mettiamo a confronto le due realtà. Quella Europea e quella sperimentata in California. Leggiamo di legittime proteste perché non sempre in Italia i test anti Covid costano 15 euro.

Leggiamo di lunghe code davanti alle farmacie. Non siamo qui a riproporre il tutto il mondo è paese ma almeno in Europa nessuno ci chiede 200 e più euro per un test rapido. E soprattutto nessuno oserebbe incassare i soldi e poi non farti avere il risultato. Come è successo a me. Esperienza diretta, vi dicevo: 808 dollari in tutto per quattro test. I primi due non arrivati in tempo per la partenza e due fatti in aeroporto, a San Francisco.

Cominciamo dalla fine, dall'hub per i test rapidi dell'aeroporto di San Francisco. Mercoledì pomeriggio, circa le 17. Con mio marito aspettiamo trepidanti l'esito dell'esame. Se fosse positivo ovviamente non potremmo partire. Le operatrici chiamano per nome. E c'è n'è una delegata a dare la brutta notizia. Quando chiama lei, le facce sbiancano. Helen scandisce quella che ha l'ingrato compito. Helen, seduta a poca distanza da noi, si avvicina al desk e si sente ripetere i suoi diritti di portatrice di Covid.

«Può chiamare questo numero dì telefono. Ovviamente non può partire. Deve lasciare l'aeroporto e avvisare le persone con le quali è entrata un contatto». Come mai ci troviamo qui, a San Francisco, trepidanti nell'hub insieme a decine di altri trepidanti come noi? É andata così. Dopo due anni in cui per le note restrizioni era praticamente impossibile visitare parenti negli Stati Uniti, decido di approfittare della riapertura delle frontiere. Il rientro in Italia è previsto per il 5 gennaio. Nel rispetto delle regole, prenotiamo il test antigenico alla Covid Clinic della cittadina in cui abbiamo trascorso le vacanze, poco distante da San Francisco. Test ovviamente a pagamento.

Per quello gratuito ci sarebbe stato posto solo la settimana successiva. Il costo di ciascun test è di 129 dollari, circa 110 euro. A testa. Le regole prevedono che il test venga fatto 24 ore prima dell'arrivo in Italia e dunque noi ci prenotiamo per le 9 di mercoledì 5 gennaio. Pagamento anticipato con carta di credito. Consapevoli di dover attendere per un po', alle 8.30 siamo davanti alla clinica. La fila e' gia lunga e scopriamo che la clinica non aprirà prima delle 9. Si aspetta per strada, il test viene fatto sul marciapiede e a parte l'infermiera che lo pratica e che non dispone di informazioni, non c'è nessuno a cui rivolgersi.

Alle 10 siamo ancora in coda. Finalmente tocca a noi, chiediamo rassicurazioni sui tempi nei quali verrà rilasciato il risultato. «Forse due ore», spiega evasiva l'infermiera. Ci allarmiamo. «Come due ore? Ci era stato assicurato che in un'ora avremmo saputo se era positivo e negativo». Facciamo presente che senza il risultato non potremo salire sull'aereo per l'Europa ma l'infermiera si stringe nelle spalle. Preoccupati ma ancora confidenti, partiamo alla volta dell'aeroporto di San Francisco. Il volo è alle 14.40, già prima delle 11 siamo davanti al check in con bagagli e cellulare compulsato con una certa ansia. Siamo stati molto prudenti, passeggiate all'aria aperta e contatti solo con i familiari, ma non si sa mai. Se scopriamo di essere positivi non si parte, ovviamente.

Sono le 12 e il risultato dalla Covid Clinic non arriva. Le 12.30. Niente. Proviamo a chiamare e a restare in attesa per dieci, quindici, venti minuti. Un disco registrato ci informa che per ottenere il risultato basta andare sul sito della Covid Clinic, ma sul sito non ci sono informazioni. Il gentile operatore della compagnia Lufthansa ci spiega che senza risultato del test non può procedere al check-in. A questo punto ci rassegniamo: non partiremo più con il volo delle 14.40 per Francoforte. 

Ci spostano sul San Francisco Zurigo della Swiss Air, alle 20. Ma senza Covid test non ci imbarcheranno neppure in quel caso ovviamente. Ci mettiamo in coda per una nuova esplorazione delle narici. L'hub per i test rapidi dell'aeroporto di San Francisco dispone di pochi operatori e di centinaia di passeggeri che come noi hanno un volo di li a poche ore. Sono le 14.30, verremo testati alle 16.40.

Pagamento con carta di credito, 250 dollari a testa. Risultato comunicato circa un'ora dopo. Ecco perché già dalle 17 mio marito ed io siamo seduti davanti alle tre operatrici incaricate di comunicarci la sentenza. Se negativi potremo finalmente imbarcarci. Guardiamo quella collocata a destra, la signora che ha il compito di convocare i positivi: ogni volta che le arriva il foglio con un nuovo nome sale una certa apprensione. Chiamano ad alta voce: Maria. 

Scatto tremebonda ma per fortuna non sono io. Poco prima delle 18 siamo ufficialmente dichiarati negativi. Corriamo al check-in, per fortuna ci sono ancora posti. Alle 20 si parte. Quando, molte ore dopo, sbarchiamo a Fiumicino, nessuno controllerà i nostri costosi test. L'hanno già fatto le compagnie aeree. In compenso scopriamo che la già citata Covid Clinic si è svegliata e oltre 24 ore dopo ha mandato una mail con il risultato. Ma soltanto a uno di noi due.

"Tamponi positivi sotto l'acqua...". Come stanno davvero le cose. Francesca Galici il 21 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Alcuni test rapidi per il coronavirus potrebbero risultare positivi all'acqua del rubinetto. Ma c'è una spiegazione logica dietro questo fenomeno.

Girovagando per il web nelle ultime settimane non è difficile imbattersi in alcuni video che mostrano un fenomeno che, se non spiegato, potrebbe creare allarmismi. Ci sono persone che hanno provato a "testare" l'acqua del rubinetto (ma anche altri liquidi) per provare che i test rapidi diagnostici del coronavirus non fossero poi così affidabili. Sono numerosi i video di questo tipo e, va sottolineato, molti di questi non sono fake. Esiste la possibilità che alcuni modelli di test rapidi da eseguire domesticamente possano avere una reazione e lo conferma anche Franco Leoni, General Manager di Polonord Adeste srl, che produce parte dei test attualmente in commercio, intervistato da Qui Finanza.

La verità, però, non è quella che alcuni hanno diffuso in rete. "Dalle verifiche che abbiamo fatto noi, effettivamente, abbiamo rilevato che ci sono alcuni prodotti nel mercato che, se a contatto con l’acqua del rubinetto, danno come risultato positivo. Non sono tra quelli che distribuiamo noi, però ci sono. Tuttavia, questo non invalida il sistema, perché nelle istruzioni di utilizzo sono segnalate le reazioni che sono escluse", spiega Leoni.

Ed è proprio nelle istruzioni per l'uso la chiave per capire l'errore di chi vorrebbe minare la credibilità di questi test. "Se, per esempio, le istruzioni riportano che non c’è reattività crociata con l’influenza di tipo B e facciamo il test ad una persona che non è infetta di Covid-19 ma di influenza di tipo B ed esce risultato positivo Covid-19 allora abbiamo un problema serio sul test. Mentre se mettiamo acqua o Coca-Cola o succo d’arancia nel test ed esce positivo probabilmente nel liquido inserito vi sono sostanze organiche o minerali che interagiscono col test, ma questo è un uso improprio", ha proseguito Franco Leoni.

Il test per la diagnosi di infezione da coronavirus è formato da una striscia di nitrocellulosa con i reagenti. Se questi vengono a contatto con gli antigeni del coronavirus oggetto di indagine si ottiene una reazione che, in questo caso, è la comparsa della ben nota striscia colorata nella zona del t-test. Come spiegato da Leoni, è probabile che i reagenti utilizzati per l'individuazione dell'antigene del coronavirus siano sensibili anche ad altri elementi che, però, non verrebbero individuati se non venisse fatto un uso improprio del prodotto. "Se faccio un tampone da solo devo seguire le istruzioni. Che non dicono di metterlo sotto l’acqua del rubinetto, proprio per non falsare il risultato", ha aggiunto Leoni.

Per questo motivo i test vengono ritenuti validi per il loro utilizzo, nelle modalità che vengono indicate dai produttori, nonostante gli ovvi limiti che ben noti, che comunque non vanno a minare l'importanza di questi test nell'attività di diagnosi. "Il tampone rapido è importante perché dà la possibilità alle persone di avere subito una informazione di positività. È chiaro che c’è il problema dei falsi negativi e positivi, però è limitato, perché tutti i positivi rilevati dai test rapidi non sarebbero stati rilevati altrimenti", ha detto ancora Leoni.

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

Pandemia, ecco chi sono i re dei tamponi: i nomi delle società che guadagnano con i test. Valeria Di Corrado su Il Tempo il 22 gennaio 2022.

I test per la diagnosi del Covid-19 sono ormai diventati uno dei business più redditizi al mondo. Le aziende che li producono e li distribuiscono hanno visto negli ultimi due anni schizzare il proprio fatturato. Ma chi sono i "signori dei tamponi"?

Cina e Sud Corea detengono un oligopolio nel settore, seguite dalle multinazionali statunitensi. I tamponi sono diventati una gallina dalle uova d'oro: usati per diagnosticare il coronavirus, per uscire dalla quarantena, per entrare nelle strutture socio-assistenziali e per i non vaccinati a cui serve il greenpass. Basti pensare che solo in Italia ne viene processato circa un milione al giorno, tra ospedali pubblici e cliniche private, centri analisi, farmacie, hub e drive-in della struttura commissariale. Ormai ce n'è per tutti i gusti e le fasce di prezzo: molecolari e antigenici rapidi, antigenici qualitativi o quantitativi, sierologici per la ricerca di anticorpi, professionali o fai da te, naso/orofaringei o salivari.

Tra Natale e Capodanno era salita la «febbre da tampone», una vera e propria corsa al test per avere il via libera ai festeggiamenti in casa o con gli amici. Nelle grandi città, come Roma, Milano e Torino, le farmacie hanno registrato il sold-out delle prenotazioni. C'è chi ha aspettato in fila ai drive-in per 3-4 ore. I test fai da te sono andati letteralmente a ruba e quei pochi rimasti nei negozi sono stati venduti con rincari del 100%. Maurizio Arcuri, prima, e Francesco Figliuolo, poi, hanno acquistato dal 12 marzo 2020 al 20 ottobre 2021 ben 177.170.213 kit diagnostici e tamponi (con annesse provette), prevalentemente molecolari, per una spesa complessiva di 597 milioni e 354 mila euro.

La commessa più grossa, pari a 89,3 milioni di euro, se l'è aggiudicata il 9 aprile scorso Arrow Diagnostic srl: un'azienda italiana, che si occupa della distribuzione di kit e reagenti per la diagnostica molecolare; «soggetta alla direzione e al coordinamento» della multinazionale coreana Seegene inc, con sede a Seoul. Quest' ultima il 3 febbraio 2020 ha prodotto il suo primo test di reazione a catena della polimerasi in tempo reale (Real Time PCR) per testare il nuovo coronavirus, noto come Allplex 2019-nCoV. Il titolo di Seegene, quotato in borsa è passato da 10.725 won sudcoreani il primo novembre 2019 a 156.100 won il primo agosto 2020. Al secondo posto della classifica dei fornitori di tamponi più pagati dalla struttura commissariale c'è - con 63,7 milioni di euro-Life Technologies Italia, un'azienda di Monza acquisita nel 2014 dalla multinazionale statunitense Thermo Fisher Scientific, che ha un fatturato annuo di circa 40 miliardi di dollari. Sul gradino più basso del podio, con 60 milioni di euro (di cui 43,6 milioni pagati in un'unica soluzione il 9 aprile scorso per una commessa da 2.295.680 tamponi), c'è Abbott srl, la filiale italiana del colosso farmaceutico statunitense Abbott. Presente in 160 Paesi, quotato a New York, capitalizza 215 miliardi di dollari ed è al 36esimo posto nella classifica mondiale delle società che valgono di più in Borsa (Pfizer è al 34esimo posto con 220 miliardi).

Al quarto posto della classifica dei fornitori più remunerati dallo Stato italiano c'è Copan Italia spa, acronimo di «coadiuvanti per analisi», che ha incassato in totale ben 14 commesse, per un totale di 58,2 milioni di euro (di cui 10,7 milioni solo per le provette). Fondata nel 1979 a Mantova, l'azienda brevetta nel 2003 dei tamponi floccati, per poi espandersi in Cina, Giappone e Australia. Nel 2020, con lo scoppio della pandemia, viene aperto un sito produttivo pure in California. DiaSorin spa, azienda con sede in provincia di Vercelli che iniziò negli anni '70 a sviluppare kit diagnostici, ha avuto commesse per 40,6 milioni di euro. Altri 30 milioni li ha incassati Technogenetics srl, un'aziendalodigiana che da oltre 35 anni opera nel campo dell'immunodiagnostica e della genetica molecolare. A seguire, con 27,4 milioni, la padovana AB Analitica srl e, con 17,6 milioni, la fiorentina A.Menarini Diagnostic srl.

Chiudono la «top ten» Greiner Bio-One Italia srl (filiale della multinazionale tedesca), con 15,6 milioni incassati il 4 novembre 2020, e la sud coreana Rapigen, con 14,8 milioni. La filiale italiana della multinazionale Usa Perkin Elmer e la svizzera Abbott Rapid Diagnostic si sono aggiudicate infine commesse per oltre 13 milioni di euro.

Sono 16mila, su un totale di 19mila, le farmacie italiane che eseguono test antigenici rapidi per il Covid-19, sulla base dei quali- in caso di risultato negativo - rilasciano il greenpass valido per 48 ore. Ogni farmacia è libera di scegliere l'azienda dalla quale acquistare i tamponi, con l'obbligo però di attingere dalla lista approvata dal Comitato per la sicurezza sanitaria dell'Unione europea (Health Security Committee). La lista viene aggiornata ogni 2-3 mesi, anche per seguire le evoluzioni delle varianti; l'ultima è stata stilata il 21 dicembre 2021 e raggruppa 186 codici identificativi (a ogni codice possono corrispondere più tipi di confezioni), per un totale di circa 150 aziende sparse in tutto il mondo.

Ma come si può garantire l'omogeneità del risultato tra test fabbricati in Paesi diversi? «Le farmacie non sono un ente certificatore, per questo si rifanno all'elenco approvato dall'Health Security Committee - spiega il segretario nazionale di Federfarma, Roberto Tobia È una sorta di libro mastro che viene stilato dai tecnici del gruppo di lavoro degli Stati membri sulla base di determinati standard qualitativi, come gli studi sulle performance cliniche, che poi confluiscono nel riconoscimento del marchio Ce. Il 90% dei produttori dei test antigenici rapidi fa parte del mercato orientale: Cina in testa, seguita da Corea e Giappone». Tre di queste aziende hanno sede a Wuhan, la città cinese epicentro della diffusione dell'epidemia da Covid-19.

Sui tamponi antigenici rapidi fai-da-te la Cina detiene quasi un monopolio. Che siano salivari o nasali, poco cambia. Facendo una cernita delle marche in commercio in Italia, abbiamo scoperto che il produttore è sempre lo stesso: Hangzhou All Test Biotech Co. Ltd, che ha il suo stabilimento proprio a Hangzhou, capoluogo della provincia cinese di Zhejiang. Qui vengono prodotti: JusChek, All Test, Flowflex, Clugene, Screen Check, Beright e Vivadiag. «Non abbiamo perplessità sull'attendibilità di questi tamponi - specifica Roberto Tobia Nutriamo invece riserve su due problematiche. In primis la tracciabilità, che così viene affidata esclusivamente al senso civico del singolo. Il rischio è che gli incoscienti, pur essendo risultati positivi all'autotest, continuino a circolare liberamente non avendo il controllo della Asl.

La seconda perplessità concerne la corretta esecuzione: il cittadino comune spesso non inserisce il tampone nelle fosse nasali, prelevando così un campione che non è attendibile per la diagnosi». Se il prezzo dell'antigenico rapido eseguito in farmacia è stato fissato dal Governo in 15 euro per gli under 12 e 8 euro per la fascia dai 12 ai 18 anni, i fai-da-te hanno prezzi variegati (di solito i salivari costano più dei nasali).

Durante le festività natalizie, con la corsa al tampone, le scorte dei self-testing si sono esaurite e i costi sono schizzati alle stelle. «La quantità influisce sulla formazione del prezzo spiega il segretario nazionale di Federfarma - Gli ipermercati, per esempio, che comprano grandi stock, inevitabilmente praticano prezzi più bassi di una farmacia che compra meno pezzi da un distributore intermedio. Sugli antigenici fatti in farmacia a un prezzo concordato e calmierato, i margini di guadagno sono irrisori, considerato che, oltre al tampone in sé, gli operatori socio-sanitari devono indossare mascherina, camice e guanti, e cambiarli ogni volta che un clienVAL.DIC. te risulta positivo».

·        Le Mascherine.

La mascherina, oggetto vitale (e ideologico) che resterà tra noi. Emanuele Trevi su Il Corriere della Sera l'1 Ottobre 2022.

Lo scrittore Premio Strega 2021: «Sarebbe troppo spericolato e irrealistico pensare che di colpo le mascherine siano diventate come i Vhs o i gettoni del telefono» 

Nei giorni immediatamente precedenti lo storico sabato 1 ottobre, che ha segnato la fine dell’obbligo di indossare la mascherina in luoghi e mezzi pubblici, ho avuto la rara opportunità di constatare come gli italiani, sempre riottosi ad applicare norme di carattere restrittivo, anticipino volentieri, e in maniera quasi unanime, i provvedimenti che vanno in senso contrario. Voglio dire che, come se il desiderio avesse il potere di rendere opinabile anche il calendario, con tutte le sue granitiche certezze, l’uno ottobre è arrivato con qualche giorno di anticipo.

Comunque, manco fossi un ispettore del ministero della sanità, per motivi di lavoro la scorsa settimana ho viaggiato su una vasta gamma di mezzi di locomozione, più o meno efficienti, più o meno in ritardo. Ho preso svariati taxi, mi sono immerso un paio di volte nell’incredibile metropolitana romana, e poi sono stato in treno, in autobus, su un aliscafo e su una funicolare (quella di Capri). Ebbene, senza attendere la mezzanotte di ieri, le mascherine non c’erano praticamente più. Nel mio vagone del treno per Napoli, ho verificato un fenomeno che rasenta l’incredibile: addirittura i lettori di libri, stabilmente ultimi in ogni genere di classifica, superavano gli indossatori di mascherine.

Dovrei parlare al singolare: ero io a indossarla, un po’ perché in questi anni mi sono convinto che quelle nere mi stiano molto bene, un po’ perché sono quel tipo di persona capace di entrare nel Guinness dei primati per aver preso una multa un secondo prima che scadesse la norma. Continuerò a portarmene sempre un paio dietro, come portafortuna, infilate in una tasca della borsa. Come le canzoni, gli oggetti hanno il potere di trattenere in sé interi periodi della vita, trasformandosi in simboli e ricettacoli della memoria. Ma non per questo credo che le mascherine entreranno rapidamente nel novero di quelli che un grande studioso, Francesco Orlando, in un suo libro definì «oggetti desueti».

Purtroppo, molti medici e scienziati, con argomenti credibili, ci invitano ad adattarci all’idea di vivere tra una pandemia e l’altra: conseguenza non trascurabile del disastro ambientale e della forzata vicinanza con specie animali che un tempo abitavano spazi remoti e selvatici. Speriamo che non vada così, ma sarebbe troppo spericolato e irrealistico chi pensasse che d’improvviso le mascherine siano diventate come i VHS o i gettoni del telefono. Possiamo solo dire che fanno parte della nostra storia, e sono state un’arma efficacissima contro un nemico sconosciuto e fortissimo, che ha sferrato il suo attacco all’improvviso.

Purtroppo, sono anche diventate (e non poteva, tutto sommato, andare altrimenti) delle bandiere da sventolare, in un senso o nell’altro. Hanno generato due ingiunzioni, o inviti, o slogan che dir si voglia contrapposti. Il primo è senza dubbio il più turpe e sconsiderato: mi riferisco al «giù la mascherina !» che è diventata come la sintesi della criminale idiozia dimostrata dalla destra sovranista di fronte all’emergenza.

Saranno gli storici a calcolare quello che è costato questo atteggiamento ai popoli che hanno avuto la sciagura di essere governati da figuri come Trump e Bolsonaro. L’Italia è un paese più mite e ragionevole, che smussa alla sua maniera ogni estremismo. Ho notato spesso che i nostri sovranisti hanno escogitato una specie di segno distintivo, che consisteva nell’indossare sì l’odiata mascherina, ma facendone fuoriuscire in maniera ostentata il naso. Devo però confessare che, pur ritenendo molto più ragionevole e tutto sommato giusta l’ingiunzione opposta, ovvero «si metta la mascherina!», l’ho patita con un certo fastidio, soprattutto se non pronunciata in maniera cortese (si può essere cortesi in qualunque contingenza e in qualunque emergenza). Lo dico perché mi spaventano solo un po’ di meno delle società sovraniste le società virtuose, per chiamarle in qualche modo, nelle quali i cittadini si osservano e sono sempre pronti a biasimarsi a vicenda.

A parte i casi estremi, in cui è doveroso intervenire direttamente, considero questa facilità al rimprovero un difetto dell’antropologia di sinistra, e preferisco di gran lunga il ricorso a un’autorità (un poliziotto, un vigile, un controllore…) in grado di dirimere la questione. Le leggi e i regolamenti potranno anche stare antipatici a tutti, e in una certa misura è giusto che sia così, ma un merito ce l’hanno, quello di rendere inutili i litigi e non stancarsi mai di inventare forme di tolleranza e comprensione reciproca.

Maschere mozzafiato. Report Rai PUNTATA DEL 18/04/2022 di Antonella Cignarale

I requisiti di una FFP2 non tengono conto dei parametri fisiologici dei bambini. 

Vale sia per le taglie standard che per le taglie small. Se sulla mascherina è stampato il codice EN149 i parametri di efficienza filtrante, aderenza al volto e resistenza respiratoria sono pensati per la categoria dei lavoratori e i test di prova avvengono solo sulla popolazione adulta. Le FFP2, infatti, come semimaschere filtranti antipolvere, sono progettate per garantire la sicurezza sui luoghi di lavoro. Nelle scuole italiane gli studenti devono indossarle quando sorgono casi di positività nella propria classe per 10 giorni di fila, anche per 8 ore al giorno. Vale per tutti dai 6 anni in su. Una disposizione adottata per contrastare il contagio da Sars-Cov2 e per scongiurare la Dad, ma non abbracciata dal resto dei paesi dell’Unione Europea. 

MASCHERINE MOZZAFIATO di Antonella Cignarale

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO Guai a dimenticare la maschera FFP2 per accedere a scuola. Per gli studenti dai 6 anni in su c’è l’obbligo di indossarla per 10 gg quando sorgono casi di positività tra i compagni di classe.

STEFANO COSTANZI – DIRIGENTE SCOLASTICO ISTITUTO COMPRENSIVO REGGIOLO In molti casi gli stessi genitori dotano i propri bimbi di mascherine FFP2 anche in condizioni non di obbligo.

MAMMA Le mascherine FFP2 i miei bambini le usano regolarmente.

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO Ma queste maschere sono adatte per i bambini? Vicino al marchio CE è visibile il codice EN 149. Certifica i requisiti minimi di una FFP2 e le prove tecniche da superare prima della messa in commercio. Le FFP2 nascono come filtranti antipolvere per la sicurezza sui luoghi di lavoro. Tra gli enti europei che hanno elaborato la norma c’è l’ente italiano di normazione.

ANTONELLA CIGNARALE Questo vuol dire che neanche i requisiti che la norma richiede su una FFP2 tengono conto di parametri fisiologici tipici di bambini o di ragazzini.

RUGGERO LENSI – DIRETTORE ENTE NORMAZIONE ITALIANO UNI No, non ne tengono conto perché Una semimaschera filtrante FFP2 nasce proprio per i lavoratori adulti

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO E ci sono genitori preoccupati per l’uso pediatrico di questi dispositivi.

PAPÀ Noi vogliamo rispettare la norma ma vogliamo che la norma venga rispettata con un dispositivo idoneo per i nostri bambini MAMMA 2 Specialmente per un uso prolungato, loro stanno in classe otto ore al giorno. Chiediamo che ci sia una certificazione, che ci venga mostrata una certificazione che questa mascherina si possa usare senza problemi sulla salute dei bambini per un uso appunto scolastico.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Però la certificazione non c’è. Buonasera. Gli studenti in classe sono obbligati a indossare la mascherina chirurgica e poi passare però obbligatoriamente alla FFP2 in caso di contatto. I genitori e alcune associazioni hanno cominciato a chiedersi: “ma i ragazzi tra i 6 e i 14 anni possono tranquillamente indossare queste mascherine per lungo tempo se non si conoscono bene gli effetti? E già perché le FFP2 per esempio sono state concepite per proteggere gli adulti su un luogo di lavoro: evitare che inalino polveri nocive, di segatura, metalli pesanti. E poi c’è anche un altro tema: devono aderire bene al volto. Ecco: sul volto dei bambini come la mettiamo? La nostra Antonella Cignarale.

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO Per garantire la protezione da agenti esterni, virus compreso, delle FFP2 si testa la capacità del materiale filtrante e l’aderenza al volto di chi le utilizza.

STEFANO GALIMBERTI – ORGANISMO NOTIFICATO PER LA CERTIFICAZIONE CE Se una semimaschera non è adatta al volto dell’utilizzatore noi possiamo misurare delle penetrazioni verso l’interno anche del 20, del 40%, anche del 60%.

ANTONELLA CIGNARALE Sul volto piccolo di un bambino questo rischio c’è?

STEFANO GALIMBERTI – ORGANISMO NOTIFICATO PER LA CERTIFICAZIONE CE Se si utilizza una taglia normale il rischio è il 100%.

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO Il rischio è che il virus si insinui lì dove la maschera è larga: ai lati, sotto al mento o sopra il naso. Vale per i bambini e anche per gli adulti: ognuno deve trovare la maschera più adatta, tanto che nelle prove tecniche una FFP2 deve aderire almeno a dieci volti diversi. Ma tutti adulti.

STEFANO GALIMBERTI – ORGANISMO NOTIFICATO PER LA CERTIFICAZIONE CE Non si possono utilizzare bambini per fare questo tipo di prove. È un altro dei motivi per cui una ffp2 per bambini non può esistere.

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO Infatti, come le taglie standard, anche le FFP2 di taglia small spesso indossate dai bambini si basano sugli stessi presupposti della norma tecnica per la sicurezza sul lavoro.

GIORGIO BRIGHENTI - CENTRO MASCHERINE MODENA Cambia soltanto la dimensione e la forma per visi, diciamo così, più magri ma le caratteristiche di filtrazione sono identiche: sempre per adulti.

VOX BAMBINA SCUOLA MONTELLABATE Puzza di igienizzante di mani, è troppo piccola e poi non c’è neanche un buco per respirare.

ANTONELLA CIGNARALE Quante ore le devi tenere quando le metti?

VOX RAGAZZINA MODENA A scuola otto ore. Cioè, son dure da respirare.

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO Respirare è dura perché è il materiale filtrante della maschera che oppone una resistenza, lo stesso materiale che serve per proteggerci.

STEFANO GALIMBERTI – ORGANISMO NOTIFICATO PER LA CERTIFICAZIONE CE Nel momento in cui qualcosa oppone resistenza al nostro flusso respiratorio va da sé che noi impieghiamo più energia quindi ci possiamo anche affaticare, gli effetti di un affaticamento si vedono sulla lunga durata.

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO Questa resistenza che può affaticare il respiro deve rimanere entro dei limiti, limiti settati sui parametri di un adulto.

ANTONELLA CIGNARALE Quali sono per lei i parametri che andrebbero rivisti per i più piccoli?

STEFANO GALIMBERTI - ORGANISMO NOTIFICATO PER LA CERTIFICAZIONE CE Sicuramente la resistenza respiratoria e il tenore di Co2.

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO Per chiunque la indossi è importante che non si concentri un livello troppo alto di anidride carbonica all’interno della maschera.

RICCARDO LUBRANO - DIRETTORE UOC PEDIATRIA LATINA – SAPIENZA UNIVERSITÀ DI ROMA L’anidride carbonica è il parametro più sensibile per vedere se effettivamente questa mascherina determina un deficit di ventilazione in qualche modo.

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO L’unità pediatrica di Latina dell’Università La Sapienza ha misurato la tollerabilità di una FFP2 in 25 minori dai 3 ai 12 anni mettendo a confronto i parametri cardiorespiratori in tre diversi momenti: prima senza la mascherina per 30 minuti, poi con la mascherina per altri 30 minuti e infine con la mascherina ma camminando per 12 minuti.

RICCARDO LUBRANO - DIRETTORE UOC PEDIATRIA LATINA – SAPIENZA UNIVERSITÀ DI ROMA Questi parametri hanno un lieve aumento della frequenza respiratoria e della anidride carbonica durante il movimento, ma è una variazione che è stata sempre compresa nel range di normalità. Cioè, questo potrebbe costituire un alert ma non siamo in una patologia. E allora alla fine che cosa abbiamo detto? Se il bambino ha una attività tranquilla, sta in classe, usi la mascherina: la FFP2 dà la migliore sicurezza di protezione. Se deve fare una attività sportiva, logico, se sta all’aperto l’hanno detto tutte le società, la fa senza mascherina o al massimo si può mettere una mascherina chirurgica perché la resistenza è molto più bassa.

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO Di fatto le FFP2 oltre a indossarle in classe sono obbligatorie anche sull’autobus e ci sono bambini che la continuano a tenere sul volto anche durante l’intervallo o fuori dalla scuola. E proprio il Comitato tecnico scientifico, interpellato un anno fa dal ministero dell’Istruzione, aveva espresso “parere contrario all’ipotesi di prescrivere l’uso di FFP2 per gli studenti, non essendo consigliabile l’uso continuato per lungo tempo”. Ma il professor Locatelli, all’epoca coordinatore del CTS, oggi ha cambiato idea e rassicura sull’uso obbligatorio delle FFP2 per gli studenti.

ANTONELLA CIGNARALE Che valutazioni sono state fatte prima di dare questo obbligo tenendo anche conto che voi avevate detto che non era consigliabile?

FRANCO LOCATELLI - COORDINATORE CTS FINO AL 31 MARZO 2022 Quando si vanno a esplorare tutta una serie di strategie per proteggere i soggetti, ovviamente la prima cosa che si fa è tutelare il profilo di sicurezza di chi deve indossare determinati dispositivi come sono appunto le mascherine FFP2 e gli studi che sono stati condotti rassicurano in questa direzione

ANTONELLA CIGNARALE Quindi…

FRANCO LOCATELLI - COORDINATORE CTS FINO AL 31 MARZO 2022 Buona giornata.

ANTONELLA CIGNARALE Avete fatto uno studio? No, giusto per chiarire: avete condotto uno studio? Scusi, professore.

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO Intanto il Comitato Europeo di Normazione sta lavorando a una nuova norma di riferimento per realizzare maschere di protezione dalle infezioni respiratorie per adulti e per minori, tenendo conto anche degli effetti collaterali di maschere chirurgiche e FFP2 evidenziati in un recente studio tedesco, come acne e lesioni cutanee, aumento della frequenza cardiaca e difficoltà respiratorie.

CLAUDIO GALBIATI – ASSOSISTEMA SAFETY – MEMBRO GRUPPO DI LAVORO CEN Ed è lo studio di base che stiamo utilizzando da un punto di vista tecnico per ragionare appunto su questa nuova generazione di protection infection mask. Per capire che cosa vuol dire l’affaticamento respiratorio per un bambino, qual è il limite che noi possiamo considerare accettabile e per quanto tempo: per un’ora, per due ore, quattro ore o per una giornata che sta a scuola?

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora. Intanto speriamo di liberarcene presto. Tuttavia, è importante studiare per capire se ci sono delle controindicazioni, degli effetti negativi se la indossi per lungo tempo. Magari ne esce fuori anche una certificata per i bambini, dopo uno studio approfondito. Perché contrariamente a quello che ci detto dal Professor Locatelli non ce ne sono: il Ministero ci ha inviato quattro studi che testimoniano l’efficacia della FFP2 nel contrastare la diffusione del virus. Ma non sono stati studiati gli effetti sui bambini. C’è uno studio americano, invece, che ha escluso effetti negativi sui bambini a livello polmonare o cardiaco, ma la mascherina che era stata presa in esame era semplicemente di cotone. Poi va anche detto che la maggior parte dei paesi europei non ha reso obbligatorio la FFP2 per i bambini contrariamente al nostro.

Giacomo Amadori e François De Tonquédec per “La Verità” il 15 aprile 2022.  

Anche nella brutta storia della maxi commessa da 800 milioni di mascherine (in gran parte difettose) il buon cuore degli italiani, come capita spesso, è stato tradito dalla superficialità, per non dire altro, della sua classe dirigente.  

Sentito dalla Procura di Roma l'ex capo della Protezione civile, Angelo Borrelli, il 22 febbraio 2021 ha, infatti, spiegato: «Noi abbiamo addebitato pagamenti, su indicazione del commissario, sui conti correnti delle donazioni, in virtù di apposita norma contenuta nel decreto 18/2020 anche per le forniture ordinate da Arcuri. Sul detto conto avevamo circa 180 milioni di euro di donazioni».

Considerato che il 40% dei fondi spesi nel 2020 per l'emergenza è servito per saldare il conto da 1,25 miliardi di euro presentato da Mario Benotti & C. è legittimo il sospetto che parte del denaro delle offerte sia stato utilizzato per pagare quei Dpi e le provvigioni a essi collegate. 

Ma farà indispettire ulteriormente i lettori apprendere che parte degli oltre 120 milioni di euro di provvigioni contrattualizzate e riconosciute dai consorzi cinesi ai broker (premi che secondo una mail dei broker potrebbero addirittura ammontare a più di 200 milioni) potrebbe essere stata investita in bond in esotici paradisi fiscali.  

È l'ipotesi che gli uomini del Nucleo speciale di polizia valutaria della Guardia di finanza hanno messo nero si bianco nell'informativa che ricostruisce i flussi di denaro relativi alle provvigioni percepite dal banchiere sammarinese Daniele Guidi attraverso la Bgp partners di Hong Kong.  

Infatti nel pc del manager le Fiamme gialle hanno trovato tre fogli denominati «Bond Usd», «Bond Eur» e «Bond Cny», tutti «indicativi di potenziali investimenti fatti da Guidi in prestiti obbligazionari, per complessivi 1.294.090,37 euro» e che «verosimilmente» sarebbero stati fatti «utilizzando la provvista rinveniente dalle provvigioni riconosciute dai noti consorzi cinesi, alla Bgp», la società di Hong Kong riferibile, secondo gli investigatori, allo stesso Guidi e ai suoi due soci, Stefano Beghi e Ivano Poma.

I finanzieri spiegano che in quei documenti si parla di sei bond, tutti emessi da società con sede in Paesi offshore, tranne quello del Credite agricole da 311.000 euro. Per gli investigatori Guidi l'1 settembre 2020 avrebbe investito 170.000 euro nell'obbligazione «New Metro Global Ud 6,5% 23apr2021», dell'omonima società con sede a Road Town, minuscola capitale di Tortola, lussureggiante atollo caraibico delle Isole Vergini britanniche, meta invernale dei crocieristi europei.  

Tortola oltre alle spiagge sembra anche offrire investimenti molto vantaggiosi, visto il super rendimento garantito in soli sette mesi, a voler considerare come data di scadenza quella indicata nel nome del file.

In effetti agli investigatori risulta che il titolo sia stato liquidato proprio il 23 aprile 2021, «sebbene non sia stato possibile identificarne compiutamente i sottoscrittori, ne quantificare il premio percepito per l'investimento».  

Quel che sappiamo è che la società emittente ha sede in una palazzina bianca di due piani vicina al porticciolo. Azionista di riferimento della ditta è la Standard chartered plc, «holding operante nel settore bancario».

Ma anche alle Cayman il banchiere sembra aver trovato obbligazioni assai fruttuose, collegate a tre società di George Town, tutte con indirizzi finiti nei Panama papers. Il bond «Time China hldg Ud 6,25% 17Jan21», acquistato sempre l'1 settembre per 169.000 euro, pare offrire guadagni quasi identici a quelli delle Isole Vergini, ma in ancora meno tempo. A emetterlo un'immobiliare con sede nella capitale George Town. Anche in questo caso il titolo è stato liquidato alla data indicata nel nome del file. 

L'azionista di riferimento, nonché executive chairman, è il cinese Chiu Hung Shum.

Nei file scovato nel computer di Guidi si trova traccia di altri due bond targati Cayman acquistati attraverso il conto della Bgp: quello da 283.700 del «Cifi Holdings Group 5,85% 19aug2023» di un'impresa edile con a capo un certo Zhong Lin, e un altro da 172.600 della «Central Chn Real Estate 6,75% 8nov2021», immobiliare amministrata da tal Po Sum Wu. 

Per un quinto bond, il «Greenland Glb lnvest 7, 125% 20mar2021» i finanzieri annotano che «non è stato possibile identificare compiutamente la società emittente» dell'investimento da 186.000 euro. Nel suo verbale Borrelli ha raccontato anche di aver ricevuto, nel marzo 2020, da una collaboratrice di Arcuri, Silvia Fabrizi, un elenco di aziende estere che si erano proposte attraverso canali diplomatici per fornire dispositivi di protezione.  

La missiva indica le istruzioni per l'uso: «Ne stanno parlando in diretta ad (probabilmente Domenico Arcuri, ndr) con Conte e Di Maio. Questa è la lista del ministero Affari esteri e cooperazione internazionale. Ve la inoltro ovviamente per tutti gli approfondimenti del caso. L'ho anche girata a Emergenza coronavirus. Chiedono a noi di fare un check rispetto a chi è stato contattato e chi no, al fine di ottimizzare gli sforzi».  

Allegato alla missiva un elenco lungo 26 pagine di aziende di 55 Paesi del mondo. A dire il vero, non compaiono ditte né delle Cayman, né delle Isole Vergini. E tra i 19 fornitori cinesi non sono presenti i tre prescelti dal commissario per la maxi commessa da 1,25 miliardi di euro.

Giacomo Amadori e François De Tonquédec per “La Verità” il 14 aprile 2022.  

C'è un mistero provvigioni nella maxi commessa di mascherine cinesi da 1,2 miliardi di euro gestita dal commissario straordinario per l'emergenza Covid. 

Infatti sarebbero molti di più i denari finiti nelle tasche dei mediatori indagati a vario titolo per reati che vanno dal traffico di influenze, alla frode in pubbliche forniture, dal riciclaggio all'autoriciclaggio.

Il Rup della procedura, Antonio Fabbrocini, è sotto inchiesta, oltre che per la presunta frode, anche per falso (a causa delle certificazioni farlocche) e abuso d'ufficio, quest' ultima contestazione condivisa con il suo capo Domenico Arcuri. 

Ma torniamo ai soldi: finora erano noti i premi andati a quello che gli inquirenti ormai chiamano il «gruppo Tommasi/Benotti», dal nome dei due mediatori, l'imprenditore Andrea Tommasi e il giornalista Mario Benotti, pari a oltre 71 milioni di euro (di cui 60 effettivamente incassati) e i 5,8 milioni andati al trader ecuadoriano Jorge Solis. Ma dagli atti depositati dalla Procura di Roma al termine dell'inchiesta spunta un'informativa del nucleo speciale di polizia valutaria della Guardia di finanza che porta «il totale complessivo delle provvigioni contrattualizzate» a 120,3 milioni di euro effettivi. 

Come anticipato a ottobre scorso dalla Verità esiste infatti un filone di pagamenti destinati, in parte, al banchiere sammarinese Daniele Guidi, che, secondo la Procura, avrebbe incassato 9 milioni di euro dei 12 a lui destinati e citati nella documentazione sequestrata nel suo computer. Guidi sino all'avviso della chiusura delle indagini era rimasto sullo sfondo di questa inchiesta e il suo ruolo è ancora al centro di approfondimenti investigativi, anche a San Marino. Chi rappresentava in tutta questa vicenda?

Grazie al portatile di Guidi gli inquirenti hanno scoperto l'esistenza della Bgp & partners di Hong Kong, il cui nome sarebbe l'acronimo dei soci, Guidi, l'avvocato Stefano Beghi e Ivano Poma, presidente della Camera commercio italiana di Hong Kong e Macao. Una ditta che portava direttamente nel mondo dorato dei paradisi fiscali, essendo controllata al 100% dalla Bliss fortune enterprise, con sede nelle Isole Vergini Britanniche.

La Bgp aveva sottoscritto contratti di provvigioni con i tre consorzi cinesi che avevano fornito le mascherine al commissario e con una quarta azienda cinese che si sarebbe occupata della gestione del trasporto aereo, la Coil dragon, che risulta aver versato alla Bgp 1,9 milioni. In totale i contratti valevano 48,6 milioni di euro, soldi che erano sfuggiti alle prime verifiche, essendo stati saldati all'estero. Dodici milioni, come detto, erano destinati a Guidi. Ma a chi dovevano andare o sono andati i 36,6 milioni di euro contrattualizzati?

Forse a qualche soggetto coinvolto nel grande affare delle mascherine e il cui nome non è sino ad ora emerso? 

Un rebus che potrebbe trovare risposta negli estratti conto chiesti alle autorità cinesi. Di certo è interessata ad avere una soluzione anche la Gdf, che ha trovato i pagamenti confluiti su un solo conto corrente estero per un ammontare di 9,2 milioni, considerati la provvista di Guidi. 

Ma per i restanti denari «non si hanno evidenze contabili e/o bancarie» e, per esempio, annotano le Fiamme gialle, «non può escludersi che taluni pagamenti a favore della Bgp [] siano avvenuti sempre all'estero [] ovvero siano direttamente confluiti nel trust Pacific business advisory limited», un fondo fiduciario che, secondo le indagini, potrebbe essere riconducibile all'ex moglie di Guidi, Stefania Lazzari. 

Gli investigatori nell'informativa di novembre ipotizzano anche che la donna sia collegata anche a un'altra società, la Chenxing management consulting ltd e chiedono alla Procura di fare una rogatoria in Cina per avere gli estratti conto della Bgp presso la Hang Seng bank di Hong Kong e «informazioni sulle compagini sociali della Pacific business advisory limited e della Chenxing management consulting ltd, avendo cura di identificare i titolari effettivi, gli amministratori, gli eventuali trust gestiti, anche tramite mandati fiduciari. nonché di acquisire i conti correnti alle stesse intestati, aperti presso istituti di credito in Cina».

Da quanto risulta dalle carte i magistrati avevano già trasmesso alle autorità cinesi una corposa rogatoria prima dell'arrivo in Procura dell'ultima informativa su Guidi. Con questa sono state richieste la documentazione societaria e bancaria sui tre consorzi esportatori dei dispositivi, Wenzhou light, Wenzhou moon ray e Luokai trade, informazioni sui fabbricanti delle mascherine, sui «rapporti finanziari accesi in Cina» da Guidi e dalla Lazzari, sulla Pacific e la Chenxing, notizie su Stefano Beghi, su Ivano Poma, su Cai Zhongkai (il cinese del Tuscolano che rappresentava le aziende cinesi) e la moglie Zhou Xiao Lu.

La Guardia di finanza ritiene che nel complesso «le commissioni corrisposte ai mediatori, ai consulenti e ai fornitori [] ammonterebbero a complessivi 203.804.323,50 euro». Ben più delle provvigioni contrattualizzate che non terrebbero conto di «quelle potenzialmente maturate e incassate in Cina da Cai Zhongkai (alias Marco Cai), responsabile di fatto dei tre consorzi cinesi Wenzhou moon-ray, Wenzhou light e Luokai trade».

Si arriva alla cifra di 203,8 milioni grazie al riepilogo delle provvigioni contenuto nelle email sequestrate a Solis, di cui avevamo dato conto il 25 marzo 2021, otto mesi prima del deposito dell'informativa. Evidentemente, come avevamo già sottolineato, gli inquirenti hanno preso sul serio questi messaggi e hanno deciso di setacciare diversi conti correnti esteri per trovare il resto del bottino. Forse non solo a San Marino. E proprio nella Repubblica del Titano Guidi e Tommasi sono indagati, ma per riciclaggio.

La vicenda è quella della cessione da parte di Banca Cis (finita in amministrazione straordinaria e poi salvata dalla Banca centrale di San Marino) del resort tunisino Kelibia beach. All'ipotesi di riciclaggio i commissari della legge aggiungono per Guidi anche quella di amministrazione infedele per aver compiuto un atto «inutile e dannoso» affidando una consulenza da 500.000 euro a Tommasi. 

Un impulso all'inchiesta sammarinese potrebbe arrivare anche da quella romana. I pm capitolini infatti, hanno inviato una rogatoria anche a quella autorità, come a quelle olandesi, irlandesi e francesi. Alla magistratura transalpina sono state chieste informazioni sulla Logica associates sas, con sede a Parigi, di cui Guidi sarebbe risultato consulente e a cui Tommasi, «utilizzando parte della provvista ricevuta da Luokai trade» ha inviato, tramite la sua Sunsky srl, un bonifico di 20.000 euro.

La Logica avrebbe poi pagato per sei mesi l'affitto di un appartamento «di 800 metri quadrati» al centro di Parigi, a pochi passi dalla Tour Eiffel, in uso esclusivo a Guidi. Un quartierino di alta rappresentanza, di cui il banchiere avrebbe usufruito tra il 20 luglio 2020 e il 31 gennaio 2021, in piena pandemia. Sarebbe interessante sapere a che cosa servisse quella piazza d'armi.

Da blitzquotidiano.it il 15 marzo 2022.

Migliaia di tonnellate di mascherine fuori norma, quindi prive di certificazioni, con materiali scaduti o inutilizzabili si trovano nei magazzini ormai dal 2020. La struttura del Commissario per l’Emergenza Covid, Francesco Figliuolo, che sul loro stoccaggio paga ancora oltre 1 milione di euro al mese, ha avviato le disposizioni per la vendita o manifestazioni di interesse riguardo a questo “accumulo ingente” di mascherine prive della certificazione Ce e altri materiali destinati all’emergenza Covid nella prima fase della pandemia nel 2020, non più impiegabili.

Tonnellate di mascherine custodite a più di 1 milione di euro al mese

Secondo quanto si legge dalla determina del Commissario, il materiale occupa un volume complessivo di 40mila metri cubi nei magazzini, per il cui stoccaggio si sostiene un onere di oltre un milione di euro al mese. 

Circa 218 milioni di mascherine inutilizzabili saranno distrutte su richiesta della struttura commissariale. A provvedere allo smaltimento, per 698mila euro, è un’azienda specializzata di rifiuti, la A2A, che ha vinto l’apposito bando.

Acquisti che risalgono alla gestione Arcuri

I dispositivi da eliminare sono le cosiddette ‘mascherine di comunità’ (acquisite dalla precedente struttura commissariale, durante la gestione Arcuri, consentite in una prima fase della pandemia, prive di certificazioni e meno efficaci di quelle chirurgiche), che finora sono state stoccate nei magazzini della struttura per 313mila euro al mese. “Non sono mai state richieste, né dalle regioni, né dagli altri enti convenzionati” e “oggi non trovano più nessuna possibilità di impiego”, si legge nella determina del Commissario.

Le mascherine comprate da Arcuri? Bruciate nei termovalorizzatori. Giuseppe Spatola il 14 Marzo 2022 su Il Giornale.

Si tratta delle mascherine non certificate comprate dalla struttura commissariale nel 2020 per l’emergenza Covid-19 e mai richieste dalle Regioni.

A2a smaltirà più di 218 milioni di mascherine inutilizzate comprate da Arcuri. 

Le mascherine “sbagliate“ acquistate da Arcuri durante il primo lockdown saranno mandate al macero e bruciate da A2a. Si tratta delle mascherine non certificate comprate dalla struttura commissariale nel 2020 per l’emergenza Covid-19 e mai richieste dalle regioni. In totale la parita da distruggere è di 218 milioni e 50mila, fatte soprattutto di tessuto, poco filtranti.

Figliulo ha dato l'assenso alla distruzione

Il commissario Francesco Figliuolo, dopo aver cercato inutilmente di venderle, ha designato A2a Recycling, la società a Novate Milanese che si occupa di selezione, stoccaggio e trattamento dei rifiuti e dei residui, per le operazioni di smaltimento che coinvolgeranno i termovalorizzatori del gruppo A2a. Le mascherine da distruggere sono quelle che veivano definite “di comunità“ comprate da Domenico Arcuri per sopperire alla difficoltà di approviginamento. Tutte quelle destinate al termovalorizzatore di Brescia sono senza certificazione Ce, composte da materiale elastico e piuttosto scomode, tanto che l’ex assessore al Welfare di Regione Lombardia Giulio Gallera le aveva definite “un fazzoletto o un foglio di carta igienica“. All’inizio vennero anche distribuite nelle scuole mentre il resto sono state accumulate per un totale di 2.500 tonnellate in magazzini gestiti da SDA con un costo di giacenza di 313mila euro al mese. In tutto si parla di 73 milioni di mascherine monouso in tessuto non tessuto, con tagli per infilare le orecchie, di altri 140 milioni di mascherine colorate caratterizzate da una “minima resistenza al flusso respiratorio ed elevata filtrazione batterica“, e da altri 5,1 milioni di mascherine con l'elastico in polipropilene, elastame e una barretta di metallo per stringerle al naso.

700 mila euro per distruggerle

Ora, grazie alla determina 175 del 16 febbraio 2022 firmata da Figliuolo, A2a Recycling provvederà alla distruzione con un onorario di quasi 700mila euro netti (698mila più Iva). Solo una minima parte di materiale sarà recuperabile per il riciclo attraverso gli impianti di trattamento. Il resto, cioè il tessuto, andrà negli impianti di termovalorizzazione per essere bruciate come i milioni spesi da Arcuri per acquistarle.

 Il governo maschera i suoi flop: si può girare a volto scoperto, i dispositivi di protezione non servivano. Hoara Borselli su Il Tempo il 12 febbraio 2022

Quando realtà ed illusione si fondono in un unicum paradossale, il giornale del virus, quello che della liturgia del terrore ha fatto la sua cifra più significativa, ci regala un titolo a tutta pagina: “Virus, così l’Italia riapre”. Per il blasonato quotidiano di via Solferino, è arrivato il momento di dare agli italiani una bella notizia, di quelle che dovrebbe farci saltare dalle sedie dopo due anni di nefaste previsioni declinate in ogni rigo e in ogni pagina.

Finalmente un respiro di libertà dopo lunghissimi mesi dominati da parole come sacrifici, chiusure, obblighi e restrizioni. Poi però leggiamo l’articolo e ci accorgiamo che quel sorriso stampato in faccia alla visione del titolo, si smorza frase dopo frase con la presa di coscienza che siamo cascati nel più classico tranello dello specchietto per le allodole, ovvero attratti da una narrazione lusinghiera, rivelatasi sostanzialmente ingannevole.

Bastano le prime cinque righe per capire cosa abbia suscitato cotanto entusiasmo da farne l’apertura del giornale e cosa invece a noi quell’entusiasmo lo abbia smorzato. Ecco cosa scrive: “I passi verso la normalità. Da oggi non c’è più l’obbligo di indossare la mascherina all’aperto.”

Evviva, l’apertura dell’Italia passa da questo segnale potentissimo che sicuramente darà una sferzata alla nostra economia incancrenita e ci farà sentire più liberi. Ci toglieremo la museruola che era obbligatoria fino a ieri anche per portare il cane al parco nonostante tra noi e l’altro soggetto ci fossero tre ettari di campo.

Speranza ci ha concesso di poter dialogare all’aria aperta con la bocca e non più solo con gli occhi. Considerata la totale inefficacia di questo presidio sanitario negli spazi esterni, verrebbe da dire che più che un segno di riapertura è un segnale di presa di coscienza.

Ma veramente questo può essere considerato un passo importante di libertà al punto da essere applaudito dalla maggior parte degli italiani e della stampa, associandolo alla percezione di un ritorno alla normalità e non cogliendone invece il paradosso? Questo grido di gioia non ci consegna altro che la misura dissonante di quanto ormai avessimo ribaltato nelle nostri menti la reale misura delle cose.

Pensiamo solo a ciò che accadrà dal 15 Febbraio. Gli over 50 non vaccinati non potranno tornare a lavorare.

Questo è un unicum che si registra solo in Grecia ed in Austria, a differenza di tutti quei paesi che stanno trattando ormai il Covid come una malattia endemica dissociandosi giorno dopo giorno da quella narrazione chiusurista che da noi la sta facendo ancora da padrone.

Chi oggi inneggia a questa concessione del bavaglio da mettersi sul volto solo nei luoghi al chiuso, dimentica che fra tre giorni 315 mila contadini, come riferisce Confagricoltura, si troveranno a non poter più stare nei campi e non perché non vaccinati, ma perché i vaccini che si sono fatti inoculare nei loro Paesi non sono riconosciuti dall’Italia e quindi vengono inseriti in quel bacino di reietti no Vax cui sarà impedito di svolgere il loro lavoro.

Da non dimenticare tutti coloro, e sono centinaia di migliaia, che per motivi indipendenti dalla loro volontà non hanno la patente di libertà e saranno relegati a non poter portare il pane in tavola perché non si aprirà il tornello dell’Azienda dove fino ad oggi hanno avuto accesso. Eh già, oggi che si parla di numeri in costante e progressiva discesa in termini di contagi e ricoveri, noi invece di ampliare le maglie di libertà le teniamo strette e limitanti, concedendo delle false illusioni che risultano essere concessioni fin troppo generose.

Esemplificativo il tweet di Claudio Velardi, giornalista, saggista, fondatore ed editore del quotidiano Il Riformista che cinguetta “Continuerò a tenere la mascherina nelle occasioni che mi sembrerà utile.

L’abbiamo scoperta perché ci è stata (giustamente) imposta, ma la strisciolina di stoffa protegge la  salute di ognuno al di là del Covid.

Perché dunque non usarla anche in futuro liberamente?” Ecco l’esempio di come si sia potuto stravolgere il concetto di libertà nella mente delle persone, affezionati ormai a quella normalità emergenziale da aver paura a riavvicinarsi a quella reale. 

(ANSA il 9 febbraio 2022) - Due carabinieri e altre due persone sono state arrestate nell'ambito dell'inchiesta sui presunti acquisti gonfiati di mascherine per le caserme dell'Arma di Torino. 

In tutto, i carabinieri hanno eseguito 9 misure cautelari nei confronti di altrettanti indagati a vario titolo per corruzione aggravata, falsità materiale commessa dal pubblico ufficiale, falsità ideologica commessa da privato in atto pubblico, accesso abusivo ad un sistema informatico telematico e omissione di atti d'ufficio. 

Altri due militari sono stati sospesi dalla funzione di pubblico esercizio. Tre dei militari coinvolti erano in servizio al Nucleo Carabinieri Ispettorato del Lavoro. E avrebbero favorito, secondo gli inquirenti, l'attività di due imprenditori cinesi operanti nella zona. L'inchiesta, coordinata dal pm Fabiola D'Errico, nasce nell'autunno 2020. Secondo l'accusa durante marzo, quando è scoppiata la pandemia, sarebbe stato disposto l'acquisto di 87mila FFP2, il doppio di quanto effettivamente servisse. Per l'acquisto un'ufficiale dell'Arma si sarebbe rivolta ad un imprenditore amico del marito, che per questa fornitura avrebbe chiesto 140mila euro.

Mauro Esposito per occhinotizie.it il 10 febbraio 2022.

Un negozio di Cremona chiude a causa delle… mascherine. È la storia di Maria Rosa Ziglioli, 58 anni, costretta a chiudere il suo storico negozio di biancheria “Per filo e per sogno”. Dopo 34 anni di attività e un giro d’affari di tutto rispetto, è costretta ad abbassare per sempre la serranda, per colpa del Covid.

Cremona, negozio chiude a causa delle… mascherine

Sorda da 38 anni, Maria Rosa ha perso l’udito a causa delle cure per risolvere un problema oncologico. Nel tempo ha imparato a leggere perfettamente il labiale delle persone e dei clienti, ma da quando è arrivato il Covid, e il conseguente obbligo di mascherine nei luoghi chiusi, negozi compresi, per lei è diventato molto difficile lavorare come riportato dal Corriere di Milano.

La mascherina trasparente

La commerciante indossa una mascherina trasparente, di quelle certificate proprio per i non udenti, e così chi la accompagna. “Fino a quando sarà obbligatorio l’uso delle mascherine io sarò sempre penalizzata — racconta —. Il problema è sorto quando ho riaperto dopo il lockdown, nel maggio 2020. Di carattere amo le sfide e sono andata avanti, finché poi la stanchezza ha preso il sopravvento. Ricordo bene il giorno in cui una signora, alla quale era stato evidenziato il problema della mia sordità, oltre a non abbassare la mascherina mi aveva dato della tonta, oppure di quando sono stata derisa perché non avevo capito la richiesta di una cliente”. 

La mascherina all’aperto serve? E quale è meglio usare? Laura Cuppini su Il Corriere della Sera il 16 gennaio 2022. 

Le mascherine, insieme al vaccino, sono la più importante difesa contro il coronavirus. In una fase di crescita dei contagi è fondamentale usarla sempre. Vantaggi e limiti delle FFp2.

Il Tribunale amministrativo di Parigi ha sospeso l’ordinanza che impone l’uso della mascherina all’aperto e in Gran Bretagna verrà rivisto l’intero piano anti Covid. In Italia la mascherina è obbligatoria anche per strada. Quando si potrà allentare la misura?

Sappiamo che il rischio di contagio all’aperto è basso, ma solo se viene rispettata la distanza interpersonale. In caso di assembramento le probabilità di trasmissione aumentano, in presenza di positivi. «La mascherina è, insieme al vaccino, lo strumento principale che abbiamo per difenderci dal virus — afferma Carlo Federico Perno, direttore dell’Unità di Microbiologia all’Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma —, è fondamentale continuare a usarla correttamente. La domanda che possiamo farci è: se sto camminando da solo o con dei familiari, è utile tenere bocca e naso coperti? Dal punto di vista medico la risposta è no. Se anche incrociassi per strada un infetto, senza fermarsi a parlare, le particelle virali emesse si diluirebbero nello spazio rapidamente. È l’opposto di quanto avviene in un luogo chiuso, dove ogni espirazione del soggetto con Sars-CoV-2 corrisponde a un’aumentata presenza del virus nell’aria e a un elevato rischio di contagio per tutte le altre persone». 

La variante Omicron ha raggiunto una diffusione dell’80% ed è molto più contagiosa di Delta. In questa fase è raccomandato l’uso della FFp2?

La mascherina chirurgica protegge bene «in uscita», ovvero il nostro prossimo, mentre la FFp2 costituisce un’ottima difesa anche «in entrata», cioè per chi la indossa. «In un momento di contagi elevati la FFp2 rappresenta una tutela maggiore — sottolinea Paolo Bonanni, professore ordinario di Igiene all’Università di Firenze —, ma se tutti indossano correttamente la chirurgica non ci sono grossi rischi. Dopo il superamento del picco, atteso nelle prossime settimane, riterrei ragionevole togliere l’obbligo di mascherina all’aperto, tranne che nelle situazioni di affollamento». 

Le FFp2 sono obbligatorie sui trasporti pubblici, nei cinema e teatri, negli stadi. Quanto rischia, a livello di salute, chi non rispetta la norma?

Uno studio internazionale (cui ha partecipato l’Università di Padova) ha misurato i modelli di rischio, con e senza mascherine. Le goccioline di saliva emesse da una persona infetta che sta parlando, affermano gli autori, possono viaggiare per poco più di un metro, mentre se il soggetto starnutisce arrivano fino a 7 metri. Non esiste una distanza di sicurezza «universale»: influiscono le condizioni ambientali, la carica virale e il tipo di evento respiratorio. Per esempio un colpo di tosse provoca un’elevata probabilità di contagio entro i 2 metri (per chi non indossa la mascherina), che diventano 3 se il livello di umidità è alto. Al contrario, con la chirurgica e ancor più con la FFp2, le possibilità di infezione diventano trascurabili già a brevi distanze (un metro circa). «L’unico limite della FFp2 è quello di ridurre la quantità di ossigeno inspirata — conclude Perno —. Se questo risulta un problema, piuttosto che spostarla o toglierla spesso per respirare, è meglio indossare una chirurgica facendola aderire bene al viso». 

Da tgcom24.mediaset.it il 14 gennaio 2022.

Ultimamente gli agenti di polizia di diverse questure stanno ricevendo forniture di mascherine FFP2 di colore rosa, e il sindacato di polizia insorge. Secondo il Sap si tratta infatti di dispositivi di protezione "indecorosi" poiché il colore "risulta eccentrico rispetto all'uniforme e rischia di pregiudicare l’immagine dell'Istituzione", e chiede un intervento del capo della polizia per ottenere mascherine "coerenti con l'uniforme della polizia".

"Con la presente - scrive il Sap al capo della polizia, il prefetto Lamberto Giannini - portiamo alla Sua attenzione l’inusuale fornitura di mascherine FFP2 di colore rosa che sta avvenendo in numerose Questure tra le quali Pavia, Varese, Ferrara, Siracusa e Venezia. Non si conoscono le ragioni sottese all’acquisto di mascherine di un colore che dovrebbe apparire prima facie non consono alla nostra Amministrazione e suscita perplessità la scelta di approvare tale acquisto".

Secondo il sindacato, a quasi due anni dall'inizio della pandemia "risulta difficile immaginare difficoltà nell'approvvigionamento di dispositivi di protezione individuale che rappresentano, come noto, uno dei principali strumenti volti al contrasto della diffusione del virus.

Appare altresì chiaro che la rilevanza delle funzioni svolte dalla polizia di Stato impone all’Amministrazione di preservare il decoro dei propri operatori, evitando che gli stessi siano comandati a svolgere attività istituzionale con dispositivi di protezione di un colore che risulta eccentrico rispetto all’uniforme e rischia di pregiudicare l’immagine dell’Istituzione". 

Tra l’altro, rileva il Sap, nel 2019 "l'allora capo della polizia aveva ammonito gli appartenenti della polizia di Stato di evitare l’utilizzo di capi non conformi in grado di pregiudicare il decoro dell’Istituzione".

Per questo il sindacato chiede "un immediato intervento volto ad assicurare che i colleghi prestino servizio con mascherine di un colore diverso (bianche, azzurre, blu o nere) e comunque coerenti con l’uniforme della polizia di Stato evitando dispositivi di altri colori o con eventuali decorazioni da ritenere assolutamente inopportuni soprattutto se acquistati e forniti dall’Amministrazione".

Mascherine rosa alla polizia, si riuscirà mai ad epurare mascolinità tossica e pregiudizio? Emiliano Reali su Il Riformista il 27 Gennaio 2022.

Ha fatto discutere qualche giorno fa la decisione del SAP -Sindacato Autonomo di Polizia- che bannava come indecoroso l’utilizzo di mascherine color rosa perché priverebbe di autorevolezza gli agenti. La mascherina è uno strumento fondamentale per proteggersi e salvare vite e penso che questo vada ben oltre il suo colore. Ma perché indossare una mascherina rosa minerebbe l’immagine del personale di Polizia? Sui social si è scatenata una protesta a riguardo alla quale hanno partecipato in molti, tanta gente comune, ma anche attivisti del movimento LGBTQI e per i diritti civili che hanno sottolineato il marcio che si nasconde dietro l’accaduto.

Così Mario Colamarino, presidente del Circolo di Cultura Omosessuale Mario Mieli, ha tuonato “Polizia, pregiudizi e preconcetti, una storia che si ripete. il SAP, noto per aver sostenuto gli agenti condannati per la morte di Federico Aldrovandi, ha protestato contro l’invio di mascherine FFP2 di colore rosa. Una protesta del tutto incomprensibile che dimostra come in alcuni ambienti circolino idee antiquate e fuori luogo”; ancora Aurelio Mancuso del Partito Democratico “Sta querelle sulle mascherine rosa fa davvero pena”. Assurdo essere ancora costretti a ragionare su colori maschili e femminili, che identificherebbero nella fattispecie con caratteristiche quali fragilità e delicatezza l’individuo che li indossa. La diatriba di questi giorni non è altro che la punta di un iceberg che cela la mascolinità tossica che inquina la nostra società. Lo strapotere maschile, la prepotenza, l’importanza dell’utilizzo della forza fisica per prevaricare e affermare, il maschio deve, il maschio fa. Tutte condizioni che permettono di lasciar germogliare atti di violenza che colpiscono le categorie considerate più vulnerabili e meno tutelate (donne, omosessuali, transessuali, immigrati).

Ma restiamo sulla questione Polizia di Stato. Indossare mascherine rosa forse priverebbe gli agenti di quella autorevolezza che gli consente di schernire e molestare persone transessuali che cercano protezione da violenze, oppure di non prendere sul serio le denunce di ragazzi omosessuali perché con i loro atteggiamenti effeminati se la sono cercata? L’omofobia esiste e va contrastata, e a farlo dovrebbero essere in primo luogo le istituzioni. Perché Jean Pierre Moreno, ragazzo fuggito dal Nicaragua, dove viene considerato un simbolo della lotta all’intolleranza e alla violenza di genere, dopo esser stato aggredito perché si è scambiato un bacio col ragazzo ha dovuto discutere a lungo con l’agente che stava ricevendo la sua denuncia perché questo non voleva inserire nella descrizione dei fatti che la vittima si era scambiata un bacio col suo compagno? Fa davvero così paura un bacio omosessuale, tanto da non riuscire nemmeno a scriverne? La questione mascherine rosa non ha fatto altro che scoperchiare una prassi, un universalmente accettato che discrimina e penalizza la società nella quale viviamo.

L’ignoranza e il machismo non saranno mai totalmente debellati, per leggi statistiche in ogni dove si corre il rischio di incontrare chiusura e mancanza di rispetto. Ci sono luoghi però dove certi valori sono imprescindibili e uno di questo dovrebbe essere la Polizia di Stato. Si riuscirà mai ad epurarla da mascolinità tossica e pregiudizio in modo che non venga infangato per gli errori di altri il lavoro di agenti integri e degni di stima? Si arriverà mai al giorno in cui la Polizia difenderà davvero tutti i cittadini a prescindere da genere, etnia o orientamento sessuale?

Io me lo auguro, ma se si ha paura di una mascherina rosa significa che di strada da fare ce n’è ancora tanta.

Emiliano Reali. E' autore di romanzi sulla discriminazione e i diritti civili. Ha scritto la trilogia di Bambi, prima trilogia italiana incentrata sull'identità di genere e l'orientamento sessuale. Il primo volume della saga è stato tradotto in spagnolo per la Spagna, il Messico e l'Argentina. La sua raccolta di racconti Sul ciglio del dirupo, dove sono protagoniste le minoranze (etniche, religiose, persone diversamente abili), invece, è stata pubblicata anche in America. La sua produzione letteraria comprende inoltre testi per ragazzi utilizzati nelle scuole come Il seme della speranza. Reali scrive sulla pagina cultura de Il Mattino e cura una rubrica di libri sull'HuffPost Italia.

Se il rosa non è il colore giusto per servire lo Stato. Giampiero Casoni il 14/01/2022 su Notizie.it.

Se non si è capaci di discernere fra efficacia e peloso orpello da casella sessista allora vuol dire che la tutela dell'ordine è ancora un fine nobile, ma appesantito dal discrimine delle cosacce di facciata. 

Chiariamolo subito: più ancora del merito del rilievo peloso quello che fa ridere amaro è quel “prima facie” a guardiana del merito stesso. Perché ormai lo dovremmo sapere che dove sbuca un comunicato farcito di latinorum l’ammuina burocratica è in agguato come un coguaro coi favoriti del nonno vicequestore umbertino.

Il sugo è semplice: a parere del sindacato di Polizia Sap le mascherine Ffp2 di colore rosa inviate ad alcune Questure ed indossate dagli agenti sarebbero indecorose. E “prima facie” appunto, cioè a prima botta, non sarebbero consone con i colori marker della divisa che scalano dal blu al turchese. Roba che carenza di organico e volanti a secco di benzina scansatevi insomma ché qui la cosa è grossa sul serio.

E pensare che con i primi vagiti del 2022 dopo Cristo una cosa del genere sia anche solo proponibile come oggetto di disamina ha il sapore agro della Storia che ad un certo punto mette il freno a mano e sgomma tamarra sulla breccia del tempo.

Viene in mente, ad esempio, di quando Teodorico vietò ai combattenti Goti di ramo Gepide di sfoggiare le poderose lame a spira di serpente inguainate nel blu e riservate alla casata Amala. Il motivo? Fra i Gepidi, che dopo essere stati sconfitti ed inglobati nel regno si occupavano di ordine pubblico, c’erano eunuchi che si accasermavano con le donne, orrore cromatico supremo.

Ora però, noi onesti mestieranti dell’umano vagare magari ci aspettavamo che una cosa del genere, dalla fine del 400 d.C ad oggi, perdesse smalto.

E invece che ti ha fatto la vigliacca? Con un triplo carpiato ha sorvolato e spernacchiato i secoli e in maquillage è andata ad abitare nella nuova mistica deamicisiana di “maschietti e femminucce” in un plotone di Questure dell’Italia che per più parte manco sa più chi sia Teodorico.

E forse il segreto di certe uscite a gonade di bracco in un momento in cui il nemico non sono i Sarmati, ma il Covid, sta tutto là: nel fatto aspro e tiranno che la Storia a noi non ci insegna più nulla perché non è più roba nostra.

E che se non si è capaci di discernere fra efficacia e peloso orpello da casella sessista allora vuol dire che la tutela dell’ordine è ancora un fine nobile, ma appesantito dal discrimine delle cosacce di facciata.

La facciata che non dovrebbe mai portare alcuno ad accostare un buon poliziotto e il decoro che dalle sue azioni promana al colore che sceglie per schermarsi dal Covid. Anche perché, a voler riprendere in mano quei libri che in troppi usiamo per livellare le gambe dei tavoli, le migliori mazzate ai suoi nemici Teodorico le diede proprio grazie ai Gepidi. Quelli che non avevano la divisa di ordinanza.

Da iltempo.it il 14 gennaio 2022.

Con la tempesta di contagi "Omicron" solo le mascherine FFP2 possono salvarci. Ma "Striscia La Notizia" svela il bluff dei dispositivi "tarocchi". La caccia in farmacia è già partita dopo le nuove disposizioni del governo e l'inviato del tg satirico di Mediaset, Moreno Morello, racconta cosa succede con i nuovi dispositivi, diventati obbligatori anche per i bambini sopra i 6 anni. 

"Se devono salire in bus o se frequentano una scuola secondaria e hanno un caso di positività in classe, sono obbligati a indossarle", spiega il giornalista. Anche se da tempo gli esperti spiegano che le FFP2 per bambini in realtà non esistono: "Sono dispositivi certificati solo per gli adulti". Ma nelle farmacie esistono quelle vendute specificatamente anche per i più piccoli, con la dicitura "FFP2 kids".

Quando però l'inviato di Striscia chiede lumi in una farmacia improvvisamente diventano "small size" e non prodotti dedicati ai bambini. Morello si domanda anche se avvengano i tanti pubblicizzati controlli: "Li faranno veramente?". E scatta il blitz in un negozio gestito dai cinesi che tra le altre cose vende proprio le mascherine FFP2: le confezioni costano pochissimo e mostrano tante irregolarità.

"Mascherine false e strapagate". Così un dossier avvisò Conte. Felice Manti il 12 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Il documento al centro delle tante inchieste su business milionari e appalti che sfiorano pure Palazzo Chigi.  

Traffico di influenze, mascherine farlocche ma strapagate, emissari dei Servizi mandati dall'allora premier Giuseppe Conte alla Protezione civile e alle Dogane a «vigilare» su un business da miliardi di euro. Le inchieste sull'emergenza Covid si intrecciano dopo la puntata di Report che lunedì sera ha svelato l'esistenza di un dossier, finito in Procura, nel quale dalle Dogane sarebbe stato segnalato per tempo all'esecutivo l'esistenza di una speculazione sulle mascherine farlocche, soprattutto quelle in arrivo dalla Cina. A quanto risulta al Giornale ci sarebbe anche un documento sempre delle Dogane datato 22 aprile con un elenco di fornitori cinesi «attendibili» che però sarebbe rimasto lettera morta. Tanto che persino il Cts si sarebbe rivolto ad altri soggetti, alcuni dei quali (spuntati come funghi per l'emergenza) avrebbero poi inondato l'Italia di mascherine taroccate. Con un'aggravante: alla Procura di Roma che indaga anche su Luca Di Donna (l'ex socio di Giuseppe Conte con un incarico anche alle Dogane) risulta che per almeno un paio di mesi (luglio e agosto 2020) i controlli sulle mascherine acquistati dall'allora commissario all'emergenza Domenico Arcuri - indagato per la maxi provvigione da 801 milioni di mascherine assieme al giornalista Mario Benotti - sarebbero stati «congelati» su input dello stesso Conte, che ad Arcuri ha garantito una sorta di salvacondotto sulla gestione della pandemia. «A me Di Donna chiese palesemente una tangente sulle mascherine», ha ribadito a Report l'imprenditore Giovanni Buini, puntando il dito sul legale molto amico di Conte. L'ex premier ammette: «C'era confidenza ma non l'ho mai ricevuto a Palazzo Chigi».

Sarà compito dei pm romani Gennaro Varone e Fabrizio Tucci, che lavorano sull'ipotesi di frode nelle pubbliche forniture, chiarire la vicenda e valutare se sulle mascherine false (su cui ci sono altre Procure, la Finanza e la polizia) le Dogane siano complici o meno. Il direttore dell'Agenzia Marcello Minenna, accusato da Report di non aver vigilato abbastanza, non commenta. Ma dal suo entourage fanno trapelare che sono state le Dogane a trovare le mascherine farlocche e a segnalarle. È anche vero che, grazie all'escamotage del declassamento a «mascherina di comunità», alcuni stock di materiale con marchio CE contraffatto, anziché essere sequestrati e distrutti come conferma una recente sentenza della Cassazione, sono finiti financo negli ospedali sul mercato grazie a un'autocertificazione prevista dal decreto Cura Italia dello stesso Conte e da un protocollo interno delle Dogane. Il timore dei magistrati è che le mascherine fallate, circolate nonostante un dossier avesse segnalato tutto al governo, abbiano persino contribuito a diffondere il virus anziché frenare i contagi. «Sono state sdoganate sfruttando anche un'esenzione dell'Iva che non era dovuta - dice al Giornale una fonte molto vicina alle Dogane - presto la Corte dei Conti Ue ci chiederà indietro i soldi». Chi pagherà? E il salvacondotto di Conte salverà Arcuri? Vedremo.

E resta anche il mistero sulla mancata zona rossa ad Alzano e Nembro. L'altro giorno davanti ai pm di Bergamo che indagano per epidemia colposa, alla presenza del perito della Procura Andrea Crisanti, l'ex dg del Welfare della Lombardia Luigi Cajazzo, ha ribadito di non aver mai ordinato la riapertura del Pronto soccorso di Alzano. Sul perché l'esecutivo Conte mandò i soldati il 3 marzo, poi li ritirò prima di chiudere tutta l'Italia l'8 marzo è giallo. Quanti morti è costata questa indecisione? Lo ha stabilito un dossier di Crisanti. Eppure, nonostante il pressing di familiari e dell'agenzia Agi il governo ha opposto il segreto di Stato sulla decisione per «sicurezza nazionale», negando «alcun atto governativo specifico di impiego dei militari». Quale verità si nasconde? Felice Manti

Striscia la notizia, le mascherine FFP2 irregolari: come riconoscere quelle tarocche e pericolose. Libero Quotidiano l'11 gennaio 2022.

Occhio alle mascherine FFP2 "tarocche". A Striscia la notizia, l'inviato Moreno Morello torna a parlare delle nuove disposizioni di governo per arginare il Covid, sottolineando il caos della "corsa" ai dispositivi, diventati obbligatori anche per i bambini sopra i 6 anni.  

"Se devono salire in bus o se frequentano una scuola secondaria e hanno un caso di positività in classe, sono obbligati a indossarle", spiega lo storico volto del tg satirico di Canale 5 fondato e diretto da Antonio Ricci. E via in negozi, supermercati e farmacie per acquistarli, sebbene il dottor Roberto Tobia, segretario nazionale di Federfarma, avesse confermato sempre a Striscia come di fatto le FFP2 per bambini "non esistano". Sono prodotti infatti ideati e certificati per adulti. Eppure in farmacia vengono vendute in "taglia bambino". "A trarre in inganno qualche farmacista sono i fornitori, che inviano cataloghi e listini con riportata la dicitura FFP2 kids, alcune che sembrano addirittura autorizzata dell'Inail".  

Appena Morello telefona a uno dei fornitori, a tempo di record sul web le mascherine precedentemente catalogate come "kids" diventano magicamente "small size", "con tanto di mascherina a coprire l'immagine dei bambini". C'è poi il grande dubbio sui controlli: "Ma li faranno veramente?". Il blitz di Morello in un negozio gestito da proprietari cinesi dimostra come su molte confezioni di FFP2, vendute peraltro a prezzi stracciati, presentino diverse inquietanti irregolarità.

Cristina Marrone per il corriere.it il 2 gennaio 2021. Le mascherine Ffp2 sono diventate obbligatorie in Italia in determinati contesti come a bordo di aerei e treni dove il tempo di permanenza può essere lungo, e anche sui mezzi pubblici dove il distanziamento non può essere garantito, oltre che in cinema, teatri, stadi. Ma le mascherine Ffp2 ci difendono davvero dal Covid-19, e in particolare dalla variante Omicron altamente contagiosa? 

La risposta è sì e lo confermano numerosi studi, anche recenti.

FFP sta per «face filtrant», filtro facciale e in base allo standard europeo l’efficienza va da 1 a 3. Le Ffp2 filtrano in media il 94% di tutti gli aerosol (tra il 92 e il 98%), compresi i virus che si trasmettono per via aerea come il Covid-19. 

Queste maschere usa e getta (possono essere indossate otto ore prima di cambiarle) sono composte da più strati di diversi tessuti, tra i quali si colloca un filtro in polipropilene capace di intrappolare anche le più piccole particelle sospese nell’aria.

Le Ffp2 (e le ancora più performanti Ffp3) hanno una capacità filtrante maggiore rispetto alle normali mascherine chirurgiche (che trattengono solo le particelle più grandi di aerosol di chi le indossa: insomma, proteggono gli altri, molto più di chi le porta) e oltre a proteggere gli altri, proteggono anche chi le indossa e sono particolarmente adatte ai luoghi chiusi o affollati, in cui il rischio di trasmissibilità è più elevato. 

Le mascherine Ffp2 hanno un alto potere filtrante in uscita e verso chi le indossa (oltre il 90%), a differenza delle mascherine chirurgiche che arrivano a un massimo del 20% in ingresso e dunque sono scarsamente efficaci per chi le indossa nel proteggere se stesso. 

Come per le mascherine chirurgiche l’efficacia delle Ffp2 dipende da come vengono indossate. Uno studio pubblicato a dicembre dal Max Planck Institute, un’organizzazione di ricerca tedesca, e citato dall’Economist, ha spiegato che se si prendono due persone che distano l’una dall’altra tre metri, una non vaccinata e l’altra positiva al Covid, in meno di cinque minuti la persona senza vaccino verrà infettata con quasi il 100% di certezza.

Ma se le stesse persone indossano in modo corretto le maschere Ffp2 il rischio di contrarre il virus si riduce allo 0,1%. 

Nel dettaglio se sia la persona positiva al coronavirus che quella non contagiata indossano maschere Ffp2 ben aderenti, il rischio massimo di infezione dopo 20 minuti è poco più dell’uno per mille, anche a una distanza più ridotta. 

Se le loro maschere sono indossate male la probabilità di infezione aumenta a circa il 4%, riducendo comunque di molto il rischio di infezione.

Un altro recente studio pubblicato su Jama Interna Medicine ha messo a confronto le capacità di filtraggio di diversi tipi di mascherine, scoprendo che quelle di stoffa o chirurgiche avevano un’efficienza nel contenere le particelle virali variabile tra il 26% e il 79% mentre le Ffp2 avevano una capacità di filtraggio del 98,4%. 

Il problema delle Ffp2 è che oltre a essere più costose sono anche più «faticose» da indossare, sono meno tollerate e rendono la respirazione più difficoltosa.

Per ovviare al problema potrebbero essere indossate quelle con la valvola che garantiscono un maggiore confort per chi le indossa, sebbene non proteggano le persone che sono intorno e avrebbero così una funzione opposta alle chirurgiche.

Mascheropoli. Report Rai. PUNTATA DEL 10/01/2022 di Rosamaria Aquino. Collaborazione di Marzia Amico

La rete dei controlli sullo sdoganamento dei dispositivi di protezione.

Da pochi giorni il Governo ha imposto l'obbligo della FFP2 in determinati luoghi e ha stabilito un prezzo calmierato che le farmacie possono anche scegliere di non praticare. Le mascherine da inizio pandemia però sono state soprattutto un business milionario per molti fornitori, ma anche per mediatori che avrebbero messo a disposizione i propri contatti con dirigenti pubblici in cambio di lauti compensi. Intorno a un bene diventato ormai indispensabile circolerebbero dunque lobbisti, faccendieri e persino i servizi segreti. Report con testimonianze esclusive ricostruisce la rete dei controlli sullo sdoganamento dei dispositivi e torna sulle trame che avrebbero accompagnato gli appalti per l'acquisizione delle mascherine di Stato.

Mascheropoli. GIÙ LA MASCHERINA di Rosamaria Aquino Collaborazione Marzia Amico IMMAGINI Chiara D’Ambros – Carlos Dias Montaggio Riccardo Zoffoli

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Con il decreto Festività, il Governo ha imposto l’obbligo di indossare la mascherina FFP2 in alcune situazioni: dobbiamo metterla al cinema, teatro, sul posto di lavoro, se ci spostiamo in treno, in aereo o con mezzi pubblici.

COPPIA DI ACQUIRENTI Le prime che abbiamo preso nella prima pandemia 15 euro l’una. Adesso le abbiamo incominciate a trovare a 5 euro l’una.

ROSAMARIA AQUINO Mascherine FFP2?

FARMACISTA Vengono 2.50 l’una.

ROSAMARIA AQUINO Due e cinquanta l’una?

FARMACISTA Sì.

ROSAMARIA AQUINO Come mai?

FARMACISTA Eh, è il prezzo del fornitore. Anche i fornitori, insomma…

ROSAMARIA AQUINO Hanno aumentato un po’?

FARMACISTA Se ne approfittano, sì.

SERGIO SERRAINO - FARMACISTA Il controllo lo fai da noi per vedere se rispettiamo il prezzo. Ma lo dovresti andare a fare pure su tutta la filiera e vedere perché ingiustificatamente i grossisti, i fornitori, applicano degli aumenti che non hanno motivo. Perché non è che oggi esce il decreto e tu domani mattina subisci l’aumento.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Proprio per scongiurare questa situazione il governo ha imposto un prezzo calmierato di massimo 75 centesimi, ma l’adesione è su base volontaria delle farmacie. Questa le vende addirittura a meno di quanto dice Figliuolo. E gli altri farmacisti che fanno, aderiscono?

SERGIO SERRAINO - FARMACISTA È un finto calmierato, è un prezzo consigliato. Dice: noi abbiamo fatto questo accordo, chi vuole aderire va sul sito, clicca e uscirà in un elenco delle farmacie che hanno aderito al prezzo concordato. E chi non vuole aderire, le vende come vuole. Se sei in un paesino che sei tu solo, se le devono comprare da te, non è manco giusto approfittare così della situazione.

MARIA CATENA INGRIA - FARMACISTA Una famiglia media son di cinque. 0.75 per cinque, eh, non è una spesa indifferente per tutti i giorni. Bisognava darle nelle scuole gratuite; hanno fatto ‘sto macello quando l’hanno comprate ‘ste mascherine si ricorda? Che cosa c’è stato? E allora…

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO É impossibile da scordare. Da due anni la mascherina è la nostra compagna di vita. Poi il virus è mutato, è diventato più virulento, il Governo ha imposto al pubblico per i luoghi chiusi, di indossare la mascherina, la FFP2 o anche quelle superiori. Avrebbe anche imposto un prezzo alle farmacie e a chi le vende, però, più che un prezzo imposto, sembra poi alla fine un prezzo consigliato. Lo dice lo stesso farmacista: c’è chi ha sottoscritto l’accordo e poi c’è chi vende invece al prezzo che gli pare. Intanto c’è da augurarsi che la mascherina sia regolare, che ci tuteli veramente. Perché quello che sta emergendo soprattutto negli ultimi mesi, in seguito agli ultimi sequestri è che almeno una mascherina su cinque non lo è. L’ultimo sequestro avvenuto pochi mesi fa, a ottobre, che ha riguardato poco meno di un miliardo di mascherine, pone pesantemente il tema dei controlli. Sono state sequestrate mascherine chirurgiche, FFP2 e FFP3, KN95. Questo perché secondo i periti della Procura di Roma, non avrebbero superato i test all'aerosol di paraffina e quello al cloruro di sodio. E allora per precauzione, visto che non c’erano altre informazioni hanno preferito far sequestrare tutta la partita. Si trattava delle mascherine dell’ex commissario Arcuri. Eravamo in piena pandemia, c’era l’emergenza, il Paese aveva bisogno di mascherine, bisognava farle entrare a tutti i costi. Chi importava, ha importato in deroga alle norme vigenti: bastava un’autocertificazione, poi ci avrebbe pensato l’Istituto Superiore di Sanità o l’Inail a certificarne la validità. Poi però c’erano anche i controlli della Dogana. Quello che racconteremo stasera è la guerra che si è sviluppata intorno alle commesse sulle mascherine ai tentativi di truffa, ai giochi di potere, a faccendieri e lobbisti che hanno cercato l’aggancio giusto per portarsi a casa la commessa più favorevole o la commissione più favorevole se c’erano i mediatori. Insomma, partite importanti. Al tavolo si son seduti anche uomini dei Servizi Segreti e, per la prima volta, davanti a una telecamera, la nostra Rosamaria Aquino ha raccolto la confessione di un imprenditore: mi hanno chiesto una tangente.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Dall’inizio della pandemia a oggi sono state sdoganate oltre cinque miliardi di mascherine. Sono finite negli ospedali, nei presidi medici, ma di che qualità sono?

LAURA RITA SANTORO - INFERMIERA RESPONSABILE NURSING UP LAZIO Parecchie di queste mascherine non c’hanno scritto marchio Ce, non c’hanno scritto la marca, non c’hanno scritto il modello. Se viene una situazione del genere dovremmo essere tutti in grado di poterci difendere, no?

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO A marzo scorso la procura di Gorizia procede a un primo maxi-sequestro di mascherine. A ottobre un secondo blitz mette i sigilli a 800 milioni di pezzi. Dalle analisi risulta che non proteggerebbero abbastanza o sarebbero addirittura pericolose. Una parte è finita nei magazzini di un’Asp siciliana.

DIRIGENTE ASP SICILIANA Ci è stato detto: o vi pigliate le mascherine perché noi siamo collasso coi magazzini o non vi diamo nemmeno quello che vi serve.

ROSAMARIA AQUINO Questo chi ve lo diceva?

DIRIGENTE ASP SICILIANA La Protezione Civile. E quindi ci siamo ritrovati adesso con centinaia di migliaia di mascherine che sono o scadute e poi una buona parte sono quelle che la Procura di Gorizia ha posto sotto sequestro.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Sono le mascherine acquistate dall’ex commissario Arcuri, oggi indagato dalla procura di Roma per peculato e per abuso d’ufficio. Arcuri, su un miliardo 200 milioni di euro, avrebbe liquidato direttamente alle ditte cinesi oltre 60 milioni di euro, consapevole che sarebbero serviti a pagare la commissione a Mario Benotti e agli altri mediatori.

ROSAMARIA AQUINO Lei ha un numero di telefono sulla sua agenda che vale 12 milioni di euro. È così o no?

MARIO BENOTTI – PRESIDENTE CONSORZIO OPTEL - DA REPORT 11/01/2021 Ma non è un numero di telefono che vale 12 milioni di euro. Sono rapporti. Ma con chi lo avrei dovuto sfruttare il nome di Arcuri? Il nome di… Ma abbia pazienza, lei lo conosce Arcuri? La persona più potente d'Italia dopo Conte si faceva da me… e adesso… io sono molto lieto… ma purtroppo, sa, non è così.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Ma chi è che avrebbe dovuto controllare sulla conformità delle mascherine? Cioè, che fossero idonee a proteggere dal virus? Arcuri ha detto ai magistrati che erano altri che avrebbero dovuto controllare. Ma chi?

FUNZIONARIO ANTIFRODE AGENZIA ACCISE DOGANE E MONOPOLI Diciamo che la normativa del commissario più quella di Minenna hanno fatto sì che noi tutto sommato pure che non controllavamo potevamo stare a posto.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO L’ex commissario Arcuri aveva ordinato lo svincolo diretto delle mascherine di Stato potenziando il Cura Italia, che prevedeva che a controllare le mascherine importate fossero Iss e Inail. Il capo dell’Agenzia delle dogane, Marcello Minenna, secondo la testimonianza di un suo ex funzionario va oltre.

FUNZIONARIO ANTIFRODE AGENZIA ACCISE DOGANE E MONOPOLI Ci dice: vedi che devi sdoganare subito, celermente, senza creare troppi problemi.

ROSAMARIA AQUINO Senza creare troppi problemi significa che non dovevano essere fatti controlli?

FUNZIONARIO ANTIFRODE AGENZIA ACCISE DOGANE E MONOPOLI Eh, sì.

ROSAMARIA AQUINO Vanno a strutture ospedaliere e non fanno i controlli?

FUNZIONARIO ANTIFRODE AGENZIA ACCISE DOGANE E MONOPOLI Alcune spedizioni che noi avevamo fermato e Minenna poi ha contattato Arcuri e Arcuri alla fine ha scritto all’Agenzia delle Dogane e dice: no no, guarda queste devono proprio…

ROSAMARIA AQUINO Devono proprio passare.

FUNZIONARIO ANTIFRODE AGENZIA ACCISE DOGANE E MONOPOLI Sì.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Marcello Minenna, ex Consob ed ex assessore della giunta Raggi. Oggi è indagato dalla Procura di Roma per abuso d’ufficio per “spese pazze” all’Agenzia delle Dogane.

EMANUELE DESSÌ - SENATORE GRUPPO MISTO - PARTITO COMUNISTA Gli vengono contestati alcuni viaggi, l’uso indiscriminato di alcune macchine di altissima cilindrata e di grande pregio, l’acquisto di beni superflui. Io non credevo che esistessero porte che costassero oltre 100mila euro, ma invece esistono.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Il direttore delle dogane ha coinvolto l’avvocatura dello Stato su questo, che ha aperto un contenzioso civile nei confronti di chi lo ha accusato. Tuttavia Il senatore Emanuele Dessì, ex Cinquestelle, ha presentato su di lui varie interrogazioni al ministro dell’Economia Franco.

EMANUELE DESSÌ - SENATORE PARTITO COMUNISTA Dai regolamenti delle Dogane e dai controlli che le Dogane hanno effettuato si è determinato il tipo di prodotto che noi ci siamo messi in faccia per anni.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Alcuni dossier preparati dalle Dogane guidate da Marcello Minenna sulle mascherine pagate a prezzi più alti, riguardavano quelle comprate da Arcuri dai cinesi, grazie alla mediazione di Benotti.

ROSAMARIA AQUINO Buonasera, Report, Rai3.

MARCELLO MINENNA - DIRETTORE GENERALE AGENZIA ACCISE DOGANE E MONOPOLI Buonasera.

ROSAMARIA AQUINO Salve, la stavamo cercando.

MARCELLO MINENNA - DIRETTORE GENERALE AGENZIA ACCISE DOGANE E MONOPOLI Le dispiace se ci avviamo intanto?

ROSAMARIA AQUINO Lei ha consegnato nelle mani del capo di gabinetto dell ex premier Giuseppe Conte un dossier nel quale si diceva che le mascherine le stavamo pagando il quadruplo rispetto alla media Europea?

MARCELLO MINENNA - DIRETTORE GENERALE AGENZIA ACCISE DOGANE E MONOPOLI Ma guardi non ci sono simili corrispondenze con Palazzo Chigi. L Agenzia poi effettua ovviamente le sue analisi statistiche anche per orientare i propri sistemi di intelligence.

ROSAMARIA AQUINO Ma quel dossier che ha fatto l intelligence delle Dogane dove è finito poi?

MARCELLO MINENNA - DIRETTORE GENERALE AGENZIA ACCISE DOGANE E MONOPOLI E guardi queste sono questioni coperte dal segreto istruttorio e che vengono gestite dai nostri uffici.

 ROSAMARIA AQUINO Quindi è finito in Procura?

MARCELLO MINENNA - DIRETTORE GENERALE AGENZIA ACCISE DOGANE E MONOPOLI C’è il segreto istruttorio.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Se c’è segreto istruttorio evinciamo che Minenna abbia consegnato o che comunque il suo dossier sia finito nelle mani dei magistrati. Ma poi improvvisamente Minenna cambia atteggiamento con gli acquisti fatti da Arcuri.

ROSAMARIA AQUINO Ma perché Minenna avrebbe aiutato Arcuri se i rapporti non erano buoni tra i due?

EX DIRIGENTE AGENZIA DOGANE E MONOPOLI Perché gliel’hanno chiesto questi. Lui per ingraziarsi questi ambienti; arrivava questo dei servizi e gli faceva un piacere, quest’altro e gli faceva un piacere.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Alcuni funzionari delle Dogane, già all’inizio della pandemia si erano accorti di alcune falle nello sdoganamento della merce e avevano scritto ai vertici: “le mascherine che sta importando lo Stato avrebbero certificazioni CE false”. Tuttavia, le mascherine non vengono sequestrate.

ROSAMARIA AQUINO Queste relazioni che avete fatto ai vertici che esito hanno avuto?

EX INTELLIGENCE AGENZIA ACCISE DOGANE E MONOPOLI Se fossero state tenute in debita considerazione probabilmente adesso non ci saremmo trovati nella condizione di dover sequestrare 800 milioni di mascherine.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Le mascherine acquistate dalla struttura del Commissario arrivano in Dogana già con la validazione del Comitato Tecnico Scientifico. Spesso però sono senza prove di filtrazione, di resistenza a spruzzi, con documenti che riguardano altri lotti. Inoltre, hanno spesso marcatura CE falsa, come ci dice la fonte. In caso di CE falso, come ribadisce la Cassazione, le mascherine vanno sequestrate anche se sono validate in deroga, perché è un reato. Le Dogane hanno sequestrato?

DIRIGENTE AGENZIA ACCISE DOGANE E MONOPOLI Se non sono conformi e tu le hai dichiarate conformi io lì te faccio male. E dico: “eh ci hai provato”. Ma se tu le dichiari a me non conformi io che ti posso fare? Hai dichiarato il giusto, c’è la legge che te lo permette, ciao, grazie, vai.

ROSAMARIA AQUINO Quindi noi che cosa abbiamo importato in virtù di questo decreto 34?

DIRIGENTE AGENZIA ACCISE DOGANE E MONOPOLI Un boato de roba.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO L’intensità dei controlli delle Dogane sulle mascherine di Stato ha una doppia velocità. Inizialmente molto rigidi: il 50% in più della media. Poi, improvvisamente, cambiano i parametri di rischio: dal primo luglio al 30 agosto quasi zero controlli per il Commissario. Ed è in estate che passa il 40% della merce poi finita sotto sequestro.

MARZIA AMICO 800 milioni delle mascherine comprate dalla struttura commissariale di Arcuri si sono rivelate non conformi. Ora immaginava che sarebbe potuto accadere o comunque che ci sarebbero potuti essere dei problemi?

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI GIUGNO 2018 – FEBBRAIO 2021 Guardi questo è un dettaglio ovviamente lei può immaginare in quel momento in quel contesto un presidente del Consiglio deve occuparsi del sistema Paese.

MARZIA AMICO 800 milioni sono tanti.

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI GIUGNO 2018 – FEBBRAIO 2021 Si sono assolutamente tanti però in un sistema Paese che è in piena emergenza è tutto rilevante, tutto è importante, ho sempre raccomandato a tutti di svolgere con la massima professionalità e con la massima competenza il proprio incarico ma certo non ero in condizione di seguire le singole partite e di seguire singoli addirittura acquisti, le singole forniture.

ROSAMARIA AQUINO Senta ma come mai nell’estate del 2020 a un certo punto passano tutte le mascherine del commissario Arcuri con controllo neanche più documentale?

MARCELLO MINENNA - DIRETTORE GENERALE AGENZIA ACCISE DOGANE E MONOPOLI Con il picco della pandemia una serie di decreti del Governo hanno di fatto esonerato i controlli standard perché c’era l’esigenza di fare arrivare le mascherine nel più breve tempo possibile.

ROSAMARIA AQUINO C’è proprio una relazione che dice che c’era addirittura un mercato di certificazioni false. E che voi avreste dovuto, almeno questo era il suggerimento, creare un coordinamento per controllare CE per CE.

MARCELLO MINENNA - DIRETTORE GENERALE AGENZIA ACCISE DOGANE E MONOPOLI Allora guardi, i controlli sulle certificazioni false li abbiamo realizzati noi e fatte le varie relazioni di servizio.

ROSAMARIA AQUINO Ok, però questa relazione direttore dice proprio che le certificazioni erano false, erano delle semplici attestazioni e lo dicono a voi, lo dicono ai vertici.

MARCELLO MINENNA - - DIRETTORE GENERALE AGENZIA ACCISE DOGANE E MONOPOLI Ma guardi, le relazioni le abbiamo trattate internamente e sono diventate, laddove ci fossero gli estremi, oggetto di apposite segnalazioni. Quindi non vedo nessuna criticità tra le segnalazioni e i comportamenti dell’Agenzia.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Il direttore delle Dogane Minenna apporta al sistema dei controlli anche un altro importante cambiamento: il funzionario che rileva un’anomalia non deve più avere il magistrato come unico referente.

EX INTELLIGENCE AGENZIA ACCISE DOGANE E MONOPOLI Il funzionario non avrebbe più potuto riferire direttamente al magistrato e, addirittura, il direttore generale doveva essere informato direttamente qualora vi fossero delle indagini secretate. Il che è una violazione del segreto investigativo.

MARCELLO MINENNA - DIRETTORE GENERALE AGENZIA ACCISE DOGANE E MONOPOLI Io sono il vertice dell’amministrazione e quindi è normale che il vertice dell’amministrazione che ha anch’esso la qualifica di polizia giudiziaria abbia, avendo la visione d’insieme, l’informativa dello stato di avanzamento dell’istruttoria.

ROSAMARIA AQUINO Ma se l’indagine è su di lei che cosa succede? Lei deve sapere che è indagato? O i suoi funzionari…

MARCELLO MINENNA - DIRETTORE GENERALE AGENZIA ACCISE DOGANE E MONOPOLI Ma lei sta scherzando? Se c’è un’indagine che riguarda un dirigente o il direttore generale c’è la segretezza che non può essere esautorata.

ROSAMARIA AQUINO Ma se uno deve riferire a lei.

MARCELLO MINENNA - DIRETTORE GENERALE AGENZIA ACCISE DOGANE E MONOPOLI Guardi lei non ha, mi perdoni, come dire… Sta dando una lettura distorta non conoscendo cosa prevede il codice penale e il codice di procedura penale.

ROSAMARIA AQUINO Lo conosco benissimo, Direttore

MARCELLO MINENNA - DIRETTORE GENERALE AGENZIA ACCISE DOGANE E MONOPOLI E no, ma no.

ROSAMARIA AQUINO Mi sembra assurdo che delle norme amministrative vogliano superarlo, è quello che le sto ponendo.

MARCELLO MINENNA- DIRETTORE GENERALE AGENZIA ACCISE DOGANE E MONOPOLI Da queste domande io vedo che vengono preparati dei dossier. Ora il tema è: negli ultimi due anni l’Agenzia ha effettuato una lotta alla criminalità organizzata senza precedenti. La criminalità organizzata è infiltrata nei settori delle accise, delle dogane e dei monopoli. E crea questi dossier.

ROSAMARIA AQUINO Ah, i dossier contro di lei, quindi lei è vittima di dossier!

MARCELLO MINENNA - DIRETTORE GENERALE AGENZIA ACCISE DOGANE E MONOPOLI No, non contro di me, contro l’operatività dell’Agenzia.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Ma come mai il direttore generale vuole essere informato sulle indagini in corso?

EX DIRIGENTE AGENZIA ACCISE DOGANE E MONOPOLI Lui mi diceva che aveva dei referenti nei servizi che controllavano le indagini in tutta Italia, così mi ha detto proprio. Mi diceva sempre: “c’ho amici che mi passano informazioni sulle indagini”; portò a Conte pure i dossier che stavamo pagando le mascherine il quadruplo.

ROSAMARIA AQUINO Quindi Conte lo sapeva.

EX DIRIGENTE AGENZIA ACCISE DOGANE E MONOPOLI Quindi Conte lo sapeva, sì.

MARZIA AMICO Fonti delle Dogane ci riferiscono che lei, in piena pandemia, fu informato da un dossier appunto delle Dogane, che le mascherine le stavamo pagando fino a quattro volte di più della media europea

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI GIUGNO 2018 – FEBBRAIO 2021 Guardi questo dossier, in particolare, non ricordo questo dossier. Ogni tanto veniva fuori una segnalazione che qualche fornitura era pagata, come dire, eccessivamente rispetto… però tenga conto che abbiamo attraversato dei momenti molto complicati perché quando da noi è scoppiata, il primo paese in Occidente, chiaramente non disponevamo di forniture di mascherine, non c’erano aziende italiane che le producevano a sufficienza, quindi ci fu una competizione internazionale per procacciarsi le mascherine. Mi raccontarono addirittura che alcuni stati avevano la pronta liquidità per procacciarsele e pagarle addirittura in contanti, mi veniva detto. Noi, invece, con le nostre procedure chiaramente, pagando sia anticipatamente che non avendo la certezza della consegna perché c’erano di mezzo broker internazionali e vere e proprie truffe, fu molto complicato. E la ragione per cui chiesi ai direttori delle agenzie di intelligence di dislocare personale stabile presso la Protezione Civile, quindi a disposizione anche di questi acquisti, per verificare e controllare che non ci fosse scongiurare il rischio di truffe.

SIGFRIDO RANUCCI STUDIO QUATTRO USCITA MASCHERINE DOGANE Eravamo in piena pandemia. Il Paese aveva urgenza di avere mascherine con cui proteggersi dal virus. Il commissario Arcuri compra un miliardo 200 milioni di euro di mascherine dalla Cina. È una commessa importante sulla quale viene anche pagata una commissione importante: 60 milioni di euro ai mediatori, tra i quali c’è Mario Benotti. La Procura vuole vederci chiaro però su questo appalto e scopre strada facendo, che queste mascherine sono irregolari e addirittura, in alcuni casi, chirurgiche, FFP2, FFP3, sono pericolose per la salute umana. E scattano i sequestri. Non c’è da gioire ovviamente. Perché da una parte non abbiamo più le mascherine e dall’altra le abbiamo anche pagate quattro volte la media europea. Molte di queste mascherine le abbiamo viste depositate nei magazzini anche in quelli degli ospedali o della Protezione Civile. Abbiamo sentito il caso della Regione siciliana, dove gli operatori sanitari sono stati obbligati addirittura dall’assessorato alla Salute a ritirare quelle mascherine perché altrimenti pur irregolari, occupavano le sale della Protezione Civile. Eppure quelle mascherine sono entrate con l’ok della Dogana. La nostra Rosamaria Aquino ha chiesto al direttore Marcello Minenna, guarda “hai usato il bastone prima e poi la carota con Arcuri. Perché?”. E Minenna ha risposto dicendo che “con il picco della pandemia una serie di decreti del Governo hanno di fatto esonerato i controlli standard”, che però poi sono ripresi e che sono stati segnalati alle autorità giudiziarie dei vari luoghi laddove sono state trovate delle irregolarità. Però qualcosa deve essere scappato perché poi abbiamo visto che i sequestri continuano. E non c’è neanche da sorprenderci se abbiamo dato la patente di fornitori per dispositivi di protezione per la nostra salute ad ex giornalisti, imprenditori del campo aerospaziale, produttori di vino, stampatori, addirittura naturopati. Poi nel 2020 a maggio, si siede al tavolo delle trattative per una commessa importante di mascherine, anche un giovane imprenditore umbro: Giovanni Buini. Ha già in essere delle forniture importanti per milioni di mascherine in Lombardia sempre attraverso la struttura commissariale. Ora cerca di accaparrarsi una commessa da 60 milioni di euro. Cerca un contatto diretto con Arcuri e un professionista invece gli consiglia di rivolgersi a un avvocato: Luca Di Donna. È esperto di diritto privato, un insegnante universitario, un docente, ma è soprattutto l’ex collega di studio del premier di allora, Giuseppe Conte. Però quando Buini va nel suo studio per definire la trattativa del suo mandato, trova una sorpresa. Qual è?

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Questo studio legale in centro a Roma appartiene al professor Guido Alpa, mentore dell’ex premier Giuseppe Conte. Il 5 maggio 2020 sono presenti l’avvocato Luca Di Donna, amico personale di Conte nonché suo ex collega di studio e l’imprenditore umbro Giovanni Buini. Aveva già venduto 1 milione di mascherine ad Arcuri e ambiva un’altra grande commessa da 60milioni. L’anomalia è che con loro c’erano due agenti dei servizi segreti. Uno è Enrico Tedeschi ex capo di Gabinetto dell’Aise, l’intelligence della sicurezza estera. L’avvocato Di Donna e gli agenti segreti, secondo un dirigente erano di casa alle Dogane, direzione Minenna.

EX DIRIGENTE AGENZIA ACCISE DOGANE E MONOPOLI Una volta mi disse: “faccio i favori solo ai lobbisti che mi parano il c…”. Allora mi sa una volta lui stava a cena con due dei servizi, uno era Tedeschi.

ROSAMARIA AQUINO Ci dica se i servizi segreti venivano a cena qui da lei all’Agenzia delle Dogane.

MARCELLO MINENNA - DIRETTORE GENERALE AGENZIA ACCISE DOGANE E MONOPOLI Ma assolutamente no.

ROSAMARIA AQUINO Il generale Enrico Tedeschi?

MARCELLO MINNENNA - DIRETTORE GENERALE AGENZIA ACCISE DOGANE E MONOPOLI Io Enrico Tedeschi non lo conosco.

ROSAMARIA AQUINO Vi siete mai scambiati notizie sulle indagini in corso?

MARCELLO MINNENNA - DIRETTORE GENERALE AGENZIA ACCISE DOGANE E MONOPOLI Ma che scherza? C’è il segreto istruttorio, mica… i Servizi sono un’articolazione dello Stato, mica ci si possono scambiare le informazioni. Non diciamo fesserie.

ROSAMARIA AQUINO Glielo chiediamo proprio per questo.

MARCELLO MINNENA - DIRETTORE GENERALE AGENZIA ACCISE DOGANE E MONOPOLI Io ora devo andare però.

ROSAMARIA AQUINO Nessun rapporto con i Servizi?

MARCELLO MINENNA - DIRETTORE GENERALE AGENZIA ACCISE DOGANE E MONOPOLI I rapporti ci sono istituzionali.

ROSAMARIA AQUINO Ci sono dei testimoni che parlano con noi.

MARCELLO MINENNA - DIRETTORE GENERALE AGENZIA ACCISE DOGANE E MONOPOLI Suggestive, ma sbagliate. Valuti i suoi testimoni.

ROSA MARIA AQUINO FUORI CAMPO Ma di casa alle Dogane era anche Luca Di Donna, l’avvocato amico dell’ex premier.

EX DIRIGENTE AGENZIA ACCISE DOGANE E MONOPOLI Sì, veniva sempre a pranzo. Io l’ho visto tante volte, eh.

ROSAMARIA AQUINO Mi dice il rapporto di Luca Di Donna con le Dogane? L’avvocato?

MARCELLO MINENNA - DIRETTORE GENERALE AGENZIA ACCISE DOGANE E MONOPOLI È stato membro di una commissione d’esame insieme ad altri cento professori identificati in base a delle procedure trasparenti.

ROSAMARIA AQUINO Come mai quando sono iniziate le indagini lui si è dimesso?

MARCELLO MINENNA - DIRETTORE GENERALE AGENZIA ACCISE DOGANE E MONOPOLI Ma lui si è dimesso perché sono uscite delle notizie stampa…

ROSAMARIA AQUINO Che rapporti ha lei con Luca Di Donna?

MARCELLO MINENNA - DIRETTORE GENERALE AGENZIA ACCISE DOGANE E MONOPOLI I rapporti che lei ha identificato relativamente al concorso. ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Di Donna era in effetti un commissario delle Dogane, ma avrebbe avuto anche un ruolo di mediatore nelle compravendite di mascherine.

ROSAMARIA AQUINO Lei sapeva che Luca Di Donna si è proposto come mediatore anche degli appalti pubblici?

MARCELLO MINENNA - DIRETTORE GENERALE AGENZIA ACCISE DOGANE E MONOPOLI Guardi come ho detto gli unici rapporti del professor Di Donna con l’Agenzia sono in quel concorso per il quale il professore poi si è dimesso quando sono uscite notizie stampa. Va bene? Arrivederci.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO A tirare in ballo l’avvocato Di Donna come mediatore di mascherine è stato l’imprenditore Buini che incontriamo davanti alla sua società, la Ares Safety.

GIOVANNI BUINI - ARES SAFETY SRL Si accomodi.

ROSAMARIA AQUINO Oh, grazie, dai.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Buini voleva chiudere un contratto da 60 milioni di euro per una partita da 160 milioni di mascherine. Aveva già avuto contatti preliminari con la struttura commissariale, ma per chiudere l’affare cerca l’aiuto di un mediatore: l’avvocato Luca Di Donna.

ROSAMARIA AQUINO Lei si era rivolto a Di Donna, perché?

GIOVANNI BUINI - ARES SAFETY SRL Volevamo avere un contatto diretto con la struttura commissariale.

ROSAMARIA AQUINO Perché c’era bisogno di avere un contatto diretto?

GIOVANNI BUINI - ARES SAFETY SRL Perché stavano finalizzando un contratto da 160 milioni di pezzi.

ROSAMARIA AQUINO Quindi una bella fornitura.

GIOVANNI BUINI - ARES SAFETY SRL Una grandissima fornitura, 50-60 milioni di euro.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Ma Buini racconta anche che agli incontri con Di Donna erano presenti due funzionari dei Servizi.

ROSAMARIA AQUINO Che cosa ci facevano lì quei due?

GIOVANNI BUINI - ARES SAFETY SRL Io non ne ho la più pallida idea. Posso per altro dire che Tedeschi mi era sembrato e sicuramente lo sarà una persona per bene, solare, sorridente.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Buini, nonostante il clima cordiale, improvvisamente decide di uscire dalla trattativa per i 60 milioni di euro di mascherine e revoca il mandato all’avvocato Di Donna. Perché?

GIOVANNI BUINI - ARES SAFETY SRL Ho avuto paura del contratto: i numeri erano molto grandi.

ROSAMARIA AQUINO Cioè? Ci spieghi, quanto prendeva questo Di Donna per mettere in contatto…

GIOVANNI BUINI - ARES SAFETY SRL Guardi io che cosa… io i numeri precisi non me li ricordo. Mi venne chiesta una percentuale.

ROSAMARIA AQUINO Lei dice un 5 per cento su 50 milioni…

GIOVANNI BUINI - ARES SAFETY SRL Ma di che cosa stiamo parlando? Io non volevo assolutamente assoggettarmi a questo rischio. Che poi a Roma ci sia un professionista, n professionisti, che in cambio di una consulenza legale possano favorire o agevolare determinate circostanze è prassi comune, non è una cosa così insolita.

ROSAMARIA AQUINO Cioè comune che una consulenza legale versa in realtà come contatto che viene trovato con l’ufficiale pubblico

GIOVANNI BUINI - ARES SAFETY SRL Sì, sì, ci può stare. L’ufficiale pubblico come con il privato, non voglio fare la persona completamente digiuna al fatto che ci possa essere un professionista che possa agevolare eventuali circostanze, sarei scorretto

ROSAMARIA AQUINO le è capitato già?

GIOVANNI BUINI - ARES SAFETY SRL Sì, mi sarà capitato mille volte. Roma è piena di queste opportunità ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Buini pensa sia una tangente. Si era spaventato della percentuale su una commessa da 60 milioni circa. Una cifra impressionante. Secondo Buini a chiedere la grossa percentuale sarebbe stato Luca Di Donna

GIOVANNI BUINI - ARES SAFETY SRL Stavo commettendo un reato. Punto. Capisce? Una consulenza che si paga a un professionista che agevola un’attività è una cosa; quella era palesemente una… una tangente.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO L’incontro nello studio di Di Donna si era svolto il 5 maggio, il giorno dopo nell’azienda di Buini si presentano i Nas, poi il giorno dopo ancora la Guardia di Finanza

ROSAMARIA AQUINO Come sono andati a finire quei controlli?

GIOVANNI BUINI - ARES SAFETY SRL Stanno andando avanti ognuno per la sua strada, io sono qui pronto a rispondere per tutto quello che vorranno chiedermi

ROSAMARIA AQUINO Cosa contestavano alle vostre mascherine

GIOVANNI BUINI - ARES SAFETY SRL Diverse cose, diverse cose.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Dopo i controlli, Bruini comunica ufficialmente il suo ritiro dall’affare. Successivamente si recherà in Procura a denunciare l’avvocato Di Donna, accusandolo per l’esorbitante percentuale che avrebbe chiesto.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Di Donna, professore a La Sapienza di Roma, insegna diritto privato. Quando Conte fu nominato a Palazzo Chigi, avrebbe scritto un sms ai suoi clienti più stretti: “Abbiamo un amico Presidente del Consiglio”. E successivamente alla nomina di Conte, ha ottenuto incarichi in commissione antimafia e anche alle Dogane.

MARZIA AMICO L'avvocato Luca Di Donna è risultato essere il mediatore di alcune forniture nell'emergenza sanitaria il mediatore tra la struttura commissariale di Arcuri e alcuni fornitori di mascherine ve ne era a conoscenza.

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI GIUGNO 2018 – FEBBRAIO 2021 non so nulla della sua attività professionale da quando sono diventato presidente del Consiglio

MARZIA AMICO perché stiamo parlando comunque di commesse molto importanti da decine di milioni di euro

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI GIUGNO 2018 – FEBBRAIO 2021 Se le dico però che non so nulla può essere di 1000 euro può essere di 10 milioni. Non sono stato io. Io questo credo che sia notorio, da quando sono diventato presidente del Consiglio ovviamente avendo io svolto nella precedente fase professionale della mia vita personale e professionale un altro tipo di attività come accademico, come avvocato professionista chiaramente mi sono imposto il massimo rigore. non ho mai diciamo coltivato quelle che potevano essere i rapporti che in qualche modo creassero le premesse per una qualche Inter anche solo una potenziale interferenza tra l'attività professionale di persone che conoscevo e quella ovviamente l'incarico istituzionale che stavo svolgendo MARZIA AMICO Però se lei dovesse definire il tipo di rapporto che c'è stato tra di voi, come lo potremmo definire? Un rapporto di cordialità, di confidenza .

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI GIUGNO 2018 – FEBBRAIO 2021 Ma certo che c'è la confidenza perché ripeto stiamo parlando di un collega di un di un avvocato. Quindi voglio dire c'è un rapporto di conoscenza di Coscienza vera assolutamente.

ROSAMARIA AQUINO Aspetti un secondo. Ci può rispondere?

LUCA DI DONNA - AVVOCATO Ho lezione, mi spiace.

ROSAMARIA AQUINO Mi dice se è normale avere i Servizi Segreti nel proprio studio mentre lei stipula dei contratti?

LUCA DI DONNA - AVVOCATO La prego, ho lezione. Devo fare lezione. Buona giornata.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO L’Avvocato Di Donna finirà indagato dalla Procura di Roma per traffico di influenze illecite. A dare il La alle indagini è Buini, ma in seguito alle indagini i magistrati gli contesteranno lauti compensi anche per altre mediazioni. E per ottenerle avrebbe speso il nome dell’ex collega di studio e amico l’allora premier Giuseppe Conte.

MARZIA AMICO Ma lei è a conoscenza del fatto che l'avvocato Luca Di Donna, secondo i pm, usava in qualche modo il suo nome per accreditarsi per lasciare intendere di avere una qualche influenza su di lei

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI GIUGNO 2018 – FEBBRAIO 2021 Non ne ero assolutamente, ripeto, a conoscenza. Se l'avessi saputo la prima cosa che avrei detto avrei alzato un telefono e avrei detto di non assolutamente di non continuare a spendere il mio nome se questa fosse l'ipotesi accusatoria. Questo lo dico adesso perché voglio sempre precisare anche da giurista, insomma sono ipotesi accusatorie che mi auguro vengano smentite poi dagli accertamenti dalle verifiche in corso.

MARZIA AMICO Però se questa ipotesi fosse vera.

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI GIUGNO 2018 – FEBBRAIO 2021 Mi dispiacerebbe molto francamente perché sarebbe assolutamente illegittima sarebbe assolutamente contraria a qualsiasi minima etica morale, voglio dire di spendere il mio nome senza che io ne sapessi nulla senza che ci fosse un minimo coinvolgimento diretto o indiretto.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Un incontro fugace con Di Donna c’è stato qualche giorno prima del lockdown, a marzo 2020. Si vede Conte uscire dal seggio delle elezioni suppletive. L’allora premier salute calorosamente una persona: è la fidanzata di Luca Di Donna, e il suo ex college cammina al suo fianco qualche passo indietro.

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI GIUGNO 2018 – FEBBRAIO 2021 Ricordo perfettamente che uscito dal seggio ci incrociammo al seggio e lui mi salutò, ma cos’è una colpa? Ma stiamo scherzando? voglio dire non ho mai detto che non ci conoscevamo. Qualcuno ha detto che eravamo soci questo assolutamente non è vero perchè non abbiamo mai svolto in società un'attività professionale. Ma io ho detto un'altra cosa non l'ho ricevuto a Chigi e non ero informato sulla sua attività professionale.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO È maggio del 2020 e l’imprenditore Buini, vuole mettere le mani su una commessa importante: 160 milioni di mascherine, valore 60 milioni. Cerca un contatto diretto con il commissario Arcuri con il quale già aveva usato come passe-partout perchè Buini è fornitore di mascherine, milioni di mascherine alla struttura commissariale, poi destinate in Lombardia e ha usato come passe-partout il nome di Bertolaso. Però, per questa commessa così importante, vuole avvalersi della consulenza di un professionista che sia influente, perché dice alla nostra Rosamaria Aquino funziona così a Roma: se vuoi entrare nelle forniture pubbliche devi avvalerti di una consulenza legale di un professionista, che poi agevola; è così la prassi. Noi la pensavamo un po’ diversamente, forse siamo degli inguaribili romantici. Ora, che cosa succede però? Che gli viene consigliato di mettersi in contatto con Di Donna, che è un avvocato esperto in diritto privato e ha lavorato nello studio del premier Giuseppe Conte. Solo che quando Buini va nel suo studio, trova una sorpresa: trova un agente dei Servizi Segreti, uno 007 Enrico Tedeschi, che è sostanzialmente l’uomo che secondo le nostre fonti, frequentava anche le Dogane. Però il direttore Minenna ha smentito. È l’ex capo di gabinetto dell’Aise, e con lui, con Tedeschi, c’era, anche secondo le nostre informazioni, un uomo dell’ufficio di Tedeschi, un uomo di sua fiducia. E, sempre in base alle nostre informazioni, il 17 gennaio prossimo, Tedeschi sarà posto in prepensionamento. Però Buini non viene spaventato dalla presenza degli agenti segreti, quanto per la richiesta di una consulenza, di una percentuale molto alta che lui giudica essere sospetta, essere una tangente. Per questo ritira il mandato a Di Donna e si ritira dall’affare. Però attenzione alle date: questo incontro nello studio con Di Donna avviene il 5 maggio; il 6 maggio, nelle aziende di Buini, entra il NAS. Poi il 7 maggio, ancora, entra la Guardia di Finanza, vengono comunque rilevate alcune irregolarità sulle mascherine che dovevano poi essere destinate ad alcune farmacie e il commissario Arcuri, d’accordo con le associazioni delle farmacie, sospende i contratti in essere. Solo dopo, Buini si ritira ufficialmente dall’affare, va a denunciare in Procura il sospetto della tangente e Di Donna viene sostanzialmente indagato – lui e altri mediatori - per traffico di influenze. Nelle indagini entrano anche altre mediazioni che avevano fatto i professionisti come nel caso della israeliana Adaltis che aveva venduto dei kit per le analisi, per i tamponi. Una commessa importante, 2 milioni e mezzo di euro, sulla quale è stata anche incassata una commissione importante: 400 mila euro da Di Donna e dagli altri mediatori. Per un solo appalto. Mentre il nome di Conte, secondo i magistrati, Di Donna l’avrebbe speso all’insaputa del Premier. Secondo i legali di Di Donna che abbiamo cercato di contattare, come avete visto inutilmente e che si è sempre trincerato dietro il silenzio, ci ricordano che l’avvocato è innocente fino a prova contraria fino all’ultimo grado. Questo ovviamente, lo sancisce la Costituzione, come sancisce anche il diritto alla salute e al buon andamento e alla buona amministrazione della cosa pubblica. Poi però per quanto riguarda il codice dell’amicizia, quello non è scritto, richiederebbe che Di Donna, se fosse vero quello che ipotizzano i magistrati, dichiarasse pubblicamente di aver utilizzato il nome del premier Conte, a sua insaputa e per fare affari. Lo dovrebbe all’uomo e al capo di un movimento politico.

·        Gli Esperti.

La nostra vita in mano ai sedicenti esperti: Esperti di che?

Il loro parere vale quanto l’opinione dei partecipanti ai vari Grandi Fratelli di Mediaset.

Esperto è chi conosce: il Covid 19 è un virus sconosciuto.

I professoroni hanno detto il tutto ed il contrario di tutto ed in antitesi tra di loro.

Il Governo di inesperti si sono affidati ai professoroni inesperti ed hanno portato i cittadini italiani terrorizzati e condizionati un po’ di qua ed un po’ di là come cani al guinzaglio. Mascherina per tutti:

è possibile che il cittadino sia infettato

è probabile che il cittadino sia infettato

è possibile che il cittadino sia a rischio d'infezione

è probabile che il cittadino sia asintomatico

è possibile che il cittadino sia pauci sintomatico

è confermato che il cittadino sia infettato

Se il cittadino non ha niente ed è sano come un pesce, vuol dire che è un complottista: a lui non va messa la mascherina, ma si obbliga l’uso del bavaglio

Roberto Speranza bocciato dalla Crusca: "Calchi approssimativi dall'inglese". Gianluca Veneziani su Libero Quotidiano il 27 agosto 2022

Carpe diem? No, io l'inglese non lo mastico». Devono aver reagito così, come Francesco Totti, quanti si sono trovati a leggere il documento firmato dal ministero della Salute e dell'Istruzione scritto in un incomprensibile anglo-latino. E contro il quale si è scagliata nientemenoche l'Accademia della Crusca, definendo il testo pieno di «calchi approssimativi dall'inglese» «uniti al latinismo burocratico», e tale da risultare «assolutamente refrattario alla buona comunicazione», E così bocciando sonoramente sia il ministro della Salute, Roberto Speranza, che il titolare dell'Istruzione, Patrizio Bianchi. La stroncatura parte dal titolo del documento, diramato lo scorso 5 agosto a beneficio, si fa per dire, di dirigenti scolastici e insegnanti, e chiamato con una supercazzola poliglotta «Indicazioni strategiche ad interim per la preparedness e readiness ai fini della mitigazione delle infezioni da SARS-CoV-2 in ambito scolastico».

MOSTRO LESSICALE Un mostro linguistico che la Crusca, in particolare la sezione del Gruppo Incipit che si occupa di esaminare e valutare neologismi e forestierismi, liquida brutalmente (e giustamente) come un misto di «termini tecnici sconosciuti alla quasi totalità degli italiani e di non facile interpretazione anche ricorrendo a dizionari inglesi», di latinorum burocratico (ad interim) e ulteriori burocratismi come l'espressione «ai fini della mitigazione delle infezioni da SARS-CoV-2 in ambito scolastico». Anche addentrandosi nel documento, la Crusca trova anglismi e tecnicismi inutili, come «setting scolastico» (ma chiamarlo «ambiente» era troppo complesso?), «etichetta respiratoria» al posto di «igiene respiratoria», o «razionale» usato nel significato inglese di «rationale», cioè fondamento logico, e non nel significato italiano. Una scelta non comprensibile, o meglio irrazionale... A un certo punto, è tale il carattere arzigogolato e confuso del documento che la Crusca si rifiuta di analizzarlo ulteriormente. E lo cestina come un testo «pessimo nella veste linguistica oscura e farraginosa», affetto da uno «specialismo esagerato e immotivato, con conseguente ricorso a prestiti non adattati e a calchi approssimativi dall'inglese» che «non trova in questo caso alcuna giustificazione plausibile». Ragion per cui «la critica deve essere netta e severa». L'appello finale della Crusca, che riprende quello della studiosa Licia Corbolante, è un condensato sapido di ironia e buon senso: è cioè un invito «ai ministeri coinvolti, semplicemente, a usare la lingua italiana».

SCRIVI COME MANGI Ma, per poterla usare- è questo il punto- bisogna conoscerla... E qui è lecito dubitare che Speranza e Bianchi la sappiano davvero. Sennò si sarebbero muniti, prima di redigere il documento, di un'adeguata preparedness e readiness, almeno ad interim, ai fini della mitigazione delle lacune vertiginose nella nostra lingua.

Tutto ciò rende il ministro Speranza colpevole, ma per altri versi lo assolve. Quando varava i suoi decreti anti-Covid, quando stabiliva norme contraddittorie per contenere il virus o applicava un regime sanitario draconiano anche a fine emergenza, non lo faceva per ignoranza medico-sanitaria, ma per ignoranza linguistica.

Evidentemente Speranza, o meglio Hope o Spes, a seconda che lo si chiami in inglese o in latino, non sapeva neppure cosa stesse scrivendo.

Io Speranza che me la cavo...

Torino, il fratello di Figliuolo a capo di Mirafiori. Va alla guida della produzione di 500 e Maserati. Christian Benna su Il Corriere della Sera il 15 Giugno 2022.

Da inizio luglio Giuseppe Figliuolo sarà direttore di stabilimento della grande fabbrica torinese di Stellantis.  

C’è un uomo nuovo al volante di Mirafiori. Da inizio luglio il direttore di stabilimento della grande fabbrica torinese di Stellantis sarà Giuseppe Figliuolo, già responsabile del sito industriale di Cassino, dove si producono, sulla piattaforma Giorgio, i suv Grecale di Maserati e le Alfa Romeo Giulia e Stelvio.

A Torino il manager lucano ritroverà, oltre alle Maserati e alla 500 elettrica che viaggiano verso 100 mila pezzi, anche il fratello, il generale Francesco Figliuolo, ormai noto al grande pubblico per aver gestito la fase più critica della pandemia, i bandi per le forniture di dispositivi di protezione e la distribuzione dei vaccini. Il generale Figliuolo infatti vive da tempo sotto la Mole con la famiglia, la moglie Enza e i figli.

Il Cts fa la festicciola d’addio: finalmente va all’inferno. Domani ultimo giorno per il Comitato Tecnico Scientifico. Che oggi si congeda con una festa. Max Del Papa il 30 Marzo 2022 su NicolaPorro.it.

Anche noi in questi due anni abbiamo avuto il nostro Politburo. È il Cts, il pomposo comitato tecnico scientifico incaricato di gestire la pandemia dall’inizio di febbraio del 2020: Signore, non perdonarli sia che sapessero sia che non sapessero cosa facevano. Perché mai dai tempi d’Abramo si era vista una tale accozzaglia di burattinai mettere insieme uno simile sfacelo di errori, topiche, cazzate, bugie, cialtronate, bestialità e fuffa assortita. L’ennesimo carrozzone lottizzato, di cui tutti ambivano a far parte, tant’è vero che chi ci stava dentro faceva il bello (per lui) e il cattivo (per noi tutti) tempo, chi ne stava fuori, citofonare Galli, Bassetti, Burioni, Crisanti, si rodeva il fegato.

Cts, la fiera dei fallimenti

L’esordio il 27 febbraio 2020: si naviga a vista, la confusione è grande sotto il cielo, la situazione è eccellente come sempre per Pechino, che ispira le scelte: da lì, un grottesco franare e un gioco di specchi imbarazzante, coi piani pandemici vecchi, occultati, disapplicati, i protocolli per gli ospedali latitanti, i ritardi nell’isolare il contagio, i tamponi agli asintomatici considerati inutili, la barriera di schiuma dei termoscanner agli aeroporti, già stroncati dall’Oms 15 anni prima, il marasma sulla situazione strutturale sanitaria, la progressiva paralisi della medicina di base, i voltafaccia sulle mascherine, gli affari loschi sugli strumenti diagnostici e curativi, la fiera delle vanità, l’esplosione dei cialtroni, le spaccature sulle chiusure, il rimpallo delle colpe, il lockdown più spietato, prolungato e inutile del mondo, le faide interne, le esaltazioni esoteriche dei vaccini, le delusioni dopo vaccini, le ostinazioni sui vaccini, la formula magica “tachipirina e vigile attesa” che avrebbe causato il 98% dei 140 mila morti (adesso si può dire, è ufficiale, l’ha confermato l’Istituto Superiore di Sanità, Franco Bechis, sputacchiato e sanzionato dall’Ordine per averlo scritto, è stato riabilitato con tanto di scuse).

Arroganza di potere

Tutta roba, anzi robaccia, emersa solo oltre un anno dopo con la desecretazione dei verbali.

Fino al degno epilogo, una fuga di notizie, lo scorso 4 febbraio, circa la permanenza della quarantena scolastica. Ma il Politburo sanitario neanche una piega, la pura arroganza di potere che è immune alla vergogna. L’ex capo Agostino Miozzo può dichiarare ai giornali che di errori non ne hanno mai fatti, era la situazione ad essere incomprensibile. Davvero? Sotto il regime sanitocratico del Cts si sono sentite cose turche: “Il greenpass rende gli ambienti sicuri, garantisce ai vaccinati di non contagiarsi, chi non si vaccina muore” (Mario Draghi); “I vaccinati non contagiano, ai novax renderemo la vita un inferno, li perseguiteremo” (Pierpaolo Sileri); “Torturiamo i novax coi tamponi fino al cervello” (Renato Brunetta); “Staneremo i novax casa per casa” (Francesco Paolo Figliuolo).

Le profezie di sventura degli esperti

Per non parlare delle profezie di sventura, degli Abrignani che annunciavano “2500 morti al giorno da febbraio”, i Ciciliano, gli Speranza, i Ricciardi per i quali l’emergenza non è mai finita, vogliono il green pass a vita e intanto la spuntano perché il “ritorno alla normalità” da domani, di normale non ha proprio niente se non l’ordinaria alienazione cui il Politburo ci ha abituati. Mascherine en plein air, in modo demenziale, ancora oggi, omertà criminale sui contraccolpi delle immunizzazioni, a volte letali, clamorosi sfondoni come quello del citato Abrignani, che in souplesse passava dall’assicurare per la terza dose una copertura di dieci anni a una di dieci settimane. E adesso le pressioni, i ricatti per la quarta e la quinta. Ma siamo seri: a prescindere dal grande interrogativo sulla composizione di un siero sperimentale, vi sembra normale assumere quattro, cinque vaccini in un anno? Ma chi si sente di spararsi quattro cicli di cortisone in dodici mesi, per dire? Eppure a tanto siamo chiamati, con il balletto delle discriminazioni e delle imposizioni eversive che non finirà né il primo aprile né il 15 giugno. Ancora oggi si va a Messa mascherati, e cinquecentomila poveri cristi non possono lavorare se non dissanguandosi a forza di tamponi, di corvée umilianti. E il green pass, che come ragion d’essere ha solo se stesso, non lo toglieranno mai davvero.

La morte dell’economia

Il Cts, che potrebbe anche essere l’acronimo per “Chi Te S’incula”, oggi si scioglie. Non nell’acido ma per completo raggiungimento della ragione sociale: distruggere il Paese. È riuscito, come ogni Politburo che si rispetti, a trasformarsi da organo esecutivo della politica a organo decisionale di una politica miserabile e imbelle; sotto il suo torbido regno si sono perse per strada cinquecentomila attività, cinquantamila solo nella ristorazione, intere filiere produttive sono sparite, gli alberghi di lusso decimati o passati di mano, quelli modesti travolti da moria; si sono esasperate le divisioni sociali, è stato costretto il dissenso, soffocate le opinioni, i cosiddetti novax ridotti a cani, vermi, sorci, imbecilli, miserabili, cancri; medici e infermieri li aspettavano, e li aspettano, “per torturarli”, come scrivono gioiosamente sui social. Il Paese si è imbarbarito e il suo abbrutimento esplode nel cinismo demente di fronte a una invasione che in Ucraina ha già sacrificato 140 bambini nel tripudio dei realisti e dei benaltristi che dicono: alla guerra come alla guerra, e poi dov’eravate quando morivano i bambini russi, iracheni, vietnamiti, nativi americani, cartaginesi? Morti a peso, infanti falciati giustificati con le stragi del passato più o meno prossimo, più o meno remoto.

Festa d’addio

Oggi il Cts, giunto alla fine del suo mandato, si congeda con una festicciola, proprio così: che tenerezza, Dio, che tenerezza, del resto è sempre la nobile schiatta dei virologi da luna park, quelli che a Natale cantavano “sì-sì-sì, sì-sì-sì, vaccianiamoci”. Chissà che allegria: Locatelli che fa l’imitazione di Hal 9000, Rezza e Palù nel remake di “Una poltrona per due”, tutti coi cappellini e le lingue di Menelik, il gioco della siringa, che è un classico, e i drink a base di Astrazeneca, Pfizer e Moderna. Forse. Perché con certa gente è fondato il sospetto che faccia esattamente il contrario di quanto ha costretto tutti gli altri a fare. Il Cts ha incarnato un passaggio storico infame, che ha immiserito il Paese: perché veniva da una centrale occulta – le sue decisioni piovevano dall’alto, senza alcun controllo o motivazione – dimostratasi al di sotto di ogni sospetto, e che sia stata mantenuta da due primi ministri e da un Presidente dal doppio mandato è una aggravante. Fieri e tronfi festeggiano oggi, e sarebbe solo di mandarli all’inferno; ma si sa che le festicciole di fine anno si concludono sempre con la promessa di ritrovarsi a settembre. Macabra promessa, prospettiva che nella normalità della follia ormai nessuno si sente di escludere. Max Del Papa, 30 marzo 2022

Dopo due anni si volta pagina. Addio Cts, non ancora al Covid. "Ma ora sappiamo cosa fare". Enza Cusmai il 31 Marzo 2022 su Il Giornale.

Si chiude un'epoca segnata da 160mila morti, 14 milioni e mezzo di contagiati ufficiali e 19 miliardi spesi dalla sanità. Si scioglie il comitato tecnico scientifico. Locatelli: "Un onore servire il Paese". Speranza: "Abbiamo gli strumenti per gestire la pandemia". Il generale Petroni subentra a Figliuolo.

Si volta pagina. Dopo due anni di pandemia, 160mila morti, 14 milioni e mezzo di contagiati ufficiali e 19 miliardi spesi nel settore sanitario, oggi finisce lo stato di emergenza legata al Covid con lo scioglimento del Comitato tecnico scientifico, definito dal presidente del Consiglio superiore di Sanità, Franco Locatelli «un modello di collaborazione tra scienza e politica». «Per noi è stato un privilegio servire il nostro Paese», ha detto.

Però, sia chiaro, il virus non sparisce per decreto. Continua a fare vittime, a spedire malati in ospedale, a contagiare migliaia di persone. Ma come dice il ministro della Salute, Roberto Speranza: «Oggi abbiamo gli strumenti per poter gestire la pandemia in modo efficace». Ci sono i «santi» vaccini (136 milioni di dosi), i monoclonali, le pillole anti Covid. Tutt'altro scenario rispetto alla prima fase in cui un italiano su cinque si infettava, uno su due finiva in ospedale, uno su sette all'obitorio. Ora c'è Omicron 2 che ai vaccinati con booster fa quasi il solletico. Ma il Covid, come dice l'epidemiologo Pier Luigi Lo Palco, non sparirà più, dobbiamo conviverci. E infatti bisogna organizzarsi per bene. A cominciare dalla gestione dei vaccini che tornerà in auge in autunno quando milioni di italiani dovranno farsi il secondo booster, o meglio il richiamo con la nuova variante. E il generale Francesco Figliuolo lascerà il compito della logistica ad un altro generale, Tommaso Petroni, che sarà il direttore dell'Unità per il completamento della campagna vaccinale e per l'adozione di altre misure di contrasto alla pandemia e verrà affiancato da Giovanni Leonardi, dirigente del ministero della Salute. Ma quali vaccini dovranno distribuire? Moderna e Pfizer stanno lavorando ad un vaccino modificato per attaccare Omicron. I risultati degli studi si vedranno solo a fine aprile per capire se servirà integrare il ceppo con quello originario di Wuhan o dedicare il prodotto solo alla nuova variante. Sembra molto promettente anche il nuovo ritrovato spagnolo. Si chiama Hipra, usato solo come booster offre un'ottima risposta immunitaria per Omicron, addirittura meglio dei vaccini a mRna. Ma siamo ancora in fase di studio, l'approvazione arriverà a settembre.

Nel frattempo si infiamma il dibattito sulla quarta dose. Speranza invoca una risposta univoca europea su come, quando e a chi somministrarle. Ma Ema probabilmente deluderà le aspettative del ministro. Si esprimerà tra una decina di giorni in modo generico. Ad oggi mancano elementi tali da far prendere all'agenzia del farmaco europeo una presa di posizioni netta, i dati non sono ancora convincenti. Gli esperti sono favorevoli a rafforzare le difese immunitarie ai fragili per cui il secondo booster è quasi una necessità. Ma per la fascia ultra 60 c'è ancora molta titubanza. E siccome qualche Stato europeo è già partito per il secondo booster per gli ultra 70enni (Germania) e gli ultra 80enni (Francia), Ema darà libera scelta ad ogni paese: un vaccino per gli over 60 sarà solo un'opzione. Quindi non ci saranno raccomandazioni per incentivare altre somministrazioni. Anche in Italia molti esperti sostengono la necessità di un rinvio della quarta dose e criticano la scelta degli Usa di destinarla agli over 50. «Per ora non penso sia il caso di utilizzare il secondo richiamo su tutti gli over 50, mentre andrebbe valutata la possibilità di vaccinare gli anziani», dice Antonella Viola, immunologa dell'università di Padova. Maria Rita Gismondo, microbiologa del Sacco di Milano è più categorica: «Una quarta dose oggi è positiva solo per le aziende farmaceutiche». Anche Matteo Bassetti, taglia corto: «La quarta dose di vaccino oggi, io che ho 50 anni, coi dati che abbiamo non me la farei», e il microbiologo del San Raffaele, Massimo Clementi, aggiunge che «la decisione andrebbe rinviata al prossimo autunno». Arnaldo Caruso, presidente della Società italiana di virologia aggiunge che «fare una quarta dose con un vaccino vecchio di due anni e mirato ad un ceppo che non esiste più è un assurdo teorico».

Covid, Locatelli: «Due anni di dolori e notti passate a studiare. La scelta più lacerante? Sospendere i funerali». Margherita De Bac su Il Corriere della Sera il 31 marzo 2022.

Il coordinatore del Cts, da oggi sciolto, racconta le difficoltà (e una gioia) durante la pandemia: «Fu doloroso vietare i funerali, ma bello vedere l’Italia unita nel lockdown del 2020» 

Professor Franco Locatelli, dopo oltre 2 anni finisce la sua avventura come coordinatore del comitato tecnico scientifico. Più gioie o più dolori?

«Comincio da una gioia. È stata la percezione dell’afflato solidaristico che ha unito la nazione nella primavera del 2020. Peccato poi se ne sia perso in parte lo spirito il 27 dicembre dello stesso anno con l’avvio delle vaccinazioni e l’evidenza inconfutabile maturata negli ultimi mesi delle tante morti risparmiate grazie ai vaccini».

E i dolori, i momenti duri?

«Tanti. Ne scelgo tre come indelebilmente impressi nella mia mente per la drammaticità. Le immagini dei camion militari che lasciano il cimitero di Bergamo, la mia città, per trasportare bare di defunti che non potevano trovare sepoltura. Il Santo Padre da solo in piazza San Pietro che prega il 27 marzo 2020 sotto la pioggia, circondato da un vuoto irreale e quasi spettrale. Terza immagine: il presidente della Repubblica che sale la scalinata dell’Altare della Patria da solo per celebrare il 25 aprile del 2020».

Cosa è stato lacerante per lei?

«L’aver dovuto indicare di sospendere le cerimonie funebri in presenza. Con quella scelta abbiamo senz’altro risparmiato vite, ma abbiamo tolto affettivamente molto al momento supremo dell’ultimo saluto ai propri cari».

La notte ha sempre dormito?

«Prendere sonno certe volte non è stata una cosa semplice».

Momenti di sconforto?

«Non proprio sconforto, dolore sì, tanto. Specie all’inizio della pandemia quando sembrava di essere finiti in un tunnel senza uscita».

Professore, come fa un oncoematologo pediatra a parlare di altri aspetti della medicina con tanta cognizione di causa?

«Il mondo dell’oncoematologia non è completamente nuovo alle infezioni virali. Inoltre ho studiato molto e mi sono concentrato al massimo sottraendo tempo alla mia vita privata. Ci metta in più qualche alzataccia, qualche nottata tiratardi, e capirà come ho fatto a costruire competenza»

Come ha vissuto interiormente questi anni?

«Con la consapevolezza, progressivamente maturata, che stavamo affrontando l’emergenza più impegnativa e critica del Dopoguerra e che i nostri pareri avrebbero avuto un impatto sulla vita anche economica e sociale del Paese. Per tutti i miei colleghi del CTS, in particolare per chi ha avuto il privilegio di coordinarne le attività, il peso delle responsabilità non è stato semplice da sopportare, non lo nascondo».

Le dispiace chiudere questa esperienza?

«La fine dello stato d’emergenza va vissuta come una notizia positiva. La nostra attività era legata a questa situazione. In questi due anni i colleghi che si sono alternati nei due differenti comitati hanno offerto il meglio delle loro capacità. Si è sviluppato un rapporto di dialogo e collaborazione tra scienza e politica mai esistito prima in forma così strutturata. Penso debba restare un patrimonio del Paese»

Cosa le mancherà?

«Il confronto, sempre un arricchimento, specie se caratterizzato da posizioni diverse».

In che modo ne esce arricchito?

«Da questo confronto continuo con colleghi di valore ho tratto insegnamenti personali e l’evidenza, mai più da dimenticare, che dedicare risorse alla salute vuol dire investire nel futuro di una nazione. Per il futuro noi come classe medica non dovremo mai restare in silenzio se si ripresentassero situazioni di riduzione delle risorse dedicate a quel patrimonio inestimabile rappresentato dal servizio sanitario pubblico».

Quale errore non andrà ripetuto?

«È necessario per il futuro che l’Italia si attrezzi al meglio per quella che possiamo definire la preparedness imprescindibile per affrontare compiutamente eventuali situazioni come questa, purtroppo da non escludere, legate a altre malattie trasmissibili».

A che punto siamo dell’epidemia, che scenario si prospetta?

«La circolazione virale è ancora rilevante ed è questa la ragione per cui tutti noi continuiamo a raccomandare prudenza e attenzione nei comportamenti individuali. Tuttavia l’elevato numero dei soggetti contagiati non trova riscontro fortunatamente nel corrispettivo dei ricoveri, soprattutto nei reparti di terapia intensiva, e nei decessi. E’ merito dei vaccini che abbiamo a disposizione».

La quarta dose può attendere?

«È prioritario incrementare il numero delle persone che devono ricevere la prima dose booster, di richiamo, per ottenere una compiuta protezione vaccinale».

Però?

«Nei maggiori Paesi europei, così come negli Stati Uniti, si è aperta una riflessione relativa all’opportunità di somministrare un’ulteriore dose di richiamo a persone fragili per ragioni anagrafiche. C’è differenza di vedute sul limite di età da cui partire: 70 anni in Germania, 75 in Gran Bretagna, 80 in Francia e Finlandia. Il ministro della Salute, Roberto Speranza, ha giustamente richiamato tre giorni fa i colleghi a condividere scelte omogenee in modo tale che l’Unione Europea assuma una posizione coerente e comprensibile ai cittadini del nostro continente».

Lei che ne pensa?

«Con i vaccini oggi a disposizione, la somministrazione di un’eventuale dose booster, che ha dimostrato di possedere un profilo di sicurezza simile a quello della terza dose, permetterà di incrementare la protezione conferita dalle cellule della memoria immunologica, ripristinando i valori che si osservavano nelle settimane successive alla prima dose booster».

Nel frattempo però il virus è cambiato e servono vaccini aggiornati alla variante Omicron , l’ultima arrivata. Non conviene aspettarli?

«È un secondo passo. In autunno si potrà eventualmente considerare di offrire vaccini adattati alla variante oggi predominante senza che questo programma debba ingenerare stanchezza vaccinale o sfiducia nell’effetto di protezione dalla malattia grave po addirittura fatale conferita dai vaccini».

Maria Sorbi per “il Giornale” il 31 marzo 2022.

Professor Giuseppe Remuzzi, la fine delle misure emergenziali arriva mentre i numeri dei contagi sono in lieve ripresa. Possiamo comunque stare tranquilli?

«La fine dello stato di emergenza non deve essere interpretata come un segnale di fine pandemia. Quindi evitiamo comportamenti che ormai sappiamo tutti facilitare la diffusione del virus e non smettiamo di vaccinarsi». 

Cosa ci dobbiamo aspettare nei prossimi mesi?

«L'Institute for Health Metrics and Evaluation ha pubblicato il lavoro di un gruppo coordinato da ricercatori di Seattle. Sono le previsioni relative all'Italia su infezioni, ospedalizzazioni e morti di Covid da dicembre ad agosto. Per tutti e tre i parametri c'è un picco fra gennaio e febbraio, segue una riduzione a marzo, una ripresa di contagi tra marzo e aprile e una discesa che dovrebbe cominciare a maggio. Questa analisi prevede che tra giugno e luglio, almeno per chi ha fatto la terza dose e assumendo che l'80% delle persone utilizzi le mascherine nei luoghi chiusi, si arriverà vicini a zero nuove infezioni giornaliere, zero ricoveri in ospedale e zero morti per 100mila. Salvo nuove varianti rilevanti».

Mascherina sì o mascherina no?

«Mascherina FFP2 nei luoghi chiusi sempre, all'aperto quando si trovano molte persone vicine tra loro e a scuola in ambienti non areati. I dati del Center for Disease Control dimostrano come nelle scuole, dove il numero di contagi tendeva a salire, introdurre di nuovo le mascherine ha contribuito a ridurre le infezioni». 

Ha senso continuare a fare tamponi?

«Dopo aver avuto un contatto stretto con un positivo, un tampone, compreso quelli fai-da-te, può dare indicazioni utili. Vale per questi test quello che vale per tutto in medicina: non abusiamone».

A molte persone sta scadendo l'effetto terza dose. D'ora in avanti avranno le stesse possibilità di ammalarsi di una persona non vaccinata?

«No, chi si è vaccinato, anche dopo molti mesi, conserva una certa protezione, anche se può comunque infettarsi e infettare soprattutto con varianti nuove come Omicron BA.2. La protezione non è necessariamente fornita dagli anticorpi, che dopo 6 mesi dall'ultima dose tendono a ridursi o addirittura a scomparire, ma dalle cellule della memoria B e T che tendono a fornire una protezione più duratura». 

Tra un mese i non vaccinati circoleranno liberamente: questo può rappresentare un rischio di ripresa dei contagi?

«Dipende dalla variante con cui avremo a che fare tra un mese. Se Omicron BA.2 avrà sostituito, come penso, tutte le altre varianti - è già successo con la Delta - dato che ha un indice di trasmissione altissimo, che per fortuna non si associa a malattia grave e ricoveri, il rischio di ripresa dei contagi potrebbe non essere così preoccupante».

Abbiamo vissuto due anni assolutamente anomali: quale è stato l'errore peggiore fatto nella gestione della pandemia?

«Lo sbaglio più grosso è stato non prendere sul serio il lavoro del Lancet del 24 gennaio 2020 fatto da un gruppo di ricercatori cinesi che ci spiegava tutto del virus; in quel lavoro c'erano le caratteristiche dei pazienti, tutti i possibili esami di laboratorio, il quadro radiologico e il quadro alla Tac, la necessità di ospedalizzazione e di ricorso alla terapia intensiva. Se non l'avessimo trascurato, avremmo avuto almeno quattro settimane per prepararci. Un altro errore forse è stato quello di aver tenuto chiuse le scuole troppo a lungo».

E quale è stata invece la mossa vincente?

«Le mosse vincenti: il primo lockdown, la campagna vaccinale del generale Figliuolo che ha portato al 91% di italiani sopra i 12 anni vaccinati almeno con una dose e al 89% che hanno completato il ciclo vaccinale, l'insistere sulla vaccinazione eterologa, il green pass (quando serviva davvero) e l'obbligo vaccinale alle persone con più di 50 anni». 

In autunno ci aspetta la quarta dose?

«Non possiamo escluderlo. Dobbiamo guardare con grande attenzione ai dati che vengono da Israele: gli adulti di più di 60 anni che hanno avuto una quarta dose hanno avuto una riduzione del rischio di morte quasi dell'80%. Certo, se dovessimo avere nel prossimo futuro un vaccino adatto a generare anticorpi neutralizzanti le varianti nuove, quello sarebbe certamente ancora più utile». 

Qual è l'esigenza più grande degli ospedali del post covid?

«Gli ospedali, specialmente gli ospedali pubblici, hanno bisogno di personale e risorse per far fronte a tutto quello che non è stato possibile fare durante il periodo peggiore del Covid e lo devono poter fare in tempi rapidi. Se non riusciamo a farlo nelle strutture pubbliche finiremo presto o tardi che chi paga può curarsi subito e gli altri devono aspettare».

Fine dello stato d’emergenza. L’addio di Franco Locatelli al Comitato tecnico scientifico. Linkiesta l'1 Aprile 2022.

Il coordinatore del Cts, dopo oltre due anni, termina la sua attività. «Si è sviluppato un rapporto di dialogo e collaborazione tra scienza e politica mai esistito prima in forma così strutturata. Penso debba restare un patrimonio del Paese», spiega. Tuttavia «la circolazione virale è ancora rilevante ed è questa la ragione per cui tutti noi continuiamo a raccomandare prudenza e attenzione nei comportamenti individuali».

Dall’1 aprile, l’Italia non è più in stato d’emergenza a causa della pandemia da Covid-19. Dopo oltre due anni, si allentano le misure restrittive e il green pass verrà richiesto solo per andare al cinema, allo stadio, su treni e aerei, all’università e al lavoro.

E anche Franco Locatelli finisce anche la sua avventura come coordinatore del Comitato tecnico-scientifico, rilasciando un’intervista al Corriere della sera in cui traccia un bilancio.

«Comincio da una gioia: quella che ho provato rendendomi conto della grande solidarietà che ha unito la nazione nella primavera del 2020. Peccato poi che se ne sia perso in parte lo spirito dal 27 dicembre dello stesso anno con l’avvio delle vaccinazioni, malgrado l’evidenza inconfutabile maturata negli ultimi mesi delle tante morti risparmiate», racconta.

Di momenti duri ce ne sono stati «tanti», dice. Tre in particolare: «Le immagini dei camion militari che lasciano il cimitero di Bergamo, la mia città, per trasportare bare di defunti che non potevano trovare sepoltura. Il Santo Padre da solo in piazza San Pietro che prega il 27 marzo 2020 sotto la pioggia, circondato da un vuoto irreale e quasi spettrale. Terza immagine: il presidente della Repubblica che sale la scalinata dell’Altare della Patria da solo per celebrare il 25 aprile del 2020».

La cosa più lacerante è stato «l’aver dovuto indicare di sospendere le cerimonie funebri in presenza. Con quella scelta abbiamo senz’altro risparmiato vite, ma abbiamo tolto affettivamente molto al momento supremo dell’ultimo saluto ai propri cari», ammette. E poi aggiunge: «Prendere sonno certe volte non è stata una cosa semplice». Soprattutto «all’inizio della pandemia quando sembrava di essere finiti in un tunnel senza uscita».

Ma sono stati anche due anni di studio: «Ho studiato molto e mi sono concentrato al massimo, sottraendo tempo alla mia vita privata. Ci metta in più qualche alzataccia, qualche nottata passata a lavorare, e capirà come ho fatto a costruire competenza».

Eppure, «per tutti i miei colleghi del Cts, in particolare per chi ha avuto il privilegio di coordinarne le attività, il peso delle responsabilità non è stato semplice da sopportare, non lo nascondo».

Ora, «la fine dello stato d’emergenza va vissuta come una notizia positiva. La nostra attività era legata a questa situazione. In questi due anni i colleghi che si sono alternati nei due differenti comitati hanno offerto il meglio delle loro capacità. Si è sviluppato un rapporto di dialogo e collaborazione tra scienza e politica mai esistito prima in forma così strutturata. Penso debba restare un patrimonio del Paese».

Dal suo punto di vista, «da questo confronto continuo con colleghi di valore ho tratto insegnamenti personali e l’evidenza, mai più da dimenticare, che dedicare risorse alla salute vuol dire investire nel futuro di un Paese. Per il futuro noi come classe medica non dovremo mai restare in silenzio se si dovessero ripresentare situazioni di riduzione delle risorse dedicate a quel patrimonio inestimabile che è il servizio sanitario pubblico».

Quale errore non andrà ripetuto? «È necessario per il futuro che l’Italia si attrezzi al meglio per quella che possiamo definire la preparedness imprescindibile per affrontare compiutamente eventuali situazioni come questa, purtroppo da non escludere, legate a altre malattie trasmissibili», risponde.

Ma la lotta al Covid-19 non è finita: «La circolazione virale è ancora rilevante ed è questa la ragione per cui tutti noi continuiamo a raccomandare prudenza e attenzione nei comportamenti individuali. Tuttavia l’elevato numero dei soggetti contagiati non trova riscontro fortunatamente nel corrispettivo dei ricoveri, soprattutto nei reparti di terapia intensiva, e nei decessi. È merito dei vaccini che abbiamo a disposizione».

Virus, De Donno aveva ragione: chi ha bloccato la sua cura? Guido Igliori il 13 Aprile 2022 su Culturaidentita.it.

Il dottor Giovanni De Donno è morto improvvisamente il 27 luglio 2021. Suicidio. L’ex primario di pneumologia dell’ospedale Carlo Poma di Mantova era salito all’onore delle cronache nel 2020 durante il primo periodo di lockdown quando, per primo, aveva iniziato a curare i pazienti Covid con la terapia al plasma iperimmune. Non venne preso troppo sul serio dalla comunicazione ufficiale del metodo “tachipirina e vigile attesa” e certe interviste di certi giornalisti sembravano interviste semiserie a un personaggio pittoresco. Sta di fatto che nel periodo marzo-aprile 2020, all’ospedale di Mantova, circa 58 malati terminali di Coronavirus furono trasfusi con 200 cc di plasma dei malati guariti dal Covid-19, ricco di anticorpi immunizzanti, e furono salvati tutti. Una terapia che ebbe sin dall’inizio risultati più che soddisfacenti diventando, in breve tempo, l’unica cura contro il coronavirus, scatenando però polemiche, calunnie e attacchi più o meno diretti alla sua persona.

Ora uno studio pubblicato sul New England Journal of Medicine (Nejm), con cui sono stati valutati gli effetti del trattamento con il plasma dei guariti in pazienti nelle prime fasi della malattia, dimostra che la somministrazione di plasma convalescente entro 9 giorni dall’insorgenza dei sintomi ha “ridotto il rischio di progressione della malattia che porta al ricovero in ospedale”: secondo questa ricerca dunque il plasma convalescente può ridurre il rischio di essere ricoverati se somministrato nelle prime fasi della malattia. L’intuizione del dottor De Donno sembra quindi riacquisire valore, di contro alle dichiarazioni dell’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) e dall’Istituto superiore di sanità (Iss) che invece avevano sminuito il ruolo terapeutico del plasma convalescente. De Donno aveva ragione, la cura al plasma funziona. E è altrettanto chiaro chi non l’ha voluta. Negli USA già usano la cura del plasma convalescente per i soggetti più a rischio per le nuove varianti del virus: speriamo che le autorità sanitarie in Italia riconsiderino questa terapia, scoperta da un medico italiano. Ma le scorte di plasma convalescente sono molto ridotte ed è molto difficile ottenere la somministrazione di plasma negli ospedali italiani. Qualcuno all’Agenzia italiana del farmaco e dall’Istituto superiore di sanità dovrebbe ora incominciare a darsi una mossa

Morte Giuseppe De Donno, la rabbia della Meloni: "Lo avete ridicolizzato, ora scusatevi". L'ultimo clamoroso capitolo. Libero Quotidiano il 03 aprile 2022.

Uno studio americano ha confermato che Giuseppe De Donno aveva ragione: le ricerche sul plasma iperimmune, di cui fu pioniere, sono una strada corretta e praticabile contro il Covid. Peccato che il medico sia sempre stato osteggiato, oscurato, insomma non fu preso sul serio. Secondo lo studio  appena pubblicato su The New England Journal of Medicine (Nejm), tra le riviste mediche più autorevoli al mondo, "nei partecipanti, pazienti affetti da Covid-19, la maggior parte dei quali non vaccinati, la somministrazione di plasma convalescente entro 9 giorni dall’insorgenza dei sintomi ha ridotto il rischio di progressione della malattia che porta al ricovero in ospedale".

Peccato che De Donno, nel frattempo, sia morto. Si sia suicidato nel luglio del 2021, a soli 54 anni. Una morte di cui si è a molto parlato, che ha impressionato: c'è chi ha puntato il dito per il fatto che potrebbe aver scelto di togliersi la vita proprio per l'ostracismo di gran parte della comunità scientifica di cui era stato vittima.

E ora, sulla vicenda, con un breve ma durissimo tweet, interviene Giorgia Meloni. La leader di Fratelli d'Italia scrive: "In Italia Giuseppe De Donno fu sbeffeggiato e ostacolato, ma la terapia da lui promossa continua a esser studiata e presa in considerazione all’estero. In molti forse dovrebbero scusarsi per aver tentato di ridicolizzare un uomo che lavorava per la scienza e per il bene dei suoi pazienti", conclude la Meloni. Poche, ma pesantissime, parole. 

GIUSEPPE DE DONNO. A POCHI MESI DAL “SUICIDIO”, ARRIVA IL PLAUSO INTERNAZIONALE. PAOLO SPIGA su la Voce delle Voci il 2 Aprile 2022.

Il ‘metodo De Donno’ basato sulla somministrazione di plasma iperimmune ai pazienti appena colpiti da Covid-19, criminalmente osteggiato in Italia da media e scienziati taroccati, trova oggi una consacrazione a livello internazionale.

La cura funziona, è molto efficace e costa pochissimo. Lo certificano gli studi condotti un’equipe coordinata da David Sullivan, epidemiologo presso la ‘John Hopkin University’ negli Usa, i cui risultati sono stati pubblicati dalla prestigiosa rivista scientifica ‘New England Journal of Medicine’.

Peccato che Giuseppe De Donno, il medico di campagna come  amava definirsi, non possa festeggiare perché è morto, in circostanze mai chiarite, la scorsa estate, il 27 luglio 2021.

Un suicidio certamente anomalo, il suo: una complessa impiccagione, tanto più inconcepibile in un medico, che sa bene come farla finita in mondo molto più semplice e sicuro. Nella migliore delle ipotesi, comunque, c’è l’induzione al suicidio, vista la forsennata campagna mediatica che – in modo certamente ‘scientifico’- gli è stata scatenata contro dalla ‘scienza’ (sic) ufficiale, da Big Pharma, dai soloni di Vaccini & Provette.

Come mai, fino ad oggi, non si hanno notizie di inchieste giudiziarie avviate per far luce sulla opaca vicenda?

Dava tanto più fastidio, quel metodo, soprattutto perché costava poco, circa 70 euro per il trattamento infusivo con plasma iperimmune.

Ecco cosa dichiarò De Donno il 15 giugno 2020, a pochi mesi dallo scoppio della pandemia: “La terapia con plasma costa poco, funziona benissimo, non fa miliardari. E io sono un medico di campagna, non un azionista di Big Pharma”.

E proprio per questo non pochi ‘annusarono’ il possibile maxibusiness, industrializzando quel metodo. In prima fila ‘Kedrion’, il colosso degli emoderivati in Italia e tra i big a livello mondiale. Venne addirittura organizzata, in Senato, un’apposita audizione, per illustrale i profili produttivi dell’operazione, alla quale presero parte, tra gli altri, i due fratelli Marcucci, azionisti di Kedrion: Andrea in qualità, all’epoca (circa un anno e mezzo fa), di capogruppo del PD a palazzo Madama; Paolo come amministrare delegato di Kedrion. Il business, però, non è andato (almeno allora) in porto, anche per via della bagarre suscitata da un’inchiesta al calor bianco delle ‘Iene’, che ha di certo rotto non poche uova nel paniere.

Anche la Voce scrisse di quel giallo al Senato e della spericolata manovra orchestrata dai Marcucci: che ci hanno querelati. Abbiamo vinto quel round giudiziario (ora è in atto un secondo round, sempre al tribunale di Napoli) perché nella sua ordinanza del 7 giugno 2021 il gip Valentina Gallo ha sottolineato che l’articolo della Voce (che potete rileggere cliccando sul link in basso) rientrava perfettamente nei limiti della ‘verità dei fatti’ e della ‘continenza’, elementi base per caratterizzare il diritto di cronaca.

Ma torniamo al plauso dell’equipe scientifica e del ‘New England Medical Journal’.

La ricerca si è svolta nel periodo compreso tra il 1 giugno 2020 e l’1 ottobre 2021: un lasso di tempo, quindi, estremamente lungo e significativo per testare il metodo su 1881 pazienti che hanno ricevuto una trasfusione in media entro i primi 6 giorni dall’insorgenza dei sintomi.

Le conclusioni tratte dai ricercatori si possono sintetizzare in due punti: il primo è che nei pazienti affetti da Covid, la somministrazione di plasma iperimmune ha ridotto in misura notevole (pari al 54 per cento) il rischio di progressione della malattia che porta al ricovero in ospedale. Il secondo è che il plasma può rappresentare dei vantaggi rispetto agli anticorpi monoclonali, che “sono costosi da produrre, richiedono tempo per l’approvazione e potrebbero non essere ampiamente disponibili durante i picchi di infezione da Covid-19”.

Sorge spontanea la domanda. Come mai quanto accertato ora dal team di ricerca contrasta in modo evidente con quanto sempre sostenuto dall’AIFA e perfino dall’Istituto Superiore di Sanità, che hanno sempre osteggiato il metodo? Sul sito dell’Istituto, infatti, si legge ancor oggi che l’indagine condotta sulla terapia “non evidenziò un beneficio del plasma in termini di riduzione del rischio di peggioramento respiratorio o morte nei primi trenta giorni”.

Così spiega il mistero la autorevole rivista scientifica: “i risultati contrastanti potrebbero essere dovuti alla mancanza di moderni progetti di studio, piccole dimensioni del campione oppure ad una somministrazione tardiva rispetto all’inizio della malattia”.

Ma stanno lì a rigirarsi i pollici gli illustri ricercatori di AIFA e ISS?

Tarro: “Io e De Donno trattati da eretici, ora scoprono plasma e monoclonali”. Redazione su la Voce delle Voci il 4 Agosto 2021.

Non si placano le polemiche sul suicidio del dottor Giuseppe De Donno, pioniere della cura del plasma contro il Covid, ancora di più dopo che è diventata ufficiale la notizia del riconoscimento da parte dell’Ema di cinque terapie con anticorpi monoclonali che potranno essere praticate da settembre. Anticorpi monoclonali che potranno essere ricavati in vitro dal plasma iper immune o replicati in laboratorio. Perché dunque De Donno è stato ostacolato e costretto a ritirarsi? Forse perché la sua cura veniva praticata a basso costo e adesso invece le terapie monoclonali costeranno molto di più? Questo il principale sospetto che sta circolando sul web, agevolato anche dallo scontro in atto sul green pass obbligatorio. Ne abbiamo parlato con il medico Giulio Tarro, allievo di Albert Sabin da sempre convinto sostenitore della cura del plasma, e al pari di De Donno spesso attaccato per le sue posizioni in contrasto con quelle del Comitato Tecnico Scientifico e dei cosiddetti soloni in camice bianco. 

Ha fatto molto discutere nei giorni scorsi il suicidio del dottor De Donno. Da più parti si è accusata la comunità scientifica di averlo emarginato, isolato e perseguitato, perché la sua cura del plasma contro il Covid era efficace e accessibile a tutti con costi sostenibili. Lei cosa pensa?

“Ci sono stati dei fatti ben specifici che confermano come la cura del plasma abbia dato risultati positivi. Dalla fine di marzo ai primi di maggio del 2020 De Donno ha portato avanti questa siero terapia bloccando la letalità del virus e impedendo che vi fossero altre vittime. Una cura tuttavia che avevano già sperimentato con successo i cinesi. Io stesso la consigliavo già a gennaio quando iniziarono i primi contagi. Basti considerare che laddove è stata praticata non si sono verificati i decessi avuti in gran parte della Lombardia e nelle 14 zone rosse, a dimostrazione di come la terapia fosse validissima”.

Perché allora è stata boicottata?

“Questo non lo so. So soltanto che a De Donno mandavano un giorno sì e l’altro pure i Nas in ospedale, fatto questo che certamente non permetteva di portare a termine gli studi. Poi al momento di prendere una decisione hanno individuato come leader per la sperimentazione della cura, che gli americani in verità hanno adottato come profilassi su 34mila operatori sanitari, l’Università di Pisa. Personalmente, visto che gli Stati Uniti l’avevano già applicata con successo sui propri sanitari, ritengo che la sperimentazione non sarebbe stata nemmeno necessaria, ma come sempre avviene ci sono le politiche nazionali a complicare le cose. Per altro la terapia prevedeva soltanto il passaggio del plasma dal soggetto guarito a quello infetto, senza coinvolgere minimamente i globuli rossi, fatto questo che metteva al riparo dal rischio di trasmettere infezioni attraverso le trasfusioni. Quindi si aveva anche un’assoluta tranquillità sotto questo aspetto”.

Da settembre arriveranno cinque nuove terapi approvate dall’Ema, quattro delle quali monoclonali con gli anticorpi che sarebbero ricavati anche in vitro dal plasma iper immune. Non è un paradosso questo dopo quanto avvenuto a De Donno?

“Già nel 2015 l’Istituto Pasteur aveva diffuso i risultati di uno studio sull’utilizzo di questi anticorpi monoclonali contro la prima Sars che è stata poi debellata con successo. Quindi non c’è niente di sensazionale in tutto questo. è risaputo che gli anticorpi monoclonali sono i più efficaci contro i virus di questo tipo. Il problema è che da noi hanno perso tempo con la vigile attesa e con la tachipirina, quando sarebbe bastato intervenire immediatamente nella fase precoce della malattia lasciando i medici liberi di agire in scienza e coscienza. Chi come il sottoscritto si è permesso di stilare protocolli d’intervento suggerendo il ricorso agli anticoprpi monoclonali è stato trattato come un irresponsabile che metteva a repentaglio la salute dei pazienti. Ad ogni modo gli anticorpi monoclonali sono prodotti soprattutto in laboratorio e questo li rende rimodulabili sulle varianti del virus, tanto è vero che in America è stato deciso di autorizzare soltanto quelli che sono efficaci anche contro le varianti in circolazione”.

Avverte sinceramente un clima di emarginazione e di avversione verso tutti i medici che in qualche modo non sono allineati a quella che è la narrazione del mainstream proprio come lei e come De Donno?

“Certamente De Donno ha subito un trattamento molto duro, ha dovuto convivere con un clima ostile. La sua capacità non era ben vista, dava evidentemente fastidio. Non sta a noi giudicare le scelte dei singoli, specie quando come in questo caso si rivelano estreme. Certamente quanto gli è capitato in campo professionale può averlo provato psicologicamente fino ad indurlo al suicidio. Non tutti siamo in grado di reagire allo stesso modo e di sopportare tutto quello che ci viene tirato addosso”.

Come avrà visto si sta parlando di un picco dei contagi a Ferragosto. Lei la vede così nera la situazione?

“E’ indecente mettere in giro questi dati. Ma possibile che noi ci dobbiamo sempre distinguere negativamente da tutti gli altri? In Inghilterra hanno riaperto tutto, mentre noi abbiamo raddoppiato i tamponi e ogni giorno stiamo a parlare di contagi in crescita. Ma che problema c’è se crescono i positivi nel momento in cui possono essere curati e se sono vaccinati sono fuori pericolo? Sembra quasi che si provi gusto a terrorizzare la popolazione, a rovinare la vita della gente, ad angosciare gli italiani privandoli pure del piacere delle vacanze. Poi stiamo parlando di un virus che dopo un’esposizione di pochi minuti ai raggi ultravioletti non esiste più. La verità è che non siamo in grado di chiudere il cerchio come hanno fatto gli inglesi. Continuiamo a valutare l’aumento dei contagi con gli stessi criteri di quando il virus non si conosceva e non si sapeva come intervenire”.

Anche lei ritiene sia stato un errore autorizzare lo svolgimento dei campionati europei agevolando gli assembramenti?

“Altra grande sciocchezza. Da noi per altro si sono giocate molte meno partite che altrove. Finiamola di andare dietro al terrorismo sanitario, non stiamo più a marzo del 2020. Guardiamo all’Inghilterra che ha riaperto tutto. Ultimamente ho partecipato a quattro conferenze, una ad Ascoli Piceno, un’altra a San Benedetto, una terza ad Alba Adriatica e l’ultima a Giulianova. Tutte conferenze che si sono svolte all’aperto e senza mascherina, dove per altro ho smontato la narrazione allarmistica dei media e, in linea con autorevoli colleghi svizzeri, ho ribadito che piuttosto che indossare la mascherina sarebbe molto più utile portare un elmo. E’ molto più probabile infatti che ci possa cascare qualcosa in testa piuttosto che infettarci a contatto con gli altri”.

IL “SUICIDIO” DEL DOTTOR GIUSEPPE DE DONNO. SOLO CONTRO “BIG PHARMA”. Andrea Cinquegrani su la Voce delle Voci il 28 Luglio 2021.

Un uomo vero, un medico autentico che ha salvato moltissime vite nella prima ondata del Covid, grazie alla terapia del ‘plasma iperimmune’.

Una presenza scomoda, pericolosa, la sua, soprattutto per gli stramiliardari interessi delle case farmaceutiche, della piovra chiamata Big Pharma.

Forse per questo la vita di Giuseppe De Donno doveva finire e lui ‘doveva morire’, come hanno titolato – a proposito del delitto Moro – Ferdinando Imposimato e Sandro Provvisionato.

Secondo altri, era molto depresso, estenuato dalle battaglie di un piccolo Davide contro Golia, sfinito per il suo sforzo quasi solitario, attaccato dai soloni in camice bianco, i virologi che impazzano in tivvù, dai media in un frastornante e belante coro, mai difeso dalla politica.

A botta calda sorge spontanea la domanda. Poteva finire i suoi giorni così, impiccato nella sua casetta di campagna ad Eremo (un nome profetico), la minuscola frazione di Curtatone, nel mantovano? Una scena raccapricciante per i suoi, la moglie Laura e i figli Martina (consigliere comunale a Curtatone) e Eduardo.

Può mai un medico esperto come lui cercare la morte in un modo così atroce e difficile da organizzare, e anche dall’esito non certo? Quando, proprio per un medico, esistono agevoli vie per andare al creatore impasticcandosi a dovere oppure iniettandosi la dose fatale?

Non c’è forse un ‘segno’ in quella tragica esecuzione, pardòn, fine? Un avvertimento forte e deciso: guai a toccare certi ‘fili’, attenti, in futuro, a sfiorare certi interessi, a intaccare alcuni equilibri, a disturbare i manovratori.

Saprà una seria inchiesta far luce sulla tragica fine? C’è solo da augurarselo, anche se siamo molto scettici, visto che in altri clamorosi casi la ‘giustizia’ (sic) s’è arenata, totalmente spiaggiata: come, per fare solo due esempi, nel caso dei ‘suicidi’ di David Rossi e Marco Pantani, dove non sono bastate le infinite ‘anomalie’ per far aprire gli occhi agli inquirenti, che hanno piombato tutto sotto una tombale archiviazione.

Vergogna.

Ma anche restando entro il perimetro del pur improbabile suicidio, e motivandolo con la depressione fortissima causata da tutti i tentativi di emarginazione professionale e delegittimazione a tutto campo, vediamo le ultime notizie e cerchiamo di ricostruire la ‘scena’. 

ERA APPENA TORNATO A FARE IL MEDICO DI CAMPAGNA

Era appena tornato, il 5 luglio, a fare il medico di base, il ‘dottore di campagna’ come lui stesso amava definirsi.

Sì, perché ai primi di giugno aveva lasciato l’incarico per il quale aveva speso tutta la sua vita: dopo lunghe fatiche professionali, infatti, era diventa primario pneumologo all’ospedale ‘Carlo Poma’ di Mantova. 

Il dottor Cesare Perotti, che insieme al collega Giuseppe De Donno (foto in apertura), ha messo a punto la cura con il plasma iperimmune

Lì il suo percorso ha una svolta otto anni fa, nel 2013, quando diventa dirigente medico della struttura complessa di Pneumologia e dell’Unità di Terapia Intensiva Respiratoria (Utir). A settembre 2018 viene nominato primario facente funzione, vince il concorso e diventa primario a pieno titolo ad inizio 2019.

E, dopo un anno esatto, arriviamo ai drammatici giorni del coronavirus. Dove il suo nome balza ben presto agli onori delle cronache, perché con il collega Cesare Perotti del policlinico ‘San Matteo’ di Pavia mette a punto la tecnica del ‘plasma iperimmune’. Una tecnica ‘storica’ e ‘innovativa’ al tempo stesso. Perché terapie a base di plasma vennero utilizzate fin dal 1901 per curare la difterite, quindi impiegate per fronteggiare l’ultima grande pandemia del 1918, poi per contenere negli anni seguenti i focolai di morbillo, poliomielite e parotite.

Quell’approccio terapeutico – nota subito De Donno – è utilissimo per combattere immediatamente il virus al suo primo insorgere: un po’ come succede con le cure, i farmaci di cui spesso la ‘Voce’ ha scritto (idrossiclorochina, invermectina, lattoferrina etc.) e regolarmente boicottati dal governo e dalle autorità (sic) scientifiche, come Ema a livello europeo e AIFA a livello nazionale.

Al plasma iperimmune viene riservato un trattamento ‘speciale’: emarginato, oscurato, messo da parte, quasi desse fastidio. Con ogni probabilità anche perché si trattava (e si tratta) di una terapia molto economica – come ha più volte sottolineato De Donno – appena 80 euro per la sacca di plasma che consente la rivitalizzazione, in parole povere, del sangue aggredito dal virus. 

‘IENE’ ALL’ATTACCO

Ma c’è un improvviso momento di gloria, per il metodo-De Donno. Quando cioè le ‘Iene’, a maggio 2020, realizzano alcune inchieste choc capaci di catalizzare l’attenzione di un pubblico sempre più distratto, di cittadini cloroformizzati dal ritornello “tachipirina e vigile attesa” impartito – anzi letteralmente imposto – dal governo, che è il vero responsabile (con il Comitato Tecnico Scientifico) per migliaia e migliaia di vite perse in attesa del miracoloso vaccino, mai curate in modo adeguato (con i farmaci ad hoc e la terapia del plasma iperimmune) e invece inviati al massacro nelle corsie ospedaliere per l’intubazione e poi quasi sempre la morte. 

Giuseppe De Donno in un frame della famosa intervista alle Iene

I reportage delle ‘Iene’ (autori Alessandro Politi e Marco Fubini) svelano un’altra terapia possibile, e perfino economica. Viene intervistato De Donno. Un vero scoop: perché il medico di campagna scopre quanto il re sia nudo, come sia possibile fronteggiare il Covid prima dell’arrivo dei vaccini, quali siano i reali interessi di Big Pharma.

Scorriamo alcune frasi pronunciate da De Donno, il cui senso adesso – dopo la sua tragica fine – possiamo capire ancora meglio.

“Ho passato 25 giorni senza dormire. E anche ora quando arrivo a casa non riesco a smettere di pensare agli occhi dei nostri pazienti. Gli occhi dei morti, quelli che non siamo riusciti a salvare, mi accompagnano tutte le notti. Questo è un virus maledetto, in 36 ore ti distrugge. Dobbiamo imparare a conviverci. Ma proprio perché è un virus che ti colpisce duro, alle spalle, non capisco questo accanimento contro la cura al plasma”.

Con questa terapia praticata al Carlo Poma “nessuno si è aggravato, non abbiamo registrato alcun effetto collaterale. Il plasma è sicuro. Non stiamo parlando di una pozione magica. I risultati dello studio stanno per essere pubblicati. A questo punto sarà la letteratura a parlare”. 

La Iena Alessandro Politi

Sui motivi del boicottaggio contro la plasmaterapia, osserva: “Non lo so, forse perché sono un uomo libero, un medico di campagna che pensa solo a salvare vite umane. Forse il mondo accademico soffre perché la scoperta arriva da un piccolo ospedale e non da qualche rinomato laboratorio. Negli Stati Uniti stanno pensando di fare dei cicli di plasmaferesi per proteggere il personale medico. Di certo abbiamo aperto una nuova era. Questo è un nuovo modello che potremo utilizzare anche in futuro. A costi estremamente bassi”.

Sui vaccini: “Io sono un sostenitore dei vaccini, ma sarà un lavoro lungo. Questo virus muta (le parole sono state pronunciate ben prima dell’arrivo delle varianti, ndr), ha diversi ceppi. Quello che ha colpito l’Italia non è lo stesso della Cina e nella stessa Lombardia ci sono diversi ceppi. A noi serve oggi subito un proiettile da usare per la fase acuta: una cura capace di seguire le mutazioni del virus. Il plasma lo fa”.

“Era difficile reggere all’urto di un virus così terribile. Ma forse avremmo salvato qualche vita in più se la politica avesse ascoltato di meno gli accademici in televisione e di più gli ospedalieri che facevano le notti in bianco inseguiti dagli occhi dei morti”.

Contro gli attacchi scatenati dall’allergologo di tutti i salotti tivvù, Roberto Burioni, osservava: “Burioni si comporta come se avesse la verità in tasca, dicendo che è meglio un farmaco sintetizzato che il plasma iperimmune. Non credo che sintetizzare il farmaco in laboratorio sia più economico. Questa è una cura democratica: arriva dal sangue donato dai guariti”.

In un’altra puntata al calor bianco, le ‘Iene’ attaccano frontalmente ‘Kedrion Biopharma’, la corazzata del gruppo Marcucci che si è autoproposta come azienda in grado di lavorare e produrre industrialmente il plasma iperimmune. Il reportage è al calor bianco: vengono ricostruite tutte le fasi ‘parlamentari’ dell’operazione, che ha il suo clou in un’audizione che si svolge al Senato e alla quale prende parte un ‘non invitato’ Paolo Marcucci, ceo di Kedrion e fratello di Andrea Marcucci, all’epoca capogruppo del Pd in Senato. In perfetto conflitto di interessi.

Kedrion parte lancia in resta e querela le ‘Iene’.

Ed anche la Voce, rea di aver osato parlare del mini golpe dei Marcucci a palazzo Madama e di aver ripreso il servizio delle Iene. La nostra querela viene ‘allargata’ anche ad un’altra inchiesta, relativa ai rapporti di collaborazione fra Kedrion e un laboratorio cinese che opera nell’area di Wuhan, come aveva candidamente dichiarato Paolo Marcucci in un’ampia intervista rilasciata al Corriere della Sera. La querela firmata da Paolo Marcucci contro la Voce è stata archiviata appena un mese fa, dopo l’ordinanza del gip del tribunale di Napoli, Valentina Gallo, che ha considerato pienamente legittimi gli articoli della Voce e assolutamente non diffamatori ma rispecchianti la realtà dei fatti. 

IL PLAUSO INTERNAZIONALE AL METODO DE DONNO

Ma torniamo al giallo De Donno. La cui tecnica del plasma iperimmune con il passar dei mesi miete continui riconoscimenti a livello internazionale. Uno studio realizzato da un’equipe di Calcutta, condotto sui pazienti dell’ID&BG Hospital, ha fatto registrare un anno fa risultati sorprendenti: “una significativa mitigazione immediata dell’ipossia – scrivono i ricercatori – una riduzione della degenza ospedaliera e benefici di sopravvivenza” in pazienti covid-19.

Proprio sull’efficacia immediata nella fase iniziale della malattia si è concentrato uno studio della ‘Johns Hopkins University’, dal quale sono scaturiti risultati altrettanto confortanti, soprattutto per evitare le ospedalizzazioni (e/o ridurre i tempi di degenza), e attenuare sensibilmente gli effetti del virus.

Ancora. Sono di appena tre mesi fa i risultati di uno studio di Fase 2 condotto presso un importante centro di ricerca statunitense, l’‘Hackensack University Medical Center’ del New Yersey. Sono stati pubblicati dalla rivista scientifica ‘JCI Insights’ e indicano con estrema chiarezza i vantaggi che derivano dalla terapia, nonché la sua sicurezza ed efficacia. I pazienti sono stati divisi in due gruppi – viene descritto – a seconda della necessità di assistenza respiratoria e hanno ricevuto un’infusione di plasma ad alto titolo anticorpale. I promettenti risultati dell’intervento precoce – aggiungono – hanno portato all’avvio di un programma ambulatoriale attualmente in corso presso il Medical Centeruniversitario, con l’obiettivo di “trattare i pazienti nelle prime 96 ore dalla comparsa dei sintomi di covid-19 e dunque prevenire il ricovero in ospedale”.

Così concludono: “La neutralizzazione virale precoce, con la conseguente prevenzione della risposta immunitaria dovuta al danno virale, costituisce la base per l’infusione del plasma dei convalescenti ad alto titolo. Poiché gli anticorpi provengono dai guariti che hanno sviluppato una risposta immunitaria anche contro le nuove varianti, la terapia potrebbe anche tenere il passo con l’aumento delle versioni mutate di Sars-Cov-2”. Le famigerate varianti.

Nemo propheta in patria. Mentre il metodo De Donno raccoglie successi e riconoscimenti all’estero, in Italia continua ad essere boicottato e del tutto sottovalutato.

Vediamo cosa succede, neanche un mese e mezzo fa, a metà giugno, in Emilia. Ecco cosa batte un’agenzia: “Decine e decine di unità di plasma iperimmune, più di 150, prelevato in provincia di Modena da donatori guariti dal Covid e pronte a diventare, attraverso trasfusione, cura per ammalati, giacciono inutilizzate presso il centro trasfusionale del Policlinico di Modena, a quanto pare senza prospettiva di essere utilizzate per la cura del covid”.

Ecco la pezza a colori piazzata dal direttore del centro trasfusionale presso il Policlinico locale, Giovanni Ceccherelli: “Dopo un primo momento di entusiasmo nel quale sembrava fosse l’unica cura possibile per il covid, studi ed articoli apparsi su prestigiose riviste scientifiche hanno dimostrato che il plasma iperimmune non serve per la cura dei pazienti gravi ma serve solo in caso di malattia iniziale, rendendo il suo utilizzo di fatto impraticabile”.

Chi ha mai detto si trattasse dell’unica cura possibile? Al contrario, sia De Donno che gli studi scientifici, come quelli appena citati, hanno sempre ribadito l’estrema utilità nella fase iniziale di aggressione del virus. Ed è evidente anche ad un bambino che in tutte le patologie vi sia sempre una ‘fase iniziale’: quindi il metodo può essere utilizzato in tutti i casi di insorgenza del covid. Con quale logica, quindi, l’utilizzo del plasma iper immune può rivelarsi ‘impraticabile’? Per quale arcano mistero?

Palese più che mai, quindi, il boicottaggio ‘scientifico’.

A tutto campo. A tutto spiano. Per screditare e delegittimare il metodo e il suo ‘autore’. 

P.S. Abbiamo parlato, all’inizio, di un metodo comunque ‘storico’. A tal proposito vi consigliamo la visione di un film ‘vintage’ (è del 1971) protagonista eccellente Charlton Heston, il mitico Ben Hur stavolta nei panni di un medico che salva l’umanità da una tremenda pandemia. Si tratta di “The Omega Man”, da noi circolato con il titolo “1975: occhi bianchi sul pianeta terra”, tratto dal romanzo ‘I am Legend’ di Richard Matheson. Il protagonista – rimasto miracolosamente, unico uomo sulla terra, indenne dal virus – non riesce a brevettare in tempi rapidi un vaccino e ricorre quindi ad un altro metodo: comincia a trarre dal suo sangue il siero per curare uno, due, dieci pazienti; i quali faranno altrettanto fino a salvare il mondo.

Rivedere per credere. O se preferite c’è un’altra pellicola ancor più datata, del ’64, ‘The Last Man on Earth’: lo scienziato protagonista, Vincent Price, “opera una trasfusione del suo sangue nel corpo della donna”: la sua Ruth guarisce e il miracolo comincia.

Le tre repubbliche. Il difficile percorso del liberalismo nella sinistra italiana. Beppe Facchetti su L'Inkiesta il 29 Giugno 2022.

Nel suo libro “Io sono liberale”, il senatore del Partito democratico Andrea Marcucci racconta 30 anni di fatti politici, sullo sfondo di una carriera vissuta tra il PLI e il mondo dem. Con il coautore Giovanni Lamberti, offre al lettore anche alcuni retroscena particolarmente delicati degli ultimi anni

Il libro di Andrea Marcucci (con Giovanni Lamberti, edizioni Piemme, 2022) ha un titolo molto perentorio: “Io sono liberale”. Così, senza giri di parole.

Non è un’affermazione da poco: trattandosi dell’ex capogruppo del Partito democratico, oggi autorevole membro della corrente più solida del partito, c’è dietro un messaggio. Ricorda un po’ il pamphlet di Giavazzi e Alesina di qualche anno fa: “Il liberismo è di sinistra”. Forse era meglio scrivere liberalismo, ma la provocazione c’era tutta.

Andrea Marcucci è davvero liberale, non per moda o vezzo tutto da dimostrare, e nel libro lo rivendica ricordando di essere entrato in Parlamento con il Partito Liberale Italiano, alla tenera età di 27 anni. Merito di Renato Altissimo, che convinse nel 1987 il rampollo della famiglia di Barga a schierarsi e mettersi in competizione in uno dei collegi più difficili, mai conquistati da un liberale, aggiudicabile solo in quei rari casi in cui davvero la scelta della persona conta. E i Marcucci in Valle del Serchio sono autorevoli e ben visti. Il Partito Liberale Italiano, o meglio Marcucci, passò dall’1 al 10%.

Ci aveva visto giusto, il ras locale della Democrazia Cristiana, Piero Angelini, quando aveva tentato di avviare Andrea alla politica, cominciando dalle Provinciali. Ma il ragazzo non aveva apprezzato il clima pesante della vecchia DC e si candidò si alla provincia, appunto con il Partito Liberale, diventando subito assessore, per di più con gli avversari della Democrazia Cristiana. Rappresentava il cambiamento, pur usando il vecchio simbolo liberale, il più vecchio di tutti, e la gente lo incoraggiò, anche se questo giovane dava una mano a una coalizione di sinistra, e allora c’era ancora il Partito Comunista Italiano.

Decisiva, dice ancor oggi Marcucci, fu la sintonia con Altissimo, ed è comprensibile, perché se all’epoca Malagodi rappresentava la serietà e la profondità di un liberalismo coerente, mai con la destra e severissimo con la sinistra, e Zanone la cultura, la visione pessimistica ma lucida del presente, Altissimo era il pragmatismo, il più moderno e il più smart tra i politici dell’epoca, non a caso in grande sintonia con il controcorrente Cossiga e il geniale De Michelis.

Ricordiamo bene gli esordi romani di un alieno sceso dall’appennino lucchese (magari però con l’elicottero) fino alle paludi romane, dove la politica era più che mai politicienne, e bisognava conoscerla in tutti i suoi risvolti, anche crudeli. Osservava, aveva una grande curiosità, e imparava.

Un collaboratore pane e politica come l’ex segretario dei giovani liberali Corrado Besozzi lo aiutava a non cadere nelle trappole e nelle ingenuità, dato che il periodo – già Tangentopoli in corso – era dei peggiori. Ma è stata certo una grande esperienza, da sfruttare negli anni allora lontani della Terza Repubblica, quella che con la scusa di non voler imitare la prima, e disprezzandola dal basso della propria incapacità, avrebbe spazzato via le regole più elementari della politica, anche quelle basilari (roba da Prima Repubblica) pur di avere un like. Un giorno gli sarebbe capitato di essere disarcionato da Capo dei Senatori dem non per demerito o perché isolato – anzi, proprio il contrario – ma semplicemente perché di sesso maschile.

Sta di fatto che Marcucci, come dice il sottotitolo del libro (“Cronaca di un viaggio tra tre Repubbliche”) è davvero uno di quei pochi casi di attraversamento – suo malgrado – di quella grande rivoluzione involutiva della politica italiana che va da Tonino Di Pietro pm a Giuseppe Conte vice dei suoi vice.

Liberali del Partito Liberale Italiano, in Parlamento, sono oggi rimasti in pochi, e quasi tutti a destra, ancora affezionati al mito del partito liberale di massa lanciato un’era geologica fa da Silvio Berlusconi. A sinistra c’è solo Marcucci, poco più in là Enrico Costa, che sta con Carlo Calenda.

Tornando appunto al libro, il fatto curioso è che non vi è neppure un paragrafo in cui viene spiegato culturalmente e politicamente quel “io sono” che c’è nel titolo.

Il volume è davvero una cronaca di 30 anni di fatti politici, ed è infatti questo il compito che si è assunto il cofirmatario, il giornalista di agenzia Giovanni Lamberti.

Marcucci virgoletta e chiosa qua e là i suoi commenti e il lettore è pertanto invitato a trovare da solo il modello di liberalismo in cui si riconosce il senatore del Partito democratioc, favorevole ad un approccio «attento al sociale, riformista e assolutamente moderno», come scrive nelle prime pagine ricordando un suo conterraneo che combattè con Garibaldi, Antonio Mordini, che a Barga sta fermo in un monumento che Andrea vedeva da piccolo sulla piazza del paese e che in qualche modo lo ispirò.

I fatti politici degli ultimi decenni sono tutti raccontati con dovizia di particolari e qualche retroscena gustoso, comprese le vicende sconcertanti della confermata presidenza Mattarella. E il liberale Marcucci si schiera qualche volta con sofferenza ma sempre con coerenza.

Da quando diffida del liberalismo di Berlusconi e subito dopo dell’inganno presuntuoso di Segni, fino a quando racconta da protagonista involontario l’epopea fuorviante di Mani Pulite, inorridisce per la lapidazione di Craxi al Raphael e approda infine alla Margherita, seguendo Zanone, primo tentativo di mettere insieme i diversi, forse più solido anche se non spinto dalle grandi speranze suscitate dall’Ulivo, poi anch’esse deluse. Ed è liberale il suo stupore prima che indignazione, di fronte all’antipolitica.

Insomma, rileggendo i fatti e apprezzando le osservazioni critiche di Marcucci, si può interpretare il difficile liberalismo di chi milita in una sinistra che non ha elaborato del tutto il lutto della fine tragica del comunismo, portandosi dietro il fardello di vecchie convinzioni. Tra tutte quella che la piazza vale più del ragionamento, perché è popolo. Invece è tante volte solo populismo della peggior specie.

Quindi, ad esempio, Marcucci festeggia la svolta di Veltroni al Lingotto e parteggia per il giovane Renzi incrociato nell’entourage di Rutelli, fino alla decisione in solitaria dell’abbandono del PD, che Marcucci però non condivide e non capisce, pur avendo frequentato il politico fiorentino nei giorni e nelle ore in cui la decisione è stata maturata.

Facendo una scelta non facile per uno che ad un certo momento era diventato l’unico renziano della Toscana. Ma resta una scelta molto serena, senza rimpianti.

Con l’unico svantaggio di essere sospettato di essere una quinta colonna renziana anche da capogruppo del Partito democratico, confondendo la stima con la militanza, e dimenticando appunto che Marcucci è un liberale e i liberali tengono innanzitutto ad essere considerati gente per bene.

Dunque, alla fine del libro resta importante quell’incipit del titolo, come grido solitario tra tanti liberali improvvisati e sedicenti. E questo è davvero un merito, nell’Italia che pensa che a fare i vaghi c’è sempre da guadagnare.

Il libro del parlamentare dem. Quando Di Pietro ‘minacciò’ Marcucci: “Faccio arrestare i suoi familiari”. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 28 Aprile 2022. 

«Meno male che in questa situazione da brividi, abbiamo Draghi presidente del Consiglio e Lorenzo Guerini, ministro della Difesa. Considero molto sbagliata e molto preoccupante la nuova offensiva preannunciata da Conte sul nuovo aiuto militare al popolo invaso», dice il senatore Pd Andrea Marcucci, commentando con il Riformista la presa di posizione del leader 5Stelle che preannuncia l’opposizione dura del M5s all’invio di aiuti militari e a controffensive fuori dal perimetro dell’articolo 51 della Carta dell’Onu. «Sono rimasto allibito dalle sue dichiarazioni sul voto in Francia – prosegue Marcucci- ho visto che dopo l’elezione di Macron, Conte ha aggiustato il tiro. Però torniamo al punto: quando si confrontano un europeista convinto e una nazionalista populista, non si possono avere incertezze».

Anche sul caso Petrocelli, il parlamentare dem insiste: «Petrocelli è arrivato in Parlamento con il M5S, quelli che allora ci attaccavano per un supposto interesse alle poltrone. E lui oggi si trincera dietro a un incarico, in cui rappresenta solo se stesso. Altro che portavoce dei cittadini». Dai Cinque Stelle pronta la replica, affidata a Gubitosa che si dice risentito dalle considerazioni dell’esponente di Base Riformista.

Il senatore Marcucci sarà d’altronde sotto i riflettori nei prossimi giorni, quando il suo libro Io sono liberale, scritto con Giovanni Lamberti per Piemme arriverà in libreria. Le pagine cui abbiamo avuto accesso in anteprima lo annunciano come un notevole atto di denuncia. Quella sul metodo con cui certa magistratura ha condotto la “guerra sporca” di Mani Pulite. Andrea Marcucci, giovanissimo deputato, inizia a raccontare a partire da quel suo primo impatto con la magistratura inquirente. «Onorevole, lei è arrivato con due ore di ritardo, capisco che ha l’immunità parlamentare, ma posso sempre far arrestare i suoi dirigenti e i suoi familiari».

È questo l’incredibile incipit con il quale Antonio Di Pietro accoglie Andrea Marcucci al tribunale di Milano. «Da quell’approccio capii subito che la giustizia intendeva procedere per vie brevi, in maniera borderline, sollecitava confessioni e ammissioni con l’esercizio del potere. Non sta a me giudicare se quegli arresti preventivi fossero giustificati, ma ho toccato sulla mia pelle quel modo di fare, non ho vissuto quel periodo solo da spettatore». Nel 1992, nella veste di pm, il giudice di Mani Pulite non fa sconti a nessuno. Marcucci è accusato di aver finanziato il Pli. Il fascicolo era stato trasferito dalla procura di Roma a quella di Milano. «Il partito mi chiese un aiuto per le elezioni amministrative del 1991. Parlai con mio padre, diedi un contributo senza avere nulla in cambio. Cercarono di legare il finanziamento al mio rapporto con De Lorenzo, a presunti vantaggi nel settore farmaceutico, ma smontai con facilità le accuse. Poi ripiegarono su presunti benefici nel settore delle tv, tirando in ballo una campagna anti-Aids. Non ci fu alcuna condanna né rinvio a giudizio, ma l’incontro con Di Pietro fu pesante. Mi resi conto di quello che stava capitando in Italia, ma anche dei modi che utilizzava la giustizia».

In quel clima non è facile neanche tornare a casa. «Per fortuna nel mio territorio avevo un rapporto umano forte con gli elettori. Tuttavia, a quell’epoca bastava un semplice avviso di garanzia per essere marchiato e considerato feccia dell’umanità. Anche persone vicine cominciarono a chiedermi: “Ma cosa hai fatto?”.» E non è quello l’unico processo a carico. I fronti che si aprono sono tanti. «Ero amministratore delegato del Ciocco, la nostra struttura alberghiera. In vista dei Mondiali di Italia ’90 c’era la possibilità di ristrutturare l’attività turistica ricettiva, avere dei finanziamenti e approfittare di un iter veloce dei lavori. Fummo inseriti nella graduatoria degli interventi ammissibili. Decidemmo però di non chiedere alcun contributo, ma soltanto di approfittare della corsia agevolata amministrativa per l’allargamento dell’albergo. Quando si concluse l’opera, un pm di Lucca non solo indagò me e la mia famiglia, ma sequestrò l’albergo con l’accusa di abuso edilizio. I clienti giapponesi che vi soggiornavano non poterono uscire, trovarono le porte sigillate.»

A dare notizia dell’inchiesta sono anche i tg nazionali. «Quella vicenda mi toccò in modo profondo. Mi ricordo la bava alla bocca del pm, la sua rabbia quando con dichiarazioni spontanee ricostruii i fatti facendo cadere quel castello costruito artificialmente. Secondo l’accusa, non avendo preso soldi pubblici non avevamo diritto alla semplificazione amministrativa». In primo grado arriva una condanna a 10 mesi di reclusione e 60 milioni di lire di multa. «Una delle più alte per abuso edilizio nella storia d’Italia…» Ma in secondo grado «il pm chiese scusa a tutti gli indagati». Una storia di ordinaria ingiustizia.

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

Dagospia il 4 maggio 2022. In libreria dal 10 maggio per Piemme, 'Io sono liberale', il libro di Andrea Marcucci e Giovanni Lamberti, cronista parlamentare dell'Agi, in cui l'esponente del Pd ripercorre la sua esperienza politica, 'cronaca di un viaggio tra tre Repubbliche'. 

Eletto deputato nel 1992 nelle fila del Partito Liberale, passa alla Margherita nel decennio successivo, conosce un giovanissimo Matteo Renzi e nel 2006 nel secondo governo Prodi, viene scelto da Francesco  Rutelli come sottosegretario ai beni culturali. 

Marcucci diventa poi socio fondatore del Pd, amico dagli anni della gioventù con Walter Veltroni, e poi renziano della primissima ora con l'ex presidente del Consiglio "lo appoggiai fin dalle primarie per il sindaco di Firenze'), con il quale stringe un lungo sodalizio che non lo porta però ad aderire ad Italia Viva. 

Capogruppo del Pd in Senato dal 2018 al 2021, in pratica fino all'arrivo di Enrico Letta alla segreteria dem, 'il mio rapporto con lui è stato franco, anche se in tante occasioni ho avuto prese di posizione diverse dalle sue', scrive Marcucci nel libro. 

Il parlamentare in 'Io sono liberale' ripercorre anche le radici imprenditoriali della sua famiglia, attiva nel settore farmaceutico e turistico, ed il suo attaccamento alla Valle del Serchio, dove è nato, e dove hanno sede le sue principali attività economiche, nel resort Il Ciocco.  

Marcucci racconta anche quando fu interrogato da Di Pietro durante Tangentopoli con l'accusa di aver finanziato il suo partito ed a causa di un suo ritardo, il giudice minacciò di arrestare i suoi dirigenti e familiari.

Tra i capitoli più attuali del libro, la ricostruzione minuziosa delle giornate che hanno riportato al Quirinale Sergio Mattarella ('promuovo Renzi, Berlusconi e Letta e considero pessima la gestione di Salvini e di Conte'), gli anni del Covid, la sconfitta del ddl Zan, e la fiducia verso Mario Draghi, un presidente del Consiglio di cui Marcucci ha molta stima e la cui agenda spera che resti a Palazzo Chigi anche dopo le elezioni. In sottofondo l'analisi postuma di tutti gli errori compiuti con il governo di Renzi, che Marcucci considera 'un'occasione mancata'.

Dagospia il 4 maggio 2022. Estratto del libro “io sono liberale” di Andrea Marcucci pubblicato da Piemme.

«L’avevo conosciuto proprio ai tempi in cui ero sottosegretario. Era rutelliano, ma fu proprio Rutelli a chiedermi di essere il suo interlocutore: “C’è il presidente della provincia di Firenze che mi chiede tre cose al giorno. Te ne occupi tu per favore?”.» 

«Appena lo sentii per la prima volta in pubblico intuii subito le sue potenzialità. Fui affascinato dalla sua energia, dalla capacità di mettersi in sintonia con l’ascoltatore, dalla sua audacia, dall’abilità di imporsi, di trascinare, di trasportare l’interlocutore sulle sue posizioni.»

Una folgorazione. Quel rapporto istituzionale – uno sottosegretario, l’altro presidente di provincia – diventa subito legame personale. «Nacque in breve tempo una stima reciproca. Io barghigiano, lui del contado fiorentino con radici culturali diverse: liberali le mie, cattoliche le sue. Si era fatto da solo, stava facendo un percorso, crescendo nella battaglia, non era un predestinato, non veniva “da una certa famiglia”. Dimostrava determinazione, capacità, volontà, spinta, vocazione. Vidi delle affinità, intuii che stava per accadere qualcosa di importante nel Pd e nella politica italiana.»

Il primo vero incontro politico è a Montecatini nel 2007. Si radunano i rutelliani della Toscana. Tra gli altri ci sono Andrea Marcucci, Ermete Realacci, Marco Carrai, Erasmo D’Angelis, Nicola Danti, Paola Binetti. «C’era una grande curiosità, un’enorme attenzione per questo ragazzo che decideva di correre per le primarie a sindaco di Firenze contro Lapo Pistelli, all’epoca considerato l’enfant prodige della politica toscana. Quella battaglia che pur all’inizio sembrava impossibile mi affascinò subito.»

Alla prima Leopolda si capì subito che qualcosa di importante stava per accadere. L’entusiasmo, la presenza, la voglia di esserci, un vero delirio. Non era un fuoco d’artificio, ma qualcosa che avrebbe toccato profondamente le corde della politica italiana.» 

Nel novembre del 2010 all’ex stazione Leopolda di Firenze Renzi e il consigliere regionale lombardo Giuseppe Civati vestono i panni dei rottamatori, con l’obiettivo di cambiare volto al Pd. Oltre cento interventi, tutti rigorosamente limitati a cinque minuti, ogni giorno almeno 2.000 presenti in sala. «Ad alcune edizioni della Leopolda sono andato con poca voglia, soprattutto quelle convocate nel periodo di governo, in alcuni casi ho rinunciato a intervenire. Quando un appuntamento diventa routine perde sia il pathos che la spinta. Ma quelle prime kermesse ebbero un grande successo. C’era energia, un’ondata di popolo, facce mai viste prima, tanti gio¬vani, gente che proveniva da tutta Italia a spese proprie. Chi derubrica la stagione renziana come priva di “sentiment” e tutta costruita artificialmente non ha vissuto quei momenti.» 

Momenti di confronto con esponenti dell’economia, della finanza e dello “star system”. Pochi i politici presenti, tra questi Roberto Giachetti, Debora Serracchiani, Ivan Scalfarotto, Davide Faraone, Matteo Richetti ed Ermete Realacci.(..) 

Mi ricordo il format originale, c’erano tante idee diverse.» “Prossima fermata Italia”, con la colonna sonora di David Bowie Heroes, è la prima tappa del processo di conquista del Pd. «Il “solco”, le radici e la storia del partito, tanto sbandierate dal segretario Bersani, non possono diventare una fossa» dice dal palco Renzi, che con Civati presenta la “Carta di Firenze”, una sorta di programma politico nazionale. Ma i due presto rompono sulla visita dell’allora sindaco di Firenze a casa Berlusconi ad Arcore. «Da una parte c’era l’apertura mentale di una nuova classe dirigente, in questo caso la capacità di distinguere dalle ideologie le funzioni istituzionali, perché è legittimo che un sindaco parli con un presidente del Consiglio in qualsiasi occasione; dall’altra lo schematismo quasi dogmatico che rimaneva in grande parte del Pd, quello per il quale con il nemico non si parla mai, meglio farci accordi sottobanco.»

Passano i mesi e la tensione interna sale, anche a causa della strategia renziana di utilizzare i social in un modo considerato dal Pd troppo aggressivo e provocatorio. «Al Senato continuavo a essere l’unico renziano del Pd. Nell’aula di Palazzo Madama avevo scelto il posto più in alto nell’emiciclo: ero isolato, anche fisicamente. Mi occupai di questioni legate alla cultura, alla scuola e cominciai a costruire un’area sul territorio e a mettere in atto un’operazione di supporto a Renzi in chiave parlamentare, convenni con lui che alla prima occasione utile si sarebbe tentata la scalata del Pd.»

I rapporti con Renzi diventano sempre più costanti. «Ogni iniziativa parlamentare era coordinata con lui. Nonostante alcune sfaccettature per me complicate da accettare che provenivano dalle sue radici lapiriane, mi ritrovavo perfettamente nella sua visione dei diritti, della libertà economica, sulla necessità di snellire e dare efficienza alla macchina dello Stato. Ho aderito sinceramente al suo progetto, il mio non è stato un calcolo. È stata una scelta politica e personale, una valutazione sui valori da lui espressi, fatta in un’epoca rischiosa. Non sono salito sul carro di Renzi vincente. Sono salito sul carro di Renzi che si stava avventurando in una scalata complicatissima dove tutti scommettevano sulla sua sconfitta.»

Alla seconda Leopolda, denominata “Big Bang” perché – questo lo slogan provocatorio – «i dinosauri non si sono estinti da soli», Renzi lancia le cento proposte per l’Italia online. Tanti maggiorenti Pd rifiutano di partecipare, anche perché vengono organizzati altri eventi per oscurare il meeting renziano. «Prendeva corpo all’interno del partito un’area che aveva una vocazione diversa in termini politici rispetto al passato.» Marcucci si fa latore di un appello a evitare scontri interni nel Pd e si rivolge soprattutto agli ex della Margherita, in primis a Paolo Gentiloni. Da una cena a casa di quest’ultimo nasce un documento firmato da dieci parlamentari: oltre ai nomi di Giachetti e Realacci, ci sono quelli di Pietro Ichino, Luigi Lusi, Luigi Bobba e Maria Paola Merloni. È il primo atto parlamentare a sostegno di Renzi. Una mossa per allargare il consenso. 

percorso della Margherita e anche con una sfida a calcio balilla. «Ero l’unico parlamentare del Pd al suo fianco e fui tra i pochissimi parlamentari alla presentazione della sua candidatura nel capoluogo toscano. Mi colpì la sua pretesa naturale di avere la leadership regionale del partito. Era un provocatore, mandò la sinistra nel panico.» 

Come? «Il Pd fece il gioco di Renzi e invece di puntare tutto su Pistelli decise di candidare un deputato storico della sinistra, Michele Ventura.» E poco importa se quest’ultimo in quel momento viene appoggiato da Francesco Bonifazi e Maria Elena Boschi che poi diventeranno renziani di ferro.

Secondo la regola delle primarie del Pd se nessuno raggiunge il 40% dei voti si va al secondo turno e i primi due si sfidano al ballottaggio. «Ma una parte dell’elettorato della sinistra decise di convergere su Renzi che vinse subito con un margine ristretto.» La carta è quella della discontinuità, anche contro il sindaco uscente Leonardo Domenici, combattere contro l’establishment del Pd in nome del rinnovamento. Renzi ottiene il 40,52%, vanno alle urne in 37.468. «Una grande prova di democrazia» commenta il segretario dem Veltroni.

Il 22 giugno 2009 Renzi con il 60% sbaraglia al ballottaggio il candidato del centrodestra, Giovanni Galli. Una settimana dopo raduna i fedelissimi a Palazzo Vecchio per un brindisi nel suo ufficio. Le prime parole sono all’insegna della modestia, ricordano i presenti: «Chissà cosa penseranno i Medici di chi ora occupa queste stanze…». Poi l’azzardo, la promessa riportata con queste frasi da chi c’era: «Siamo nel palazzo più bello del mondo, ma io vi dico di non abituarvi a questi arredi perché il prossimo palazzo in cui andremo è Palazzo Chigi». 

«Esco da quell’incontro allibito. Questo, mi dico, esagera, è un po’ matto. Era impossibile che un figlio di nessuno, senza ascendenze nobili, senza alcuna esperienza politica, avesse questa ambizione.» 

URSULA VON DER LEYEN. IL MAXI CONFLITTO D’INTERESSE CON IL MARITO HEIKO. PAOLO SPIGA su la Voce delle Voci il 7 Dicembre 2021.

Il presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen sta pensando seriamente alla possibilità dell’obbligo dei vaccini per tutti i cittadini UE.

La notizia è ormai nota da giorni. Ma ‘Affari italiani’ torna sull’argomento con dettagli di non poco conto.

Eccoli, in un servizio di Antonio Amorosi.

“Alcuni mesi fa Ursula von der Leyen è stata al centro della richiesta dell’ufficio del Difensore civico dell’Unione, Emily O’Reilly, di fare chiarezza sullo scambio di messaggi tra lei e l’amministratore delegato di Pfizer, Albert Bourla. Parliamo degli sms, mandati e ricevuti dai due durante i negoziati sulla fornitura alla UE di 1,8 miliardi di dosi del vaccino anti-covid. La questione è stata sollevata dal ‘New York Times’ che ha posto diverse domande, mai affrontate dai media in Italia. Gli sms rientrerebbero nel concetto di ‘documento’ previsti dal regolamento 1049/2001, il quale stabilisce che in caso di mancata diffusione pubblica i richiedenti possano rifarsi al Difensore civico. La Commissione europea ha ricevuto una richiesta di accesso sullo scambio di messaggi da un giurista olandese, Martijn Nouwen, ma ha presentato un diniego, sostenendo fossero stati tutti cancellati. Ogni mese, la Commissione europea cancella diverse migliaia di email e sms e i messaggi WhatsApp non vengono archiviati. Per questo il caso ha portato a una denuncia al Difensore civico che ha aperto un’indagine”.

Continua il report di ‘Affari italiani’: “Ma siamo ad un dejà vu a fronte di un precedente: già nel 2019 la von der Leyen fu criticata per un cellulare ‘ripulito’, ritenuto prova chiave di uno scandalo di appalti al ministero della Difesa tedesca che lei guidava (prima di diventare commissario UE, ndr) e che era molto prodigo di finanziamenti a società private. Il cellulare non conteneva più gli scambi di messaggi tra le persone coinvolte”.

Ma eccoci alla ‘polpa’: “In questo intreccio tra interessi medico-scientifici e politica è esploso in questi giorni in rete il capitolo riguardante il marito della von der Leyen. Heiko von der Leyen risulta infatti essere, come direttore medico, nel team di gestione di ‘Orogenesis’, azienda di biotecnologia americana specializzata in terapie cellulari e geniche: proprio le stesse tecnologie coinvolte nei vaccini a mRna utilizzate dalle più note case farmaceutiche contro il covid. Sarà un caso, ma sono le stesse su cui la moglie Ursula ha chiuso in fretta i contratti d’emergenza con Pfizer, al centro di numerosi dubbi e diatribe. Nel maggio 2020 ‘Orogenesis’ annuncia con grande enfasi a CNN Business una piattaforma di vaccini contro il covid-19: ‘la Società ha lavorato in modo aggressivo negli ultimi mesi per riutilizzare la sua piattaforma di vaccini cellulari mirati ai tumori solidi per l’uso contro malattie virali’”.

E Amorosi conclude: “Ovviamente in un’epoca di ‘vaccino o morte’ non è dai dubbi che arrivano le soluzioni. E neanche dalle domande che si aspetta la salvezza. Le parole del noto imprenditore francese Francois Ducrocq su twitter sintetizzano, in qualche modo, gli interrogativi che si pongono i lettori europei: ‘Ursula von del Leyen, il nostro principale acquirente di vaccini in centinaia di milioni di unità, ha un marito, Heiko, che gestisce Orogenesis, una società di biotecnologie specializzata in terapia genica. Così è più chiaro’”.

La Voce ha scritto, il 30 luglio scorso, una lunga inchiesta sulle decisioni UE griffate von der Leyen e il ruolo ricoperto dal marito Heiko nell’organigramma di ‘Orogenesis’: era titolata: “La miracolosa terapia M-RNA / Dai fasti di Pfizer e Moderna ai successi di Heiko von der Leyen”. E poi un articolo, il 23 settembre, titolato “Ursula von der Leyen / Riflettori puntati sui rapporti con Pfizer”, focalizzato sulle indagini avviate dal Difensore civico.

Ve ne riproponiamo, di seguito, la lettura. 

P.S. A proposito, quali esiti stanno avendo le indagini del Difensore civico? E non sarebbe il caso che di tutta la faccenda se ne occupasse – visti i colossali interessi in gioco – la magistratura? O, come al solito, sotto i     riflettori finiscono sempre i ladri di mele al supermercato? 

LA ‘MIRACOLOSA’ TERAPIA M-RNA. DAI FASTI DI PFIZER & MODERNA AI SUCCESSI DI HEIKO VON DER LEYEN.  Andrea Cinquegrani su la Voce delle Voci 30 Luglio 2021.

Affari stramiliardari per le star dei vaccini, Pfizer e Moderna, nei primi mesi di produzione e distribuzione. E business sempre più stratosferici già previsti per i prossimi. Un Eldorado senza fine, il vero Albero della Cuccagna miracolosamente germogliato nel giardino incantato di Big Pharma.

I dati parlano da soli. Vediamone alcuni in rapida carrellata. 

CIFRE DA CAPOGIRO 

Il colosso Pfizer-BioTech – il primo a tagliare il traguardo sulla scena internazionale tra i grandi produttori di vaccini – aveva subito previsto di realizzare ricavi, per il 2021, da 26 miliardi di dollari. Ebbene, quella previsione è già stata ritoccata sensibilmente verso l’alto, con un una montagna che raggiungerà quota 33 miliardi.

Secondo uno studio elaborato congiuntamente da ‘Oxfam’ ed ‘Emergency’, sia Pfizer cheModernariusciranno a farsi pagare dagli Stati, per i loro vaccini, la bellezza di 41 miliardi di dollari in più rispetto al costo di produzione. E pensare che le due aziende hanno addirittura ricevuto 8 miliardi di dollari come finanziamenti pubblici, che mai si sogneranno di restituire al mittente, nonostante la valanga di utili realizzati.

I costi di produzione, infatti, sono relativamente contenuti: poco più di un dollaro per dose, per la precisione 1,2 dollari. Ed invece, le due aziende le hanno vendute ad un prezzo 24 volte superiore, saccheggiando le casse erariali pubbliche.

L’Italia, ad esempio, ha sborsato oltre 4 miliardi di euro più del dovuto (rispetto, cioè al costo di produzione), che si sarebbero potuti investire per potenziare le terapie intensive (almeno 40 mila in più) e assumere nuovi medici (circa 50 mila). Invece no: il nostro governo – sulla base delle intese UE – ha preferito fare un bel cadeau a Pfizer e Moderna.

La Germania ha fatto anche di più, sganciando 5,7 miliardi di euro; molti di meno la Gran Bretagna, appena 1,8 miliardi di sterline, perché of course hanno preferito ricorrere all’anglo-svedese vaccino di AstraZeneca.

C’è poi la questione dei brevetti, sempre saldamente in mano alle star di Big Pharma, nonostante le ‘sceneggiate’ a livello UE e gli auspici di Papa Francesco. Secondo Oxfam, il costo della vaccinazione globale per debellare la pandemia potrebbe essere di 5 volte più basso se non continuasse ad imperare la perversa legge sui brevetti. Perfino dalla ‘London School of Economics’ – un tempio del capitalismo – nei giorni scorsi è arrivato un invito all’abolizione, anche se temporanea, dei brevetti. L’ennesima sceneggiata? 

LA PIU’ GRAVE SPECULAZIONE DELLA STORIA

Sottolineano Sara Albiani, policy advisor per la salute globale di Oxfam Italia, e Rossella Miccio, presidente di Emergency: “La scarsità mondiale dei vaccini è una diretta conseguenza del sostegno dei Paesi ricchi ai monopoli delle aziende farmaceutiche, che ad oggi non hanno fatto nessun reale passo in avanti per la condivisione di tecnologie, know how e brevetti con i tanti produttori che nei paesi in via di sviluppo potrebbero garantire l’abbassamento dei prezzi e l’incremento nella produzione mondiale”.

E aggiungono, in modo significativo: “Questo è forse il caso di speculazione più grave della storia. Le ingenti risorse che gli Stati sono costretti a pagare arricchendo Ceo e azionisti potrebbero essere utilizzate per costruire nuove strutture sanitarie nei Paesi poveri, tagliare le liste di attesa per le prestazioni mediche, garantire servizi essenziali dignitosi”.

Altro che prezzi più contenuti, in prospettiva! Perché la corsa forsennata al rialzo, fregandosene di tutto e di tutti, è già cominciata.

L’Unione Europea, ad esempio, ha già pagato (of course in anticipo) ancora di più per gli ultimi ordini da Pfizer-BionTech. E tutto peggiorerà con le dosi di richiamo per i prossimi anni a causa delle nuove varianti, che porteranno altri fiumi di danari nelle casse aziendali.

Albert Bourla

Il Ceo di Pfizer, il veterinario greco Albert Bourla, che il giorno del grande annuncio del primo vaccino brevettato corse in banca a vendere un bel pacchetto di azioni a 10 volte tanto, già gongola e calcola sul pallottoliere che si potrà arrivare fino ad un prezzo di 175 dollari per dose/vaccino, praticamente 150 volte il costo di produzione. Un vero miracolo industriale!

Denuncia, ovviamente nel deserto, Oxfam: “Mentre meno dell’1 per cento delle persone dei Paesi a basso-medio reddito è stata vaccinata e le varianti corrono, i Ceo di Moderna ePfizer-BionTech con i profitti realizzati sono diventati miliardari”.

Ma eccoci alla ciliegina finale. 

L’IRRESISTIBILE ASCESA DI HEIKO VON DER LEYEN

Sapete qual è la professione e in quale settore lavora da anni il marito della presidente della Commissione europea, Ursula von del Leyen?

Il consorte, Heiko von der Leyen, è attualmente il direttore medico di ‘Orogenesis’, una grande società biotecnologica americana specializzata in terapia genica. Una sigla che, naturalmente, ha lavorato e lavora a stretto contatto con Pfizer.

“Terapie geniche sono state trovate in vaccini sperimentali contro il covid”, scrive uno dei più noti giornalisti francesi, Pierre Depo.

Heiko von der Leyen con la moglie Ursula

Incalza l’economista e imprenditore transalpino Francois Ducrocq: “Ursula von del Leyen, la nostra principale acquirente di centinaia di milioni di dosi di vaccini, scopre di avere un marito, Heiko, che gestisce Orogenesis, un’azienda biotecnologica specializzata in terapia genica. Ora tutto è diventato chiaro”.

In passato, l’illustre consorte ha ricoperto la carica di direttore del Centro di sperimentazione clinica ad Hannover. E a partire dal 1999 ha cominciato ad assumere posizioni di top management nell’industria biotecnologica, con particolare attenzione allo sviluppo clinico di medicinali per terapie avanzate (ingegneria tissutale, terapia genica, medicina del DNA). Nel biennio 2003-2004 è stato Chief Scientific Officer alla ‘Avontec GmbH’ di Monaco. Dall’ottobre 2005, poi, socio e amministratore delegato della ‘Hannover Trial Center GmbH’. Fino agli odierni successi sotto i vessilli della statunitense Orogenesis. 

MALONE MUORE?

Non siamo entrati nel regno di Samuel Beckett e dei suoi misteri, ma in altrettanto misteriose zone d’ombra. Come quelle che oggi circondano

l’inventore del vaccino mRNA e della cosiddetta ‘terapia genica’, il dottor Robert Malone.

Oggi Malone è stato costretto ad ingaggiare un team per la sua sicurezza, a causa delle minacce di morte ricevute. E ha ritenuto opportuno dichiarare: “Non ho alcuna intenzione di togliermi la vita”. Tanto per far capire a chi, con ogni probabilità, deve capire.

Nel corso degli ultimi mesi Malone ha acceso i riflettori e puntato l’indice – soprattutto nel corso di alcune seguite trasmissioni tivvù- contro l’uso dei nuovi vaccini mRNA. Le sue esternazioni hanno prodotto una reazione a catena: cancellati i suoi video da You Tube e addirittura il suo profilo da Wikipedia, come viene descritto nell’articolo che segue, firmato da Joseph Mercola.

Robert Malone

Insomma, un ostracismo che più totale non si può, per delegittimare al punto giusto la figura di uno scienziato che, meglio di tutti, conosce i ‘misteri’ legati ai vaccini mRNA, essendone l’inventore.

Un po’ come è successo con Luc Montagnier, il premio Nobel per la Medicina che ha scoperto l’HIV. Un anno fa ha subito indicato la pista della fuga del virus in modo ‘artificiale’ (e non naturale, come sbandierato dal mainstream) dal laboratorio di Wuhan ma è stato fatto passare per matto. Attaccato, poi, perché ha sempre consigliato prudenza e cautela massime nell’uso dei vaccini tradizionali: figurarsi per quelli, addirittura sperimentali, anti covid.

Ma torniamo a Malone. Il quale ha dichiarato, nella sua ultima apparizione televisiva negli States: “I vaccini sono il mio lavoro. Non sono un anti-vaxer. Sono uno sviluppatore di vaccini pro-verità, pro-sicurezza, pro-bioetica. I vaccini salvano delle vite. Sono spesso, ma non sempre, la nostra migliore speranza per ridurre la morte e le malattie associate a molti agenti patogeni, e offrono una speranza per trattare il cancro e altre malattie”.

E sul fronte dei vaccini Pfizer e Moderna, bastati sulla terapia genica. afferma: “Entrambi questi tipi di vaccini impiegano tecnologie che implicano il trasferimento di materiale genetico estraneo nelle cellule della persona che riceve il vaccino, e facendo sì che queste cellule diventino essenzialmente fabbriche in miniatura per la produzione di antigeni del vaccino, all’interno del corpo. Perché questo è importante? Perché, dal mio punto di vista di persona che per prima ha avuto l’idea di usare la ‘terapia genica’ e la ‘consegna di mRNA’ per la vaccinazione, la sostanza attiva nel farmaco non è il vettore della terapia genica, è la proteina che viene introdotta nelle vostre cellule”. 

Giuseppe De Donno

Prosegue il ragionamento dello scienziato: “Quindi, dal punto di vista della FDA/regolamentazione, questi prodotti devono essere rivisti utilizzando i regolamenti applicati ai prodotti di ‘terapia genica’ così come quelli che si applicano ai vaccini. Questi – sottolinea – non sono vaccini tradizionali. Pertanto, la Food and Drug Administration avrebbe dovuto insistere che i livelli e la durata della produzione della proteina spike avrebbero dovuto essere ben caratterizzati”.

Dopo questo intervento, altre minacce di morte.

Chi tocca i ‘fili’ di Big Pharma rischia di restarci secco.

Forse come è successo al dottor Giuseppe De Donno, colpevole di aver scoperto la terapia del ‘plasma iperimmune’, tanto efficace quanto economica e utilizzabile per fronteggiare in modo immediato il covid al suo primo insorgere. 

URSULA VON DER LEYEN. RIFLETTORI PUNTATI SUI RAPPORTI CON PFIZER. Cristiano Mais su la Voce delle Voci il 23 Settembre 2021. 

Il Difensore civico dell’Unione Europea, Emily O’Reilly, chiede chiarezza sullo scambio di messaggi intercorso tra la presidente della Commissione UE, Ursula von der Leyen, e l’amministratore delegato di Pfizer, Albert Bourla.

Il caso è scoppiato dopo un articolo del ‘New York Times’ che ad aprile scriveva di un fitto scambio di messaggi e telefonate tra i due. Quando il quotidiano ha presentato richiesta di accesso ai messaggi, vi è visto opporre un secco no dalla Commissione europea, che ha laconicamente risposto di “non averne traccia”.

Il rifiuto della Commissione ha portato ad una denuncia al Difensore civico, noto storicamente come l’Ombudsman, il cui ufficio ha aperto una indagine ad hoc.

Non è nuova, lady von der Leyen, a ‘incidenti’ del genere: nel 2019 venne pesantemente criticata per una anomala ‘ripulitura’ di un suo cellulare che, secondo non pochi, conteneva messaggi scottanti in tema di appalti,   quando ricopriva la carica di ministra alla Difesa tedesca.

Non proprio trasparenti, del resto, i rapporti del marito, Heiko von der Leyen – ai vertici di una importante società statunitense che si occupa di biotecnologie – con il colosso farmaceutico Pfizer, l’asso vincente nel   dorato e arcimiliardario Bingo dei vaccini.

E ancora: non del tutto trasparente (e quindi ancora tutto da approfondire) il comportamento tenuto dalla von der Leyen nella complessa contrattazione con le star dei vaccini (tra cui la solita Pfizer)  per la fornitura dei prodotti: contratti spesso e volentieri capestro per la UE e quindi per tutti i paesi rappresentati.

Adesso arriva la tegola dell’Ombudsman. Che vuol vederci chiaro nei messaggini intercorsi tra la ferrea (sic) Commissaria e il Ceo Burla, un veterinario greco che il gran giorno dell’annuncio al mondo del primo vaccino anti covid è corso in banca per vendere un bel gruzzolo di azioni Pfizer per guadagnarci 10 volte tanto.

Nella sua ultima comunicazione, Emily O’Reilly scrive che “è necessario” che il suo team di inchiesta incontri i funzionari e ottenga una spiegazione circa “la politica della Commissione sulla tenuta dei registri dei messaggi di testo e su come questa politica venga attuata”. Il Difensore civico, a quanto pare, insisterà anche sulla possibilità di ottenere i testi dei messaggi.

Verrà fatta luce su questo episodio, emblematico di rapporti ‘incestuosi’ tra i vertici UE e le star di Big Pharma?

Gianluca Veneziani per “Libero quotidiano” il 2 aprile 2022.

Vogliamo considerarlo un sintomo positivo: gli italiani erano talmente documentati sul Covid e ne conoscevano a menadito le pericolosità, che non avevano bisogno di approfondire la questione sui libri. Fatto sta che la ricca bibliografia sulla pandemia fiorita in questi due anni in Italia non ha generato, volendo usare un eufemismo, dei successi editoriali. 

In occasione della fine dello stato di emergenza, ci pare giusto fare una rassegna dei tanti saggi pubblicati sul tema, firmati perlopiù dai virologi, e cercare di comprendere il perché non abbiano sfondato sul mercato letterario.

Grazie alla società Nielsen Bookscan, ci siamo procurati i dati di vendita dei principali testi pubblicati sul coronavirus a partire dal 2020: i risultati sono poco confortanti per gli autori, sebbene essi siano ormai volti noti della tv. 

In particolare i saggi pubblicati nell'ultimo anno registrano numeri deludenti, quasi che l'oggetto Covid abbia perso l'effetto novità. Il libro più performante tra quelli da noi presi in esame è quello di Ilaria Capua che nel maggio 2020, alla fine della prima ondata, ha dato alle stampe Il dopo. Il virus che ci ha costretto a cambiare mappa mentale (Mondadori): per lei 17mila copie, numero significativo se si pensa anche alla prudenza dei cittadini nel tornare in quel periodo in luoghi pubblici come le librerie.

Anche un altro libro scritto nel cuore della prima ondata, quello di Roberto Burioni del marzo 2020, Virus, la grande sfida (Rizzoli) si è difeso discretamente con 12mila copie. A distanza di tempo dallo scoppio della pandemia i riscontri di vendite peggiorano di molto: la stessa Capua nell'ottobre 2021 ha pubblicato La meraviglia e la trasformazione verso una salute circolare (Mondadori), che si è fermato a 5.000 copie vendute; mentre la sua opera di divulgazione per ragazzi intitolata Il viaggio segreto dei virus (DeAgostini), edita a inizio 2021, si è attestata sulle 7.000 copie.

Un processo analogo di progressiva perdita di interesse dei lettori per il tema riguarda un altro nome ultranoto, Matteo Bassetti. Nel novembre 2020 l'infettivologo genovese pubblicava con Martina Maltagliati Una lezione da non dimenticare. Cronaca della battaglia per sconfiggere il Covid-19 senza panico, né catastrofismo (Cairo) e strappava sul mercato 6.000 copie. Più di un anno dopo il suo libro Il mondo è dei microbi. La nostra battaglia contro i nemici invisibili (Piemme), scritto sempre con la Maltagliati, si fermava a sole 3.000 copie.

Destino simile a quello dell'immunologa Antonella Viola che nel maggio 2021 con Danzare nella tempesta.Viaggio nella fragile perfezione del sistema immunitario (Feltrinelli) raggiungeva una platea di 15.000 acquirenti; andava molto meno bene il suo libro del settembre 2021, destinato a un pubblico di ragazzi e scritto insieme a Federico Taddia, Virusgame. Dall'attacco alla difesa, come si protegge il corpo umano (Mondadori), che non superava le 1.000 copie. Soglia critica, quella del migliaio di copie, che non è stata superata da tanti nomi della virologia. 

Al limite dei mille si sono dovuti arrendere Maria Rita Gismondo con Ombre allo specchio. Bioterrorismo, infodemia e il futuro dopo la crisi (La nave di Teseo), Giovanni Rezza con Epidemie. I perché di una minaccia globale (Carocci) nella sua nuova edizione, Andrea Crisanti con Caccia al virus (Donzelli), scritto con Michele Mezza, e Walter Ricciardi con Pandemonio (Laterza). Forse però, a fare più notizia, è il risultato fiacco dell'ex commissario straordinario all'emergenza, il generale Francesco Paolo Figliuolo, che ha scritto con Beppe Severgnini Un italiano.  

Quello che la vita mi ha insegnato per affrontare la sfida più grande (Rizzoli), inchiodato finora a 2.000 copie vendute. A spiegarci le motivazioni del mancato boom dei libri dei virologi è Andrea Gentile, direttore editoriale de Il Saggiatore, casa editrice che ha scelto di non pubblicare libri sul Covid, in quanto «storicamente un marchio come il nostro lavora più sul futuro che sul presente». Il primo motivo del fiasco, ci dice, è che «testi relativi all'attualità rischiano di essere vecchi già nel momento in cui vengono pubblicati. Una pandemia è un fenomeno in continua evoluzione, difficile fotografarla nella sua complessità mentre è in corso». 

 Altro motivo riguarda il metodo in cui questi libri sono stati scritti, ossia lo stile di scrittura e «la logica dell'instant book che prevede una produzione veloce ma anche un consumo rapido» e quindi un esaurimento a breve termine dell'interesse per quel testo. C'è poi da considerare la questione della «saturazione dei lettori, già bombardati da notizie sul Covid, che, quando dovevano dedicarsi alla lettura, preferivano cercare altro». 

Da ultimo, ci spiega Gentile, «non sempre il libro di una personalità nota ha automaticamente successo; né la visibilità mediatica coincide necessariamente con la capacità di produrre bestseller o longseller». Ciò detto, è bello sapere che, di libri sul Covid, ne vedremo sempre meno sugli scaffali delle librerie. E non solo perché vendono poco, ma soprattutto perché, per fortuna, anche il Covid fa meno paura ed è diventato meno interessante.

Dagospia il 20 dicembre 2022.   DAL PROFILO FACEBOOK DI CAROLINA PELLEGRINI LA COMPAGNA DI FABRIZIO PREGLIASCO

Oggi scrivere qualcosa che abbia un senso compiuto per me è complicato

È complicato per mille ragioni

Persino per una come me che nell'immaginario ha le spalle larghe

Le spalle larghe le ho

Anche solo a guardarmi fisicamente ci sta

Ma il cuore e la ragione hanno dei contraccolpi significativi

La politica è stata per me una parte significativa della mia vita

E continuerà ad esserlo perché dovrei farmi una violenza inaudita cancellarla dalla mia quotidianità

Poi ci sono gli imprevisti

E con gli imprevisti ci devi fare i conti

C'è chi se li fa serenamente

C'è chi fa più fatica

E allora devo metabolizzare l'imprevisto

A casa mia

E poi a,bocce ferme, ne diro'

Sempre e comunque per la libertà ed il rispetto

Notte combattenti!

Da huffingtonpost.it il 20 dicembre 2022.

"Ho parlato a lungo con Pierfrancesco Majorino. Ci ho pensato su un po' di tempo e alla fine ho deciso: mi candido a consigliere regionale della Lombardia nella lista civica del candidato presidente del centrosinistra". Fabrizio Pregliasco è uno dei virologi più celebri d'Italia e, dopo altri scienziati - su tutti Pier Luigi Lopalco in Puglia e Andrea Crisanti che oggi è senatore - scende nell'agone politico. 

Il direttore sanitario del Galeazzi - Sant'Ambrogio sfiderà come capolista, dalla parte di Majorino, sia Letizia Moratti che Attilio Fontana. "Ho sempre votato il centrosinistra" dice in un'intervista al Corriere della Sera, sottolineando come invece la moglie, Carolina Pellegrini, sia stata "per un periodo assessore con Formigoni in Regione Lombardia". Pregliasco afferma che "la risposta della sanità lombarda alla pandemia è stata buona, soprattutto grazie al sistema ospedaliero. C'è da cambiare molto però, partendo dal buono che c'è". Tanti eroi nella sanità, ma "tolte le parole, la loro condizione lavorativa non è cambiata in meglio, anzi".

Quanto al Governo Meloni, "ha preso provvedimenti improntati a un liberi tutti forse eccessivo, che sembrano dettati da una certa attenzione al mondo no vax. Ha potuto prenderli, e questa finora è stata la fortuna sua e di tutti, grazie ai progressi che sono stati fatti soprattutto con la vaccinazione".

Pregliasco e gli altri: quando i virologi scendono in politica. Ma Bassetti attacca: sono tutti schierati a sinistra. Redazione Politica su Il Corriere della Sera il 19 Dicembre 2022.

Da Capua a Crisanti, quella del candidato in Lombardia è solo l’ultima scelta di colleghi che corrono per le elezioni. E scoppia la polemica con il medico genovese

È l’ultimo, per ora, di una folta schiera: il virologo Lorenzo Pregliasco ha scelto di candidarsi alle prossime Regionali — come ha annunciato in un’intervista al Corriere — sostenendo la corsa a governatore di Pierfrancesco Majorino. Quella di Pregliasco è una strada condivisa da diversi colleghi virologi, diventati volti mediatici durante la pandemia.

Come Pregliasco ha scelto il centrosinistra Andrea Crisanti, che si è candidato alle Politiche con il Pd ed è stato eletto al Senato. Il medico romano ha corso come capolista nella circoscrizione Estero, in Europa, con i dem ottenendo 33.075 preferenze. Male, invece, è andata all’ex assessore della Sanità pugliese, Pier Luigi Lopalco. Il virologo, che già da anni è impegnato in prima persona in politica, è stato candidato dal centrosinistra all’uninominale di Lecce per Palazzo Madama, ma non è stato eletto, venendo superato dal leghista Roberto Marti.

La scelta di Pregliasco crea però polemica. «Pregliasco, Crisanti e Lopalco si sono candidati alle elezioni e gli faccio i migliori auguri. L’ho fatto con Crisanti, con Lopalco e oggi faccio gli auguri a Pregliasco. Certo è che i virologi sono tutti schierati dalla stessa parte, a sinistra», dice Matteo Bassetti. Il direttore della Clinica delle malattie infettive del San Martino di Genova prosegue: «Massimo Galli ma anche Antonella Viola non hanno mai nascosto le loro simpatie verso quella parte politica. Io orgogliosamente ho sempre detto di aver votato centrodestra. Dopo di che io ho fatto un scelta di coerenza che è quella di continuare a fare il medico stando dalla parte dei pazienti e dei miei studenti. A chi invece ha deciso di candidarsi e di fare politica gli auguro i migliori successi».

In realtà già prima della pandemia il rapporto tra i virologi e i palazzi della politica era stretto. Basti pensare al caso di Ilaria Capua: la virologa è stata deputata dal 2013 al 2016, candidata in Veneto come capolista per Scelta civica. Nel 2016 si è dimessa e si è trasferita in Florida, lasciando l’attività politica.

È partita la caccia dei virologi alla candidatura politica: gli esperti supplicano i partiti. Arnaldo Magro su Il Tempo il 02 aprile 2022.

Nonostante la smentita dei virostar, tenetevi comunque pronti ad ogni eventualità. Non è da escludere che qualcuno di loro non voglia metter davvero il «faccione» anche in politica. In realtà pare che siano più loro a corteggiare (per non dire supplicare) i partiti che non il contrario. Anche perché i partiti scappano, visto l’indice di gradimento dei virologi tv, pari oggi allo zero. In vista delle politiche pare abbia intenzione di candidarsi seriamente un giornalista dal cognome importante. Un pezzo da novanta che il pubblico televisivo di Mediaset conosce bene.

Francesco Bonazzi per “la Verità” il 2 aprile 2022.

Del virologo, ormai, non si butta via niente. Specialmente la notorietà. Dopo le tante voci di candidature in arrivo per i vari Bassetti, Viola, Pregliasco e Ricciardi, alle comunali di Padova spunta in una lista di sinistra Giulio Crisanti, figlio del possidente patavino Andrea, direttore del dipartimento di Microbiologia e fresco proprietario del famoso villone seicentesco di Val Liona, nel Vicentino. Mentre Giorgio Palù, presidente dell'Agenzia del Farmaco, dopo un piccolo giallo sulla sua candidatura, sempre a Padova, ha fatto un endorsement per Francesco Peghin, schierato dal centrodestra. A un anno dal bersaglio grosso, le prossime elezioni politiche, come inizio non è niente male.

Sarà che l'epidemia cinese è in netto calo, oppure che c'è la guerra in Ucraina e passare dal camice alla divisa non è sempre facilissimo, ma per le virostar arriva il momento di decidere che fare dell'improvvisa fama conquistata con il Covid.

Qualcuno di loro, forse, tornerà ai suoi studi e, se non vincerà il Nobel per la medicina, magari inonderà le banche dati internazionali di studi innovativi sui virus di oggi e di domani. Ma altri sembrano tentati da un altro virus come quello della politica, o almeno di quella fatta con le telechiacchiere sull'universo mondo e ospitate 365 giorni l'anno.

A Padova si vota il 12 giugno. Mettendosi la mascherina, naturalmente. In una lista di sinistra che appoggia il sindaco uscente Sergio Giordani, ieri è spuntato Giulio Crisanti, 23 anni, già dottorando di Fisica e astronomia all'università di Padova. Il padre Andrea ha raccontato ieri a Rai radio1 di averlo saputo poche ore prime, praticamente per caso, dai rappresentanti di lista. Ma ci ha tenuto a dire che «con lui la lista si arricchisce di una persona di grande qualità e rigore morale». Senza nulla togliere al giovane, e al suo impegno politico, un cognome da virostar sulla scheda potrebbe aiutare assai. 

Sul fronte del centrodestra, sempre a Padova, si è a lungo parlato di un'altra possibile candidatura nata in laboratorio come quella di Giorgio Palù. Il presidente dell'Aifa ha probabilmente ricevuto delle offerte per fare il sindaco, ma alla fine ha deciso di limitarsi ad appoggiare pubblicamente Peghin, presidente degli industriali padovani. 

Chi invece ha smentito seccamente qualunque coinvolgimento politico è Antonella Viola. «Non sono candidata in nessuna lista e resto a servizio della città, del Paese e della scienza», ha annunciato via Facebook l'immunologa, senza badare ai paroloni. Viola ha comunque da fare parecchio anche come scrittrice, visto che sta presentando in giro il suo secondo libro Il sesso è (quasi tutto). Evoluzione, diversità e medicina di genere (Feltrinelli). 

Il problema è che le scadenze elettorali ravvicinate sono poche e locali, ma nella primavera 2023 si devono rinnovare le Camere. Lo scorso 14 febbraio, un altro teleprezzemolino Covid come Fabrizio Pregliasco ha risposto a una domanda diretta di «Un giorno da pecora» (Rai radio 1) così: «Chi lo sa, non ci avevo davvero mai pensato, non ho idea, in questi casi si dice "mai dire mai"...». Identica risposta aveva dato il genovese Matteo Bassetti, pochi giorni prima, sempre in radio. Bassetti non ha mai nascosto di essere di idee liberali e dopo le minacce ricevute da alcune teste calde contrarie al vaccino è stato difeso da Giovanni Toti, presidente della Liguria e leader di Cambiamo! 

Un'altra stella della lotta al Covid come Walter Ricciardi, consulente ascoltatissimo di Roberto Speranza, non ha mai fatto mistero di essere molto meno a sinistra del suo ministro. L'ex capo dell'Istituto superiore di Sanità ha la tessera di Azione, il movimento di Carlo Calenda, dopo che nel 2013 si era candidato senza fortuna con Luca Di Montezemolo. Ricciardi ha già detto che non si candiderà più, ma questo, com' è noto, non gl'impedirebbe di fare direttamente il ministro. Sempre in quota Bella gente.

Covid, quanto guadagnano (e chi sono) i virologi "star" della tv. Alessandro Ferro il 26 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Presenti per due anni durante la pandemia Covid-19, i virologi sono diventati parte integrante della quotidianità in tv. Ma quanto guadagnano? Ecco i loro compensi.

Dopo due anni in compagnia della pandemia Covid-19 ormai sappiamo tutto di loro, dalla vita privata alle loro abitudini quotidiane: sono i virologi, epidemiologi ed esperti di Sars-Cov-2 che vediamo apparire in decine di trasmissioni televisive da mattina a sera. Come dimenticare, per esempio, gli auguri di Natale del trio Crisanti-Bassetti-Pregliasco che ci avevano cantato il loro "si si vax, vacciniamoci". Al di là della nota di colore, in molti si saranno chiesti quale sia il loro guadagno vista la presenza fissa in alcuni programmi.

Qual è il cachet

Molti di loro, per gestire le richieste del mondo televisivo e riuscire a svolgere le loro attività quotidiane senza dover stare sempre al telefono, hanno dovuto rivolgersi ad agenzie di comunicazione che si occupassero di riempire la loro agenda e "piazzarli" nei vari talk. Attenzione, in molti casi alcuni di loro riescono a gestire entrambe le manzioni decidendo in autonomia se e quando partecipare a qualche "salotto" in tv ma, ad esempio, i virologi Roberto Burioni, Roberto Battiston e Ilaria Capua sono seguiti dall'agenzia Elastica. Andiamo al succo: quanto guadagnano per ogni apparizione, breve o lunga che sia? Secondo quanto scritto da Repubblica, si va dal semplice "gettone" di presenza da 300 euro per brevi e fugaci interventi a 2mila euro se l'esperto interviene per l'intera puntata.

Da Burioni a Galli, ecco i volti tv

Tra i volti più noti, ad esempio, c'è Roberto Burioni, ospite fisso nel programma di Fazio "Che tempo che fa": il virologo, secondo fonti, avrebbe un contratto d'esclusiva non direttamente con la Rai ma con la società esterna che produce la trasmissione. Infatti, molto raramente rilascia interviste ai quotidiani: le uniche volte che afferma qualcosa lo fa tramite i suoi profili social. Tra i volti più conosciuti e "fissi" in tv c'è Matteo Bassetti, direttore della Clinica di Malattie infettive del Policlinico San Martino di Genova, che ad AdnKronos ha appena dichiarato di non aver "mai percepito nessun compenso" per essere ospite di trasmissioni televisive. "Lo ribadisco: non un singolo euro, anzi ci ho anche rimesso molto della mia vita privata e della mia tranquillità visto che i collegamenti li ho fatti la sera nel mio tempo libero".

Nessuna certezza sul cachet di Ilaria Capua, direttrice del Centro di Eccellenza One Health in Florida, che ha affidato l’agenda di interviste e interventi dal centro satellitare dell’università americana al suo agente. La virologa apparsa quasi esclusivamente sulle trasmissioni in onda su La7 non disegnando, di tanto in tanto, qualche intervista anche con alcuni quotidiani sull'andamento della pandemia. Stessa rete anche per la direttrice dell'Istituto di ricerca pediatrica Città della Speranza, Antonella Viola, ospite fisso con un gettone per la sua attività di divulgazione.

Crisanti, tra ville e politica

Tra gli esperti più discussi c'è senz'altro Andrea Crisanti, direttore del Dipartimento di medicina molecolare dell'università di Padova, balzato di recente agli onori delle cronache per aver acquistato una villa del '500 e aver dichiarato di non escludere un futuro impegno in politica. A Repubblica, però, ha dichiarato di non aver "mai fatto comparsate a pagamento" precisando che, "per evitare situazioni equivoche, mi sono imposto di non guadagnare neanche un quattrino con la pandemia. Mai preso soldi per il Covid". Massimo Galli, infettivologo dell’ospedale Sacco di Milano, non più tardi di qualche settimana fa ha affermato di partecipare gratis alle ospitate in tv e di non avere alcun agente. Carriera politica, invece, per il consulente di Speranza, Walter Ricciardi, che fa parte del partito Carlo Calenda, Azione. Questo tipo di carriera non è esclusa nemmeno dal Prof. Bassetti e Pregliasco mentre il prof. Alberto Zangrillo, medico personale di Berlusconi, è il presidente del Genoa calcio.

 La replica di Bassetti alle accuse di essere pagato per andare in tv. Giampiero Casoni il 26/02/2022 su Notizie.it.

Dopo le polemiche sui virologi star del piccolo schermo "a gettone" arriva la replica di Matteo Bassetti alle accuse di essere pagato per andare in tv. 

La replica di Matteo Bassetti alle accuse di essere pagato per andare in tv è durissima e senza possibilità di equivoco: lui non ha mai preso un centesimo per andare a parlare di lotta al covid. L’infettivologo dell’ospedale San Martino di Genova ha negato di aver mai percepito alcun compenso per le sue ospitate e lo ha fatto con fermezza.

Ha detto Bassetti all’AdnKronos: “Mai percepito nessun compenso per essere ospite di trasmissioni televisive”. E poi: “Lo ribadisco: non un singolo euro, anzi ci ho anche rimesso molto della mia vita privata e della mia tranquillità visto che i collegamenti li ho fatti la sera nel mio tempo libero“. 

Insomma,  le polemiche sui compensi ai cosiddetti “virologi superstar” a Bassetti proprio non lo riguardano.

“Questi due anni li ho presi come spirito di servizio, visto che il mio lavoro è anche quello di professore universitario e un docente ha anche la terza missione ovvero parlare alla gente. E quale strumento migliore della tv per parlare alle persone di una pandemia?. L’ho fatto spiegando il virus e cosa fare per affrontarlo“. 

“Nessun intervento dell’Ordine, siamo professionisti”

Poi Bassetti ha chiosato: “Non percepirò nessuno compenso e non credo che l’Ordine dei Medici debba intervenire, siamo professionisti e uno nel proprio tempo libero fa quello che vuole”.

E ancora, ribadendo però che lui non ne ha mai presi: “Se si prendono compensi sono leciti, fa parte della possibilità che uno ha di prendere un gettone”.

Remuzzi: «Ho un rimorso che mi porterò dentro per sempre, noi scienziati abbiamo una enorme responsabilità nel disastro di questi due anni».  Marco Imarisio su Il Corriere della Sera il 21 febbraio 2022.

Il direttore dell’Istituto Mario Negri: «Il giorno migliore? Il via ai vaccini».

Giuseppe Remuzzi ha il rimpianto più grande in bella vista sulla scrivania.

«È una copia dello studio pubblicato il 24 gennaio del 2020 su Lancet. Gli autori erano un gruppo di colleghi cinesi che avevano studiato i pazienti infettati da un nuovo Coronavirus a Wuhan. Diceva già tutto quel che sarebbe successo. Dall’infezione che causava focolai di malattie respiratorie, alla terapia intensiva, fino all’alto tasso di mortalità».

Quale fu la sua reazione dopo averlo letto?

«Quella che ebbero tutti: chissà se è vero, e comunque non arriverà mai da noi. Non ci abbiamo creduto. Anche se avanzatissima a livello medico, la Cina continua a essere lontana».

Le pesa ancora?

«È un rimorso che mi porterò dentro per sempre. La comunità scientifica, della quale faccio parte, ha una enorme responsabilità nel disastro di questi due anni. Quando i parenti delle vittime e le persone colpite dal virus chiedono di identificare i responsabili di quel che è andato storto, beh, ci siamo anche noi».

Cosa avreste potuto fare?

«Nel giro al massimo di settantadue ore avremmo dovuto dare vita a una mobilitazione, avvertire le autorità, fare sentire la nostra voce, parlare con i singoli ricercatori. Invece, abbiamo perso tempo, abbiamo perso almeno quelle quattro settimane che poi furono fatali alla mia Bergamo».

Ha mai perso la speranza?

«A un certo punto, dissi a uno dei miei più cari amici: qui moriamo tutti. Sembra una esagerazione, con il senno di poi. Ma così ci si sentiva a Bergamo in quei giorni».

Cosa la angosciava di più?

«La lotta in apparenza vana dei giovani medici del Papa Giovanni XXIII di Bergamo, il mio ospedale, che avevo appena lasciato. Tutti, nefrologi, dermatologi, ortopedici, chiamati a un combattimento estremo, fare respirare i pazienti. Io so cosa vuole dire fare due notti di fila in ospedale. Quando sei stanco, e speri solo che non arrivi un altro paziente. Invece le sirene suonavano in continuazione, non finiva mai».

Temeva anche per la sua vita?

«Ho avuto paura, sì. Fin da subito mi convinsi che fosse fondamentale non perdere i primi giorni dopo il contagio. Cominciai a dormire con due antinfiammatori, sul comodino. Li ho presi un sacco di volte, appena avvertivo qualche fastidio, oppure se ero stato vicino a persone contagiate».

Come reagì?

«In quei giorni, cominciai a pensare se c’era un modo per curare le persone a casa. Senza mandarle in ospedale. C’era tanto materiale da studiare. Tutti i medici del mondo misero a disposizione le loro conoscenze per applicarle al virus. Prima della pandemia, non si era mai collaborato in modo così stretto. Questo impressionante sforzo collettivo è una delle poche cose di questi anni pandemici che andrebbero salvate».

La celebre Atalanta-Valencia disputata a San Siro il 19 febbraio fu la bomba che fece esplodere il contagio?

«A quella partita, io c’ero».

Prego?

«Pensi che non andavo allo stadio da vent’anni, e non ci sono più tornato dopo. Un nostro fornitore aveva biglietti omaggio e ci teneva molto che andassi con lui e gli altri ospiti. Partimmo insieme da Bergamo, su un pullmino. La cosa incredibile è che durante il viaggio, mi chiese di fare un piccolo discorso su questa malattia misteriosa si cui si parlava tanto. Mentre stavo entrando in un focolaio di massa. In uno stadio con dentro 44mila persone. Ero seduto accanto a un sacerdote bergamasco, grande intenditore di calcio. A ogni gol, e ne segnammo quattro, mi abbracciava».

Mentre cominciava a studiare il virus, andò nel posto più sicuro per prenderlo?

«Poco tempo dopo chiesi al mio ospite quante persone del nostro gruppo si fossero ammalate. Zero. Questo non toglie che avrei potuto contribuire a quell’onda di ricoveri che ben presto avrebbe travolto i miei medici. Racconto questa vicenda per dire come nonostante le conoscenze tecniche che stavamo immagazzinando, eravamo ben lontani da una corretta percezione della realtà. Dopo, è facile per tutti fare i professori. Ma quella sottovalutazione generale rimane l’errore più grande».

Altre cose che non rifarebbe?

«Non accetterei più l’invito a quei talk show in cui chiamano te, un no vax, due politici, tre influencer, e ti fanno dire una cosa in un minuto, tra decine di voci dissonanti. Non mi piace niente di quel formato, perché non si parla davvero. E si contribuisce solo a diffondere disinformazione».

Il documento del giugno 2020 firmato insieme a nove altri esperti sul virus che ormai era più debole?

«A un certo punto non arrivavano più malati nei Pronto soccorsi. Ci fu davvero una fase in cui i sintomi della malattia si fecero più deboli. Non fu una mia iniziativa, non ero tanto convinto di firmare, ma le critiche furono ingiuste. Si fotografava una situazione. In quel momento, era così. Le cose purtroppo cambiarono nell’autunno seguente. Con il senno di poi fu un errore, ma non lo rimpiango».

Il giorno migliore?

«La data precisa è il 27 dicembre 2020. Il direttore dell’azienda sanitaria di Bergamo mi chiese di fare il vaccino per primo, davanti al personale medico e agli infermieri dell’ospedale di Alzano lombardo. Provai una sensazione di grande privilegio, della quale quasi mi vergognavo. Pensai alle migliaia di persone che si sono prestate a testare il vaccino, quando ancora non si sapeva nulla della sua efficacia. Hanno rischiato senza avere alcuna certezza. Sono gli eroi sconosciuti della pandemia».

Professore, sta davvero finendo?

«Cito un recente lavoro pubblicato su Lancet: il virus rimarrà con noi per tanti anni, ma stiamo andando verso la fine della pandemia. E non ci sarà più un momento come quello iniziale, quando non sapevamo nulla, per colpa nostra».

Il Cts ignorò l'arrivo della variante Omicron: ci hanno messo 21 giorni per accorgersene. Dario Martini su Il Tempo il 7 febbraio 2022

Quando in tutto il mondo è scoppiato l'allarme Omicron, il Comitato tecnico scientifico ha guardato da un'altra parte. I nostri massimi esperti, scelti dal governo per fronteggiare l'emergenza Covid, si sono comportati come se la nuova variante non esistesse. Per tre settimane neanche una parola. La mutazione proveniente dal Sudafrica è rimasta una perfetta sconosciuta. È quanto emerge dalla lettura dei verbali delle riunioni che il Cts ha tenuto tra novembre e dicembre. Conviene ripercorrere quei giorni concitati. Il 24 novembre il Sudafrica comunica all'Oms la scoperta della nuova variante. Due giorni dopo, il 26 novembre, la paura ha già contagiato il mondo intero. Ursula von der Leyen, presidente della Commissione Ue, lancia un appello che è una chiamata alle armi: «Bisogna intervenire subito». Vengono cancellati i voli da diversi paesi africani. C'è già il primo caso in Belgio. Poi anche in Germania e Danimarca. Il giorno dopo, il 27 novembre, Omicron viene sequenziato pure in Italia. Il paziente zero viene dalla Calabria. La parola Omicron è sulla bocca di tutti. I virologi vanno in televisione e prevedono una diffusione rapidissima. Sono sicuri: «Soppianterà la Delta». Col senno di poi sappiamo che avevano ragione. L'unico che non se ne accorge è il Cts capitanato da Silvio Brusaferro e Franco Locatelli. Eppure, gli esperti si riuniscono subito, il 29 novembre.

Sono tutti collegati in videoconferenza. È una costante. Anche quando gli italiani hanno iniziato a ridurre lo smart working, loro hanno preferito continuare a vedersi attraverso uno schermo. Tre sono assenti: Giorgio Palù, Gianni Rezza e Sergio Abrignani. La seduta inizia alle 17,05. La variante sudafricana non è all'ordine del giorno. Nessuno ne fa menzione. Gli esperti si confrontano sul consueto monitoraggio settimanale dell'Iss e sulle linee guida regionali per la riapertura delle attività economiche. Alle 17,50, dopo appena tre quarti d'ora, levano le tende: «Non ci sono altri argomenti sui quali concentrare l'attenzione», si legge nel verbale. Tutto il mondo parla di Omicron, per loro non merita neanche un minuto di tempo. 

I giorni passano. Il Cts si ritrova il 3 dicembre. Stavolta sono tutti presenti (sempre a distanza), ma nessuno ritiene opportuno concentrarsi sulla variante. La seduta inizia alle 12,15. Alle 13,25 è già finita. Gli esperti scelti dal governo non si rivedono per due settimane. Mentre tutti si domandano cosa sta accadendo, loro si riuniscono di nuovo solo il 17 dicembre. Ed è allora che, magicamente, si accorgono di Omicron. Lo fanno quasi accidentalmente, sul finire della seduta. Alcuni componenti si dicono «preoccupati per la rapida propagazione della variante Omicron», che dalle prime evidenze «si dimostra caratterizzata dalla capacità di eludere la risposta immunologica» dei vaccini. Quindi, cosa fare? Un unico consiglio: vaccinare il più possibile. Tre giorni dopo, il 20 dicembre, il ministero della Salute fa sapere che i casi di positività attribuibili a Omicron sono già il 21%.

"Il Cts si scioglie". Cosa può succedere adesso. Luca Sablone il 3 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Con l'avvicinarsi della fine dell'emergenza Covid, il Comitato tecnico-scientifico va verso lo scioglimento: "Non ci sarà più bisogno di noi tecnici straordinari".

Il Comitato tecnico-scientifico va verso lo scioglimento. Non si tratterà di un atto immediato, ma di un processo graduale che arriverà al compimento quando l'Italia sarà definitivamente uscita dall'emergenza Covid-19. Il Cts infatti è una struttura d'emergenza, nata con e per la pandemia, che con la fine dell'emergenza "è destinata a sciogliersi" anche perché "lo prevede la legge". A comunicarlo è Fabio Ciciliano, componente del Comitato, che ha spiegato come verso le fasi finali di ogni emergenza si passi al cosiddetto "hand over".

Il Cts si scioglie

Cosa significa? In sostanza le prerogative dell'organismo costituito per la gestione dell'emergenza "vengono ricondotte nell'alveo della gestione ordinaria", come ad esempio ai ministeri competenti. E a quel punto "non ci sarà più bisogno di noi tecnici straordinari". L'avvicinarsi dello scioglimento del Cts restituisce la fotografia di un quadro epidemiologico in Italia in miglioramento rispetto alle scorse settimane, quando il forte incremento dei contagi aveva fatto temere un'ulteriore stretta ai danni dei cittadini.

Ora la situazione sembra viaggiare sui binari giusti e sul calendario è cerchiata in rosso la data del 31 marzo: per quel giorno è stata fissata la fine dello stato di emergenza, e per molti potrebbe rappresentare davvero l'uscita dall'incubo Coronavirus. Mentre aumenta il pressing per far cessare lo stato di emergenza, il ministro Roberto Speranza frena e rimanda al mese prossimo tutte le dovute riflessioni sulla questione.

La nuova fase Covid

Si sta per aprire una nuova fase nell'ambito della lotta al Coronavirus. Green pass illimitato, quarantena ridotta a scuola e allentamenti: tutto ciò dà il segno di come il nostro Paese abbia imboccato la via corretta. Lo scioglimento del Comitato tecnico-scientifico sarebbe il sinonimo di una buona situazione epidemiologica in Italia, e allo stesso tempo vorrebbe dire una maggiore assunzione di responsabilità da parte della politica.

I governi in questi anni molte volte hanno atteso il parere degli esperti prima di varare provvedimenti, consultando gli scienziati per avere un giudizio sulle norme anti-Covid da intraprendere. Invece, in mancanza del Cts, l'esecutivo avrà più autonomia decisionale e ciò comporterà un maggiore coinvolgimento dei ministeri competenti.

A tracciare la rotta è stato il premier Mario Draghi, che nel Consiglio dei ministri di ieri ha fatto sapere che nelle prossime settimane "andremo avanti su questo percorso di riapertura". A stretto giro infatti verrà annunciato "un calendario di superamento delle restrizioni vigenti", ovviamente sulla base dell'evidenza scientifica e dell'andamento della curva epidemiologica.

Luca Sablone. Classe 2000, nato a Chieti. Fieramente abruzzese nel sangue e nei fatti. Estrema passione per il calcio, prima giocato e poi raccontato: sono passato dai guantoni da portiere alla tastiera del computer. Diplomato in informatica "per caso", aspirante giornalista per natura. Provo a raccontare tutto nei minimi dettagli, possibilmente prima degli altri. Cerco di essere un attento osservatore in diversi ambiti con quanta più obiettività possibile, dalla politica allo sport. Ma sempre con il Milan che scorre nelle vene. Incessante predilezione per la cronaca in tutte le sue sfaccettature: armato sempre di pazienza, fonti, cellulare, caricabatterie e… PC.

Anche la virostar Lopalco pensa che le trivelle causino il terremoto. Alla faccia della scienza. Il famoso epidemiologo, consigliere regionale in Puglia di Articolo Uno, chiede di fermare il decreto energia del Governo Meloni, con una motivazione alquanto discutibile. Annarita Digiorgio l’11 Novembre 2022 su Il Giornale.

Il professor Pierluigi Lopalco, virostar in tv h24 durante la pandemia, scomparso dai radar da quando ha litigato con Michele Emiliano dopo essere stato il suo assessore regionale alla sanità, ora si è messo in testa di fermare le trivelle.

Lo scienziato dopo la rottura con il governatore è uscito dalla sua lista civica, e mantenuto il seggio in consiglio regionale approdando in Articolo Uno, il partitino di Roberto Speranza. E in quanto tale è stato candidato dal Pd alle ultime politiche nel collegio uninominale di Lecce, venendo doppiato, come voti, dal senatore della Lega Roberto Marti.

Ora lo scienziato, dopo aver tenuto i bambini pugliesi in dad più a lungo di tutti gli altri studenti d'Italia, che invece andavano a scuola, oggi pensa di mandare a monte il progetto trivelle, con il il governo intende trovare gas utile al Paese.

“La crisi energetica e la guerra in Ucraina possono e devono rappresentare un’opportunità per creare un nuovo modello di sviluppo più sostenibile e non, come vorrebbe il Governo, per portare avanti una politica che punta a investire in soluzioni retrograde che guardano al passato e mettono a rischio la tutela nostro ambiente e del nostro territorio", ha scritto il consigliere regionale epidemiologo.

E quale sarebbe mai questo rischio? I terremoti!

“Di fronte alla grave crisi climatica in atto e ai potenziali danni ambientali sul piano della sicurezza nelle aree sismiche, tale scelta appare miope e assurda”. Alla faccia della scienza, che ad esempio rispetto al terremoto di due giorni fa nel mare Adriatico ha immediatamente smentito gli allarmi infondati diffusi da Verdi e 5 stelle.

Ma nonostante le smentite lo scienziato ha deciso di cavalcare questa nuova battaglia.

“Auspico che la Puglia - argomenta il professore - che è sempre stata in prima linea nella battaglia contro le ispezioni in mare di idrocarburi e da tempo ha deciso di scommettere sulle fonti rinnovabili a dispetto di quelle fossili per rispondere alle richieste di cittadini, sindaci e associazione, faccia sentire oggi più che mai la propria voce, rilanci le battaglie ambientalistiche sia a livello di mobilitazione di massa che a livello istituzionale per ribadire la ferma contrarietà e difendere i diritti inalienabili delle nostre popolazioni. Non perdiamo questa importante opportunità!”

Lopalco ricorda anche l’ostilità della giunta regionale Pugliese guidata dal Pd che per anni ha impugnato tutti i permessi ministeriali sulle concessioni di prospezione, senza però ricordare che i ricorsi di Emiliano sono stati tutti persi, e che proprio lui e la Regione Puglia chiesero di indire il referendum contro il decreto Sblocca Italia del governo Renzi, ma che quel referendum lo persero clamorosamente non raggiungendo il quorum.

“Sul tema delle trivelle – scrive Lopalco – la nostra regione non si è mai piegata e mai si piegherà all’idea che gli interessi delle multinazionali del petrolio possano mettere a rischio e deturpare, per un pugno di barili, anche di scarsa qualità, la nostra più autentica e inestimabile ricchezza: il mare. È una scelta di buon senso”. Anche scienziato esperto di petrolio adesso.

Rispolverano il vecchio slogan: il mare è il nostro petrolio.

Per assurdo bisognerebbe provare per un giorno a staccare ai centri vaccinali l’energia prodotta con il gas . Forse lo scienziato Lopalco capirebbe.

Massimo Galli. Da corriere.it il 21 novembre 2022.

La Procura di Milano chiede il processo per l'infettivologo Massimo Galli, finito indagato in uno dei capitoli dell'indagine sui presunti concorsi pilotati per i posti di professore e ricercatore alla facoltà di Medicina dell'Università Statale di Milano. Nei suoi confronti, rispetto a quelle originarie, le contestazioni sono state ridimensionate ed è rimasto solo un episodio di turbativa d'asta e falso.

La richiesta di rinvio a giudizio per l'ex primario del Sacco ora in pensione, diventato volto noto durante le fasi più drammatiche della pandemia Covid, è stata inoltrata all'ufficio gip dai pm Bianca Maria Eugenia Baj Macario e Carlo Scalas ed ha anche la firma del procuratore aggiunto Maurizio Romanelli ed è la prima dopo che, alla fine di settembre, erano stati notificati gli avvisi di conclusione delle indagini, uno per ciascun concorso ritenuto irregolare.

Per la vicenda è indagato pure Agostino Riva, suo stretto collaboratore, candidato vincente nel 2020 di un «concorso» per il ruolo di professore di seconda fascia in malattie cutanee, infettive e dell'apparato digerente. Secondo l'ipotesi, Galli sarebbe intervenuto, come era emerso dagli atti, come componente della «commissione giudicatrice» sul verbale di «valutazione dei candidati»: in questa veste avrebbe attestato che il «prospetto» con i «punteggi attribuiti fosse il risultato del lavoro collegiale» nel corso di una riunione da remoto del febbraio 2020 mentre, risulta dagli accertamenti, sarebbe stato «concordato» solo dopo. 

Per l'accusa, sarebbe stato lo stesso Riva a indicare i «punteggi». Chi si era visto penalizzato, Massimo Puoti del Niguarda, aveva comunque manifestato, dopo la notizia dell'indagine in corso, la «massima stima» nei confronti di Galli. Per la vicenda sono anche finiti nei guai Claudio Maria Mastroianni, professore alla Sapienza di Roma, e Claudia Colomba, associato all'Università di Palermo. Per gli altri episodi contestati inizialmente al professore è stata chiesta l'archiviazione. I pm nelle prossime settimane dovrebbero procedere anche per gli altri filoni dell'inchiesta che è stata «spacchettata» in diversi fascicoli.

Nicola Porro demolisce Massimo Galli: "Il libro si chiama Gallipedia? Forse perché..." Libero Quotidiano il 16 aprile 2022.

È arrivato in libreria Gallipedia, libro di Massimo Galli scritto con Lorella Bertoglio, editore Vallecchi. E l'occasione è buona per Nicola Porro per tornare a pungere quel virologo che tante volte ha criticato per il suo allarmismo - e per il suo ego - in questi anni di pandemia.

La critica viaggia sul suo sito personale, con un pezzo di Max Del Papa rilanciato dallo stesso Porro su Twitter, con le seguenti parole: "Galli, il libro del viro star più a sinistra del partito cinese arriva nelle librerie. E un grande Del Papa non fa sconti".

E in effetti, il pezzo picchia duro contro il virologo. Per esempio, si legge: "Massimo Galli, quello di cui si ricorda fortemente la faccia, sempre più somigliante a Danny de Vito, si è fatto anche lui l’autoagiografia dall’alto delle sue profezie clamorosamente ciccate, cosa che non gli ha mai creato alcun problema: Meglio, se mi sono sbagliato, conviene essere catastrofisti piuttosto che superficiali. Lui, modestamente, ci ha l’ego. E il suo autolibro lo ha chiamato Gallipedia, forse a significare che il contenuto è attendibile tanto quanto Wikipedia, l’enciclopedia popolare dove ciascuno può mettere le gag che gli pare".

Dunque, vengono ricordati i "due anni di profezie.-.. sbagliate". Per esempio sul vaccino, dunque sulla variante sudafricana e via discorrendo. Infine, dito puntato contro "l'ego smisurato della viro-star". "EEccolo qua il “Gallipedia”: e chi non lo legge è un reazionario, un capitalista, un invidioso, uno spiantato, un morto di fame. Anzi, un morto di morbo", conclude Del Papa.

Massimo Galli e il Covid: “I numeri sono sottostimati: questa normalizzazione non sta in piedi”. su Il Corriere della Sera il 20 Aprile 2022.

L’infettivologo torna a parla della pandemia in esclusiva su Oggi in edicola. Rivelando (tra le altre cose) di avere i sintomi del Long Covid

Massimo Galli rivela in esclusiva al settimanale Oggi in edicola di accusare i sintomi del Long Covid. E l’ex direttore del reparto di Infettivologia dell’Ospedale Sacco di Milano parla anche di a che punto è la pandemia. Con una convinzione: «Questa normalizzazione non sta in piedi».

Jovanotti mangia il glicine! Incredibile, ma vero...

“ANALIZZIAMO I DATI” – «Quando sento dire che ora tutto va bene dico che non è così. Questa normalizzazione non sta in piedi, numeri alla mano: se analizziamo quelli della Johns Hopkins University, che paragonano i nostri a quelli di altri Paesi europei, non possiamo che concludere che contiamo i casi in modo approssimativo, per difetto». In un’intervista al settimanale Oggi in edicola, il professor Massimo Galli, fino a pochi mesi fa direttore del reparto di Infettivologia dell’Ospedale Sacco di Milano, prova a mettere in guardia da facili entusiasmi sulla fine della pandemia.

La cover di Oggi in edicola

“SONO QUATTRO MESI CHE NON STO BENE” – Lui, che a Capodanno scorso ha contratto il Covid («Non è stata una passeggiata ma non fossi stato trivaccinato sarei stato molto peggio»), ma anche dopo la guarigione ha accusato i sintomi del Long Covid: «Mi piaccia o no, devo ammettere che sono quattro mesi che non sto bene. Mi ritrovo molle come un fico alle 4 del pomeriggio. Mi comporto come se non la sentissi, questa stanchezza, ma c’è». E, accennando anche al libro appena scritto a quattro mani con Lorella Bertoglio (Gallipedia, Vallecchi) accetta di raccontare a Oggi qualcosa di sé. Per esempio, del suo rapporto con le donne: «Diciamo che non sono mai stato uno stinco di santo, mi sono calmato con l’età. Sarò anche stato un medico nerd sempre al lavoro, con la passione per la storia, ma la mia parte l’ho fatta direi gioiosamente… La mia arma con le donne non era l’ostensione muscolare ma la chiacchiera, le stendevo con le parole».

“MIA MOGLIE, LA COLONNELLA…” – Descrive sua moglie Tiziana, detta La Colonnella, «l’amore maturo», ma racconta di averne coltivati di infelici: «Molte storie sapevo non avrebbero potuto avere alcun tipo di futuro, ma in cui la componente razionale non riusciva proprio ad avere la meglio su quella irrazionale. Mia mamma se ne accorgeva, perché erano le uniche circostanze in cui perdevo l’appetito».

Anticipazione da "Oggi" il 21 aprile 2022.  

«Quando sento dire che ora tutto va bene dico che non è così. Questa normalizzazione non sta in piedi, numeri alla mano: se analizziamo quelli della Johns Hopkins University, che paragonano i nostri a quelli di altri Paesi europei, non possiamo che concludere che contiamo i casi in modo approssimativo, per difetto».

In un’intervista al settimanale OGGI, in edicola da domani, il professor Massimo Galli, fino a pochi mesi fa direttore del reparto di Infettivologia dell’Ospedale Sacco di Milano, prova a mettere in guardia da facili entusiasmi sulla fine della pandemia. Lui, che a Capodanno scorso ha contratto il Covid («Non è stata una passeggiata ma non fossi stato trivaccinato sarei stato molto peggio») ma anche dopo la guarigione ha accusato i sintomi del Long Covid: «Mi piaccia o no, devo ammettere che sono quattro mesi che non sto bene. Mi ritrovo molle come un fico alle 4 del pomeriggio. Mi comporto come se non la sentissi, questa stanchezza, ma c’è».

E, accennando anche al libro appena scritto a quattro mani con Lorella Bertoglio (Gallipedia, Vallecchi) accetta di raccontare a OGGI qualcosa di sé. Per esempio, del suo rapporto con le donne: «Diciamo che non sono mai stato uno stinco di santo, mi sono calmato con l’età. Sarò anche stato un medico nerd sempre al lavoro, con la passione per la storia, ma la mia parte l’ho fatta direi gioiosamente... La mia arma con le donne non era l’ostensione muscolare ma la chiacchiera, le stendevo con le parole».

Descrive sua moglie Tiziana, detta La Colonnella, «L’amore maturo», ma racconta di averne coltivati di infelici: «Molte storie sapevo non avrebbero potuto avere alcun tipo di futuro, ma in cui la componente razionale non riusciva proprio ad avere la meglio su quella irrazionale. Mia mamma se ne accorgeva, perché erano le uniche circostanze in cui perdevo l’appetito».

Maria Rita Gismondo. Dagospia il 26 gennaio 2022. GISMONDO NON SI È FERMATA MAI UN MOMENTO - LA VIROLOGA DEL SACCO, QUELLA SECONDO CUI IL COVID ERA "POCO PIÙ DI UN'INFLUENZA", TORNA A SDOTTORARE SUL VIRUS: "L'ENFASI CATASTROFISTA HA FATTO DANNI COME LA PANDEMIA. LE MISURE DI SPERANZA SONO RIDICOLE, ALMENO METÀ DEI CONTAGI È COLPA SUA. BASSETTI E VIOLA SOTTO SCORTA? UNO STATUS SYMBOL. GALLI? ALCUNE CANTONATE RESTANO INACCETTABILI" (TIPO LE SUE?)

Estratto dell'intervista contenuta nel nuovo numero di "Panorama". Antonio Rossitto per “La Verità” il 26 gennaio 2022.

Ultima porta a destra, in fondo al corridoio. La professoressa Maria Rita Gismondo siede nel suo ufficetto, dietro una piccola scrivania. Dirige il laboratorio di Microbiologia clinica, virologia e bioemergenze dell'Ospedale Sacco di Milano. [...] 

«Ognuno interpreta i dati in base al proprio carattere. Un'ottimista patologica come me vede sempre spiragli di positività, gli altri no. L'enfasi catastrofista ha creato un danno psicologico, sociale ed economico assolutamente paragonabile a quello della pandemia». [...]

Il tempo, su molte controversie, sembra averle dato ragione.

«Già allora dicevo che c'erano più infetti di quelli rilevati. O che bisognava capire, per tutelare i più fragili, chi muore davvero per Covid e chi no. Il 22 marzo 2020 finisce però alle agenzie una diffida firmata dal professor Pier Luigi Lopalco, presidente del Patto trasversale per la scienza, di cui fa parte Burioni. Mi intimano di non parlare più in pubblico». 

E lei?

«Il mio avvocato querela. Subito dopo, tocca a Galli». [...] 

Galli è indagato proprio con l'accusa di aver favorito i suoi protetti in due concorsi, tra cui l'assunzione di quattro dirigenti biologi. Un tentativo che non si sarebbe concretizzato, scrive la Procura di Milano, proprio «perché fortemente osteggiato da Gismondo».

«Si riferiscono a una selezione interna al Sacco, durante l'emergenza Covid. Lui pretendeva di mettere i suoi, dando già nomi e cognomi. Io mi opposi». [...]

I magistrati indagherebbero anche sul presunto uso «improprio» di un laboratorio.

«Gli ospedalizzati al Sacco devono passare, per le analisi, dal reparto che dirigo. Lo impone la legge, non io. Invece spesso, con i pazienti di Galli, è stato usato un "laboratorio fantasma", finanziato dall'Università. Potrebbe fare solo ricerca, previa autorizzazione del comitato etico. Non è possibile usarlo per la routine». 

Un anno fa, a febbraio 2021, il professore assicurava di aver pieno il reparto di varianti inglesi…

«Ecco, dove aveva fatto le analisi? Mentre lui lanciava allarmi poi sconfessati persino dal direttore generale del Sacco, noi, nell'unico laboratorio ufficiale, contavamo appena tre casi».

È stato quel «laboratorio fantasma» a scoprire che Galli, poi curato con i monoclonali come rivelato dalla Verità, era stato infettato da Omicron?

«Non lo so. Se l'hanno fatto, è una cosa fuori dalla legalità ospedaliera. Siamo noi gli unici deputati a sequenziare le varianti». [...] 

Ricapitoliamo: sta male, è un paziente a rischio, ha la variante sudafricana. Grazie alla tempestiva diagnosi, accede alla cura più adeguata.

«Ha avuto la fortuna di beccare l'ultima dose di monoclonale disponibile a Natale. Ce n'erano cinque. A lui è stata somministrata quella rimasta. [...] Credo che, viste le patologie di cui soffre, quelle di cui ha parlato lui stesso, sia entrato nei parametri di rischio».

Non ci sono stati favoritismi?

«L'anomalia, secondo me, starebbe piuttosto a monte: nel sequenziamento. Dovevamo farlo noi. Invece, chi se n'è occupato?». 

Il «laboratorio fantasma»?

«Legalmente, può fare solo ricerca». 

Sarebbe quindi un illecito?

«Certo». 

Comunque sia: Galli ora è in pensione. E può dedicarsi, a tempo pieno, a fare la virostar in tv. Sebbene, pure lui, si sia detto e contraddetto…

«Abbiamo sbagliato tutti nell'emergenza. Certo, alcune cantonate restano inaccettabili» 

Per esempio?

«Io sono stata sempre contraria al green pass. Piuttosto, il governo doveva avere il coraggio di imporre l'obbligo. [...] Ma non si può andare avanti così: a vaccino e cappuccino». 

I bambini devono essere immunizzati?

«Nella fascia da 0 a 19 anni, dice l'Iss, ci sono stati 34 morti per Covid, non sappiamo se con altre patologie. E l'Aifa sostiene che, ogni 10.000 somministrazioni, c'è un caso di endocardite, magari non grave. Lei, padre, correrebbe questo pericolo?».

E nel lungo periodo ci sono rischi?

«[...] Per conoscere gli effetti a lungo termine di qualsiasi farmaco, bisogna osservarlo per 10 o 15 anni. Questo dice la scienza. E ricordarlo non vuol dire essere no vax. D'altronde, pure la copertura doveva durare un anno, ora s' è scoperto che crolla dopo tre mesi. E il governo, a ruota, ad accorciare la durata dell'inutile green pass».

Il ministro della Salute, Roberto Speranza, è inadeguato?

«Alcuni errori erano inevitabili, altri restano incomprensibili. A partire da «tachipirina e vigile attesa». Posso capire all'inizio. Ma il protocollo, totalmente inadeguato, viene confermato il 26 aprile 2021: quando già l'Istituto Mario Negri ha presentato uno studio sulle cure domiciliari, azzerando praticamente i ricoveri. Ma c'è un Cts? Ha mai letto una pubblicazione? Non a caso, Lancet l'ha definito il peggiore d'Europa. Nato per combattere una malattia da virus, non ha nemmeno un virologo».

Altre mancanze?

«Speranza ha consigliato misure ridicole e inadeguate, dalla scuola ai trasporti. Ma soprattutto è responsabile almeno della metà dei contagi, perché ha dato indicazioni fuorvianti sui vaccini. E non ha neppure rettificato le sbalorditive parole del premier, Mario Draghi». 

Quelle sul green pass, che avrebbe dato la sicurezza di «ritrovarsi tra persone non contagiose»?

«Una frase che ha finito per acuire un deleterio senso di sicurezza». […]

Continuiamo però a dirci che siamo i migliori d'Europa.

«Inutile autoreferenzialità. Pensiamo piuttosto alla connivenza con l'Oms, sul piano pandemico. È stata vergognosa. Solo un anno dopo, hanno pubblicato un elenco di buone intenzioni. Insomma, continuiamo a navigare a vista». [...] 

Di chi è la colpa?

«Della comunicazione, fin dall'inizio: tutti chiusi a casa ad aspettare il bollettino farlocco, che enfatizzava i contagi piuttosto che i ricoveri. Critica che ho fatto subito». [...]

Bassetti e Viola, intanto, sono sotto scorta per le minacce dei no vax.

«Uno status symbol».

Tanti hanno attaccato renitenti e dubbiosi.

«Io ho sempre cercato il dialogo. C'è invece chi, vedi Burioni, dice che dovrebbero stare chiusi in casa come sorci. Altri aggiungono che non meritano di essere salvati. Frasi gravissime, contro ogni deontologia professionale. Curiamo gli uomini, non le idee. Adesso ci permettiamo di criticare gli stili di vita? [...] Anche perché è stato il fanatismo a generare tanti timori e perplessità».

Fanatismo per natura o convenienza?

«È ormai una sorta di lasciapassare, in una società che non ammette dubbi. Sempre nella chat dei virologi, quella in cui Burioni m'ha insultata, ci sono medici che, pubblicamente, dicono di essere efferati vaccinisti. Poi però, tra noi, si pongono ragionevoli dubbi, come ogni scienziato dovrebbe fare. Ma non hanno il coraggio di esporsi».

Anthony Fauci. Testo di Anthony Fauci per “The New York Times” pubblicato da “La Stampa” il 13 dicembre 2022.

 Sebbene sia riluttante a usare l'abusata espressione "sembra ieri", mi sento così nel momento in cui mi accingo a lasciare l'Istituto nazionale di sanità dopo oltre cinquant'anni. 

Ripensando alla mia carriera, mi rendo conto che alcuni insegnamenti potrebbero tornare utili agli scienziati e agli operatori sanitari della prossima generazione che saranno chiamati ad affrontare e risolvere le sfide più impreviste di sanità pubblica che inevitabilmente si presenteranno.

A 81 anni ricordo ancora distintamente la prima volta in cui, nel luglio 1968, arrivai in auto nel bucolico campus del Nhi (National Health Institute, Istituto sanitario nazionale) di Bethesda, in Maryland, da neo-medico ventisettenne che aveva appena completato la specializzazione a New York City. All'epoca avevo una motivazione e una passione divoranti, volevo diventare il medico più esperto possibile, dedito a offrire le cure migliori ai miei pazienti. 

Tutto ciò è ancora parte integrante della mia identità, naturalmente, ma all'epoca non mi resi conto di quanto alcune circostanze impreviste avrebbero influenzato profondamente la direzione della mia carriera e della mia vita. Molto presto, infatti, avrei imparato ad aspettarmi l'inaspettato. 

Condivido qui la mia storia, fatta di amore per la scienza e la scoperta, nella speranza di ispirare la prossima generazione che entrerà a fare carriera in campo sanitario e di aiutarla a mantenere la rotta, a prescindere dalle sfide e dalle sorprese che dovessero presentarsi.

Fu durante il periodo della mia specializzazione che rimasi affascinato per la prima volta dall'interazione delle malattie infettive e dell'immunologia umana, nascente relativamente da poco ma già fiorente. Mentre mi prendevo cura di molti pazienti con infezioni comuni ma anche misteriose, divenne chiaro che i medici e gli altri operatori sanitari avevano bisogno di maggiori strumenti per effettuare diagnosi, prevenire e curare le malattie. 

Per far confluire questi interessi, accettai una borsa di studio presso l'Istituto nazionale di Allergologia e di Malattie infettive dell'Istituto sanitario nazionale, per imparare le complesse modalità con le quali le cellule e altri componenti del sistema immunitario ci proteggono dalle malattie infettive. Così facendo, avrei seguito la tradizione del Nih della ricerca dal lavoro sperimentale alla pratica clinica, trasformando in cure le scoperte di laboratorio e, viceversa, portando in laboratorio le intuizioni dedotte durante la pratica clinica per migliorare la ricerca scientifica.

Malgrado non avessi alcuna preparazione pregressa nella ricerca scientifica di base, rimasi inaspettatamente colpito e conquistato dalle potenzialità che tutto questo aveva ai fini della possibilità di fare scoperte che avrebbero apportato benefici non soltanto ai miei pazienti, ma anche a un numero incalcolabile di altre persone che non avrei mai conosciuto e tanto meno curato direttamente come loro medico. 

Quella nuova passione per il lavoro rappresentò una sfida enorme per i miei piani ben delineati di pratica medica. Alla fine, scelsi di seguire entrambe le strade: diventare un ricercatore e anche un medico che curava pazienti presso l'Istituto nazionale di sanità dove lavoravo fin dall'inizio.

Si possono effettuare molte scoperte in laboratorio e in ospedale, anche quando meno ce lo si aspetta. All'inizio della mia carriera, fui in grado di mettere a punto alcune terapie molto efficaci per un gruppo di malattie fatali dei vasi sanguigni denominate vasculiti. 

Pazienti, che in caso contrario sarebbero deceduti, riuscirono invece a guarire sul lungo periodo grazie ai protocolli terapeutici che avevo sviluppato. Il mio futuro sembrava pertanto ben delineato: avrei trascorso la mia vita a lavorare su condizioni correlate a un'attività anomala del sistema immunitario.

Poi, nell'estate del 1981, i medici e i ricercatori si accorsero di una malattia misteriosa che si andava diffondendo perlopiù tra giovani uomini che avevano rapporti sessuali con altri uomini. 

Quella condizione così insolita, che sarebbe diventata poi nota con il nome di H.I.V./AIDS, mi affascinò per il suo decorso insolito. Suo segno distintivo era la distruzione completa o la compromissione delle cellule del sistema immunitario di cui il corpo necessita per difendersi. 

Inoltre, provai una forte empatia per quei gay, perlopiù giovani uomini che venivano già stigmatizzati e a quel punto lo diventarono doppiamente, perché la malattia ne consumava i corpi, derubandoli della vita e dei sogni.

Con grande sgomento di amici e mentori che ritenevano che avrei mandato in cortocircuito una carriera in ascesa, pur andando contro il loro parere decisi di modificare radicalmente la direzione della mia ricerca. Da quel momento in poi mi sarei dedicato alle ricerche sull'AIDS, prestando cure a quei giovani presso gli ospedali del Servizio sanitario nazionale e continuando a indagare e scoprire i misteri di quella nuova malattia nel mio laboratorio - ricerca che continuo a portare avanti da oltre quarant' anni.

Non ho mai aspirato a una posizione amministrativa di primo piano e ho avuto a cuore la mia identità di medico e di ricercatore clinico dall'approccio diretto. Tuttavia, all'inizio degli anni Ottanta rimasi particolarmente deluso dalla relativa mancanza di attenzione e di risorse destinate allo studio dell'H.I.V./Aids. 

Ancora una volta mi si presentò un'occasione imprevista quando mi fu chiesto di guidare il Servizio sanitario nazionale: accettai, a condizione di poter continuare a curare i miei pazienti, oltre che dirigere le ricerche di laboratorio. Quella decisione impresse una svolta alla mia carriera e mi aprì l'opportunità di influenzare positivamente la medicina e la sanità globale come non avrei mai immaginato.

Nel corso dei 38 anni che ho trascorso da direttore dell'Istituto nazionale di allergologia e di malattie infettive (NIAID), a partire dalla presidenza di Ronald Reagan sono stato consigliere di sette presidenti americani. I nostri colloqui vertevano su come reagire all'H.I.V./AIDS e ad altre minacce come la febbre aviaria, gli attacchi con l'antrace, la pandemia di influenza del 2009, le epidemie di Ebola, Zika e Covid-19. Ai presidenti e agli altri funzionari di governo di alto grado ho sempre parlato con schiettezza, in modo nudo e crudo, anche quando la verità poteva risultare scomoda o politicamente sconveniente, perché quando la scienza e la politica lavorano a braccetto possono accadere cose straordinarie.

Alla metà degli anni Novanta, fu dimostrata la sicurezza e l'efficacia di alcuni antivirali salvavita nei casi di H.I.V., studiati perlopiù nel corso di ricerche sostenute dal NIAID. Quegli antivirali divennero disponibili negli Stati Uniti nel 1996. Alla svolta del XXI secolo, le persone in grado di accedere a quei farmaci poterono aspettarsi una durata della vita pressoché normale. 

Per le persone che vivevano nell'Africa subsahariana e in altre regioni a basso e medio reddito, invece, l'accesso a quelle terapie in pratica fu inesistente. Spinto da una compassione ben radicata nel suo animo e dal desiderio di uguaglianza sanitaria globale, il presidente George W. Bush mi impartì l'ordine, insieme ai membri del mio staff, di mettere a punto un programma che potesse far pervenire quei farmaci e altre cure a chi viveva nei Paesi con scarse risorse e alti livelli di incidenza dell'H.I.V.

Poter essere l'artefice di quello che sarebbe diventato il Programma di sostegno all'Aids del Piano di emergenza del presidente, che salvò 20 milioni di vite in tutto il pianeta, è stato il massimo privilegio e l'onore della mia vita. Tale piano è un esempio di quello che è possibile realizzare quando i policymaker aspirano a eccelsi risultati con il sostegno della comunità scientifica. 

Se il primo risultato della mia carriera al Servizio sanitario nazionale fu il contrasto dell'H.I.V./AIDS, quello più recente è relativo al Covid-19. Questa pandemia non era del tutto inattesa, poiché lungo tutta la storia sono emerse sempre malattie infettive che hanno messo in pericolo il genere umano, ma alcune di esse riescono anche a trasformare le civiltà. Il Covid-19 è la pandemia della malattia respiratoria più devastante che abbia mai colpito l'umanità dalla pandemia influenzale del 1918. E c'è ancora molto da imparare dall'esperienza ancora in corso con il Covid-19.

Gli Stati Uniti devono tenere a mente quanto sia importante investire di continuo nella ricerca clinica biomedica e di base. I più importanti successi della pandemia da Covid-19 sono stati assicurati dai progressi scientifici, in particolare dai vaccini salvavita che sono stati messi a punto, e la cui sicurezza ed efficacia è stata dimostrata nelle sperimentazioni cliniche, per essere poi messi a disposizione dell'opinione pubblica in un solo anno, impresa senza precedenti. 

Altre lezioni che abbiamo tratto sono dolorose, come il fallimento di alcune reazioni di politica sanitaria a livello interno e globale. Peraltro, dobbiamo anche ammettere che la nostra battaglia contro il Covid-19 è stata ostacolata dalla profonda spaccatura politica insita nella nostra società. Le decisioni di alcune misure di sanità pubblica, come l'uso delle mascherine e le vaccinazioni con vaccini molto efficaci e sicuri, sono state influenzate, come non avevamo mai visto in precedenza, dalla disinformazione e dall'ideologia politica.

Garantire che le decisioni ufficiali di politica sanitaria siano trainate dai migliori dati disponibili è una responsabilità collettiva. Gli scienziati e gli operatori sanitari possono fare la loro parte, spiegando, parlando, includendo informazioni su nuovi e vecchi media, condividendo e illustrando con un linguaggio chiaro e accessibile le ultime scoperte scientifiche e quello che resta ancora da scoprire. 

Se ripenso a quel giovane ventisettenne arrivato al campus dell'Istituto Nazionale di Sanità nel 1968, mi sento onorato dall'enorme privilegio di aver potuto servire il popolo americano e i cittadini di tutto il mondo. Ho provato una gioia enorme e ho tratto grandi vantaggi dalla possibilità di formarmi e apprendere da centinaia di medici brillanti e appassionati, da scienziati e membri degli staff di supporto nel mio laboratorio, negli ospedali dell'Istituto Nazionale di Sanità, nelle divisioni di ricerca del NIAID, da collaboratori locali e internazionali di ricerca.

Guardando avanti, confido nel fatto che le prossime generazioni di giovani medici, scienziati e operatori del servizio sanitario pubblico possano sperimentare lo stesso entusiasmo e il medesimo senso di appagamento che ho provato io, quando dovranno soddisfare l'immensa necessità di mantenere, ripristinare e proteggere con la loro competenza la salute di tutto il genere umano nel mondo e dimostrarsi all'altezza delle sfide sempre impreviste che inevitabilmente dovranno affrontare durante il loro lavoro.

Viviana Mazza per il "Corriere della Sera" il 2 dicembre 2022.

«Giurano che, quando controlleranno la Camera, mi renderanno la vita impossibile. Sarà quel che sarà. Io sono cresciuto a Brooklyn e me la caverò». Anthony Fauci, 82 anni il prossimo 24 dicembre, lascerà a fine anno gli incarichi di una vita, con «l'estrema destra che mi considera il nemico pubblico numero uno».

È stato consigliere di 7 presidenti, ha trascorso 54 anni ai National Institutes of Health (38 come direttore dell'Istituto nazionale per le allergie e le malattie infettive) e l'ambasciatrice Mariangela Zappia gli ha organizzato una festa nella sua residenza a Washington. Ci sono colleghi venuti da lontano e tanti giornalisti.

Fauci, l'unico con la mascherina, si affretta a scusarsi perché, dopo la conversazione con Antonio Monda, scrittore e docente italiano all'Università di New York, non potrà cenare a Villa Firenze: la moglie Christine ha il Covid, lui ha fatto due test ed è negativo, ma bisogna seguire il protocollo e indossare la mascherina. «Primo perché è la cosa giusta; poi perché sono io e c'è un mega-riflettore puntato su tutto ciò che faccio».

Domenica scorsa, in tv, alla consueta domanda sulle origini del virus e la possibile «fuga» da un laboratorio di Wuhan, Fauci ha risposto che nonostante i virologi ritengano probabile che il «salto» dagli animali agli esseri umani sia avvenuto in natura, ciò non è «stato provato in via definitiva» e lui ha la «mente aperta, benché la gente pensa che non sia così». Ma ieri le origini di cui ha parlato sono state le sue: i nonni materni napoletani, quelli paterni siciliani, l'infanzia a Brooklyn.

«Sono cresciuto a Bensonhurst, il 99,98% erano italo-americani. Non sapevo come fosse un irlandese fino alle elementari». La «cura degli altri» che ha appreso in quella comunità ha «influenzato ciò che volevo fare con la mia vita: essere di servizio agli altri».

Il suo primo presidente fu Reagan, che faceva finta che l'Aids non esistesse. Fauci, ricercatore sull'Hiv, ascoltò gli attivisti e capì che i protocolli per i test clinici erano troppo rigidi («una delle cose migliori che ho mai fatto fuori dall'ambito scientifico»): i malati sarebbero morti in un anno, serviva subito l'accesso ai farmaci.

«Reagan era una brava persona ma credo che il suo conservatorismo sulla comunità gay gli impedisse di capire il problema, finché Elizabeth Taylor non lo costrinse».

Il periodo più difficile? «L'ultimo anno dell'amministrazione Trump», racconta Fauci. «La gente di estrema destra si è convinta che fossi una talpa liberal di Nancy Pelosi alla Casa Bianca, ma fu doloroso doverlo contraddire - sottolinea lo scienziato - poiché ho sempre avuto rispetto per la presidenza».

E aggiunge: «Non alzai la mano», fu la stampa a chiedergli se fosse d'accordo, quando «Trump diceva cose non vere sull'idrossiclorochina che funzionava e la candeggina che era meravigliosa».

Fauci ha sottolineato che «non è una questione di democratici contro repubblicani», e ha ricordato «la grande empatia» di George W. Bush che gli affidò il compito di dirigere il piano anti-Aids per l'Africa. Fauci non andrà in pensione nel senso «classico». Viaggerà e scriverà, facendo tesoro della lezione del Covid: il successo di decenni di investimenti nel settore biomedico, ma anche il peso delle diseguaglianze, di divisioni politiche che portano al ripudio della scienza e il grave degrado del sistema della salute pubblica in America.

Viviana Mazza per il “Corriere della Sera” il 23 agosto 2022.

Anthony Fauci ha annunciato che si dimetterà a fine anno. Lascerà la Casa Bianca, dove è consigliere medico del presidente, e la direzione del National Institute of Allergy and Infectious Diseases (Niaid), che ha guidato per 38 anni, per «perseguire il prossimo capitolo» della sua carriera. 

L'immunologo di origini italiane, figlio di farmacisti di Brooklyn, è stato il volto della risposta degli Stati Uniti al Covid. «Grazie al dottor Fauci, molte vite sono state salvate», ha detto il presidente Joe Biden in una nota. Già consigliere di sette presidenti, a partire da Ronald Reagan, aveva ricevuto nel 2008 la Medaglia presidenziale per la libertà per il ruolo cruciale nel combattere l'epidemia di Aids negli Stati Uniti.

Fauci ha 81 anni, ne compirà 82 il 24 dicembre e, da tempo, tutti gli chiedevano se avesse intenzione di andare in pensione. Frustrato dall'influenza negativa della politica sul mondo della medicina e della sanità, dopo i continui scontri con il presidente Donald Trump che più volte pensò di licenziarlo, aveva già meditato di farsi da parte. Ma decise di restare in carica quando Biden, arrivato alla Casa Bianca nel 2021, gli chiese di dare continuità alla risposta al Covid.

«E così sono rimasto per un anno, immaginando che alla fine dell'anno ci sarebbe stata la fine del Covid - ha spiegato in un'intervista al Washington Post -, e invece non è quello che è successo. E ora siamo al secondo anno e mi sono reso conto che ci sono altre cose che voglio fare». 

Negli anni del Covid, il «medico d'America» ha vissuto tra gli estremi. Da una parte celebrato come un eroe, dipinto come un santo sulle candele votive e votato «uomo più sexy del mondo» da 28 mila lettori di People . Dall'altra bersaglio, con la sua famiglia, di minacce di morte. Ha dovuto più volte testimoniare davanti al Congresso, è stato contestato da repubblicani come Rand Paul, il senatore del Kentucky che lo accusò di mentire sulle ricerche finanziate dal suo istituto in Cina («Se qualcuno mente, si tratta di lei, senatore», fu la risposta). 

Molti conservatori vedono in lui il simbolo delle odiate quarantene e delle mascherine, e il senatore Paul e altri repubblicani hanno promesso di indagarlo, se prenderanno il controllo del Congresso a novembre. Nel giudicare il proprio lavoro, Fauci ha ammesso di aver fatto anche, con i colleghi, alcuni errori iniziali, come l'aver sottovalutato la diffusione del virus attraverso gli asintomatici, ma ha detto di credere che il suo team ha «giocato un ruolo nello sviluppo di vaccini che hanno salvato milioni di vite. La storia deciderà se è vero». 

Non è stato nell'era Trump che si è sentito per la prima volta lo slogan «Fire Fauci» (Licenziate Fauci). Ai tempi della crisi dell'Aids, era ciò che gridavano gli attivisti davanti al suo ufficio, furiosi perché l'Amministrazione Reagan non faceva abbastanza per la ricerca e l'approvazione dei farmaci. Lui capì che avevano ragione e che, pur salvaguardando l'integrità scientifica, bisognava consentire l'accesso alle cure sperimentali per salvare vite umane.

«Portavo in processione l'immagine della sua testa sanguinante su un bastone di fronte al suo palazzo, ma lui non chiuse mai la porta», ha raccontato uno di quegli attivisti, diventato suo amico. Con Trump e il Covid, però, è stato diverso. «Il leader della nazione diceva: "Non vi preoccupate, sparirà tutto domani". Avevo il dovere nei confronti del Paese di parlare a nome della scienza e della verità».

Fauci ha detto che non andrà in pensione «nel senso classico» del termine. Vorrebbe insegnare, viaggiare e scrivere (sta lavorando a un'autobiografia). «Finché sto bene (come ora) e ne ho le energie (anche quelle ci sono) e finché ho la passione (che non mi manca) voglio fare delle cose al di fuori del lavoro per il governo federale». Vorrebbe anche incoraggiare i giovani a lavorare nel settore pubblico.

G. Sar. per il "Corriere della Sera" il 14 gennaio 2022.

Operazione verità. Anthony Fauci è netto: «È praticamente impossibile sradicare questo virus su scala mondiale per sempre. È anche altamente improbabile che riusciremo a eliminarlo negli Stati Uniti e in Italia. Il nostro obiettivo deve essere tenerlo sotto controllo. E non siamo ancora a questo punto». 

Il virologo americano, di origini italiane, 81 anni, ieri ha formulato questo scenario in collegamento da Washington con l'Università Sapienza di Roma che gli ha conferito la laurea honoris causa «per le ricerche sull'Aids e il Covid».

Una cerimonia «calda», nonostante fosse online, con tanto di brindisi finale. Fauci è tornato a elogiare l'Italia: «Sulla campagna di vaccinazione sta facendo meglio degli Stati Uniti».

In America il programma di immunizzazione ristagna ormai dalla scorsa estate ed è difficile trovare i test. Ieri Joe Biden ha annunciato l'acquisto di altri 500 milioni di tamponi che vanno ad aggiungersi ai 500 milioni promessi a dicembre e non ancora distribuiti sul mercato.

Nel frattempo la stanchezza dei cittadini si scarica su Fauci, forse nel momento di popolarità più basso dall'inizio della pandemia. I repubblicani lo attaccano da ormai un anno, a prescindere. Da ultimo sono arrivati anche i colpi bassi.

Martedì 11 gennaio, il senatore Roger Marshall del Kansas, nel corso di un'audizione della Commissione Sanità, lo ha accolto con un cartellone a forma di assegno: 434.000 dollari. È lo stipendio annuale di Fauci, il più alto tra i dipendenti federali, compreso quello del presidente degli Stati Uniti. 

Marshall ha insinuato che lo scienziato avesse occultato i suoi guadagni. Fauci ha spiegato con calma che tutte le retribuzioni federali sono pubbliche e che quindi non c'era alcun segreto da svelare. Marshall ha proseguito il suo attacco, chiaramente in malafede. A quel punto, Fauci, ha sussurrato: «Ma che deficiente».

Intervento di Anthony Fauci pubblicato da "La Stampa" il 14 gennaio 2022.  

Questo testo è parte della lectio magistralis tenuta da Anthony Fauci all’Università La Sapienza di Roma, dove ha ricevuto il dottorato di ricerca honoris causa in Advances in infectious diseases, microbiology, legal medicine and public health sciences.

Poco più di due anni fa, a Wuhan, in Cina, è stato scoperto un nuovo coronavirus che provocava una grave polmonite. Battezzato Sars-CoV-2, questo virus da allora si è diffuso in tutto il mondo provocando centinaia di milioni di casi di malattia Covid 19, e più di cinque milioni di morti.

La pandemia di Covid 19 è stata caratterizzata dall’emersione e diffusione delle varianti di Sars-CoV-2, tra cui la delta, altamente trasmissibile e grave, e omicron, altamente trasmissibile e oggi predominante in molte parti del mondo.

I primi dati fanno pensare che la gravità della malattia provocata dall’infezione con la variante omicron sia più bassa delle varianti precedenti. Però, la maggiore trasmissibilità e capacità di superare le difese del sistema immunitario dell’Omicron possono produrre un impatto di gran lunga maggiore rispetto a tutte le varianti precedenti, soprattutto aumentando il fardello dei ricoveri e dei decessi, in particolare tra i non vaccinati a rischio più elevato.

L’infezione con Sars-CoV-2 viene associata a un vasto spettro di malattie, da infezioni asintomatiche a polmoniti acute e insufficienze di organi. Sono state registrate diverse complicazioni di Covid 19 di natura non polmonare, inclusi problemi neurologici, iperinfiammazioni, disfunzioni cardiache, ipercoagulabilità, insufficienza renale acuta e sindrome infiammatoria multisistemica (Mis-C) nei bambini.

Tra i fattori di rischio per la forma grave di Covid 19: l’età sopra i 65 anni e condizioni come obesità, ipertensione, diabete, malattia polmonare cronica o immunosoppressione. La battaglia contro il Covid 19 ha richiesto alla sanità pubblica un impegno di ricerca, pubblico e privato, senza precedenti.

I test clinici lanciati nelle primissime fasi della pandemia hanno mostrato gli effetti benefici di numerose terapie farmacologiche esistenti – tra cui quella con il remdesivir, i corticosteroidi e altri immunomodulatori – nel mitigare gli effetti più gravi. Successivamente lo sviluppo delle terapie con gli anticorpi monoclonali in infusione si sono dimostrate altamente efficaci nel prevenire lo sviluppo della malattia, se somministrate ai primi segni dell’infezione.

Alcuni di questi rimedi hanno però un’efficacia scarsa o nulla contro la variante omicron. Di recente, due farmaci efficaci da somministrare per via orale (Paxlovid e Molnupirivir) sono stati autorizzati per l’uso nei pazienti che hanno contratto il Sars-CoV-2 e sono ad alto rischio di sviluppare sintomi gravi.

Sono stati lanciati programmi di ricerca per scoprire e sviluppare altri farmaci antivirali contro il Covid 19 e le prossime pandemie virali. Il grande, straordinario successo della scienza sono stati i vaccini. Gli investimenti nella ricerca precedenti all’apparizione di Sars-CoV-2, e la formazione di robuste partnership tra pubblico e privato hanno permesso di accelerare la produzione del vaccino contro il Covid 19.

I vaccini mRna di Pfizer-BioNTech e Moderna e il vaccino con il vettore di adenovirus di Johnson&Johnson sono oggi autorizzati per l’utilizzo negli Stati Uniti e in molti altri Paesi. Diversi Paesi, tra cui il Regno Unito, la Russia, la Cina, l’India, hanno sviluppato vaccini con vari livelli di efficacia. 

Per quanto riguarda i vaccini utilizzati negli Usa, le ricerche sul terreno hanno dimostrato che essi riducono enormemente i casi di infezioni sintomatiche, di casi gravi e di morte da Covid 19.

Però la protezione (soprattutto contro l’infezione sintomatica) si allevia con il tempo, soprattutto di fronte alla variante Omicron che scavalca le difese immunitarie. Una dose booster (terza dose di mRna o seconda di vaccino all’adenovirus) ha mostrato di ripristinare un alto livello di protezione, perfino contro l’Omicron. 

Guardando al futuro, la principale priorità della ricerca sarà lo sviluppo di vaccini contro il coronavirus ad ampia protezione, impenetrabili alle varianti virali. —  Traduzione di Anna Zafesova

Fondi Usa e ricerche sui virus in Cina: nuove accuse contro Fauci. Federico Giuliani su Inside Over il 14 gennaio 2022.

Negli Stati Uniti si è appena aperto un nuovo capitolo sulla vicenda relativa alle origini del Sars-CoV-2. Anthny Fauci, infettivologo di riferimento della Casa Bianca per la gestione della pandemia, è finito nel mirino di Project Veritas, think tank statunitense di orientamento conservatore. In particolare, l’esperto è stato accusato di aver mentito sotto giuramento in merito alla natura delle ricerche sul coronavirus realizzate a Wuhan con il contributo economico di Washington. Per inchiodare Fauci, Project Veritas ha perfino divulgato vari documenti militari riservati – la cui autenticità è ancora in attesa di essere confermata – dai quali emergerebbe una versione inquietante.

Eccola, nei dettagli. La EcoHealth Alliance, un’organizzazione non governativa presieduta dallo scienziato Peter Daszak, già incluso nel team formato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) per indagare proprio sulle origini del Covid, avrebbe tentato di proporre un progetto sulla modifica del coronavirus dei pipistrelli all’Agenzia per i progetti avanzati di difesa (Darpa), l’agenzia statunitense incaricata dello sviluppo di nuove tecnologie per uso militare.

Il ruolo di Fauci

A quanto pare, e sempre secondo le indiscrezioni riportate dai media, la proposta di studiare le applicazioni di versioni mutate del coronavirus sarebbe stata presentata da EcoHealth Alliance a Darpa nel marzo 2018 e, stando ai documenti divulgati da Project Veritas, l’agenzia avrebbe bocciato il progetto di ricerca, dal nome in codice “Defuse“. Per quale motivo? EcoHealth Alliance avrebbe rilevato gli estremi del cosiddetto guadagno di funzione virale (gain of functions), ovvero la pratica di ibridazione di virus per conferire loro differenti caratteristiche e capacità.

Ricordiamo, infatti, che il guadagno di funzione è stato proibito negli Stati Uniti da una moratoria in considerazione della sua potenziale pericolosità, e proprio tale moratoria – unita forse alla bocciatura da parte dell’agenzia Darpa – avrebbe spinto EcoHealth Alliance a condurre le sue ricerche a Wuhan. Tali ricerche – ed è questo l’aspetto più oscuro – sarebbero state condotte grazie al contributo di fondi pubblici statunitensi autorizzati niente meno che da Anthony Fauci nella veste di direttore dell’Istituto nazionale di allergie e malattie infettive (Niaid), soggetto che fa capo ai National Institutes of Health (Nih).

Fondi Usa e ricerche pericolose

In aggiunta ai documenti pubblicati da Project Veritas e circolati sul web dallo scorso dicembre, il think tank ha ottenuto e divulgato anche un altro rapporto, attribuito all’Ispettorato generale del dipartimento della Difesa Usa e scritto da un ufficiale dei Marine, Joseph Murphy, ex membro dell’agenzia Darpa. Questo documento analizza il progetto di ricerca di EcoHealth Alliance, evidenziando che “non menziona o valuta i rischi potenziali legati al guadagno di funzione”. Si tratterebbe, secondo Project Veritas, di un’ammissione da parte del governo federale americano che le ricerche successivamente condotte a Wuhan – e potenzialmente all’origine della pandemia di coronavirus – potrebbero essere effettivamente ascrivibili alla fattispecie del guadagno di funzione virale, vietata negli Stati Uniti proprio per il rischio di generare agenti patogeni pericolosi per l’uomo.

Fauci, che è stato centrale nello stanziamento di fondi pubblici statunitensi per la conduzione di tali esperimenti nella città cinese, ha sempre negato durante le audizioni di fronte al Senato che la natura di tali ricerche fosse effettivamente riconducibile al guadagno di funzione. L’esperto ha sempre negato che, sotto la sua direzione del Niaid, l’Nih abbia volontariamente finanziato le ricerche sul “guadagno di funzione” del coronavirus condotte a Wuhan. Dai documenti sembra emergere invece che i fondi veicolati all’istituto di virologia cinese tramite la ong EcoHealth Alliance fossero espressamente destinati a sperimentare l’ibridazione di diverse tipologie di coronavirus, ottenendo un virus altamente trasmissibile agli esseri umani.

Francesca Paci per "la Stampa" il 14 gennaio 2022.

E dire che fino a ieri intonavano insieme al collega Fabrizio Pregliasco il jingle natalizio dei Sì Vax. Oggi invece gli illustrissimi Andrea Crisanti e Matteo Bassetti se le cantano l'un l'altro con toni che nemmeno Beniamino Andreatta e Rino Formica all'epoca della celeberrima "lite delle comari".

C'erano una volta gli scienziati dalle cui labbra pendevamo per esorcizzare la minaccia sconosciuta del primo Covid e ci sono adesso due professori che a forza di guardarsi reciprocamente in cagnesco non si tengono più, sbuffano, sbottano. 

A lanciare il guanto di sfida è Crisanti che, ospite in tv di Non è l'Arena, si pronuncia sulla proposta di rivedere il bollettino quotidiano dei contagi avanzata da Bassetti per ridimensionare l'ansia, prendendola di petto: è roba «da analfabeti in epidemiologia», dice.

Pronto risponde l'altro e, con altrettanta grazia, affida a Facebook l'elegia dello sfidante che, a suo dire, vanterebbe un curriculum digiuno di virologia e che, forse, «l'ultima volta in cui ha visitato un paziente è stato nel secolo scorso». 

Sfuma la musica di Jingle bells, la scena passa alle allegre comari del virus.

Roberto Burioni. Luigi Mascheroni per “il Giornale” il 24 Ottobre 2022.

Caro Roberto Burioni.

Se parliamo di giornalismo ci sono due possibilità: Lei si prende una laurea in Lettere, una specializzazione e un master in Comunicazione, e ci confrontiamo. Oppure - più comodo per Lei - io scrivo, Lei legge e alla fine mi ringrazia perché Le ho insegnato qualcosa. Uno non vale uno. 

Uno. Burioni, che se fosse una proteina sarebbe un anticorpo monoclonale, dal punto di vista scientifico non si discute. O lo veneri, o gli mandi una diffida.

Due. Bravo, Burioni è bravo.

Antipatico, ma bravo. Come divulga lui, neanche la Brigliadori.

Tre. Un consiglio, però: meno spocchia più empatia, Prof.

Prof. Virolog., immunolog., Magnifico Rett. Gran Antipat. di Gr.

Vaccin. Insopportab. Pezz. di Tuttolog. Burioni dott. Roberto, Duca Conte di Fermignano, capofila della prima ondata della virologia mediatica, il Professore detto il Gufo per la nota predisposizione al catastrofismo - è passato dall'Università San Raffaele di Milano al palcoscenico mediatico (da Repubblica a Che tempo che fa, dal Fatto quotidiano a Tiki Taka è stato ovunque) con una velocità superiore a quella di propagazione della variante Omicron.

Che gli scienziati definiscono «impressionante». Impressionante per la capacità di fare della scienza una corsia preferenziale dell'opinionismo e dell'opinionismo il campo di applicazione della scienza (in Italia da microbiologo a Pontifex Maximus è un attimo, e c'era chi lo vedeva già al Quirinale tra due corazzieri in mascherina), Roberto Burioni è solo l'ultimo di quei personaggi che capita di incontrare, fra un talk show e un tg, nella commedia umana che si ripresenta ogni sera, coi loro abiti eleganti e i volti come maschere di scena, in quel teatro del mondo in cui le persone peggiori occupano sempre i posti migliori. Venite avanti, voi: c'è posto per tutti...

Del resto a Dimartedì c'è Antonella Viola che parla di fascismo e del pericolo che l'Italia diventi come l'Ungheria... E forse ha persino ragione. Solo nel terzo mondo democratico - hospitium Italiae - i virologi, le veterinarie e gli infettivologi possono mutare impunemente da superstar della pandemia ad analisti militari del prime time o anche a scelta politologi politicanti di seconda serata. Fra le sottobranche della medicina, ultimamente si segnalano anche: l'allarme climatico, il Ddl Zan, l'approvvigionamento energetico, le pensioni, l'Ucraina e la squadra di Governo. Si chiamano mercanti di verità. E la frase «Abbiamo usato gli italiani come cavie» non si riferisce solo ai vaccini per il virus. È così: ci facciamo inoculare di tutto, un giorno sì e un giorno vax.

Tuttologi, twittologi, ubiqui, volubili, virologi e virali fra giornali, tv, radio, Rete, social network e Parlamento i medici, premiati dalle loro approssimazioni scientifiche, non vogliono perdere i privilegi mediatici acquisiti. E ce li ritroviamo a prescrivere ricette su ogni cosa. Fabrizio Pregliasco sull'energia, i termosifoni e i rischi del riscaldamento troppo basso. Ilaria Capua su ambiente, immondizia romana e sociologia spicciola. Andrea Crisanti de omnibus rebus et de quibusdam aliis. 

Massimo Galli ha scritto persino una Gallipedia. E Antonella Viola che è poco più della dottoressa Bruni di Un posto al sole su fascismi, caro bollette, cucina, sesso, gender, senza mancare di azzardare una curiosa teoria sulla correlazione tra il Covid e la guerra.

Immunologa: cura te ipsum. 

E alla fine al netto di un paio di dimenticabili scivoloni sul body shaming Roberto Burioni non è neppure il peggiore. Un topo da biblioteca diventato, accidentalmente, cavia di esperimento televisivo. Comunque, una lunga esposizioni agli spiegoni di Burioni sempre senza contraddittorio - garantisce nel tempo un'immunità acquisita.

Burioni, borioso, sborone, sbruffone, bulletto, debunker, blastatore, buongustaio e bucatini (è un ferreo sostenitore delle 3C: conoscenza, competenza e cacio&pepe), il Professore non è un Burioni qualsiasi. Preparato, posato, dosato - prima dose, seconda dose, terza dose, quarta dose... - persuasivo, paziente (ha il Covid), spietato (metodo Burioni: ecraser l'incompétent) e, certo, anche permaloso come un porcospino venduto al mercato della fauna selvatica di Wuhan, il dottor Kildare del Pisaurum ha spaccato l'Italia in due partiti: i fan di Burioni, che sono tantissimi, e i nemici di Burioni, che forse sono persino di più. 

A proposito di partiti. Perché se la scienza non è democratica, tutti gli scienziati invece lo sono? Camici bianchi e cuori rossi, non può essere un caso l'uniformità dell'orientamento politico dei virologi. Andrea Crisanti: eletto senatore nel Partito democratico.

Pier Luigi Lopalco: Articolo Uno (il partito di Roberto Speranza e Pier Luigi Bersani). Massimo Galli: Partito democratico. Antonella Viola: ala massimalista del Partito democratico. Ilaria Capua: «Chi mi protegge». Fabrizio Pregliasco: miglior offerente. Matteo Bassetti: aspetta il prossimo giro. 

Roberto Burioni: già renziano, «ora mi definisco liberale di sinistra» (ma che cazzo vuol dire?!). Scientificamente fazioso, televisivamente faziano, viro-star della domenica sera, 59 anni, pesarese con casa a Milano, zona Olgettine, microbiologo e immunologo, una bibliografia che fa tremare le vene e le endovene, l'unico virologo a essere conosciuto dal grande pubblico fin da prima della pandemia (poi ogni talk ha voluto il suo Burioni), nella graduatoria delle previsioni azzeccate sul Covid posizionato un po' sotto Bassetti e un po' sopra Paolo Fox, in corsa con Fiorello per co-condurre Sanremo 2023, un debole per la frase «Io l'avevo detto» e per i passatelli in brodo, Burioni che quando lo vedi dentro lo schermo, lo riempie, esonda, tracima di Scienza e Sapienza, è onniscente e onnipresente.

Burioni in Università. Burioni in tv. Burioni alla prima della Scala. Burioni alla «Milano Fashion Week». Burioni alle feste, sempre circondato di dame: «Professore, io ho già fatto la terza dose, potrei fare la quarta?» («Sì, nel culo»). 

Burioni su Facebook. Burioni su twitter. Burioni sulla chat di Cultura Italiae. Burioni in tour nelle librerie. Burioni alla mostra del cinema di Venezia. Burioni al Salone del libro di Torino. Burioni allo stadio («Forza Aquilottiiiiiiiiiiii!!!»).

Che poi. Non si è ancora capito se Roberto Burioni è il Lucio Caracciolo della virologia o Lucio Caracciolo il Burioni della geopolitica. Mah... Burioni è così. O lo adori o lo detesti.

Cose che Burioni adora: le vaccinazioni obbligatorie (sogno ricorrente: Elvis Presley che si fa vaccinare in diretta tv contro la poliomielite), la copertura di gregge, le greggi, le pecore, le pecorine, metterlo nel c**o ai NoVax, il generale Figliuolo, il generale Figliuolo vestito da pecora, la sovraesposizione televisiva, i gettoni delle ospitate televisive, le consulenze aziendali, Pfizer e il film Il generale cluster. 

Cose che Burioni detesta.

L'omeopatia, Beppe Grillo, Red Ronnie, i NoVax, l'Agicom (è reciproco), i virologi che vanno in tv tranne se stesso, l'affermazione «In Italia in questo momento il rischio è zero», le donne brutte, il fatto che la pandemia stia passando senza che lo abbia deciso lui, quelli che si permettono di commentare i suoi tweet: fragolina83, gattino17, novax68... E i pipistrelli. Ma anche le Iene. 

E per il resto. Sarà vero che il vaccino non è un'opinione. Ma intanto noi abbiamo finito le nostre. Mica siamo Burioni. E per la quinta dose, c'è sempre tempo (e persino per la sesta...).

Burioni: «Lasciai il pianoforte per iscrivermi a Medicina. E ai no vax non penso più». Tommaso Labate su Il Corriere della Sera il 29 Marzo 2022.

L’immunologo e il nuovo libro. «Guadagno? Ho studiato tanto. I vaccini con l’mRna? Come ribaltare una partita di calcio sotto 4-0 al 30° del secondo tempo» 

«Il sogno che avevo da bambino non sono riuscito a realizzarlo». 

Qual era?

«Fare il camionista».

Com’è finito a fare il medico?

«Alt, tra camion e camice c’è stato il pianoforte. L’ambizione degli anni dell’adolescenza, interrotta un secondo prima di iscrivermi al conservatorio».

Perché?

«Mio padre, a cui devo tantissimo, mi disse: “Per vivere di alcune cose basta l’impegno; per vivere di altre è necessario un certo talento. Il pianoforte fa parte delle seconde. Sei sicuro?”. Mi iscrissi a Medicina».

E lì comincia il capitolo decisivo della storia di Roberto Burioni, l’unico immunologo che in Italia si era costruito una discreta fama anche prima della pandemia, soprattutto perché incrociava le lame contro i no vax sui social network. Oggi esce in libreria per Rizzoli La formidabile impresa; un saggio, scritto come un romanzo, in cui si legge di come la rivoluzione mRNA, che sta alla base di due vaccini anti-Covid, possa essere decisiva per debellare un giorno anche il cancro.

Quanto è lontano questo giorno?

«Quando la scienza è rigorosa, cose all’apparenza insignificanti cambiano la storia all’improvviso. Se una ricercatrice ungherese degradata da un’università americana per il suo pessimo carattere non avesse incontrato alla fotocopiatrice uno scienziato concentrato su studi all’apparenza inutili su cani e gatti, ecco, oggi non avremmo avuto il vaccino contro il Covid-19 in un tempo insperato».

È un pezzo della «formidabile impresa» che racconta nel libro.

«Aggiunga la testardaggine di un ragazzo turco emigrato in Germania, la visione di un manager francese… Tutte persone che non si conoscevano tra loro. Mi creda, sono in pochi a comprendere oggi le dimensioni del miracolo del vaccino contro il Covid-19. Lo dico da esperto di calcio, senza esagerazioni: una partita che al trentesimo del secondo tempo è sul risultato di 0-4 viene ribaltata con cinque gol in un quarto d’ora e vinta 5-4. Se è successo questo, l’obiettivo del vaccino contro il cancro non è più un miraggio».

Quando ha capito la piega che stava prendendo il Covid?

«A gennaio 2020. Quando seppi che una manager cinese in viaggio in Europa aveva contagiato diverse persone. Era la prova che anche gli asintomatici, gente all’apparenza non malata, poteva trasmettere il virus. Dissi pubblicamente che era necessaria la quarantena per chi aveva avuto contatti con persone che venivano dalla Cina. Per tutta risposta un governatore regionale mi diede del “fascio-leghista”».

L’allora presidente della Toscana, Enrico Rossi.

«Sia chiaro, anche io ho sbagliato qualcosa. Due cose: dire che la mascherina serviva solo ai malati, perché durante un’epidemia si era sempre fatto così; e scommettere sull’arrivo del vaccino non prima di due anni. La seconda previsione sono stato felicissimo di averla toppata».

Le rinfacciano di aver detto all’inizio che in Italia c’era «rischio zero».

«L’ho detto il 2 febbraio 2020 perché le autorità in quel momento affermavano che il virus in Italia non c’era. E io mi sono fidato».

Che cosa le ha dato la pandemia che prima non aveva?

«Penso ad alcune amicizie con persone che prima non conoscevo. Il generale Figliuolo, per esempio. Ma soprattutto Fabio Fazio».

Hanno scritto che guadagna cifre stratosferiche andando ospite a «Che tempo che fa».

«Nessuno ha scritto le cifre esatte e comunque sono fatti miei e dell’agenzia dell’Entrate. Vuol sapere la cosa che mi colpisce di più delle polemiche sui compensi?».

Che cosa?

«In Italia se uno vince dieci milioni al Superenalotto, cioè senza avere alcun merito, la gente è felice per lui. I soldi guadagnati mettendo a frutto anni di studio e di lavoro, quelli no, a tanti danno fastidio».

Si è chiesto perché?

«Invidia, credo. Al Superenalotto hanno l’ambizione di poter vincere tutti. Lo studio e la fatica sono un’altra cosa, evidentemente».

La minacciano ancora i no vax?

«Sì ma non ci penso più di tanto».

Ha avuto paura qualche volta?

«Spesso, non lo nego».

Non ha mai riso delle minacce?

«Una volta uno ha scritto “Burioni criminale, satanista, piddino”».

Lei è del Pd?

«Mai avuto tessere di partito. Sono un liberale di sinistra, questo sì».

Il primo voto?

«Ai Radicali di Pannella».

Spera ancora nel dialogo con i no vax?

«Le do la risposta a cui credo, che è quella che mi amareggia di più. Non ci può essere alcun dialogo ormai. Essere no vax, alla luce di quanto sappiamo dei vaccini, è una scelta irrazionale. Impossibile convincere con le armi della ragione chi fa scelte irrazionali. Anche il tifo calcistico è irrazionale. Io sono tifoso della Lazio: secondo lei qualcuno, ragionando con me, potrebbe portarmi a tifare per una squadra che vince di più, tipo la Juventus?». 

PAOLO DEL DEBBIO per la Verità il 30 marzo 2022.

In un'intervista al Corriere della Sera il virologo Roberto Burioni ha decretato che lui medesimo a gennaio del 2020 sul virus aveva già capito tutto. Ma tutto tutto, perché, a dire da quel che ha affermato da lì in avanti, in quel tutto c'era tutto e il contrario di tutto. Ora, quando uno capisce tutto e il contrario di tutto o è Dio o non ha capito una mazza. Ci sembra che, con tutto il rispetto per lo scienziato, a gennaio 2020 il professor Burioni non avesse capito proprio tutto, nel senso comune del termine e non in quello divino. 

Prendiamo ad esempio cosa disse il 2 febbraio del medesimo 2020 quando, ospite di Fabio Fazio a Che tempo che fa, a proposito del Covid 19, sentenziò che «in questo momento in Italia il rischio è zero» e, alla domanda di Fazio sul perché si vedessero in giro tante mascherine, Buriotutto fece dell'ironia dicendo: «Sarà per l'inquinamento». Di lì a poco tornò sul luogo del delitto, infatti due giorni dopo, il 4 febbraio 2020, sostenne che «è molto più probabile avere un incidente stradale o essere colpito da un fulmine. Non ha seno preoccuparsi, non ha senso discriminare i cinesi, non ha senso evitare i ristoranti cinesi».

Questo a febbraio 2020 avendo un mese prima già capito tutto. Chissà cosa ci avrebbe detto l'irascibile Roberto Burioni se invece di capire tutto avesse capito solo in parte. Forse che il virus veniva da Marte e che dunque si poteva prendere solo dai marziani? Forse che avrebbe interessato solo l'intestino e che quindi si poteva scacciare con dosi abbondanti di Guttalax? 

Chissà. Vedete, se Burioni fosse uno che avesse avuto accesso a Tele Rocca Cannuccia di Sopra, il problema non sarebbe sussistito, ma questo signore ha pontificato per mesi e mesi su una rete della Rai, cioè sul servizio nazionale e, quindi, come minimo ci si sarebbe aspettati una qualche prudenza in più. Per carità, anche gli altri non hanno scherzato seppure su altre reti e su altre televisioni ma, certamente, almeno all'inizio del contagio Burioni ha dettato legge. Ma il professore ha continuato, ad esempio, a proposito del vaccino AstraZeneca.

Infatti, il 13 marzo del 2021 sosteneva la seguente tesi: «Vaccinatevi con AstraZeneca che è sicuro ed efficace». Il 17 aprile 2021, un po' meno di un mese dopo, sosteneva la tesi opposta dicendo che «purtroppo il vaccino AstraZeneca sembra non essere efficace nell'ostacolare l'infezione». Ahimè, è sempre stato in buona compagnia, se non dei virologi certamente di molti politici e membri del governo, primo fra tutti Giuseppe Conte con il suo famoso «è tutto sotto controllo» probabilmente pronunciato sentendosi forte del «rischio zero» decretato dal virologo. 

Ancora nel 2021 il professore si è esercitato nelle sue dichiarazioni, questa volta a proposito del vaccino ai bambini. Ad agosto, per l'esattezza il 29, di fronte ai dubbi espressi dall'onorevole Claudio Borghi della Lega sulla somministrazione del vaccino alla fascia d'età che va dai cinque agli 11 anni, Burioni affermò che «gli unici per cui non ha senso il vaccino sono i bambini sotto i dodici anni.

Dica questo in Parlamento perché è la verità». Peccato che, in risposta alla notizia che l'Agenzia del farmaco aveva approvato il vaccino, sosteneva in un tweet: «Aifa approva vaccino Covid 19 per bimbi 5-11 anni. Evviva!». Sosteneva Galileo Galilei che la scienza deve procedere per «sensate esperienze e necessarie dimostrazioni». Questo vuol dire che bisogna lasciare alla scienza i tempi adeguati per poter arrivare a dire con certezza qualcosa a proposito di qualcos' altro. Non ci riferiamo naturalmente al professor Burioni, ma vogliamo far notare che scienza e scemenza hanno delle assonanze foniche non indifferenti e questo perché queste assonanze invitano a non proclamare una scemenza quando la scienza non ha ancora fatto il suo cammino. Insomma, ci vuol prudenza per non dire una scemenza che non sia frutto di scienza. Un altro filosofo, questa volta del Novecento, Karl Popper, sosteneva, rivolgendosi anche agli scienziati, la seguente convinzione: «Ogni qualvolta una teoria ti sembra essere l'unica possibile, prendilo come un segno che non hai capito né la teoria né il problema che si intendeva risolvere». Per carità, anche in questo caso non ci riferiamo al chiarissimo professor Burioni che certamente ha capito sia teoria che problema, almeno dal gennaio 2020, come lui stesso ha detto. Ma ci riferiamo alla necessità per gli scienziati di essere prudenti perché fino al momento in cui le proprie ipotesi se le tengono per loro, o ne discutono in cerchie ristrette, non vi è problema. 

Ma quando ne parlano in pubblico possono fare dei danni perché la gente comune pensa di loro che sono scienziati e che quindi si possa fidare. Non c'è da fare chissà che. Solo adoperare l'antica virtù della prudenza, virtù di tutte le virtù, perché prima di fare un passo ti consiglia di vedere e verificare quello che dicono tutti e solo dopo farlo.

"Analfabeti di epidemiologia": Crisanti contro Bassetti. Francesca Galici il 12 Gennaio 2022 su Il Giornale.

La proposta di Bassetti di rimodulare il bollettino dei contagi non va giù ad Andrea Crisanti, che critica duramente l'ipotesi per il nuovo corso.

Sembravano finiti i tempi delle disfide tra virologi, degli scontri aperti in tv. Invece, la quarta ondata e tutto ciò che ne consegue ha nuovamente aperto questo triste capitolo della pandemia italiana, scrivendo una nuova pagina di scontri tra virologi. A confrontarsi in maniera molto animata sono stati Andrea Crisanti e Matteo Bassetti. O meglio, è stato il primo a dare contro al secondo, non presente durante la puntata di Non è l'arena. Tuttavia, durante la trasmissione Cartabianca andata in onda ieri, Matteo Bassetti si è lasciato andare a una smorfia di disappunto quando è stato fatto il nome di Andrea Crisanti.

Nel programma condotto da Massimo Giletti su La7, uno dei temi affrontati è stato inevitabilmente la nuova proposta di conteggio dei casi o, meglio, una rimodulazione su scala settimanale dei bollettini dei contagi proposti da Matteo Bassetti. Proposta che, come si evince dalla reazione, non convince da nessun punto di vista il professore di biologia Andrea Crisanti. "Quando lei guida in autostrada, per capire se va veloce, guarda l'indicatore di velocità e può controllare se si mette in pericolo. Sul cruscotto della pandemia gli indicatori sono il numero dei casi, l'incidenza RT e il numero delle persone che vanno in ospedale e in rianimazione sono un effetto collaterale della diffusione del virus", ha detto Crisanti rivolgendosi a Giletti.

Quindi, il professore sferra l'affondo brutale su Matteo Bassetti e sulle sue dichiarazioni delle scorse ore: "Penso che le dichiarazioni siano da analfabeti di epidemiologia". Parole al vetriolo da parte di Andrea Crisanti davanti alla proposta del direttore della clinica Malattie infettive dell'ospedale San Martino di Genova, che all'Agi ha ribadito il suo pensiero. Per altro, la proposta di Matteo Bassetti, è stata presa in considerazione anche dal Cts, che in queste ore sta valutando l'ipotesi di rimodulare il bollettino.

"Nei nostri reparti siamo ben oltre il 35% di ricoverati che con il Covid-19 non c’entrano nulla. Non hanno della malattia nessun sintomo, ma solo la positività al tampone per l’ingresso in ospedale. Anzi, dirò di più, questo avviene anche nella registrazione dei decessi: se il paziente entra in ospedale per tutt’altro, ma è positivo e muore, viene automaticamente registrato sul modulo come decesso Covid. Sono numeri assolutamente falsati", ha dichiarato poche ore fa Matteo Bassetti, per dare ulteriore valore alla sua proposta di rivedere il report dei contagi.

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

Minacce di morte sul cellulare, Bassetti abbandona Zona Bianca. Il Tempo il 09 febbraio 2022.

Inaspettato fuori programma durante "Zona Bianca", la trasmissione andata in onda mercoledì 9 febbraio su Rete4. Durante la diretta tv, l'infettivologo del San Martino di Genova ha ricevuto minacce di morte. Così ha preferito abbandonare lo studio. Lo ha raccontato lo stesso Giuseppe Brindisi: "Matteo Bassetti è andato via perché ha ricevuto dieci minacce di morte sul telefonino. Matteo Bassetti sarà ancora ospite di Zona Bianca".    

Durante la serata, Bassetti aveva parlato del caso del bambino non operato al cuore perché i genitori non vogliono che venga trasfuso con sangue di persone vaccinate. "In un momento come questo - ha detto Bassetti - se qualche medico diffonde notizie false non fa il suo mestiere. Quando noi medici facciamo studi scientifici li facciamo in accordo con gli statistici".  

Dagospia il 9 febbraio 2022. Da "Un Giorno da Pecora".

Crisanti? “Io non discuto con chi non stimo, e Crisanti non lo stimo perché parla di cose che non sa. Per alcuni argomenti è meglio ascoltare chi vede tutti i giorni i malati non chi non l'ha mai visti se non durante il corso di laurea”.

Lo dice a Rai Radio1, ospite di Un Giorno da Pecora, Matteo Bassetti, Direttore Clinica Malattie Infettive Ospedale Policlinico San Martino di Genova. 

Lei è ormai un personaggio molto popolare. Cosa direbbe in caso di proposta di candidatura alle elezioni politiche? “Nella vita mai dire mai, oggi direi no, vediamo domani. In questi casi - ha detto Bassetti a Rai Radio1 - dipende sempre quali sono le offerte e cosa vai a fare, ma ora non ci penso, il 2023 s'ha da venì, poi ci penseremo".

Matteo Bassetti distrugge Andrea Crisanti: "Mi ha dato dell'analfabeta? Bene, ecco il suo curriculum". Clamoroso, cosa spunta. Libero Quotidiano il 14 gennaio 2022.

Scontro a distanza tra Matteo Bassetti e Andrea Crisanti. Il video natalizio con la canzone pro-vaccini che li vede uno a fianco all'altro sembra acqua passata. E così il direttore della Clinica delle Malattie Infettive dell'ospedale San Martino di Genova replica alle accuse e alle critiche rivoltegli dal microbiologo dell'università di Padova. Crisanti aveva infatti definito chi come Bassetti è contrario al bollettino quotidiano "analfabeti di epidemiologia". Per il microbiologo "nel cruscotto della pandemia ci sono il numero dei casi, l'incidenza e l'Rt. E il numero delle persone che vanno in ospedale e in rianimazione rappresenta l'effetto collaterale della diffusione del virus".  

Parole che non sono andate giù all'infettivologo. Finita la puntata di Non è l'Arena e passata qualche ora, Bassetti dice la sua sulla vicenda e senza mezzi termini. "Mi hanno detto che Crisanti mi ha dato dell’analfabeta di epidemiologia perché ho suggerito di rendere più clinico e meno biologico il report giornaliero sui contagi. Lo prendo come un gran complimento". Poi l'infettivologo ci va più pesante: "Spiace che chi lo ha fatto parli di come curare la gente, ma non sappia la differenza tra un metatarso e un tampone e che l’ultima volta (se lo ha mai fatto) che ha visitato un paziente è stato forse nel secolo scorso. Scorrendo poi il curriculum non si rileva traccia di studi di virologia … se non dal marzo 2020….l’analfabeta in malattie infettive sembra qualcun altro. Ad maiora".

Bassetti nei giorni scorsi aveva criticato la diffusione del bollettino giornaliero sui numeri del Covid. Tra le motivazioni, secondo l'infettivologo, il fatto che vengono contati come malati di Covid quelli che vengono ricoverati per un braccio rotto e risultano positivi al tampone. "Bisogna anche finirla col report serale, che non dice nulla e non serve a nulla se non mettere l’ansia alle persone, siamo rimasti gli unici a fare il report giornaliero", era stato il suo sfogo.

Zona Bianca, Matteo Bassetti umilia Andrea Crisanti: “Non è al mio livello, non parlo di medicina con un microbiologo”. Il Tempo il 20 gennaio 2022.

Ivirologi sono i nuovi volti dello scontro televisivo e dei veleni a distanza. Sono ancora una volta protagonisti Andrea Crisanti e Matteo Bassetti, che nell’ultimo periodo non se le sono di certo mandate a dire a livello di scambio di accuse per le opinioni sul Covid. Il direttore dell'Ospedale Policlinico San Martino di Genova è ospite della puntata del 19 gennaio di Zona Bianca, programma di Rete4 che vede Giuseppe Brindisi alla conduzione, ed è durissimo nei confronti di Crisanti: “Da uno che non sa la differenza che c’è tra un metatarso e un tampone io non parlo di medicina. Ho sentito che ha disquisito anche di mortalità ma credo che nella sua vita non abbia mai compilato un modulo Istat di mortalità, per cui come fa a parlare di mortalità di pazienti Crisanti? Il problema è di porsi ad un livello uguale. Lui fa il microbiologo, lavora in un laboratorio, si è messo a disquisire di un dato. Io ho detto che secondo me sarebbe meglio cambiare il rapporto quotidiano, ovvero, sarebbe più corretto che ci fosse chi è contagiato sintomatico, chi è contagiato asintomatico e soprattutto su quelli in ospedali quanti hanno la polmonite da Covid, quanti sono sintomatici della polmonite da Covid. Se poi il ministro Speranza preferisce tenerlo così non c’è problema. Ieri - sottolinea l’infettivologo ligure - abbiamo fatto un esercizio molto grave per il nostro Paese perché abbiamo dato un conto di morti che non erano quelli del giorno prima. 72 decessi della Sicilia erano relativi alle settimane precedenti. Secondo me non abbiamo fatto un bel servizio all’Italia”. 

Ma che cosa ha fatto irritare così tanto Bassetti. Durante la puntata della scorsa settimana di Non è l’Arena il conduttore Massimo Giletti aveva chiesto a Crisanti un parere sulla proposta di Bassetti di cambiare metodologia nel dare il report sul Covid, fornendo i dati una sola volta a settimana. “Quando lei guida in autostrada per capire se va veloce guarda l'indicatore di velocità e può controllare se si mette in pericolo. Sul cruscotto della pandemia gli indicatori sono il numero dei casi, l'incidenza RT e il numero delle persone che vanno in ospedale e in rianimazione sono un effetto collaterale della diffusione del virus. Penso che le dichiarazioni siano da analfabeti di epidemiologia”, la replica di Crisanti all’idea di Bassetti, che ora si è tolto un macigno dalla scarpa.

Matteo Bassetti, ciò che non sapete sulla moglie Maria Chiara: "Ecco cosa possiede", un impero in famiglia? Libero Quotidiano il 23 gennaio 2022.

Non ci sono dubbi, Matteo Bassetti è il virologo del momento. Seguitissimo e ascoltatissimo, negli ultimi giorni ha rilanciato l'idea di abolire il bollettino. E non solo: continua a chiedere a gran voce l'allentamento delle restrizioni, soprattutto per i vaccinati, poiché giudicate anacronistiche soprattutto in un momento in cui i dati dei ricoveri stanno migliorando in modo sensibile.

Bassetti, direttore della clinica Malattie infettive dell'ospedale San Martino di Genova, ama mettersi in mostra e ama la tv. E sul piccolo schermo, in passato, si è presentato anche insieme alla moglie, Maria Chiara Milano Viesseux. Ma chi è la consorte del mitico virologo?

Per i feticisti del gossip, ecco qualche interessante informazione. Maria Chiara ha poco più di 40 anni, si è diplomata al liceo scientifico, dunque una laurea in Scienze Politiche con indirizzo economico all'Università degli studi di Genova. E ancora, è titolare dell'hotel Rex Residenzce di Albaro di Genova. 

Bassetti e consorte si incontrarono e fidanzarono nel 2003, i due sono sposati. Hanno anche due figli: Dante, di 15 anni, che porta lo stesso nome del papù del virologo, e Francesco, che di anni ne ha 12. Come detto, tempo fa Maria Chiara fu ospite in una puntata di Domenica Live, il programma di Barbara D'Urso in onda su Canale 5, in cui aveva raccontato i primi mesi della pandemia, che per lei, col marito sempre in prima linea in ospedale, furono particolarmente difficile. In tv, Maria Chiara aveva anche raccontato di come Bassetti avesse vissuto la prima ondata con enorme preoccupazione.

Tagadà, Matteo Bassetti durissimo contro la magistratura: "Aspetto da otto mesi", ecco cos'è la giustizia italiana. Libero Quotidiano il 14 febbraio 2022.

La vicenda è tristemente nota: Matteo Bassetti ancora minacciato, insultato, stlkerizzato. Il tutto ormai da quasi 24 ore, ovvero da quando il suo numero di telefono è finito, ancora una volta, in una chat no-vax su Telegram. Da quel momento, l'incubo: gli insulti e le bestialità contro il virologo genovese, "reo" di aver sostenuto il vaccino e la campagna vaccinale. E di quanto gli sta accadendo, Bassetti ha parlato in collegamento a Tagadà, la trasmissione condotta da Tiziana Panella su La7. E ha colto l'occasione per sferrare un duro attacco alla magistratura, o meglio ai tempi biblici e insostenibili della giustizia italiana.

"Come già successo in passato, qualcuno ha messo il mio numero di cellulare su una chat Telegram: da ieri continuo a ricevere telefonate, insulti, minacce - ha premesso -. Tramite il mio avvocato ho denunciato tutto. Ma qui ci vuole che anche la magistratura abbia dei tempi commisurati a un virus così rapido. La prima denuncia risale a otto mesi fa: in otto mesi non ho visto neanche un processo iniziare. Credo ci si dovrebbe interessare: io fungo da uomo di Stato, sostenendo le vaccinazioni, e da uomo di Stato pretendo di essere tutelato", picchia duro Bassetti. E ancora, aggiunge: "Non basta il lavoro eccezionale che fanno Digos e Polizia Postale, che ringrazio: ci vorrebbe anche un intervento forte per far capire a queste persone che stanno superando il limite. Siamo allo stalking, alle minacce aggravate", rimarca.

Poi, imbeccato sul punto dalla Panella, ricorda: "Io vivo sotto tutela della Polizia di Stato. Non mi sono mai risparmiato. Però quello che abbiamo fatto fino ad oggi, non solo io, lo abbiamo fatto per dare forza alla campagna vaccinale, in primis per merito del generale Figliuolo e del governo. Ora è arrivato il momento che noi medici veniamo difesi: fino ad oggi di difesa ne ho vista poca", conclude Bassetti ribadendo nei fatti il suo atto d'accusa.

Da liberoquotidiano.it il 20 febbraio 2022.

L'orrore, la violenza e la vergogna dei no-vax ancora una volta vanno a colpire Matteo Bassetti, il virologo genovese da tempo sotto sorveglianza per le minacce, anche di morte, ricevute dalla galassia anti-vaccino. 

L'ultima denuncia del direttore del reparto Malattie infettive del San Martino di Genova arriva direttamente da Instagram, nella tarda mattinata di domenica 20 febbraio: Bassetti rivela l'ultima aggressione subita, il tutto mentre si trovava insieme alla moglie, Maria Chiara Milano Vieusseux. Non a caso, a corredo del post, una foto in cui l'esperto si mostra insieme proprio alla consorte. 

"Nemmeno un aperitivo in santa pace - premette Bassetti - Ieri sera ho subito l’ennesima violenta aggressione verbale da parte di un manipolo di no vax no greenpass, o quello che erano, mentre ero seduto ad un tavolino in via XX Settembre, la principale via di Genova per un aperitivo con mia moglie. Un attacco vile, gratuito, in una contesto della mia vita privata in cui, l’unica mia colpa, era quella di godermi il venerdì sera nel centro cittadino", rivela un esasperato Bassetti.

"Questi personaggi con un attacco simile (al grido di Bassetti vattene da Genova) per l’ennesima volta dimostrano quanto poco gli importi del vaccino, della salute, del benessere sociale, in quanto il loro scopo è soltanto quello di fomentare odio nei miei confronti e di tutti i sanitari e turbare la tranquillità dei cittadini", aggiunge.

E ancora: "Ciò che mi rammarica di più è che, nel corso di questi due anni in cui vengo spesso brutalmente attaccato con ogni tipo di insulto, una parte anche della politica cittadina genovese non abbia mai speso una parola di solidarietà. Meditiamo. Personalmente, continuerò a lottare per quei valori di libertà, anche di espressione, che mi hanno sempre animato. Avanti a testa altissima", conclude Matteo Bassetti, che a mollare o a retrocedere dalle sue posizioni non ci pensa neppure.

Matteo Bassetti aggredito in un locale di Santa Margherita Ligure: "Sorpreso da dietro". Libero Quotidiano l'11 giugno 2022

Glielo avevano promesso e l'hanno fatto: l'infettivologo Matteo Bassetti, in prima fila nella lotta al covid, è rimasto vittima di una aggressione da parte di due no vax. Dopo mesi di minacce, è successo in un locale di Santa Margherita Ligure dove il direttore della Clinica di Malattie infettive dell'ospedale San Martino di Genova, aveva appena trascorso "un momento di spensieratezza". Lo ha raccontato lui stesso sui social: "Un'aggressione no-vax vera in un momento di spensieratezza. Mentre consegno la mia carta di credito per pagare il conto, da dietro mi arriva addosso un cocktail pieno di ghiaccio e del suo contenuto. I cubetti mi colpiscono la testa e il liquido mi corre lungo la schiena. Penso a uno scherzo. Mi giro e vedo una coppia che mi guarda molto aggressivamente e dopo che gli chiedo cosa avessero fatto scappa dal locale". 

Gli amici che erano con Bassetti sono riusciti a raggiungere i due esagitati e alla richiesta di spiegazioni hanno risposto che Bassetti è "quello 'che ha fatto le punturine che hanno ammazzato un sacco di gente'" e che meritava di essere colpito e aggredito. A quel punto sono intervenuti i carabinieri che hanno identificato i malintenzionati. Pericolo scampato, ma Bassetti si toglie i sassolini dalla scarpa: "Sono stanco di questi continui attacchi a me e alla mia famiglia. Sono francamente affranto e ormai senza parole", denuncia l'infettivologo. "Io ho solo fatto il mio lavoro di medico spingendo le persone a vaccinarsi. Provo tristezza assoluta. Uno Stato che non sa tutelare e difendere i suoi medici, dopo quello che è capitato negli ultimi due anni, ha poco futuro". 

L'infettivologo era con moglie e amici. Bassetti aggredito da coppia no-vax, blitz in un locale: “Gridavano che ero quello che aveva fatto le punturine”. Carmine Di Niro su Il Riformista l'11 Giugno 2022. 

Di Covid-19 si parla sempre meno, le restrizioni sono ormai quasi scomparse così come il ‘dibattito’ sui vaccini, eppure la rabbia no-vax non è scemata. A testimoniarlo è l’aggressione subita dall’infettivologo Matteo Bassetti, direttore della ‘Clinica Malattie Infettive’ del Policlinico San Martino di Genova.

A raccontare l’aggressione è lo stesso Bassetti, via social, dopo il brutto episodio avvenuto in un locale di Santa Margherita Ligure, dove stava trascorrendo la serata con la moglie e alcuni amici.

“Un’aggressione no-vax vera in un momento di spensieratezza – la definisce lo stesso Bassetti sui social -. Mentre consegno la mia carta di credito per pagare il conto, da dietro mi arriva addosso un cocktail pieno di ghiaccio e del suo contenuto. I cubetti mi colpiscono la testa e il liquido mi corre lungo la schiena. Penso a uno scherzo. Mi giro e vedo una coppia che mi guarda molto aggressivamente e dopo che gli chiedo cosa avessero fatto scappa dal locale. Fuori dopo che erano scappati lontani, i miei amici dopo averli seguiti chiedono loro perché lo avessero fatto. I due gridano che io sono quello ‘che ha fatto le punturine che hanno ammazzato un sacco di gente’ e che mi meritavo di essere colpito e aggredito”.

Sul posto sono intervenuti i carabinieri, allertati dal gruppo di amici di Bassetti, con i militari che hanno identificato i due aggressori. Ma l’infettivologo, ovviamente, non ne può più di questa situazione, dato che le minacce nei suoi confronti non sono una novità. 

“Sono stanco di questi continui attacchi a me e alla mia famiglia. Sono francamente affranto e ormai senza parole. – denuncia Bassetti – Io ho solo fatto il mio lavoro di medico spingendo le persone a vaccinarsi. Provo tristezza assoluta. Uno Stato che non sa tutelare e difendere i suoi medici, dopo quello che e’ capitato negli ultimi due anni, ha poco futuro”.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Da liberoquotidiano.it il 18 febbraio 2022.

Villa Priuli Custoza è diventata di proprietà di Andrea Crisanti. La dimora storica di Vincenzo Scamozzi, costruita nel Seicento, non è quindi più sul mercato: ad acquistarla per una cifra vicina ai 2 milioni di euro è stato proprio il microbiologo diventato famoso in tutta Italia per le divulgazioni in televisione sul Covid.

Più di qualcuno è rimasto sorpreso dall'acquisto di Crisanti, che lo ha giustificato così a Repubblica: "Si guadagna così bene facendo il microbiologo? Sono un professionista di 66 anni, qualcosa nella vita l'avrò pur guadagnato. E comunque non conta tanto quello che uno guadagna, ma quanto uno spende. Io e mia moglie abbiamo sempre condotto una vita semplice, senza tanti viaggi e lavorando tanto”.

Pare che Crisanti sia rimasto rapito dalla villa: “Era da lungo tempo che mia moglie e io cercavamo una dimora di questo tipo - ha raccontato al Corriere della Sera - e finalmente siamo riusciti ad acquistare una casa storica che obiettivamente era intatta.

Conservava ancora le caratteristiche originali. Non è stata alterata ed è la cosa principale per noi, perché a dire il vero ci sono moltissime case e ogni volta che entravo da qualche parte soffrivo nel vedere come erano state manomesse. Questa ha tanti lavori da fare e sicuramente impegnerà molti risparmi miei e di mia moglie”.

La villa, che si trova nella frazione di Villa del Ferro, è circondata da 1,2 ettari di giardini: ma cosa intende farci Crisanti? “L’obiettivo è anche quello di restituire questa dimora storica alla comunità. Sicuramente la metteremo in sicurezza - ha spiegato al Corriere della Sera - e la apriremo alle scuole, affinché possano godere del verde e faremo un centro multimediale per dotare la comunità di uno spazio per le manifestazioni culturali”.

Andrea Crisanti e la villa storica: «L’ho presa con i risparmi. In tv vado sempre gratis». Marco Imarisio su Il Corriere della Sera il 19 Febbraio 2022. 

Andrea Crisanti si dice «stupito dalle polemiche» dopo aver acquistato Villa Priuli Custoza, a Val Liona, in provincia di Vicenza: «Non vivo tra ori e lusso. Io e mia moglie occupiamo posizioni apicali da tempo e abbiamo sempre condotto una vita frugale» 

Professor Crisanti, era il momento giusto?

«Io e mia moglie abbiamo iniziato le trattative per quella villa con giardino in provincia di Vicenza un anno e mezzo fa. E quando abbiamo firmato il rogito, come potevo aspettarmi che la notizia diventasse di pubblico interesse?». 

Forse per via del fatto che negli ultimi due anni non ha condotto una vita molto appartata?

«Se è per questo, ho una bella casa anche a Londra, dove lavoravo fino a pochi anni fa e avevo ottenuto riconoscimenti importanti. Eppure, non è mai successo che qualcuno ne discutesse». 

Anche in Inghilterra le capitava di andare in televisione una settimana sì e l’altra pure?

«No, certo che no. C’è differenza, lo riconosco. Ma sono rimasto comunque sorpreso e colto alla sprovvista dal rilievo dato a una vicenda privata. A dirla tutta, ci sono rimasto male». 

Lo prendiamo come un segno del fatto che non se ne può più, della pandemia e dei virologi divenuti celebrità televisive?

«Lo penso anch’io. Mi sembra evidente che la nostra stagione sta ormai finendo. Ci sono segni evidenti di un rigetto, non solo mediatico, nei nostri confronti. In questa fase, esiste anche una componente psicologica che porta a uno spirito di rivalsa verso chi ha avuto un’immagine pubblica per via di una tragedia enorme. Ma io non mi sono mai sentito un personaggio, mai. Vado in televisione, rispondo ai giornalisti, cerco di fare divulgazione. Non sono un divo, non vivo nel lusso e negli ori». 

Vale la pena rispondere alle accuse di essersi arricchito con la pandemia?

«Sono io che le chiedo di lasciarmelo fare. Si può essere d’accordo o meno con quel che dico, ma non si dovrebbe mai scendere così in basso. Sfido chiunque a dimostrare che io ci abbia guadagnato un euro. In televisione, ci sono andato sempre gratis. I compensi per le mie consulenze li ho sempre girati al mio dipartimento. Se oltre ai soliti leoni da tastiera qualcuno ci mette la faccia sostenendo questa tesi vergognosa e infamante, lo denuncio». 

Lei frequenta i social?

«Mi ci stavo avvicinando prima che tutto questo cominciasse. Poi, ho subito smesso. Se cominci a leggerli, e guardare cosa si dice sul tuo conto, finisci per riflesso incondizionato a pensare e agire per accontentare chi ti elogia oppure per blandire chi ti attacca. Ti fai condizionare in ogni caso, e perdi autenticità. E così quando ho capito che il mio lavoro e la mia opinione cominciavano ad avere un certo peso, ho deciso di isolarmi, di non leggere nulla sui social, di non utilizzarli». 

Pensa di aver fatto bene?

«Se parliamo di lavoro, assolutamente sì. Sono riuscito a preservare la mia integrità. A livello personale, forse ignorare i social non mi ha fatto capire l’eco che avevano le mie parole, facendomi sottovalutare la mia notorietà. Davvero, è assurdo dover rispondere dell’acquisto di una casa». 

Non è esattamente un bilocale con servizi...

«E non ritengo di doverne rendere conto a nessuno. Ma voglio dire due cose. La prima: non costa due milioni. La seconda: ho fatto un mutuo, neppure troppo leggero. Quanto alle dimensioni, è una dimora - va meglio se la chiamiamo così? - progettata per ospitare familiari, parenti e amici, e stare insieme. Ho una certa età, è normale pensare a cose come questa. Me lo posso permettere. Sono una persona agiata. Io e mia moglie occupiamo posizioni apicali da molto tempo. E abbiamo sempre condotto una vita frugale. I soldi, non li abbiamo mai buttati. E insomma».

Se non altro, adesso sappiamo della sua passione per l’arte.

«L’ho ereditata da mio nonno, che fu uno dei più importanti restauratori italiani di chiese e luoghi sacri. Quando abitavo a Londra, alcuni amici antiquari avevano scoperto una mia dote. Se osservo un quadro, nella mia testa si scompone in mille particolari, che poi riesco a ritrovare in altre opere dello stesso pittore. Una virtù utile quando è necessario attribuire la paternità di un dipinto. Era diventato quasi un secondo lavoro. Ho smesso dieci anni fa, perché ci tenevo troppo ai miei studi di genetica. Ma pure questo dettaglio personale viene usato e citato con malizia, per suggerire chissà quale mia ricchezza». 

Una volta accettata la notorietà, non è inevitabile subirne anche le conseguenze più fastidiose?

«Ma io non l’ho cercata! E adesso che noi virologi stiamo rientrando nei ranghi non mi mancherà, glielo giuro. Le prime volte sono andato in televisione volentieri, per vincere la mia timidezza intrinseca. Quando infine l’ho superata, l’ho fatto solo per dovere. E dal punto di vista scientifico, avevo le mie soddisfazioni anche prima della pandemia. A me piace la vita sottotraccia, ci torno volentieri». 

Così potrà iniziare in santa pace i lavori di ristrutturazione?

«Spero di non farli sotto gli occhi dell’Italia intera. E comunque non saranno opere di ristrutturazione ma di restauro, per mantenere l’esistente. Mi raccomando, anche in questo caso c’è differenza».

Massimo Gramellini per Il “Corriere della Sera” il 19 febbraio 2022.

Dopo una vita di lavoro, uno stimato professionista di sessantasei anni decide di soddisfare la sua grande passione per il restauro e acquista con la moglie una villa veneta del Cinquecento per meno di due milioni, accendendo un mutuo e dando fondo ai risparmi di famiglia. Perché quest' uomo è costretto a giustificarsi come un ladro e a dichiarare pubblicamente di condurre un'esistenza morigerata e di non essersi arricchito con il Covid? 

Perché si tratta di Andrea Crisanti, il virologo tendenza crisantemo che per due anni si è affacciato in televisione a dirci che le cose andavano male ma sarebbero andate peggio se non ci fossimo comportati meglio. Quindi chi si erge ad autorità morale o, come nel caso di Crisanti, lo diventa sull'onda di un'emozione collettiva, secondo un pregiudizio diffuso dovrebbe prendere i voti di povertà. 

Di per sé la ricchezza non infastidisce il pubblico, se colui che la ostenta è un gaudente e non pretende di suggerire regole, anzi si diverte un mondo ad aggirarle. Se invece il benessere economico arride a chi è salito, o si è ritrovato, su una cattedra da cui ha impartito lezioni su ciò che è bene e ciò che è male, immediatamente scatta il sospetto dell'interesse personale, neanche Crisanti fosse il socio occulto di una multinazionale che produce tamponi e mascherine. È un malizioso riflesso condizionato che sa di vendetta, dal momento che, nell'era dell'ego espanso, a nessuno fa piacere ascoltare le prediche altrui. Specie se sono scomode.

Marco Imarisio per il "Corriere della Sera" il 19 febbraio 2022.  

Professor Crisanti, era il momento giusto?

«Io e mia moglie abbiamo iniziato le trattative per quella villa con giardino in provincia di Vicenza un anno e mezzo fa. E quando abbiamo firmato il rogito, come potevo aspettarmi che la notizia diventasse di pubblico interesse?». 

Forse per via del fatto che negli ultimi due anni non ha condotto una vita molto appartata?

«Se è per questo, ho una bella casa anche a Londra, dove lavoravo fino a pochi anni fa e avevo ottenuto riconoscimenti importanti. Eppure, non è mai successo che qualcuno ne discutesse».

Anche in Inghilterra le capitava di andare in televisione una settimana sì e l'altra pure?

«No, certo che no. C'è differenza, lo riconosco. Ma sono rimasto comunque sorpreso e colto alla sprovvista dal rilievo dato a una vicenda privata. A dirla tutta, ci sono rimasto male». 

Lo prendiamo come un segno del fatto che non se ne può più, della pandemia e dei virologi divenuti celebrità televisive?

«Lo penso anch' io. Mi sembra evidente che la nostra stagione sta ormai finendo. Ci sono segni evidenti di un rigetto, non solo mediatico, nei nostri confronti. In questa fase, esiste anche una componente psicologica che porta a uno spirito di rivalsa verso chi ha avuto un'immagine pubblica per via di una tragedia enorme. Ma io non mi sono mai sentito un personaggio, mai. Vado in televisione, rispondo ai giornalisti, cerco di fare divulgazione. Non sono un divo, non vivo nel lusso e negli ori».

Vale la pena rispondere alle accuse di essersi arricchito con la pandemia?

«Sono io che le chiedo di lasciarmelo fare. Si può essere d'accordo o meno con quel che dico, ma non si dovrebbe mai scendere così in basso. Sfido chiunque a dimostrare che io ci abbia guadagnato un euro. In televisione, ci sono andato sempre gratis. I compensi per le mie consulenze li ho sempre girati al mio dipartimento. Se oltre ai soliti leoni da tastiera qualcuno ci mette la faccia sostenendo questa tesi vergognosa e infamante, lo denuncio».

 Lei frequenta i social?

«Mi ci stavo avvicinando prima che tutto questo cominciasse. Poi, ho subito smesso. Se cominci a leggerli, e guardare cosa si dice sul tuo conto, finisci per riflesso incondizionato a pensare e agire per accontentare chi ti elogia oppure per blandire chi ti attacca. Ti fai condizionare in ogni caso, e perdi autenticità. E così quando ho capito che il mio lavoro e la mia opinione cominciavano ad avere un certo peso, ho deciso di isolarmi, di non leggere nulla sui social, di non utilizzarli». 

Pensa di aver fatto bene?

«Se parliamo di lavoro, assolutamente sì. Sono riuscito a preservare la mia integrità. A livello personale, forse ignorare i social non mi ha fatto capire l'eco che avevano le mie parole, facendomi sottovalutare la mia notorietà. Davvero, è assurdo dover rispondere dell'acquisto di una casa». 

Non è esattamente un bilocale con servizi...

«E non ritengo di doverne rendere conto a nessuno. Ma voglio dire due cose. La prima: non costa due milioni. La seconda: ho fatto un mutuo, neppure troppo leggero. Quanto alle dimensioni, è una dimora - va meglio se la chiamiamo così? - progettata per ospitare familiari, parenti e amici, e stare insieme. Ho una certa età, è normale pensare a cose come questa. Me lo posso permettere. Sono una persona agiata. Io e mia moglie occupiamo posizioni apicali da molto tempo. E abbiamo sempre condotto una vita frugale. I soldi, non li abbiamo mai buttati. E insomma».

Se non altro, adesso sappiamo della sua passione per l'arte.

«L'ho ereditata da mio nonno, che fu uno dei più importanti restauratori italiani di chiese e luoghi sacri. Quando abitavo a Londra, alcuni amici antiquari avevano scoperto una mia dote. Se osservo un quadro, nella mia testa si scompone in mille particolari, che poi riesco a ritrovare in altre opere dello stesso pittore. Una virtù utile quando è necessario attribuire la paternità di un dipinto. Era diventato quasi un secondo lavoro. Ho smesso dieci anni fa, perché ci tenevo troppo ai miei studi di genetica. Ma pure questo dettaglio personale viene usato e citato con malizia, per suggerire chissà quale mia ricchezza». 

Una volta accettata la notorietà, non è inevitabile subirne anche le conseguenze più fastidiose?

«Ma io non l'ho cercata! E adesso che noi virologi stiamo rientrando nei ranghi non mi mancherà, glielo giuro. Le prime volte sono andato in televisione volentieri, per vincere la mia timidezza intrinseca. Quando infine l'ho superata, l'ho fatto solo per dovere. E dal punto di vista scientifico, avevo le mie soddisfazioni anche prima della pandemia. A me piace la vita sottotraccia, ci torno volentieri».

Così potrà iniziare in santa pace i lavori di ristrutturazione?

«Spero di non farli sotto gli occhi dell'Italia intera. E comunque non saranno opere di ristrutturazione ma di restauro, per mantenere l'esistente. Mi raccomando, anche in questo caso c'è differenza».

L'invidia sociale che avvelena il clima. Andrea Indini il 19 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Crisanti nel tritacarne social per la notizia (se di notizia si può parlare) dell'acquisto di una villa. Oltre alla propaganda no vax ci troviamo infestati dall'odio sociale nei confronti della ricchezza.

Cosa spinge l'acquisto di una casa a diventar notizia? Cosa spinge quella notizia a diventare trend topic su Twitter con relativo fiume di insulti, teoremi strampalati, allusioni meschine e attacchi complottardi vari? L'investimento immobiliare di un qualsiasi cittadino non dovrebbe mai e poi mai riempire le pagine dei giornali, se non forse quelle gossippare che vanno a ficcare il naso nelle vite dei vip. Così i più assennati devono aver strabuzzato gli occhi quando ieri si sono visti sul Corriere del Veneto un articolo (con tanto di video) che raccontava l'acquisto da parte di Andrea Crisanti di una residenza del Cinquecento, Villa Priuli Custoza, ai piedi dei Colli Berici. Dentro c'erano tutte le info del caso, manco fossimo su un sito di immobili: costo (due milioni di euro circa), modalità di pagamento (mutuo), le amenties che offre ("circondata da 1,2 ettari di giardini"). Ma che notizia è mai questa?, si saranno chiesti. Perché tanto clamore da farla addirittura rilanciare tra le prime notizie del sito del Corsera? E, mentre cercavano di dare una risposta a queste ovvie domande, ecco la bacheca di Twitter infiammarsi.

"Crisanti che si compra una villa del '600 da due milioni chiude il cerchio sulla farsa che è stata la pandemia in Italia". "Ma Crisanti ha ringraziato tutti i coglioni ipocondriaci grazie ai quali si è comprato una villa da due milioni di euro?". E giù tutti a postare immagini, scorci della tenuta, vedute del "villone". C'è chi lo accusa di essersela comprata andando in tivù a terrorizzare gli italiani e chi invece millanta che si sarebbe arricchito con i soldi della Pfizer. "Questo verme ha speculato sulla morte di 150mila persone - urlano - si è comprato una bella villona palladiana con i soldi di Big Pharma". Ce n'è per tutti i gusti. Complottismo all'ennesima potenza che degenera in una farsa vomitevole. Nella corsa a chi posta il tweet più assurdo ha, infatti, un che di grottesco l'interesse degli sfegatati anti vaccinisti per il numero di bagni (e quindi di cessi) che Villa Priuli Custoza offre al suo interno. Ben sette. Nell'immaginario dell'odiatore seriale la possibilità di defecare ogni giorno della settimana su una tazza diversa deve essere il non plus ultra della libidine. Libidine da arricchiti. Ma è su questi insignificanti particolari che la narrazione passa in un battibaleno dall'insulto ("A quanto pare la villa del 600 acquistata da Crisanti ha sette cessi. Con lui saranno otto!") alle minacce di morte con tanto di fotomontaggi del professore già al campo santo.

A spingere tutto questo odio non è solo l'esasperazione dopo due anni di pandemia. Sarebbe troppo semplice bollare la polemica in una faida tra sì vax e no vax. Qui c'è molto di più, e di ben più radicato nel dna (malato) della nostra società. Se si scava a fondo, dietro i tweet più facinorosi, c'è un odio atavico contro la ricchezza. "Per mantenere una dimora del genere - sussurrano alcuni - ci vogliono una barca di soldi, altro che mutuo". È quella stessa invidia sociale a lungo cavalcata dalla sinistra a suon di slogan "Anche i ricchi piangeranno" per sponsorizzare la patrimoniale e poi fatta propria dal grillismo più becero che vede dietro ogni fortuna l'ombra di una magagna, di una ruberia, di una truffa ai danni dello Stato. Crisanti è vittima di tutto questo odio. Tanto che oggi è finito per rilasciare un'intervista (sempre al Corriere del Veneto) per giustificarsi di non essersi "arricchito con la pandemia" ma di essere "frutto dei risparmi di una vita". Ma davvero oggigiorno uno deve abbassare il capo e spiegare che quello era il sogno della sua vita, che con la moglie hanno aspettato a lungo per fare questo passo e via dicendo. Non poteva limitarsi a dire "Sono solo affari miei!", per non usare particolari anatomici maschili più dettagliati. Se lo avesse fatto gli odiatori seriali, che in questi giorni per la stessa ragione twittano con la bava alla bocca per attaccare chi compra usando i contanti, lo avrebbero impalato sulla pubblica piazza.

Nel delirio che da ieri mattina sta infognando le bacheche di Twitter c'è anche chi grida al contro-complotto. E cioè che è colpa della stampa che ha messo in piedi tutta 'sta storia per "screditarlo totalmente". "Magari - spiegano - serve a distrarre dai suoi colleghi che i milioni li tengono in Svizzera. D'altronde è uno dei pochi che si è lasciato andare a dichiarazioni contro il governo". Questo perché Crisanti andava bene quando aveva fatto il "miracolo" di Vo' Euganeo (ricordate?), ma poi aveva iniziato a stare sul gozzo a chi non aveva alcuna voglia di sentir parlare di chiusure, vaccinazioni e mascherine. Ma poi, ultimamente, è tornato ad andare bene quando ha messo per iscritto che sì, c'è un nesso tra tutti quei morti in Val Seriana e la mancata zona rossa, tra l'assenza di un piano pandemico aggiornato e il propagarsi del contagio durante la prima fase della pandemia. Questo perché gli eroi sprofondano negli abissi, nel giro di una notte. L'invidia sociale e il rancore nei confronti del vicino più ricco, invece, non tramontano mai: offuscano sempre il cuore degli stolti che poi finiscono per sfogarsi sui social (ma non solo).

Andrea Indini. Sono nato a Milano il 23 maggio 1980. E milanese sono per stile, carattere e abitudini. Giornalista professionista con una (sincera) vocazione: raccontare i fatti come attento osservatore della realtà. Provo a farlo con quanta più obiettività possibile. Dal 2008 al sito web del Giornale, ne sono il responsabile dal 2014. Con ilGiornale.it ho pubblicato Il partito senza leader (2011), ebook sulla crisi di leadership nel Pd, e i saggi Isis segreto (2015) e Sangue occidentale (2016), entrambi scritti con Matteo Carnieletto. Nel 2020, poi, è stata la volta de Il libro nero del coronavirus (Historica Edizioni), un'inchiesta fatta con Giuseppe De Lorenzo sui segreti della pandemia che ha sconvolto l'Italia.Già autore di un saggio sulle teorie economiche di Keynes e Friedman, nel 2010 sono "sbarcato" sugli scaffali delle librerie con un romanzo inchiesta sulla movida milanese: Unhappy hour (Leone Editore). Nel 2011 ho doppiato l'impresa col romanzo La notte dell'anima (Leone Editore).Cattolico ed entusiasta della vita. Sono sposato e papà di due figlie stupende.

Crisanti, luminare di furbizia. Si tiene lo stipendio più alto. Ma l'ospedale fulmina il virologo. Pd: "Niente retribuzione se non lavora". Francesco Maria Del Vigo il 28 Ottobre 2022 su Il Giornale.

C'è un virus che, senza dubbio, Andrea Crisanti ha debellato: ed è quello della povertà. Sua, ovviamente. Il celebre virologo-star e neoparlamentare del Partito Democratico, pur essendo un affermato e stimato microbiologo deve avere un piccolo problemino con la megalomania. Lo avevamo già notato - e invidiato - quando aveva comprato una villa del Cinquecento sui colli veneti.

Ora l'ex collaboratore di Zaia poi approdato su sinistri lidi, ha annunciato di voler rinunciare al suo stipendio da senatore. E pensi subito: accidenti che gesto nobile, che civil servant. Ma c'è un però grosso come una casa.

«Dovendo scegliere, ho deciso di mantenere la retribuzione che percepisco dall'Università di Padova, in qualità di direttore del laboratorio di Microbiologia e Virologia - ha commentato Crisanti al Corriere del Veneto -. Dopo l'elezione mi sono messo in aspettativa, ma con stipendio, e allora non potendo ovviamente cumulare due buste paga sono stato chiamato a scegliere tra quella da senatore e quella da specialista. Ho optato per quest'ultima, per motivi contributivi". Alt. Capiamoci bene, quindi è solo una questione pensionistica? Non del tutto e l'esimio luminare lo spiega senza peli sulla lingua. «Mi conviene, è un compenso più alto e poi è una questione di contributi previdenziali, di continuità nel versamento», ha spiegato il neo senatore 68enne. C'è qualcosa che non va. Chiariamoci le idee: Andrea Crisanti - come molti altri colleghi - durante la pandemia diventa una star. In campagna elettorale - anche in questo caso come altri virologi - viene corteggiato dalla politica e decide di candidarsi con il partito di Enrico Letta, venendo eletto senatore con i voti degli italiani all'estero.

Un ruolo di privilegio e di grande responsabilità e - per i comuni mortali - anche un grande stipendio. Ma per lui no. E quindi vorrebbe tenersi il precedente emolumento da direttore della Microbiologia di Padova, perché più alto. Epperò, nonostante i comprovati meriti scientifici, dubitiamo che il professore abbia il dono della bilocazione. Per quale motivo dovrebbe fare due lavori, per di più percependo lo stipendio di quello che - almeno in linea teorica - non svolgerà più? Oppure ha intenzione di continuare a fare il microbiologo bigiando le sedute di Palazzo Madama, facendo il senatore a mezzo servizio. E in quel caso non prenderebbe per il naso qualche decina di colleghi patavini, ma qualche milione di italiani. L'ipotesi di era talmente assurda che i primi a respingerla nettamente sono stati i dirigenti dell'ospedale di Padova: «Non verrà erogato alcun pagamento a fronte della mancata attività dirigenziale e assistenziale del Prof. Crisanti, dovuta alla recente elezione presso il Senato della Repubblica». In parole povere: Crisanti non lavoro e loro non lo pagano. Come è normale che sia.

La strampalata e furbesca (per modo di dire) del professore ci riporta alla megalomania di cui sopra, all'idea sbilenca e poco rispettosa che fare il parlamentare sia un non-impiego, un lavoro accessorio, un hobby, un blasone o una spilla con la quale infilzare l'occhiello della giacca. Una specie di club Rotary per vip. Ed anche per questo virus - molto diffuso - servirebbe un vaccino.

Dario Martini per iltempo.it il 28 ottobre 2022.

Andrea Crisanti, il virologo prestato alla politica, neo senatore del Partito democratico, annuncia di rinunciare all'indennità da senatore per non perdere lo stipendio da medico e professore a Padova. 

Una scelta che non nasconde. Anzi, la rivendica: «È vero, sì. Ho optato per lo stipendio d'origine, composto dall'attività con l'Università di Padova e con l'Azienda ospedaliera». Il motivo? Si guadagna di più. «È una questione di contributi previdenziali, di continuità nel versamento. Me l'hanno consigliato in Senato. Del resto è una cosa che fanno molti magistrati, è una prassi normale», dice al Mattino di Padova.

Insomma, dal momento che "pecunia non olet", è tutto in regola. Peccato che, dopo poche ore, l'azienda ospedaliera universitaria di Padova emetta una nota durissima: «Non verrà erogato alcun pagamento a fronte della mancata attività dirigenziale e assistenziale del Prof. Crisanti, dovuta alla recente elezione presso il Senato della Repubblica». 

Insomma, se Crisanti vuole fare il senatore (e su questo non ci possono essere ripensamenti) dovrà rinunciare al lauto stipendio da medico e professore. «Il trattamento economico del docente in aspettativa è dovuto dall'amministrazione di appartenenza, l'Università degli Studi di Padova, la quale riceve dall'Azienda ospedaliera una quota economica sulla base dei servizi effettivamente garantiti a favore dell'Azienda e di conseguenza dei pazienti».

In questo caso, sottolinea l'azienda ospedaliera, «è chiaro che gli importanti impegni del Professore presso il Senato non possono prescindere da un'aspettativa dal lavoro precedente, configuratasi anche a norma di legge come aspettativa parlamentare». 

Ci scherza su il collega Matteo Bassetti, direttore di Malattie infettive al San Martino di Genova, intervenuto a Un Giorno da Pecora su Rai Radio 1: «Crisanti ha detto che non accetterà lo stipendio da senatore preferendo quello da ricercatore, che è più alto? Questo mi fa piacere, vorrà dire che andrò a lavorare anche io all'Università di Padova, non pensavo fosse così alto lo stipendio».

Cambiando argomento, Bassetti valuta molto positivamente la scelta di Orazio Schillaci alla guida del ministero della Salute: «È l'uomo giusto al posto giusto, farà bene». E lo invita ad intervenire sul conteggio dei decessi causati dal virus, che «non è veritiero». «Basta isolamento per i positivi - dice Bassetti - sono otto mesi che non vedo morti Covid».

 Dagospia il 28 ottobre 2022. Da “Un giorno da pecora” – Rai Radio 1

“Invece che lo stipendio da senatore ho preferito mantenere quello universitario per assicurare l'attività contributiva per la pensione, un suggerimento che mi è stato dato proprio in Senato. Io l'ho fatta in totale trasparenza, legale e legittima. Insomma questa polemica è una notizia di distrazione di massa per non parlare ad esempio, del tetto dei contanti a diecimila euro”.

Lo afferma a Rai Radio1, ospite di Un Giorno da Pecora, il professor Andrea Crisanti, neo senatore del Pd, in riferimento alle polemiche degli ultimi giorni sulla scelta di rifiutare lo stipendio da parlamentare in favore di quello da accademico. Quale dei due stipendi è più alto? “Dipende da come si conteggiano le cose, la scelta non è stata fatta per questo motivo. Io l'ho fatto per continuare un po' di attività didattica e di ricerca”.

Dall'Asl di Padova fanno sapere però che non le pagheranno più il suo compenso. “Sono degli analfabeti dal punto di vista della legislazione - ha detto Crisanti a Un Giorno da Pecora - ma non bisogna confondere l'Università di Padova con l'azienda. La Asl di Padova è praticamente un covo di politici...”

Da “Un giorno da pecora” – Rai Radio 1

Il bollettino Covid settimanale? “Una decisione politica inutile, preferiscono non sapere quanto aumentano i casi. L'hanno tolto perché ai cittadini fa paura? Io lo avrei fatto ogni mezza giornata: se si è sicuri delle proprie scelte si aumenta l'informazione non la si diminuisce”. Lo afferma a Rai Radio1, ospite di Un Giorno da Pecora, il professor Andrea Crisanti, neo senatore del Pd, intervistato da Geppi Cucciari e Giorgio Lauro.

Il primo novembre decade l'obbligo mascherine negli ospedali. Lei e' d'accordo? “Visto che c'è ancora trasmissione virale – ha detto Crisanti a Rai Radio1 -, basti pensare che solo Omicron ha fatto circa 40mila morti, mica stiamo parlando di influenza”.

Andrea Crisanti e Nicoletta Catteruccia, 36 anni di matrimonio: «L’acquisto della villa palladiana? L’avrei ucciso». Elvira Serra su Il Corriere della Sera il 30 Novembre 2022

Il virologo e sua moglie, anestesista, si sono conosciuti nel 1979 in fila all’università: «Lui mi disse: “Ho tutti 30 e lode”». I difetti: «Lei è un po’ prepotente», «Lui fa sempre il passo più lungo della gamba»

Nicoletta: «Io questa intervista non la volevo fare!».

E allora perché ha accettato?

«Perché mio marito è stato di un’insistenza e di una prepotenza tali, che come sempre alla fine ottiene quello che vuole».

Ma lui ci teneva! Quando l’ho chiamato si ricordava perfino il giorno del vostro primo bacio: il 10 ottobre.

«Ed è sbagliato: era il 10 novembre. Il 10 ottobre è il giorno del mio compleanno».

Ma insomma, questo bacio se lo ricorda oppure no?

«Come potrei dimenticarlo... Già sapevo che era la persona giusta».

Nicoletta Catteruccia, 64 anni, è la moglie di Andrea Crisanti, 68, neosenatore della Repubblica con il Pd. Sono seduti uno accanto all’altra sul divano del salotto nella loro casa in centro a Padova, dove hanno appena festeggiato i 23 anni dell’unico figlio, Giulio.

Quando vi siete conosciuti?

Andrea: «In fila all’università a Roma, il 23 settembre 1979. Due ore e mezzo di coda per iscriverci, io al quinto anno e lei al primo. Vidi questa bellezza e decisi di farmi avanti».

Nicoletta: «La fila era lunga e lui non se ne andava. Ma cosa vuole, pensavo? Poi mi disse: sai che non ho mai preso un 30? E io: beh, dai, prima o poi lo prenderai, non preoccuparti. E lui: ma cos’hai capito? Io ho tutti 30 e lode! E questa cosa mi ha colpito: forse bisognava stargli appresso. Sette anni dopo ci siamo sposati».

Avete appena festeggiato 36 anni di matrimonio. Come sono trascorsi?

Nicoletta: «Sono trascorsi inseguendo lui per l’Europa. Io non mi sarei mai spostata da Roma, che mi batte nel mio ventricolo sinistro. A Roma ho la famiglia, gli amici dell’infanzia... E invece per inseguire questo matto sono andata prima a Basilea, poi di nuovo a Roma, poi lui lo hanno chiamato ad Heidelberg, poi è tornato a Roma e ha giurato che non sarebbe più andato via, poi è andato a Londra all’Imperial College e doveva essere solo per 1-2 anni».

Andrea: «Guardi che anche mia moglie ha un ottimo lavoro a Londra. È direttrice del dipartimento di anestesia in uno degli ospedali più importanti della città».

Nicoletta: «Ecco, e sa come è andata? Fu lui a mandare il curriculum al posto mio. Io un giorno mentre pranzavo dai miei genitori mi sentii chiamare da questa donna che mi chiese: perché vuoi lavorare nel nostro ospedale?».

Nel frattempo era nato Giulio. Come vi organizzaste?

Nicoletta: «Il giorno del colloquio tornando a casa l’autobus mi lasciò davanti a un convento di suore spagnole. Mi sembrò un segno. Chiesi loro se conoscevano una ragazza affidabile che poteva fare da baby sitter».

Andrea: «Poi ne abbiamo cambiate tante, perché più erano brave più trovavano un altro lavoro in fretta. La selezione era sempre complicata. Mettevamo un annuncio sul giornale, la intervistavo prima io, poi Nicoletta, poi noi due insieme, poi chiedevamo le referenze e infine nostro figlio ci passava una giornata: lui aveva l’ultima parola».

Giulio è arrivato tardi.

Nicoletta: «È stata una cosa complessa, è davvero il figlio dell’amore. Avrei voluto averne di più, ma non dipende solo da te. Comunque è la cosa più bella e importante che abbiamo fatto».

Andrea: «Ha fatto l’università a Cambridge e ora sta facendo il dottorato di Fisica a Padova. Culturalmente è italiano e desiderava vedere come si vive qui».

Nicoletta: «E così mi hanno abbandonata tutti».

Ditemi un pregio e un difetto l’uno dell’altra.

Andrea: «Mia moglie è una delle donne più intelligenti e più buone che abbia conosciuto. È sempre stata la più bella della classe. È molto generosa. Come difetto ha una forte personalità ed è anche un po’ prepotente».

Nicoletta: «Ma con che coraggio! Fammi un esempio: è assurdo!».

Andrea: «Diciamo che ti sai imporre. Per esempio: io vado sempre in vacanza all’Elba, dove lei sta con la famiglia, parenti e amici. Ho fatto i conti e ho trascorso lì quattro anni della mia vita, e contrariamente a Napoleone non ho distrutto l’Europa...».

Nicoletta: «Lui ha avuto il vantaggio di parlare per primo: avrei detto le stesse cose. È una persona generosa, è il neurone più veloce del West e non si abbatte mai. Ha fiducia cieca in se stesso, fa sempre il passo più lungo della gamba e conta sulla totale disponibilità di chi gli sta intorno».

Anche lui era il più bello della classe?

«Sicuramente era un bel ragazzo, ma a me colpì la sua generosità. Non aveva mai una lira, però distribuiva tutto quello che aveva. Una volta investì tutto il guadagno di un seminario a Padova, dove lo avevo raggiunto da Roma, per comprarmi una bellissima borsa di un marchio importante che conservo ancora, segno del suo amore».

Come ha preso l’acquisto della villa palladiana, con le polemiche che sono seguite?

Nicoletta: «A parte l’acquisto in sé, che l’avrei ammazzato: mi ero opposta fieramente perché significava non andare mai in pensione. Conoscendolo, tra un po’ dirà che l’ha comprata per me... Anche quella volta, come per tutte le cose che lo riguardano, l’ho scoperto perché mi arrivavano un sacco di messaggi di solidarietà dai miei amici».

Andrea: «A me le ville venete sono sempre piaciute. Il giardino lo abbiamo già sistemato e speriamo di poter finire tutto il prossimo anno a settembre. È come possedere un pezzo di Rinascimento. E comunque è costata la metà di quello che è stato scritto. Se mi fossi comprato casa a Cortina nessuno avrebbe avuto niente da ridire. Il problema è che in Italia l’ascensore sociale è fermo. E in pochi hanno pensato che la stavo comprando con i soldi che mi ero guadagnato in modo lecito».

A proposito: com’è adesso la storia del suo stipendio?

«La legge è chiara. Ma, visto il mio ruolo, eviterò di creare qualsiasi contenzioso».

Nicoletta, come ha preso quest’idea di candidarsi?

«Eravamo all’Elba, dove lui si annoia tanto, e ha pensato bene di movimentare la fine dell’estate con questa idea. Siamo ancora sotto choc, non ero favorevole per niente. Dopodiché mi sono arresa. Così ho detto: se lo devi fare, cerca di farlo bene e di vincere».

Non lo guarda mai in tv?

«Ma per carità! Per fortuna a Londra non ho la tv italiana. Io vivrei nell’anonimato».

Una bizzarria di suo marito?

«Beh, lui è un po’ strano... E fa gaffe mitiche. Una volta ha sviluppato un sistema al Totocalcio per fare 13 e ne ha fatti due! Sa perché? Si era sbagliato a compilare una schedina e l’aveva fatta uguale all’altra».

Il regalo più bello che vi siete fatti?

Andrea: «Mi ha appena fatto fare due abiti dal sarto e mi ha regalato la cravatta rossa per il giuramento in Senato. Dice che non mi so vestire».

Nicoletta: «Lui per uno degli ultimi compleanni si è presentato senza preavviso a Londra a mezzanotte e un minuto. Il giorno dopo dovevo lavorare, ma almeno siamo andati a cena a Battersea. Poi è ripartito».

A casa chi cucina?

Nicoletta: «Lui. È capace di fare la pasta più buona del mondo con tutto quello che trova in frigo. Oggi ci è andata ancora meglio: pasta al sugo di moscardini e spigola con le patate!».

Covid, "critica chi si è fatto il mazzo". Matteo Bassetti e la polemica con il generale Figliuolo. Il Tempo il 07 marzo 2022

Il commissario straordinario all'emergenza coronavirus, il generale Francesco Paolo Figliuolo sgancia la bomba sul ruolo che hanno ricoperto i virologi nei lunghi mesi di dibattiti televisivi sul Covid e il direttore della Clinica di Malattie infettive del Policlinico San Martino di Genova Matteo Bassetti si infuria.

A poche ore dall'uscita del libro scritto dal generale Figliuolo con Beppe Servergnini Un italiano - Quello che la vita mi ha insegnato per affrontare la sfida più grande edito da Rizzoli  c'è già la polemica con i virologi sul piede di guerra per le affermazioni contenute nel volume. "Ho pensato che certe scene potevamo, e dovevamo, risparmiarcele. Non hanno aiutato la gente a capire" è una delle frasi riportate nel testo e riferite ai medici e ai litigi scoppiati in tv rispetto alle diverse posizioni sul virus. "Ho un sospetto - dichiara il commissario per l'emergenza - i virologi, molti dei quali sono bravissimi, in ambito scientifico sono stati un po' negletti. Non perché la virologia sia una disciplina minore rispetto alla cardiologia, alla chirurgia o all'oncologia. Però, diciamo la verità, il grande pubblico un virologo manco sapeva chi era. (…) La fama improvvisa ha fatto emergere nel mondo scientifico contrasti umani e naturali".

La risposta del virologo Bassetti non si fa attendere: "Mi dispiace che in questo Paese si passi a criticare i medici sul campo, i virologi, gli infettivologi, gli igienisti che si sono fatti un mazzo così e non si sia in grado di guardare mai agli errori commessi dalla politica, dalla struttura commissariale e dal Cts". E ancora: "Nei libri criticano i medici che hanno fatto un lavoro eccezionale, anche i virologi che sono andati in tv. C'è un modo ideologico di gestire la pandemia, sbagliano sempre gli altri".

"Non so a chi si riferisca il generale Figliuolo, certamente ho grande stima di lui, ma che si metta a dare giudizi su medici bravi e meno bravi lo trovo esagerato e poteva evitarselo. Spero l'abbia scritto Severgnini e non Figliuolo" ha aggiunto ancora. "Perché discutere, ragionare e avere idee diverse in ambito scientifico porta a migliorarsi. Un continuo confronto pubblico ha portato all'arricchimento di tutti noi. "Magari - Figliuolo  - dovrebbe vedere quello che si è fatto a livello di Governo, perché se si fossero ascoltati gli scienziati certi errori non si sarebbero commessi". 

Ilaria Capua. Massimo Sideri per il “Corriere della Sera” il 28 aprile 2022.

Ilaria Capua, scrittrice, fondatrice del centro multidisciplinare One Health dell'Università della Florida, veterinaria e virologa, ex onorevole, ex direttrice di dipartimento dell'Istituto zooprofilattico delle Venezie dove con il suo team ha isolato per prima al mondo il ceppo africano dell'aviaria H5N1 e lo ha messo in un database pubblico scuotendo i dogmi scientifici (oggi la chiamiamo Open Science), inizia una nuova era... 

«Possiamo anche vedere la storia come i periodi tra una pandemia e l'altra. Io li chiamo periodi inter-pandemici. E sono preziosi: è ora che dobbiamo mettere a posto le disuguaglianze, l'accessibilità ai vaccini».

La testa delle persone... no io intendevo che entriamo in una nuova era per lei. È tornata a vivere in Italia da pochi giorni, a Roma, per un «anno sabbatico» dopo che l'Italia l'aveva costretta alla fuga proprio da quella casa dove aveva vissuto da parlamentare...

«Sì, la stessa casa, ma ho ristrutturato tutto, qui le pareti erano intrise di lacrime per quello che ho dovuto subire. È uno snodo, ce ne sono di continuo nella vita. Quello che vorrei fare è scritto nella Meraviglia e la trasformazione (uno dei suoi libri, Ndr ): non possiamo fare la stessa vita, gli stessi sbagli di prima e bisogna pensarci.

Voglio prendermi del tempo per pensare e riflettere sui cambiamenti che sono già avvenuti, per tutti: anche il lavoro sarà diverso, tutto sarà diverso, anzi è già diverso. Siamo in una realtà post-pandemica obtorto collo». 

A caldo: meglio la Florida o la Grande bellezza?

«Roma è la Grande bellezza, ma che peccato questo disinteresse diffuso: sotto casa mia lasciano le bottiglie di birra vuote sugli scalini. Le raccolgo io. Che devo fare?».

A proposito di Grande bellezza: lo sa che a Roma gli onorevoli non sono mai ex? Continuano a chiamarli onorevoli...

«Basta politica». 

Non tornerebbe mai?

«Non fa per me. Non sono tagliata per quella vita: ero piena di buoni propositi».

Quando la chiamò Mario Monti lo conosceva già?

«Monti mi chiamò il 6 gennaio, il giorno della Befana, non lo conoscevo. Mi disse sto mettendo insieme questa lista e sto cercando una persona con un profilo internazionale. Io risposi: guardi che io non ci ho mai pensato. Quanto tempo ho per decidere? Mi disse 24 ore. Mio marito che è scozzese mi disse: quando ti ricapita che una persona credibile come Mario Monti ti cerchi per un incarico cosi?». 

Pensa che l'abbiano attaccata per il suo ingresso in politica?

«Aveva già dato fastidio il mio progetto di ampliare e spostare l'Istituto zooprofilattico delle Venezie. Avevo già allora dei nemici. Sono troppo ingombrante: non so stare nella casella standard». 

Non ci ripenserebbe nemmeno se la chiamassero al governo? Tanti anni fa, in occasione della presentazione del libro «I virus non aspettano» (titolo profetico) le chiesi cosa avrebbe fatto se l'avessero chiamata a fare il ministro della Salute...

«Grazie, proprio non mi interessa». 

Non insisto. Nel frattempo chiamano al telefono: è Amazon...

«Ho comprato tutto su Amazon e comunque online: frigorifero, piatti, bicchieri. Sono dell'idea che non c'è tempo da perdere. La nostra generazione è caricata da una quantità di cose da fare enorme: email, video-call, accompagna, riporta, spostati, vola di qua e di là. 

Non abbiamo tempo: per arredare questa casa mi ci sarebbe voluto un mese. Sono diventata online-addicted in America perché le distanze sono enormi: negli Usa non avevo abbastanza vita davanti per andare a comprare l'aglio fresco (40 minuti da casa) e così ho comprato anche quello online.

Siamo in un momento fluido e dobbiamo gestirlo anche rispetto all'ambiente: è il momento dell'ottimizzazione ma bisogna farlo in maniera efficiente, non possiamo far finta di girare alla stessa velocità di prima. È la stessa cosa che dobbiamo fare come società: dobbiamo mettere a posto i dati perché quello che abbiamo vissuto è l'evento più misurato della storia. Io credo che i 40-60 enni con le spalle larghe abbiano l'obbligo di soffermarsi a pensare sui cambiamenti che la pandemia ha portato sulla società. Lo si sapeva che dopo ogni pandemia c'è una regressione sociale, psicologica e culturale: dopo l'influenza spagnola fecero uno studio. Scelsero la Norvegia perché era stata neutrale nella Prima guerra mondiale. Risultarono aumentati di sette volte i ricoveri con diagnosi per problemi legati alla salute mentale. Nel 1920, figuriamoci adesso. Ci vorranno per forza dei "transition manager della pandemia" per gestire i cambiamenti che verranno». 

Visto che siamo in un periodo inter-pandemico: la prima cosa che dirà nella prossima?

«Che adesso siamo messi molto meglio perché sappiamo cosa fare, almeno nel mondo occidentale dove c'è libertà. Questa sventolata ce la ricorderemo a lungo: apparteniamo al regno animale, lo dovremmo aver imparato. 

I sei mesi di stupore che ho descritto nel libro - quando si pensava che il virus sarebbe andato via da solo, piuttosto che bastasse la tachipirina - non li vivremo più. Ci metteremo subito la mascherina da soli senza che ce lo dicano dai governi».

Tranne i no-mask, beninteso. A proposito l'ho chiamata veterinaria e virologa. Durante questi due anni in cui ha contribuito a spiegare a noi italiani, spesso dalla Florida, cosa fare hanno contestato anche la seconda definizione: virologa. Nonostante il successo nell'isolare la sequenza genetica del ceppo nigeriano dell'aviaria e il contrappasso che sia stata accusata proprio di «traffico di virus». È assurdo. Avrà contribuito il fatto che era una delle poche donne?

«Grazie della domanda perché mi permette anche di spiegare come mai all'inizio della pandemia ho deciso di rimettermi il "camice", l'ultima cosa che avrei voluto fare dopo l'esposizione italiana sui virus. A un certo punto, pur non seguendo la televisione italiana, avevo capito che regnava una confusione sovrana e, specialmente all'inizio, vi erano solo posizioni polarizzanti. 

Ho pensato che partecipare fosse un mio dovere nei confronti del Paese che mi ha fatto studiare e mi ha dato la possibilità di sviluppare il centro delle Venezie che ha raccolto a suo tempo dei successi incredibili (eravamo partiti in 4 per diventare 70 e attirare decine di milioni di euro in progetti). E l'ho fatto con quello che è il mio stile: spiegare senza nascondere.

Normalizzare il problema. E ho sempre usato toni rispettosi degli altri. Peccato che vivendo in un altro fuso orario, quando gli altri parlano mentre magari tu stai dormendo, quello che ti arriva sono i cazzotti sullo stomaco che mettono in dubbio la tua competenza. Ho avuto un paio di "tweet shit storm" antipatici: come donna ti prendi di default anche insulti a sfondo sessuale, ma mai avrei immaginato di prendere insulti a sfondo veterinario... io sono grata della mia formazione di medico veterinario e ho fatto la specializzazione e il dottorato in sanità pubblica. Dirigo un centro One Health in Florida. Perché insultarmi per aver preso quella laurea che mi ha portato fino a qui?». 

Non si vuole levare qualche sassolino dalle scarpe?

«Anche no».

Bastava leggere «Spillover» per sapere che il virus viene da un salto di specie, che è sostanzialmente un argomento da virologo veterinario. È per questo che poi è un po' scomparsa dagli schermi?

«No, sono scomparsa negli ultimi mesi perché secondo me non c'era più niente da dire in questa situazione. Bisogna avere il buon senso di non inquinare il dibattito per visibilità propria, di proposito, anche perché ora la malattia è endemica e io studio i virus emergenti. Dunque cercherò di capire il prossimo che arriverà. Il Covid sarà pane per i denti degli infettivologi ospedalieri che avranno a che farci per un bel po'». 

Lei ha attraversato una dura vicenda giudiziaria, era accusata di reati punibili con l'ergastolo. Pentita di essere italiana?

«Ci si può pentire di essere italiani? Non credo. Diciamo che ancora non mi capacito dell'assurdità totale delle cose che hanno circondato la mia vita in quegli anni e trovo che sia molto ben rappresentata nel film "Trafficante di virus", della regista Costanza Quatriglio (liberamente ispirato al libro omonimo della Capua, ndr ) e interpretato da Anna Foglietta.

Sono andata negli Stati Uniti perché dovevo rinascere via dall'Italia. Sono andata via imputata (e non indagata) di reati punibili con ergastolo e con la reputazione completamente distrutta anche a livello internazionale. Ma in Florida ho ricominciato e accettato di lavorare su un centro interdisciplinare e lì ho costruito il paradigma di Salute circolare che oggi è diventato un punto di riferimento internazionale, non solo per l'Università della Florida». 

Ci sarà abituata. Quando decise di mettere in un database pubblico la sequenza dell'H5N1 non rispettò i protocolli e la chiamarono anche dalle Nazioni Unite, dall'ufficio di Kofi Annan. Ora tutti seguono quella procedura. È accaduto anche con il Covid-19.

«Diciamo che sarebbe successo lo stesso. Ma lo abbiamo fatto in 15 anni. Magari ci sarebbe voluto un secolo per convincere i più conservatori in condizioni diverse». 

La lezione della pandemia?

«Il virus fa il virus, le pandemie le fanno gli uomini, con i comportamenti, con la demografia ma anche attraverso i social con i consigli sbagliati, i dibattiti folli e le fake news». 

A proposito di fake o non fake news. Il virus viene da un laboratorio cinese di Wuhan?

«Non abbiamo trovato la "mutazione fumante"».